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Imparare giocando: le strategie di apprendimento basate sul gioco nel passaggio all’età scolare

Il gioco indirizzato dall’adulto o “guided play” può essere efficace nel promuovere l’apprendimento (Skolnik Weisberg et al., 2013). Questo tipo di metodo prevede un apprendimento centrato sul bambino, che ha un ruolo centrale nella scelta delle attività; il gioco in questo caso è tuttavia introdotto e stimolato anche dall’adulto, che dà il via al processo didattico, stabilisce gli obiettivi e cerca di monitorare il procedimento, mantenendo l’ attenzione sugli scopi stabiliti.

Chiara Arlanch, OPEN SCHOOL PSICOTERAPIA COGNITIVA E RICERCA 

L’importanza del gioco nello sviluppo dei bambini

La letteratura scientifica è unanime nel considerare le attività di gioco molto importanti per lo sviluppo dei bambini: la crescita è un processo lungo e complesso ed è influenzata da fattori interni ed esterni alla persona e da molteplici figure che ruotano attorno al bambino.

Fin dai primi mesi dopo la nascita il bambino inizia a giocare, in parte spontaneamente e in parte perché molto sollecitato da ambiente e adulti. Ogni piccolo progresso che effettuerà lo aiuterà a diventare un adulto competente sotto vari punti di vista: riuscirà probabilmente a trovare e mantenere un lavoro, ad avere relazioni affettive significative, a coltivare i propri interessi e a prendersi anche cura della propria salute; molti sforzi per allenarsi ad essere dei veri e propri adulti avvengono proprio nei primi anni di vita.

Sembra dunque importante che questi piccoli primi tentativi di imparare vengano favoriti e incoraggiati, poiché tramite l’attività ludica un bambino può esplorare e scoprire la realtà e la persona che vuole diventare. La società odierna sottovaluta spesso l’importanza del ruolo del gioco per lo sviluppo dei bambini, come emerge da molteplici articoli che trattano la tematica: avere una maggiore consapevolezza del ruolo del gioco nel favorire l’apprendimento può portare miglioramenti anche all’interno di una classe. I bambini potrebbero imparare meglio, più in fretta e in modo più incisivo se utilizzano il gioco nei loro apprendimenti quotidiani, anche all’interno delle classi scolastiche, partendo dalla scuola dell’infanzia fino alle scuole elementari ed oltre. Soprattutto nelle fasce d’età dai tre ai dieci anni sembra che il gioco assuma un ruolo fondamentale nella vita del bambino, diventando spesso l’attività che più ne assorbe cuore e mente. Un maggiore utilizzo di strategie di gioco all’interno della scuola potrebbe favorire una maggiore motivazione intrinseca nel bambino, che può arrivare ad essere veramente coinvolto e interessato nell’apprendimento, non vedendolo come un dovere. In seguito verranno riportate alcune recenti ricerche sull’argomento, che affrontano tematiche relate al ruolo del gioco nell’educazione attuale.

 

Evidenze multiculturali sull’importanza del gioco per l’apprendimento

Lo studio sperimentale condotto da Lillemyr e colleghi nel 2011 indaga le correlazioni tra gioco e apprendimento, comparando studenti di scuole primarie provenienti da diversi Stati. La ricerca multiculturale ha lo scopo di analizzare somiglianze e differenze tra millesettantasei studenti di terza e quarta elementare, con età comprese tra gli otto e gli undici anni. Gli allievi coinvolti nello studio provengono da Stati Uniti, Australia e Norvegia e possono essere suddivisi in studenti con provenienza indigena (come ad esempio Indiani Navajo, Aborigeni o Samì) e studenti occidentali (anglo-americani, anglo-australiani e norvegesi); lo studio è stato condotto somministrando agli studenti dei questionari quantitativi e interviste qualitative semistrutturate per indagare interessi, motivazione e concetto di sé e attitudini alla partecipazione attiva. Dalla ricerca di Lillemyr e colleghi emerge un forte interesse per il gioco libero presente in tutte le culture coinvolte, evidenziando l’importanza rappresentata dal gioco in svariati background culturali.

Gli studenti di popolazioni non-indigene in generale hanno dimostrato un atteggiamento più positivo nei confronti di gioco e apprendimento libero; lo studio rileva tuttavia l’assenza del gioco in classe, soprattutto negli Stati Uniti e in Australia, anche se molti studenti sottolineano l’importanza che per loro avrebbe avuto il poter giocare in classe, in favore di un miglior apprendimento (Lillemyr et al., 2011). Gli autori evidenziano la rilevanza di includere il gioco e l’attività libera nell’apprendimento scolastico; cruciale è per loro promuovere una buona autostima negli allievi, come piattaforma per stimolare l’interesse nei confronti della scuola, alternando il più possibile attività di apprendimento e di gioco, anche in ambienti sociali, favorendo la partecipazione attiva e un senso di competenza sociale. Emerge come insegnanti e dirigenti purtroppo sottovalutino le evidenze della letteratura e la rilevanza che avrebbe il gioco per l’apprendimento, soprattutto in Stati Uniti e Australia (Lillemyr et al., 2011).

 

Le credenze degli insegnanti della scuola d’infanzia sul ruolo del gioco nell’apprendimento

La ricerca di Lynch (2015) ha evidenziato le percezioni di insegnanti di scuola d’infanzia riguardanti il gioco. La letteratura sottolinea l’importanza delle attività di gioco svolte alla scuola d’infanzia, poiché possono creare miglioramenti nello sviluppo cognitivo, sociale, motorio e linguistico dei bambini. L’attività ludica facilita infatti creatività, abilità di manipolazione, abilità socio-emotive, aumenta il vocabolario, la cooperazione e i comportamenti socialmente adeguati (Eberle, 2011; Lynch, 2015). Ciò nonostante è stato riportato un decremento nella frequenza delle attività di gioco messe in atto all’interno delle classi della scuola d’infanzia.

Lo studio di Lynch (2015) ha analizzato le opinioni di maestri di scuola d’infanzia tramite messaggi derivati da forum online scritti dagli insegnanti, riguardanti le attività di gioco: sono state individuate settantotto discussioni, scritte principalmente da donne, insegnanti della scuola d’infanzia, provenienti soprattutto dagli Stati Uniti, con molta o poca esperienza lavorativa, assunti in scuole pubbliche. Dalla maggior parte dei messaggi emerge che gli insegnanti vorrebbero inserire maggiormente attività di gioco all’interno della classe, ma che le maestre non riescono a far giocare molto i bambini per svariate ragioni (Lynch, 2015). Le conversazioni mettono in evidenza alcune opinioni negative sull’attività di gioco, espresse da dirigenti o genitori; il gioco spesso è ritenuto un’attività che sottrae tempo all’insegnamento accademico di tipo carta e matita.

Emerge da questo studio che le maestre di scuola d’infanzia subiscono pressioni e influenze da parte delle persone che li circondano. Gli stessi insegnanti infatti, spesso di scuola elementare o scuola media, comunicano disappunto al pensare alla scuola d’infanzia improntata sull’attività ludica; spesso le maestre sentono delle lamentele, da parte di genitori preoccupati che i bambini possano arrivare impreparati alla scuola elementare. Anche i dirigenti di scuola d’infanzia mostrano spesso disapprovazione di fronte alla presenza di gioco o materiali ludici nelle classi. Frequentemente i dirigenti pur non avendo generalmente esperienza nella gestione di scuola d’infanzia invitano le maestre a limitare i giochi, a riprendere le attività carta e matita, a ridurre recite o canzoni, perché ritenute una perdita di tempo (Lynch, 2015). Dai messaggi estratti dai forum online, le maestre inserite in scuole che favoriscono l’apprendimento tramite il gioco si ritengono fortunate, perché non subiscono eccessive pressioni da colleghi e genitori dei bambini. Lo stesso sistema scolastico spesso incita gli insegnanti di scuola d’infanzia a limitare le attività ludiche e materiali di gioco, tenendo i bambini sempre impegnati nell’apprendimento: le maestre pensano spesso che chi ha il potere decisionale all’interno della società in realtà non sa molto di apprendimento e non conosce le evidenze della letteratura, che mette in luce l’importanza del gioco per l’apprendimento dei bambini (Lynch, 2015).

 

Le credenze dei genitori sul ruolo del gioco nell’apprendimento

Manz e Bracariello (2015) hanno recentemente pubblicato una ricerca correlazionale, che analizza l’associazione tra credenze dei genitori sul ruolo del gioco e il loro coinvolgimento nel processo di apprendimento dei figli.

Nello studio sono stati coinvolti duecentodue bambini piccoli tra i due e i tre anni, che appartenevano a famiglie con svantaggio socio-culturale; nel periodo in cui è stata effettuata la ricerca erano in corso delle valutazioni per verificare l’eventuale necessità di un intervento domiciliare per aiutare la famiglia (Manz & Bracariello, 2015). I genitori hanno compilato un questionario per analizzare le credenze riguardanti l’importanza dei giochi messi in atto dai loro figli per lo sviluppo linguistico e sociale e per la preparazione alla scuola; sono inoltre stati indagati i pensieri sui comportamenti messi in atto dagli stessi genitori nel giocare con i bambini. Sono inoltre state raccolte varie credenze dei genitori emerse durante dei colloqui in piccolo gruppo. Un altro questionario è stato somministrato ai genitori, per valutarne la frequenza di comportamenti messi in atto per favorire l’apprendimento dei bambini, in situazioni domestiche o di comunità. E’ stata quindi valutata la frequenza di sforzi attivi nel condividere libri, attività creative, giochi vari (Manz & Bracariello, 2015).

Dalla ricerca è emersa una correlazione positiva tra le credenze dei genitori sull’importanza del gioco e il loro coinvolgimento effettivo in attività di gioco e apprendimento. Più i genitori hanno riconosciuto l’importanza del ruolo del gioco per lo sviluppo del proprio bambino, maggiormente hanno iniziato a giocare con i bambini in modo attivo, per favorirne l’apprendimento, di nuovi vocaboli e abilità socio-emotive. Questi risultati suggeriscono come sia molto importante incoraggiare i genitori a giocare con i propri figli per favorirne lo sviluppo. Il questionario della ricerca potrebbe aiutare a mettere in luce credenze di genitori che magari non riescono a capire la rilevanza del gioco per lo sviluppo dei bambini, e che quindi potrebbero essere incoraggiati a riflettere sul ruolo del gioco (Manz & Bracariello, 2015). I risultati suggeriscono l’importanza delle credenze dei genitori, che se convinti della centralità del gioco per i propri figli, potrebbero essi stessi promuovere una maggior frequenza di attività di gioco anche attuate all’interno delle scuole; questo potrebbe avvenire solo se il genitore credesse veramente nella rilevanza del gioco per lo sviluppo del proprio bambino.

 

L’importanza del gioco guidato dall’adulto

Il gioco indirizzato dall’adulto o “guided play” può essere efficace nel promuovere l’apprendimento (Skolnik Weisberg et al., 2013). Questo tipo di metodo prevede un apprendimento centrato sul bambino, che ha un ruolo centrale nella scelta delle attività; il gioco in questo caso è tuttavia introdotto e stimolato anche dall’adulto, che dà il via al processo didattico, stabilisce gli obiettivi e cerca di monitorare il procedimento, mantenendo l’ attenzione sugli scopi stabiliti.

L’ adulto può fare domande aperte, esplorare i materiali, commentare le riflessioni o giocare assieme al bambino: questo tipo di apprendimento si distingue dal gioco libero (in cui il bambino sceglie scopi e attività autonomamente), ma anche dall’insegnamento diretto dall’adulto (che spiega in modo dominante di fronte ad un allievo che ascolta passivamente). In generale, come confermano molti studi, tra cui quello di Skolnik Weisberg e colleghi (2013), sembra che approcci caratterizzati dalla guida dell’adulto diano strategie di apprendimento più efficaci, ed esiti scolastici più positivi rispetto ad altri metodi, soprattutto in età prescolare. Il bambino infatti ha un ruolo attivo e sente di avere il controllo del processo, è più creativo e flessibile nell’apprendere, è coinvolto ed impegnato.

Al contrario con apprendimenti più direttivi l’allievo tende ad essere passivo, a distrarsi più facilmente e a non approfondire, dando per scontato che gli elementi rilevanti saranno messi in luce dall’adulto; anche approcci che prevedono attività libere a volte risultano meno efficaci, poiché l’allievo tende a perdere di vista gli scopi didattici. Utilizzare un metodo che preveda l’affiancamento di un adulto che non sia troppo direttivo può infatti far sentire al bambino che gli apprendimenti dipendono dai propri sforzi, garantendo un senso di autoefficacia e di soddisfazione per il lavoro svolto, un apprendimento intrinseco, rivolto all’esplorazione delle tematiche e non solo al raggiungimento dei risultati scolastici. Strategie di apprendimento che utilizzino il gioco indirizzato dall’adulto presentano anche effetti durevoli in compiti di matematica e lettura anche in età scolare, una maggior motivazione scolastica e miglioramenti in funzioni esecutive, problem-solving e memoria di lavoro (Diamond et al., 2007; Skolnik Weisberg et al., 2013).

La ricerca di Han e colleghi (Han et al., 2010; Skolnik Weisberg et al., 2013) mostra come il gioco indirizzato dall’adulto dia risultati migliori nell’apprendimento di vocaboli di bambini appartenenti a popolazioni a rischio: seguendo questo tipo di approccio gli allievi sembravano riuscire a estrarre le informazioni rilevanti e a focalizzarsi sui temi d’interesse in modo più autonomo e propositivo. Secondo Skolnik Weisberg e colleghi (2013) infatti un metodo basato sul “guided play” promuove un miglior sviluppo socioemotivo, una miglior regolazione emotiva, una maggior autoefficacia, minor stress e minori problemi comportamentali dall’età prescolare fino alle scuole medie superiori. La letteratura è chiara nell’indicare l’importanza di usare diverse strategie, che prevedano lezioni più strutturate ma anche attività di gioco, soprattutto se indirizzato dall’adulto, e che diano una maggior preparazione all’ingresso scolastico e miglioramenti a lungo termine (Skolnik Weiberg et al., 2013).

 

Esperienze di gioco alla scuola dell’infanzia che favoriscono l’apprendimento della lingua straniera

Lo studio di Mourão del 2014 sottolinea come il ruolo del gioco sull’apprendimento del linguaggio sia da prendere con serietà nella scuola d’infanzia. Secondo l’autrice è essenziale un bilanciamento tra gioco guidato dall’adulto e attività di gioco iniziato dal bambino. I programmi educativi adottati nella scuola dell’infanzia sembrano combinare attività guidate dall’adulto e altre direzionate dal bambino. Nello studio osservativo di Mourão si analizza l’importanza di questi due tipi di gioco applicati all’interno delle classi prescolari nell’insegnamento dell’inglese in Portogallo, Italia, Spagna e Cipro.

Mourão evidenzia la rilevanza di aree di apprendimento e gioco strutturate all’interno della classe, fornite di numerosi e variegati materiali, che i bambini possano utilizzare ed esplorare, per giocare attorno a diversi contenuti o temi in autonomia o in piccoli gruppi. Queste zone strutturate prevedono che i materiali siano situati in una parte della classe, sempre disponibili per i bambini; essi potranno essere utilizzati dalla maestra in attività più mirate, ma anche manipolati in assenza dell’adulto, all’interno del gioco libero dei bambini (Mourão, 2015).

L’autrice propone inoltre l’utilizzo nelle classi di una “spirale di gioco” in cui sia prevista un’alternanza operativa: per favorire l’apprendimento si consiglia di iniziare con un’attività strutturata dall’adulto, in cui abbia inizio l’esposizione dei bambini ai nuovi termini e concetti, seguita dal gioco libero, in cui i bambini possano sperimentare, fare errori, compiere scelte, anche servendosi dei materiali delle zone strutturate appositamente.

In seguito un’altra attività guidata dall’adulto rinforzerà le conoscenze acquisite, dando nuovi stimoli, che verranno nuovamente consolidati in altri momenti di gioco libero in autonomia o piccoli gruppi (Mourão, 2015). L’insegnante dovrebbe avere funzione di mediatore dell’apprendimento, utilizzando diverse strategie per guidare i bambini all’interno del gioco (ad esempio spiegare un tipo di gioco, chiedere conferme, rispondere a domande spontanee, aiutare i bambini a scegliere un leader). Le osservazioni preliminari dello studio mostrano un’interazione attiva dei bambini, che correggono spesso o aiutano gli altri bambini, interagiscono con i vari tipi di materiali o attività (come libri, disegni, canzoni, storie, carte, pupazzi, recitazione), mostrando un elevato grado di motivazione al gioco e all’apprendimento, facendo propri i tipi di giochi e utilizzandoli in altri contesti o nel gioco libero con maggiore creatività. L’utilizzo di queste aree strutturate di apprendimento all’interno della classe sembra favorire la motivazione dei bambini; è consigliabile un lavoro di squadra tra i vari tipi di insegnanti, che dovrebbero creare la zona adatta insieme e con strategie condivise, lavorando insieme sulla creazione di materiali vari e stimolanti, anche in lingua straniera (Mourão, 2015).

 

Creare migliori opportunità di apprendimento in infanzia

Ciolan (2013) ha pubblicato delle direttive che potrebbero favorire l’apprendimento, emerse nella Quinta Conferenza Internazionale EDU-WORLD, avvenuta nel 2012 con lo scopo di affrontare problematiche mondiali odierne riguardanti l’educazione. Una delle più recenti sfide è data proprio dal rapporto tra pedagogia e gioco. Sono sollevati continuamente dibattiti sull’importanza del gioco per l’apprendimento, poiché spesso gioco e lavoro sono visti come opposti, ma con il passare del tempo si sta creando una pedagogia del gioco, un approccio legittimo da usare nella prima infanzia per favorire l’apprendimento tramite il gioco (Ciolan, 2013).

Nelle scuole è spesso presente un contrasto tra la pedagogia classica e una pedagogia più ludica, che integri il gioco come strumento di apprendimento: genitori, educatori e dirigenti hanno diverse credenze sul ruolo del gioco, e a volte un atteggiamento che favorisce il più possibile l’utilizzo del gioco anche nelle classi stenta a prendere piede.

Dalla quinta Conferenza Internazionale EDU-WORLD sono emerse anche delle direttive pratiche che potrebbero aiutare a dare un’educazione articolata e accurata ai bambini: tra i vari consigli, c’è quello di individualizzare le attività per ciascun bambino se possibile, organizzare l’ambiente in aree di stimolazione e focalizzarsi sul gioco come attività di base (Ciolan, 2013). Per favorire il migliore sviluppo possibile, in termini cognitivi, sociali, emotivi, fisici e motori, si esorta a favorire il più possibile la cooperazione con i genitori, con diverse istituzioni nella comunità. Molto importante sembra anche l’integrazione di programmi di educazione precoce risultato della più recente ricerca scientifica, promuovendo l’equità sociale e tenendo conto dei cambiamenti generazionali e di nuove forme digitali della realtà (Ciolan, 2013).

Educatori e docenti dovrebbero capire che le vite dei bambini sono cambiate e aggiornare le proprie stimolazioni, rendendo l’apprendimento più interessante. I bambini che sono cresciuti in questo ambiente digitale vorrebbero partecipare, avere voce nella propria educazione, per quanto riguarda ciò che vorrebbero imparare, quando vorrebbero imparare, dove e come. E’ quindi presente un nuovo motivo per riconsiderare il ruolo del gioco, che ormai può essere inteso come attività di apprendimento di per sé. Rivisitare la relazione tra apprendimento e gioco nella formazione iniziale dei bambini potrebbe aggiungere un ingrediente essenziale e talvolta perso: la motivazione (Ciolan, 2013). Sullo (2007, p 154) ha sottolineato una nuova riflessione: [blockquote style=”1″]La motivazione è la più importante questione odierna in materia di istruzione. Anche se gli insegnanti sono sottopagati e la dimensione delle classi è in aumento, una stanza piena di studenti altamente motivati sarebbe l’ideale: dobbiamo solo capire come aumentare la motivazione degli studenti. Standard più elevati e un curriculum progettato nei particolari hanno un valore limitato, se gli studenti non sono impegnati e motivati a imparare[/blockquote] (Sullo, 2007, cit. da Ciolan, 2013).

Il profumo dell’ovulazione: come l’odore influenza la scelta del partner

Tra ricerca psicologica e riflessione sociale: come la dimostrazione che i feromoni innescano un’attivazione centrale ed autonomica nei soggetti che li percepiscono, indipendentemente dal genere, spinga ad andare oltre alla biologia e verso la costruzione di un sistema sociale di secondo ordine grazie al quale ogni individuo effettua liberamente la scelta del genere del proprio partner.

Feromoni e comunicazione olfattiva nella specie umana

Il sistema olfattivo è di grande importanza in quanto permette di catalizzare l’attenzione su eventi e cambiamenti ambientali significativi. Per questa ragione la percezione olfattiva è per tutti gli animali uno strumento indispensabile per la sopravvivenza in un mondo saturo di odori. Tale percezione può dare informazioni sulla disponibilità di risorse alimentari, guidare le interazioni sociali e mediare l’instaurarsi di relazioni parentali (Roberts, Havlicek, & al.,  2004).

Nell’uomo vengono solitamente prediletti altri sensi quali la vista e l’udito per esplorare l’ambiente circostante ma l’olfatto mantiene un ruolo primario nella sfera affettiva ed emotiva. Infatti gli odori hanno una capacità unica di influenzare le relazioni tra individui in quanto sono in grado di suscitare reazioni di repulsione o attrazione e poiché l’essere umano ha l’abilità di generare memorie di odori dalle quali di conseguenza si generano preferenze o avversioni verso di essi (Mostafa, El Khouly, & Hassan, 2011).

L’introduzione del termine feromone nella comunità scientifica risale al 1959, anno in cui i biologi Karlson e Luscher, in seguito a studi su animali, lo definiscono come:

“sostanza attiva rilasciata all’esterno da un individuo e ricevuta da un secondo individuo della stessa specie, in cui essa innesca una reazione specifica, fisiologica o comportamentale, utile alla sopravvivenza della specie”.

Tali sostanze chimiche sono dunque importanti mezzi di comunicazione tra individui della stessa specie e ed essendo rilasciate al di fuori del corpo fanno sì che l’unico modo per avvertirle sia mediante la percezione olfattiva. Dopo anni di controversie e ricerche sembra ormai chiaro come anche nella specie umana la comunicazione olfattiva sia di grande rilevanza, l’uomo infatti utilizza quotidianamente questo tipo di comunicazione ed è oltretutto abile nel percepire e produrre alcune sostanze odorose specifiche chiamate appunto feromoni. Quest’ultimi, appare ormai evidente, anche se non vi è totale accordo tra i ricercatori, che possano giocare un ruolo biologico molto importante sia per quanto riguarda il comportamento che la riproduzione degli individui (Grammer, Fink, & Neave, 2004).

Pare ormai certo che tra gli eventi biologici che la comunicazione olfattiva mediante feromoni influenza c’è quello dell’ovulazione. Per molti anni si è pensato che a differenza di specie a noi filogeneticamente vicine, come gli scimpanzè, nelle donne mancassero segnali evidenti, fisici e comportamentali, dell’imminente ovulazione, la quale può potenzialmente segnalare il periodo di maggiore fertilità della donna e quindi il momento con maggiore probabilità di rimanere incinta. Studi recenti hanno però rivisto questa posizione, dimostrando come le donne, nel corso del loro ciclo ovulatorio, siano soggette a numerosi cambiamenti riguardanti il comportamento sociale, la preferenza per il compagno, l’odore del corpo, la voce e persino l’aspetto fisico e quindi l’attrattività, (Haselton, & Gildersleeve, 2011).

 

Un’innovativa ricerca per rispondere ad un quesito irrisolto: anche la specie umana è capace di riconoscere e rispondere al messaggio olfattivo feromonico?

La mia ricerca, svolta in collaborazione col prof. Gianni Brighetti all’interno del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna nel 2016, parte quindi dal presupposto teorico secondo cui l’ovulazione femminile nella specie umana sia manifesta e che tra i segnali di questa condizione quello rappresentato dai cambiamenti degli odori corporei delle donne sia di fondamentale importanza per il riconoscimento da parte di individui terzi del loro periodo di maggiore fertilità. In ricerche precedenti, è già stato dimostrato come l’odore abbia un ruolo importante anche per quel che riguarda la riproduzione della specie umana.

In particolare quelli che vengono definiti “t-shirts studies” (Singh, & Bronstad, 2001; Kuukasjarvi, Eriksson, Koskela, Nissinen, & Rantalad, 2004) dimostrano l’ipotesi secondo cui uomini e donne siano in grado di capire quando una donna si trova nel periodo più fertile sulla base della detenzione di quello che viene definito “profumo dell’ovulazione”. Infatti in entrambe le ricerche i giudici ritengono significativamente più piacevole ed attraente l’odore delle t-shirts raccolto nella fase ovulatoria (alta fertilità) del ciclo mestruale delle donne rispetto a quello degli odori delle t-shirts raccolti nella fase lutea (bassa fertilità).

fluIDsex - Sessualità fluida nuove prospettive di identità sessuale, tra ricerca e riflessione in psicologia - SFULa sostanziale novità della mia ricerca sta nella sua ipotesi principale e di conseguenza nella strumentazione utilizzata al fine di verificarla. Così, l’ipotesi chiave è che vi sia un’attivazione sia del Sistema Nervoso Centrale (SNC) che del Sistema Nervoso Periferico (SNP) più elevata quando i soggetti esperiscono un odore secreto da una donna in fase ovulatoria (alta fertilità) piuttosto che quello di una donna in fase mestruale (bassa fertilità). Tale idea di derivazione evoluzionistica, è basata sul modello della neurocezione (Porges, 2014) che suggerisce la capacità umana di percepire segnali olfattivi funzionali alla riproduzione. Inoltre, il lavoro sperimentale introduce anche le variabili sociali verificando l’indifferenza dell’appartenenza di genere in relazione all’attivazione. In sostanza quindi, l’obiettivo ultimo della ricerca è quello di validare l’ipotesi dell’esistenza di feromoni umani capaci di influenzare l’attività centrale ed autonomica nei soggetti che li percepiscono.

Così è stata data grande importanza alle variazioni psicofisiologiche dei giudici in risposta alla condizione di fertilità femminile. Per misurare queste variazioni sono stati utilizzati due strumenti specifici:

1)      Due elettrodi posizionati su indice e medio della mano non dominante, collegati al dispositivo Biopac System, rilevanti la SCR (Skin Conductance Response), la quale permettendo di valutare la resistenza elettrica cutanea fornisce un buon indice di variazione dei parametri fisiologici dei partecipanti durante il compito sperimentale.

2)      Un caschetto EEG Emotiv Epoc a 14 canali. Grazie al quale è stato possibile analizzare le variazioni dell’attivazione cerebrale dei soggetti sperimentali in risposta alla percezione di odori rappresentanti fasi diverse del ciclo mestruale femminile e quindi della condizione presente o meno di fertilità della donna.

Ho quindi chiesto ad 8 donne tra i 22 e i 25 anni (4 che non usano contraccettivi ormonali e 4 che li usano) di applicare una striscia di ovatta per un’ora di tempo durante una giornata della fase ovulatoria (tra il 14° e il 16° giorno considerando un ciclo regolare di 28 giorni) ed un’altra striscia per il medesimo lasso di tempo durante un giorno della fase mestruale (dal 1° al 5° giorno del ciclo mestruale considerando un ciclo regolare di 28 giorni). Nel corso della seduta sperimentale, ai 21 giudici, 11 maschi e 10 femmine, sono stati applicati i due strumenti sopra citati (Biopac System e EEG Emotiv Epoc) per misurarne le variazioni psicofisiologiche.

La prova per i soggetti sperimentali consiste nell’annusare, in singolo cieco, tre odori da tre diversi tamponi di ovatta. In particolare 10 soggetti (5 maschi e 5 femmine) partecipano alla condizione sperimentale “fase ovulatoria” annusando: 1) Odore di una donna in fase ovulatoria che usa contraccettivo ormonale; 2) Odore di una donna in fase ovulatoria che non usa contraccettivo ormonale; 3) Odore di ovatta neutro. Mentre i restanti 11 giudici (6maschi e 5 femmine) partecipano alla condizione sperimentale “fase mestruale” annusando: 1) Odore di una donna in fase mestruale che usa contraccettivo ormonale; 2) Odore di una donna in fase mestruale che non usa contraccettivo ormonale; 3) Odore di ovatta neutro. Essi inoltre devono esprimere un giudizio di piacevolezza ed intensità degli odori percepiti, mediante la compilazione di questionari a scala visuoanalogica.

In seguito all’analisi statistica dei dati (ANOVA univariata e calcolo della forza dell’effetto utilizzando i parametri d di Cohen e r di Pearson), emergono i seguenti risultati:

1)      L’ipotesi principale è confermata: l’attivazione SCR ed EEG è significativamente maggiore nei soggetti partecipanti alla condizione sperimentale “fase ovulatoria” rispetto a quelli partecipanti alla condizione “fase mestruale”.

2)      La maggiore attivazione centrale e autonomica dei soggetti nella condizione “fase ovulatoria” è indipendente dal loro genere.

3)      L’odore delle donne in fase ovulatoria è giudicato significativamente più piacevole.

4)      L’uso del contraccettivo ormonale da parte delle donne che hanno fornito il campione di sudore non influenza significativamente l’andamento delle variazioni psicofisiologiche dei giudici.

 

Da un profumo alla costruzione di un mondo personale che influenza le proprie scelte

Si può concludere che i dati rilevanti una maggiore attività EEG ed SCR nei soggetti partecipanti alle sessioni sperimentali “fase ovulatoria” dimostrano l’abilità di uomini e donne di capire, grazie ad uno stato di arousal inizialmente inconscio ed automatico, quando una donna si trova nel periodo di alta fertilità semplicemente dal suo odore (“profumo dell’ovulazione”). Questo dato conferma così che anche nella specie umana la comunicazione olfattiva feromonica influenza il comportamento sociale e riproduttivo.

Inoltre il fatto che le variazioni psicofisiologiche registrate, nelle due condizioni sperimentali “ovulatoria” e “mestruale”, siano indipendenti dal genere dei giudici, apre lo spazio per ulteriori riflessioni che vanno oltre la semplice biologia, interessandosi invece delle implicazioni sociali. Infatti una possibile spiegazione teorica di questo fatto può essere ritrovata nel recente modello della neurocezione relativa alle caratteristiche dell’ingaggio sociale proposto da Porges (2014).

Secondo questo modello, quando sia uomini che donne si trovano in un contesto sociale come quello del corteggiamento, oltre ad un’attivazione prettamente biologica da parte del sistema nervoso simpatico che consente l’attacco e tutte le operazioni che necessitano uno stato fisiologico di attivazione, avviano la costruzione di un sistema sociale di secondo ordine. Questo impianto teorico ricondotto alla ricerca appena descritta ci permette di capire che, se inizialmente la percezione olfattiva della donna in ovulazione attiva allo stesso modo maschi e femmine, rappresentando perciò la risposta adeguata del modello più antico evolutivamente della funzione del simpatico, in un secondo momento, per ragioni meramente sociali, maschi e femmine compiono scelte etero o omosessuali anche se la neurofisiologia del loro sistema è inizialmente indifferente alla caratteristica di genere.

La scelta del genere della persona che si desidera al proprio fianco non è quindi qualcosa di biologicamente predeterminato ma è influenzata da fattori psicologici, culturali e sociali. Infatti il tessuto sociale che ci circonda, coi suoi principi morali e le sue contraddizioni, ha una grossa rilevanza sulla costruzione di quel “mondo sociale” che è sempre rappresentativo del singolo individuo che lo crea ed ha il potere di influenzarne decisioni e benessere.

 

Valentina Orlandi

 

 

 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Salvador Dalì, il surrealista paranoico-critico

Il Surrealismo era per Dalì l’occasione per far emergere il suo inconscio, secondo il principio dell’“automatismo psichico” teorizzato da André Breton, il padre del movimento. E alla sua particolare tecnica di automatismo, l’artista diede il nome di “metodo paranoico-critico”.

La biografia di Salvador Dalì

L’artista catalano Dalì (1904-1989) era solito dire che i genitori lo avevano chiamato Salvador, [blockquote style=”1″]perché era destinato a salvare la pittura minacciata di morte dall’arte astratta, dal surrealismo accademico, dal dadaismo e in genere da tutti gli ‘ismi’ anarchici.[/blockquote]

In realtà, i genitori lo chiamarono esattamente come il fratello maggiore morto alcuni anni prima a causa di una meningite e fu considerato dagli stessi come una reincarnazione di quel fratello mai conosciuto. La sua infanzia trascorse in una casa piena di foto di quel fratello morto, protetto sia dal padre, sia dalla madre, che temevano di perdere anche lui.

A sei anni voleva diventare ‘cuoca’ (usava il termine al femminile); a sette Napoleone; a dieci scopriva gli impressionisti; a diciotto iniziò gli studi all’Accademia di Belle Arti a Madrid ed andò a vivere nella Residencia de Estudiantes, dove conobbe, tra gli altri, lo scrittore Federico Garcia Lorca, con cui strinse un’intima amicizia. Ben presto quest’amicizia si trasformò in una passione amorosa da parte del poeta di Granada e la cosa turbò Dalì, che, ne “Les Passions selon Dalì” (1968) scrisse: [blockquote style=”1″]Quando Garcia Lorca tentò di possedermi, mi rifiutai a lui con orrore.[/blockquote]

Dall’inizio del 1927 l’artista catalano si trasferì a Parigi. Nell’autobiografia “La mia vita segreta” il pittore racconta:[blockquote style=”1″] Arrivai a Parigi….presi un taxi e domandai all’autista: ‘Conosce dei buoni bordelli?’. Se non tutti ne visitai un numero piuttosto impressionante e alcuni mi piacquero oltre misura.[/blockquote]

La personalità provocatoria e gli atteggiamenti stravaganti di Dalì, oltre alle sue opere piene di allusioni sessuali, incuriosirono il gruppo dei surrealisti parigini; conobbe René Magritte e sua moglie, Paul Éluard, (la guida intellettuale del movimento surrealista) e sua moglie Gala. Salvador rimase affascinato da Gala, i due, ben presto, divennero amanti e, successivamente, marito e moglie. E’ Dalì stesso a fornire la chiave interpretativa freudiana di questo grande amore, che dominerà la sua opera fino alla fine: [blockquote style=”1″]Era destinata ad essere la mia Gradiva (‘colei che avanza’), la mia vittoria, la mia donna. Ma per farlo, bisognava che mi guarisse. E mi guarì, grazie alla potenza indomabile e insondabile del suo amore, la cui profondità di pensiero e abilità pratica surclassavano i più ambiziosi metodi psicoanalitici.[/blockquote]

Il loro rapporto fu molto intenso e turbolento, vissero il matrimonio in maniera promiscua, la loro passione fu totale e surreale. [blockquote style=”1″]Amo Gala più di mia madre, più di mio padre, più di Picasso e perfino più del denaro. Ero l’incarnazione delle sue visioni oniriche e fantastiche…Ero letteralmente attratta dalle sue stranezze e stravaganze che non ebbi alcun dubbio di separarmi da mio marito. Lui aveva 11 anni meno di me. Ci sposammo tre anni dopo il primo incontro[/blockquote] – racconta Helena Diakonova, detta Gala.

Il rapporto di Dalì con il Surrealismo

Nel 1930 Salvador entrò ufficialmente a far parte del movimento surrealista e, nell’ambito del Surrealismo, fu l’artista che più di ogni altro riuscì a sviluppare saldi legami teorici con la psicoanalisi. Il Surrealismo era per Dalì l’occasione per far emergere il suo inconscio, secondo il principio dell’“automatismo psichico” teorizzato da André Breton, il padre del movimento. E alla sua particolare tecnica di automatismo, l’artista diede il nome di “metodo paranoico-critico”. Dalì definì la paranoia come [blockquote style=”1″]una malattia mentale cronica, la cui sintomatologia più caratteristica consiste nelle delusioni sistematiche, con o senza allucinazioni dei sensi. Le delusioni possono prendere la forma di mania di persecuzione o di grandezza e ambizione.[/blockquote]

Il metodo paranoico critico e l’opera “La persistenza della memoria”

L’attività paranoico-critica venne definita dallo stesso pittore come [blockquote style=”1″]un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull’associazione interpretativo-critica dei fenomeni deliranti. [/blockquote]

Come esempio di questo procedimento, vorrei considerare una delle opere più famose di Dalì, “La persistenza della Memoria” (più nota, forse, come il “quadro degli orologi molli”): si tratta di un dipinto del 1931, oggi conservato al Museum of Modern Art di New York. L’opera è incentrata sul concetto di tempo, rappresentato, appunto, dagli orologi. Dalì, in “La mia vita segreta” (1942), racconta in questo modo la genesi dell’opera: [blockquote style=”1″]E il giorno in cui decisi di dipingere degli orologi, li dipinsi molli. Ciò avvenne in una sera in cui ero stanco. Avevo l’emicrania, il che mi accade raramente. Volevamo andare al cinema con alcuni amici e all’ultimo momento decisi di restare a casa. Gala uscì con loro, mentre io mi coricai presto. Avevamo concluso la nostra cena con un camembert eccezionale e, allorché fui solo, rimasi ancora per un momento seduto a tavola pensando ai problemi che mi poneva il “supermolle” di questo formaggio. Mi alzai e mi recai nel mio studio, per gettare un ultimo sguardo al mio lavoro, come era mia abitudine. Il quadro a cui stavo lavorando raffigurava un paesaggio nei dintorni di Port Lligat, le cui rocce sembravano illuminate dalla luce trasparente del crepuscolo. In primo piano avevo dipinto un ulivo, dei rami tagliati e senza foglie. Questo paesaggio doveva servire di sfondo ad una nuova idea, ma quale? Cercavo un’immagine sorprendente, ma non riuscivo a trovarla. Spensi la luce, e uscii dalla stanza e in quel preciso momento “vidi” letteralmente la soluzione: due orologi molli, uno dei quali pietosamente appeso a un ramo dell’ulivo. Malgrado l’emicrania, preparai la mia tavolozza e mi misi all’opera. Due ore dopo, allorché Gala tornò dal cinema, il quadro, che sarebbe diventato una delle mie tele più famose, era finito…[/blockquote]

Gli orologi molli nacquero dunque da una suggestione provocata dal camembert, il formaggio francese che l’artista definisce “supermolle” e che spinge lo stesso a meditare “sul problema filosofico della ipermollezza posto da quel formaggio”. Secondo il metodo paranoico-critico seguito da Dalì, gli orologi molli sono il prodotto di una visione irrazionale e ci forniscono una nuova lettura del Tempo, diversa dal tempo meccanico. Il tempo meccanico è quello che scandisce i secondi, i minuti, le ore, (gli orologi duri), mentre gli orologi molli sono inseriti in un contesto in cui non accade nulla ed il tempo è come fermo. Il tempo, inteso come la successione meccanica di istanti, dunque, viene messo in crisi dalla memoria umana che, del tempo, ha una percezione poco razionale. In questo modo l’orologio, oggetto orribile che scandisce la successione dei minuti della vita dell’uomo, diventa molle come un camembert nel suo momento migliore, quando incomincia a colare.

La psicoanalisi nelle opere di Dalì

Dal metodo paranoico-critico derivarono tantissime opere di Salvador, tra cui le celebri: “Autoritratto molle con pancetta fritta” (1941) , “Ritratto di Picasso” (1947), L’aurora” (1948).
Paranoico-critico è anche “Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melograna, un attimo prima del risveglio” del 1944, il cui titolo è, di per sé, esplicativo. E’ un’opera, tra le tante, in cui è raffigurata la moglie dell’artista, Gala. L’ispirazione del quadro venne al pittore dalla puntura di un’ape mentre stava dormando. Provò dolore mentre dormiva e, in quel momento di incoscienza, provò delle sensazioni ingigantite e così l’istante della puntura è rappresentato dalla punta di una baionetta che sta per trafiggere il braccio della donna nuda, mentre il momento del dolore è rappresentato dalle tigri inferocite che fuoriescono dalla bocca di una pesca, che, a sua volta, sorge da un melograno. Dalì dichiarò più volte di voler immortalare la vita onirica, realizzando ciò che lui definì delle “fotografie dei sogni dipinte a mano”: con quest’opera l’artista fece qualcosa in più, ovvero riuscì ad illustrare magistralmente un meccanismo mentale indagato da Freud, cioè l’effetto che uno stimolo esterno, percepito durante il sonno, produce su ciò che stiamo sognando, a dimostrazione del fatto che nelle opere dell’artista catalano si ritrovano tutti i capisaldi della teoria freudiana: l’inconscio, il sogno, la sessualità.

Perché i serious games ci aiutano ad apprendere?

I serious games sono uno degli strumenti più all’avanguardia nel panorama della formazione e, sin dalla loro comparsa in questo settore, hanno rappresentato un approccio nuovo rispetto ai processi di apprendimento, che si distingue notevolmente sia dalle forme più tradizionali di insegnamento sia dall’e-learning, che pure si era presentato come un sistema assai innovativo.

Antonio Ascolese – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

L’apprendimento tradizionale è quello che avviene nel contesto classe, in cui l’insegnante sta al centro di un processo tendenzialmente statico. Il depositario delle conoscenze, cioè chi insegna qualcosa a qualcuno, conduce la lezione seguendo un programma di studio predefinito all’interno un percorso curricolare stabilito.

Gli elementi e gli strumenti tipici dell’insegnamento tradizionale comprendono l’uso di una lavagna, lo studio su libri, la presenza di un didatta e di studenti all’interno della stessa classe. In genere l’insegnante parla più degli studenti, in quanto deve presentare e spiegare quello che già conosce. Gli studenti, viceversa, hanno generalmente un ruolo passivo, di ascolto. Proprio per queste caratteristiche, l’apprendimento tradizionale favorisce l’apprendimento del ‘che cosa’ piuttosto che del ‘come’ e gli studenti non sono coinvolti in attività di ricerca o di problem solving, ma piuttosto in compiti stabiliti dall’insegnante. In questo tipo di formazione, la motivazione di chi apprende è bassa, poiché lo studente tende a sentire i contenuti come lontani da sé (Titthasiri, 2013).

 

L’e-learning e l’apprendimento interattivo

La diffusione massiccia delle tecnologie informatiche e la rete internet, sempre più capillare e veloce, hanno permesso l’avvio di una nuova era rispetto agli approcci di apprendimento più tradizionali: l’e-learning. Con questo termine ci si riferisce a una forma di apprendimento interattivo in cui gli studenti imparano attraverso l’uso del computer, inteso come un nuovo strumento educativo.

L’e-learning copre una vasta gamma di strumenti, applicazioni e processi, comprese le attività on-line multimediali come il web, CD-ROM video su Internet, TV e radio. Gli studenti possono utilizzare questi materiali per insegnare a loro stessi.

Le caratteristiche principali dei processi di apprendimento attraverso l’e-learning riguardano:

  • La distribuzione dei contenuti formativi in più formati;
  • La maggior possibilità per lo studente di gestire la propria esperienza di apprendimento;
  • La presenza di una comunità di studenti che fanno rete;
  • La personalizzazione della formazione;
  • Il focus sui singoli studenti, piuttosto che sull’intero gruppo classe;
  • La possibilità di utilizzare strumenti di assessment, di creazione dei contenuti formativi e di gestione dell’intero processo di apprendimento.

Sono molteplici i vantaggi introdotti dall’e-learning nel mondo della formazione, come l’incremento della possibilità di accedere ai contenuti, la velocizzazione dei processi di apprendimento, la redistribuzione della responsabilità tra tutti i partecipanti e la riduzione dei costi. Inoltre, attraverso l’e-learning, lo studente apprende maggiormente il ‘come’ rispetto al ‘che cosa’, inoltre l’uso della tecnologia e la maggior vicinanza rispetto agli argomenti trattati favoriscono un maggior coinvolgimento da parte dell’utente finale. Anche il ruolo del docente cambia: non si tratta più di rappresentare l’autorità, depositaria della conoscenza, quanto di dare una direzione alla formazione degli studenti.

Tuttavia ci sono anche diversi svantaggi riguardanti questa modalità di apprendimento, come la riduzione dell’interazione sociale ai minimi termini sia con i docenti sia tra gli studenti; la possibilità (che non è esclusa), per lo studente, di mantenere un ruolo passivo nel processo di apprendimento; la mancanza di garanzie sulla possibilità di raggiungere gli obiettivi didattici (Titthasiri, 2013).

 

Apprendimento e serious games

Oggigiorno, all’interno di questo percorso evolutivo dei processi di apprendimento, non si possono non considerare i serious games, che rappresentano una vera e propria rivoluzione culturale in questo ambito. Infatti, grazie alla loro capacità di simulare diversi aspetti dell’esperienza, essi diventano uno strumento potente per l’acquisizione e il potenziamento di competenze in molteplici settori.

Le tre dimensioni, tipiche dei serious games, che li rendono efficaci e potenti sono quella simulativa, quella ludica e quella formativa. Grazie a queste tre fondamenta, i giochi per l’apprendimento permettono di concentrare l’apprendimento sia sul ‘che cosa’, come fa l’apprendimento tradizionale, sia sul ‘come’, come fa invece l’e-learning. Il processo di apprendimento che passa attraverso i serious games è quindi in grado di integrare conoscenze dichiarative e conoscenze procedurali (Anolli & Mantovani, 2011).

La dimensione simulativa dei serious games, fa sì che questi strumenti consentano all’utente che apprende di fare delle esperienze, cioè di rappresentare in concreto ciò che conosciamo a livello teorico (Mantovani, 2001). Gli aspetti simulativi permettono di entrare in contatto con le conoscenze attraverso i propri sensi, il proprio corpo, e non solo a livello astratto.

Impiegando i dispositivi digitali che supportano i giochi seri, gli utenti possono riprodurre aspetti presenti nell’esperienza ‘reale’ e anticipare prospettive future, mantenendo sempre un ruolo attivo.

La dimensione ludica, invece, che caratterizza i serious games e li distingue da tutti i simulatori ‘semplici’ utilizzati in formazione, fa riferimento agli elementi motivazionali e di coinvolgimento dell’utente. Le stesse meccaniche che rendono i videogiochi così appetibili e coinvolgenti, sono in grado di motivare l’utente nel processo di formazione, soprattutto quando questo si deve protrarre nel tempo. Ad esempio, l’utilizzo di punteggi, di missioni, di sistemi di competizione o cooperazione è in grado di aumentare gli aspetti di motivazione intrinseca, che alimenta da sola e sostiene lo svolgimento del serious game e, di conseguenza, dell’intero processo formativo. Inoltre, gli aspetti ludici permettono all’utente di vivere un’esperienza gratificante, fonte di emozioni positive come l’interesse, la curiosità, l’esplorazione, il senso della sfida e di autoefficacia. Queste emozioni positive esercitano una forte influenza sia sulla nostra attenzione sia sulle capacità di memorizzazione. Più nello specifico, sono in grado di catturare le nostre risorse attentive e concentrarle sul compito che stiamo eseguendo (Fox et al., 2001; Anderson & Phelps, 2001). Inoltre, le emozioni positive in concomitanza di un processo di apprendimento esercitano un’azione di potenziamento della memoria, sia per quantità che per qualità, rendendo il ricordo più definito e persistente nel tempo (Bernsten 2002; Schooler & Eich 2000).

Infine, la dimensione formativa, che caratterizza i serious games, distinguendoli da molti videogiochi, si caratterizza per l’integrazione di informazioni e conoscenze, il cui apprendimento rappresenta il principale obiettivo ‘serio’ di questi strumenti.

Mantenere bilanciati queste tre dimensioni fondanti –simulativa, ludica e formativa- permette di creare e diffondere serious games efficaci a livello di apprendimento e coinvolgenti al tempo stesso.

Per sua stessa natura, questo strumento, sempre più usato nel campo della formazione (e non solo), è risultato molto adatto all’insegnamento a utenti molto diversi tra di loro, come studenti o uomini d’affari. Anche a livello di contenuti, i serious games permettono l’apprendimento di conoscenze variegate, come la storia medioevale, la matematica o le scienze astronomiche, ma anche di conoscenze procedurali afferenti a vari settori (come la chirurgia, la finanza, etc).

Inoltre, i serious games risultano molto efficaci come strumenti per il potenziamento di alcune abilità trasversali, come la leadership, il decision making o le abilità comunciative di base.

E’ pertanto evidente come la forma del gioco rappresenti il mezzo per raggiungere i diversi obiettivi legati all’apprendimento e non il fine, come invece accade per i videogiochi.

Quello che stiamo vivendo in questi ultimi anno è un cambiamento pervasivo e globale nel mondo dell’apprendimento, favorito dalla disponibilità di tecnologie sempre più sofisticate, ma limitato da risorse attentive che tendono a diminuire e abitudine alla fruizione di contenuti sempre più complessi, che richiedono un ruolo sempre più attivo agli utenti. Avere come obiettivo da applicare al mondo dell’apprendimento quello di aumentare i livelli di coinvolgimento e motivazione di chi impara non è affatto sbagliato. Anzi, sembra proprio questo il passo da compiere per rendere il processo formativo sempre più efficace, a discapito di format di insegnamento tradizionali, troppo distanti dalla realtà attuale. In questo scenario, i serious games possono essere considerati lo strumento d’elezione per sentirsi coinvolti e, contemporaneamente, imparare.

L’idea di studiare il gioco, come mezzo in grado di coinvolgere a 360° l’utente e di applicarne le meccaniche tipiche in contesti seri, è stata rivoluzionaria in questo senso.

Inoltre, per la loro duttilità e adattabilità, i serious games possono essere sempre più integrati nel percorso tradizionale di apprendimento, per gli utenti di ogni età e contesto.

Realizzazione professionale e riserva cognitiva: un lavoro impegnativo protegge dalla demenza

Sebbene alcune evidenze portino ad affermare il positivo impatto dell’occupazione lavorativa sulla riserva cognitiva dell’individuo, alcuni studi ci portano a supporre che non solo è indispensabile lavorare ma anche ricoprire un ruolo lavorativo abbastanza impegnativo.

 

La letteratura neurocognitiva è interessata sempre più a tracciare un possibile link tra esperienze di vita e rischio di demenza. Evidenze scientifiche sostengono che alcune persone, in particolare coloro che vantano di un’adeguata istruzione e di una professione d’alto rango, sono meno suscettibili ai cambiamenti cerebrali comportati dal normale invecchiamento o dall’avvento di patologie

La riserva cognitiva è un meccanismo potenziale attraverso il quale gli effetti di patologie cerebrali possono essere modificate da eventi esperenziati nel corso della vita (Stern, 2009). Molti studi dimostrano che alti livelli di educazione, attività occupazionali e attività cognitive complesse, comportano una maggior tolleranza sia verso il normal aging che verso un invecchiamento patologico (Stern, 1994). Infatti uno stile di vita attivo dal punto di vista cognitivo prevede un minor rischio di sviluppare demenza. In particolare, un elevato livello di istruzione può essere efficace nel fornire un’adeguata protezione al nostro sistema cognitivo, comportando una riduzione del rischio di demenza fino al 40%, se combinato con attività complesse ed impegno sociale in tarda età (Valenzuela, Brayne, Sachdev, Wilcock, 2011).

 

Riserva cognitiva e attività lavorative: uno sguardo alle ricerche

Numerose evidenze indicano come l’occupazione lavorativa abbia un’ importante influenza sulla performance cognitiva. Uno studio longitudinale di Schooler (2001) della durata di trenta anni, si pose lo scopo di indagare se un’attività lavorativa complessa potesse influenzare il funzionamento cognitivo in coloro che la andavano ad esercitare e se tale influenza vi potesse essere anche su di un campione di lavoratori di tarda età. Emerse come tale influenza vi fosse sugli stessi professionisti osservati venti-trenta anni più tardi evidenziando cosi come la complessità di un’occupazione continui a modulare in positivo il livello di funzionamento cognitivo anche in lavoratori anziani.

Stern (1992) confrontò la performance di un gruppo di pazienti con Alzheimer e un gruppo di controllo dividendoli in due campioni (bassi e alti livelli di istruzione in base all’occupazione esercitata) ed emerse come il ricoprire una professione di alto rango, equivalga ad avere una maggior riserva cognitiva. Si potrebbe ipotizzare che ciò possa dipendere dal maggior uso di strategie cognitive compensatorie che mettono in atto persone con alti livelli di scolarità. Da qui ci possiamo agganciare allo studio di Baldivia e Bueno nel quale si evidenzia come l’esercitare una complessa attività lavorativa vada di pari passo all’aver una miglior performance nel test percettivo-visivo “La figura di Rey” che permette di valutare le competenze visuo-spaziali di un soggetto, la sua organizzazione percettiva e la memoria visiva e di lavoro; in questo modo si suppone che la variabile occupazione possa aver una valenza protettiva nei riguardi di un possibile futuro declino cognitivo, grazie al mantenimento delle funzioni esecutive, un’operazione coordinata di vari processi volti alla realizzazione di un particolare obiettivo in modo flessibile (Funahashi, 2001).

Sebbene tali evidenze portino ad affermare l’importanza che l’occupazione lavorativa riveste nella vita di una persona ai fini di una sana prevenzione cognitiva, alcuni studi ci portano a supporre che non solo è indispensabile lavorare ma anche ricoprire un ruolo lavorativo abbastanza impegnativo.

Come sappiamo, ogni professione è diversa dall’altra, non solo nella fattispecie ma anche nel valore protettivo che può avere nei riguardi del nostro sistema cognitivo. Uno studio francese ha confrontato vari tipi di occupazioni evidenziando come agricoltori, imprenditori agricoli e domestici mostrassero un maggior deterioramento cognitivo rispetto a coloro che svolgevano mansioni più a stampo intellettuale (Dartigues, Gagnon, Letenneur, 1992). Sulla stessa linea d’onda i risultati portati da uno studio italiano, il quale ha evidenziato come un campione di agricoltori mostrasse un punteggio inferiore al MMSE rispetto ad un campione di colletti bianchi (Frisoni, Rozzini, Bianchetti, Trabucchi, 1993). Infine, in uno studio di Stern (1994), un campione di soggetti over-60 suddiviso in base al loro livello occupazionale, è stato seguito per 4 anni osservando come coloro i quali ricoprivano mansioni affini a quella di commerciante, artigiano o impiegato rispetto a coloro che rivestivano alte cariche come quella di dirigente o ingegnere, avevano un rischio di sviluppare demenza 2,25 volte maggiore.

I benefici di un complesso e impegnativo lavoro, non solo riguardano il minor rischio di sviluppare demenza ma anche la maggior longevità che può avere una persona a cui è stata diagnosticata tale patologia.

Un recente studio ha mostrato che le persone a cui era stata diagnosticata una demenza fronto-temporale, le quali svolgevano un lavoro impegnativo, sopravvivevano in media ben tre anni in più rispetto a coloro i quali avevano una professione meno qualificata suggerendo come un buon livello occupazionale possa non solo proteggere il nostro cervello dalla malattia del secolo, ma anche permettere alle persone che l’hanno sviluppata di vivere più a lungo (Lauren, 2015).

Gurland nel 1981 scriveva:

E’ ancora una questione aperta che ci sia un importante contributo socio-culturale alla prevenzione dell’Alzheimer, ma le prove disponibili sono sufficientemente intriganti da giustificare ulteriori studi sulla questione.

Noi concludiamo col dire quindi che sebbene è un dato comune che l’invecchiamento si accompagni ad un’alterazione dei processi fisiologici e dei meccanismi di plasticità neurale, tali effetti sono migliori in coloro i quali esperenziano uno stile di vita caratterizzato da elevati livelli d’istruzione e da una attività lavorativa più intellettuale.

Infatti una buona realizzazione professionale nella vita conferisce a render più ricca la nostra riserva cognitiva comportando cosi un minor rischio di incorrere in un possibile declino cognitivo.

Neuroni simili ma non uguali: ciò che ci rende unici

Sono stati scoperti altri meccanismi che modificano il DNA dei neuroni rendendoci unici, ma favorendo anche l’insorgenza di malattie gravi.

 

Pensiero comune è che ogni cellula del nostro corpo abbia il medesimo materiale genetico, ma recentemente è stata scoperta un’eccezione a questo dogma da parte di un gruppo di ricercatori del Salk Institute, negli Stati Uniti. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Nature Neuroscience.

L’eccezione risiede nel fatto che nella maggior parte delle cellule cerebrali sono avvenute nel tempo piccole modificazioni genetiche, dette elementi nucleari interspersi o L1, che hanno conferito unicità ad ogni singolo neurone.

Lo studio condotto da Fred Gage e colleghi ha dato un contributo notevole ampliando le conoscenze esistenti: infatti non solo è stato confermato, cosa già risaputa, che gli L1 fossero dei trasposoni (geni in grado di spostarsi lungo il DNA inserendosi o copiandosi in diversi punti), si è ora scoperto che gli L1 possiedono un’altra capacità: quella di rimuovere tratti di DNA.

Inoltre è emerso che questi trasposoni sono presenti al 44-63% nei neuroni sani, influenzandone l’espressione come può avvenire in caso di silenziamento o modificazioni epigenetiche, ma rendendoci estremamente unici.

Dopo anni di studio e moltissime ricerche effettuate dal medesimo gruppo nel corso degli anni, i ricercatori sono riusciti a studiare un metodo unico e accurato di analisi basato sull’utilizzo di cellule staminali forzate a differenziarsi in neuroni. Proprio durante questo processo che si è notato che il DNA è soggetto a riarrangiamenti e mutazioni, tra cui le delezioni di parti del materiale genetico ad opera di un enzima che taglia nei punti L1.

A detta dei ricercatori:

Circa metà delle cellule del nostro cervello ha molti tratti di DNA inseriti o mancanti a causa dell’attività degli L1, che quindi in genere non provocano problemi. In alcuni casi tuttavia questo processo può essere all’origine di gravi disfunzioni e malattie.

Ciò è maggiormente confermato da altri studi che hanno riscontrato numerose anomalie a livello degli L1 in pazienti affetti da schizofrenia o disturbi autistici.

Messico: il primo bambino nato dal DNA di tre genitori

Abrahim è il nome del bambino che cinque mesi fa è nato in Messico concepito con una nuova tecnica, eseguita attraverso una fecondazione assistita con tre persone.

 

A divulgare la notizia è il settimanale britannico NewScientist con il seguente titolo: “Exclusive: World’s first baby born with ‘3 parent’ technique” (Jessica Hamzelou, 2016).

Abrahim Hassan ha cinque mesi ed ha il DNA della madre, del padre e parte del codice genetico di una donatrice. Questa tecnica, sottoposta dal gruppo del medico John Zhang, è stata applicata per permettere alla madre e il padre di avere un figlio che non ereditasse la malattia della madre. Quest’ultima, infatti, è affetta dalla sindrome di Leigh che colpisce il sistema nervoso in via di sviluppo e a causa della quale in passato la donna ebbe due aborti. Attraverso questa nuova tecnica, i mitocondri difettosi della madre del bambino, sono stati sostituiti con quelli sani della donatrice.

Il metodo che ha adottato il dottor Zhang è diverso da quello approvato in Inghilterra: qui, infatti, si prevede la fecondazione di un ovocita materno e di quello di una donatrice, con lo sperma del padre. In seguito, secondo la tecnica adottata in Inghilterra, prima che le uova fecondate inizino a dividersi in embrioni in fase iniziale, ogni nucleo viene rimosso. Infine, il nucleo dell’uovo fecondato dal donatore viene scartato e sostituito da quello fecondato della madre, ma:
[blockquote style=”1″]this technique wasn’t appropriate for the couple – as Muslims, they were opposed to the destruction of two embryos. So Zhang took a different approach, called spindle nuclear transfer. He removed the nucleus from one of the mother’s eggs and inserted it into a donor egg that had had its own nucleus removed. The resulting egg – with nuclear DNA from the mother and mitochondrial DNA from a donor – was then fertilised with the father’s sperm[/blockquote] (Jessica Hamzelou, 2016).

Il dottore ha applicato questa nuova tecnica in Messico, in quanto negli Stati Uniti questo metodo non è stato approvato, mentre in Messico non ci sono regole, secondo l’etica del Regno Unito.

Questa nuova tecnica e il risultato che ha dato saranno descritti al convegno della Società americana di medicina della riproduzione a Salt Lake City, nel mese di ottobre, e rappresentano indubbiamente nuovi orizzonti per la fecondazione assistita.

Coltivare la mente sin da bambini: programma mindfulness, il fiore dentro – Recensione

Si usa spesso l’espressione “coltivare la mente”, quando si lavora in una cornice di mindfulness, per indicare quel processo di ri-educazione della mente che viene allenata a un contatto più diretto con l’esperienza al di là degli apprendimenti sedimentati; non si può quindi non apprezzare lo sforzo delle autrici che, per la prima volta nel panorama italiano, invitano a coltivare la mente sin dalla giovane età, proponendo nel libro un programma di mindfulness per bambini e ragazzi dai 12 ai 16 anni, muovendosi dall’esperienza del gruppo di lavoro di Kabat Zinn e di altre realtà che si sono già occupate, all’estero, di mindfulness per bambini e ragazzi.

Iacopo Camozzo Caneve

Le difficoltà che affrontano bambini e ragazzi

Questo, il senso della proposta delle autrici, ma non solo in un’ottica preventiva rispetto a tutte le difficoltà che ci arriveranno addosso quando finiremo nella temibile “età adulta”: prendersi cura della propria mente con l’aiuto della mindfulness (e delle pratiche di consapevolezza su cui si fonda) come risorsa, per i piccoli umani, rispetto a un mondo che sembra fatto sempre meno a loro misura, e che di conseguenza pone sfide sempre maggiori. La giovane età, ricordano le autrici, non è più (ammesso lo sia mai realmente stata) un’età dell’oro, anzi; l’APA ha definito questa la “generation stress”; e compaiono ansia, disturbi alimentari, ADHD, autolesionismo e tutta o quasi la gamma di disagi e sofferenza che conosciamo per la popolazione adulta.

Separazioni dei genitori, richieste di performance sempre maggiori, bullismo, rete sociale e parentale ristretta, riduzione tempo libero dei genitori: sono molte le sfide da fronteggiare per i giovani d’oggi.

Ancora una volta, il tentativo è di poter insegnare a vivere tutto questo, quando non lo si può cambiare, in un modo alternativo, in contatto con il momento presente attraverso la consapevolezza invece che fuori  da noi stessi in balia della mente e dei suoi automatismi.

Il percorso di mindfulness per bambini e ragazzi

Il percorso proposto dalle autrici si snoda, come nella più classica tradizione dei percorsi di mindfulness, attraverso otto incontri in cui vengono messi a fuoco diversi ambiti di esperienza. Gruppi tra 5 e 10 partecipanti per sessioni che durano dai 40 ai 60 minuti, con alternanza tra esperienze pratiche di consapevolezza (adattate all’età) e momenti di condivisione ed esplorazione congiunta di ambiti di esperienza specifici.

I temi attraverso cui si articola il percorso sono il pilota automatico (e la possibilità di vivere invece con una mente da principiante), il riconoscimento di pensieri come pensieri, le emozioni, gli eventi stressanti e la possibilità di rapportarsi con tutto questo in modo nuovo attraverso la consapevolezza.
Un atteggiamento giocoso, letture ed esercizi completano il quadro rendendo questo tipo di esperienza adatta e comprensibile a questa fascia d’età.
“Il fiore dentro” è il nome dato a questo programma, facendo proprio riferimento alla possibilità di trovare dentro di sé, grazie alla consapevolezza, la bellezza di essere se stessi al di là delle sfide e di ogni segnale contrario che ricevono, quotidianamente, questi piccoli umani.
Di questo si occupa l’ultima sessione del percorso, di questo credo si occupi ogni singolo momento di questo programma, al di là dello stress, delle emozioni, dei pensieri…
Di questo, occupandoci dei nostri giovani, dovremmo forse imparare a occuparci più spesso.

 

Prendere decisioni in gruppo: il rapporto tra costi e benefici

Quando ci si trova all’interno di un gruppo e occorre prendere una decisione, in genere la maggior parte delle persone non agiscono seguendo esclusivamente i propri interessi, ma prendendo in considerazione le conseguenze positive e negative che una determinata scelta potrebbe comportare per gli altri. Tuttavia, numerosi esempi della vita quotidiana mostrano come alla maggior parte delle persone risulti difficile valutare in modo efficiente i costi e i benefici quando questi riguardano un ampio gruppo.

 

In uno studio  pubblicato nella Review of Economic Studies, Michael Kosfeld, Heiner Schumacher, Iris Kesternich e Joachim Winter presentano dei dati ottenuti da prove sperimentali che mostrano come almeno 2/3 della popolazione risulti insensibile alle esigenze del gruppo.

A partire da un certo numero di persone in poi, nel prendere le decisioni non viene più considerata la parte di gruppo che viene influenzata negativamente, per cui le loro azioni risultano complessivamente contraddittorie. Essi prendono in considerazione il rapporto benefici e costi quando i costi sono a carico di una sola o di poche persone, mentre accettano prontamente una disparità esorbitante tra benefici e costi nel caso in cui un ampio numero di persone ne sia influenzato, e quindi il costo per ognuno appaia basso.

I risultati

I risultati suggeriscono che per le persone risulta difficile vedere il gruppo nella sua totalità durante la presa di una decisione. [blockquote style=”1″]E’ difficile mettersi nei panni di un gruppo di persone. Ecco perché si tende ad adottare la posizione di membro che rappresenta il gruppo, trascurando però di conseguenza una parte di esso[/blockquote] spiega Michael Kosfeld.

Se poi però 10, 100 o 1000 persone subiscono conseguenze negative da una decisione che beneficia solo pochi membri del gruppo, il rappresentante cessa di svolgere il presente ruolo.

Sulla base di una scala di gravità, tale comportamento potrebbe causare enormi costi sociali. Ad esempio, i politici e i medici vengono regolarmente posti di fronte a decisioni che hanno conseguenze positive solo per poche persone a discapito dei grandi gruppi. Se in queste situazioni il rapporto tra benefici e costi non viene adeguatamente considerato, potrebbe comparire la minaccia di gravi perdite economiche a livello globale.

Tuttavia, in conclusione, chiunque può commettere questo errore. Infatti nella vita di tutti i giorni quando dobbiamo compiere una buona azione per un individuo o per un piccolo gruppo di persone siamo spesso estremamente generosi, come ad esempio quando si effettua una donazione. Ma quando si tratta di una questione che può portare una vasta comunità a subire dei costi, tendiamo a non guardare i costi complessivi, ma solo i costi minimi per ogni individuo.

Coming out e outing

Buongiorno, qualche settimana fa un mio amico ha sentito che un tizio che conosco (Luca, figlio di un’amica di mia madre) sa che sono gay. Ho paura che questo lo dica a sua madre e che sua madre lo dica alla mia. Per questo ho pensato di dirglielo io in questi giorni, perché continuo a guardare il suo sguardo e quando è storto mi dico ecco, gliel’ha detto e questa situazione mi fa stare davvero male. Faccio bene?

Giacomo

 

Buongiorno,

comprendo la sofferenza connessa alla prepotenza di qualcuno che possa dire, al posto suo, qualcosa di così personale ad una persona a lei così intima, come sua madre. Questo, però, non significa che lei si debba sentire obbligato a seguire automaticamente questo “incastro”: un coming out forzato è alla fine sempre un outing imposto dal timore di quello “sguardo storto”, non tanto migliore di un outing fatto da altri (con outing si intende quando, in questo caso, la sua omosessualità non viene rivelata da lei, ma da altre persone, senza che lei sia d’accordo).

Giacomo, questo coming out con sua madre l’avrebbe fatto a prescindere da quanto accaduto? O si sente costretto a farlo da queste pressioni esterne?

Fare coming out è un gesto molto importante ed ognuno dovrebbe poterlo fare nel momento che ritiene più oppurtuno per sé. Sicuramente decidere di mostrare deliberatamente una parte così intima della propria identità ha delle conseguenze, che bisogna volere e saper valutare, tollerare ed affrontare. Insomma, fare coming out, attualmente, è una vera e propria responsabilità nei confronti di se stessi in primis.

Greta Riboli

 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Cognitivismo Clinico: presentazione del nuovo numero della rivista

L’Editoriale del numero appena pubblicato della rivista Cognitivismo Clinico. Il Direttore Antonino Carcione presenta e commenta gli articoli.

Antonino Carcione

 

Abbiamo deciso di aprire questo numero di Cognitivismo Clinico con un articolo speciale di Francesco Mancini che affronta un tema tanto essenziale per il cognitivismo, quanto a volte trascurato: gli scopi. L’articolo è molto interessante e in esso l’autore affronta in modo critico un argomento a lui molto caro, partendo dal presupposto che la scarsa rilevanza attribuita al concetto di scopi e al loro ruolo nella spiegazione della psicopatologia rappresenta uno dei limiti più significativi del cognitivismo clinico. Mancini sostiene con puntuali argomentazioni che il cognitivismo standard ha dato grande, troppa enfasi al ruolo delle credenze e dei processi cognitivi, trascurando il ruolo che hanno gli scopi nell’orientare i processi cognitivi e, di conseguenza, nella formazione delle credenze. È più frequente il ricorso a concetti disposizionali, come a esempio l’intolleranza all’incertezza o la fusione pensiero-azione, tanto per citare alcuni esempi, oppure a deficit cognitivi. Tali concetti si rivelano più descrittivi che esplicativi, pertanto l’autore argomenta le ragioni di tali limiti del cognitivismo e ci fornisce un contributo che si può rivelare utile, come auspica lo stesso Mancini, a dare piena dignità a un concetto che già, di per sé, è “… cruciale per spiegare e prevedere condotte ed emozioni proprie e altrui”.

La seconda parte è dedicata a un tema specifico: l’insonnia. L’idea di dedicare un numero monografico a tale argomento segue una giornata di aggiornamento organizzata dalle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva SPC e APC, sponsorizzata dalla SITCC-Lazio e coordinata da Davide Coradeschi, che si è tenuta il 20 maggio presso il Centro Convegni “Villa Palestro” a Roma: ‘Il trattamento dell’insonnia nel paziente psichiatrico: farmaci e psicoterapia cognitivo-comportamentale’.

L’attenzione a questo tema è legata al fatto che l’insonnia rappresenta sicuramente il più diffuso disturbo del sonno. Si stima che ne soffra in modo significativo almeno un italiano su 10 e, quantomeno occasionalmente, è stata sperimentata da più della metà della popolazione. Purtroppo, però, la diagnosi viene spesso effettuata in modo sbrigativo e superficiale, e da ciò derivano frequentemente errori nel suo trattamento. L’insonnia può dipendere da vari fattori e presentarsi come un disturbo a sé stante, ovvero in assenza di altri disturbi, oppure può insorgere in associazione ad altri problemi di ordine medico di tipo neurologico (a es. Parkinson), cardiovascolare (a es. angina), polmonare (a es, enfisema), digestivo (a es, ulcera peptica, reflusso gastro-esofageo), ecc. Più frequentemente, però, è espressione di altri disturbi psicologici, più spesso disturbi d’ansia e dell’umore, che interferiscono con il sonno peggiorandone la quantità e la qualità. Secondo le stime riportate nel recente DSM-5, come evidenziato dall’articolo di Devoto et al., il 40-50% degli insonni ha un disturbo psichiatrico associato e si calcola che ben l’80% dei pazienti depressi soffra anche di insonnia.

Del resto, l’insonnia rappresenta notoriamente un criterio diagnostico per diverse patologie di rilevanza psichiatrica ed è considerata un fattore di rischio per l’innesco e il mantenimento di diversi disturbi mentali. Vari studi longitudinali hanno, infatti, documentato che l’insonnia cronica non trattata incrementa il rischio dello sviluppo futuro di un disturbo psichiatrico, soprattutto di tipo depressivo.

Considerato, dunque, che può esserci un’eziologia variegata, è sempre molto importante, anzi essenziale, che si esegua un’accurata valutazione diagnostica per scegliere, di conseguenza, la terapia – medica e/o psicologica – più adeguata.

Inoltre, è stato osservato che, indipendentemente dalla primarietà o secondarietà dell’insonnia, il suo trattamento ha effetti benefici non solo sul sonno, ma anche sulla patologia concomitante. È per questa ragione che le linee guida ne consigliano il trattamento qualunque sia la sua eziologia.

La cura dell’insonnia, attualmente, prevede trattamenti sia farmacologici che non farmacologici. Spesso si pensa che il trattamento farmacologico sia il più efficace, in realtà le linee guida evidenziano che esso è più indicato per le insonnie occasionali o situazionali (a esempio il jet-lag), mentre i trattamenti non-farmacologici sono la terapia di scelta per le insonnie croniche, ma purtroppo tale evidenza non è del tutto conosciuta, diffusa o, peggio, consigliata. Spesso il trattamento è farmacologico, attraverso prescrizione di ansiolitici effettuata o da medici non specialisti o tramite un banalissimo “passaparola” tra insonni. Tutto ciò spesso si rivela inefficace o, addirittura, controproducente, peggiorando i meccanismi di mantenimento del disturbo o determinando dipendenze farmacologiche, peraltro a volte neppure generatrici di un buon sonno.

Oggi, la terapia non-farmacologica più accreditata è il trattamento cognitivo-comportamentale dell’insonnia (CBT-i – Cognitive-Behaviour Therapy for insomnia), un intervento psicologico, individuale o di gruppo, basato su tecniche che hanno mostrato una significativa efficacia in numerose ricerche sperimentali.

La CBT-i per l’insonnia non può essere considerata una vera e propria psicoterapia ma, piuttosto, un intervento specifico e mirato sul tipo di insonnia, basato sui modelli psicofisiologici di regolazione del sonno. Agisce sui fattori comportamentali, fisiologici e cognitivi di mantenimento del disturbo e prevede interventi comportamentali (Tecnica del Controllo degli Stimoli, Tecnica della Restrizione del Sonno), Cognitivi e Psicoeducativi. La CBT-i si rivela efficace in quanto l’integrazione degli interventi permette innanzitutto di modificare le varie credenze disfunzionali sul sonno che, come si è evidenziato, sono particolarmente diffuse e fungono da fattore di mantenimento del disturbo stesso. Le credenze disfunzionali hanno, infatti, un ruolo ancora più grave della mancanza di sonno stesso, visto che, contrariamente a quanto comunemente si crede, le ricerche finora condotte non hanno riscontrato evidenti cali prestazionali cognitivi (come attenzione e memoria) in seguito anche a sole 3-4 ore di sonno.

Il numero, che vede contributi di autorevoli specialisti e ricercatori esperti sull’argomento, fornisce diverse indicazioni utili al lettore per ampliare le sue conoscenze sulla valutazione e il trattamento dell’insonnia. L’articolo di Devoto, Battagliese, Fernandes, Lombardo e Violani, propone una panoramica generale, estremamente utile e dettagliata, sui principali strumenti utilizzabili per la valutazione clinica dell’insonnia. Gli autori evidenziano chiaramente come l’insonnia abbia una genesi multifattoriale; per questa ragione si rende particolarmente necessaria un’accurata e approfondita valutazione dei suoi diversi fattori di innesco e di mantenimento per strutturare un intervento terapeutico razionale e mirato. In questo articolo vengono illustrati gli standard procedurali per l’assessment del Disturbo di insonnia e alcuni strumenti diagnostici fondamentali per la sua valutazione clinica.

Partendo dai criteri diagnostici del DSM-5 e dal modello eziopatogenetico che descrive fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti, gli autori passano in rassegna i metodi di assessment che permettono al clinico di avere informazioni rilevanti per una diagnosi chiara del disturbo e una valutazione utile per poi seguire l’evoluzione dopo il trattamento: colloquio clinico, questionari e diario del sonno. Vengono anche descritti due strumenti obiettivi: l’actigrafia e la polisonnografia. Viene anche illustrato come la raccolta di tale materiale aiuta la diagnosi e,
di conseguenza, l’impostazione del trattamento, permettendo un’accurata e chiara restituzione diagnostica al soggetto che soffre d’insonnia.

Successivamente, visto l’importante ruolo svolto dalle credenze sul sonno nel generare e mantenere il disturbo, il secondo articolo, di Giganti, Arzilli, Cerasuolo e Ficca, descrive le caratteristiche della percezione soggettiva del sonno e dei suoi segnali nel soggetto insonne. L’articolo evidenzia come il trattamento dell’insonnia non dovrebbe tanto mirare a un aumento del tempo totale di sonno o a ridurre la latenza del tempo di addormentamento, quanto piuttosto a correggere le credenze errate sul sonno e all’eliminazione dei comportamenti disfunzionali associati.

Ad esempio, molti soggetti insonni cercano di alleviare le loro difficoltà trascorrendo più tempo a letto, magari con tentativi di riposo nel corso della giornata, ma questi tentativi di autocura conducono in realtà sia a un sonno ulteriormente frammentato, sia ad aumentare il tempo trascorso a letto da svegli ogni notte. Riconoscere le credenze errate sul sonno consente una maggiore compliance nella modificazione dei comportamenti di mantenimento dei disturbi del sonno.

Nell’articolo di Coradeschi si descrive la parte comportamentale dell’intervento. L’autore illustra nel dettaglio, rendendola fruibile al lettore, la tecnica del controllo dello stimolo e la restrizione del sonno che rappresentano due delle componenti centrali della CBT-i. La prima consiste in una serie di prescrizioni finalizzate a riconsolidare l’associazione tra letto e addormentamento, eliminando le attività che interferiscono con il sonno al momento di andare a dormire. La seconda ha lo scopo di restringere il tempo che il paziente trascorre a letto aumentando, attraverso uno stato di lieve deprivazione di sonno, la spinta all’addormentamento, regolarizzando e risincronizzando allo stesso tempo il ritmo sonno-veglia. Il lavoro guida il lettore con l’illustrazione delle procedure d’intervento, fornendo istruzioni ed esemplificazioni utili per il corretto utilizzo delle due tecniche comportamentali, esponendone il razionale e affrontando i principali ostacoli e le resistenze che si possono incontrare col paziente insonne.

Gli ultimi due lavori trattano di due tipologie specifiche di intervento: l’insonnia nei bambini e in pazienti cardiologici. Un problema diffuso che neo-genitori riportano ai pediatri è la difficoltà di addormentamento dei propri figli. L’articolo di Devoto descrive il trattamento cognitivo-comportamentale in età evolutiva, illustrandone le specificità. Si evidenzia come i problemi di inizio e mantenimento del sonno durante la notte sono piuttosto comuni, tanto che si stima una prevalenza intorno al 20%-30% durante la prima infanzia. Mentre, però, nell’adulto, di solito il problema ricade sul soggetto stesso, i problemi di sonno infantile hanno conseguenze negative non solo sul bambino che ne soffre ma, considerando la peculiarità della situazione, anche sul contesto familiare. I disturbi del sonno del bambino, infatti, sono spesso fonte di stress familiare e di effetti negativi per la relazione madre-bambino.

Le ricerche indicano che, in queste situazioni, aumentano pensieri e fantasie aggressive, nonché depressioni materne, contribuendo ad attivare comportamenti di attaccamento genitoriale. L’insonnia del bambino è, inoltre, correlata, in misura decisamente maggiore che nell’adulto, a cali prestazionali, alterazioni dell’umore e disturbi delle funzioni cognitive. Alla luce di queste considerazioni, il tema è quanto mai importante e prevede un trattamento che integra diversi setting coinvolgendo varie figure del nucleo familiare. Per questo motivo la valutazione clinica e il trattamento precoce dei problemi di insonnia nei bambini sono essenziali non solo per migliorare il sonno notturno e il benessere diurno del bambino, ma anche per fronteggiare e prevenire gli effetti negativi sul contesto familiare che amplificano e peggiorano il problema.

In linea con i lavori precedenti, anche in questo caso l’articolo aiuta a sfatare alcune credenze piuttosto diffuse, come la necessità di incrementare la presenza genitoriale per migliorare l’addormentamento del bambino. Ebbene, tale comportamento appare quanto mai disfunzionale e, pertanto, modificare credenze e comportamenti dei genitori sul sonno dei figli, in particolare riducendo il loro coinvolgimento attivo durante la notte, si rivela essenziale. Interessante e utile al lettore la descrizione di un caso esemplificativo trattato mediante le tecniche CBT-i specifiche per l’età evolutiva.

L’ultimo articolo dedicato all’insonnia – di Manno – descrive uno specifico trattamento CBT-i con pazienti ospedalizzati degenti in riabilitazione cardiologica. I sintomi d’insonnia, spesso presenti in pazienti con problematiche cardiologiche, peggiorano la qualità della vita rappresentando un fattore di rischio per ulteriori problemi cardiovascolari. L’autore descrive un’esperienza clinica con 99 pazienti in trattamento riabilitativo degenziale intensivo, successivo a recente intervento cardiochirurgico, evidenziando miglioramenti quantitativi (il numero dei risvegli, il tempo di veglia, il tempo totale di sonno, l’efficienza del sonno) e qualitativi del sonno (sensazione di riposo al risveglio e sensazione di piacevolezza del sonno), dopo trattamento CBT-i individuale, indipendentemente dall’assunzione di terapia psicofarmacologica, intervenendo, quindi, su possibili fattori di rischio per ulteriori ricadute.

Clinica delle disfunzioni sessuali (2012) di Fenelli A. e Lorenzini R. – Recensione

Rivolto a psicologi e medici che trattano i disturbi sessuali (disturbi della risposta sessuale), il manuale illustra un modello teorico e di intervento nelle varie fasi terapeutiche.

 

Il manuale si basa su un approccio integrato che combina la terapia mansionale integrata (TMI) all’interno di una prospettiva clinica cognitivo-costruttivista che valorizza anche la dimensione relazionale.

In particolare, il volume si sofferma sull’analisi degli specifici meccanismi patogenetici e sul trattamento di tre categorie di disfunzioni sessuali:

  • I disturbi dell’eccitazione (frigidità e impotenza);
  • I disturbi da dolore sessuale (vaginismo e dispaneuria);
  • I disturbi dell’orgasmo (inibizione e precocità).

Il metodo mansionale è un approccio strategico breve centrato sulla risoluzione del sintomo attuale e del circolo vizioso di automantenimento, perseguendo come obiettivo ‘il minimo cambiamento stabile possibile‘. Si articola in quattro fasi centrali che a partire dalla riscoperta individuale si orienta alla ricerca di cooperazione ed intesa all’interno della coppia:

  • La conoscenza di sé;
  • La conoscenza di sé tramite l’altro e la conoscenza dell’altro;
  • La conoscenza della propria dimensione del piacere;
  • La conoscenza del piacere condiviso di coppia.

Il principio sotteso a questo orientamento è quello di sperimentarsi in modi e situazioni nuove e diverse per poter accedere ad una inedita percezione di sé e degli altri, così da favorire un miglioramento nell’intimità e nella sessualità di coppia. Al terapeuta spetta il ruolo di guida nella fase di sperimentazione e riscoperta reciproca e di facilitatore degli scambi comunicativi all’interno della coppia.

La ricostruzione precisa della storia di attaccamento e di apprendimento delle credenze individuali che soggiacciono ai disturbi sessuali e che li mantengono nel presente è fondamentale per disambiguare l’origine ed il significato del sintomo. Una stessa manifestazione sintomatica, infatti, può derivare da esperienze, convinzioni e vissuti emotivi del tutto eterogenei. Ad esempio l’impotenza sessuale può originare da ansia prestazionale (“Non devo dimostrare incertezze”), da senso di colpa (“Se penso a me sono egoista”) come anche da rabbia (“L’altro pensa solo a sé”).

L’iter terapeutico viene descritto dal primo colloquio, al contratto, alla gestione della singola seduta, alle prescrizioni mansionali, all’esame delle dinamiche relazionali, delle resistenze e della relazione terapeutica. Una sezione intera illustra l’applicazione degli specifici interventi terapeutici attraverso le quattro fasi del trattamento.

Questo metodo non è indicato, né risulta efficace nel caso in cui siano compresenti anche patologie psichiatriche, profondi disturbi di personalità o gravi difficoltà relazionali all’interno della coppia che, invece, andranno trattati preliminarmente con una terapia tradizionale.

L’impatto di un percorso così intimo può essere significativo:

Poiché la terapia aumenta i gradi di libertà con cui il soggetto può costruire se stesso, i due usciranno da tale esperienza non soltanto con un futuro diverso ma anche con un passato diverso.

La sindrome metabolica e gli effetti del PTSD a livello neuroanatomico

La sindrome metabolica, una situazione clinica ad alto rischio cardiovascolare, secondo quanto riportato da uno studio pubblicato su Biological Psychiatry, potrebbe essere un meccanismo biologico collegante il disturbo post traumatico da stress (PTSD) ad anomalie strutturali del cervello.

La sindrome metabolica

Si caratterizza per tre o più delle seguenti condizioni: obesità, pressione alta, insulina-resistenza, dislipidemia (elevati trigliceridi o bassa densità di lipoproteine). Si ritiene, inoltre, che lo stress giochi un ruolo chiave nella patogenesi e nel decorso della sindrome metabolica e sono state varie le ipotesi avanzate a riguardo, ad esempio quella della disregolazione autonomica, della reattività cardiovascolare, della disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e della disfunzione del sistema immunitario.

Alcune caratteristiche della sindrome, inoltre, inficiano l’integrità strutturale del cervello. Ad esempio, un ridotto afflusso di sangue condurrebbe ad una peggiore perfusione e ad una riduzione dello spessore corticale (per lo più nelle zone temporali, frontali e parietali), un indicatore dell’integrità della materia grigia.

Il PTSD come fattore di rischio della sindrome metabolica

Secondo Erika Wolf, autrice dello studio, queste conclusioni sarebbero fondamentali per strutturare programmi di intervento destinati ai veterani di guerra rientranti da Iraq e Afghanistan, programmi che considererebbero il PTSD come fattore di rischio per la sindrome metabolica e che permetterebbero screening adeguati sui soldati.

Stando alle statistiche, infatti, la sindrome metabolica compare circa due volte più spesso in pazienti con PTSD rispetto alla popolazione generale; tali dati sottolineano quindi il ruolo chiave dello stress in questa relazione. Inoltre, la sindrome metabolica contribuirebbe ad aumentare il rischio di malattie cardiovascolari, il diabete di tipo 2, la neurodegenerazione e altre condizioni mediche avverse che di sovente accompagnano la sintomatologia del PTSD.

Lo studio

Lo studio in questione ha esaminato 346 veterani militari dispiegati in Iraq e Afghanistan. In linea con le precedenti evidenze scientifiche, la prevalenza della sindrome metabolica tra i veterani con PTSD era quasi due volte superiore a quelli senza PTSD. In aggiunta, i risultati delle tecniche di neuroimaging impiegate hanno rivelato un’associazione tra gravità della sindrome metabolica e il ridotto spessore corticale (lobi temporali e frontali). Questo risultato sarebbe particolarmente grave, data la giovane età media del campione (entro i 30 anni). Infatti, la maggiore preoccupazione connessa a questo risultato è che questa popolazione potrebbe andare incontro ad un declino neurocognitivo più marcato e più repentino.

E’ bene sottolineare, tuttavia, che i meccanismi che conducono alla riduzione dello spessore corticale sono ancora sconosciuti e che deve essere ancora esclusa la possibilità che tale riduzione sia in realtà un fattore di rischio, più che una conseguenza, del PTSD e della sindrome metabolica.
Concludendo questa è la prima evidenza scientifica a sostegno della relazione tra la gravità dei sintomi del PTSD, gravità della sindrome metabolica e ridotto spessore corticale nei lobi temporali e frontali.

L’uso di droghe e i tratti di personalità

Indipendentemente dalla funzione o dal tipo di droga, dall’età o dalle caratteristiche della popolazione indagata, si potrebbe affermare con un certo grado di sicurezza l’esistenza di una correlazione tra uso di sostanze e personalità, in particolare con alcuni tratti.

Sara Bellodi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Fino agli anni Cinquanta, quando si pensava alla parola droga, ci si stava riferendo semplicemente a spezie ed aromi. È solamente nel 1967 che l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) fornisce una definizione di droga, tuttora in vigore: “droga è ogni sostanza naturale o artificiale in grado di modificare la psicologia e l’attività mentale degli esseri umani”. Questi effetti vengono detti psicoattivi (alterazione sia degli stati di coscienza che del sistema nervoso).

 

L’utilizzo di sostanze nel corso della storia

Ogni individuo è inserito all’interno di un contesto sociale, che influenza i suoi comportamenti e le reazioni delle altre persone a tali atteggiamenti. Inoltre risulta particolarmente importante determinare i confini tra ciò che è considerato lecito da quello che invece viene valutato come illecito. Appare chiaro che questo confine è molto labile, a seconda del periodo storico di riferimento.

Nelle civiltà primordiali e fino al diciannovesimo secolo dopo Cristo, l’uso di sostanze è da considerarsi autocratico, in quanto veniva gestito dal potere con modalità peculiari e per i propri scopi religiosi, mistici, artistici e terapeutici. È stato utilizzato anche per fini bellici e politici.

Nell’Ottocento, al contrario, l’uso libero di sostanze si è rapidamente diffuso in tutto il mondo occidentale, soprattutto negli ambienti artistici e della moda.

Successivamente, nel ventesimo secolo, negli stati occidentali le droghe vennero dichiarate illecite, entrando di conseguenza nel giro della clandestinità. Negli anni Sessanta, in concomitanza con il movimento hippy, il consumo di sostanze si trasformò in un fenomeno di massa, definito erroneamente ‘cultura della droga’, che coinvolse prevalentemente i giovani. Si evince quindi un utilizzo di tipo democratico, in quanto coinvolge tutti i componenti del gruppo, benché la sostanza sia considerata illecita dal resto della società.

Ancora oggi esiste una cultura della droga del mondo occidentale. In questi raggruppamenti vi è normalmente un poliabuso di sostanze, tra cui hashish, marijuana, allucinogeni (es. LSD), stimolanti (es. cocaina), psicofarmaci sedativi, narcotici fino all’eroina. È emerso che queste comunità sono molto precarie, a causa della tendenza dei giovani componenti a cercare continuamente nuovi tipi di esperienze. Da qua si giunge al fenomeno della droga di massa, utilizzata da ragazzi sempre più giovani, alimentato dagli spacciatori delle sostanze illecite.

Riassumendo, è possibile individuare, nel corso della storia delle varie società umane, cinque funzioni del consumo di droghe (Durrant, Thakker, 2003): terapeutica, sociale, ricreazionale, strumentale, religiosa ed alimentare.

 

Classificazione delle droghe

Le droghe, a loro volta, possono essere classificate in sette gruppi (Malizia, Borgo, 2006): depressivi (alcol, barbiturici, gamma-idrossibutirrato – GHB –, tranquillanti – benzodiazepine –); oppiacei e oppioidi (oppio, morfina, eroina, codeina, tebaina ed etorfina); anestetici dissociativi (ketamina); antidepressivi e psicostimolanti (caffeina, nicotina, coca, cocaina); stimolanti anfetaminosimili (anfetamine, ecstasy); cannabici (marijuana, hashish).

Infine, come afferma Piccone Stella (1999, 2002, pag 15):

Non esiste un muro tra chi consuma tabacco, birra, superalcolici da una parte e chi consuma hashish o eroina dall’altra, come generalmente si ritiene, c’è piuttosto un continuum, una lunghissima e disuguale linea di gusti e di abitudini, di paure e di piaceri, di autocontrollo e di consumo sfrenato, di rischi più o meno consapevoli, lungo la quale le somiglianze e le differenze vanno attentamente esaminate e vagliate

L’organizzazione mondiale della sanità (OMS) definisce l’uso di droga un atto attraverso cui un soggetto si autosomministra una sostanza psicoattiva, senza subire effetti negativi. Mentre l’abuso di sostanze psicoattive viene definito dal DSM-IV come: “una modalità patologica d’uso di una sostanza, dimostrata da ricorrenti e significative conseguenze avverse correlate all’uso ripetuto della stessa” (American Psychiatric Association, 1996, p.206).

L’utilizzo prolungato e costante può provocare nel consumatore uno stato di dipendenza, che può essere fisica o psichica. Nel 1973 l’OMS ha definito:

  • Dipendenza fisica: “abitudine o assuefazione a una droga, che si manifesta con la comparsa di disturbi fisici violenti allorché l’autosomministrazione è interrotta. Questi sintomi, chiamati ‘sindrome di astinenza’ o ‘di privazione’, costituiscono un insieme specifico di sintomi psichici e fisici che variano per ciascun tipo di droga”. In alcuni casi i sintomi possono essere addirittura mortali, come nel caso di quelli da alcol.
  • Dipendenza psichica: “situazione nella quale una droga produce sensazioni di benessere e una pulsione psichica (spinta incontrollabile) a consumarla in maniera periodica o continua, al fine di ottenere un piacere o di prevenire sensazioni spiacevoli”. Si tratta quindi di un fenomeno biologico correlato a specifiche alterazioni biochimiche. Essa è normalmente associata ad un senso d’inadeguatezza interiore, alienazione e incapacità ad eseguire compiti che richiedano responsabilità. Questo tipo di dipendenza, come si deduce dalla definizione sopraccitata, è simile al desiderio di un’esperienza positiva, fino a diventare craving.

 

Uso di sostanze e personalità

Nel corso degli anni sono state svolte numerose ricerche relativamente alla possibile esistenza di un’associazione tra uso di sostanze e personalità, alcuni tratti in particolare (Comeau, Stewart e Loba, 2001; Denson & Earleywine, 2006; Dawe & Loxton, 2004; Deykin et al., 1987; Dougherty et al., 2007; Buckner & Smith, 2008; Harder, Stuart e Anthony, 2008; Foltin et al., 1990; Brook et al., 2001; Bernstein et al., 2015; Edlund et al., 2015).

L’uomo ha da sempre elaborato teorie sulla personalità, ma è solamente dal secolo scorso che sono state proposte usando una specifica strumentazione teorica ed empirica. Tuttavia, nonostante ciò, non si è ancora giunti ad un’univoca proposta interpretativa.

Allport (1931,1966), ad esempio, considera i tratti come le unità di base della personalità. Inoltre, secondo l’autore, questi rappresentano delle disposizioni generali della personalità in grado di spiegare le regolarità, a seconda delle situazioni e nel corso del tempo, nel comportamento di un individuo. Ha proposto una distinzione tra tratti cardinali (le passioni e le motivazioni che perdurano durante la vita dell’individuo), tratti centrali (tutti quegli aspetti che rappresentano la persona, come ad es. la pigrizia, che hanno una forte influenza sui suoi comportamenti) e tratti secondari (aspetti specifici del comportamento del soggetto, come amare o detestare una certa tipologia di film. Sono influenzati dall’ambiente circostante).

Cattell (1946c) invece aveva individuato 171 tratti, raggruppati in 36 gruppi fattoriali. Tra questi aveva identificato i tratti di superficie (aspetti che procedono assieme all’osservatore esterno) e i tratti sorgente (strutture che danno coerenza alla personalità, ma che non sono immediatamente individuabili).

Tra i tratti principalmente indagati nella ricerca sulla correlazione tra uso di sostanze e personalità troviamo ansia, depressione ed impulsività.

L’ansia è definita come un’emozione naturale e universale, che è generata da un meccanismo psicologico di risposta allo stress, il quale svolge la funzione di anticipare la percezione di un eventuale pericolo prima ancora che quest’ultimo sia chiaramente sopraggiunto, mettendo in moto specifiche risposte fisiologiche che spingono, da un lato, all’esplorazione per identificare il pericolo ed affrontarlo nella maniera più adeguata e, dall’altro, all’evitamento e all’eventuale fuga.

In uno studio condotto da Leventhal et al. (2013), con soggetti maggiorenni consumatori di tabacco, è emerso che la sintomatologia ansiosa (es. nervosismo) aveva una forte influenza nel determinare stati negativi (es. rabbia) durante l’astinenza da nicotina.

In accordo con questi risultati, in due ricerche svolte rispettivamente con giovani adulti e con degli studenti frequentati il college, si è scoperto che gli individui socialmente ansiosi consumavano più facilmente cannabis (Buckner, Bonn-Miller, Zvolensky, & Schmidt, 2007; Buckner & Schmidt, 2008). Tuttavia, in contrasto con gli studi appena citati, in una ricerca condotta in una popolazione non clinica, non è stata riscontrata alcuna correlazione significativa tra l’uso di cannabis e l’ansia derivante dalle situazioni quotidiane (Tournier, Sorbara, Gindre, Swendsen, & Verdoux, 2003).

La depressione invece può essere definita come un disturbo dell’umore, in cui c’è un’interazione tra sintomi cognitivi, comportamentali e affettivi. Nei casi peggiori può portare a gravi patologie (es. disturbo depressivo maggiore) che influenzano negativamente la vita lavorativa e quotidiana.

In un recente studio sull’ uso di sostanze e personalità condotto da Edlund et al. (2015) su una popolazione adolescente (età compresa tra i 12 e i 17 anni), si è osservata una forte correlazione tra gli episodi depressivi maggiori e il seguente utilizzo di oppioidi, portando gli autori a considerare l’episodio depressivo come un vero e proprio fattore, sia di rischio, sia predisponente ad un futuro uso/abuso della sostanza.

Similmente, McCann et al. (2014) hanno riscontrato che soggetti che consumavano ecstasy tra gli 11 e i 15 anni, avevano maggiori probabilità di sviluppare sintomi depressivi entro i 16 anni d’età.

Precedentemente, Denson e Earleywine (2005), hanno suddiviso la loro ricerca sull’uso di cannabis in due parti. Nella prima hanno separato il campione in base alla frequenza di utilizzo (uso quotidiano, una volta a settimana o meno, mai) ed è emerso che i consumatori quotidiani erano meno depressi e più positivi rispetto agli altri due gruppi. Nella seconda parte dello studio invece hanno analizzato i livelli di depressione in soggetti che usavano la cannabis con scopi ricreativi o con scopi medici. Questi ultimi avevano dei livelli di depressione più alti rispetto ai primi.

Un altro tratto di personalità spesso associato all’utilizzo di sostanze è, come detto inizialmente, l’impulsività. L’impulsività è ciò che spinge un individuo a compiere un’azione o un determinato comportamento senza pensarci, istintivamente.

Bernstein et al. (2015), in linea con i risultati ottenuti nelle ricerche su ansia e depressione, hanno riscontrato una correlazione tra impulsività ed uso di sostanze, in questo caso analizzando un campione di carcerati. Nello specifico, gli autori hanno rilevato che i soggetti abituati ad un poliabuso di droghe (alcol, oppiacei, benzodiazepine, cocaina, allucinogeni) oltre alla cannabis mostravano livelli di impulsività molto più alti rispetto ai non consumatori.

Sono state ottenute conclusioni similari anche in studi antecedenti sulle cosiddette ‘droghe leggere‘, quali tabacco (Baker, Brandon & Chassin, 2004; Bilieux, Van Der Linden & Ceschi, 2007) e marijuana (Dougherty et al., 2007), dove è stata confermata la correlazione con questo tratto di personalità.

In conclusione, indipendentemente dalla funzione o dal tipo di droga, dall’età o dalle caratteristiche della popolazione indagata, si potrebbe affermare con un certo grado di sicurezza l’esistenza di una correlazione tra uso di sostanze e personalità, in particolare con alcuni tratti.

Limitless (2011): bipolarismo, dipendenza e potenziamento delle capacità cerebrali –  Recensione del film

Protagonista di Limitless è Eddie, vittima di un incontro con un lucignolesco passato in cui spunta Lei: la pillola magica, irrintracciabile e sconosciuta, consente di sfruttare il fantomatico 100% delle potenzialità del cervello, in pratica il santo Graal, l’NZT.

 

Limitless: sinossi

Eddie Morra è uno scrittore fallito, un alcolizzato che vive ormai ai margini della società, abbandonato dalla fidanzata e costretto a miseri stratagemmi pur di evitare lo sfratto da un lurido appartamento in uno squallido sobborgo di Chinatown. Passa le sue giornate tra schermo bianco del computer, carte di hamburger avanzate e sudici bar nella speranza di spremere dalle meningi obnubilate una qualche frase del romanzo per il quale ha un contratto, prima che la sua editrice lo sbatta fuori dai giochi.

L’angoscia cresce ogni giorno, la voce narrante incalza un uomo schifato di se stesso e della propria condizione ai limiti della dignità; numerosi flashback puntellano l’escalation di sfacelo verso il più basso dei gradini: ‘Eddie sei finito, fai veramente schifo‘ decreta la voce sprezzante, ‘Non ti resta che tornare dai tuoi, hai chiuso‘.

E poi l’incontro con un lucignolesco passato: l’ex cognato spunta fuori dal cilindro delle droghe leggere e propone Lei. La pillola magica, irrintracciabile e sconosciuta: consente di sfruttare il fantomatico 100% delle potenzialità del cervello, in pratica il santo Graal, l’NZT.

Già dalla prima assunzione vediamo l’intero mondo di Eddie cambiare: luci, suoni, interpretazione della realtà e colori. I volumi aumentano, i movimenti accelerano, le informazioni a sua disposizione si fanno infinite: è come se tutta la conoscenza da lui acquisita negli anni fosse lì a disposizione, archiviata e pronta per essere utilizzata.

Improvvisamente ricorda tutto, ogni particolare, e riesce a metterlo in collegamento con altre informazioni apprese, anche di poco conto o viste per pochi attimi. E’ in grado di apprendere nuove capacità dopo pochi minuti di pratica e inizia a utilizzare questo immenso potere a scopo di lucro. Ma come ogni zucca o paese dei balocchi fiabesco, anche l’NZT ha delle conseguenze, che Eddie scopre ben presto a sue spese. Tra complicazioni di stampo mafioso che mettono continuamente in pericolo la vita del protagonista del film Limtless, ed effetti collaterali sempre più invalidanti veniamo a scoprire un mondo sotterraneo di personaggi dell’alta finanza la cui ascesa è stata in realtà potenziata dall’NZT.

Il magnate dell’alta finanza Carl Van Loon, prima mentore poi inquietante aguzzino, provoca a tal proposito Eddie, mettendolo di fronte al dilemma tutto morale: una capacità guadagnata sul campo nel tempo, è migliore di una geniale spuntata fuori dal nulla? E come se minacce di morte cruenta e ricatti infimi non bastassero, l’NZT comincia a rivelare la sua scure mortale: l’assunzione prolungata non solo provoca dipendenza, ma superato un punto di non ritorno al primo accenno di diminuzione della dose inizia un’escalation di disturbi fisiologici invalidanti che portano alla morte repentina. Il Santo Graal si mostra per ciò che realmente è: un sirenico estorsore.

GUARDA IL TRAILER ITALIANO DI LIMTLESS:

 

Limitless: la salvezza dal quotidiano fallimento tra bipolarismo e dipendenza

Chi mai vorrebbe rimanere un fallito, avendo a disposizione una pillola magica che ci offre su un piatto d’argento una versione potenziata di noi stessi praticamente invincibile e totipotente, instancabile e irrefrenabile? La risposta è retorica quanto la domanda, e coinvolge di per sé temi cari alla psicopatologia da anni.

Non abbiamo bisogno di sentir pronunciare a Eddie il passe partout ‘Smetto quando voglio‘, per addentrarci nei meandri oscuri della dipendenza: ci siamo già invischiati dai primi 15 minuti e ne siamo perfettamente e banalmente consapevoli.

L’aspetto a mio avviso più interessante di Limitless, però, risiede proprio nella natura della vera protagonista.  L’NZT non crea nulla che non sia già presente: potenzia ciò che già è. Alza i volumi, elimina la fragilità, l’umanità bisognosa di ristoro, elimina difese e barriere alimentando la leggenda millenaria sempre attuale del superuomo, del supereroe e dell’immortale. Miliardi di neuroni, incalcolabili sinapsi, la leggenda del 100% ciclicamente riportata in auge come a sottolineare l’inesorabile pochezza e fragilità dell’essere umano medio, la sua inesplicabile insufficienza quotidiana. ‘Non sei abbastanza, devi fare di più, non vali nulla‘ un ritornello al quale l’NZT pone un’aurea risposta.

Il dualismo vissuto da Eddie in Limitless, nell’alternanza tra assunzione e astinenza, ci richiama alla mente le fasi di un bipolarismo veloce, nel quale il doppio Dostoevskijano maniacale lo incita ad uscire da un sé sfatto e vergognoso; la mania indossa il colletto bianco dell’alta finanza e concupisce a suon di scintillanti spider e vertiginose ascese: è tutto lì sul piatto, signore e signori, non c’è trucco né inganno!

Ma il trucco, ovviamente, c’è. L’NZT è anche incontrollabile, si impossessa di te, dei tuoi desideri e delle tue aspettative. Logora il tuo corpo, ti mostra che i bisogni umani hanno una funzione necessaria, che senza di essi non esiste vita compatibile, che senza barriere e senza difese la tua mente è inerme verso le dinamiche psicologiche dell’altro e del gruppo. Il dolore, il fallimento, la disperazione non possono che essere parte dell’umana esperienza perché elementi fondanti dell’altra faccia dello specchio. Senza di essi non può esserci rispecchiamento né confronto.

Dopo la prima assunzione, Eddie si stupisce di non aver bisogno di mangiare né di riposarsi, persino il fumo e l’alcool sono lontani ricordi: improvvisamente si scopre efficiente e puntuale, dinamico e vincente in ogni singola azione, al di là di ogni suo più recondito sogno. Una fase maniacale perfetta, proiettata all’estremo di un super uomo, tanto caro ai nostri standard quotidiani del ‘mai abbastanza’, e della frenesia ad ogni costo. Una tale efficienza non può che creare dipendenza, proprio per il fatto che ci libera da ogni altra dipendenza o debolezza, stasi o fragilità, esitazione o timore.

Ma tutto ha un prezzo, e come ben sappiamo la fiamma che arde al doppio della potenza si consuma in metà del suo tempo. Debolezze, stasi, fragilità e timori sono parti costituenti dell’esperienza umana, ma non solo; donano ad essa la consapevolezza necessaria per affrontare le nuove sfide. Carl Van Loon ricorda ad Eddie come gli infimi scalini dell’ascesa, preparino al trono dell’ascesa stessa: evitandoli si rischia il fango. L’accettazione del percorso permette di fare spazio all’umano, al fragile peccatore; gli permette di rialzare la testa a partire dal fango del quale le sue ginocchia sono intrise. L’Eddie della pellicola ci lascia in sospeso: sarà stato in grado di farlo?

Assunzione di droghe e compromissione del riconoscimento delle immagini

Una nuova ricerca pubblicata su Neuropsychopharmacology mostra come l’LSD, una delle droghe psichedeliche più diffuse, alteri il processamento delle informazioni emotive veicolate dai volti mentre incrementa il comportamento prosociale.

 

Introduzione

Questa droga è stata spesso studiata in virtù delle sue proprietà psicoattive fin dal 1940; tuttavia dagli anni sessanta dello stesso secolo la ricerca su questo allucinogeno è stata fortemente limitata, in quanto collegata alla cultura hippie e al movimento contro la guerra. LSD è attualmente studiata per il trattamento di diversi disturbi mentali, tra cui ansia, dipendenza e disturbo da stress post-traumatico (PTSD).

Lo studio

Secondo i risultati di questo studio, condotto in doppio cieco e con un gruppo di controllo che assumeva un placebo, l’LSD tende a ridurre la capacità della persona di riconoscere le emozioni negative, migliorando l’empatia e la prosocialità di una persona. I ricercatori hanno per prima cosa reclutato 40 partecipanti adulti presso l’Università di Basilea in Svizzera; 11 di loro in precedenza avevano già provato l’assunzione di LSD. Ad ogni partecipante è stata poi data una singola dose orale da 100mg o da 200mg o un placebo inattivo. Circa 5-7h più tardi (circa 3h dopo il picco massimo di effetti psicotropi della LSD) i soggetti completavano una serie di test psicologici tesi a misurare il loro stato d’animo e l’elaborazione di informazioni emotive. Nel dettaglio questi erano: il Face Emotion Recognition Task, il Mutifaceted Empathy Test, il Social Value Orientation Test, le Visual Analog Scales e l’Adjective Mood Rating Scale.

I risultati

Al termine dell’esperimento si è osservato che i partecipanti sotto l’effetto di LSD avevano meno probabilità di riconoscere le espressioni facciali di paura e di tristezza. Tuttavia il farmaco non sortiva effetto sul riconoscimento di espressioni facciali neutre, felici o arrabbiate.

L’effetto della LSD, inoltre, produceva una riduzione dell’empatia cognitiva accompagnata da un incremento dell’empatia emotiva; i partecipanti che avevano assunto la droga avevano quindi difficoltà ad inferire lo stato mentale di una persona osservando una fotografia, ma erano più propensi a sentirsi preoccupati per il benessere della stessa.

Riguardo il comportamento prosociale, misurato per mezzo del Social Value Orientation Test – dove i soggetti devono scegliere come distribuire una piccola somma di denaro tra loro stessi e gli altri partecipanti – i soggetti sotto gli effetti di LSD optavano più spesso per una distribuzione eguale.
Rispetto all’umore dei partecipanti, infine, la droga stimolava sentimenti di vicinanza agli altri, la tendenza a fantasticare, il voler stare con gli altri, la felicità, l’apertura, la fiducia e l’introversione.

Gli effetti fisiologici registrati dalla LSD erano in linea con le precedenti evidenze scientifiche, e cioè ad una sua assunzione si accompagnano un aumento della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca, della temperatura del corpo e la dilatazione delle pupille.

Dolder e i suoi colleghi hanno affermato che i loro risultati potrebbero avere un rilevante significato clinico. Gli effetti dell’LSD, infatti, potrebbero ridurre la percezione di emozioni negative nel paziente e faciliterebbero l’alleanza terapeutica.

Magrezza non è bellezza – Genova, 01 Ottobre 2016

Si è svolto sabato 1 ottobre 2016 il primo incontro dal titolo “Magrezza non è bellezza” del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova”.

 

La partecipazione era aperta a professionisti che operano nel campo della salute mentale ed è stato organizzato dal nuovo centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva formato da un’equipe di psicoterapeuti ad orientamento cognitivo-comportamentale.

A condurre la giornata la dott.ssa Sassaroli che ci ha parlato dei disturbi dell’alimentazione. Partendo da un cappello introduttivo in cui si sono analizzati i criteri diagnostici dei disturbi dell’alimentazione secondo il DSM 5, abbiamo osservato i fattori di rischio temperamentali, psichiatrici, biologici che rappresentano un rischio di insorgenza dei disturbi anoressici e bulimici.

Particolare attenzione è stata posta sulle caratteristiche familiari che possono influire e in parte determinare lo sviluppo e anche il mantenimento del disturbo dell’alimentazione.

Infine ci si è soffermati sull’analisi di due casi clinici e sulla strutturazione della loro terapia permettendo un confronto aperto sulla gestione terapeutica di tali tipi di disturbi.

Il prossimo degli incontri organizzati dal centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva dal titolo “Tematiche suicidarie e psicoterapia” condotto dal Dr. Francesco Centorame si svolgerà sabato 22 ottobre 2016 dalle ore 10 alle ore 13.

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Cogenitorialità: le nuove forme dell’essere genitore

Le relazioni genitori-figli dovrebbero essere considerate in una cornice complessa che prevede l’interdipendenza di diversi rapporti diadici, in particolare la coppia coniugale e quella genitoriale, per cogliere questa complessità e cercare di definirla si è iniziato a usare il termine cogenitorialità o alleanza cogenitoriale per definire e studiare la relazione fra genitori che lavorano insieme per guidare un figlio.

Marzia Caffesi – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia e Ricerca, Milano

 

Cara, sono a casa!”. Poche parole che fin da subito evocano nella mente di tutti l’immagine dell’impiegato della middle class che, dopo una giornata in ufficio, rientra a casa per trovare: una cenetta deliziosa quasi pronta, due o tre pargoli puliti e sorridenti e dulcis in fundo un’adorabile mogliettina che, indossando un grazioso abito da cocktail, porge un aperitivo esclamando: “Oh caro! Che bello sei arrivato! Come è andata la giornata?”.

In questa scena ripresa più volte in passato (e in alcuni casi anche di recente) da numerose réclame televisive è espresso il cuore dell’ideologia famigliare tipica degli anni cinquanta ossia una rigida divisione dei ruoli dove alla moglie competeva l’andamento della casa e soprattutto la crescita dei figli mentre l’uomo, il cui compito principale consisteva nel procurare il sostentamento familiare, si limitava a qualche fugace apparizione nel ruolo di genitore se vi erano questioni urgenti di disciplina.

 

 

Il cambiamento di paradigma e il riconoscimento della cogenitorialità

Da allora la famiglia è mutata e si potrebbe dire che è tuttora in fase di ristrutturazione. Ciò che è certo è il ruolo sempre più attivo e partecipe richiesto alla figura paterna nella crescita dei figli e di conseguenza il modificarsi stesso dell’esperienza genitoriale sia dal punto di vista dei partner sia per quel concerne le ricadute sulla prole. Per questo motivo l’esperienza genitoriale e il fondamentale compito di cura responsabile che ne consegue sono stati largamente studiati soprattutto per le conseguenze nello sviluppo dei figli e come fattore di rischio o di protezione nel processo evolutivo dell’essere umano (McHale, J.P., Kuersten-Hogan, R., Lauretti, A. 1996).

Storicamente, gli studi si sono focalizzati sulla diade madre-bambino, in particolar modo sulla ricerca volta alle primissime fasi dello sviluppo, in cui alla donna viene attribuito un ruolo centrale nell’accudimento del bambino. Con l’avanzare degli anni e il progressivo coinvolgimento del padre, questi studi hanno iniziato a tenere in considerazione e comprendere la figura paterna, ma è solo recentemente che alcuni lavori hanno evidenziato che le diadi madre-figlio e padre-figlio formano modelli relazionali all’interno di una triade nella quale le caratteristiche delle relazioni tra genitori, già durante la gravidanza, assumono una funzione fondamentale (McHale, 1995).

Secondo queste prime considerazioni si è iniziato a capire che le relazioni genitori-figli dovrebbero essere considerate in una cornice complessa che prevede l’interdipendenza di diversi rapporti diadici, in particolare la coppia coniugale e quella genitoriale. L’interdipendenza di queste relazioni lascia emergere delle proprietà che sono più della semplice somma di rapporti diadici o dalle caratteristiche dell’individuo ma che potremmo definire familiari.

Per cogliere questa complessità e cercare di definirla si è iniziato a usare il termine cogenitorialità o alleanza cogenitoriale per definire e studiare la relazione fra genitori che lavorano insieme per guidare un figlio. La cogenitorialità viene intesa quindi la qualità della coordinazione tra gli adulti nei loro ruoli genitoriali (McHale, 2010). La definizione rimanda al mutuo investimento e coinvolgimento dei genitori nel crescere congiuntamente i loro figli. La cogenitorialità è inoltre la relazione attraverso cui i genitori negoziano i loro rispettivi ruoli, la responsabilità e i contributi nei confronti dei loro figli (Margolin, 2001), ma rimanda anche al sostegno, alla condivisione della responsabilità, al rispetto e alla fiducia tra madre e padre e anche al modo in cui i genitori affrontano insieme il loro ruolo (Feinberg, 2002).

Recentemente si è scoperto che la cogenitorialità risulta essere uno snodo centrale per ciò che concerne le relazioni famigliari (McHale, J.P., Rasmussen, J.L., 1998). Il termine cogenitorialità, al contrario del comune pensare non coincide con la suddivisione equa del lavoro genitoriale ma come un’alleanza tra i genitori che può contenere sia dimensioni positive quali il rispetto, la partecipazione, la comunicazione, e la cooperazione; sia caratteristiche negative come conflitto e triangolazione (McHale, 2010).

L’uso del termine alleanza è infatti significativo: veri alleati sono coloro che non solo convengono pubblicamente su un piano di azione, ma che poi continuano a sostenere quel piano sia quando esercitano la genitorialità con il partner sia quando la esercitano da soli. Un rapporto di questo tipo quindi, esiste tra due persone quando assumono un reciproco impegno, vincolante per il benessere del bambino.

 

Come si è arrivati allo studio del rapporto cogenitoriale e le sue dimensioni

È importante sapere che il concetto di cogenitorialità è entrato nella ricerca sulla famiglia, attraverso gli studi sulle famiglie divorziate, perché una buona cogenitorialità si è dimostrata prevenire gli effetti negativi del divorzio sul bambino come i problemi emotivo-comportamentali e solo successivamente l’importanza di questo fattore chiave è stata estesa e riconosciuta anche nelle famiglie intatte anche in virtù dell’assunzione di un’ottica preventiva (MCcHale, J. P., Fivaz-Depeursinge, E. 1999; Feinberg M.E., Brown L.D., & Kan M.L., 2012).

In seguito numerosi studi hanno esaminato questo legame all’interno del contesto del matrimonio identificando le tipologie che riflettono i modelli di comportamento cogenitoriale. Le tipologie principalmente riconosciute sono: la cogenitorialità oppositiva, caratterizzata da basso calore e cooperazione e alti livelli di antagonismo cogenitoriale; la cogenitorialità coesa, caratterizzata da più alti livelli di calore e cooperazione e bassi livelli di antagonismo e la cogenitorialità non restrittiva, caratterizzata da bassi livelli di calore e cooperazione e livelli di antagonismo simili a quelli del gruppo oppositivo, ma non così estremi.

Inoltre si è arrivati a intuire che il rapporto cogenitoriale comprende due dimensioni: una interna e una esterna. La dimensione interna è rappresentata dalle esperienze di cogenitorialità di ogni genitore ed è caratterizzata da sentimenti di convalida da parte del partner, a commenti positivi sull’impegno per il benessere del figlio, ed è dedicato a promuovere sia un sottosistema cooperativo dei genitori sia il sistema familiare nel suo complesso, mentre la dimensione esterna è rilevabile nelle interazioni triadiche, che prevedono la presenza di padre, madre e bambino.

 

 

Il valore di mediatore nei legami famigliari

Per quello che riguarda il rapporto con la relazione di coppia, sappiamo che la cogenitorialità è teorizzata ad un livello triadico per cui dovrebbe essere intrecciata, per la sua stessa essenza alla relazione coniugale. Allo stesso modo però, la relazione cogenitoriale va distinta, dalla pura relazione di coppia che esiste a livello diadico. Sarebbe meglio, quindi, definire le due relazioni come sottosistemi famigliari continui ma distinti.

Un certo numero di studi ha indagato come il legame cogenitoriale influenzi il legame di coppia. Quasi sempre però, in questi studi, non si ipotizza un’influenza diretta bensì un ruolo di mediazione che la cogenitorialità avrebbe tra rapporti coniugali e le pratiche genitoriali. Sembrerebbe quindi che l’alleanza cogenitoriale possa mediare l’associazione tra relazione coniugale e relazione genitoriale. In particolare, il rapporto cogenitoriale è influenzato dai sentimenti che i partner provano l’uno per l’altro, quindi relazioni coniugali buone si riflettono in cogenitorialità positiva, mentre rapporti ostili tra i coniugi si riflettono in cogenitorialità negativa.

È stato anche proposto un modello alternativo e altrettanto plausibile che propone una prospettiva in cui la cogenitorialità influenza simultaneamente sia le relazioni coniugali che le pratiche genitoriali. Si evidenzia così una correlazione tra relazioni cogenitoriali e legame coniugale: le coppie soddisfatte da un punto di vista coniugale mostrerebbero più calore, meno conflittualità e più cooperazione, sensibilità reciproca e supporto quando interagiscono di fronte ai figli.

Come spiega McHale (MCcHale, J.P., Kazali, C., Rotman, T., Talbot, J., Carleton, M., Lieberson, R., 2004), l’importanza cruciale di questa alleanza tra genitori è testimoniata dal fatto che, in famiglie in cui esiste un’alleanza forte e supportiva, tanto i genitori quanto i figli appaiono meno stressati, la relazione coniugale poggia su un piano di maggiore stabilità e i figli sperimentano un maggior successo nelle relazioni con i coetanei.

Ciò che invece non è sempre chiaro è che il diventare genitori non coincide, al contrario di quel che si pensa, con l’evento della nascita ma è legato a un lungo processo di rielaborazione sia a livello mentale sia a livello delle proprie relazioni affettive, che determina radicale cambiamento nel mondo del singolo e della coppia. Questa considerazione è tanto più veritiera se si pensa ai padri che non sperimentando in prima persona la gravidanza e, in alcuni casi, per retaggio culturale si trovano maggiormente in difficoltà nell’assunzione del ruolo genitoriale.

La nascita come cambiamento porta alla costituzione di un nuovo equilibrio che favorisce una relazione armoniosa bambino-genitori, ma può anche creare una situazione di disagio psichico che troverà espressione all’interno del sistema familiare in quanto la genitorialità implica anche un sostanziale riassetto delle relazioni interpersonali all’interno della rete di parentela della coppia stessa.

All’interno del panorama di ricerca gli autori hanno esplorato e approfondito il ruolo giocato dalla cogenitorialità nelle relazioni familliari e dai risultati è emerso che l’alleanza cogenitoriale gioca un ruolo importante nel mediare l’associazione tra relazione coniugale e relazione genitoriale (Margolin, Gordis, Jhon, 2001; Morril Hives, Mohamood, Cordova, 2010). Alcune ricerche recenti, (Pedro, Riberio Shelton, 2012; Holland Mc Elwain, 2013) hanno trovato come la cogenitorialità sia in grado di mediare l’associazione tra soddisfazione coniugale e pratiche genitoriali e come la percezione di essa da parte del singolo genitore medi la relazione tra qualità coniugale e il rapporto genitore-figlio.

Da altre ricerche è emerso come il conflitto coniugale influenzi negativamente il rapporto genitore-figlio e porti spesso ad una cogenitorialità ostile, competitiva e meno supportiva e come, invece, la soddisfazione coniugale porti a un aumento della cooperazione e del supporto tra i genitori con i figli (Erel, Birman, 1995; Katz, Gottman, 1996, Kitzmann, 2000). Inoltre questo è emerso anche in ricerche più recenti dove i livelli di adattamento coniugale si rivelano essere predittivi del sostegno cogenitoriale (Bonds, Gondoli, 2007).

 

 

L’importanza del legame cogenitoriale per i figli

Altri ricercatori hanno indagato maggiormente come la cogenitorialità influisse sull’adattamento dei figli nelle varie fasi della vita. Si è visto come la cooperazione genitoriale sia un fattore protettivo per l’adattamento del bambino, come la cooperazione percepita da uno dei due genitori possa essere perditore delle competenze sociali del bambino (Barnett, Scaramella, Mc Goron e Callahan, 2001) e come, invece, il conflitto cogenitoriale possa predire una relazione genitoriale negativa e la comparsa di comportamenti antisociali negli adolescenti (Feinberg, 2007). Vi sono però altri studi che sorprendentemente hanno trovato un’assenza di legame tra cooperazione cogenitoriale e soddisfazione di vita degli adolescenti (Teubert e Pinquart, 2011).

In sostanza il legame cogenitoriale è fondamentale anche per i suoi esiti, in particolare per ciò che concerne l’adattamento dei figli. Come già spiegato la relazione cogenitoriale può avere una potente influenza su molti aspetti della vita familiare e quindi anche sull’adattamento del figlio. È stato dimostrato che il conflitto cogenitoriale predice negatività genitoriale e comportamento antisociale nei figli e in generale a sintomi esternalizzanti o internalizzanti. Vi sono fattori che posso moderare l’influenza del conflitto cogenitoriale. Questi sono le caratteristiche del figlio (sesso, ordine di nascita ecc.) e le caratteristiche della famiglia (genitori divorziati o meno) e il contesto. D’altra parte si è dimostrato che l’influenza positiva della cooperazione cogenitoriale migliora la genitorialità di madri e padri e di conseguenza le percezioni del livello di cooperazione entro la relazione cogenitoriale predicono indipendentemente un aumento di competenze sociali dei bambini.

 

 

Per concludere

La cogenitorialità, soprattutto negli ultimi anni, si è scoperta essere uno snodo centrale per ciò che concerne le relazioni famigliari e può essere definita anche come alleanza genitoriale. L’uso del termine alleanza è infatti significativo: veri alleati sono coloro che non solo convengono pubblicamente su un piano di azione, ma che poi continuano a sostenere quel piano sia quando esercitano la genitorialità con il partner sia quando la esercitano da soli.

Questo legame risulta essere di centrale importanza e fungere da mediatore in molti legami famigliari come il rapporto tra partner, il rapporto genitoriale e di conseguenza per il benessere della prole. Infine la cogenitorialità risulta essere un oggetto di studio relativamente nuovo le cui forme si modificano e si adattano ai cambiamenti della società e alle sue esigenze. Per questo motivo, oltre che la sua importanza per il benessere famigliare e in seconda battuta per il benessere sociale, dobbiamo aspettarci che essa diventi sempre più oggetto di studio e di valutazione.

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