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Gli ictus si possono prevenire? La risposta è affermativa

La presente ricerca si basa sui risultati di una parte dello studio INTERSTROKE che ha individuato dieci fattori di rischio modificabili per l’ictus in 6000 partecipanti provenienti da 22 diversi paesi.

Dieci sono i fattori di rischio che possono essere modificati e che sono responsabili di nove su dieci ictus in tutto il mondo, ma la classifica di questi fattori varia a livello regionale. La prevenzione degli ictus è una delle principali priorità per la salute pubblica, ma la presenza di diversità tra le regioni dovrebbe stimolare a sviluppare strategie ad hoc per ridurre il rischio di ictus.
L’ictus è una delle principali cause di morte e disabilità, in particolare nei paesi a basso e medio reddito. I due principali tipi di ictus sono l’ictus ischemico, che rappresenta l’85% degli ictus e l’ictus emorragico, che rappresenta il 15% degli ictus.

La ricerca

La presente ricerca si basa sui risultati di una parte dello studio INTERSTROKE che ha individuato dieci fattori di rischio modificabili per l’ictus in 6000 partecipanti provenienti da 22 diversi paesi. Sono stati successivamente aggiunti nello studio 20.000 persone provenienti da 32 paesi dell’Europa, Asia, America, Africa e Australia per cercare di individuare le principali cause dell’ictus nelle diverse popolazioni (giovani e anziani, uomini e donne).

Questo studio ha l’obiettivo di esplorare i fattori di rischio di ictus in tutte le principali regioni del mondo e all’interno delle diverse popolazioni.
Sono stati confermati i dieci fattori di rischio modificabili associati con il 90% dei casi di ictus in tutte le regioni, sia nei giovani che negli anziani, sia uomini che donne.

I risultati

Lo studio conferma anche che l’ipertensione arteriosa è il più importante fattore di rischio modificabile ed il fattore chiave per ridurre l’incidenza di ictus.
I ricercatori hanno determinato la percentuale di ictus che si potrebbero evitare intervenendo preventivamente sui fattori di rischio.

L’incidenza di ictus verrebbe praticamente dimezzata (48%) in assenza di ipertensione , ridotta di più di un terzo (36%) nelle persone fisicamente attive e diminuita di quasi un quinto (19%) nei soggetti con uno stile alimentare corretto. Inoltre, questa percentuale si ridurrebbe ulteriormente del 12% nei casi di astensione dal fumo. Le principali cause di ictus sono il 9% per disturbi cardiaci, il 4% per diabete, il 6% per consumo di alcool, il 6% per stress e il 27% per la presenza elevata di lipidi nel sangue.
Molti di questi fattori di rischio sono noti per essere associati tra loro (come l’obesità e il diabete) e quando sono presenti in concomitanza, il fattore di rischio saliva al 91% e tale fattore non si differenziava per età, genere e regione.

L’importanza della provenienza culturale

Tuttavia, l’importanza di alcuni fattori di rischio sembrava variare in base alla regione. Ad esempio, l’importanza dell’ipertensione variava dal 40% in Europa occidentale, Nord America e Australia al 60% nel Sud-Est asiatico. Il rischio di alcol era più basso in Europa occidentale, Nord America e Australia, ma più alto in Africa e Asia meridionale, mentre l’impatto potenziale dell’inattività fisica era più alto in Cina.
Un ritmo cardiaco irregolare era significativamente associato con l’ictus ischemico in tutte le regioni, ma aveva un maggiore impatto in Europa occidentale, Nord America e Australia rispetto alla Cina o all’Asia meridionale.
Tuttavia, quando tutti i 10 fattori di rischio venivano considerati insieme, la loro importanza era simile in tutte le regioni.

Conclusioni

Sarà fondamentale sviluppare interventi globali nella popolazione per ridurre l’incidenza di ictus ed impostare programmi su misura per singola regione: creare una migliore educazione alimentare e sanitaria, favorire l’astensione dal fumo e utilizzare farmaci efficaci per l’ipertensione e la dislipidemia.

In conclusione, l’ictus è una malattia altamente prevenibile grazie alla modificabilità dei fattori di rischio. Nel futuro sarà fondamentale sviluppare programmi di prevenzione per gli ictus ed impostare ulteriori ricerche sui fattori di rischio: i governi di tutti i paesi dovrebbero sviluppare e implementare un piano d’azione di emergenza per la prevenzione primaria degli ictus.

Festival della Psicologia di Bollate 2016 – Dalla pax mafiosa alla pace comunitaria

Festival della Psicologia di Bollate
8 Ottobre 2016
Biblioteca Comunale di Bollate
Palazzo Seccoborella (Piazza Carlo Alberto Dalla Chiesa, 30)
(15 ottobre, 22 ottobre, 29 ottobre, 3 novembre, 5 novembre, 17 novembre)

 

Come funziona la mente di un mafioso?

Per rispondere a questa ambiziosa domanda, il Festival della Psicologia di Bollate ha scelto di dedicare l’inaugurazione della IV edizione al tema Pace e mafia, nella splendida cornice della Sala Conferenze della Biblioteca comunale di Bollate (Palazzo Seccoborella).

A dare il via ai lavori, sabato 8 ottobre 2016, accanto ai saluti istituzionali delle Autorità cittadine e dell’Ordine Psicologi Lombardia nella persona del Presidente Dr. Riccardo Bettiga, ci penseranno il Prof. Antonino Giorgi, Docente dell’Università Cattolica di Brescia e il dr. Gian Antonio Girelli, Presidente della Commissione speciale antimafia della Lombardia.

Il prof. Giorgi, con il suo intervento “Dalla pax mafiosa alla PACE comunitaria. Come la mafia inter-agisce dentro la mente e nella comunità” ci accompagnerà in un affascinante viaggio alla scoperta della Psicologia mafiosa: come vengono sostenute le vittime? Quali le dinamiche psicologiche che hanno a che fare con il fenomeno mafioso?

Dopo aver esaminato temi come la coppia e le relazioni, le famiglie e i minori, l’adolescenza, il nutrimento della mente e dei legami, si parlerà quest’anno di pace. Un concetto universale che verrà affrontato attraverso un programma eclettico per la prima volta articolato su più giornate, e sedi, per offrire alla cittadinanza sempre più opportunità.

Se il programma dell’intero Festival della Psicologia di Bollate 2016 si conferma essere ricco e articolato, ecco che la vera novità di quest’anno, come anticipato, è che non si esaurirà in un solo weekend.
Tanti saranno i temi trattati negli interventi in calendario, 7 per la precisione, fissati lungo tutto il mese di ottobre, fino alla prima metà di novembre.
Dalla crescita dell’autostima nei piccoli e piccolissimi alla gestione della rabbia passando per i disturbi narcisistici alla prevenzione del declino cognitivo negli anziani e molto altro ancora.
Una serie di incontri ospitati in diverse sedi volti a rispondere alla domanda che sta alla base di questa 4° edizione della kermesse dedicata a mente e anima di Bollate: cosa può dirci la cultura psicologica rispetto alla ricerca della pace dentro e fuori la famiglia, la mente e la comunità?

Ideato e organizzato dalle dottoresse Lara Franzoni (www.psicologiadicoppia.com) e Guendalina Losi (www.sessuologia-milano-brianz a.it), il Festival conferma il suo obiettivo ovvero diffondere la cultura psicologica, la conoscenza e la promozione della professionalità di psicologo, a sostegno del benessere degli individui attraverso incontri culturali gratuiti e ad accesso libero.

Rinnovato il team di lavoro. A curare gli interventi saranno come sempre Psicologi del territorio bollatese, specializzati in diverse aree, che si sono messi a per incontrare i cittadini per parlare di famiglia, anziani, minori e molto altro ancora. I relatori coinvolti per questa quarta edizione del Festival della Psicologia di Bollate sono Lara Franzoni, Guendalina Losi, Laura Galbiati, Valeria Manstretta, Federica Lollo, Eleonora Martin, Barbara Perfetti e Annalisa Soresini.

Il Festival della Psicologia di Bollate 2016 ha ricevuto il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Città di Bollate e dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

La quarta edizione del Festival della Psicologia di Bollate si conferma essere un appuntamento da non perdere.

Vi aspettiamo!

 

Per informazioni:
D.ssa Lara Franzoni tel. 340.12.29.738
D.ssa Guendalina Losi tel. 347.85.42.151
[email protected]
festivaldellapsicologia.blogsp ot.it

 

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Programma Festival della Psicologia di Bollate 2016 – 4° Edizione

Sabato 8 ottobre Ore 16.00 Biblioteca Centrale di Bollate:
Inaugurazione della manifestazione e saluto delle Autorità cittadine e Ordine Psicologi Lombardia

Interverrà il Presidente dell’Ordine degli Psicologi Dr. Riccardo Bettiga

Interverrà dr. Gian Antonio Girelli, Presidente della Presidente della Commissione speciale antimafia della Lombardia
Intervento del Prof. Antonino Giorgi Docente dell’Università Cattolica di Brescia, Psicologo, Psicoterapeuta
“Dalla pax mafiosa alla PACE comunitaria. Come la mafia inter-agisce dentro la mente e nella comunità.”

  • Sabato 15 ottobre Ore 15 Associazione Uniter Arese via Varzi 13
    “L’autismo non è contagioso! Miti e leggende da sfatare sul disturbo dello spettro autistico” Dr.ssa Laura Galbiati e dr.ssa Valeria Manstretta
  • Sabato 22 ottobre Ore 15 Associazione Uniter Arese via Varzi 13
    “Strategie per la gestione della rabbia e dei conflitti interpersonali” Dr.ssa Federica Lollo e dr.ssa Eleonora Martin
  • Sabato 29 ottobre Ore 14.30 Via magenta 33 Bollate
    “Narcisi dalla famiglia alla coppia: come gestire la relazione con un narcisista” Dr.ssa Barbara Perfetti
  • Giovedì 3 novembre Ore 18 Istituto Comprensivo Brianza
    “Le regole dell’Autostima. Come aiutare i figli a rispettare le regole, promuovendo la loro autostima” Dr.ssa Lara Franzoni
  • Sabato 5 novembre Via Magenta 33 Bollate Ore 15.00
    “Regole d’oro per prevenire il declino cognitivo negli anziani” Dr.ssa Annalisa Soresini
  • Giovedì 17 novembre Ore 18 Istituto Comprensivo Brianza
    “Piccoli naviganti. Manuale di istruzioni per genitori di giovani nativi digitali” Dr.ssa Guendalina Losi

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L’evoluzione della terapia cognitiva – Report dal congresso SITCC 2016 di Reggio Calabria

XVIII Congresso della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC)

Si è svolto a Reggio Calabria, dal 15 al 18 settembre 2016, il diciottesimo congresso della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC). L’organizzazione è stata curata dai colleghi calabresi capitanati da Giuseppe Nicolò con il supporto dell’associazione Ecopoiesis di Reggio Calabria, che diffonde la formazione e la pratica clinica cognitivo-comportamentale in quelle zone.

Il congresso è stato ricco di contributi e di stimoli. Fin dalla plenaria iniziale, con Bruno Bara e Francesco Mancini, ci si è confrontati con le nuove tendenze del movimento cognitivista clinico. Mancini ha raccomandato la necessità di studiare i processi psicopatologici in maniera più vicina alla psicologia di base. Il contributo delle ricerche cliniche basate sui contenuti cognitivi –le cosiddette credenze – è stato utilissimo per delineare protocolli di intervento efficaci ma sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva.

Per trovare interventi più efficaci occorre riesaminare i processi e i meccanismi psicopatologici con una terminologia e una metodologia più rigorosa e vicina alla psicologia di base. Forse così si potrà coprire la distanza che ancora divide ricerca e clinica. Il parere di Bara era sostanzialmente analogo, ed era prevedibile considerando la lunga esperienza di Bara nello studio sperimentale dei mental modes. L’unica differenza tra Mancini e Bara stava nella preferenza verso differenti meccanismi. Mancini sembra più interessato ai meccanismi cognitivi di tipo scopistico e motivazionale, nonché alle strategie e stili di pensiero. La strategia controfattuale dei pazienti ossessivi, ad esempio, è da anni oggetto delle sue ricerche e riflessioni. Bara invece preferisce indagare i processi relazionali ed emotivi di conoscenza incarnata.

Non è stato possibile seguire tutte le relazioni, naturalmente. Ne segnalo alcune sparse. Carcione, Nicolò e Semerari proseguono a sviluppare il modello di Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) in un modello integrato di terapia che va al di là delle diagnosi categoriali e punta al trattamento dei fattori generali della patologia della personalità. Il parallelo lavoro di Dimaggio e Popolo sulla TMI sembra privilegiare gli interventi di immaginazione guidata, ed è forse il modo più coerente di intervenire cognitivamente sui processi bottom up.

Fenelli impiega profittevolmente la teoria dell’attaccamento per indagare le relazioni di coppia. Stoppa Beretta e Bara esplorano l’uso del corpo in psicoterapia, fedeli al modello della conoscenza incarnata. Mancini e il suo gruppo presentano i dati definitivi del loro pluriennale lavoro sul disturbo ossessivo-compulsivo. Tullio Scrimali continua a far evolvere il suo modello di bio-feedback avanzato per la psicosi. Cesare Maffei, Livia Colle, Donatella Fiore e Fabio Monticelli si confrontano sul disturbo borderline di personalità e sulle applicazione della terapia dialettico-comportamentale. Gabriele Caselli ha esplorato le applicazioni della terapia metacognitiva alle dipendenze, mentre Sandra Sassaroli ha indagato il valore dei temi dolorosi e dei piani disfunzionali nei processi psicopatologici. Stefano Lucarelli ha presentato un’originale applicazione della terapia dialettico-comportamentale ai disturbi alimentari. Antonio Pinto e Roberto Framba hanno riflettuto sulla mindfulness nella formazione degli allievi. E così via.

Il momento migliore del congresso è stato probabilmente la simulazione di seduta effettuata domenica mattina, nel giorno di chiusura del congresso. Sandra Sassaroli, Giovanni Liotti, Antonio Semerari e Juan Balbi hanno affrontato una collega terapista che simulava una paziente con aspetti di diffidenza paranoica nella relazione terapeutica. Ogni terapista ha mostrato in vivo aspetti del proprio operare. Un’esperienza istruttiva e accattivante, che merita un articolo a parte.

L’abuso duraturo di alcolici compromette le abilità neurocognitive

L’ipotesi principale che ha mosso lo studio è che le conseguenze negative dovute all’ abuso di alcolici in quantità eccessive siano peggiori per i soggetti di età più avanzata.

 

Introduzione: l’abuso di alcolici e gli effetti neurocognitivi

Il forte abuso di alcolici può causare significativi cambiamenti neurofisiologici e cognitivi che vanno da comuni disturbi del sonno fino ad effetti neurotossici cerebrali diretti o indiretti più gravi. Sappiamo inoltre che l’invecchiamento di per sé è un fattore chiave nel fisiologico declino cognitivo che interessa lo sviluppo di ciascun individuo. Gli studi finora condotti sull’interazione tra abuso di alcolici e invecchiamento hanno generato un quadro di risultati eterogeneo, incoerente e poco chiaro. Il presente studio, pubblicato su Alcoholism: Clinical and Experimental Research, ha cercato di fare chiarezza sul tema, approfondendo la relazione esistente tra età, alcolismo e funzionamento neurocognitivo. L’ipotesi principale che ha mosso lo studio è che le conseguenze negative dovute al consumo di alcol in quantità eccessive siano peggiori per i soggetti di età più avanzata.

Lo studio

Lo studio ha coinvolto 66 soggetti (35 donne e 31 uomini), reclutati presso il Centro di Ricerca per l’AIDS della Brown University, che hanno completato una batteria completa di test neurocognitivi per raccogliere dati riguardanti il funzionamento cognitivo globale, le funzioni attentive/esecutive, l’apprendimento, la memoria, la funzione motoria, le funzioni verbali e la velocità di elaborazione.
Il campione è stato classificato in non-bevitori, bevitori moderati (n =45) e forti bevitori (n = 21); quest’ultimi sono stati definiti tali sulla base dei criteri del National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism e tramite l’utilizzo di interviste cliniche strutturate. Circa il 53% dell’intero campione ha avuto una storia di dipendenza alcolica.

Conclusioni

I risultati hanno mostrato come l’abuso corrente di alcolici nei soggetti di età più avanzata sia associato ad un impoverimento consistente del funzionamento cognitivo globale, dell’apprendimento, della memoria e delle funzioni motorie. Inoltre, lo studio ha evidenziato che una storia duratura di dipendenza da alcolici è associata ad uno scarso funzionamento negli stessi domini neurocognitivi sopracitati, così come nel dominio di attenzione/esecuzione, a prescindere dall’età. In sintesi, questi risultati suggeriscono che seppur l’abuso corrente di alcolici risulti associato a prestazioni insufficienti in un gran numero di domini neurocognitivi, sembra che una storia di dipendenza alcolica, anche in assenza di uso corrente di alcolici, determini conseguenze negative più durature.

Positività Sociale (2015) di Ventruto: recensione dell’album – Psicologia & Musica

Sì, anche noi possiamo cambiare, il nostro modo di guardare il mondo può cambiare e tingersi di mille colori fino a prospettarci un futuro improntato su una nuova Positività Sociale.

 

La musica aiuta a fronteggiare i piccoli e grandi problemi di ogni giorno, questo lo si sa. Ma se un brano è scritto da un artista che è qualcosa di più di un cantautore, tutto può cambiare. Sì, anche noi possiamo cambiare, il nostro modo di guardare il mondo può cambiare e tingersi di mille colori fino a prospettarci un futuro improntato su una nuova Positività Sociale. Titola così, e non è un caso, l’ultimo lavoro discografico di Ventruto, cantautore, autore ed interprete per Rai Trade e Universal, musicista, chitarrista ritmico e solista di impostazione Rock-Blues-Folk e dottore in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica e Psicosociale.

Dottore premiato, proprio per l’attività di Musicoterapia individuale e di gruppo che effettua all’interno del reparto di psichiatria dell’Ospedale di L’Aquila (NDR: in stretta collaborazione con il Prof. Alessandro Rossi, Direttore SPUDC) al congresso nazionale di psichiatria ‘Progetto Musica Mente’ tenutosi a Perugia. Una terapia in musica, dunque, la sua, che si snoda, canzone dopo canzone, fino a toccare ogni corda della nostra psiche.

Il Cd Positività Sociale, nei circuiti dal 2 ottobre 2015, vede, tra l’altro, la partecipazione di diversi artisti della scena musicale italiana: i Gang in Un Pregiudizio, i Modena City Ramblers in Un mondo accessibile, Max “Ice” Ghiacci in Maslow, Alma Manera in Incontrarsi nell’alba, Alessandro de Gerardis in Linea Sociale e Marco Carena in Radio Speaker.

Così, ancora una volta, l’artista – reduce dall’ottimo riscontro ottenuto con il precedente Cd Terapie di Fantasia (già recensito da questa rivista) – consegna un prodotto di altissimo livello. Le melodie sono affascinanti e riconoscibili, sia per il loro sound fiabesco ma nel contempo deciso, incisivo e graffiante, sia per il fondersi di note sapientemente dosate in un pentagramma in cui a regalare emozioni è il miscelarsi di ballate, pezzi swing e folk, in un pop rock inconfondibile, firmato Ventruto.

Velluto musicale impreziosito da testi mai banali, socialmente impegnati ma non criptici, espressione di chi, come il cantautore, in quelle parole ci crede davvero, le sente dentro e non perde mai la forza di lottare per un futuro più puro, più vero ed improntato su valori semplici ma importantissimi. E’ così che l’artista brindisino crea Positività Sociale, un disco diverso dal solito, un concept album –premiato, a soli due giorni dall’uscita, con la Targa della critica – MEI (Meeting Etichette Indipendenti) sul prestigioso palco di Faenza (Contest ORAMUSICA) proprio per l’impegno sociale – denso di imput positivi, in cui ogni brano assume valore non solo di per sé, ma perché si lega a doppio filo ad ognuna delle altre tracks, come a scrivere un unico discorso dal sapore autentico e propositivo.

 

Tra le tracce di Positività Sociale

Passeggiando sulle note di Positività Sociale, ci si ritrova a riflettere, ascoltando Un pregiudizio, sulla lesività psicologica di chi costruisce barriere sociali per isolare chi presenta un qualsiasi tipo di diversità (fisica, psichica, etnica, sessuale). Diversità che, come dice Ventruto nelle sue interviste, va letta come particolarità, caratteristica personale e non come connotato negativo. In fondo, canta l’artista «si dice perfetto chi non ha un difetto, ma spiegami che cos’è? Non c’è il perfetto, c’è sempre un difetto, non siamo diversi io e te».

A seguire, una tematica prettamente psicologica: Maslow e il senso di appartenenza che ciascuno di noi brama di trovare nelle persone che sente vicine, per ideali e sentimenti.

Si passa, poi, con Un mondo accessibile alla protesta per la società attuale, spesso disattenta verso le difficoltà di chi non ha gli strumenti, culturali o economici, per poterla vivere a 360°.

Esorta, invece, a non lasciarsi ingannare dall’apparenza, il testo di La tua musica e scivolano tra antichi sentimenti le parole di Incontrarsi nell’alba, uno dei brani più toccanti dell’album, in cui l’autore si confronta con la solitudine stringendo forte il sogno di un amore eterno che un giorno, in un’alba meravigliosa o altrove, in un’altra dimensione, tornerà a scaldargli il cuore e a dare un nuovo senso al tempo.

Ma si torna con i piedi per terra con Questa vita è mia – spot A.C.I. nazionale per la sicurezza stradale e inserita nel ‘Cantatutto Volume 4’ (Universal/Ricordi) – scritta da Ventruto per sensibilizzare i giovani a guidare con prudenza, senza mai perdere di vista l’importanza di salvaguardare la propria vita e quella altrui.

In Linea sociale, invece, l’artista commuove per la sensibilità dimostrata nel saper respirare la magia di un abbraccio, di una donna che porta con sé la bambina che era, di un sentimento onesto, artefice di pure emozioni.

Si viaggia, poi, attraversando il ritmo frizzante di Radio speaker, nell’universo, intriso di una malinconia costruttiva, di chi, in amore, ha dato tutto, cieco di fronte alla vera personalità di chi nasconde un’anima «perversa di identità», così lanciando un monito: scrutare a fondo di chi ci è accanto, senza per questo rinunciare a vivere appieno una relazione.

Chiude, infine, con il pianforte e lo stile gospel di Una maschera: una track breve ma intensa, che offre all’ascoltatore la chiave per comprendere, ancora più a fondo e sotto un’ulteriore ottica, il filo conduttore dell’intero album che esorta, sempre e comunque, a vivere i rapporti interpersonali con sano ottimismo ma anche con la necessaria dose di prudenza e un occhio sempre attento a chi, nella sua ambiguità ed indossando una maschera di finto buonismo, vuole apparire… senza essere.

 

GUARDA IL VIDEO DELLA CANZONE ‘UN PREGIUDIZIO’:

Ma quante ne sai? Lingue straniere, una palestra per la mente

Non si finisce mai di imparare certo, ma a che ritmo siamo in grado di apprendere le lingue straniere? 

Sara Bidinost

 

Il mercato delle lingue fluttua quanto quello della finanza, determinando nuove necessità di comunicazione al servizio dei commerci. L’inglese ad oggi risulta la lingua più parlata, ma già si vocifera quali potranno essere quelle con maggiore influenza economica in futuro, come il cinese mandarino per esempio o l’indiano (hindi). Spaventati da cotanta competitività? Niente panico, vi sveliamo un segreto per restare al passo con i tempi. Secondo una ricerca pubblicata su Nature dalla University Higher School Of Economics in collaborazione con l’Università di Helsinki, il nostro cervello assimila in maniera esponenziale.

Tramite elettroencefalogramma (EEG) nell’esperimento di scienze cognitive è stata misurata l’attività elettrica nel cervello di 22 finlandesi mentre ascoltavano sia parole note che termini sconosciuti.

Successivamente i dati neurofisiologici sono stati accorpati a quelli sulla passata esperienza con altri idiomi. E pare sia proprio quest’ultima a influenzare la capacità e la rapidità nella costruzione di tracce di nuove parole nella memoria, registrate da un aumento della risposta neurofisiologica nella corteccia fronto-temporale sinistra.

La spiegazione data dai ricercatori si basa sul confronto: nella mente la formazione linguistica sembra interagire con la familiarità dei suoni del lessico. Imparare parole nuove implica infatti prendere confidenza con una nuova fonetica, una distinta fonologia o addirittura diversi contrasti tonali.

La ricerca ha messo in luce anche un altro aspetto relativo all’età dei soggetti. Tipicamente più precoce era l’età di acquisizione (9-15 anni) e maggiore il numero di lingue, più il cervello risultava predisposto all’apprendimento, potenziando quindi la plasticità dei nostri circuiti cerebrali.

Secondo Yuriy Shtyrov autore dello studio, padroneggiare più lingue porterebbe le persone a velocizzare la codifica di nuove parole all’interno della rete neuronale.

Qualunque sia la vostra età, non sentitevi troppo vecchi per imparare. In età adulta si osservano ugualmente dei benefici, come l’incremento nella densità di materia grigia, ma anche la capacità di ritardare le malattie neurodegenerative come demenza e Alzheimer.

E se credete di non avere abbastanza tempo da dedicare allo studio di altre lingue, approfittate delle situazioni informali all’estero, provando a ordinare pane e caffè con i termini della nazione ospitante. Sarà un’occasione unica per ascoltare la pronuncia corretta. D’altronde ‘non esistono lingue morte ma solo cervelli in letargo‘ diceva Carlos Ruiz Zafón.

 

Ma quante ne sai? Lingue straniere, una palestra per la mente - tab 1

 

(Fig. 1) Età media di acquisizione e conoscenza di ciascun linguaggio riportato. La maggior parte dei partecipanti 86 % aveva appreso l’inglese come prima lingua non nativa, il resto di loro lo svedese. Due partecipanti hanno avuto un’età di acquisizione della lingua prima dell’ingresso a scuola, a causa di un’esposizione nel loro quartiere. L’età media dei partecipanti era di 24 anni. La dimensione del cerchio e il numero tra parentesi indicano la percentuale di soggetti che hanno riferito l’apprendimento della lingua. La conoscenza veniva auto valutata su scala da 1 a 5 (1=base, 5=ottimo). L’età di acquisizione correlava negativamente con la conoscenza: prima la lingua era stata acquisita, maggiore era la sua conoscenza.

Alla ricerca della felicità: adottare il pensiero positivo o percorrere la “via negativa”?

La via negativa alla felicità è un punto di vista differente riguardo a ciò che ci sforziamo di evitare abitualmente, significa imparare ad apprezzare l’incertezza, a smetterla di cercare il pensiero positivo ad ogni costo e a familiarizzarci con il fallimento e con le emozioni negative che esso comporta.

Simone Negrini – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Felicità oggi: tra pensiero positivo e ricerca del successo

Sustine et abstine, recita il motto del filosofo greco Epittèto che riassume l’etica della filosofia stoica: sopporta quel che capita e astieniti da tutto ciò che non è in tuo potere cambiare. Questa antica formula per la felicità sembra tuttavia essere in contrasto con la tendenza odierna del pensiero positivo e del proliferarsi di manuali di self-help e di corsi che sono orientati ad aiutarci a prendere in mano le redini della nostra vita attraverso uno sforzo personale di concentrazione sulla visualizzazione del felice esito delle situazioni.

Questo approccio, teorizzato a volte dalla psicologia tradizionale, viene oggi spesso estremizzato e generalizzato a qualunque ambito della vita delle persone, diventando di fatto un businness, tanto che è ormai noto il proliferarsi, specialmente negli Stati Uniti, di seminari a pagamento nei quali vengono invitati come oratori personalità dall’indubbio successo personale allo scopo di motivare anche i più reticenti, e di spronarli verso la dottrina del ottenere il successo a tutti i costi e del raggiungimento degli obiettivi personali (Salerno, 2005).

Del resto, basta osservare gli scaffali di qualunque libreria e troveremo almeno un reparto composto da libri che vorrebbero aiutarci a liberarci dai nostri problemi, che riguardino la nostra autostima, la produttività sul lavoro, o il successo personale.

Anche in un campo delicato in questo periodo storico come quello economico, alcuni studiosi pensano che una delle cause della spregiudicatezza con la quale i broker di banche d’affari hanno agito negli ultimi anni, dando così il via alla attuale crisi economica, sia l’applicazione diretta di questo modo di pensare orientato all’ottimismo e al raggiungimento degli obiettivi a breve termine a discapito di un atteggiamento più realistico e prudenziale nella lettura della realtà economica attuale (Ehrenreich, 2010).

Seppur sia riconosciuto in termini evoluzionistici il ruolo del pensiero positivo, la felicità e l’umana tendenza a guardare al futuro con positività, il trend odierno sembra quello di voler imporre una visione basata sull’ottimismo incrollabile sempre e in qualunque contesto bandendo qualunque sentimento che sia in contrasto con questa visione.

 

Felicità e consapevolezza dei limiti

Ed è qui che si evidenziano le differenze fondamentali tra lo stoicismo e il modello di pensiero degli odierni promotori dell’ottimismo. L’approccio dei filosofi stoici teneva in grande considerazione il senso del limite che l’uomo per la sua stessa natura mortale, conteneva in sé. Il senso del limite portava gli stoici a ritenere che l’aspirazione dell’essere umano consistesse al massimo nel raggiungimento di una placida tranquillità in armonia con l’ambiente circostante che prescindeva dalla faticosa ricerca del controllo degli eventi spiacevoli e dei pensieri negativi. In questo senso, una delle strategie utilizzate consisteva proprio nel confrontarsi con le esperienze negative della vita e con le emozioni che ne conseguivano, e di esaminarle attraverso l’uso della ragione, invece di tentare di eluderle (Irvine, 2008).

Oliver Burkeman, autore di diversi libri che raccolgono il lavoro di psicologi e filosofi, sostiene nel suo ultimo lavoro ‘La regola del contrario‘, che questo modo di pensare, cioè lo sforzo continuo di eliminare le difficoltà e le incertezze della vita attraverso l’ottimismo a tutti i costi e la visualizzazione del successo possa essere perfino controproducente al fine di raggiungere quella che viene comunemente intesa come felicità. Secondo Burkeman, la problematica di fondo di alcune teorie che sostengono la tesi che per essere felici si debba imparare a essere ottimisti in ogni circostanza, è proprio questa tendenza all’assolutismo e alla non tollerabilità dei possibili esiti negativi che renderebbe il fallimento ancora più difficile da gestire (Burkeman, 2015).

Egli scrive infatti:

La formula generale, al di là delle differenze nell’approccio dell’argomento trattato, sembra essere questa: se ti sforzi di pensare alla positività e al successo, di concentrarti sul raggiungimento degli obiettivi, felicità e successo arriveranno da sé.

In altre parole, una volta deciso di adottare l’ideologia del pensiero positivo dovremmo sforzarci  di interpretare praticamente ogni eventualità come giustificazione del pensiero positivo. L’ipotesi del fallimento non è contemplata. Alcuni editori parlano della regola dei diciotto mesi, secondo la quale l’acquirente più probabile di un libro di self-help è quello che negli ultimi diciotto mesi ha comprato un libro dello stesso genere e che evidentemente  non ha risolto tutti i suoi problemi.

Ma il lavoro di svariati studiosi in questo ambito ci suggerisce anche un ‘alternativa più promettente – scrive ancora Burkeman – ovvero un approccio alla felicità che potrebbe assumere una forma completamente diversa. Il primo passo è dare un taglio alla ricerca della positività ad ogni costo, al contrario, diversi autori della “via negativa” sostengono, in modo paradossale ma persuasivo, che accogliere deliberatamente ciò che riteniamo negativo sia una precondizione della vera felicità. L’ottimismo incondizionato non fa che acuire lo shock quando le cose vanno per il verso sbagliato: sforzandoci di nutrire esclusivamente convinzioni positive sul futuro, il pensatore positivo finisce per essere meno preparato e più vulnerabile agli (inevitabili) eventi che non riesce a classificare come auspicabili. Voler vedere sempre il bicchiere mezzo pieno richiede uno sforzo costante e faticoso. Se il nostro impegno fallisce o si dimostra insufficiente a reggere uno shock imprevisto, ricadremo in una depressione forse ancora più nera (Burkeman, 2015).

Nel corso degli anni sono state condotte svariate ricerche in questo campo, al fine di verificare le possibili conseguenze negative sul benessere e sulla salute mentale dell’applicazione di un approccio così radicale. La conclusione alla quale sono giunte è stata la seguente: i nostri tentativi di raggiungere la felicità attraverso l’auto-imposizione di un pensiero positivo può renderci più depressi, così come i nostri tentativi di eliminare tutto ciò che crediamo essere negativo, come il fallimento, l’incertezza, e i sentimenti di tristezza, sono proprio gli stessi che contribuiscono a renderci più insicuri, ansiosi o infelici.

 

La via negativa per la felicità

In questo scenario sembra plausibile quindi tentare di adottare un approccio alternativo, una via negativa alla felicità appunto, un punto di vista differente riguardo a ciò che ci sforziamo di evitare abitualmente. Significa imparare ad apprezzare l’incertezza, a smetterla di cercare di pensare positivo ad ogni costo e a familiarizzarci con il fallimento e con le emozioni negative che esso comporta (Shapiro, 2006).

Sebbene come abbiamo visto l’imperativo positivo abbia raggiunto una notevole popolarità in questo periodo, questo diverso punto di vista trae le sue origini da fonti lontane e autorevoli. Le filosofie greche e latine ad esempio sottolineavano già allora i vantaggi di prendere in considerazione lo scenario peggiore quando ci si confronta con paure ed incertezze. E’ insita nel buddismo la consapevolezza che solo attraverso l’accettazione incondizionata delle insicurezze e delle emozioni negative si possa raggiungere la serenità interiore. Infine è un concetto ripreso e utilizzato a tutt’oggi nell’ambito delle psicoterapie cognitive-comportamentali, come la REBT di Albert Ellis, e dalle cosiddette terapie di terza ondata.

Tra gli studiosi più illustri delle problematiche del pensiero positivo figura Daniel Wegner, professore di psicologia nonché direttore del Mental Control Laboratory dell’università di Harvard. In particolare Wegner si è a lungo soffermato sulla teoria del processo ironico, ovvero lo studio di come i nostri tentativi di sopprimere alcuni pensieri o comportamenti finiscano paradossalmente per rafforzarli.

In un famoso esperimento un gruppo di soggetti venne istruito in particolare a non pensare a un orso bianco per cinque minuti, mentre i soggetti raccontavano i pensieri che liberamente attraversavano la loro mente. Ogni volta che avessero pensato ad un orso bianco avrebbero dovuto suonare un campanello. Ad un altro gruppo invece non venne fornita alcuna specifica istruzione riguardo all’imporsi di non pensare all’orso. Il risultato eclatante fu che si osservò un aumento nella frequenza dei trilli del campanello nel gruppo che aveva il compito specifico di non pensare all’orso bianco rispetto al gruppo che aveva la facoltà di pensarci liberamente. Secondo Wegner, si tratta di un malfunzionamento della metacognizione, vale a dire di quella capacità di distanziarsi, di auto-osservare e di riflettere sui propri stati mentali.  Questa capacità di pensare ai nostri pensieri abitualmente ci consente di avere consapevolezza e di analizzare il nostro punto di vista, tuttavia può nascere una problematica quando la attiviamo per tentare di controllare i nostri pensieri quotidiani oggettuali, per esempio sforzandoci di non pensare agli gli orsi bianchi oppure rimpiazzare i pensieri negativi con quelli positivi.

Lo sforzo che facciamo per eliminare un pensiero dalla nostra mente, ad esempio il tentare di non pensare all’orso bianco, automaticamente attiva un meccanismo di monitoraggio metacognitivo atto a stabilire se il tentativo è efficace oppure no. In questo contesto, quando ci sforziamo eccessivamente di evitare un pensiero, secondo gli studi di Wegner, la metacognizione rischia di deragliare e il monitoraggio di voler rubare ai pensieri la scena cognitiva, ed ecco che ci si troverà quasi costantemente a pensare agli orsi bianchi e a quanto siamo incapaci di pensare agli orsi bianchi (Wegner, 1989).

Secondo le ricerche svolte in questa direzione, lo stesso tipo di bias metacognitivo può essere applicato anche nel caso in cui ci sforziamo di essere positivi ottenendo di fatto il risultato opposto. Ad esempio, in un ulteriore studio di Wegner è stato dimostrato che i soggetti che vengono informati di una notizia triste e poi invitati a non sentirsi tristi finiscono per sentirsi peggio di quelli che vengono informati della notizia senza ulteriori istruzioni (Wegner et al., 1993). In un altro studio, ad alcuni pazienti che soffrivano di attacchi di panico venivano fatti ascoltare degli audio rilassanti insieme alla richiesta di sforzare di rilassarsi da parte degli sperimentatori, ma il loro cuore batteva più rapidamente rispetto ad altri pazienti che ascoltavano dei comuni audiolibri e a qui non era stata data alcuna istruzione. O ancora, dopo un lutto, i soggetti che erano sollecitati a sforzarsi più intensamente di evitare il dolore della perdita, erano quelli che ci mettevano più tempo ad elaborarlo (Lindeman, 1944).

Un’altra argomentazione a supporto dell’ipotesi della via negativa si rifà agli studi del 2009 della psicologa Joanne Wood. Wood si concentra in particolare sull’efficacia delle affermazioni positive, quella serie di statement che secondo i fautori del pensiero positivo dovrebbero incondizionatamente aumentare il tono dell’umore di chi le ripete. La teoria dell’autoraffronto prevede tuttavia che la sensazione di possedere un identità organica e coerente sia prevalente rispetto al nostro tentativo di visualizzarci come persone positive anche in situazioni che indurrebbero sentimenti di frustrazione o infelicità. Ne consegue che tendiamo a trovare artefatti e poco credibili i messaggi che confliggono con il senso di identità, e pertanto spesso li rifiutiamo, anche se veicolano messaggi ottimistici e anche se provengono da noi stessi. L’ipotesi di partenza è che a cercare conforto nelle auto-affermazioni positive incondizionate siano per definizione i soggetti più insicuri, i quali tuttavia, proprio per questo motivo, finirebbero per ribellarsi a tali messaggi in quanto incompatibili con l’immagine di sé.

In una serie di esperimenti, i soggetti venivano divisi in due gruppi a seconda del loro livello di autostima misurata in precedenza tramite dei test specifici e poi invitati a svolgere un esercizio che consisteva nel tenere un diario in cui riportavano le sensazioni provate durante l’esperimento. Ogni volta che veniva fatto squillare un campanello, dovevano ripetere a se stessi la seguente frase: ‘Io sono una persona adorabile’. I risultati di questi esperimenti ottenuti tramite le registrazioni dei pensieri su di sé dei diari dei soggetti mostrarono che il gruppo composto da soggetti con bassa autostima diventavano ancora più infelici e frustrati dopo essersi ripetuti che erano persone adorabili. L’immagine che avevano di sé collideva drasticamente con il pensiero positivo di essere una persona realmente adorabile, e il tentativo di convincersi del contrario non aveva fatto che rafforzare la loro negatività. L’utilizzo del pensiero positivo aveva di fatto peggiorato il loro stato d’animo (Wood et al., 2009).

 

La via negativa verso la felicità in psicoterapia

In ambito psicoterapeutico, numerosi sono gli approcci che attingono per alcuni aspetti all’idea della via negativa alla felicità.

L’idea originaria di Albert Ellis era offrire un’esemplificazione concreta di una filosofia antica, quella degli stoici appunto, tra i primi a ipotizzare che la via per la felicità potesse fondarsi sulla negatività.

Molti di noi, riflettono gli stoici, credono che a renderci tristi, ansiosi o arrabbiati siano certi eventi, persone o situazioni, mentre in realtà sono le convinzioni che noi nutriamo su questi eventi, persone o situazioni a renderci tali. Il nostro punto di vista o, per dirla alla Ellis, le nostre credenze irrazionali ci pongono nello stato d’animo sgradevole in cui siamo. Questo concetto, ripreso dalla filosofia stoica, è espresso anche dal imperatore-filosofo Marco Aurelio; il quale sosteneva che ‘le cose non toccano l’anima, i turbamenti vengono soltanto dall’opinione che si forma all’interno’. Una delle strategie utilizzate in questo tipo di terapia è lo spronare ad esercitarsi ad affrontare gradualmente le situazioni che ci sembrano insostenibili, invece di mettere in atto evitamenti cognitivi e comportamentali riguardo a ciò che ci fa paura, o che percepiamo come indesiderabile. Solo in questo modo ci renderemo conto di un risvolto psicologico interessante: le nostre convinzioni su quanto l’esperienza sarà atroce, una volta portate alla luce ed esaminate con razionalità, appariranno del tutto sproporzionate.

Ecco perché quando ci si trova in contesti altamente indesiderabili la strategia della visualizzazione negativa dello scenario peggiore risulta efficace: la distinzione fra eventi molto negativi e assolutamente terribili ci aiuta a dare un confine a paure che inizialmente ci possono apparire senza limiti. Inoltre, le nostre convinzioni assolutistiche, i must per dirla alla Ellis, siano essi positivi (dobbiamo essere sempre ottimisti) o negativi ci portano in genere a soffrire di uno stress indebito e ad una eccessiva preoccupazione di fallire nel tentativo di soddisfare costantemente i nostri standard (Ellis, 1989).

In conclusione, riporta Burkeman:

Ci sono tanti modi di essere infelici ma c’è un solo modo di stare tranquilli, ed è smetterla di correre dietro alla felicità.

Un’acuta osservazione utile a ribadire il problema del culto dell’ottimismo, quello sforzo ironico e, a volte controproducente, che se eccessivo finisce per scardinare la positività (Burkeman, 2015).

Qual è la terapia efficace contro la depressione? Sette interventi psicoterapeutici a confronto

I disturbi dell’umore e la depressione in particolare, sembrano essere molto comuni: si stima che circa un quinto della popolazione dei paesi ad alto reddito presenti, nel’arco della vita, sintomi depressivi.

 

La depressione risulta essere il quarto disturbo al mondo con impatto negativo sulla qualità di vita degli individui e si stima che, entro il 2030, si posizionerà al primo posto nei Paesi economicamente più avvantaggiati con un ovvio impatto sulla capacità produttiva e sulla salute fisica dei cittadini.

Data l’importanza e la gravità del disturbo, diversi interventi psicoterapeutici sono stati sviluppati per il trattamento della depressione, tra cui approcci cognitivo-comportamentali, interpersonali, terapie umanistiche e terapie psicodinamiche.

Mentre vi è un ampio consenso sul fatto che gli interventi psicoterapeutici siano benefici per i pazienti depressi, c’è un dibattito ancora in corso circa il diverso grado di efficacia dei vari orientamenti.

Precedenti meta-analisi hanno trovato come la terapia cognitivo-comportamentale sia più efficace di altri interventi. Al contrario, però, un’ulteriore meta-analisi ha stabilito come non vi sia alcuna differenza di efficacia tra la CBT e la terapia psicodinamica breve.

Per cercare di giungere a una risposta univoca, Barth e colleghi, autori di una meta-analisi pubblicata pochi anni fa, hanno confrontato ben 198 studi sull’efficacia dei vari tipi di psicoterapia nel trattamento del disturbo, per un totale di 15118 pazienti adulti con diagnosi di depressione.

Per la meta-analisi in questione sono stati selezionati solo gli studi con un disegno randomizzato: trattasi di studi condotti su soggetti adulti con un disturbo depressivo, o con un’elevata presenza di sintomi depressivi, in cui sono stati confrontati due diversi approcci terapeutici tra loro o gli effetti di un intervento psicoterapeutico con una condizione di controllo (es. liste d’attesa o trattamenti placebo).

Sulla base di una precisa tassinomia, sono stati classificati sette tipi differenti di interventi terapeutici: terapia interpersonale, interventi di attivazione comportamentale, terapia cognitivo-comportamentale, terapia centrata sul problem solving, social skills training, terapia psicodinamica, e counselling di supporto.

Quale tra questi sia risultato più efficace, è difficile dirlo: dall’analisi dei dati è emerso che i vari tipi di intervento presentano effetti comparabili sui sintomi depressivi, e che tutti gli approcci terapeutici portano a un significativo miglioramento dei pazienti depressi, rispetto agli individui appartenenti ai gruppi di controllo.

Dovendo contrastare gli effetti degli studi di piccole dimensioni sull’intera meta-analisi, sono state condotte ulteriori analisi sulle ricerche di medie e grandi dimensioni. Dall’analisi dei dati sono così emersi effetti notevolmente positivi per la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia interpersonale e la terapia centrata sul problem-solving, mentre gli effetti sono stati meno robusti per la terapia psicodinamica, il counselling di supporto, e gli interventi di attivazione comportamentale.

Sarebbe auspicabile continuare con le ricerche sul tema per giungere a una conclusione univoca su quale psicoterapia sia più efficace nella cura della depressione, tuttavia possiamo già cogliere il primo importante risultato emerso da meta-analisi come quella appena presentata: gli interventi psicoterapeutici risultano essere più efficaci del “non curarsi”, questo sottolinea come sia necessario, per chi soffre di depressione, rivolgersi in modo tempestivo ad uno psicoterapeuta esperto, qualunque sia la sua formazione.

La fine della storia tra Angelina Jolie e Brad Pitt: quando le difficoltà di coppia non si superano

Brad e Angelina si lasciano, e si lasciano male, scambiandosi botte da orbi. Termina un episodio di pace nella guerra tra i sessi, un episodio che ci aveva un po’ illuso e consolato, anche se i motivi di allarme erano tanti e da tempo.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 24/09/2016

La psicologia moderna dedica uno spazio a sé, un santuario a parte allo studio dei rapporti tra uomini e donne, tra maschi e femmine. Una nicchia separata dalle correnti maggiori della psicoanalisi e della psicologia cognitiva. Che ci sia questo spazio a sé e riservato ci avverte della natura di mistero sacro di questi rapporti. Uno spazio difficile da scoprire, perché tende a disperdersi nel bacino più vasto della psicologia della famiglia. I cui sacerdoti sono silenziosi e meno noti al grande pubblico. Più raramente ci è capitato di sentir parlare di Salvador Minuchin e Mara Selvini Palazzoli rispetto allo Zeus della psicologia, Freud. Come silenziosa e meno nota è la dea del focolare domestico, Estia in Grecia e Vesta a Roma, rispetto agli altri Dei olimpici dalla fama più rumorosa. Eppure il silenzio di Vesta non ci parla solo di tranquillità domestiche, ma di sotterranee tensioni destinate a scoprirsi improvvise, come quelle tra Angelina e Brad.

Le difficoltà di coppia già nei racconti antichi

Ne siamo molto consapevoli da sempre; perfino il racconto della Genesi è una sottile analisi delle difficoltà di coppia: [blockquote style=”1″]Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà.[/blockquote] Malgrado l’apparenza, non è una dichiarazione di superiorità del maschio e sottomissione della femmina, piuttosto un’amara descrizione di una millenaria incomprensione reciproca in cui non vince nessuno.

I racconti antichi procedevano per allusioni rapide e precise come sciabolate, che lasciavano molto all’immaginazione. Non è così nella letteratura moderna, nella quale lo scavo del dettaglio psicologico è portato fino all’estenuazione. Nella sonata a Kreutzer Tolstoi ci descrive ogni movimento emotivo della coppia di sposi, fino alla tragedia finale. Proust non ci risparmia nulla della relazione tra Marcel e Albertine, e poco cambia che all’ombra dei due personaggi ci fossero due maschi: Proust e Agostinelli. Il movimento di coppia rimane identico anche nell’identità dei sessi, e la guerra tra i sessi è destinata a complicarsi ora che sono più di due.

Gli antichi invece dobbiamo spiarli dal buco della serratura e seguirne i rapidissimi movimenti mai commentati da troppe parole. Così intuiamo nel racconto di Erodoto che la moglie di Candaule, il re di Lidia, fosse irritata e stanca da tempo dei comportamenti fatui e penosi del marito, fino a decidere di farlo uccidere dalla guardia del corpo Gige. Da quanto tempo questa donna disprezzava il marito? Non lo sappiamo. Conosciamo solo l’ultimo episodio, in cui lo sciocco Candaule si vanta della bellezza del corpo nudo della moglie con un suo sottoposto, appunto la guardia del corpo Gige. E porta a tal punto questa fatua vanteria da ragazzone malcresciuto da permettere a Gige di spiare la nudità di sua moglie. Possiamo perfino immaginare Candaule vantarsi?

-Gige, non puoi immaginare mia moglie cos’è. Che corpo, che donna!-

O peggio:

-Gige, te lo dico. Mia moglie è semplicemente una figa. Dovresti vederla nuda. Anzi, sai che ti dico? Te la faccio vedere. Stanotte!-

È sconfortante notare come il realismo di un racconto dialogato moderno riveli la volgarità della vita, laddove il mito avvolge di favola e mistero perfino eventi che, a ben guardare, furono penosi. Come questo di Candaule.

E quindi quella sera, seguendo il piano di Candaule, Gige si nascose dietro l’uscio della camera da letto regale per vedere la regina spogliarsi prima di andare a dormire. La regina però vide Gige allontanarsi dalla stanza e capì di esser stata tradita e offesa dal marito. E ne decise la morte.

Dietro questo episodio da fiaba è possibile intravedere la storia di una relazione vera, una relazione tra un uomo sciocco e superficiale e una donna orgogliosa e astuta. Offesa col marito, questa donna, di cui mai conosciamo il nome, convoca Gige il quale, come ci racconta Erodoto, “credendo che ella non sapesse nulla di quanto era accaduto, venne al richiamo; era solito presentarsi anche prima, quando la regina lo chiamava. Appena arrivò, gli disse: “Delle due strade che ora ti si presentano, ti do la scelta, Gige, di prendere quella che vuoi: o uccidi Candaule e hai me e il regno di Lidia; oppure devi morire subito […]. Deve morire l’autore di questo inganno o tu, che mi hai visto nuda e hai fatto cose non lecite”. E Gige scelse di uccidere Candaule e diventare egli stesso re.

Come si erano incontrati quest’uomo stupido e questa moglie spietata? Non lo sappiamo. Forse un matrimonio dinastico; ma poi la loro relazione era andata oltre l’interesse e aveva preso sostanza. Probabilmente era diventata la relazione tra un uomo forse dolce ma infantile nel suo essere così fiero della bellezza della moglie e una donna dura che non lo rispettava. Uno scenario non nuovo: il marito inconsapevole dei movimenti emotivi, la moglie invece perfino troppo.

L’attualità dei miti del passato

Eppure questo comportamento sepolto nel passato di un racconto a metà tra mito e storia (l’esistenza storica di Gige e Candaule è plausibile) è anche un comportamento molto comune. Il candaulesimo, l’esposizione con o senza assenso delle nudità del proprio partner al voyeurismo di un estraneo, è una pratica erotica diffusa tra gli scambisti ed è una fantasia sessuale non infrequente. Non vi è distanza tra questo re dimenticato di un racconto di due millenni fa e le fantasie di un impiegato o le pratiche di un don Giovanni di provincia dei giorni nostri.

Torniamo a Candaule. Era un uomo così preso dalla sua infatuazione per il corpo della moglie dal parlarne con tutti, comprese le guardie del corpo. Forse era anche un uomo innamorato, ma lo esprimeva in questa maniera squalificante. Probabilmente era un uomo che aveva da tempo perso credito agli occhi di tutti, non solo della moglie. Candaule era politicamente squalificato. L’assassinio di un re e la sua sostituzione con uno dei suoi pretoriani non è un evento che si possa improvvisare. Se Gige se la cava e diventa re, vuol dire anche che Candaule ormai non godeva più del favore della corte e che l’avvicendamento al potere fu ben organizzato. Nessuno protesta quando Candaule muore e Gige sale sul trono senza problemi.

Insomma, è una donna potente, questa moglie di Candaule. Una king-maker. Decide lei chi sale e chi scende dal trono. Vigeva ancora una sorta di matriarcato in Lidia? D’altronde era un regno che aveva per patrona una dea, Rea o Cibele la grande madre, madre di Zeus e di molti altri dei. Non possiamo dire altro. Come spesso nei racconti antichi, dobbiamo intuire tutto da un episodio. Un episodio di ambivalenza nei rapporti di coppia. Un’ambivalenza che ci racconta come la coppia maschio-femmina sia sempre una negoziazione politica tra due potenze, potenze che conducono un’eterna trattativa che compone e dispone gli interessi stridenti, ma talvolta anche armonici, dei due giocatori.

Misofonia: Non voglio sentirti! Non voglio guardarti!

Il termine misofonia è stato creato nel 2001, e introdotto in letteratura nel 2002, dal gruppo di lavoro di Pawel Jastreboff per indicare quei pazienti che reagivano negativamente solo verso determinati suoni e non riportavano miglioramenti quando trattati come iperacusici (Jastreboff & Jastreboff, 2014). Pur riconoscendo come comune denominatore la ridotta tolleranza ai suoni (Decrease Sound Tolerance, DST) presente sia nell’iperacusia (ipersensibilità generica verso i suoni) che nella misofonia, quest’ultimo disturbo è caratterizzato dalla presenza di un’importante reazione emotiva, generalmente rabbia, disgusto o ansia.

 

Che cos’è la misofonia

Martina, 35 anni, mi racconta: “Tra poco è ora di pranzo, i miei familiari saranno tutti a tavola, oggi c’è anche mio padre con noi, già so come andrà a finire… mi dovrò sbrigare a mangiare e a cercare subito una scusa per alzarmi da tavola per non sentirli e non vederli. Quando mangio lo faccio velocemente, cerco di coprire i loro suoni, cerco di non guardarli ma non ci riesco se ho finito il mio pasto. La mia attenzione va tutta lì verso di loro, come una calamita, e inizio ad innervosirmi, mi chiedo perché lo fanno, perché non smettono?”.

Riccardo, 52 anni: “ero in treno e il tipo davanti a me ha iniziato a mangiarsi le unghie… ho provato schifo, non riuscivo più a stare seduto, avrei voluto urlargli contro, sentivo in me la rabbia crescere… ma cavolo, che schifo è? Come si permette? A volte ho quasi l’impulso di picchiare, ho voglia sempre di fuggire, di far smettere quel tormento”.

Queste appena riportate sono le parole di pazienti che soffrono di quella che viene oggi definita misofonia, una problematica ancora sconosciuta a molti e soprattutto ai pazienti che si rivolgono allo specialista otorinolaringoiatra per una visita audiologica perché credono di “sentire troppo” oppure perché soffrono anche di acufeni (suoni come fischi o fruscii, anche di forte intensità, che possono essere percepiti in una o in entrambe le orecchie, o all’interno della testa).

Per quanto gli studi scientifici a disposizione siano scarsi e tante le domande rispetto alle limitate risposte, cercherò di delineare un quadro generico sulla problematica.

 

I sintomi della Misofonia

Il termine “misofonia” è stato creato nel 2001, e introdotto in letteratura nel 2002, dal gruppo di lavoro di Pawel Jastreboff per indicare quei pazienti che reagivano negativamente solo verso determinati suoni e non riportavano miglioramenti quando trattati come iperacusici (Jastreboff & Jastreboff, 2014). Pur riconoscendo come comune denominatore la ridotta tolleranza ai suoni (Decrease Sound Tolerance, DST) presente sia nell’iperacusia (ipersensibilità generica verso i suoni) che nella misofonia, quest’ultimo disturbo è caratterizzato dalla presenza di un’importante reazione emotiva, generalmente rabbia, disgusto o ansia, in risposta a stimoli uditivi con caratteristiche di specificità che vedremo di seguito.

La reazione emotiva può essere anticipata o accompagnata da stimoli visivi e, in questo caso, il disturbo prende il nome misokinesia (Schröder et al., 2013). Nella misofonia, a differenza dell’iperacusia, la reazione dipende dal contesto in cui il suono è presente o dalla persona che lo emette e non dalle caratteristiche fisiche del suono stesso (Jastreboff & Jastreboff, 2014). I suoni comunemente riconosciuti come trigger sono quelli prodotti dalla bocca (es. masticazione), dal naso (es. starnutire, respirare) e altri ripetitivi tipo giocare con il click della penna o il rumore della tastiera quando scriviamo al computer (Eldestein et al., 2013; Jastreboff & Jastreboff, 2014; Schröder et al., 2013).

Le persone sono spinte ad allontanarsi dall’evento trigger oppure avvertono il desiderio di essere violente verso la persona che emette il suono o compie determinati gesti (Bernstein et al., 2013). Le reazioni fisiche associate possono manifestarsi in: tachicardia, ipertensione, rigidità muscolare, dispnea, sudorazione, ipertermia (Cavanna & Seri, 2015). La vita quotidiana, nei casi più gravi, è compromessa, caratterizzata da evitamenti e difficoltà nella gestione delle relazioni interpersonali (Bernstein et al., 2013; Cavanna & Seri, 2015).

 

Misofonia: le difficoltà nel definire la prevalenza e le comorbidità

Non ci sono stime sulla prevalenza del disturbo nella popolazione generale a causa della mancanza di strumenti di valutazione validati e perché i pazienti si rivolgono a specialisti differenti come neurologo, otorino, psicologo, audiologo e questo rende complessa una raccolta omogenea dei dati (Jastreboff & Jastreboff, 2014). La misofonia generalmente insorge nella tarda infanzia (Cavanna & Seri, 2015; Eldestein et al., 2013; Schröder et al., 2013) e coinvolge inizialmente le persone più vicine, come i membri della famiglia (Bernstein et al., 2013).
Non è chiara ancora la connessione tra la misofonia e altri disturbi di tipo psichiatrico.

Nello studio di Ferreira et al. (2013) vengono riportati tre casi in cui la misofonia viene vista come sintomo secondario di disturbo d’ansia generalizzato, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo schizoide di personalità. In realtà però nell’articolo non è stato specificato con quali modalità sono state effettuate le diagnosi e non vi è evidenza di una valutazione con esami audiologici.

 

Gli studi sulla Misofonia

Schröder e colleghi (2013) suggeriscono di considerare la misofonia come un disturbo psichiatrico distinto, inserito nello spettro dei disturbi ossessivo-compulsivi, e riportano gli ipotetici criteri per farne diagnosi. Il campione di riferimento è formato da 42 pazienti valutati con la Structured Clinical Interview for DMS-IV Axis II (SCID-II), la Hamilton Depression Rating Scale (HAM-D), e la Symptom Checklist (SCL-90) e una scala prodotta dai ricercatori stessi chiamata Amsterdam Misophonia Scale (A-MISO-S) costruita a partire dalla Yale-Brown Obessive-Compulsive Scale (Y-BOCS). Da evidenziare che il 52,4% dei pazienti ha riportato una diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo di personalità; soltanto 5 pazienti del campione hanno effettuato controlli audiologici.

Jastreboff e Jastreboff (2014) ritengono che nello studio di Schröder (2013) si è tenuto conto solo di una popolazione di tipo psichiatrico e che invece, secondo la loro esperienza, i pazienti con misofonia non presentano generalmente disturbi di questo tipo; anche qui non riportano stime precise e metodi di valutazione psichiatrica. Avvalorano la loro posizione dichiarando che i pazienti misofonici sono migliorati con un trattamento combinato tra counseling e terapia sonora specifica, senza nessun tipo di intervento psichiatrico. A detta degli autori il trattamento è risultato efficace per 139 pazienti su 167 (83% dei casi); l’assessment è stato effettuato con un’intervista strutturata da loro prodotta a partire dalla Tinnitus Retraining Therapy e non riportano dati sul follow-up.

La realtà attuale è che la scarsità degli studi non permette di delineare linee di intervento psicoterapeutico precise, né tantomeno sulla possibilità di un trattamento farmacologico.

 

Misofonia: possibili trattamenti

Uno studio piuttosto scarno su due giovani con misofonia (McGuire et al., 2015) utilizza la CBT con tecniche di esposizione e prevenzione della risposta per incrementare l’abituazione agli stimoli non tollerati. Unici test somministrati nell’assessment sono il Misophonia Questionnaire e la Misophonia Severity Scale, entrambi non ancora validati.

L’unico case study di Bernstein e colleghi (2013), piuttosto dettagliato, illustra un protocollo CBT (Cognitive Behavioural Therapy) per l’ansia adattato alla misofonia ed include ristrutturazione dei pensieri automatici, esposizioni, modificazione delle strategie di coping disfunzionali, training attentivo e lavoro sull’assertività. Alla fine dello studio gli autori riportano un punto importante emerso dal trattamento: la paziente ha capito che sotto il disturbo c’era il pensiero che i suoi bisogni non erano importanti per le persone vicino a lei… peccato che questo aspetto, a mio avviso preminente, non sia stato particolarmente trattato lungo il percorso terapeutico.

 

Conclusioni

Quanto riportato non pretende di essere un’esposizione esaustiva a proposito di una patologia ancora poco conosciuta, ma intende stimolare l’interesse degli esperti, sia nel campo della mente che in quello dell’udito, per effettuare diagnosi più accurate sulla base di criteri omogenei e per avviare ricerche scientifiche in merito. Questo tipo di lavoro, a mio avviso, comporta la necessità di un approccio multidisciplinare troppo spesso sottovalutato e, soprattutto, poco utilizzato.

Infine, credo sia necessario far conoscere ai pazienti le caratteristiche di questo disturbo, fornendo loro informazioni scientifiche aggiornate, affinché possano essere consapevoli dei trattamenti oggi disponibili, in modo da evitare di intraprendere un percorso terapeutico basato su false cure “miracolose” come già succede, in alcuni casi, per il trattamento degli acufeni.

Le rappresentazioni sociali: immagini, rappresentazioni, stereotipi e pregiudizi

Rappresentazioni sociali: Una rappresentazione mentale è, infatti, un pensiero operato in sostituzione di un oggetto, persona o evento percepito in precedenza, pensiero che è il risultato di un processo percettivo e cognitivo in relazione diretta o elaborata con lo stimolo percepito.

Rossella Pavani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Le rappresentazioni sociali: definizioni

Le rappresentazioni sociali sono alla base dei complessi meccanismi della produzione della conoscenza sociale e dell’agire di ognuno di noi; sono un fondamentale costrutto teorico, ma soprattutto [blockquote style=”1″]uno strumento indispensabile per comprendere ed eventualmente modificare i comportamenti collettivi[/blockquote] (Palmonari & Emiliani, 2014).

Le rappresentazioni: ovvero “la mappa non è il territorio”?
Per iniziare una disamina intorno alle rappresentazioni sociali, si potrebbe partire parafrasando la suggestione condivisa da Bell (1945) e da Korzybsky (1958) sulla constatazione che la mappa non corrisponde alla cosa mappata, ma rispetto alla quale, in qualche modo, ci muoviamo come se lo fosse.

Una rappresentazione mentale è, infatti, un pensiero operato in sostituzione di un oggetto, persona o evento percepito in precedenza, pensiero che è il risultato di un processo percettivo e cognitivo in relazione diretta o elaborata con lo stimolo percepito. [blockquote style=”1″]È un rimandare di qualcosa a qualcosa che è altro[/blockquote] (Ruggiero, 2011).

L’oggetto della rappresentazione si presenta come un [blockquote style=”1″]insieme complesso di idee, immagini, informazioni, atteggiamenti e valori tenuto insieme da un sistema cognitivo avente una propria logica e un proprio linguaggio[/blockquote] (Grande, 2005) che dipende sia dal soggetto che lo costruisce/esprime, sia dall’oggetto esterno o sociale che lo suscita. Il sistema rappresentativo è caratterizzato da tre dimensioni: l’informazione, ovvero le conoscenze possedute sull’oggetto rappresentato; l’atteggiamento, che indica le disposizioni favorevoli o contrarie verso l’oggetto rappresentato; e il campo della rappresentazione, cioè la struttura che organizza, articola e dispone gerarchicamente le unità di informazione (Moscovici, 1976, Grande, 2005).

Rappresentare una situazione, per Moscovici (1976), [blockquote style=”1″]non vuol dire semplicemente sdoppiarla, ripeterla o riprodurla, vuol dire ricostruirla ritoccarla, cambiarne il testo.[/blockquote] Nel processo ri-costruttivo, ad un’immagine si sovrapporrà inevitabilmente un significato di natura simbolica, impedendone, di fatto, una “rappresentazione oggettiva”. Ciò avviene soprattutto perché l’individuo non costruisce da zero la realtà, ma subisce una contaminazione anche da parte di elementi/significati/valori che circolano nella sua società e nel suo tempo. Attorno agli “oggetti”, gli individui formeranno delle “idee calde, cariche di significati emozionali” (Gastaldi & Contarello, 2006) e quando la conoscenza sarà elaborata e condivisa collettivamente, attorno a quell’oggetto, a quel punto divenuto sociale, per Moscovici e Farr (1989) si creeranno delle rappresentazioni sociali che non sono semplicemente [blockquote style=”1″]opinioni su o atteggiamenti verso, ma sono di diritto teorie o branche della conoscenza che vengono usate per la scoperta e l’organizzazione della realtà.[/blockquote]

Rendendo familiare ciò che è estraneo o distante dall’esperienza dei membri di un gruppo, per Palmonari, Rubini e Cavazza (2002), non solo si faciliterà la comunicazione in merito ad una realtà comune, ma il sapere condiviso avrà anche la funzione di guida del comportamento, appiattendo ed omologandone i tratti. Questa articolazione, che gli autori definiscono “dinamica ed evolutiva” tra componenti individuali e sociali, mostra la natura sociale e collettiva che gli individui hanno di loro stessi e del modo in cui si porranno nel mondo che li circonda, evidenziando la pervasività delle rappresentazioni sociali nelle azioni quotidiane. Anche per lo stesso Moscovici (1991) le rappresentazioni sociali [blockquote style=”1″]mostrano un potere d’influenza notevole, perché non è più possibile distinguerle dal mondo dell’esperienza collettiva che le reifica. Insinuandosi in tutte le azioni reciproche e le cerchie sociali, diventano il codice genetico […] delle combinazioni successive.[/blockquote]

 

Le rappresentazioni sociali e le categorizzazioni

In questa direzione il contributo di Tajfel appare fondamentale; come riportato da Rubini (2003), egli opera una distinzione fra categorizzazione tout court (raggruppamento di oggetti/eventi per similarità, che permette una riduzione del carico cognitivo) e categorizzazione sociale. Quest’ultima, oltre ad essere caratterizzata dalle funzioni cognitive che regolano i normali processi di classificazione degli stimoli (semplificazione e ordinamento della realtà percepita), è carica di valori sociali che influenzano la divisione dell’ambiente sociale in “noi” e “loro”.

Fra gli effetti cognitivi prodotti dalle categorizzazioni sociali, oltre alla semplificazione euristica della realtà, saranno presenti delle distorsioni valutative come l’effetto contrasto (la sovrastima delle differenze intercategoriali – “noi siamo diversi da loro”) e l’effetto assimilazione (l’accentuazione delle somiglianze intracategoriali – “loro sono tutti simili”). L’espressione di questi due effetti comporta una maggiore variabilità percepita fra i membri dell’ingroup dovuta all’effetto della familiarità e, di conseguenza, la percezione di un’omogeneità nell’outgroup (Rubini, 2003).

La spiegazione che viene ipotizzata da Tajfel (1974) sul comportamento ingroup/outgroup si rifaceva al bisogno degli individui di raggiungere la differenziazione o specificità positiva del proprio gruppo, attraverso la quale derivava la valorizzazione della propria identità sociale. Questi sono gli assunti di base della teoria dell’identità sociale (Tajfel & Turner, 1979) che è definita [blockquote style=”1″]motivazionale per il fatto che la forza psicologica che spinge gli individui all’appartenenza ai gruppi sociali è l’enfatizzazione o il mantenimento della stima di sé. Il raggiungimento della specificità positiva del proprio gruppo produce un riverbero positivo sull’immagine di sé[/blockquote] (Rubini, 2003).

È invece slegando l’autostima dalle idee di base della teoria dell’identità sociale, che Turner (1985) formulò la teoria della categorizzazione del Sé, attraverso la quale cercava di dar conto non solo delle differenze percepite ma anche dei comportamenti effettivi. Turner sosteneva che le identità sociali fossero le responsabili del comportamento intergruppi e ciò è evidente proprio dal fatto che le persone che si identificano in un gruppo si comporteranno in modo coerente con gli altri membri del gruppo. Da un punto di vista cognitivo la teoria mette in risalto che [blockquote style=”1″]il Sé non si configura come un’entità fissa ma piuttosto come qualcosa che dipende dal contesto intergruppi saliente[/blockquote] (Cognizione sociale, 2009), facendo risaltare gli aspetti psicologici dell’appartenenza ad un gruppo, accentuandone quelle caratteristiche prototipiche e stereotipiche che aumentano la percezione di somiglianza fra sé e i membri dell’ingroup.

 

I processi di stereotipizzazione: dalle rappresentazioni sociali ai pregiudizi

Sarà appunto la tendenza ad assimilare fra loro gli elementi che compongono una determinata categoria, attenuandone o appiattendone le differenze interne (Rubini, 2003), che farà diventare la categorizzazione sociale “conoscenza in senso comune”, nella misura in cui essa concorre alla costruzione consensuale della nostra realtà quotidiana (Grande, 2005).

Il collegamento fra le rappresentazioni sociali e la nascita dello stereotipo era stato avviato dal giornalista Walter Lippmann (1922) il quale, oltre a coniare il termine stereotipo mutuandolo dall’ambiente tipografico, sosteneva che gli individui si approcciassero alla realtà non in modo diretto, ma attraverso delle immagini mentali che ognuno si forma su un particolare della propria realtà (Mazzara, 1997). Per l’autore, queste immagini mentali costituiscono un filtro, uno “pseudo-ambiente” attraverso il quale l’individuo interagisce, e ciò che ne passa attraverso sono semplificazioni, spesso grossolane. Come riportato in un suo recente articolo, Fiore (2015) definisce uno stereotipo come [blockquote style=”1″]una scorciatoia mentale usata per incasellare persone o cose in determinate categorie stabilite. Sono delle valutazioni rigide, inflessibili, che si riferiscono a concetti mai appresi in maniera diretta, ma mediati dal senso comune.[/blockquote]

In ragione del fatto che, bypassando le verifiche empiriche dirette, uno stereotipo si propone di [blockquote style=”1″]rappresentare gruppi e non individui, immagini globali e non specifiche rappresentazioni di singole persone[/blockquote] (Arcuri & Cadinu, 2011), ne deriva che la realtà rappresentata si articolerà in prospettive contrapposte secondo il punto dal quale ci si colloca per osservarla. Proprio per il fatto che entra in gioco lo status del gruppo, gli stereotipi non sono dei sistemi di [blockquote style=”1″]rappresentazione «neutrali»: essi normalmente veicolano in maniera implicita sistemi di valore, gerarchie di criteri, preferenze e giudizi tendenziosi[/blockquote] (Arcuri & Cadinu, 2011) che spesso offrono una base fertile, un “nucleo cognitivo” al pregiudizio (Mazzara, 1997).

Per Fiore (2012) lo stereotipo è spesso collegato al pregiudizio dal momento che è una [blockquote style=”1″]rappresentazione mentale di un preconcetto, vale a dire l’insieme degli elementi di informazione e delle credenze circa una certa categoria di oggetti, rielaborati in un’immagine coerente e tendenzialmente stabile, in grado di sostenere e riprodurre il pregiudizio nei loro confronti.[/blockquote]

Nelle scienze sociali il termine pregiudizio somma così, oltre al significato più comune di giudizio emesso a priori (e in assenza di dati empirici), due ulteriori precisazioni: la prima è che ci si riferisce principalmente a specifici gruppi sociali e la seconda, che sia di solito sfavorevole perché tende a penalizzare l’oggetto del giudizio stesso (Mazzara, 1997). Come lo stereotipo, anche il pregiudizio può essere positivo, utile e corretto seppur formulato in assenza di validazione empirica, ma il crinale fra l’esigenza utilitaristica di classificare un mondo incredibilmente vario e complesso e farne un uso distorto, per Mazzara (1997), sta nel motivo per cui un determinato tratto entra a far parte di una categoria. Per l’autore avviene [blockquote style=”1″]un’estensione dai requisiti di base che definiscono la categoria e che sono relativi ad appartenenze sociali, a requisiti accessori di tipo psicologico, e riguardano i tratti di personalità, le disposizioni, le qualità morali.[/blockquote]

L’accezione negativa di pregiudizio è, di solito, predominante e può concretarsi in stigma quando in una società [blockquote style=”1″]sono consolidate e culturalmente condivise delle credenze che assegnano ad alcuni gruppi una posizione di inferiorità e li fanno oggetto di espressioni di disprezzo [/blockquote](Arcuri & Cadinu, 2011).

Per Clark (1965) il grave rischio per gli individui presi di mira da forme di stigma sociale è che dubitino del loro valore, indebolendo la loro autostima, offrendo ulteriormente il fianco a successive ed ulteriori espressioni negative. Sebbene i dati riportati da Fiske e Taylor (2009) rivelino che solo il 10% della popolazione occidentale detiene stereotipi manifesti, non si può certo affermare che razzismo o sessismo siano scomparsi, ma piuttosto che siano celati sotto forme latenti, sottili, di “razzismo riluttante”. La maggior parte delle persone, infatti, rifiuta l’idea di poter detenere delle credenze o delle intenzioni razziste (Gaertner & Dovidio, 1986) e ciò può essere determinato dal tentativo di rifuggire a loro volta dal marchio/stigma di individui poco politically correct, rivolto verso coloro i quali si siano sbilanciati ad esprimerli apertamente. Tutto ciò può comportare un adeguamento, una conformazione a norme e credenze che siano ritenute collettivamente più accettabili, spesso celandole sotto mentite spoglie, le quali però continuano a far sentire gli effetti dei bias a chi ne è stato fatto oggetto (Fiske & Taylor, 2009).

Molte delle pubblicazioni (per una rassegna si veda Wheeler & Petty, 2001) mostrano che l’attivazione degli stereotipi può influenzare il comportamento degli individui. Gli autori analizzarono i dati operando tre principali distinzioni: fra stereotipi positivi e negativi; fra stereotipi che riguardano il proprio gruppo (self-stereotype) o il gruppo a cui non si appartiene (other-stereotype); fra l’effetto comportamentale dell’assimilazione o quello del contrasto. Le loro analisi mostrano come, nella maggioranza degli studi presi in considerazione, le persone assimilano il loro comportamento allo stereotipo attivato. Inoltre, temendo di confermare con la propria prestazione lo stereotipo (Fiske & Taylor, 2009), le persone subirebbero una sorta di “minaccia da stereotipo” (Steele, 1997), la quale consente di predire che l’essere costretti a confrontarsi con auto-stereotipi negativi salienti porterà i membri di un gruppo svantaggiato a peggiorare le proprie performance in un compito per il quale sono stati ritenuti “meno adatti” (Fiske & Taylor, 2009; Wheeler & Petty, 2001).

Per Fiore (2012) la ragione che ci spinge ad adottare e mantenere gli stereotipi non è per una deprecabile [blockquote style=”1″]tendenza all’errore, ma per non rimanere senza schemi e senza aspettative[/blockquote] e questo comporterebbe degli innegabili benefici da un punto di vista cognitivo, in quanto si riescono ad accumulare dati sul mondo che ci circonda assimilando le nuove informazioni a quando precedentemente appreso e già in memoria, per ridurre operazioni complesse ad azioni semplici.

Ciò può avvenire attraverso l’uso di euristiche, semplici strategie cognitive, forme semplificate ed economiche di ragionamento, che costituiscono strumenti in grado di ridurre la complessità degli elementi e di fornire una spiegazione “al meglio” di quanto viene comunicato. Vi è una quantità di informazioni praticamente illimitata alla quale siamo esposti quotidianamente: parte di essa potrebbe essere influente sulle decisioni che si prendono nella vita, ma un’altra parte potrebbe essere di dubbio valore. Per Fiske & Taylor (2009), dati i vincoli temporali, per complessità o mole delle informazioni rilevanti, [blockquote style=”1″]non è realistico che, per formulate i propri giudizi, il pensatore sociale utilizzi strategie esaustive.[/blockquote] In molte circostanze si comporta come una persona che “si accontenta” di effettuare inferenze e decisioni adeguate, piuttosto che come un “ottimizzatore” che cerca di arrivare alle inferenze e alle decisioni che siano le migliori in assoluto.

Il modello sistemico dei disturbi alimentari

Modello sistemico dei disturbi alimentari: Minuchin parla di “famiglia anoressica”, una terminologia che sottolinea ed evidenzia come la famiglia sia al centro dell’attenzione e la paziente designata sia semplicemente la portatrice di un sintomo all’interno di un sistema più complesso. In questo contesto diventa importante osservare e valutare le relazioni che intercorrono nella famiglia, il panorama trigenerazionale, le linee generazionali, i triangoli all’interno della famiglia e i miti che percorrono le famiglie delle anoressiche.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARIIl modello sistemico dei disturbi alimentari – (Nr. 27)

Il modello sistemico dei disturbi alimentari

La terapia sistemico-relazionale e familiare, partendo dalla teoria dei sistemi, si focalizza sui rapporti all’interno della famiglia, sui giochi relazionali e sui sottosistemi familiari.

Minuchin (1984) parla di anoressia come sindrome psicosomatica caratterizzata da sintomi sia di natura fisica sia psichica. Certi tipi di organizzazione familiare sono strettamente correlati allo sviluppo e al mantenimento di sindromi psicosomatiche; non è l’individuo ad essere sintomatico ma il sistema stesso. I confini interni tra i membri sono praticamente assenti (invischiamento), mentre i confini con l’esterno sono molto rigidi.

Minuchin parla di “famiglia anoressica”, una terminologia che sottolinea ed evidenzia come la famiglia sia al centro dell’attenzione e la paziente designata sia semplicemente la portatrice di un sintomo all’interno di un sistema più complesso. In questo contesto diventa importante osservare e valutare le relazioni che intercorrono nella famiglia, il panorama trigenerazionale, le linee generazionali, i triangoli all’interno della famiglia e i miti che percorrono le famiglie delle anoressiche. La famiglia diventa la matrice dell’identità, il luogo dove viene definito il proprio sé.

Il modello sistemico dei disturbi alimentari: la famiglia anoressica

Selvini Palazzoli (2006) prende in considerazione gli stili comunicativi e i modelli interattivi, notando come ogni diversità venga azzerata con una costante opera, dall’esterno, di ridefinizione delle emozioni, che non vengono negate bensì disconfermate. Ogni membro non fa qualcosa perché lo desidera, ma lo fa in rapporto alle esigenze altrui e “per il bene di qualcun altro”. Si parla di “matrimonio a tre” dove ogni membro è come se fosse sposato con due persone: il padre con la madre e la figlia, la figlia con il padre e la madre ecc. Tutto ciò non permetterà alla figlia di condurre una vita autonoma.

A questo quadro si affianca anche la presa in considerazione della realtà intrapsichica, non solo della figlia ma anche della madre, che spesso, sotto l’apparenza esteriore di moglie sottomessa, nasconde idee di ribellione e di abbandono non assecondate solo per paura della condanna sociale.

L’emacipazione del corpo esprime un comportamento paradossale: l’onnipotenza della schiavitù. L’anoressica si sente onnipotente perché attaccando il corpo come un oggetto esterno, possedimento della madre che non riconosce i bisogni altrui, colpisce là dove è riposta la potenza dell’altro; sottrae il suo corpo alla madre in modo che non possa, attraverso il cibo, plasmarlo secondo i suoi desideri.

L’anoressia, dunque, è un disturbo che riflette modalità particolari di funzionamento familiare, quali la tendenza a evitare i conflitti, un atteggiamento eccessivamente protettivo dei genitori nei confronti dei figli, una mancanza di regole chiare e di confini tra i membri della famiglia, da cui risulta un’eccessiva intrusione di ciascuno negli spazi dell’altro. Allo stesso modo, le madri delle ragazze anoressiche sono quasi tutte iperprotettive e dominanti. Sembra che in queste famiglie siano incoraggiati e premiati la disciplina e il successo, più che la conquista dell’autonomia e di una consapevolezza matura. Un’apparente armonia tra i membri della famiglia diventa il modo in cui ci si preserva dall’affrontare i problemi e si mantiene la stabilità.

Il modello sistemico dei disturbi alimentari: la famiglia dei pazienti obesi o bulimici

Anche lo sviluppo dell’obesità e della bulimia sembrano essere collegati a caratteristiche familiari particolari, come la presenza di una madre iperprotettiva e una mancanza di calore, supporto nei confronti del soggetto. Le figlie obese si sentono colpevolizzate, come se non riuscissero a perdere peso per una mancanza di volontà e di controllo. L’invischiamento, ovvero la mancanza di confini, è quella situazione familiare in cui si attribuisce un’importanza fondamentale alla relazione con l’altro. Chi cresce in questa famiglia dà un valore capitale alla relazione con l’altro, quasi che l’altro definisca il sé della persona stessa. Un sistema così chiuso e protetto cela in realtà una forte conflittualità che diventa una dinamica manifesta all’interno della famiglia stessa.

Andando in cerca di un senso di identità e di autonomia, le ragazze non accettano nulla di quanto i genitori o il mondo che le circonda possono offrire; preferirebbero morire di fame piuttosto che continuare una vita di accomodamenti. Invischiamento e iperprottetività vanno nelle famiglie anoressiche di pari passo. Talvolta la figura paterna è in posizione periferica nella famiglia. Gli impegni di lavoro, il modello culturale, ormai superato in una società in cui sia l’uomo sia la donna lavorano fuori casa, lo portano a delegare quasi completamente il compito di seguire i figli alla madre. Questo comportamento paterno può generare nei figli un senso di abbandono e di inadeguatezza, per cui finiscono erroneamente per considerarsi poco importanti per il genitore. Inoltre, durante l’adolescenza, talvolta le figlie entrano in conflitto con la madre, mentre risulterebbe più armonico il rapporto con il padre.

Le ragazze tendono a dipingere un quadro positivo della loro famiglia. Si tratta, in parte, di una negazione diretta dei fatti o del timore di trovarsi costretti a esprimere una critica; ma è anche espressione di eccessivo conformismo: quello che dicono i genitori è sempre giusto e le ragazze si rimproverano di non essere abbastanza buone. In molte famiglie si pone l’accento su un comportamento educato e i genitori sono fieri della loro bambina perfetta che non ha mai manifestato i comuni atti di insubordinazione infantile, come il contraddire, la caparbietà o l’ira. Infatti, la mancata espressione dei sentimenti, specie di quelli negativi, è una regola generale finché non si manifesta il problema e l’antica bontà cede il passo a un negativismo indiscriminato.

Molti giovani si preoccupano dell’impressione che fanno, di quello che la gente penserà e dell’immagine che rimandano alla società. Le famiglie di anoressiche sembrano quadri ben dipinti perfetti, da esporre al mondo. Una pace a tutti costi, un rapporto ostentatamente corretto e rispettoso quasi una caricatura dello stesso: se si osservassero attentamente le dinamiche interne, le disconferme tra i diversi membri e le squalifiche apparirebbero continue. Esiste la possibilità che nelle famiglie anoressiche esista una polarità semantica di fondo “vincente/perdente” e questa squalifica rappresenterebbe esattamente la necessità di uscire vittorioso dalla lotta.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

 

Dipendenza da cocaina e ricadute: la rilevazione dell’elettricità corticale

Una nuova ricerca condotta alla Mount Sinai School of Medicine (MSSM) di New York City, indica che gli adulti dipendenti da cocaina possono essere più vulnerabili alle ricadute negli intervalli di tempo compresi tra due giorni e un mese di astinenza, e tra uno e sei mesi.

Questo è quanto risultato dalle rilevazioni condotte tramite elettroencefalogramma (EEG). I risultati della ricerca, pubblicati sulla rivista JAMA Psychiatry, mostrano come il periodo più intenso per la brama della sostanza, corrisponde paradossalmente con il periodo di rilascio dai trattamenti per la tossicodipendenza.

Per oltre cinque anni e mezzo, il team di ricerca ha raccolto i dati provenienti da registrazioni EEG di 76 adulti dipendenti da cocaina, in diverse fasi di astinenza (due giorni, una settimana, un mese, sei mesi e un anno). L’elettroencefalogramma è stato effettuato mentre i partecipanti stavano esaminando diversi tipi di immagini, comprese scene di individui che simulavano l’uso di cocaina (ricerca, preparazione, assunzione). In seguito a questa fase veniva richiesta la compilazione di un questionario self-report al fine di valutare il loro livello di desiderio durante la visione di tali immagini.

Discussione dei risultati

E’ stato il primo studio che ha utilizzato un EEG per quantificare il livello di attivazione cerebrale indotto dal desiderio per la sostanza in soggetti cocainomani. Studi precedenti erano stati condotti solo su popolazioni animali.

Il risultato più interessante dello studio, è stato rilevare la mancanza di correlazione tra le misure di attivazione registrate dall’EEG e le affermazioni self-report. Mentre queste ultime segnalavano una diminuzione della percezione del desiderio con l’aumentare della durata dell’astinenza, i dati dell’EEG hanno provato il contrario, ossia che l’attivazione fisiologica era più alta.

[blockquote style=”1″]I nostri risultati sono importanti perché identificano un periodo oggettivamente accertato di vulnerabilità alle ricadute[/blockquote] dice Muhammad Parvaz, autore principale dello studio. [blockquote style=”1″]Purtroppo, questo periodo di vulnerabilità, coincide con la finestra di scarico della maggior parte dei programmi di trattamento, aumentando forse la propensione dei pazienti alle ricadute.[/blockquote]

[blockquote style=”1″]I risultati di questo studio sono allarmanti, in quanto suggeriscono che molte persone alle prese con la tossicodipendenza, vengono rilasciate dai programmi di trattamento nel momento in cui hanno un maggiore bisogno di supporto[/blockquote] ha detto Rita Goldstein, professore di psichiatria e neuroscienze presso la MSSM.[blockquote style=”1″] I nostri risultati potrebbero, nel prossimo futuro, guidare per mettere a punto nuove strategie di trattamento alternative, più individualizzate e funzionali, riguardo alle tempistiche di azione e conclusione del trattamento.[/blockquote]

La relazione tra alimentazione ed esperienze sociali nei primi anni di vita

Secondo uno studio pubblicato all’interno di Proceedings of the National Academy of Sciences i bambini, durante il pasto prestano molta attenzione al cibo che viene mangiato dalle persone che stanno loro intorno, e soprattutto al cibo che loro stessi mangiano. Inoltre all’interno dello studio si parla di un crescente corpo di ricerca, il quale suggerisce che i bambini molto piccoli sono in grado di pensare in maniera sofisticata ai diversi spunti sociali che gli si presentano.

Lo studio

La ricerca ha evidenziato che i bambini, quando sono a tavola, fanno molto di più dell’apparente giocare con il biberon o con gli oggetti che trovano a portata di mano.

Gli autori hanno osservato che i bambini di 1 anno possiedono aspettative sulle persone che equivalgono a quelle che possiedono per il cibo, a meno che queste persone appartengano a diversi gruppi sociali o culturali (ad es. parlare una lingua differente). Come ha dichiarato Kinzler, una co-autrice dello studio, lo studio sottolinea quanto le nostre scelte alimentari siano strettamente collegate al nostro pensiero sociale.

[blockquote style=”1″]Nei primi anni di vita i bambini sono sensibili ai gruppi culturali. Quando i bambini vedono qualcuno mangiare, non stanno solo imparando a conoscere il cibo, ma imparano anche a conoscere chi mangia cosa con chi. Questo perché la capacità di formulare attribuzioni sulle persone come “uguale o diversa”, e “noi o loro” compare molto precocemente[/blockquote] ha dichiarato Kinzler.

Kinzler, Liberman, Woodward e Sullivan, hanno impostato una serie di studi in cui hanno mostrato a più di 200 bambini dell’età di 1 anno una serie di video raffiguranti persone che esprimevano pareri di simpatia o antipatia sugli alimenti. Quando i bambini vedevano due persone che parlavano la stessa lingua o che agivano come se fossero amici, i bambini si aspettavano che ai due protagonisti piacessero gli stessi cibi. Quando invece vedevano due persone che parlavano lingue diverse o che agivano come se fossero nemici, i bambini si aspettavano che ai due protagonisti piacessero cibi differenti.

Gli studi hanno approfittato di un fatto ben noto in psicologia dello sviluppo: i bambini prestano maggior attenzione ad azioni nuove o a cose che si discostano dalle loro aspettative generali del mondo.

Lo studio inoltre ha evidenziato che i bambini hanno un pensiero leggermente diverso quando si tratta di alimenti che li possono danneggiare. Quando i bambini vedevano una persona disgustata dal mangiare un determinato cibo, si aspettavano che anche la seconda persona sarebbe stata disgustata da quel cibo, anche nel caso in cui la seconda persona faceva parte di un gruppo sociale diverso. Ciò suggerisce che i bambini potrebbero essere particolarmente vigili relativamente alle informazioni sociali che potrebbero segnalare pericolo.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che vi sono discrepanze tra i vari bambini relativamente a ciò che essi identificano come differenze culturali significative. Mentre per i bambini monolingue persone che parlano lingue diverse mangiano cibi differenti, per i bambini bilingue le persone che parlano lingue diverse potrebbero mangiare gli stessi cibi. Kinzler ha ipotizzato che questo avvenga in quanto i bambini bilingue potrebbero aver sperimentato una situazione simile in casa, dove sono presenti persone che parlano lingue diverse riunite intorno allo stesso tavolo.

Conclusioni

Pertanto è importante che i genitori tengano in considerazione il fatto che quando mangiano tutti insieme, i loro bambini li stanno osservando. Alimentare il proprio bambino con la dieta perfetta, mentre allo stesso tavolo genitori e amici si nutrono con del cibo spazzatura è piuttosto inutile, in quanto in quel momento il bambino sta imparando qualcosa sul cibo e sulle esperienze sociali delle persone che lo mangiano.

Assunzione di cannabis e ridotta motivazione a guadagnare tramite il lavoro

Un nuovo articolo pubblicato su Psychopharmacology dimostrerebbe in maniera affidabile gli effetti a breve termine del consumo di cannabis sulla motivazione negli esseri umani. Infatti, secondo i risultati di questo studio, fumare l’equivalente di uno spinello di cannabis renderebbe la gente meno disposta a lavorare per soldi.

 

Lo studio

Nel presente studio sono stati reclutati 57 volontari. Nella prima parte dell’esperimento 17 soggetti che avevano utilizzato cannabis di tanto in tanto, inalavano vapori di cannabis o cannabis-placebo (vapore acqueo) in condizioni separate. Subito dopo completavano un compito progettato per misurare la loro motivazione a guadagnare soldi. In ogni prova i volontari potevano decidere se completare le attività a basso o alto sforzo per vincere diverse somme di denaro.

I risultati mostravano che le persone sotto l’effetto della cannabis erano significativamente meno propense a scegliere l’opzione ad alto sforzo.

Nella seconda parte dello studio, 20 persone dipendenti da cannabis venivano abbinate a 20 partecipanti del gruppo di controllo che avevano riportato il medesimo pattern di consumo di altre droghe (esclusa la cannabis). I partecipanti non potevano consumare altre droghe all’infuori del caffè e del tabacco nelle 12 h antecedenti lo studio e completavano lo stesso compito assegnato al gruppo della prima parte dello studio.
I risultati evidenziavano come non ci fossero differenze nella motivazione tra i volontari cannabis-dipendenti e il gruppo di controllo.

 

Conclusioni

Quindi i ricercatori inizialmente avevano ipotizzato che la cannabis potesse inficiare la motivazione dei soggetti se consumata per lunghi periodi. Questa ipotesi è stata però scartata quando i ricercatori hanno confrontato le persone dipendenti da cannabis con i soggetti del gruppo di controllo, entrambi quando non avevano assunto cannabis, concludendo che non vi era alcuna differenza nei livelli di motivazione. Sembrerebbe quindi che l’utilizzo di cannabis a lungo termine non comporterebbe problemi di motivazione residui. Sottolineiamo però che questi risultati non sono sufficienti per affermare con sicurezza l’assenza di effetti sulla motivazione; occorreranno infatti delle ricerche longitudinali.

Il primo giorno di scuola: differenze tra passato e modernità

Il primo giorno di scuola con la sua ritualità ci protegge. Ma anche con il suo valore iniziatico. Forse soprattutto il primo giorno del primo anno di elementari, in cui ci si separa da quello dei genitori che ci accompagna a scuola. Nella mia infanzia si era lasciati incustoditi più facilmente e più precocemente, almeno così mi pare di ricordare, e andai da solo al mio primo giorno di elementari. Oggi mi pare non più, anche perché non si ha più la sensazione di vivere in un quartiere in cui ci si conosce in po’ tutti.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 10/09/2016

I rituali del primo giorno di scuola

Non so se il primo giorno di scuola sia un rito di iniziazione, un ingresso in un’età adulta. Primo giorno di quale scuola, poi? Delle elementari, delle medie, delle superiori? E di quale anno? Dal primo anno delle scuole elementari all’ultimo delle superiori si srotola negli anni un nastro di primi giorni che prolunga per tutta l’infanzia e l’adolescenza una periodica iniziazione.

Mancando un rito vero e proprio, una separazione netta che ci separi dalla nostra immaturità pilucchiamo qua e là occasioni che lentamente ma mai del tutto ci fanno proseguire nel nostro viaggio. Eppure pare che questi eventi rinnovati aiutino a controllare le condotte più disturbate. Il solito studio di psicologia cin informa che i più gravi disturbi infantili e giovanili, i terribili disturbi di carenza dell’attenzione e iperattività (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, ADHD), della condotta (Conduct Disorder, CD) e oppositivo provocatorio (Oppositional Defiant Disorder, ODD) si sviluppano in ambienti degradati, in cui queste scansioni rituali del tempo, della giornata e dell’anno, sono assenti.

 

I riti del passato e le differenze col presente

Così il primo giorno di scuola con la sua ritualità ci protegge. Ma anche con il suo valore iniziatico. Forse soprattutto il primo giorno del primo anno di elementari, in cui ci si separa da quello dei genitori che ci accompagna a scuola. Nella mia infanzia si era lasciati incustoditi più facilmente e più precocemente, almeno così mi pare di ricordare, e andai da solo al mio primo giorno di elementari. Oggi mi pare non più, anche perché non si ha più la sensazione di vivere in un quartiere in cui ci si conosce in po’ tutti. Che non si vivesse più in quartieri che erano piccoli paesi era già nell’infanzia di noi cinquantenni; già si viveva in grandi condomini spersonalizzanti, ma si andava avanti per inerzia con la vecchia mentalità di reciproca confidenza, le case di ringhiera a Milano o i bassi a Napoli. Oggi credo che tutti siano accompagnanti dalle mamme o dai papà alle elementari, e ci si liberi della tutela solo alle scuole medie e anche dopo. Ma sono impressioni, non ho dati da offrire.

Immaginiamo che un tempo fosse diverso, che queste cerimonie avessero un potere che le portava oltre la nudità dell’evento. In realtà non lo sappiamo, non ne sappiamo un bel nulla. Immaginiamo, appunto, ci beiamo di fantasie mitiche. E a loro volta quelle cerimonie rimandavano a miti, ovvero in fondo a fatti, a eventi accaduti. Quindi il cerchio si chiude: eventi sepolti nel tempo diventarono cerimonie rituali da ripetere ogni anno. E cerimonie ripetute ogni anno persero nel tempo ogni significato, diventando eventi annuali vissuti nella loro semplicità. Come il primo giorno di scuola. Quindi ora, nel presente, viviamo di nuovo nel mito? E il passato, che ci sembra mitico, invece si svolgeva dopo il mito?

In età romana la cerimonia che dava accesso alla maturità consisteva nella concessione al ragazzo acerbo di una veste, la toga virilis che andava a sostituire la toga praetexta, indossata per tutta la prima giovinezza e orlata di una fascia purpurea. La cerimonia avveniva al compimento di un certo anno di età, il quattordicesimo secondo alcune fonti, il diciassettesimo secondo altre. Veste che era dono del padre del ragazzo. E il permesso di indossarla significava il primo ingresso nel foro e nella vita pubblica da cittadino libero e adulto. Non so se questo accesso era vissuto con l’ansia del primo giorno di scuola. Probabilmente si.

Questa iniziazione a lungo desiderata avveniva in un giorno ben noto dell’anno, alla metà di marzo, giorno in cui cadevano insieme due feste e che quegli uomini antichi chiamavano “il sedicesimo giorno precedente le calende di aprile” (ante diem sextum decimum Kalendas Apriles). Era un giorno al crocevia tra l’inverno e le stagioni più temperate, un giorno in cui le menti degli uomini già presentivano la primavera. Era l’anno agricolo, in cui d’inverno ci si riposava insieme alla terra non coltivata e nei mesi temperati e caldi si lavorava. Che differenza con l’anno moderno e industriale, che come ben sappiamo inizia a settembre. Al giorno d’oggi ci si riposa d’estate e si lavora nei mesi freddi. È vero che il calendario ancora porta l’eredità di quelle età passate, dato che esso inizia a gennaio, nel profondo del freddo invernale. Ma è solo un residuo. Il vero capodanno è a settembre, quando si torna al lavoro e si iniziano le scuole. Con il primo giorno di scuola inizia l’anno, e questo è uno dei suoi significati rituali.

Quel giorno antico di marzo ospitava due feste. La prima erano gli Agonalia, festa in cui un sacerdote che portava un nome regale, il Rex Sacrorum -poiché in un tempo antichissimo e dimenticato questo sacerdote era stato Re degli uomini e dello Stato, ma poi egli aveva visto il suo dominio contrarsi alle sole cose sacre e si era ridotto da re a prete- sacrificava un capro a molti dei. Ora, questi dei erano tanti, un popolo numeroso, di un numero talmente elevato che nessuno poteva dire di conoscerli tutti. Ma di questi almeno quattro erano noti a ognuno. Il primo era Giano (Janus), il Dio bifronte e italico, colui che custodiva la pace ma sapeva senza titubanza aprire la porte alla guerra, quando necessario. Lo seguiva in processione Liber Pater, il padre Libero o Bacco, Dio non solo del vino, ma anche della benedetta fecondità. Dopo accorreva Vedovius, dio bizzarro e oscuro, ben conosciuto solo agli appassionati di storie e cose religiose, sfaccendati che raccontavano storie in piazza e sapevano dirti che questo Vedovius era un tipo dalle amicizie molteplici e contraddittorie, essendo assiduo sia della casa celeste Giove che della reggia sotterranea di Plutone. Ultima infine appariva in processione l’immagine del Sol Indiges, il Sole indigeno e ancestrale della città.

Ma questa era solo la prima delle due feste. La seconda festa erano i Liberalia, la festa del già menzionato dio Liber Pater. I Liberalia erano una festa popolare, celebrata non sulla sacralità separata e altezzosa degli altari dei grandi templi nel Foro, ma nelle case e per le strade, da donne che su banchetti di legno preparavano piccoli pani insaporiti con miele e poi, coronate di edera, agendo come sacerdotesse del dio, li offrivano ai passanti. E così nelle case le matrone facevano lo stesso in riti domestici, offrendo i loro piccoli pani mielati ai figli e al marito.

 

Considerazioni

Mi chiedo se queste mamme che portano i loro bimbi e le loro bimbe a scuola siano differenti da quelle donne che offrivano piccoli pani al miele su banchetti di legno. È una domanda oziosa finché non capita che, andato oggi che è venerdì 9 settembre accompagnando mio figlio all’Istituto dove ha il suo primo giorno, non incontriamo nell’atrio delle donne che offrono dolci a chi arriva. Probabilmente brioscine al cioccolato. Non ho osato controllare se ci fossero dolci al miele. Beh, queste madri in fondo sono simili alle loro antenate che festeggiavano l’ingresso alla maggiore età dei figli. Mentre vado via mi viene in mente che nello stesso giorno nelle campagne si tenevano processioni sacre alla rinnovata fertilità della terra, portando in giro grossi falli scolpiti nel legno.

Il disturbo ossessivo compulsivo e l’alto rischio di suicidio

Un recente studio pubblicato su Molecular Psychiatry ha stabilito che i pazienti affetti da Disturbo Ossessivo-Compulsivo (OCD) siano 10 volte più a rischio di commettere suicidio rispetto alla popolazione generale.

Ogni anno circa 800’000 persone nel mondo si tolgono la vita (1,4% delle morti); i soggetti affetti da patologie mentali sono esposti ad un rischio maggiore di suicidio e tra chi commette suicidio circa il 90% soffre di un disturbo mentale.
Tuttavia, ben poca attenzione è stata dedicata al rischio di suicidio tra le persone colpite da OCD, per altro uno dei disturbi psichiatrici più comuni (Ruscio, Stein, Chiu & Kessler, 2010). Infatti, il disturbo ossessivo-compulsivo colpisce circa il 2% della popolazione generale (Ruscio et al., 2010), ha solitamente un decorso cronico e si associa ad una minore qualità di vita.

Storicamente il OCD è stato considerato un disturbo a relativo basso rischio di suicidio. Tuttavia, questa evidenza deriva principalmente da un ridotto numero di studi dai campioni piuttosto piccoli (Coryell, 1981; Goodwin, Guze, & Robins, 1969; Kringlen, 1965) e di questi inoltre il follow-up generalmente era breve e perciò insufficiente ad identificare un reale rischio di suicidio per questa patologia. Un recente studio epidemiologico ha concluso che gli individui con OCD (n = 10155) hanno un rischio triplo di suicidarsi rispetto ai controlli (Meier, Mattheisen, Mors, Schendel, Mortensen & Plessen, 2016).

 

Lo studio

Nel tentativo di fornire stime più accurate del rischio di suicidio tra questi pazienti e identificare i fattori di rischio e di protezione associati allo stesso, i ricercatori del Karolinska Istitutet in Svezia hanno analizzato 36788 soggetti contenuti nello Swedish National Patient Register (1969-2013). Stando ai risultati dello studio, 545 soggetti si erano suicidati e 4297 avevano tentato di farlo; il rischio di morte, quindi, era circa 10 volte superiore a quello della popolazione generale, mentre il rischio di suicidio circa 5 volte superiore. Dopo aver controllato l’effetto degli altri disturbi psichiatrici presenti (sebbene il 43,49% dei soggetti suicidatisi non riportavano altri disturbi in comorbilità), il rischio risultava inferiore, ma comunque la differenza con la popolazione di riferimento era sostanziale. La soluzione primariamente scelta per togliersi la vita risultava l’avvelenamento (ad es., overdose di psicofarmaci prescritti), sia per gli uomini che per le donne.

Tra la coorte di pazienti OCD, i precedenti tentativi di suicidio erano i predittori più affidabili del rischio di morte per suicidio, stabilendo, quando presenti, un rischio cinque volte superiore alla norma. Anche avere un disturbo di personalità o una dipendenza da sostanze in comorbilità aumentava il rischio di suicidio del 40-82%. Contrariamente, avere un disturbo d’ansia o possedere uno status socioeconomico elevato si configuravano come fattori protettivi.

 

Conclusioni

I ricercatori hanno perciò concluso che il disturbo ossessivo-compulsivo è in effetti un disturbo associato ad un significativo rischio di suicidio, anche in assenza di altre condizioni psichiatriche in comorbilità, al pari di altri disturbi come schizofrenia, disturbo bipolare, disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) e superiore a quello del disturbo post-traumatico da stress (PTSD) o alla dipendenza da alcol.

Identificare i fattori di rischio associati al suicidio risulta fondamentale per sviluppare protocolli taylor-made di intervento atti alla riduzione di tale rischio. Come infatti risulta dalla letteratura di riferimento, strategie di prevenzione come ridurre la prescrizione di psicofarmaci potenzialmente letali se assunti in grande quantità, incoraggiare il self-help, incrementare l’aiuto fornito da clinici, educatori e terze parti, hanno mostrato una buona efficacia nel prevenire il suicidio (Mann et al., 2005; Pirkis, San Too, Spittal, Krysinska, Robinson & Cheung, 2015). Tuttavia queste strategie non sono specifiche per i pazienti OCD e per tale motivo i futuri studi avranno l’onere di stabilire quale metodologia risulta maggiormente efficace per questo tipo di pazienti.

Uno sguardo su La fluidità sessuale. La varianza dell’orientamento e del comportamento sessuale, di Dettore e Lambiase

La fluidità sessuale: a distanza di 5 anni dalla sua pubblicazione, questo testo, l’unico in Italia nel suo campo di indagine, porta ad una riflessione estremamente attuale. Scritto da Davide Dèttore e Emiliano Lambiase, entrambi psicologi, psicoterapeuti ed esperti in campo sessuologico, tra le loro pubblicazioni troviamo Il disturbo dell’identità di genere (Dèttore, 2005), La disforia di genere in età evolutiva. Implicazioni cliniche, sociali ed etiche (Dèttore, Ristori, Antonelli, 2015), Omosessualità e psicoterapie. Percorsi, problematiche e prospettive (Lambiase, Cantelmi, 2009).

Greta Riboli

 

Questo saggio, strutturato in tre capitoli, tratta in particolare la fluidità dell’orientamento sessuale, passando in rassegna i maggiori studi sull’argomento. «Da questa breve rassegna bibliografica emerge come l’orientamento sessuale per molte persone non sia rigidamente fissato, o non venga percepito come tale, ma possa subire delle variazioni nel corso del tempo».

Nel primo capitolo, nonostante il focus del libro sia l’orientamento sessuale, vengono illustrati alcuni concetti fondamentali dell’identità sessuale, tra cui l’identità di genere e l’identità di orientamento sessuale, opportunamente distinta dall’orientamento sessuale [per una descrizione della terminologia vedere il glossario, NdR]. Questa scelta è dettata dal fatto che una giusta analisi dell’orientamento sessuale non può prescindere dalle altre componenti, sebbene non coincida con esse. «L’orientamento sessuale, infatti, è in parte, ma non del tutto, legato all’identità e al ruolo di genere e ne è altrettanto dipendente in un circuito “riverberante” di cui è impossibile determinare il punto di inizio».

Il secondo capitolo risulta essere il perno del libro. Gli autori hanno scelto e riportato alcuni tra gli studi condotti sulla fluidità dell’orientamento sessuale, a livello principalmente psicologico, ma anche sociologico e antropologico. Rispetto ad altri argomenti, il tema della sessualità fluida è stato poco indagato; le maggiori ricerche psicologiche sono state pubblicate negli USA a partire dal corrente millennio. Per quanto riguarda l’ambito sociologico e antropologico il materiale si riduce ulteriormente, probabilmente in quanto fino agli anni ’70 i comportamenti non eterosessuali non venivano considerati legittimi campi di indagine.

Un’ulteriore analisi viene condotta sulla metodologia utilizzata negli studi riportati. Gli autori notano come spesso gli strumenti di valutazione siano soggettivi, e presentano, a questo proposito, le tecniche oggettive di valutazione fisiologica utilizzate ad oggi e gli interessanti risultati raggiunti: durante la visione di immagini e filmati che riproducono diverse scene, alcune di queste erotiche “le donne rispondono primariamente alle attività sessuali eseguite dagli attori, mentre gli uomini rispondono primariamente al genere degli attori”.

Il terzo ed ultimo capitolo è strettamente connesso al secondo, ed ha lo scopo di illustrare diverse ipotesi di funzionamento della sessualità fluida. Alcuni ricercatori avanzano ipotesi principalmente legate alla maggiore fluidità sessuale femminile e ne rintracciano le cause tra fenomeni psicologici, ad esempio legate al fatto che l’amore non ha orientamento e può determinare desiderio sessuale, socio-culturali, come la differenza di potere tra uomini e donne, o biologici, ipotizzando la sessualità come fattore predisposto a livello genetico dal cromosoma X e legato ai cicli e ai livelli ormonali. Inoltre vi è chi rintraccia le cause della variabilità sessuale a livello cognitivo «c’è una forma di apertura cognitiva (… che) permetterebbe la manifestazione del potenziale bisessuale che, secondo gli autori, è in ognuno di noi». Essi «ritengono che il processo centrale per produrre uno schema di genere aperto includa l’abilità di “rompere” cognitivamente la connessione tra il genere e la preferenza sessuale».

Merito di Dèttore e Lambiase è aver selezionato ed organizzato in un libro di un centinaio di pagine gli studi più significativi, dando al lettore gli elementi essenziali, ma non per questo incompleti, per approcciarsi al tema della sessualità fluida e ad un suo eventuale approfondimento tramite la lettura della bibliografia citata. Gli autori confrontano i dati emersi dalle diverse ricerche, li mettono in rapporto e li discutono anche in base al proprio punto di vista, il quale prende un maggiore spazio nelle conclusioni. Nella sezione finale vengono introdotti alcuni spunti di psicologia clinica, per sottolineare l’assenza di valutazioni psicologiche dei partecipanti agli studi riportati, e di psicologia evolutiva, circa il rapporto tra attaccamento e sessualità.

L’intervento degli autori rende il libro non una semplice e ben strutturata sintesi di alcuni studi, ma un saggio dall’autonomia propria. Risulta per questo motivo una lettura scorrevole e di significativa importanza per un pubblico di psicologi e non solo, in un ambiente, come quello italiano, in cui il tema della sessualità fluida non occupa uno spazio di riflessione privilegiato. In conclusione, gli autori propongono una riflessione, in accordo con le linee dell’APA (2009) e dell’Ordine degli psicologi della Lombardia (2010), sulle terapie riparative: «dire che l’orientamento sessuale “può” cambiare è molto diverso dal dire che “si può” cambiare».

 

Recensione a cura di Greta Riboli, fluIDsex

 

 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

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