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Il disturbo ossessivo compulsivo: credenze e dinamiche

Il disturbo ossessivo compulsivo rientra nello spettro dei disturbi di tipo ansioso, infatti la compulsione è il tentativo di controllo di una ossessione che non ammette errori, pena finire in una zona d’ombra totalmente incerta.

Simone Zignani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Il disturbo Ossessivo Compulsivo viene definito dal DSM-5 come caratterizzato principalmente da ossessioni e da compulsioni (American Psychiatric Association, 2013).
La struttura del disturbo si articola principalmente rispondendo alle preoccupazioni (ossessioni) con dei comportamenti riparatori (compulsioni).
La differenza da un comportamento funzionale sta nell’intensità sia della preoccupazione, sia della risposta ad essa.

Le ossessioni

Il disturbo ossessivo compulsivo viene annoverato tra i disturbi d’ansia perché, come la maggioranza dei disturbi in questa famiglia, comprende delle credenze distorte che sovrastimano l’importanza delle conseguenze (Foa & Kozak, 1997).
I contenuti di queste ideazioni riguardano principalmente tre aspetti: perdita, pericolo o colpa (Salkovskis, 1985).

Da notare come i pensieri possano essere percepiti come egodistonici, ovvero estranei al proprio sistema di valori, dai soggetti interessati; questo è il motivo per cui vengono percepiti come intrusivi e si vogliano neutralizzare (Foa & Kozak, 1997); il contenuto mentale è quindi allo stesso tempo inaccettabile e frustrante (Klark & Purdon, 1993), quindi da negare, e diventa una ossessione vera e propria, che è ricorrente e persistente (Brakoulias & Starcevic, 2011).

Da ciò derivano delle assunzioni che riguardano principalmente i pensieri e la relazione con essi (Salkovskis, 1985):
– pensare ad una azione equivale ad agirla;
– non prevenire un danno a sé o agli altri equivale ad averlo causato;
– la responsabilità non viene attenuata da altre variabili;
– non cercare di neutralizzare un pensiero intrusivo equivale a lasciare che il contenuto di quel pensiero si verifichi;
– uno dovrebbe, perché può, esercitare controllo sui suoi pensieri.

Inoltre, pensando alle ossessioni, se le poniamo lungo un continuum che può andare da una credenza forte, dogmatica, a una credenza debole con presenza quindi di insight da parte del soggetto sulla sua problematicità, capiamo come anche all’interno di questo quadro clinico ci possano essere importanti differenze.
Nei soggetti in cui le credenze sono più forti, ad esempio, ci sono anche meno risorse cognitive, soprattutto nel grado di flessibilità (Bradbury et al., 2011) e di conseguenza il trattamento dovrà tenerne conto prima di un qualsiasi tentativo di disputing; oltre a questo la mancanza di insight potrebbe portare all’assenza o riduzione dell’egodistonia delle ossessioni, rendendo di conseguenza difficile anche una diagnosi appropriata (Brakoulias & Starcevic, 2011).

Per far fronte a queste problematiche, che come si può vedere sono date dalla complessità sia di contenuto, che di struttura delle credenze, si riprendono di seguito le caratteristiche ritrovate da Brakoulias e Starcevic nel loro studio del 2011:

Convinzione: quanto il soggetto pensa che la sua credenza sia vera
Fissità: quanto il soggetto sia disposto a mettere in discussione la sua credenza davanti ad una evidenza contraria ad essa
Fluttuazione: quanto la convinzione del soggetto cambia in assenza di prove a sfavore della sua credenza
Resistenza: quanto la persona cerca di reprimere la sua credenza
Consapevolezza dell’inaccuratezza della credenza: quanto la persona è consapevole dell’insensatezza o della inaccuratezza della sua credenza
Abilità di attribuire la credenza a una malattia: capacità del soggetto di attribuire la credenza a un disturbo mentale (il D.O.C. in questo caso)

Dinamica dei processi

La compulsione, per come viene definita, può comprendere tutti quei comportamenti stereotipati (ad esempio pulirsi le mani per non rimanere contaminati), ma anche pensieri, utilizzati per rispondere alla preoccupazione (American Psychiatric Association, 2013).
L’utilità di questa risposta sta nel fatto che evita completamente l’eventualità potenziale di affrontare quel timore, attraverso un meccanismo di controllo.
Se, ad esempio, l’ossessione è che toccando oggetti esterni al proprio ambiente domestico si può rimanere contaminati, utilizzando dei guanti per toccare ogni oggetto fuori casa si evita totalmente l’eventualità di contatto, e quindi sia l’eventualità di confermare questa credenza, sia l’eventualità di disconfermarla non rimanendo contaminati.
La rigidità della compulsione rende a sua volta rigida la preoccupazione, che trovando solo conferme diventa una ossessione.
Dato che la compulsione nel breve termine diminuisce lo stress neutralizzando l’ossessione, può venire generalizzata ad ogni elemento stressogeno e quindi divenire la strategia di coping preferita dal soggetto (Salkovskis, 1985).

Aspetti emotivi del disturbo ossessivo compulsivo

Il disturbo ossessivo compulsivo rientra nello spettro dei disturbi di tipo ansioso, infatti la compulsione è il tentativo di controllo di una ossessione che non ammette errori, pena finire in una zona d’ombra totalmente incerta, dinamica supportata dai risultati degli studi di Steketee & al., 1998.
Secondo tali autori, infatti, non solo sono le credenze riguardo la responsabilità, il controllo e la minaccia quelle caratterizzanti del disturbo ossessivo compulsivo, ma anche quelle riguardo alla intolleranza dell’incertezza o dello stress.

E’ stato riscontrato come il senso di colpa sia un’emozione fortemente correlata a questo disturbo e alla depressione, che può essere in comorbidità (Shafran, 1996).
Infatti le compulsioni possono essere finalizzate a evitare l’ipotetica responsabilità di arrecare danno che il soggetto incontrerebbe; inoltre non agire la compulsione vorrebbe dire non assicurarsi di evitare questo scenario, e omettere una azione è già di per sé una colpa secondo questo schema (non ho fatto niente per impedirlo).

L’evitare il senso di colpa è già di per sé una gratificazione, e quindi il soggetto ha un miglioramento dell’umore nel breve periodo, che rinforza l’utilizzo della compulsione come risposta all’ossessione (Salkovskis, 1985).
Oltre a questo, però è da precisare come c’è la possibilità che il soggetto si vergogni delle sue compulsioni (Prins & Schooling, 2001), e questo sentimento sia di per sè stressogeno e quindi la compulsione stessa possa diventare uno stimolo; inoltre questo implica una certa difficoltà per la persona a riportare questi comportamenti in psicoterapia.

Aspetti metacognitivi del disturbo ossessivo compulsivo

Le credenze sul controllo veicolano una forte attenzione rivolta verso i propri pensieri intrusivi e un grande sforzo per cercare di neutralizzarli (Clark & Purdon, 1993).
Dato che ciò non è mai totalmente possibile e l’ossessione si ripresenta il soggetto non solo può provare rabbia per il fallimento del controllo, ma potrà impegnarsi maggiormente nelle sue strategie per neutralizzare il pensiero, ad esempio ricorrendo a dei rituali.

Aspetti comportamentali del disturbo ossessivo compulsivo

Le compulsioni, comportamentali o mentali che siano, hanno sostanzialmente la funzione di ridurre lo stress ed evitare le conseguenze temute delle ossessioni; per questo le esposizioni, nei trattamenti, mirano a far comprendere come questi comportamenti abbiano questa utilità prima di tutto (Prins & Schooling, 2001).

Trattamento del disturbo ossessivo compulsivo

Tra le diverse terapie, l’indirizzo cognitivo-comportamentale sembra il più indicato per trattare il disturbo (Storch & Mariaskin, 2009).
La componente comportamentale, costituita principalmente da esposizioni graduali per prevenire la risposta (quindi la compulsione) a determinati stimoli ambientali, però, potrebbe risultare sterile o non seguita, senza un adeguato lavoro cognitivo (Storch & al., 2009).

Questo perché il rinunciare ad una compulsione per un soggetto può essere molto faticoso, addirittura può sembrare totalmente inutile e insensato.
Pertanto è necessario ristrutturare prima le credenze, che si sono irrigidite nel circolo vizioso ossessione-compulsione, sia per motivare il paziente rendendolo cosciente della natura del suo disagio, sia per dare maggiori strumenti cognitivi al soggetto che andrà a trovarsi in una situazione difficile (Franklin & Foa, 2011).

La componente cognitiva è a mio avviso essenziale nel trattamento di questo disturbo, e il fatto che le compulsioni possano essere mentali e non esternalizzate rende evidente il limite di un approccio basato esclusivamente su tecniche comportamentali.
Un aspetto fondamentale del trattamento, a tal riguardo, è normalizzare i pensieri intrusivi e diminuire l’egodistonia (Waite & Williams, 2009); fare questo può già di per sé diminuire lo stress, e può inoltre andare ad agire a livello delle assunzioni viste in precedenza.

Nello specifico il controllo dei pensieri si rivela meno necessario se sono percepiti come meno minacciosi, per cui può essere un buon punto di partenza per ritrattare questa assunzione e conseguentemente le altre.
Oltretutto il trattamento della parte cognitiva è anche la più incisiva per l’evitamento di ricadute (Valente, 2002).
Nello specifico occorre, prima di tutto, fare un inventario delle ossessioni e delle compulsioni, sia per capire la dinamica specifica del paziente, sia per capire il più precisamente possibile quali siano i significati che attribuisce alle situazioni attivanti e ai suoi pensieri e comportamenti (Prins & Schooling, 2001).
Questo è importante anche perché a volte il paziente può pensare alla compulsione come a un derivato di importanza relativa, quando invece la dinamica dell’evitamento è fondamentale nel mantenimento del disturbo, pertanto andrà sicuramente trattata con molta cura e attenzione.

Conclusioni

In conclusione, ci si può approcciare al disturbo ossessivo compulsivo soprattutto conoscendo il paziente e il suo funzionamento, sia a livello cognitivo che a livello metacognitivo e comportamentale.

Essendo le credenze molto diversificate tra loro come caratteristiche, pur magari avendo contenuti simili, non è possibile trattare un paziente che abbia un insight allo stesso modo di uno che abbia invece delle credenze molto dogmatiche.

E’ altresì vero che come il paziente reagisce a queste credenze è ciò che poi sviluppa e mantiene il disturbo, sia a livello di significati, sia a livello di comportamenti mentali o espliciti; motivo per cui è importante indagare sia il contenuto che il processo per poter comprendere il quadro clinico.
A tal proposito sembra discriminante l’utilità di evitamento che la risposta ha, che attraverso il controllo non disconferma mai le suddette credenze.

L’approccio a questo disturbo si presenta quindi come multifattoriale e va trattato nella sua totalità, come pervasivo nella vita cognitiva, comportamentale ed emotiva della quotidianità della persona.

Cinque meccanismi comunicativi disfunzionali con cui danneggi la coppia o la famiglia

Difese transpersonali vengono messe in atto inconsapevolmente all’interno della relazione attraverso meccanismi comunicativi basati sulla disconferma, ovvero sulla negazione dell’esistenza dell’altro, dei suoi autentici stati d’animo e caratteristiche.

 

Tutti, secondo lo psichiatra Laing (1969), utilizzano difese transpersonali per dirigere e controllare la vita psichica altrui al fine di preservare la propria. Ciò avviene specialmente in famiglia, per la necessità di difendersi da angosce di base comuni. In generale, ci serviamo inconsciamente dei meccanismi di difesa per falsificare, negare o deformare la realtà e renderla più accettabile a noi stessi.

Queste difese transpersonali vengono messe in atto inconsapevolmente all’interno della relazione attraverso meccanismi comunicativi basati sulla disconferma, ovvero sulla negazione dell’esistenza dell’altro (Canevelli, 2016), dei suoi autentici stati d’animo e caratteristiche.

Tali meccanismi comunicativi sono stati studiati negli anni ’60 da psichiatri come Laing e Wynne (1969; 1972), pionieri che affrontarono le modalità comunicative disfunzionali all’interno di famiglie con un membro schizofrenico.

Questi modi di comunicare, che ora passeremo in rassegna, non sono però tipici esclusivamente di famiglie con membro psicotico: si tratta di modalità che molti di noi impiegano quotidianamente, ma che compromettono seriamente la vita di coppia o familiare.

 

I cinque meccanismi comunicativi da evitare col partner e con i famigliari

Ecco cinque meccanismi comunicativi da evitare se non vogliamo compromettere le relazioni significative:

1.La collusione. Essa è definita da Laing (1969) un “gioco” ma anche un “inganno”. Avviene quando due o più persone, inconsapevolmente, ingannano se stesse e gli altri incarnando delle fantasie che non corrispondono alla realtà e ricoprendo dei ruoli fissi, da cui restano però intrappolati. Essa subentra specialmente nella coppia, dove ciascuno trova nell’altro la possibilità di veder confermata e avallata una certa nozione di se stesso elaborata in fantasia. La collusione, ad esempio, può avvenire in una famiglia che vive il mito dell’armonia, che nega le ambivalenze e in cui vengono attribuite ad ognuno delle identità immobili che impediscono di evolversi e differenziarsi.

Un esempio può essere costituito da una coppia di questo tipo: l’uno è una persona che è cresciuta con miti positivi su se stessa come “so aiutare bene gli altri” e che non tollererà frustrazioni su questa aspettativa grandiosa. L’altro è un individuo che vive di miti opposti, di autosvalutazione e bisogno di essere salvato, dunque grato e adorante verso chi è disposto a valorizzarlo. Questi saranno i partner perfetti nel rispondere l’uno ai bisogni dell’altro: nell’alimentare i miti e le fantasie di entrambi, l’autenticità di ciascuno viene costantemente elusa in favore di una continua simulazione. In questo tipo di coppia ciascun partner è accettato dall’altro solo in base a quello che l’altro si aspetta e cerca in lui. (Vella e Camillocci Solfaroli, 1996).

2.L’occultamento. Secondo Wynne (1972), esso avviene quando un membro della famiglia si pone in una posizione di superiorità e potere affermando di saperne di più, ma di non poter rivelare tali verità per misteriosi motivi. Gli altri vengono quindi resi dipendenti e incapaci di svincolarsi e differenziarsi. Mantenere dei segreti, infatti, garantisce un forte potere e la possibilità di tenere sotto scacco l’altro.

3.La strategia del silenzio. Secondo lo psichiatra Zuk (1965), si tratta di manovre, verbali e non verbali, mirate a punire qualcuno per una trasgressione. Ciò avviene attraverso isolamenti e silenzi che proibiscono la comunicazione. Si tratta di una tattica spesso messa in atto da partner femminili all’interno di una coppia.

4.Il negoziato della dissociazione. Per Wynne (1963) si tratta di una comunicazione in cui ognuno attribuisce all’altro un certo modo di sentire che non solo in realtà corrisponde alle parti più regressive di sé, ma non viene riconosciuto come proprio (viene dunque dissociato). Si tratta di uno “scambio di dissociazioni” (Canevelli, 2016) che avviene a livello inconsapevole tra i due partner di una relazione ed è dovuto a sentimenti che, se riconosciuti come propri, sarebbero intollerabili. Ad esempio, un membro della famiglia può dissociare il proprio sentimento di rabbia e attribuirlo a un altro membro, il quale a sua volta attribuirà all’altro una componente di sé inaccettabile, come un’estrema insicurezza. Ognuno centra dunque l’attenzione sulle parti più immature dell’altro (che in realtà sono le proprie) e vi offre sostegno, amplificandole, pur di sentirle lontane da sè.

5.La pseudomutualità. Per Wynne (1958) è una modalità comunicativa e relazionale attraverso cui i membri della famiglia si sforzano di mantenere un’apparente coesione. Vengono dunque compromesse le singole individualità e i conflitti vengono evitati perché considerati distruttivi. Le differenze vengono percepite come pericoli per la relazione e dunque evitate e i membri della famiglia sono costretti ad assumere dei ruoli fissi, magari alternandosi. Aver paura delle differenze non potrà che compromettere fortemente un percorso sano di crescita, il quale spesso necessita invece della rottura dello status quo e della trasgressione.

In conclusione, questi sono solo alcuni dei meccanismi comunicativi disfunzionali che mettono a dura prova la vita di coppia o familiare. Conoscerli può aiutarci a comunicare con l’altro in modo più rispettoso, lasciandogli la libertà di esprimere la sua individualità e rinunciando a giochi di potere che lo tengono imbrigliato. In questo modo, rinunciando a ricoprire e ad attribuire ruoli fissi, possiamo aprirci a un clima relazionale e comunicativo che non teme le diversità, ma le governa e concilia in modo costruttivo e armonico.

Dal disturbo di linguaggio al disturbo di comunicazione – Report dal Congresso Erickson

L’osservazione e la valutazione del primo sviluppo comunicativo del bambino permette di costruire interventi diretti e indiretti con lo scopo di garantire un’opportunità di sviluppo. I trattamenti diretti si rivelano più efficaci se sono precoci e integrati nei contesti di vita quotidiana del bambino, gli interventi indiretti riguardano la presa in carico della famiglia del bambino in modo da rendere i genitori parte attiva della terapia.

 

Workshop di Luigi Girolametto (Department of Speech-Language Pathology, University of Toronto) e Luigi Marotta (Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma)

 

Nel DSM-5 vengono presentate molte categorie all’interno della più ampia area del disturbo del linguaggio: il disturbo fonetico fonologico, il disturbo della pragmatica della comunicazione, il disturbo della comunicazione non altrimenti specificato.

La domanda che pone Luigi Marotta (Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma) riguarda la difficoltà della diagnosi differenziale con il disturbo dello spettro autistico visto che tra i due disturbi vi è molta comorbidità; quindi dove finisce il disturbo pragmatico della comunicazione e inizia l’autismo? La questione è difficile da disciplinare in quanto esistono pochi test italiani per la valutazione del disturbo pragmatico della comunicazione e le analisi quantitative dei comportamenti disponibili sono dedotte.

Per arrivare ad una diagnosi differenziale, è quindi necessario procedere individuando i criteri di inclusione/esclusione e attuare percorsi di valutazione integrati ma specifici per ogni contesto sociale e familiare. Nella valutazione logopedica per il disturbo dello spettro autistico è necessario prendere in considerazione gli elementi della pragmatica della comunicazione, come le funzioni comunicative (es. fare richieste, rispondere), le abilità socio-conversazionali (es. l’assertività, la responsività), le interazioni con i coetanei, la narrazione, la capacità di adattare il linguaggio a seconda dei differenti contesti e gli elementi per la valutazione del linguaggio (es. grammatica, lessico, vocabolario..).

L’osservazione e la valutazione del primo sviluppo comunicativo del bambino permette di costruire interventi diretti e indiretti con lo scopo di garantire un’opportunità di sviluppo. I trattamenti diretti si rivelano più efficaci se sono precoci e integrati nei contesti di vita quotidiana del bambino, gli interventi indiretti riguardano la presa in carico della famiglia del bambino in modo da rendere i genitori parte attiva della terapia. Come ci presenta Luigi Girolametto con il Progetto “More than words”, l’intervento di “parent coaching”, basato sul livello e sul tipo di relazione tra genitore e bambino, ha come obiettivo il focus sulle esigenze del genitore e poi la formazione specifica affinché il genitore possa diventare un agente terapeutico.

Si propone infine di utilizzare un intervento di questo tipo anche negli asili e nelle scuole materne formando le insegnanti nell’ottica di garantire un’opportunità di sviluppo ai bambini con disturbo dello spettro autistico sfruttando le risorse del contesto scolastico.

L’ angelo della morte: identikit di una serial killer

Le chiamano Angeli della Morte, donne criminali il cui profilo psicologico è stato variamente studiato in letteratura, l’ angelo della morte inizia di solito la sua carriera poco dopo i vent’anni in scenari circoscritti come case di cura, ospedali e altri luoghi dove la morte è un evento regolare.

 

Nell’Ottobre del 2014 Daniela Poggiali, l’infermiera killer di Lugo di Romagna, finisce in carcere per aver ucciso, secondo l’accusa, 93 pazienti, a cui avrebbe iniettato del cloruro di potassio in dosi letali. Secondo il pm il movente dei delitti era ben lungi da motivazioni riconducibili, per esempio, al porre termine alle sofferenze dei malati in fase terminale, ma piuttosto legato al non dover accudire pazienti “difficili” (Corriere della Sera, 2014).

Un caso non isolato nel panorama italiano: Sonya Caleffi, altra infermiera killer, viene condannata nel luglio 2006 a venti anni di carcere per l’omicidio di cinque pazienti e il tentato omicidio di altri due avvenuti nell’ospedale di Lecco.

Le chiamano Angeli della Morte, donne criminali il cui profilo psicologico è stato variamente studiato in letteratura. L’ angelo della morte inizia di solito la sua carriera poco dopo i vent’anni in scenari circoscritti come case di cura, ospedali e altri luoghi dove la morte è un evento regolare. Luoghi dove gli omicidi possono essere facilmente dissimulati, e dove l’omicida gode del potere di decidere chi vivrà e chi morirà (oltre che della stima di medici e familiari), e ha facile accesso a ogni genere di attrezzatura adibita a mantenere in vita (o a dare la morte). In tali contesti è facile procurarsi l’arma per uccidere: interrompere il flusso di ossigeno, raddoppiare la dose, aggiungere un farmaco (Lucarelli e Picozzi, 2003).

 

L’ angelo della morte: come agisce?

Si tratta di comportamenti con forte componente ritualistica, che ripropongono identiche modalità nella loro esecuzione, in una sorta di oscura celebrazione che costituisce la firma dell’assassino, e che gli consente di trarre piacere dall’atto in sé, conferendo all’azione omicidiaria un carattere piacevole (egosintonico) a cui l’ angelo della morte difficilmente è disposto a rinunciare. Una condizione che si somma alla generale efficacia dei mezzi adoperati, come l’iniezione in quanto azione ospedaliera di routine, che spiega il lasso temporale consistente che può intercorrere dalla commissione dei primi omicidi alla scoperta degli stessi (L’altro diritto, 2016).

Nel caso delle infermiere killer, il ciclo dei delitti è di otto nell’arco di uno-due anni, anche se può arrivare a più di sedici, se l’assassina è nomade. La breve durata della sua carriera di norma può in alcuni casi spiegarsi dalla tendenza a vantarsi delle proprie azioni (De Pasquali, 2002).

Il potere di vita e di morte è una forte motivazione alla base dei delitti dell’ angelo della morte, ma non l’unico: gli angeli della morte vogliono essere le prime a dare l’allarme in reparto, a farsi trovare pronte nello scompiglio generale, anche a costo di provocare la morte degli assistiti, soddisfacendo così il proprio narcisismo.

Un bisogno di attrarre l’attenzione che ripercorre spesso un passato di bambine trascurate e insoddisfatte di sé che prepara il terreno alla futura carriera criminale. Per esempio, il passato di Beverley Gail Allitt, infermiera inglese pediatrica accusata di aver ucciso quattro bambini e feriti altri cinque, nel 1991 a Grantham, fu quello di bambina sovrappeso e autolesionistica, ossessionata dal bisogno di attenzioni. Ciò la spingeva in reparto a essere sempre in prima linea e prodiga nei confronti delle sue piccole vittime (Particelli, 2010).

La scelta delle vittime

La scelta delle vittime poggia spesso su criteri del tutto soggettivi, agghiaccianti. Come nel caso di Waltraud Wagner, infermiera dell’ospedale Lainz di Vienna, che rese noto nel processo a suo carico per l’uccisione di 39 pazienti, la modalità della scelta: quelli che russavano, che bagnavano le lenzuola, che rifiutavano di prendere le medicine o che facevano semplicemente innervosire le infermiere (Particelli, 2010).

Intenzioni di dominio su persone deboli, indifese, chiaramente espresse dalla stessa Wagner che confesserà in carcere: “Quelli che mi stavano sui nervi venivano spediti direttamente in un letto libero del buon Dio. Naturalmente i pazienti resistevano, ma noi eravamo più forti: potevamo decidere se quei vecchi matusalemme potevano vivere o morire. In ogni caso il loro biglietto per l’aldilà era scaduto” (Lucarelli e Picozzi, 2003).

Storie che toccano nel profondo, manifestazioni del male, motivazioni inafferrabili alla comune logica:

Parlando di serial killer noi abbiamo la sensazione che la più pura espressione del male si stia palesando. Il male privo di qualsiasi giustificazione. Qualsiasi motivazione appare, in un certo senso, liberatoria. In più, a sollecitare l’interesse, c’è l’innocenza della vittima, che, di solito, è debole ed indifesa. In quell’innocenza ci s’identifica tutti.

(Bruno e Marrazzi, 2000).

Violenza contro gli agenti di polizia: quali ripercussioni?

In uno studio della Yale University è stato evidenziato come gli episodi di estrema violenza contro gli agenti di polizia possono portare ad un aumento sostanziale delle disparità razziali riguardo l’utilizzo della forza da parte della polizia.

 

Lo scopo dello studio era quello di indagare se gli atti di violenza contro gli agenti di polizia potessero influenzare il successivo utilizzo della forza contro le minoranze razziali da parte della polizia. Per dare una risposta sono stati utilizzati dati provenienti da quasi 4 milioni di semafori pedonali situati nella città di New York.

Joscha Legewie, autore principale dello studio, ha esaminato i dati provenienti da tutte le operazioni “stop-and-frisk” effettuate ai semafori della città di New York. Il programma “stop-and-frisk” è una pratica del dipartimento di polizia di New York City in cui un poliziotto ferma (stop) e interroga un pedone, e successivamente lo perquisisce (frisk) in cerca di armi e altre merci di contrabbando. Le analisi effettuate andavano a vedere cosa accadeva durante queste operazioni prima e dopo che l’agente di polizia subisse atti di violenza. Lo scopo era quello di osservare se il comportamento del poliziotto cambiasse successivamente agli attacchi subiti.

Risultati e discussione

I risultati, pubblicati il 16 settembre sulla rivista American Journal of Sociology, evidenziano come successivamente a due sparatorie che hanno portato alla morte di alcuni agenti, i cui sospettati appartenevano alla popolazione afro-americana, nei giorni successivi all’evento l’utilizzo della forza da parte della polizia nei confronti dei pedoni afro-americani è notevolmente aumentato. Gli atteggiamenti nei confronti della popolazione bianca e ispanica sono invece rimasti invariati.

Legewie ha dichiarato che le violenze subite dalla polizia e gli stereotipi razziali impliciti potrebbero essere le possibili spiegazioni di questi risultati.
Questi risultati oltre ad essere importanti per quanto riguarda il dibattito in corso sul profiling razziale e l’utilizzo della forza da parte della polizia, comportano implicazioni ancora più ampie. Secondo Legewie l’interpretazione dei risultati si estende oltre gli atti di estrema violenza contro gli agenti di polizia. Quanto è emerso suggerisce la presenza di un insieme generale di processi in cui gli eventi locali portano alla formazione di conflitti tra gruppi, e questo è dovuto prima di tutto agli stereotipi e secondariamente alle risposte discriminatorie che questi innescano.

[blockquote style=”1″]Secondo questo punto di vista, il comportamento discriminatorio non deriva solo da condizioni statiche, ma anche da sequenze temporali di eventi e risposte. Questo processo è applicabile a tutti i tipi di interazione quotidiane, per cui non solo con la polizia, ma anche con altre categorie come gli insegnanti o i datori di lavoro [/blockquote]dichiara Legewie.

Le conseguenze che derivano da questi processi sono molto profonde, soprattutto in un momento come quello attuale che vede il contesto americano caratterizzato da intense tensioni tra la polizia e la comunità afro-americana.

Secondo Legewie gli eventi sono un fattore che viene ampiamente trascurato quando si cerca di comprendere perché si verifichino atti di discriminazione. Questo suggerisce la necessità di condurre un ulteriore studio che sia ancor più centrato sul profiling razziale, l’utilizzo della forza da parte della polizia e la discriminazione. Il tutto senza dimenticare il ruolo importante che svolgono gli eventi, in quanto sono un importante influenza contestuale che funge da cornice alle interazioni successive e che potrebbero innescare una serie di comportamenti discriminatori.

La relazione tra l’ansia e la percezione del dolore

Un crescente corpo di letteratura continua a documentare l’esistenza di un qualche tipo di relazione tra stati d’ansia, sia temporanei che veri e propri disturbi dello spettro ansioso e la percezione del dolore fisico.

Andrea Mereu, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Numerosi studi in questo ambito indicano la co-presenza di condizioni di dolore clinicamente significativo in persone con disturbi d’ansia, e, vice-versa, stati d’ansia clinicamente significativi in persone con condizioni mediche che comportano dolore acuto e cronico. Diversi ricercatori hanno documentato che disturbi d’ansia come esempio il disturbo post traumatico da stress (PTSD) e condizioni di dolore cronico spesso si presentano in concomitanza (Asmundson e Katz, 2009). Si stima che dall’11 al 60% dei pazienti con dolore cronico riportino una copresenza di diversi disturbi d’ansia (Roy-Byrne e coll., 2008). La maggior parte di queste ricerche tuttavia si sono focalizzate sul disturbo di panico (PD) e sul PTSD. Ad esempio Kuch e coll. (1991) hanno riportato che il 40% dei pazienti con PD avevano dolori cronici, più comunemente alla testa, alle spalle e nella zona lombare. Il 10% di questi utilizzava analgesici su base giornaliera. Sono presenti in letteratura anche dati preliminari che indicano che pazienti con SAD (social anxiety disorder) non differiscono da quelli con PD nella prevalenza, natura, o esperienza del dolore cronico (Asmundson e coll, 1996; Asmundson et al., 2000).

E’ una comune esperienza clinica, in caso di patologie che comportano dolore, che la paura anticipatoria dello stesso possa amplificarne la percezione d’intensità. Alcuni autori, hanno riscontrato che il livello di ansietà sia un buon predittore della severità del dolore e dei comportamenti associati in pazienti con dolore cronico (Kain et. al, 2000; Van Den Hout et. al, 2001).

Inoltre, a rinforzare l’ipotesi di questo legame, agire sulla riduzione dei livelli d’ansia attraverso farmaci ansiolitici si è riscontrato avere un buon successo nel migliorare il dolore associato a procedure mediche (Suls and Wan, 1989; Dellemijn and Fields, 1994).

La questione se l’ansia aumenti o diminuisca la percezione del dolore, o, ancora più a monte, quale sia dei due fattori a condizionare l’altro, è comunque una questione ancora dibattuta. Diversi autori sostengono l’ipotesi che l’ansia intensifichi la percezione del dolore; ad esempio il modello di Melzack (1973) sull’influenza dei fattori psicologici rispetto alla sensazione dolorosa sostiene che l’ansia amplifichi quest’ultima. D’altra parte, sebbene molti studi mostrino un’intensificazione e una minore tolleranza al dolore, altri indicano che l’ansia abbia l’effetto opposto, ovvero che diminuisca la percezione del dolore, oppure nessun effetto rilevante (Arntz, Dreessen e Merckelback, 1991; Weisenberg et al, 1984).

Questo aspetto si riscontra particolarmente negli studi sul PTSD (Mostoufi e coll., 2014). Nel loro studio questi autori comparano la soglia e la tolleranza nel tempo al dolore in soggetti con PTSD rispetto a soggetti con altri disturbi d’ansia, e rispetto ad un gruppo di controllo utilizzando un cold pressor task (la sensazione di dolore era prodotta attraverso dell’acqua in un contenitore a temperatura intorno a 1-2 gradi). I loro risultati mostrano che i soggetti con PTSD avevano una ridotta sensibilità agli stimoli sia rispetto al gruppo di controllo, sia rispetto ai soggetti con altri disturbi d’ansia.

Due tipologie di studi hanno cercato di far luce sul rapporto tra ansia e dolore: studi sperimentali, che cercano di individuare una causalità tra i fattori, e studi correlazionali. Il riscontro di una correlazione positiva tuttavia non deve essere confusa con un rapporto di causalità. Potrebbe essere il dolore a causare l’ansia o viceversa, oppure potrebbe esserci una terza variabile interveniente. Sostanzialmente, anche se in letteratura è abbastanza concorde l’osservazione che condizioni di dolore clinicamente significativo e stati ansiosi momentanei o conclamati disturbi d’ansia si verifichino insieme con una frequenza troppo alta per essere casuale, dalla stessa letteratura si evince anche che la relazione tra questi possa essere non unilaterale, e dipendente da altri fattori coi quali vanno a interagire e a costituire un rapporto complesso. Di fatto, il dolore non è determinato semplicemente dall’intensità delle stimolazioni nocicettive, ma dipende anche da fattori psicologici, come gli stati emotivi e motivazionali.

 

Ansia, paura e percezione del dolore

Come riportato sopra, gli studi che cercano di indagare la relazione tra stati d’ansia negli esseri umani riportano risultati talvolta contraddittori o perlomeno non univoci. Rhudy, Meagher (1999) propongono che la causa di ciò sia dovuta al fatto che i paradigmi sperimentali usati potrebbero in realtà aver indotto due differenti stati psicologici: paura e ansietà.

Studi su animali suggeriscono che la paura inibisca il dolore mentre l’ansia ne aumenti l’intensità percepita, tuttavia non è ancora chiaro se questo effetto si possa generalizzare agli esseri umani.

La paura è una reazione di allarme immediata ad una minaccia presente, caratterizzata da impulsi alla fuga, o all’attacco della fonte, e in genere si traduce in un aumento di eccitazione del sistema simpatico (Barlow et al., 1996). L’ansia, d’altra parte, è un sentimento orientato al futuro, caratterizzato da sensazioni negative e apprensione anticipatoria verso minacce potenziali, e si traduce in ipervigilanza attentiva e tensione somatica (ad esempio la tensione muscolare). La paura mobilita l’organismo verso l’azione (risposta di attacco o fuga), mentre l’ansia conduce ad un aumento della scansione ambientale e corporea che facilita la ricettività sensoriale. Alla luce di queste distinzioni, diversi ricercatori hanno sostenuto che la paura e l’ansia rappresentino stati emotivi qualitativamente differenti (Maier, 1993; Barlow et al., 1996; Davis et al., 1997). Rispetto alla paura inoltre, l’ansia avrebbe un effetto opposto sulla percezione del dolore: diversi studi hanno mostrato che è presente un’aumentata sensibilità nocicettiva o iperalgesia (Rhudy e Meagher, 2000; Ploghaus, A. et al. 2001).

Un supporto per questa ipotesi viene da diversi studi su animali che indicano come i circuiti neurali che mediano la paura possano essere distinti dai circuiti coinvolti nell’ansia (Gray and McNaughton, 1996; Davis et al., 1997).
In alternativa, altri autori suggeriscono che gli stati emotivi rilevanti per il dolore potrebbero dipendere dagli stessi circuiti neurali, i quali possono manifestarsi in differenti aspetti comportamentali e somatici a seconda del livello di attivazione: un’attivazione intensa potrebbe indurre un’emozione di paura e conseguente analgesia, mentre un’attivazione moderata potrebbe indurre ansia e iperalgesia. Anche per questa visione quantitativa riceve supporto dalla ricerca su animali (Walters, 1994; King et al., 1996; Meagher et al., 1998).

Comunque, indipendentemente dal fatto che la paura e l’ansia si differenzino qualitativamente o quantitativamente, entrambi i punti di vista predicono effetti divergenti sulla percezione del dolore. Entrambi infatti prevedono che l’esposizione diretta a un evento nocivo dovrebbe indurre alti livelli di paura e di eccitazione che inibiscono il dolore, mentre la minaccia moderata e relativamente diffusa di un evento futuro incerto, senza esposizione vera e propria, indurrebbe con frequenza uno stato di ansia anticipatoria (bassi livelli di paura e di arousal) che abbasserebbe la soglia del dolore.

In accordo con questo, la ricerca clinica indica che le vittime di traumi molto stressanti hanno una sensazione di intorpidimento e insensibilità al dolore durante lo stato di paura provocato dall’evento traumatico (Burgess e Holmstrom, 1976; Suarez e Gallup, 1979). Al contrario, i pazienti con ansia generalizzata sono ipervigilanti sui loro stati corporei interni (Barlow et al., 1996), cosa che aumenterebbe il focus attentivo sulla fonte del dolore, amplificando così la sua intensità percepita.

Rhudy e Meagher (1999) hanno deciso di esaminare direttamente gli effetti separati della paura e dell’ansia rispetto alla reattività al dolore nei soggetti umani. I loro risultati indicano che ansia e paura abbiano effetti divergenti sulla soglia di sensibilità al dolore. Più specificamente, hanno trovato che la paura, determinata dalla presentazione di shock moderati mediante uno stimolo ad alta temperatura, aumentavano la soglia di “ritrazione” del dito rispetto alla fonte di calore radiante; lo schema inverso è stato osservato invece nella condizione sperimentale che induceva ansia: avveniva un decremento della soglia di dolore ed una ridotta tolleranza dello stesso.

Bolles e Fanselow (1980) sostengono che ansia e paura siano stati mutualmente esclusivi. Assumono che la paura sia una condizione legata ad un allarme immediato verso una minaccia alla sopravvivenza, e dunque riduca la percezione del dolore promuovendo una reazione di attacco-o-fuga. Un possibile meccanismo di riduzione del dolore sembra essere legato agli effetti del rilascio degli oppioidi endogeni. Chapman e Turner (1986) argomentano che l’ansia invece aumenti l’attività del sistema simpatico, e il rilascio di epinefrina la quale può sensibilizzare o direttamente attivare i nocicettori. Questi autori hanno suggerito inoltre che la tensione muscolare che spesso si presenta negli stati ansiosi possa causare del dolore addizionale. D’altra parte, ci sono processi fisiologici associati all’ansia che possono ridurre il dolore, come ad esempio il rilascio di oppioidi endogeni (Thyer e Matthews, 1989).

Il ruolo delle aspettative e la predicibilità degli eventi avversivi

La capacità di predire la probabilità di un evento avversivo è un’importante capacità di adattamento. La certezza o l’incertezza riguardo agli stimoli dolorosi possono causare comportamenti, stati emotivi, orientamento del focus attentivo e cambiamenti percettivi differenti. Recenti studi di neuroimaging funzionale indicano che aspettative certe vs incerte vengono mediate da differenti circuiti cerebrali. La prima è associata all’attività della corteccia cingolata rostrale anteriore e del cervelletto posteriore, mentre la seconda situazione invece con cambiamenti di attivazione nella corteccia ventromediale prefrontale, nel cingolato mediale e nell’ippocampo (Ploghaus e coll., 2003).

L’aspettativa sembra essere un’importante fattore cognitivo che gioca un ruolo nel processo della percezione e della tolleranza del dolore. L’aspettativa inoltre, ha un ruolo importante non solo nel dolore acuto e cronico, ma anche in altri disturbi caratterizzati da aspettative certe (fobie specifiche) o incerte (ansia generalizzata) di eventi minacciosi.

La certezza soggettiva che un particolare evento avversivo sia imminente è solitamente associato con l’emozione di paura. Questa mobilita l’organismo verso l’azione (di attacco o di fuga) o, se queste opzioni non sono disponibili, comunque ad una minimizzazione dell’impatto della minaccia (ad esempio attraverso reazioni di freezing, a livello più comportamentale o, ad un livello più mentale, con reazioni dissociative).

In contrasto, l’incertezza riguardo la natura degli eventi (aspettative incerte) ha conseguenze alquanto differenti: si associa a stati emotivi di ansietà piuttosto che di paura, caratterizzati da comportamenti di accertamento del rischio o inibizione comportamentale e dall’incremento dell’allerta per l’ambiente circostante. La neuroanatomia funzionale in caso di aspettative “certe” di stimoli dannosi è stata esaminata da diversi ricercatori (ad es. Buchel, C. et al. 1998; Chua, P. et al. 1999; Ploghaus, A. et al. 1999)

In questi esperimenti dei segnali anticipati fungevano da predittori affidabili dell’imminente stimolazione, i quali consentivano ai soggetti di imparare dall’esperienza ad anticiparne le caratteristiche.

Questi studi concordano nel suggerire un ruolo della corteccia cingolata rostrale anteriore, dell’insula anteriore, e del cervelletto posteriore, che si attivano maggiormente, mentre non hanno trovato cambiamenti nell’attivazione di aree che solitamente sono associate alla percezione nocicettiva, come il cingolo-medio, l’insula mediale e il verme cerebellare. La funzione delle prime aree sembra essere dunque quella di mediare l’influenza delle aspettative “sicure” sulla percezione del dolore. Queste aree si attiverebbero inoltre indipendentemente dal fatto che le aspettative aumentino o diminuiscano la valutazione di pericolosità di uno stimolo.

 

Ansia ed aspettative incerte, aspetti neurofunzionali

A partire dallo studio pionieristico di Reiman e coll. (1989) sono state condotte diverse ricerche sulle aspettative associate al dolore. Sostanzialmente sono stati esaminati due tipi di incertezza: una relativa al verificarsi o meno dello stimolo nocivo, e l’altra relativa alla portata dell’intensità del dolore e dei danni conseguenti. Emerge che aspettative incerte sull’evento avversivo (se si verificherà o meno) sono associate all’attivazione della corteccia ventro-mediale prefrontale (vmPFC) della corteccia cingolata mediale e della corteccia somatosensoriale primaria.

Ad esempio Bechara e coll. (1996) dimostrarono che pazienti con lesioni alla vmPFC non avevano un aumento dell’arousal autonomico durante l’esecuzione di compiti di gambling ad alta incertezza e alto rischio. Un differente pattern di attivazione emerge invece quando i soggetti hanno la certezza che un certo evento sarà doloroso, ma sono incerti riguardo alla sua intensità.

Al riguardo, Simpson e coll (2001) mostrarono che l’incertezza circa l’intensità dello stimolo nocivo era associata ad un decremento dell’attività nella vmPFC e che la quantità della deattivazione era inversamente correlata all’ansietà circa la probabilità dell’imminente dolore: più i soggetti erano ansiosi, minore era la riduzione di attivazione nella vmPFC. Drevets e coll. (1995) trovarono anche una diminuzione di attivazione nella corteccia somatosensoriale primaria, mentre Hsieh e coll. (1999) trovarono similmente una riduzione di attività nella corteccia cingolata mediale.

 

Il ruolo dell’attenzione nella modulazione del dolore

In letteratura emerge che tra i fattori che si ritiene essere implicati insieme all’ansietà e alle aspettative nella mediazione del dolore ci sono quelli che concernono i meccanismi dell’attenzione.

La distrazione, intesa come il processo di spostamento dell’attenzione dalle sensazioni prodotte da uno stimolo nocivo, ha generalmente l’effetto di aumentare la tolleranza verso il dolore acuto. Sebbene molti studi indichino una diminuita tolleranza, altri studi mostrano che l’ansia ha l’effetto opposto, oppure nessun effetto rilevante (Arntz, Dreessen e Merckelback, 1991; Weisenberg et al, 1984). Di particolare interesse è l’ipotesi che l’ansia possa esacerbare o alleviare la percezione del dolore, a seconda della direzione del focus attentivo. Evidenze empiriche suggeriscono che eventi particolarmente ansiogeni abbiano una grande efficacia nel distrarre l’attenzione dalla fonte dolore (Eccleston e Crombez, 1999).

Al contrario, il dolore indotto da un certo stimolo può essere esperito in modo più intenso se lo stimolo doloroso è esso stesso il focus dell’attenzione e provoca anche ansia.

James e Hardardottir, (2002) hanno esaminato gli effetti sia separati che combinati del focus attentivo e dell’ansia di tratto sulla tolleranza del dolore acuto. Dai loro risultati emerge che distrarsi dalla fonte di dolore migliora il grado di tolleranza allo stesso; inoltre, la tolleranza era maggiore in persone con una bassa ansia di tratto rispetto a quelle con elevata ansia di tratto.

Hanno trovato inoltre che il focus dell’attenzione e i tratti ansiosi del soggetto interagiscono, influenzando la soglia di tolleranza al dolore.
In linea di massima, gli autori suggeriscono che l’ansia di stato e l’ansia di tratto condividono gli stessi tipi di influenza sulla tolleranza al dolore ed entrambe le condizioni sembrano influenzate da fattori attentivi.

Arntz, Dreessen, e Merckelbach (1991) giungono ad ipotizzare esplicitamente che non sia l’ansia ad influenzare la percezione del dolore, ma piuttosto l’orientamento e l’intensità del focus attentivo. L’attenzione costituirebbe dunque una terza variabile interveniente nella relazione tra ansia e percezione del dolore, giocando un ruolo determinante in questa complessa dinamica.
L’influenza del fattore attenzione potrebbe spiegare anche perché alcuni studi trovano una correlazione positiva tra ansia e sensibilità al dolore, mentre altri studi trovano il pattern opposto: negli studi empirici l’ansia potrebbe essere stata confusa o condizionata da fattori attentivi.

Gli autori della ricerca hanno testato 4 ipotesi: 1) l’ansia aumenta la percezione del dolore 2) l’ansia diminuisce la percezione del dolore 3) l’attenzione focalizzata verso il dolore aumenta la sua percezione 4) solamente la combinazione di ansia e attenzione al dolore aumenta la percezione del dolore stessa.
In un disegno sperimentale 2×2 l’ansia (alta vs bassa) e l’attenzione (attenzione focalizzata vs distrazione dal dolore) sono state manipolate.
Il fattore di interazione tra ansia e attenzione non ha ricevuto supporto; Il fattore critico sembra essere stato il focus attentivo. L’attenzione verso lo stimolo doloroso era correlata ad un maggiore impatto del dolore, e ad una minore abituazione soggettiva allo stimolo doloroso rispetto alla condizione sperimentale di distrazione.
I risultati del loro esperimento indicano che l’attenzione focalizzata verso la sensazione dolorosa sembra legarsi ad una sua maggiore intensità percepita. In secondo luogo, i risultati di questi autori non supportano l’ipotesi che l’ansia sia direttamente correlata ad una maggiore sensazione dolorosa. Tuttavia, neanche l’ipotesi opposta, ovvero che l’ansia sia collegata ad una minore sensazione di dolore, riceve supporto.
Questo studio apre comunque la possibilità all’ipotesi che i risultati contraddittori trovati in precedenti ricerche siano il risultato dell’intervento dell’attenzione come terzo fattore, e dell’interazione di questa con gli stati d’ansia indotti sperimentalmente.

 

Basi neurali della regolazione emozionale del dolore

Ploghaus e coll. (2001) utilizzando la risonanza magnetica funzionale hanno comparato le risposte di attivazione ad una stimolazione termica dolorosa, mentre l’intensità percepita del dolore veniva manipolata sia attraverso cambiamenti nell’intensità fisica dello stimolo, che nell’intensità dell’ansia indotta. Come risultato hanno trovato che la corteccia entorinale della formazione ippocampale rispondeva in modo differente a stimoli della stessa intensità fisica, a seconda che l’intensità percepita del dolore fosse aumentata dall’ansia o meno. Durante questa regolazione “emozionale” le risposte della corteccia entorinale predicevano anche l’attivazione di aree cerebrali vicine connesse a risposte affettive (cingolato perigenuale) e di codifica dell’intensità degli stimoli (aree dell’insula mediale). Secondo gli autori questo supporta l’ ipotesi che durante uno stato d’ansia, l’ippocampo amplifichi la sensazione percepita degli stimoli avversivi, in modo da innescare poi risposte comportamentali che siano adattive di fronte alla peggiore delle eventualità.

In un precedente studio gli stessi autori (Ploghaus et al, 1999) hanno rivelato come il dolore prodotto da uno stimolo fisico e la sua anticipazione siano codificati da differenti substrati neurali; la modulazione della soglia dolorifica in conseguenza delle emozioni è stata comunque indagata anche da precedenti studi su animali (Fanselow, 1985; Helmstetter, 1992) ma attualmente non c’è un modello animale che descriva l’iperalgesia indotta dall’ansia.

Lo studio di Ploghaus e coll. del 2001 è stato condotto con l’intento di esaminare i meccanismi neurali attraverso i quali l’ansia è associata all’iperalgesia negli esseri umani. Nel loro compito sperimentale, un segnale visivo era seguito sempre da una stimolazione nocicettiva a bassa temperatura della mano sinistra. Il segnale veniva mostrato anticipatamente per evocare un basso livello di ansietà per lo stimolo doloroso in arrivo. Ad un secondo segnale visivo si faceva invece seguire nella maggior parte delle prove una stimolazione a bassa intensità, tuttavia, occasionalmente veniva presentata una stimolazione a temperatura più alta e quindi da maggiormente dolorosa. Questo segnale aveva lo scopo di evocare un’elevata ansia anticipatoria.

Attraverso questo compito, hanno potuto valutare se le sensazioni riportate dai partecipanti e le corrispettive risposte di attivazione cerebrale variavano in funzione dei livelli di ansietà. Dai risultati è emerso che la variazione emodinamica della corteccia entorinale era significativa.
La variazione dell’intensità del dolore prodotta semplicemente dallo stimolo fisico, dunque dalla temperatura, produceva invece una risposta emodinamica sempre nella formazione ippocampale ma in una regione più dorsale.

Già nel 1968 Melzack e Casey avevano proposto che l’ippocampo e le aree associate partecipassero nel mediare le risposte emotive agli stimoli avversivi e nell’influenzare le caratteristiche del dolore. Seguenti studi confermano un ruolo dell’ippocampo nel processamento della sensazione dolorosa.
Studi su stimolazioni e lesioni della corteccia cerebrale confermano che il processamento del dolore è una funzione primaria dell’ippocampo. Prado e Roberts (1985) dimostrarono che la sua regione dorsale è una delle aree cerebrali dove la stimolazione elettrica altera la nocicezione ma crucialmente, la stimolazione stessa non viene percepita come dolorosa.

 

La teoria di Gray-McNaughton sulla modulazione del dolore

La teorie di Gray-McNaughton (2000) propone che la formazione ippocampale risponda ad eventi avversivi (come ad esempio il dolore) quando questi conducono ad un conflitto comportamentale, e risolve il conflitto inviando segnali di attivazione alle rappresentazioni neurali degli eventi avversivi attesi, polarizzando così l’organismo verso un comportamento che possa essere adattivo anche nel peggiore degli scenari. Questo processo è accompagnato da uno stato d’ansia. Un ruolo della corteccia entorinale nella detezione dei conflitti è stata proposta anche in modelli teorici della memoria nell’ippocampo (Lavenex and Amaral, 2000; Witter et al., 2000). Applicato allo studio di Ploghaus e coll. di cui si è parlato sopra, il conflitto comportamentale può nascere nella condizione Bassa temperatura/alta ansietà; poiché il segnale di alta ansietà non è un predittore affidabile dell’intensità del dolore che sopraggiungerà, risposte di adattamento differenti, corrispondenti a diversi livelli di dolore atteso, competeranno tra loro in assenza di una predicibilità precisa rispetto all’evento avversivo incombente.

La teoria di Gray-McNaughton predice che in una condizione di bassa intensità di stimolazione fisica/alta ansietà rispetto ad una condizione di bassa intensità di stimolazione fisica/bassa ansietà, ci dovrebbero essere: 1) più alti livelli di ansia 2) maggior percezione del dolore 3) attivazione della formazione ippocampale 4) rappresentazioni mentali di dolore e ansietà. L’ippocampo sembra essere deputato a risolvere precocemente questo conflitto amplificando l’intensità della sensazione di dolore, in modo da favorire la priorità a risposte comportamentali adattive nella peggiore delle eventualità, ovvero quando il dolore è molto intenso.

Questo modello costituisce un’interessante e plausibile spiegazione di stampo biologico-evoluzionista che rende conto di come gli stati d’ansia siano dei meccanismi evolutivamente fondati con il preciso scopo di tutelare l’organismo da danni, lesioni e dalla morte stessa, mettendolo in allarme e permettendogli di evitare le potenziali situazioni dannose. E di come talvolta in natura siano necessarie delle reazioni paradossali come quella di aumentare la sofferenza dell’individuo rendendolo più sensibile al dolore abbassandone la soglia di detezione e amplificando la percezione della sua intensità pur di assicurarne la sopravvivenza.

La sindrome di Tourette e le capacità linguistiche

Un nuovo studio ha mostrato come i bambini con sindrome di Tourette possano apprendere alcuni aspetti del linguaggio più velocemente rispetto agli altri bambini. I ricercatori della Newcastle University nel Regno Unito, e della Northwestern, Johns Hopkins, e Georgetown negli Stati Uniti, hanno scoperto che i bambini con un disturbo neurologico sono più veloci ad assemblare suoni e parole rispetto ai bambini con sviluppo tipico. Essi ritengono che questo fenomeno sia probabilmente legato ad anomalie nel cervello che stanno alla base del disturbo.

 

La sindrome di Tourette e l’elaborazione linguistica

La sindrome di Tourette è un disturbo neurologico caratterizzato da tic motori e vocali (movimenti semi-volontari e vocalizzazioni). Secondo la Charity Tourettes Action UK, questa patologia colpisce circa un bambino su cento, e nel Regno Unito più di 300.000 bambini e adulti ne soffrono.

Cristina Dye, docente di sviluppo del linguaggio infantile presso la Newcastle University, ha dichiarato che dai dati provenienti dalla ricerca psicologica e medica degli ultimi anni, sembrerebbe che i bambini con disturbi come la sindrome di Tourette siano soliti sperimentare difficoltà o debolezza. Pertanto, affiancata dai suoi colleghi, ha voluto discostarsi ed esaminare i potenziali punti di forza dei soggetti che soffrono di sindrome di Tourette, con lo scopo di ampliare ulteriormente la comprensione di questo disturbo.

Michael Ullman, professore di Neuroscienze alla Georgetown University, ha aggiunto che la scoperta relativa al fatto che i bambini con la sindrome di Tourette siano più veloci ad assemblare i suoni in fonologia è coerente con la precedente constatazione che essi siano più veloci anche in un altro aspetto del linguaggio che si chiama morfologia, ovvero la capacità di mettere insieme le parti significative delle parole, come “walk” e “-ed” (coniugazione del verbo “to walk” in inglese)”. I due studi suggeriscono che i bambini con la sindrome di Tourette sembrerebbero essere più veloci nelle trasformazioni grammaticali. Si tratta di dati sorprendenti, in quanto la grammatica è molto importante per fornire alla lingua la sua incredibile flessibilità ed energia.

Lo studio

Hanno partecipato allo studio 13 bambini con diagnosi di sindrome di Tourette e 14 bambini con sviluppo tipico, di età compresa tra gli 8 e i 16 anni. I giovani sono stati invitati a ripetere una serie di parole inventate, come “naichovabe”. In questi “compiti di ripetizione di non parole” i partecipanti sembravano non consapevoli di smontare e poi ricombinare i suoni che componevano la parola. Anche se i due gruppi di bambini sono stati entrambi precisi nel ripetere le parole inventate, i bambini con sindrome di Tourette erano molto più veloci rispetto al gruppo di controllo.

Secondo gli autori i risultati potrebbero avere importanti implicazioni cliniche: [blockquote style=”1″]Sappiamo che la maggior parte dei bambini che soffre di disturbi dello sviluppo neurologico hanno difficoltà nell’assemblare i suoni. Quindi, tali compiti potrebbero essere utilizzati come un predittore precoce per la diagnosi della sindrome di Tourette nei bambini a rischio.[/blockquote]

La fede religiosa, fattore protettivo nella malattia

Una crescente parte di letteratura, suggerisce che la fede religiosa e la spiritualità possono aiutare le persone a mantenere e recuperare sia la salute psicologica che quella fisica. 

 

Malattia e coping

Prima di trattare nello specifico questo argomento, è importante introdurre il concetto di coping. Il coping è stato studiato e utilizzato nell’ambito della psicologia della salute, principalmente in riferimento allo specifico modo in cui il paziente affronta la malattia e la sofferenza. Lazarus (1991) definisce il coping come:

Gli sforzi cognitivi e comportamentali per trattare richieste specifiche interne o esterne (e i conflitti tra esse) che sono valutate come eccessive ed eccedenti le risorse di una persona.

Quando una persona si trova a dover fronteggiare una malattia, generalmente ha due scelte principali davanti a sé: può decidere di reagire in maniera passiva, rassegnandosi e lasciandosi andare, oppure può reagire in maniera attiva, lottando. A volte può accadere che la persona deleghi al farmaco, al medico o allo psicologo la risoluzione della sua malattia, senza accorgersi di quanto il suo atteggiamento abbia un’influenza importante sulla sua mente e sul suo corpo.

La fede religiosa e la spiritualità nel benessere psicologico

L’importanza della spiritualità come componente centrale del benessere psicologico è riconosciuta sempre di più dai medici e dai professionisti della salute (Brady et al., 1999; Kearney & Mount, 2000).

Le persone ammalate iniziano a farsi domande circa la morte, il significato e lo scopo della vita; domande che prima della malattia non si sarebbero poste. Molti si avvicinano alla religione per rispondere a queste difficili domande, mentre altri trovano supporto grazie alle loro credenze religiose al di fuori del contesto di un’organizzazione religiosa.

Per comprendere meglio come pazienti anziani percepiscono il ruolo giocato dalle credenze religiose e il loro ruolo nel mantenimento e nel recupero della salute, Mackenzie e collaboratori (2000) hanno condotto una ricerca qualitativa su pazienti anziani – maschi e femmine – di età compresa tra i 66 e i 92 anni. La maggior parte dei pazienti anziani intervistati crede in una forza superiore (Dio) che costantemente li supporta, li protegge, li guida, li aiuta e li guarisce. I pazienti credono inoltre che le loro preghiere possano guarire sia la malattia fisica che mentale e molti di loro hanno espresso la credenza che avere una relazione con Dio costituisca la base del loro benessere psicologico. Pertanto, i risultati di questa ricerca suggeriscono che le credenze religiose possono avere un’influenza significativa sul benessere psicologico di pazienti anziani; inoltre, l’esperienza soggettiva di fede religiosa e supporto spirituale, può costituire il cuore della connessione fra spiritualità e salute.

Il momento della preghiera – o della meditazione – è un’occasione per poter rilassare la mente e il corpo; la persona può scegliere di prendersi questo momento tutto per sé o di condividerlo con altre persone che la sostengono. In questo modo, si riduce la probabilità che la persona ammalata si isoli e si senta sola.

McClain e collaboratori (2003) hanno stimato  la relazione fra benessere spirituale, depressione e disperazione in 160 pazienti oncologici terminali. Coloro che mostravano un elevato benessere spirituale, non manifestavano il desiderio di una morte veloce, né riferivano perdita di speranza e ideazione suicidaria. Inoltre, la depressione è risultata fortemente correlata al desiderio di una morte veloce nei pazienti con un basso benessere spirituale, a differenza dei pazienti che avevano un elevato benessere spirituale.

Per tutte queste ragioni, la fede religiosa può essere annoverata fra le strategie di coping, poiché non solo consente alla persona di dare un senso alla malattia, ma le permette di mantenere un atteggiamento positivo e di affrontare la malattia in modo attivo e speranzoso, senza subirla. La fede religiosa si rispecchia dunque nella qualità dei pensieri, delle parole e delle azioni.

Noi siamo forgiati dai nostri pensieri; noi diventiamo ciò che pensiamo. Quando la mente è pura, la gioia arriva come un’ombra che non ci lascia più

(Siddharta)

Manuale di psicoterapia sistemica di gruppo (2016) – Recensione

Se partiamo dalla premessa che l’essere umano è dotato di una natura relazionale, non è difficile comprendere che il setting di gruppo possiede una specifica valenza terapeutica, determinata dal fatto stesso di inserire la persona all’interno di una rete di relazioni.

 

In che modo il gruppo aiuta i pazienti?” E’ questa, in ultima analisi, la domanda –che già lo psicoterapeuta Irvin Yalom si poneva in un suo testo del 1974- a cui il libro cerca, collocandosi un’ottica sistemica, di dare risposta; se partiamo dalla premessa che l’essere umano è dotato di una natura relazionale, non è difficile comprendere che il setting di gruppo possiede una specifica valenza terapeutica, determinata dal fatto stesso di inserire la persona all’interno di una rete di relazioni.

Il gruppo è dotato di potenzialità terapeutiche specifiche, rispetto al setting individuale; Yalom individua otto fattori:

  • Speranza (il condividere il processo terapeutico con altre persone rafforza l’idea di poter guarire);
  • Universalità (si scopre che altri hanno i nostri stessi problemi);
  • Informazione (si acquisiscono informazioni utili non solo dal terapeuta, ma anche dai partecipanti);
  • Altruismo (si ha la possibilità di contribuire alla soluzione delle difficoltà degli altri);
  • Ricapitolazione correttiva del gruppo primario familiare (il gruppo ci offre una “seconda possibilità”  dato che ci fa sperimentare modalità relazionali differenti rispetto a quelle vissute in famiglia);
  • Sviluppo di tecniche di socializzazione (si imparano, attraverso lo scambio con gli altri partecipanti, nuove modalità di stare in relazione);
  • Comportamento imitativo (si possono apprendere, dagli altri membri del gruppo, comportamenti utili, attraverso un processo di modellamento);
  • Apprendimento interpersonale (si impara, attraverso i feedback ricevuti dagli altri partecipanti, ad adottare i comportamenti che determinano le risposte desiderate).

L’approccio sistemico definisce sia la famiglia che tutti gli altri contesti di appartenenza in termini di sistemi, ossia “insiemi di elementi interconnessi tra di loro e con l’ambiente esterno tramite reciproche relazioni”. In questo quadro, la terapia sistemica cerca di capire come i sistemi si evolvono, in modo da individuare quali sono i fattori che favoriscono il benessere e quelli che, al contrario, tengono il sistema in una condizione di blocco, caratterizzata dalla presenza di sintomi indici di malessere.

Il libro prende le mosse dal concetto di identità (sempre in un’ottica sistemica) per poi passare in rassegna i fattori che bloccano l’evoluzione; a seguire, vengono approfondite alcune possibili modalità di intervento finalizzate a riattivare il movimento evolutivo. Sono, inoltre, presenti un excursus storico, che prende in esame i concetti di gruppo e di cambiamento dal punto di vista di vari autori sistemici, e una sezione espressamente dedicata alla prassi terapeutica, che illustra, avvalendosi anche di esempi, le modalità di intervento tipiche della terapia sistemica in gruppo.

L’identità nasce nell’ambito delle relazioni ed è nelle relazioni che essa trova stabilità; i medesimi processi che sono alla base della creazione dell’identità sono implicati anche nella genesi della psicopatologia: si originano all’interno del sistema relazionale all’interno del quale la persona è inserita. Di conseguenza, è possibile modificare l’idea che ciascuno di noi ha di se stesso andando ad intervenire  sulla struttura del sistema relazionale di riferimento.

Nell’ambito della terapia di gruppo che segue l’approccio sistemico, il gruppo rappresenta un nuovo sistema, una rete di relazioni alla quale ciascuno dei partecipanti si accosta portando con sé il proprio peculiare bagaglio: i miti costruiti in famiglia e nei gruppi secondari, le proprie modalità di entrare in relazione con gli altri, la propria storia.

A differenza di altri gruppi, il gruppo terapeutico si costituisce attorno a una finalità terapeutica ben precisa; al pari di altri gruppi, è un gruppo con una storia, con una identità, con dei confini che creano un senso di appartenenza e di affiliazione. Questo permette ai partecipanti di percepire il gruppo come un luogo protetto, in cui l’espressione e la condivisione delle emozioni avviene in modo sicuro.

E’ importante, a tal proposito, che esistano delle regole, sia esplicite che implicite, che definiscano il contesto e il funzionamento del gruppo; si può trattare degli aspetti logistici (puntualità, assicurare la regolarità della presenza), come di regole che hanno a che fare con la creazione di un clima adeguato (dovere alla riservatezza, il non sentirsi obbligati ad intervenire, l’astensione dal giudizio).

L’essenziale è che il gruppo rappresenti uno spazio di relazioni in cui la persona abbia la possibilità di riprendere in mano le redini della propria vita, ripristinando il flusso progettuale, sovente bloccato in dinamiche relazionali stagnanti, che, invece di promuovere lo sviluppo, ostacolano l’evoluzione, creando spazi relazionali angusti; è come se il soggetto fosse intrappolato in abiti che un tempo trovava confortevoli, ma che, ora, trova ormai troppo stretti.

Il cambiamento rappresenta sempre un processo complesso da vivere e ricevere la conferma e il supporto degli altri membri del gruppo costituisce un’enorme risorsa; in questo quadro:

Riprendere le redini della propria progettualità esistenziale significa proprio questo: riattivare il movimento nel tempo della vita , sciogliendo la propria visione congelata di un passato che sovrasta il presente e ne offusca l’orizzonte.

L’ ironia tra elaborazione, comprensione e basi neuroanatomiche

L’ ironia permea nelle nostre vite, si tratta solo di saperla cogliere e goderne. Poter ironizzare su se stessi e sugli imprevisti della vita può aiutare ad affrontare meglio situazioni che altrimenti potrebbero sopraffarci. A volte riderci su sembra il miglior modo, se non l’unico, per poter affrontare le contraddizioni e le sfide che la vita ci propone quotidianamente.

Susanna Martina – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

È come la pioggia nel giorno del tuo matrimonio” cantava Alanis Morisette in un noto brano del 1995 dal titolo Ironic; l’ ironia permea nelle nostre vite, si tratta solo di saperla cogliere e goderne. Poter ironizzare su se stessi e sugli imprevisti della vita può aiutare ad affrontare meglio situazioni che altrimenti potrebbero sopraffarci. A volte riderci su sembra il miglior modo, se non l’unico, per poter affrontare le contraddizioni e le sfide che la vita ci propone quotidianamente.

Ma da dove deriva la capacità di ironizzare e a cosa serve? Siamo tutti potenzialmente in grado di cogliere l’ ironia allo stesso modo? Come avviene il processo di elaborazione dell’ ironia a livello cerebrale e quali circuiti e aree coinvolge? Il presente articolo cercherà di rispondere a queste domande illustrando le attuali conoscenze riguardo il processo di comprensione dell’ ironia.

 

Aspetti etimologici e sociali dell’ ironia

Il termine ironia deriva dal greco εἰρωνεία e letteralmente significa “dissimulazione”. L’accezione principale del termine si riferisce però non tanto alla capacità di celare il proprio pensiero a qualcuno, quanto più alla capacità di esprimerlo direttamente o indirettamente attraverso il suo contrario.

Storicamente, il personaggio più noto legato al concetto di ironia è Socrate: a partire dalla sua affermazione “so di non sapere” basava la propria indagine filosofica e interpellava i vari esponenti dell’Atene del V secolo a.C. per impartire i suoi saggi insegnamenti ai discepoli. Socrate a parte, l’uomo ha da sempre fatto largo uso di questa particolare capacità, tanto che la maggior parte dei discorsi quotidiani tra le persone sembrano essere caratterizzati dalla presenza di affermazioni ironiche (Gibbs, 2000). Alcuni studiosi si sono perciò interessati di approfondire quali siano le funzioni comunicative specifiche dell’ ironia e quali vantaggi relazionali comportino: tra i tanti ricordiamo Clark e Gerring che in uno studio del 1984 sottolinearono l’importanza dell’ ironia nei rapporti interpersonali per il fatto che faciliti e rinforzi i legami tra le persone.

Nonostante la sua grande diffusione, i vantaggi da essa derivanti e la sua apparente semplicità, l’ ironia si configura tuttavia come una capacità complessa, che richiede molteplici sottoabilità cognitive, linguistiche e comunicative per essere utilizzata e compresa.

Nel seguente paragrafo verranno approfonditi gli aspetti processuali e di elaborazione legati alla capacità di comprendere l’ ironia confrontando le teorie cosiddette gerarchiche di elaborazione dell’ ironia con le teorie di elaborazione parallela.

 

Aspetti processuali dell’ ironia: elaborazione gerarchica e elaborazione parallela

Per poter pienamente apprezzare l’ ironia durante una conversazione, l’uditore deve essere in grado da una parte di prestare attenzione ai numerosi indizi contestuali, e dall’altra di saperli adeguatamente integrare all’interno di un’unica rappresentazione. Per meglio apprezzare un discorso o un’affermazione ironica risulta quindi fondamentale, per esempio, che siano elaborate informazioni provenienti dalla situazione fisica contingente, dalla modalità espressiva del discorso, dall’intenzione comunicativa dell’interlocutore, dal suo tono di voce e dalla sua mimica facciale (Saban-Bazalel et al. 2015).

Sono state elaborate differenti teorie sul processo di comprensione dell’ ironia; in particolare, secondo la standard pragmatic view di Grice (1975), il significato letterale di un’affermazione viene sempre elaborato per primo e, solo una volta che questo risulta incompatibile con gli indizi provenienti dal contesto, si procede con la derivazione del senso non letterale (teoria gerarchica). In linea con questa visione, Giora (1997) ha proposto la cosiddetta salience graded hypothesis secondo cui è il significato saliente di un’affermazione ad essere sempre elaborato per primo, a prescindere sia dal significato letterale dell’affermazione sia dal contesto a cui è legata. La salienza di un significato viene determinata dal grado di frequenza all’esposizione, dalla familiarità con il significato in questione e dalla sua prototipicalità (Saban-Bezalel et al. 2015). Partendo dalla loro concezione gerarchica di processamento dell’ ironia, sia Grice che Giora concludono che il processamento di un significato ironico dovrebbe avvenire in tempi più lunghi rispetto al processamento di un significato non ironico (Saban-Bezalel et al. 2015) a meno che non si tratti di ironie familiari.

In contrasto con le teorie gerarchiche di elaborazione dell’ ironia, Gibbs (1986) propose invece un modello più interattivo chiamato direct access view, secondo cui gli indizi contestuali influiscono solo nei primissimi momenti di elaborazione e che, se supportivi e coerenti con il significato ironico, permettono l’accesso primario e diretto a quest’ultimo. Tale principio venne poi portato avanti anche dalla più recente teoria di Katz (2005) e Pexman (2008) chiamata parallel constraint satisfaction account, secondo cui tutti gli indizi contestuali vengono elaborati rapidamente ed in parallelo e che l’interpretazione ironica di un’affermazione viene considerata tanto prima quanto più ci sono evidenze che sia l’interpretazione più appropriata. Secondo queste ultime visioni quindi il processamento di un significato ironico non impiega necessariamente più tempo rispetto al processamento di un significato letterale, ciò avverrebbe solo nel momento in cui il contesto fosse non supportivo nei riguardi dell’interpretazione ironica (Kowatch et al. 2013).

Al momento però non esiste una totale unanimità nei risultati, per cui da una parte alcune ricerche riportano tempi maggiori per la lettura e l’elaborazione di significati ironici rispetto a significati letterali (Akimoto et al, 2012; Dews et al., 1999; Filik et al., 2010), dall’altra altri studi concludono il contrario (Gibbs, 1986; Ivanko et al., 2003).

Kowatch, Whalen & Pexman (2013) sottolineano però i limiti di questi risultati in uno studio da loro condotto, in cui evidenziano il fatto che spesso è stato utilizzato il metodo della lettura nella valutazione sperimentale dei tempi di processamento dell’ ironia, quando invece si tratta di un aspetto prevalentemente associato al linguaggio verbale dove, per esempio, l’uditore può avere più facile accesso agli indizi contestuali. Un secondo limite sottolineato dagli autori è il fatto che nei precedenti studi venivano comparate affermazioni ironiche con significato negativo, per esempio affermazioni sarcastiche come “sei proprio un buon amico”, con affermazioni con significato letterale positivo, per esempio complimenti come “sei proprio un buon amico”, per cui la valenza positiva o negativa di un’affermazione poteva influire sui tempi di processamento a prescindere dal fatto che si trattasse di un significato letterale o ironico.

A partire da queste considerazioni, gli autori hanno quindi portato avanti uno studio sperimentale che superasse tali limiti e che in particolare indagasse l’elaborazione dei significati ironici rispetto ai significati letterali in un contesto di linguaggio verbale, confrontando rispettivamente i tempi di elaborazione in affermazioni unicamente a valenza negativa. I risultati ottenuti con questa nuova modalità sperimentale hanno confermato la visione di un’elaborazione interattiva dell’ ironia, secondo cui l’uditore integra contemporaneamente tutte le informazioni provenienti dal contesto e il processo è tanto più rapido quanto più gli indizi sono rilevanti per produrre una rappresentazione coerente dell’intenzione di chi parla.

Ulteriori considerazioni sulla capacità di comprendere l’ ironia derivano inoltre da ricerche su pazienti con specifiche condizioni patologiche che hanno permesso di evidenziare la complessità dell’ ironia anche in termini più strettamente cognitivi e neuroanatomici, riscontrando una forte associazione tra la capacità di comprendere l’ ironia, la Teoria della mente e le funzioni esecutive. Il seguente paragrafo sarà centrato sull’analisi dettagliata dei risultati ottenuti.

 

Il ruolo della Teoria della mente e delle funzioni esecutive nel processo di comprensione dell’ironia

Diverse ricerche su campioni clinici si sono focalizzate sull’associazione tra la capacità di comprendere l’ ironia e la capacità di inferire gli stati mentali altrui, ovvero la cosiddetta Teoria della mente (TOM) (Gibbs, 1986; Giora, 1997; Gibbs, 2000; Monnetta et al. 2009; Aboulafia-Brakha et al. 2011; Kowatch et al. 2013).

La TOM è definita come quella capacità di comprendere i propri e gli altrui stati mentali in modo da saper poi inferire le intenzioni degli altri e comprendere o prevedere il loro comportamento futuro (Premack and Woodruff, 1978). In particolare, sembra che l’elemento cruciale nel processo di comprensione dell’ ironia sia la capacità di comprendere le credenze di II ordine, ovvero di inferire lo stato mentale di qualcuno riguardo lo stato mentale di qualcun altro (Gaudreau et al. 2015). La capacità di elaborare credenze di II ordine sembra infatti essere alla base della comprensione dell’intenzione comunicativa dell’interlocutore fondamentale del processo di comprensione dell’ ironia.

Tra i vari studi sul tema, ad esempio, Monnetta e colleghi (2009) hanno valutato un campione di 11 pazienti con morbo di Parkinson confrontandoli con 11 soggetti di controllo nell’abilità di differenziare le intenzioni comunicative sottostanti l’ ironia e le bugie come anche nell’abilità di attribuire stati mentali agli altri, in particolare di inferire credenze di I e II ordine. Dai risultati emersi, i pazienti del gruppo sperimentale sono effettivamente risultati meno accurati nel distinguere l’ ironia verbale dalle bugie come anche nella capacità di attribuire credenze di II ordine rispetto al gruppo di controllo.

In letteratura sono infatti ormai numerose le evidenze che confermano come i pazienti con morbo di Parkinson siano soggetti, oltre ai noti sintomi motori tipici della malattia, anche ad una serie di sintomi non motori, come deficit delle funzioni esecutive e della working memory (WM) (Gabrieli et al., 1996; Lewis et al., 2003), che influiscono sul processamento degli aspetti pragmatici del linguaggio verbale e non verbale (Berg et al., 2003; Angwin et al., 2005; Pell et al., 2003; Dara et al., 2008) e che, per questo, comportano una seria compromissione del funzionamento sociale di tali pazienti (Pell et al., 2006).

La relazione tra comprensione dell’ ironia, TOM, credenze di II ordine e funzioni esecutive è stata inoltre confermata da ricerche su pazienti affetti da Mild Cognitive Impairment (MCI) (Gaudreau et al., 2015) e autismo (Happè, 1993; Saban-Bezalel et al., 2015).

Risultati più controversi derivano invece da alcuni studi su pazienti affetti da schizofrenia: sebbene sia ampiamente dimostrato in letteratura che tali pazienti siano affetti da specifici deficit di TOM e di comprensione dell’ ironia, risulta ancora poco chiara la natura di tale relazione. In particolare, da uno studio condotto da Mo e colleghi (2008) su un campione di 29 pazienti con schizofrenia in remissione, è emerso che TOM e capacità di comprendere l’ ironia non sono significativamente connesse e che è solo la capacità di comprendere le metafore quella maggiormente legata alle credenze di II ordine. Contrariamente, Langdon e colleghi (2002) conclusero che la TOM fosse altamente implicata nella compromissione selettiva della capacità di interpretare l’ ironia in pazienti affetti da schizofrenia e che non fosse invece coinvolta nella comprensione delle metafore.

I risultati sin ora esposti permettono quindi di confermare l’esistenza di un legame tra ironia, TOM, credenze di II ordine e funzioni esecutive, tuttavia, essendo in parte contrastanti, non permettono una chiara comprensione della natura di tale relazione; resta pertanto da approfondire il livello di implicazione di ciascun elemento come anche i rapporti di reciproca influenza.

Queste ultime considerazioni sono fondamentali anche all’interno della ricerca e del dibattito sulle basi neuroanatomiche dell’elaborazione dell’ ironia, oggetto del seguente paragrafo.

 

Basi neuroanatomiche del processo di comprensione dell’ ironia

La natura controversa delle relazioni tra i vari fattori implicati nel processo di comprensione dell’ ironia, si riflette anche in termini neuroanatomici. L’ipotesi più accreditata al momento è quella di far riferimento alle basi neurali sottostanti la TOM e, da quanto emerge da una review del 2011 di Aboulafia-Brakha e colleghi, sembra che sia le abilità di TOM che le funzioni esecutive condividano l’attivazione delle stesse regioni cerebrali, ma che solo la TOM necessiti l’ulteriore coinvolgimento di specifiche aree quali la giunzione temporo-parietale o la corteccia paracingolata anteriore (Saxe et al., 2006). Da alcuni studi con risonanza magnetica funzionale (RMNf), è stata inoltre confermata l’associazione tra l’abilità di attribuire stati mentali agli altri e l’attivazione specifica di tre aree: la corteccia prefrontale mediale sinistra, il lobo temporale destro e la corteccia orbito-frontale mediale (Gallagher et al., 2003; Channon et al., 2007); queste stesse tre regioni sono state inoltre specificamente associate al processamento dell’ ironia e considerate parte di un network più esteso in cui vengono prevalentemente coinvolti i lobi frontali (Shamay-Tsoory et al., 2005; Eviatar et al., 2006).

Un’ulteriore ipotesi deriva da alcuni studi sul processamento emisferico dell’ ironia, in particolare è stato dimostrato che l’emisfero destro giochi un ruolo fondamentale nel processamento di diversi tipi di linguaggio figurato tra cui metafore, humor, sarcasmo, richieste indirette ed ironia (Mitchell et al., 2005; Briner et al., 2011; Giora et al., 2000; Eviatar et al., 2006). A livello teorico si fa riferimento al modello del processamento fine o grossolano di Beeman (1998), per cui mentre l’emisfero sinistro è coinvolto prevalentemente nella codifica semantica fine, ovvero nell’attivazione di singole interpretazioni di una parola, delle sue caratteristiche semantiche dominanti e delle sue più strette associazioni, l’emisfero destro si occupa invece della codifica semantica grossolana per cui vengono attivate multiple interpretazioni di parole ambigue o distinte relazioni semantiche.

Tale modello si sposa con la salience graded hypothesis di Giora (1997) illustrata precedentemente, per cui mentre l’emisfero sinistro è coinvolto nel processamento del significato saliente, l’emisfero destro nell’elaborazione di significati nuovi, non-salienti ed interpretazioni. Tale specializzazione emisferica è stata confermata da studi comportamentali e di neuroimaging che hanno approfondito l’interpretazione non-saliente del linguaggio figurato come ad esempio di nuove metafore (Mashal et al., 2005; Faust et al., 2007), di interpretazioni letterali non-salienti nelle lingue (Mashal et al., 2008) e di interpretazioni non-salienti di frasi ironiche (Eviatar et al., 2006; Shibata et al., 2010). Questi risultati suggeriscono che mentre affermazioni familiari con significato saliente, generalmente letterale, attivano il processo di codifica semantica fine propria dell’emisfero sinistro, al contrario affermazioni non familiari con interpretazioni ironiche non-salienti verrebbero codificate attraverso il processo di codifica grossolana propria dell’emisfero destro.

A favore di queste ultime considerazioni, Saban-Bezalel & Mashal (2015) hanno studiato l’effetto di un training per migliorare la capacità di comprendere l’ ironia in un campione di 29 adulti con disturbo dello spettro autistico confrontandolo con un gruppo di controllo di 22 adulti sani. Il gruppo sperimentale è stato suddiviso in due gruppi e uno di questi è stato sottoposto ad un training per migliorare la capacità di comprendere l’ ironia. Dai risultati, è emerso che il training ha portato ad un significativo miglioramento delle performance nella comprensione dell’ ironia e che, a seguito di quest’ultimo, il pattern di processamento dell’ ironia di coloro che erano stati sottoposti all’intervento si era modificato a favore di una maggior lateralizzazione nell’emisfero destro, condizione di partenza riscontrata inizialmente nel gruppo di controllo. In questo caso gli autori hanno infatti ipotizzato che la difficoltà nella comprensione del linguaggio figurato e dell’ ironia di questi pazienti non sia tanto legata alla tendenza di interpretare letteralmente, quanto più alla novità dello stimolo.

In base alle attuali conoscenze, si può quindi concludere che esistono due ipotesi principali riguardo le basi neuroanatomiche dell’ ironia, per cui da una parte alcuni sostengono l’ipotesi dell’attivazione di un network diffuso coinvolgente i lobi frontali e temporali, dall’altra altri rimangono dell’idea di un’elaborazione specifica e lateralizzata dell’emisfero destro. Sarà pertanto necessario approfondire ulteriormente il tema per maggior chiarezza a riguardo.

 

Ironia: considerazioni finali

Il presente articolo si è interessato di approfondire la capacità di comprendere l’ ironia illustrando lo stato attuale delle conoscenze sul tema: a partire da alcuni cenni di carattere generale, sono stati approfonditi gli aspetti di elaborazione processuale dell’ ironia, dando anche spazio agli aspetti più prettamente cognitivi ed al dibattito sulle sue basi neuroanatomiche.

Nonostante i recenti sviluppi e l’interesse della comunità scientifica verso l’argomento, allo stato attuale delle conoscenze non è ancora possibile trarre delle conclusioni definitive. Ulteriori approfondimenti in grado di gettare nuova luce sulla natura e il funzionamento dell’ ironia potrebbero risultare determinanti nello sviluppo di nuove modalità di  rinforzo di questa capacità che svolge un ruolo imprescindibile nel nostro mondo sociale e mentale, permettendoci di condividere le contraddizioni della realtà e affrontarle con maggior leggerezza.

Autismo nei primi anni di vita: identificare i segni precoci con la M-CHAT e intervenire – Report dal Congresso Erickson

La M- CHAT è stata sviluppata proprio con l’intenzione di individuare all’interno della popolazione generale quel gruppo di bambini con caratteristiche di sviluppo compatibili con un rischio di autismo.

Workshop di Diana Robins e Giacomo Vivanti (A.J. Drexel Autism Institute, Philadelphia)

Diana Robins esordisce con la descrizione dei sintomi di un possibile disturbo dello spettro autistico nei bambini molto piccoli. Segnali a cui badare nella comunicazione non verbale sono l’evitamento del contatto oculare, la mancanza di indicazione, una ridotta attenzione condivisa e un uso sporadico o limitato della gestualità.

Un altro ambito significativo è quello della reciprocità sociale ed emotiva. I bambini non reagiscono facilmente al richiamo o alle voci, non indicano per condividere esperienze, non mostrano oggetti ai genitori e manifestano uno scarso coinvolgimento nei classici giochi della prima infanzia tipo il gioco del cucù. È dunque possibile individuare problemi di natura sociale prima di altri elementi ritenuti utili alla diagnosi come per esempio i movimenti ripetitivi. Quest’ultima categoria di sintomi è inoltre di più difficile interpretazione poiché i movimenti ripetitivi sono spesso presenti anche in bambini piccoli neurotipici come strategia di apprendimento. Ciò che rende invece queste condotte possibili segnali di un disturbo dello spettro autistico è il fatto che esse non siano funzionali o interferiscano con altri comportamenti funzionali.

L’importanza di individuare precocemente queste anomalie a livello di motivazione e cognizione sociale permette una presa in carico in un periodo in cui il bambino dovrebbe sviluppare proprio tutte le strutture cerebrali utili a un corretto funzionamento sociale.

La M- CHAT è stata sviluppata proprio con l’intenzione di individuare all’interno della popolazione generale quel gruppo di bambini con caratteristiche di sviluppo compatibili con un rischio di autismo. Si tratta di un questionario di 20 domande rivolto ai genitori di bambini tra i 16 e i 30 mesi. Richiede solo cinque minuti per la compilazione e meno di due minuti per calcolare il punteggio. Lo score ottenuto può ricadere in 3 diversi intervalli. Ci saranno bambini ritenuti non a rischio, bambini che invece richiederanno un follow up successivo per confermare o meno il rischio e bambini che presenteranno un punteggio così elevato da dover essere subito inviati ad un percorso diagnostico completo per un’immediata presa in carico terapeutica.
La parola passa quindi a Giacomo Vivanti che sottolinea le caratteristiche fondamentali di un intervento precoce per l’autismo:

  • Un approccio evolutivo/costruttivista di base;
  • Avere come target del trattamento quei comportamenti che formano l’infrastruttura dell’apprendimento sociale;
  • Dare importanza all’iniziativa spontanea, alla partecipazione attiva ed al coinvolgimento emotivo;
  • Utilizzare strategie di analisi e modificazione comportamentale (ABA);
  • Mantenere una cornice naturalistica: è bene insegnare delle competenze all’interno di situazioni in cui acquisiscono un senso;
  • Utilizzare strategie manualizzate;
  • Monitorare costantemente l’apprendimento del bambino ma anche l’operato del terapista.

Ci mostra diversi video utili a comprendere meglio le caratteristiche elencate, la maggior parte dei quali registrati negli ambienti scolastici. Fa piacere visionare interventi così specifici e rigorosi svolti anche da insegnanti di classe adeguatamente formate e nello stesso tempo è doloroso constatare quanta strada ci sia ancora da fare perché questa buona prassi possa diffondersi anche qui in Italia.

Il video modeling: una strategia efficace per insegnare abilità funzionali – Report dal Congresso Erickson

Il workshop è aperto da Lucio Cottini che introduce il video modeling quale strumento di apprendimento imitativo che sfrutta i video per insegnare specifiche abilità.

Workshop di Lucio Cottini (Università di Udine; Presidente SIPeS – Società Italiana di Pedagogia Speciale), Irene Pozzar (Centro Pais, Centro MaiSoli e Associazione DIPsi, Genova) e Silvano Solari (Università di Genova)

 

Negli ultimi vent’anni sono state molte le ricerche evidence-based che hanno confermato l’efficacia del video modeling come strumento attraverso il quale soggetti con autismo possono apprendere specifiche abilità nell’ambito delle autonomie personali e delle competenze relazionali e sociali.

I video modeling sono brevi filmati, liberi da distrattori, dotati di audio, che mostrano un soggetto generico (o il soggetto con DSA, in questo caso è chiamato un video self modeling) mentre svolge un’azione o mentre si comporta in un determinato modo in uno specifico contesto sociale.

Le evidenze scientifiche dimostrano che il soggetto con DSA può apprendere imitando ciò che vede e il fatto che i video possano essere rivisti più volte, rinforza l’apprendimento stesso. E’ possibile quindi mostrare procedure di vita quotidiana (es. lavarsi i denti), situazioni sociali (es. apparecchiare la tavola insieme ad altre persone) oppure intervenire sui comportamenti problema (es. comportamenti problema in classe).

Le competenze e le abilità apprese attraverso il video modeling non solo sono utili nel contesto specifico, ma permettono al bambino o al ragazzo con DSA una migliore interazione con il mondo, una migliore autonomia in un’ottica di inclusione sociale. Rimangono comunque alcune questioni aperte: esiste un livello di prerequisiti di base oltre i quali il video modeling non può essere applicato? Ci sono differenze di efficacia a seconda che si usi un avatar, un genitore … come soggetto del video? Il video modeling è la modalità più efficace per il trattamento dei DSA? Le applicazioni mobile favoriscono i processi inclusivi mediati dal video modeling?

Lucio Cottini e Irene Pozzar rispondono a queste domande portando l’esperienza del progetto IDEAS (2015-2016) e l’esperienza dell’utilizzo di applicazioni specifiche per la costruzione di video. Il progetto IDEAS riguarda il lavoro svolto con cinque giovani adulti autistici a basso funzionamento che, attraverso il video modeling e l’observational learning interattivo (apprendimento attraverso la visione di video in cui i soggetti interagivano tra loro svolgendo insieme un’attività), hanno sviluppato abilità specifiche (es. costruire un mosaico) e sequenze di attività quotidiane (es. preparare la tavola).

L’uso del video modeling ha permesso l’apprendimento delle abilità, l’acquisizione di una progressiva autonomia nello svolgere l’attività stessa e ha facilitato l’interazione spontanea tra i ragazzi.

Irene Pozzar, inoltre, condivide con la platea il proprio lavoro svolto con un bambino autistico nel contesto scolastico in cui è stato utilizzato il video modeling per trattare i comportamenti problema che ostacolano l’interazione con i compagni. In questo caso sono state utilizzate due applicazioni (IMovies IOS, Let Me Talk) per la costruzione dei video ai quali è stato possibile aggiungere effetti speciali desiderati e scelti dal bambino stesso. In definitiva, il panorama applicativo del video modeling pare molto ampio e soprattutto è dimostrato quanto il video modeling possa essere efficace se utilizzato con obiettivi chiari e specifici. Al termine del workshop la platea è stata informata della costruzione, ancora in progress, di una banca dati di video modeling che permetterà a genitori, educatori, insegnanti e clinici di usufruire di questo strumento. Aspettiamo quindi la primavera 2017 per avere informazioni più dettagliate.

Ansia preoperatoria: le nuove pratiche per gestirla

In un nuovo studio condotto presso l’Università di Haifa è stata esaminata la combinazione tra la medicina complementare (ovvero quella medicina che congiunge la medicina alternativa a quella convenzionale come ad esempio l’agopuntura utilizzata in forma addizionale nella terapia del dolore) e il trattamento standard per l’ ansia preoperatoria: questa combinazione ridurebbe i livelli di ansia tra i pazienti e migliorerebbe l’esito dell’operazione.

 

Ansia preoperatoria: i sintomi e le pratiche per gestirla

L’ ansia preoperatoria può manifestarsi con diversi sintomi quali: pressione elevata del sangue, variazione del metabolismo degli zuccheri e altri sintomi. Inoltre l’ ansia preoperatoria può anche influenzare e prolungare il periodo di recupero post-operatorio.

L’attuale studio è stato condotto da Samuel Attias, con la supervisione del prof. Boker e il dottor Elad Schiff, presso l’Università di Haifa, dove hanno cercato di esaminare se le pratiche di medicina complementare, affiancate alle cure convenzionali, potessero contribuire a ridurre i livelli di ansia.

Lo studio

Nello studio sono stati esaminati 360 pazienti di età superiore ai 16 anni, in procinto di sottoporsi ad un intervento di chirurgia generale. I pazienti sono stati divisi in tre gruppi.

Il primo gruppo ha ricevuto cure standard per l’ ansia preoperatoria, compresi i farmaci, e le istruzioni dell’anestesista prima dell’ingresso nella sala d’attesa chirurgica.

Il secondo gruppo ha ricevuto cure standard così come l’assistenza medica complementare, tra cui l’agopuntura, l’immaginazione guidata individuale, o una combinazione di riflessologia e immaginazione guidata.

Il terzo ed ultimo gruppo ha ricevuto cure standard combinate con immaginazione guidata registrata, anziché effettuata di persona.

I livelli di ansia sono stati misurati su una scala da 1 a 10, prima e dopo l’intervento.

I risultati

I risultati dello studio mostrano che, in generale, i pazienti che hanno ricevuto la combinazione di medicina complementare e cure standard mostrano una riduzione del 60% del loro livello di ansia. Al contrario, nei pazienti che hanno ricevuto solo le cure standard il livello di ansia è salito leggermente. I pazienti invece che hanno ricevuto le cure standard combinate e immaginazione guidata hanno mostrato una riduzione maggiore del livello di ansia.

Il gruppo di pazienti che hanno ricevuto la combinazione di terapia standard e immaginazione guidata registrata, hanno mostrato un livello di ansia più basso ma non significativamente.

I ricercatori hanno riconosciuto che questo metodo consente ad una vasta popolazione di ricevere il trattamento anche se, non essendoci la presenza di un caregiver vicino al paziente (essendo l’immaginazione guidata, registrata) questo metodo è soggetto ad interruzioni esterne, come ad esempio quando infermiere o anestesista effettuano su di lui la normale routine preoperatoria.

Le conclusioni

Concludendo i ricercatori affermano che in questo studio hanno dimostrato che i trattamenti complementari possono essere utili per diminuire l’ ansia preoperatoria.

Oltre le gabbie dei generi (2012) di Mirella Izzo – Intervista all’autrice

Oltre le gabbie dei generi è un libro di Mirella Izzo, del 2012. Il messaggio del libro è che ‘l’Identità di Genere’ e non solo il ‘Genere’ riguarda ogni persona umana.

 

Intervistatore (I): Il libro inizia con l’affermazione: Questo non è un libro per trans. Successivamente dopo alcune righe aggiunge: Questo è un libro per tutti. Mi piacerebbe cominciare questa presentazione spiegando perché questo libro è per tutti.

Autrice (A): Ho voluto chiarirlo fin dalla prima riga per una serie di ragioni: il fatto che io fossi notoriamente transgender e che il titolo del libro richiamasse questioni di Gender, poteva facilmente ingenerare la convinzione che il mio sforzo fosse quello di individuare qualcosa di nuovo all’interno della galassia delle definizioni che circondano il mondo transessuale/transgender/genderqueer/gendervariant e chi più ne ha più ne metta.

In realtà il libro vuole avere un messaggio diverso e cioè che “l’identità di Genere” e non solo il “Genere” riguarda ogni persona umana.  Spesso nei documenti ufficiali di leggi o testi politici si tende ad utilizzare “Identità di Genere” come equivalente di Transgender. Mia intenzione è smontare questa tesi. Le persone Transgender hanno una (o più) specifica Identità di Genere, particolarmente evidente agli occhi altrui, in quanto comporta, generalmente, una mutazione del corpo e dei tratti somatici dovuti, in primis, alla terapia ormonale sostitutiva che femminilizza o mascolinizza la persona. Quindi, come si è ingenerata la falsa equivalenza trans = prostituta, persino nei documenti ufficiali dei Governi Identità di Genere è diventato uguale a Transgender.

In realtà l’Identità di Genere dovrebbe indicare qualcosa di più generale e cioè il proprio posizionamento, gli infiniti, anche piccoli, discostamenti dal Genere di appartenenza e dalle Aspettative di Genere (o ruoli di Genere). Nel libro faccio alcuni esempi di quanto, specie nei maschi biologici, anche un piccolo discostamento – se non represso – possa generare grande panico nei parenti, amici, conoscenti, colleghi, capi della persona e in chiunque abbia a che fare con una persona così. Nel libro inserisco casi eclatanti di quanto, specie negli uomini, un piccolo discostamento dagli Stereotipi di Genere, possa generare rifiuto ed emarginazione.

Ratio di questa parte del libro è il coinvolgere tutta la popolazione in una presa di coscienza tale da ingenerare il rifiuto del concetto di diverso. Siamo tutti coinvolti ma nelle persone Transgender, questo coinvolgimento è evidente agli occhi di tutti e necessita di un aiuto medico. Il libro ha uno scopo ben preciso: sviluppare una cultura inclusiva cercando nelle realtà scientifiche più recenti: da cui la necessità di essere rivolto a tutti, non a una parte. E’ un messaggio di liberazione di Genere a cui, probabilmente, l’Italia non è ancora pronta. Ho spesso avuto la sensazione che il libro parlasse ad un pubblico non esistente  (spero, per ora), se non in quella parte di umanità che – o per studio o per ricerca individuale – ha già coscienza di quella parte di Identità individuale che ha a che fare con il Genere ed anche il Sesso e, di conseguenza, gli orientamenti sessuali.

Accettare un uomo (la donna è già più avanti) non stereotipato porterebbe alla luce molti modi diversi di essere uomo e meno sofferenza negli uomini non perfettamente in linea con gli stereotipi del maschile e farebbe anche vedere che il fenomeno transgender non è un elemento qualitativo ma fondamentalmente quantitativo nel discostamento dallo stereotipo di genere maschile e femminile.

I: Il sottotitolo del suo libro è “Il manifesto pangender”, vorrebbe spiegare cosa intende con questo termine pangender? Magari partendo proprio dalla definizione di genere. Poi avremo modo di parlare dell’idea di scrivere un manifesto.

A: Per rispondere a questa domanda bisogna fare un po’ di storia sul momento sociale in cui il libro è uscito. Il movimento LGBT usciva da stagioni di forti lotte intestine (e di potere) che si sono evidenziate in vari Pride, con il culmine del Pride di Bologna. Io facevo parte del gotha delle presidenze delle Associazioni LGBT dell’epoca (Crisalide AzioneTrans), ma mi sentivo sempre di più a disagio in un movimento che – ai miei occhi – sembrava ripetere da decenni le stesse parole d’ordine, con le stesse modalità di espressione, con gli stessi giochi di potere a difesa della propria nicchia rappresentativa.

Io mi sono permessa di contestare, dentro una mailing list di responsabili associativi, il mio disagio ed il fatto che bisognasse in qualche modo superare la forma sommatoria che si era data il movimento, e cioè L+G+B+T e poi ancora L+G+B+T+Q+I, sigla impronunciabile ma che –soprattutto – manteneva le distanze tra le diverse identità senza cercare una sintesi. Anzi, in camera caritatis tutte le singole identità della sigla avevano un rapporto pieno di pregiudizi verso le altre componenti del movimento. Pregiudizi che ho elencato ed esemplificato ampiamente nel libro. Mettere alla luce queste contraddizioni e cercare una sintesi avrebbe messo in discussione l’attuale assetto delle Associazioni e ne avrebbe rivoluzionato il modus cogitandi e operandi. Per questo il libro, molto apprezzato tra psicologi e sociologi, è stato silenziosamente messo all’indice dal 99,9% delle Associazioni LGBTQI.

Io questa sintesi l’ho cercata, non solo tra LGBT, ma anche includendo gli etero e le persone coerenti tra sesso, genere e identità di genere, ma anche altre identità non riconosciute ma esistenti. Questa comunità inclusiva di ogni identità e orientamento l’ho chiamata Pangender. Nel libro ho ben specificato quale significato ho dato a Pangender perché in USA esiste un, pur piccolo, movimento pangender che dichiara di avere in sé tutti i generi e le identità di genere… Un concetto che io trovo border line, in quanto, come individui, possiamo essere una parte, magari anche estesa, allargata, ma mai il tutto a livello individuale. Il nostro concetto di Pangender è invece rappresentativo di un balzo quantico di coscienza di tutte le comunità umane sessualmente identitarie che vivessero le differenze senza giudizio. Ecco come nasce il Manifesto Pangender intorno al quale è poi nato il libro con delle doverose premesse per chi non fosse addentro all’argomento e una parte successiva che tentava di ampliare le enunciazioni del Manifesto, tentando anche di dare risposte alle contestazioni più probabili che mi venivano in mente.

Il libro doveva essere il primo di una triade, ma poi non ho avuto le forze di scrivere neppure il secondo. Un esempio di quanto avrei voluto sviscerare è una realtà che io stessa ho riconosciuto in tempi recenti. Persone che definisco “Gendernauti“. Di solito transizionano da adulti, hanno un passato di vita apparentemente normo-tipico nel genere di nascita, ma con qualche atipicità emozionale. Ad un certo punto della vita (in genere dai 35 ai 50 anni), sentono di non avere più alcuna identificazione con tutto quello che avevano agito nel proprio genere di nascita. Da qui nasce il desiderio profondo di vivere nel genere opposto al sesso di nascita. Di norma non si ha consapevolezza di essere gendernauti ma si pensa di essere transgender tardivi per molti anni e con molte recriminazioni sul non aver compreso prima la propria realtà. Solo dopo molti anni si capisce (ma è difficile da accettarsi perché ci si sente out rispetto alle altre persone transgender) che in realtà un maschile (o un femminile) esisteva ma era fragile, debole e dopo una parte di vita si era esaurito. E’ un argomento che ora accenno appena, che meriterebbe almeno un capitolo di un libro.

Peraltro, inconsciamente, io stessa, proprio ad inizio transizione, nel maggio 2000, scrissi poche righe che in sé contenevano l’essenza di cosa intendo per Gendernauta. Le trascrivo perché spiegano meglio di tante disquisizioni:

La vita non è tutta gioia o tutto dolore, tutta luce o tutta oscurità. Non è sempre estate o sempre  inverno, sempre sereno o sempre nuvoloso… Gli opposti si alternano costantemente, talvolta sovrapponendosi e mischiandosi in alchemiche magie… E così la vita offre spesso un gusto piacevolmente agrodolce o inquietantemente dolceamaro. Mentre noi – spesso scioccamente – cerchiamo di separare ogni singolo ingrediente, la vita ci coglie nel suo inscindibile insieme di aspetti contraddittori. In me il maschile si è spento come in un tramonto autunnale lasciando spazio, dopo una notte buia e di tormento, ad un’alba femminile dolce e magica.  Ma in questo nuovo giorno albeggiante rimane l’eco dei ricordi di ieri. Ricordi di cui faccio tesoro e che talvolta rileggo come un caro diario di una vita passata.

Ora ho solo voluto lanciare uno degli spunti che avrebbero composto il secondo libro. Il terzo avrebbe dovuto sviluppare il capitolo del primo libro “Panhumanity. Il naso fuori” che accenna ad un’estensione del concetto da solo pangender a panumano e panterrestre (includendo mondo animale e vegetale).

I: Nella prima parte del libro “Dal transgender al pangender” lei ripercorre con estrema meticolosità la terminologia, per fare chiarezza sulle parole che usiamo perché molte persone ignorano spesso il significato vero dei termini che utilizzano. Il termine transessuale precede nel tempo quello di transgender. Nel 1966 Harry Benjamin definisce il transessuale come un individuo che vive un profondo disagio (disforia, contrario di euforia) rispetto al sesso biologico. La parola transgender viene utilizzata la prima volta nel 1970, negli USA, dalla militante trans Virginia Prince. Perché oggi è preferibile parlare di transito di genere piuttosto che di transito di sesso?

La risposta apparirà ingenerosa verso il dottor Harry Benjamin che rese famoso il termine transessuale (non lo inventò lui) che pur ha dato tanto alle persone che soffrivano terribilmente nel sentirsi inadeguate al sesso di nascita. Ingenerosa perché transessuale è un termine innanzitutto errato proprio dal punto di vista medico: il sesso è dato dal cariotipo delle persone e dai caratteri sessuali primari (ovaie e testicoli e non, come pensano in molti, pene e vagina/vulva/clitoride). Quindi il sesso non lo si può cambiare. Perlomeno non fino ad ora: il mio cromosoma è rimasto XY dopo la transizione e non c’è modo di avere delle ovaie funzionanti. Si può fare una neo vagina o un neo pene (con tutte le riserve del caso sulla effettiva funzionalità di questi organi sessuali chirurgicamente modificati), ma senza ovaie o testicoli. Quindi transessuale è un termine tecnicamente e scientificamente impreciso, se non errato.

Non fu però solo questo il motivo che spinse Virginia Prince a coniare il termine Transgender. Nella sua intenzione c’era anche il primo vagito della voglia di uscire dalla medicalizzazione della nostra condizione. Usare un termine di nascita medica (e per di più scorretto) non era adatto a chi voleva costruire un movimento di liberazione.

Per rispondere alla domanda: la transizione è di Genere o non è. Non esiste la possibilità, allo stato attuale, di una transizione sessuale. Transgender (o se si vuole italianizzare: transgenere) è il termine ombrello giusto per indicare le persone con varianti della propria identità di genere rispetto al Genere e al Sesso. Ricordo che una nota neuropsichiatra milanese che si è occupata di seguire persone trans, scrisse un capitolo di un libro collettaneo che poi non vide mai la luce, intitolato, provocatoriamente, ma non troppo: “Siamo tutti transgender“.

I: Da pag. 52 a pag. 66 troviamo il Manifesto Pangender. Il libro si articola in 3 parti, il Manifesto Pangender costituisce la seconda parte. Pag.69: ho trovato molto interessante l’affermazione secondo cui, per una questione di precedenza nella costruzione identitaria individuale, è auspicabile sapere chi siamo prima di sapere che cosa ci piace, ovvero l’identità di genere prima dell’orientamento sessuale. A questo proposito sembrerebbero esserci tanti orientamenti sessuali quante identità di genere. Possiamo soffermarci su questo punto?

A: Bisogna essere chiari: questa esigenza si pone a livello filosofico, culturale, psicologico ma non medico. Per la medicina, a tutt’oggi una transgender da Maschio a Donna (non a Femmina proprio perché è transizione di genere e non di sesso) con orientamento sessuale lesbico (verso le donne) viene definita come un transessuale androginoide eterosessuale. Se alla trans piacciono gli uomini, un transessuale androginoide omosessuale. E viceversa per un trans da Femmina a Uomo a cui piacciono le donne è una transessuale ginoandroide omosessuale e se gli piacciono gli uomini, una transessuale ginoandroide eterosessuale. Per la medicina conta solo ed esclusivamente il cariotipo e su di esso costruiscono le definizioni degli orientamenti sessuali e gli articoli al maschile o al femminile da utilizzare.

Stabilita questa distanza abissale tra medicina ufficiale e movimenti delle persone non conformi alla dualità Maschio/Femmina ed anche alla dualità Eterosessuale e Omosessuale (la Bisessualità viene vista come un mix dei due orientamenti esistenti), spiego perché, secondo me, viene prima l’identità di genere rispetto all’orientamento sessuale.

E qui devo aprire una parentesi grande grande. Con viene prima non intendo un primato dell’Identità di Genere sull’Orientamento sessuale, semplicemente, nel caso in cui (e solo in questo caso se indagato bene) non sai ancora chi sei (uomo o donna per semplificare molto), che nome puoi dare al tuo orientamento sessuale? Fino a che non definisco la mia individualità di Genere posso anche sapere il mio orientamento sessuale ma non so che nome dargli. Ma non è solo una questione di nome. Ad intervenire è anche il come praticare l’atto sessuale. Io ho avuto relazioni con donne da uomo e poi da donna (non operata) e posso garantire che la modalità dell’agire sessuale è totalmente diversa. Io sono sempre io, ovviamente, ma dentro l’identità di genere esiste anche una diversa modalità di vivere la sessualità ed una modificazione funzionale degli organi sessuali. E’ una cosa non solo psicologica ma anche ormonale. Per fare un esempio personale: con il cervello invaso dal testosterone la mia sessualità (ed il mio agire sessuale) era opposto a quando ho iniziato ad invertire la prevalenza, pur con gli stessi organi genitali i quali, peraltro, restano gli stessi nella forma (a riposo, nel mio caso), ma si rivoluzionano letteralmente nella funzione dell’atto sessuale e di raggiungimento del piacere. Nel libro dedico un capitolo a questo particolare aspetto della transizione, ben poco (o niente) esplorato, in precedenza.

Inoltre spiego l’insolita situazione oggi prevalente nei libri di psicologia e sociologia. Si identificano sempre più sfumature di Identità di Genere, ma gli Orientamenti sessuali restano duali. Non ci sta e non ci deve stare perché altrimenti si generano gli orientamenti sessuali giusti e quelli sbagliati. Nel libro individuo una 20ina di orientamenti sessuali diversi (ma ce ne possono essere di più) e do pure loro un nome specifico per ogni orientamento. L’ho chiamato gioco degli orientamenti sessuali perché il gioco rivela la sua verità attraverso il paradosso. Tanti più sono gli orientamenti sessuali tanto più sarà difficile discernere quello giusto da quello sbagliato… Alla fine gli orientamenti sessuali sono tanti quante le sfumature delle identità di genere e hanno tutti pari dignità (fatto sempre salvo l’imperativo implicito che sono orientamenti sessuali solo quelli tra post puberali consenzienti)

I: Nell’appendice che ha deciso di inserire in questo libro come integrazione della prima parte, nel paragrafo sul Tranfemminismo a pag. 124, cita l’articolo di uno psicologo che descrive la femminilità transgender come quella utilizzata dalle sex worker transgender per procacciarsi clienti. Un errore grossolano ed imbarazzante che ricorda come molti professionisti non siano in possesso dei requisiti formativi di base necessari a parlare di queste tematiche. Ci avviamo alla conclusione e le chiederei di soffermarci proprio su questo aspetto, che trovo essenziale ed affascinante allo stesso punto, quello della femminilità appunto.

A: Quello psicologo italiano di cui, onestamente, ho dimenticato il nome (pur essendo, a suo tempo, ospitato, l’intervento in questione, da una nota rivista di psicologia on line) rappresenta lo scempio dell’individuazione di cosa è femminile e cosa è maschile. Lo sciovinismo che impregna quell’articolo appartiene a una mentalità che, almeno tra gli specialisti, dovrebbe appartenere a due secoli fa, ma al di là di questo esempio eclatante, esiste tanta ignoranza meno evidente in ambito di Genere. Ci sono stati casi in cui psicologi/psichiatri ci hanno messo anni ad arrivare ad una diagnosi della cosiddetta Disforia di Genere. Il che vuol dire che le persone aspettavano anni senza una risposta e senza poter iniziare il percorso! Una cosa assurda: nei tribunali per stabilire se un assassino era capace di intendere e di volere o il contrario, ci possono volere settimane, mesi, non anni. E si parla di omicidi!!!

Del resto nei programmi universitari di Endocrinologia, la parte riservata agli ormoni sessuali è trascurata ed è un grave errore perché Estradiolo, Testosterone e Progesterone sono, di fatto, sostanze informazionali alla pari di Serotonina, Noradrenalina, Dopamina ecc. e non regolano solo la sessualità. L’esempio più eclatante è il rapporto tra testosterone e aggressività che dà poi vita, insieme a fattori sociali e individuali e culturali, a fenomeni come la violenza sessuale e il Donnicidio. Nessuno sembra chiedersi perché questi fenomeni riguardano solo i maschi e, nel caso in cui se lo chieda, si risponde con frasi tipo “a causa della società patriarcale”,  ma nessuno va oltre a cercare di rispondere al perché la società patriarcale e maschilista si è imposta in tutte le società umane e dei primati, con l’unica eccezione dei Bonobo, una sottospecie di Scimpanzé con cui condividiamo il massimo del Genoma rispetto agli altri scimpanzé, Orango, Gorilla ecc.

E’ importante studiare la società dei Bonobo per capire cosa sia andato storto nella evoluzione umana, perché la società dei Bonobo è pacifica, non conosce guerre e risolve le tensioni attraverso atti sessuali promiscui e mai violenti ed è totalmente matriarcale. Quanto ci sarebbe da dire sul fatto che una società matriarcale sia così sessuale mentre quelle patriarcali sono fondate sulla supremazia…

Si dice che l’uomo pensa sempre al sesso e la donna no, ma uno dei motivi per cui la donna è stata sottomessa, a mio parere, sta proprio nella potenzialità della sessualità femminile (multiorgasmica e che non sceglie, tra la prole, lo sperma che ha fecondato l’ovulo). E credo in parte di rispondere anche a quanto poco si studiano questi aspetti nelle Università nelle facoltà di Psicologia o di Sociologia.

Allora cosa è la femminilità? Molto semplice: quello che le donne libere (e sono poche nel pianeta) agiscono e sentono in quel dato contesto storico, sociale, territoriale. Non tutte agiscono nello stesso modo? Ovvio, non esiste uno Stereotipo di Genere: è tutta un’invenzione maschile, a mio parere. Del resto Simone de Beauvoir scrisse: “Donne non si nasce, lo si diventa”: profetica, in ogni accezione possibile.

 

Oltre le gabbie dei generi: chi è Mirella Izzo?

Mirella Izzo nasce il 23 aprile 1959 di sesso maschile. Transiziona a 39 anni. Fonda, lo stesso anno, l’associazione Crisalide Arcitrans, dall’anno successivo Crisalide AzioneTrans, fino al 2006 che è la prima Associazione italiana a definirsi Transgender e non Transessuale, motivandone la scelta. Collabora dal 2000 al 2003 con lo Sportello Nuovi Diritti della CGIL a Genova e scrive – con altri – un pamphlet sui diritti/doveri dei datori di lavoro nei confronti delle persone transgender. Convince, dopo incontro informale, il Tribunale di Genova, ad eliminare la  perizia d’ufficio a carico dell’istante nelle cause di rettificazione di Genere.

Importa per prima in Italia il termine transfobia differenziandone il significato da omofobia. Scrive il Manifesto Pangender in parziale critica del Movimento LGBT e su questo fonda, insieme ad altri, Crisalide Pangender che durerà circa un anno. E’ la prima translesbica e transfemminista italiana e scrive svariati articoli sui temi sul proprio blog “De/Generi” e sui suoi libri. Pubblica “Translesbismo: istruzione per l’uso” (2007), ed il libro di poesie “Perpetue Rifrazioni” (2007), il libro “Oltre le Gabbie dei Generi: il Manifesto Pangender“(2012, Ed. Gruppo Abele) che compendia il Manifesto originario. Due anni dopo pubblica il libro “Donnicidio: il femminicidio visto dagli occhi di una donna nata maschio“. Nell’anno 2015 nasce l’Associazione Rainbow: pangender & pansessuale, prima ad ispirarsi al Manifesto Pangender e viene nominata Presidente Onoraria.

Il Cervello felice (2014) di John Arden – Recensione

Il libro “Il cervello felice” (originale “The Brain Bible”) di John Arden, si prefigge l’obiettivo di tracciare un percorso specifico attraverso il quale il lettore può acquisire numerose informazioni e concetti utili ad attuare comportamenti che possano proteggere e mantenere allenato il nostro cervello.

 

Cura del corpo…e del cervello?

Siamo sempre più attenti e impegnati nel prenderci cura dei nostri organi: andiamo a correre, in bicicletta o ci concediamo delle passeggiate per mantenere efficiente il nostro apparato cardiocircolatorio, smettiamo di fumare per preservare i nostri polmoni, stiamo attenti all’alimentazione per mantenere efficienti gli organi deputati alla digestione, cerchiamo di bere una sufficiente quantità d’acqua per favorire il buon funzionamento dei reni e per idratare la pelle.

Non sempre, tuttavia, viene dato il giusto risalto all’importanza di mantenere attivo ed efficiente l’organo forse più importante che abbiamo: il cervello. Paradossalmente, spesso diventiamo consapevoli del nostro stesso cervello, solo quando il suo funzionamento è ostacolato da disturbi neurologici, psichiatrici, o psicologici che influenzano pesantemente la nostra vita quotidiana.

 

Il cervello felice di J. Arden

Il libro “Il cervello felice” (originale “The Brain Bible”) di John Arden, psicologo e neuropsicologo americano, già direttore responsabile dei programmi di formazione e training nel campo della salute mentale dei Kaiser Permanente Medical Centers della North Carolina, si prefigge l’obiettivo di tracciare un percorso specifico, basato su dati di ricerca in campo neuroscientifico e sull’esperienza clinica dell’autore, attraverso il quale il lettore può acquisire numerose informazioni e concetti utili ad attuare comportamenti che possano proteggere e mantenere allenato il nostro cervello.

Il libro “Il cervello felice”, dopo un capitolo introduttivo di presentazione della struttura del volume, illustra, avvalendosi di esempi concreti basati sulle storie di alcuni pazienti di Arden, alcuni principi di generali sul funzionamento neurobiologico del cervello, basati sulle ricerche neuroscientifiche degli ultimi anni.

La seconda parte del volume è invece interamente incentrata sulla presentazione dei diversi fattori del programma Cervello felice, che secondo Arden concorrono a garantire un cervello brillante, attivo e lucido negli anni, in barba al trascorrere del tempo. I fattori chiave presentati da Arden sono cinque: alimentare la sete di curiosità intellettiva del nostro cervello garantendogli istruzione e sfide cognitive fin dalla giovane età e per tutto il corso dell’esistenza (fattore intellettuale); seguire uno stile alimentare sano ed equilibrato, favorendo alcuni alimenti e limitando o eliminandone altri (fattore alimentazione); condurre una vita attiva caratterizzata da un’attività aerobica regolare e costante (fattore movimento); mantenere una solida rete di rapporti e relazioni sociali appaganti (fattore sociale); garantire al nostro organismo il giusto riposo e una sufficiente quantità di sonno ristoratore (fattore sonno).

Ai cinque fattori principali, l’autore aggiunge uno specifico capitolo, che approfondisce l’importanza di utilizzare strategie e strumenti come le tecniche di rilassamento, la meditazione e l’attenzione non giudicante al momento presente (di fatto la mindfulness) che consentano di gestire le situazioni e i momenti caratterizzati da intenso e protratto stress, riducendone l’impatto sulle nostre capacità cognitive.

Il libro presenta tre punti forti, che rendono interessante e godibile la lettura sia agli addetti ai lavori (psicologi, psicoterapeuti, medici, neuroscienziati ecc.), che alle persone appassionate e interessate alle tematiche riguardanti il benessere psicofisico: l’autore, nell’esporre le sue teorie e nel fornire i concetti, fa esplicito riferimento a molti studi scientifici (più di cento), i cui riferimenti sono pubblicati nelle note finali e sono facilmente consultabili e approfondibili.

Arden inoltre riesce a incuriosire e far riflettere il lettore in merito alla grande varietà di elementi che possono concorrere a favorire il benessere mentale e cognitivo, invogliando a porre maggior attenzione e consapevolezza alle proprie abitudini e motivando al cambiamento di alcuni nostri stili di vita. La narrazione intervalla sapientemente spiegazioni di concetti più tecnici e scientifici alla descrizione di aneddoti personali dello stesso Arden e dal racconto delle storie di alcuni suoi pazienti.

Nei racconti dei pazienti di Arden possiamo facilmente rivedere noi stessi o le persone con cui siamo a contatto nel corso della nostra vita personale o professionale, da Sylvia, 60 anni, preoccupata dalla perdita di lucidità mentale rispetto a quando aveva 30 anni, a Sara, madre, moglie e lavoratrice, impegnata da anni a prendersi cura dei figli prima e dei genitori anziani poi, che inizia ad accusare il peso dello stress di anni dedicati prevalentemente al benessere di chi le sta vicino, a Richard, professionista da pochi anni in pensione, sorpreso dal calo di brillantezza e dalla comparsa di vuoti mentali comparsi da quando ha lasciato il lavoro…

In sintesi “Cervello Felice” rappresenta una buona lettura, che ha il merito di farci riflettere sul prendere maggiormente in considerazione un approccio olistico al benessere del nostro cervello e che ci può consentire di adottare personalmente, o consigliare a chi ci sta vicino, degli accorgimenti comportamentali semplici ma incisivi, che possono portare benefici rapidi e sostanziali alla nostra salute psicologica, fisica e cognitiva.

 

Gli amanti senza volto di René Magritte

Nell’ambito delle arti figurative, uno dei principali e più originali esponenti del movimento surrealista fu René Magritte (1898-1967), che, coi suoi quadri, ci regala scene che assomigliano più ad un sogno che alla realtà.

 

Il Surrealismo, inteso come movimento artistico-letterario, nacque ufficialmente in Francia nel 1924, con la pubblicazione, ad opera di André Breton, del “Manifeste Surréaliste”, in cui il Surrealismo venne definito come un:

Automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, o per iscritto, che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale.

Breton conosceva molto bene la psicoanalisi di Freud, con cui venne in contatto all’inizio della guerra, quando era studente di medicina e venne arruolato per il servizio militare: fu infatti assegnato ad un centro neuropsichiatrico dove venivano curate le vittime degli shock bellici e fu qui che, per la prima volta, si avvicinò alle teorie freudiane.

 

L’influenza della psicoanalisi nell’arte del primo Novecento

La nascita della psicoanalisi, grazie a Freud, fornì molte suggestioni alla produzione artistica della prima metà del Novecento, che utilizzò ampiamente il concetto di inconscio e di sogno.

Secondo Freud il sogno è la “via regia verso la scoperta dell’inconscio”. Nel sonno, infatti, viene meno il controllo della coscienza sui pensieri dell’uomo e, in questo modo, può più liberamente emergere il suo inconscio, travestendosi in immagini di tipo simbolico.

Freud fu dunque un importante punto di riferimento per i surrealisti, la cui arte aveva l’obiettivo di esprimere la complessità della psiche umana, di esprimere l’Io interiore in piena libertà, emancipandolo dai meccanismi inibitori e dalle catene dalle quali è avviluppato. I surrealisti non si limitarono a trascrivere un sogno o un’allucinazione, ma cercarono di scoprire il meccanismo interiore attraverso cui opera l’inconscio. Il mezzo attraverso cui raggiunsero questo obiettivo fu l’automatismo psichico, ovvero il libero susseguirsi di associazioni mentali e di idee spontanee in un concatenamento irreversibile.

 

Il surrealismo di René Magritte

Nell’ambito delle arti figurative, uno dei principali e più originali esponenti del movimento surrealista fu René Magritte (1898-1967), che, coi suoi quadri, ci regala scene che assomigliano più ad un sogno che alla realtà.

L’artista fu infatti definito “le saboteur tranquille” per la sua capacità di insinuare dubbi sul reale attraverso la rappresentazione del reale medesimo. René Magritte, nelle sue tele, ripete spesso le stesse figure e gli stessi simboli e, tra questi, il volto coperto da un lenzuolo bianco compare in maniera ossessiva.

Qui vorrei concentrarmi proprio su una di queste tele, ovvero “Les Amants” o “Gli Amanti” del 1928. Si tratta di una di quelle opere d’arte che, viste una volta, non si dimentica mai più. Il dipinto mostra il bacio di due amanti con i volti coperti da un drappo bianco: questa immagine sarebbe stata sicuramente interessante per Freud; la ricerca pittorica di René Magritte, infatti, sembra essere stata condizionata da un fatto tragico, ovvero il suicidio della madre. Nel 1912, la madre del pittore venne ritrovata annegata suicida, con la testa avvolta dalla camicia da notte (o da un asciugamano), nel fiume accanto a casa. Se dunque accettiamo come chiave di lettura dell’opera di René Magritte la chiave freudiana, è evidente che l’artista pensa a quel tragico momento.

Gli amanti senza volto di Rene Magritte - les amants
Gli Amanti (1928) di R. Magritte – Olio su tela

 

Occorre inoltre ricordare che, nel 1928, l’anno in cui l’artista belga dipinse i due quadri intitolati “Gli Amanti”, morì suo padre Léopold, a soli 58 anni e, probabilmente, questa morte influì nell’ideazione delle due opere.

Facendo riferimento a questi due lutti vissuti dal pittore, quel bacio potrebbe essere un bacio scambiato tra due defunti e quell’amore potrebbe essere soltanto un lontano ricordo. Oppure potremmo essere di fronte alla rappresentazione della morte, che ostacola il procedimento di una storia d’amore. In ogni caso, il dipinto crea una certa inquietudine, in quanto ai personaggi viene imposta la crudeltà della negazione del bacio.

I due amanti, inoltre, hanno i corpi accostati, ma non possono vedersi a causa di quel drappo bianco, che rappresenta l’ostacolo, l’impossibilità di comunicare, l’impossibilità di incontrarsi e di conoscersi profondamente. Il vero incontro e la vera comunicazione, infatti, possono avvenire solo quando vi è la possibilità per ciascuno di vedersi e di definirsi reciprocamente in quanto individui.

 

Incomunicabilità e omologazione

Quello dell’incomunicabilità e dell’incapacità di farsi conoscere per ciò che si è davvero è un tema antico, ma anche estremamente attuale: l’incomunicabilità è infatti elemento presente ne “Gli Amanti” di René Magritte, come abbiamo appena visto, ma anche, per esempio, nelle opere dello scrittore siciliano Luigi Pirandello (1867-1936), ma è altresì elemento ricorrente nella società digitale odierna, pervasa dai social network, dove mi pare si vedano milioni di maschere e pochissimi volti.

Secondo Pirandello l’uomo è incapace di comunicare con gli altri ed i suoi rapporti con il prossimo sono falsi, perché non risultano basati su ciò che l’individuo è, ma sulla maschera che porta.  Gli uomini, dunque, recitano una parte, ci dice Pirandello, il che risulta essere terribilmente attuale: infatti, dove, se non su facebook, più che in ogni altro luogo, l’uomo può recitare una parte o indossare una maschera? Sui social network è facile costruire identità plurime o false identità, recitare la propria commedia, apparire per ciò che non si è, costruire una caricatura di se stessi.

Facebook e gli altri social, dunque, determinano l’opportunità di essere quello che vogliamo, ma soprattutto quello che non siamo, favorendo l’omologazione. Un’omologazione, quella del XXI secolo, che potremmo definire “visiva” e che trovo essere peggiore e più potente del conformismo di pensiero; oppure può essere che la prima aiuti il secondo, perché in una società materialmente conformista, dall’abbigliamento alla tecnologia, difficilmente potrà esserci un pensiero libero e diversificato.

Problemi alimentari dell’infanzia? Come affrontarli con l’ABA

Diverse ricerche mostrano come si possa utilizzare l’ABA (Applied Behavior Analysis) nei problemi alimentari dell’infanzia, soprattutto nei bambini a sviluppo tipico, in maniera tale da educarli ad un’alimentazione corretta ed aiutare genitori, insegnanti, educatori, psicologi e soprattutto i bambini stessi.

Artoni Grazia e Atti Martina – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

 

I problemi alimentari rappresentano un argomento di notevoli dimensioni e con svariate sfaccettature, di cui si occupano medici, nutrizionisti, psicologi clinici ma anche psicologi dell’educazione. Diverse ricerche mostrano come si possa utilizzare l’ABA (Applied Behavior Analysis) nei problemi alimentari presenti, in particolar modo, nei bambini a sviluppo tipico, in maniera tale da educarli ad un’alimentazione corretta ed aiutare genitori, insegnanti, educatori, psicologi e soprattutto i bambini stessi.

 

Ma che cosa è l’ABA?

L’ABA, ovvero Applied Behavior Analysis, è la scienza applicata che deriva dalla scienza di base conosciuta come Analisi del Comportamento (Skinner, 1953), la quale ha come oggetto lo studio delle interazioni psicologiche tra individuo e ambiente e come metodo quello scientifico proprio delle scienze naturali. Una caratteristica fondamentale dell’ABA è quella di essere evidence-based. L’attenzione dell’ABA è rivolta ai comportamenti socialmente significativi (abilità scolastiche, sociali, comunicative, adattive), questo la rende adatta ad essere applicata a qualsiasi ambito di intervento e non, come comunemente (e erroneamente) si pensa, solo all’autismo.

 

Problemi alimentari nell’infanzia: l’obesità infantile

Esistono diversi tipi di problemi alimentari nell’infanzia, problemi che, di conseguenza, rivestono anche l’area sociale, emotiva, affettiva dei più piccoli. Bisogna sottolineare che ogni caso è a sé e che ogni bambino è immerso in un contesto, in particolare, quello sociale, che è sicuramente una grande risorsa per la sua crescita, ma può rivelarsi anche controproducente e, addirittura, dannoso come si nota negli ultimi anni, ad esempio, per quanto riguarda l’obesità.

Si può parlare di obesità infantile quando il peso di un bambino supera del 20% il peso ideale (in base al sesso e all’altezza), di sovrappeso se lo supera del 10-20%. I super-obesi, invece, sono quei bambini il cui peso supera del 40% i valori normali.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) i bambini in eccesso ponderale nel mondo sono 44 milioni. In tutti gli Stati membri dell’UE la diffusione di sovrappeso e obesità nei bambini e negli adolescenti ha raggiunto dimensioni epidemiche ed è particolarmente preoccupante.

In Italia, il sistema di sorveglianza nazionale OKkio alla SALUTE (Nardone et al., 2016), promosso e finanziato dal Ministero della Salute/CCM, coordinato dal Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Istituto Superiore di Sanità e condotto in collaborazione con tutte le regioni italiane e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dal 2007 costituisce una solida fonte di dati epidemiologici sugli stili di vita dei bambini della scuola primaria e rappresenta la risposta istituzionale al bisogno conoscitivo del problema del sovrappeso e dell’obesità nella popolazione infantile.

Sono state presentate quattro rilevazioni (2008/9, 2010, 2012 e 2014), ognuna delle quali ha coinvolto oltre 40.000 bambini e genitori e 2.000 scuole. La metodologia standardizzata a livello nazionale garantisce la riproducibilità e la confrontabilità dei dati raccolti su: stato ponderale, abitudini alimentari, esercizio fisico e sedentarietà dei bambini della terza classe primaria e sul contesto scolastico e familiare.

La recente ricerca del 2014 ha evidenziato che i bambini di 8-9 anni in sovrappeso sono il 20,9% e i bambini obesi sono il 9,8%, compresi i bambini severamente obesi che da soli sono il 2,2%. Emerge, inoltre, che le prevalenze più alte si collocano nelle regioni del centro e del sud Italia.

Dal confronto delle quattro rilevazioni, oggi si evidenzia una leggera e progressiva diminuzione del fenomeno, nonostante i valori italiani di tali problemi alimentari nell’infanzia permangano elevati.

Dai dati 2014, come nel passato, emerge una tendenza dei genitori a sottostimare lo stato ponderare dei propri figli. In particolare tra le madri di bambini in sovrappeso o obesi, il 38% ritiene che il proprio figlio sia sotto-normopeso e solo il 29% pensa che la quantità di cibo da lui assunta sia eccessiva. Inoltre, solo il 41% delle madri di bambini fisicamente poco attivi ritiene che il proprio figlio svolga poca attività motoria.

In riferimento all’esercizio fisico e alla sedentarietà i dati rimangono piuttosto invariati rispetto al passato, con tendenza al miglioramento. Nel 2014 il 18% pratica sport per non più di un’ora a settimana, il 42% ha la TV nella propria camera, il 35% guarda la TV e/o gioca con i videogiochi più di 2 ore al giorno e solo 1 bambino su 4 si reca a scuola a piedi o in bicicletta.

Soffermandosi sulle abitudini alimentari, nel 2014 emerge che l’8% dei bambini salta la prima colazione, il 31% fa una colazione non adeguata (ossia sbilanciata in termini di carboidrati e proteine) e il 52% fa una merenda di metà mattina abbondante. Il 25% dei genitori dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta e/o verdura e il 41% dichiara che i propri figli assumono abitualmente bevande zuccherate e/o gassate. La situazione rimane piuttosto stabile rispetto alle precedenti rilevazioni e solo per quanto riguarda il consumo di una merenda abbondante e di bevande zuccherate e/o gassate si registra una diminuzione rispetto alla precedente raccolta (Nardone et al., 2016).

L’obesità è dovuta, quindi, ad un insieme di concause: predisposizione genetica e differenze metaboliche, aspetti fisiologici della regolazione del peso, ambiente familiare e condizioni socioeconomiche ambientali, scarsa educazione alimentare e stile di vita (spesso troppo sedentario) (Pruneti, 2005; Direzione generale della prevenzione sanitaria, 2010).

Tra le conseguenze precoci, le più frequenti sono rappresentate da problemi di tipo respiratorio (faticabilità, apnea notturna), di tipo articolare, dovute al carico meccanico (varismo/valgismo degli arti inferiori, ossia gambe ad arco o ad “X”, dolori articolari, mobilità ridotta, piedi piatti), disturbi dell’apparato digerente, disturbi di carattere psicologico: i bambini ‘grassottelli’ possono sentirsi a disagio e vergognarsi, fino ad arrivare ad un vero rifiuto del proprio aspetto fisico; sono spesso a rischio per la perdita di autostima e sviluppano un senso di insicurezza, che li può portare all’isolamento: escono meno di casa, stanno più tempo davanti alla televisione, instaurando un circolo vizioso che li porta ad una iperalimentazione reattiva.

Per quanto riguarda le conseguenze tardive, occorre sottolineare che l’obesità infantile rappresenta un fattore predittivo di obesità nell’età adulta (Sofo & Dipalma, 2013).

L’impatto dell’obesità e le conseguenti ripercussioni dirette sulla salute sottolineano, quindi, come sia prioritario e necessario contrastare tempestivamente tale fenomeno (Direzione generale della prevenzione sanitaria, 2010).

Verrà mostrata la situazione di bambini obesi o in sovrappeso e con tendenza all’obesità e, in particolare, la scelta di tecniche educative che possano prevenire una patologia per molti versi invalidante.

L’obesità non rientra nelle categorie diagnostiche del DSM-5.

 

Problemi alimentari nell’infanzia: il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo

Un cambiamento riscontrabile in questa nuova edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali è il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo che sostituisce ed estende la diagnosi DSM-IV di disturbo della nutrizione dell’infanzia.

La maggiore categoria diagnostica di questo disturbo, che può essere riscontrato anche negli adulti, è l’evitamento o la restrizione dell’assunzione di cibo per tre motivi principali:

  1. Apparente mancanza d’interesse per il mangiare o il cibo;
  2. Caratteristiche sensoriali del cibo;
  3. Preoccupazioni per le conseguenze avversive del mangiare (es. vomito e soffocamento)

L’evitamento o la restrizione producono un persistente fallimento nel soddisfare le necessità nutrizionali e/o energetiche appropriate determinando una o più delle seguenti 4 conseguenze:

  1. Perdita di peso significativa (o fallimento nel raggiungere l’aumento di peso atteso o inadeguata crescita nei bambini);
  2. Deficit nutrizionale significativo;
  3. Funzionamento dipendente dalla nutrizione parenterale (sondino nosogastrico) o da integratori nutrizionali orali;
  4. Marcata interferenza con il funzionamento psicosociale.

Non è presente la preoccupazione per il peso e la forma del corpo né deve manifestarsi durante il decorso dell’anoressia nervosa e della bulimia nervosa o in presenza di digiuni religiosi. Infine, il disturbo non è dovuto a una mancanza nella disponibilità di cibo o a un’altra malattia medica o mentale.

In caso di presenza di condizioni mediche particolari (disturbi gastrointestinali, allergie e intolleranze alimentari) o altri disturbi mentali, viene apposta la diagnosi di disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo solamente in presenza di un quadro clinico importante, non spiegato dalla stessa patologia.

Un recente studio inglese (Kurz et al., 2015) rivela che i problemi alimentari nell’infanzia di tipo restrittivo sono comunemente riportati nei più piccoli, con una prevalenza del 3,2% per il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo. In particolare, emerge che la restrizione alimentare è legata alle caratteristiche sensoriali del cibo (60,9%), ad apparente mancanza d’interesse per il mangiare o il cibo (39,1%) e, infine, a preoccupazioni per le conseguenze avversive del mangiare (15,2%).

Si affronterà, quindi, anche il problema della selettività per i cibi e verranno mostrati interventi basati su tecniche educative rivolte al rifiuto di cibo/liquidi e selettività.

 

ABA e Obesità infantile

Rispetto all’Obesità infantile nel regno Unito Horne & Lowe (2009) hanno promosso un’iniziativa per incoraggiare e mantenere sane abitudini alimentari nei bambini. Si tratta di un intervento progettato per essere utilizzato nelle scuole elementari, che spinge i bambini a mangiare frutta e verdura a scuola e a casa, li aiuta a sviluppare il piacere di mangiare frutta e verdura e li incoraggia a diventare orgogliosi di pensare a se stessi come individui sani, che mangiano cibi sani, cambia la ‘cultura’ delle scuole, affinché sostengano con forza il ‘mangiar sano’.

Il programma ha due fasi principali: durante la prima fase (di 16 giorni di durata) i bambini possono leggere una lettera e/o guardare un video appositamente progettato, che fornisce un ruolo influente come modello da imitare. Ai bambini viene, quindi, data una porzione di frutta e verdura e a chi mangia entrambi viene data una piccola ricompensa (ad esempio, palle da giocoliere, contapassi). Ciò incoraggia a ripetere il consumo, in modo tale che i bambini inizino ad apprezzare questi alimenti. Durante la seconda fase è presente un sostegno continuo, ma meno intenso: in aula sono utilizzati pannelli appesi al muro per registrare i livelli di consumo di frutta e verdura di ciascun bambino, il quale guadagnerà ulteriori premi e certificati (token economy). Tutte le valutazioni dimostrano aumenti notevoli e di lunga durata per quanto riguarda il consumo di frutta e verdura nei bambini dai 2 agli 11 anni di età. Gli aumenti maggiori nel consumo sono rappresentati da quei bambini che, all’inizio, mangiavano meno frutta e verdura.

Lo studio di Horne, Hardman, Lowe, Tapper, Le Noury, Madden et al. (2009) valuta l’efficacia dell’intervento, presentato in precedenza da Horne & Lowe (2009). Questo viene progettato per aumentare notevolmente il consumo di frutta e di verdura da parte dei bambini, in Irlanda, dove i pasti scolastici non sono forniti dalla scuola e i bambini devono portarsi il cibo da casa. I partecipanti sono bambini dai 4 agli 11 anni, che frequentano due scuole elementari; l’assegnazione delle scuole alla condizione sperimentale o di controllo viene fatta tramite randomizzazione.

Durante l’intervento di 16 giorni nella scuola ‘sperimentale’, i bambini guardano un video che racconta le avventure di un eroe, creato appositamente per il programma alimentare. I bambini ricevono piccoli premi a patto che mangino frutta e verdura. In entrambe le scuole, vengono valutati la presenza di frutta e verdura nel lunchbox (il contenitore per il pranzo), preparato dai genitori, ed il consumo di esse da parte dei bambini sia in baseline sia durante i 12 mesi di follow-up. Frutta e verdura vengono fornite dai genitori in entrambe le scuole 8 giorni su 16 nella baseline e 16 giorni su 16, durante l’intervento. Il consumo da parte dei bambini viene misurato.

I risultati mostrano che rispetto alla baseline, il consumo di frutta e verdura forniti, è aumentato durante l’intervento nella scuola sperimentale, mentre nella scuola di controllo si rileva un significativo calo. A 12 mesi di distanza (follow-up), i genitori della scuola sperimentale forniscono più frutta e verdura ai loro figli e, di conseguenza, i bambini ne consumano quantità notevolmente maggiori, rispetto alla baseline e all’inizio dell’intervento. Quindi, l’intervento si è dimostrato efficace nel cambiare la predisposizione al consumo di frutta e verdura sia nei genitori che nei bambini dell’Irlanda.

Horne, Hardman, Lowe & Rowlands (2009) presentano uno studio al fine di prevenire la tendenza all’obesità infantile e adolescenziale. Gli autori presentano, quindi, un trattamento per l’incremento dell’attività fisica dei bambini tramite procedure di modeling dei pari, rinforzi e un intervento che utilizza un contapassi. Lo studio è stato condotto in due scuole elementari in Galles. I partecipanti sono 47 bambini (21 maschi, 26 femmine), appartenenti alla scuola sperimentale e 53 bambini (29 maschi, 24 femmine) appartenenti alla scuola di controllo, tutti di età compresa tra i 9 e gli 11 anni e con sviluppo tipico. I bambini della scuola sperimentale hanno preso parte all’intervento: per oltre 8 giorni gli sono stati presentati modelli da imitare, tramite l’utilizzo di materiali audio e video, in seguito hanno ricevuto piccoli premi (rinforzi), quando il loro contapassi registrava un aumento quotidiano di 1500 passi rispetto alla loro baseline. Le misure del contapassi sono state prese direttamente dai bambini in entrambe le scuole sia in baseline, sia durante l’intervento, sia durante le 12 settimane di follow-up.

I risultati mostrano che tra le ragazze del gruppo sperimentale, il numero di passi al giorno è significativamente più elevato durante l’intervento e al follow-up, rispetto alla loro baseline e ai risultati delle ragazze del gruppo di controllo. I ragazzi del gruppo sperimentale hanno mostrato un numero significativamente più elevato di passi al giorno durante l’intervento, sia rispetto alla loro baseline, sia rispetto al gruppo di controllo dei ragazzi. Non ci sono differenze significative tra i livelli di attività del gruppo sperimentale e di controllo dei ragazzi al follow-up. L’intervento ha portato a un sostanziale incremento dell’attività fisica dei bambini, mantenuto, però, al follow-up solo dalle ragazze.

In uno studio classico (Epstein, Parker, McCoy & McGee, 1976), invece, vengono rilevate le percentuali di bocconi, di sorsi e di attività concorrenti di sei bambini di 7 anni, tre obesi e tre non obesi, osservati durante il pranzo, per un periodo di sei mesi. Viene applicata una procedura per diminuire il numero di bocconi, posando le posate tra un boccone e l’altro. Le percentuali di sorsi e attività concorrenti vengono osservate per valutare le covariazioni comportamentali. Inoltre, vengono calcolati il tasso di bocconi e la quantità di cibo completati in base a sei categorie di prodotti alimentari, al fine di analizzare le preferenze alimentari. I risultati indicano un maggior controllo del comportamento alimentare, una percentuale inferiore di bocconi ingeriti da tutti i soggetti e una significativa riduzione della quantità di cibo consumato. Differenze nel comportamento alimentare di soggetti obesi e non obesi vengono, invece, osservate nel consumo di latte e pane. Come si può notare, le procedure sono ben diverse da quelle utilizzate nei trattamenti precedentemente presentati, ma presentano, comunque, una buona validità.

 

ABA e Rifiuto o Selettività di cibo/liquidi

Il rinforzo negativo, in forma di evitamento del cibo, è stato ipotizzato essere un fattore primario al mantenimento di problemi alimentari nell’infanzia. Tuttavia, i trattamenti per i problemi alimentari nell’infanzia sono costituiti spesso da strategie integrate basate sia sul rinforzo positivo sia su quello negativo. Finney, Itawa, Riordan, Stanley & Wohl (1984) cercano di incrementare il consumo di alimenti non preferiti usando i cibi preferiti come rinforzo positivo nei bambini con selettività alimentare. Tuttavia, l’efficacia del rinforzo, in assenza di estinzione del comportamento di evitamento del cibo, è difficile da valutare, a causa dei comportamenti problematici legati all’evitamento.

Il rinforzo positivo e negativo sono stati esaminati come trattamenti per altri comportamenti problema mantenuti dall’evitamento. Per esempio, è stato mostrato che i livelli di compliance sono superiori e i livelli di comportamento – problema sono più bassi, quando la compliance fa sì che venga elargito cibo commestibile (rinforzo positivo), rispetto ad una pausa (rinforzo negativo), anche se il comportamento distruttivo continua a produrre evitamento. Questi risultati suggeriscono che, in assenza di estinzione dell’evitamento, i rinforzi positivi possono a volte essere più efficaci, rispetto ad un rinforzo negativo, soprattutto, quando la qualità del rinforzo positivo è relativamente alta.

L’obiettivo di uno studio presentato da Kelley, Piazza, Fisher & Oberdorff (2003) è quello di valutare gli effetti separati e combinati del rinforzo positivo e negativo sull’acquisizione del comportamento “bere liquidi da una tazza”, in assenza di estinzione dell’evitamento. Il partecipante è un bambino di 3 anni con sviluppo tipico, ammesso in precedenza ad un programma di trattamento diurno per il rifiuto del cibo e dipendenza dal biberon.

Al momento del ricovero, il bambino riceve il 100% del suo fabbisogno nutrizionale tramite il biberon e rifiuta tutti gli alimenti solidi (tra cui pesche e carote) e i liquidi dalla tazza. Il rifiuto del cibo da parte del bambino è stato trattato prima dell’inizio di questo studio tramite tecniche di fading, rinforzo non contingente ed estinzione dell’evitamento. Al momento dell’inizio dello studio, il bambino mangia tre pasti selezionati al giorno, costituiti da alimenti per l’infanzia. Lo scopo dell’analisi è quello di aumentare il consumo di liquidi da una tazza. Le frequenze di scelte e di consumo vengono registrate e convertite in percentuali di prove in cui il comportamento si è verificato. La “scelta” viene definita come l’atto del bambino di indicare una carta. Il “consumo” viene definito come il comportamento di accettazione di cibo o liquidi e di non espulsione, prima dell’inizio del processo successivo.

Vengono condotte da 6 a 12 sessioni, di 10 prove ciascuna, ogni sessione dura 5 minuti, per 5 giorni alla settimana. Lo studio consiste di una valutazione delle preferenze del bambino tra 15 prodotti alimentari, una seconda valutazione della preferenza (confrontando pesche, carote, e 30 secondi di pausa), un’analisi del trattamento. I risultati della prima valutazione indicano che le pesche e le carote sono i cibi preferiti e non preferiti, rispettivamente. Durante la prima fase della seconda valutazione, vengono presentate tre carte contemporaneamente (una raffigurante pesche, una raffigurante carote e una raffigurante la pausa) e si suggerisce al bambino di scegliere una carta. Durante la seconda fase, gli vengono presentate 2 carte contemporaneamente (carote e pausa) e gli viene chiesto di scegliere. Se il bambino sceglie un prodotto alimentare, quel cibo gli viene presentato su un cucchiaio a 2,5 centimetri dalla bocca e lo si tiene lì fino a quando non apre la bocca e accetta il boccone. Se il bambino sceglie la pausa, riceve 30 secondi di pausa dalle carte e dal cibo.

Vengono utilizzati i risultati delle valutazioni di preferenza per sviluppare un trattamento, per aumentare il comportamento di bere dalla tazza. Nella baseline, il terapeuta presenta 7,5 ml di liquido in una tazza e dà un prompt verbale (“Bevi”), in un tempo determinato di 30 secondi. Viene espresso apprezzamento, se il bambino accetta o consuma la bevanda. Non vengono, invece, date conseguenze differenti per l’espulsione, il vomito, o l’assenza di una risposta. Se il bambino fa un qualsiasi comportamento inappropriato, durante la presentazione, la tazza viene rimossa per 30 secondi, dopo di ché, viene avviato il processo successivo. La procedura di trattamento è identica alla baseline, ma con le seguenti aggiunte: durante la condizione di rinforzo positivo (Sr+), viene presentato un cucchiaio di pesche a seguito del consumo della bevanda; durante la condizione di rinforzo negativo (Sr-), viene dato un cucchiaio di carote, se il bambino mette in atto un comportamento inadeguato o non consuma la bevanda, entro 30 secondi dalla presentazione.

I risultati della prima valutazione delle preferenze dimostrano che le pesche vengono scelte e consumate nel 100% delle sperimentazioni, considerando che le carote vengono scelte di rado e raramente vengono consumate. I risultati della seconda valutazione delle preferenze mostrano che il bambino sceglie le pesche rispetto alle carote e alla pausa. Sulla base di questi risultati, si prevede che l’accettazione di pesche e l’evitamento di carote potrebbero funzionare come rinforzo positivo e negativo, rispettivamente. Il consumo di bevande (tre tipi diversi) durante la baseline è dello 0%, del 44,6%, del 12,5%, rispettivamente. Il consumo è vicino al 100% per tutti i tre tipi di bevande nelle condizioni di trattamento. Il comportamento “bere da una tazza” aumenta con il rinforzo positivo e negativo, presentati sia da soli che in combinazione (senza estinzione dell’evitamento).

Solberg, Hanley, Layer & Ingvarsson (2007) valutano gli effetti dell’associazione di procedure di rinforzo e fading sulla scelta di snack da parte di bambini in età prescolare, progettando un disegno con baseline multiple. Le scelte fatte per gli snack preferiti in baseline, vengono valutate mediante le preferenze date a voce. Poi, i rinforzi consumatori, sociali e orientati ad attività vengono esclusivamente associati alla scelta di uno snack meno preferito. Una volta associato ad un rinforzo, lo snack viene selezionato più frequentemente dai bambini e, progressivamente, i tre tipi di rinforzo vengono utilizzati sempre meno (fading). I genitori sono spesso chiamati a garantire che i loro figli consumino una sufficiente quantità e varietà di cibi per soddisfare le loro esigenze nutrizionali (per esempio, verdura e prodotti lattiero-caseari). I bambini che non assumono determinate classi di prodotti alimentari sono particolarmente a rischio per lo sviluppo di problemi da adulti. Per esempio, l’inadeguata assunzione di calcio è associata ad un aumento dell’insorgenza di osteoporosi, ipertensione, obesità. Tuttavia, sia i bambini che le bambine spesso non riescono a consumare adeguati livelli di calcio. Uno dei motivi principali per spiegare questi deficit può essere che solo il 75% dei bambini beve latte, fonte significativa di calcio nella dieta.

I diversi interventi basati sul rinforzo descritti nel trattamento dei gravi problemi alimentari nell’infanzia, possono essere applicabili ai problemi quotidiani più comuni vissuti dai genitori. Un tale trattamento comporta l’associazione di un alimento preferito con uno non preferito ed, in seguito, l’applicazione di una procedura di fading del cibo preferito. Per esempio, Mueller, Piazza, Patel, Kelley & Pruett (2004) trattano 2 bambini con selettività per alimenti, associando un alimento preferito con un alimento non preferito. Il rapporto tra cibo preferito/cibo non preferito viene poi progressivamente ridotto. Dopo questa procedura di fusione, i partecipanti accettano diversi alimenti inizialmente rifiutati.

Una procedura simile è stata utilizzata da Patel, Piazza, Kelly, Ochsner & Santana (2001) per aumentare l’apporto calorico di un bambino con un disturbo alimentare grave. Questa procedura si sviluppa mescolando e aumentando gradualmente la quantità di una bevanda non preferita con una maggiore quantità di un liquido preferito (acqua), e poi, a poco a poco applicando il fading per il liquido preferito.

Tiger & Hanley (2006), nel presente studio, replicano ed estendono ricerche effettuate in precedenza sul trattamento della selettività alimentare, tramite l’associazione di procedure di rinforzo e fading, al fine di aumentare il consumo di latte di un bambino in età prescolare. Durante la procedura di fading e rinforzo, mescolano una sostanza preferita (sciroppo di cioccolato) in un liquido non preferito (latte), poi gradualmente eliminano lo sciroppo di cioccolato. Questo intervento viene attuato dagli insegnanti di una classe prescolare durante i regolari pasti. Successivamente a questo intervento, il consumo di latte del bambino viene misurato a casa, dai genitori. Il partecipante è un bambino di 4 anni, che frequenta una scuola materna. I genitori hanno espresso preoccupazione, poiché il figlio ha rifiutato il latte per diversi mesi. Alla scuola materna, latte e altri cibi vengono serviti due volte al giorno durante la colazione e il pranzo. Durante i pasti ogni insegnante si siede ad un tavolo da 5-7 bambini. Quando vengono servite le bevande, l’insegnante riempie un’unica brocca di latte, e ogni bambino se ne versa una tazza, a sua volta.

Per diversi mesi prima di questo studio, il bambino si era versato il suo latte da una brocca separata (contenente latte di soia). Questa brocca viene utilizzata durante lo studio, per consentire precise misurazioni del consumo di latte ed applicare la procedura di rinforzo, in modo poco vistoso. La brocca in cui viene servito il latte del bambino è segnata in once. Pertanto, il consumo di latte è riportato in once, invece che in millilitri.

La procedura ha inizio con una baseline, durante la quale l’insegnante dà al bambino 4 once di latte in una piccola brocca durante il pasto. L’insegnante, quindi, richiede al bambino di versarsi il latte nella tazza e non dà istruzioni, né rinforzi sociali per bere o non bere latte. Prima di ogni pasto, l’insegnante misura il volume di latte nella brocca, che poi viene servita al bambino. Alla fine del pasto, il latte rimanente nella sua tazza viene rimesso dentro la brocca e la quantità di latte viene misurata di nuovo. La quantità di latte presente dopo il pasto viene sottratta alla quantità presente prima del pasto, per determinare la quantità consumata. Durante la procedura di trattamento, i pasti sono uguali alla baseline, tranne per il fatto che l’insegnante mescola 5 ml di sciroppo cioccolato al latte, prima di servire la brocca in classe. Viene usato lo sciroppo di cioccolato perché i genitori riferiscono che il bambino lo aveva già bevuto in passato con il latte. Prima della sessione iniziale di associazione, viene detto al bambino che potrà bere, se vorrà, il cioccolato nel latte.

Dopo circa 2 settimane di rinforzo, la quantità di sciroppo di cioccolato mescolato nel latte viene progressivamente diminuita di 0,2 ml ogni due pasti, tramite una procedura di fading. Al fine di garantire effetti prolungati oltre i pasti nella scuola materna, i genitori del bambino vengono invitati a svolgere lo stesso trattamento anche a casa. La misurazione del consumo di latte viene raccolta utilizzando le stesse procedure della scuola. I risultati della valutazione mostrano che durante i pasti in baseline, il bambino non ha consumato latte. Tuttavia, quando lo sciroppo di cioccolato viene aggiunto al latte, il bambino consuma l’intera quantità servita ad ogni pasto. Questi risultati sono di notevole importanza perché mostrano come una procedura svolta a scuola può essere riportata anche a casa ed, eventualmente, estesa anche all’ambito clinico.

 

Conclusioni

Si è voluto trattare questo argomento, poiché si crede che quella dei problemi alimentari nell’infanzia sia una questione delicata, da affrontare in maniera sempre più approfondita. Si è certi, anche e soprattutto supportati dalle evidenze scientifiche presentate, che l’ABA sia lo strumento adatto per fronteggiare tali problematiche. Le tecniche educative utilizzate in questi progetti hanno mostrato come si possono risolvere problemi alimentari nell’infanzia di grave e moderata entità con gli stessi principi.

Tramite l’analisi di queste ricerche, si è cercato di dare spunti per trattamenti futuri, da poter mettere in pratica a scuola, come in centri educativi, in ambito clinico, come in famiglia. Dai risultati ottenuti in questi interventi, si può notare come, con un buon training effettuato da esperti in materia, le tecniche presentate possano essere utilizzate anche dagli insegnanti a scuola e dai genitori a casa. Infatti, genitori ed insegnanti raggiungono esiti del tutto simili a quelli di psicologi esperti del settore. Si ritiene che questo sia molto importante in ambito educativo poiché genitori ed insegnanti sono maggiormente a contatto con i bambini ed hanno un impatto sociale ed emotivo positivo nei confronti dei bambini.

Si crede, infine, che siano ‘straordinari’ i risultati che si possono ottenere con principi semplici; semplici principi che, se ben utilizzati, possono cambiare la vita.

La terapia metacognitiva per persone con problemi di uso di alcol: uno studio sperimentale

Presso Studi Cognitivi verrà condotto uno studio sull’efficacia di una nuova psicoterapia per persone con problemi legati all’abuso di alcool

 

I problemi legati all’assunzione di alcool sono molto comuni tra la popolazione generale. Essi possono portare a gravi conseguenze psicologiche e fisiche (complicazioni mediche, relazionali, lavorative, giuridiche ecc..) e spesso richiedono un trattamento adeguato per ridurre tali conseguenze.

Negli ultimi anni è stata sviluppata una specifica forma di trattamento psicologico, la Terapia Metacognitiva (MCT) che si è dimostrata efficace nel trattamento di molti problemi psicologici (come i disturbi d’ansia, dell’umore ecc..). Recentemente, la Terapia Metacognitiva è stata pensata anche per le persone che hanno problemi legati all’assunzione di alcool. Presso la sede di Studi Cognitivi si svolgerà uno studio che mira a testare l’efficacia di questa terapia per persone che hanno un problema di abuso di alcool.

I partecipanti allo studio avranno la possibilità di effettuare gratuitamente una psicoterapia individuale della durata di 12 incontri.

Gli incontri si svolgeranno presso la sede di Studi Cognitivi di Milano con una cadenza settimanale ed avranno una durata di circa 1 ora.

 

Per partecipare allo studio sono richiesti i seguenti requisiti:

1)    Età superiore ai 18 anni

2)    Presenza di un uso problematico di alcool

3)    Assenza di abuso di altre sostanze negli ultimi 6 mesi (ad eccezione del tabacco)

4)    Assenza di altra psicoterapia in corso o trattamento farmacologico contro la dipendenza da alcool.

 

Chi fosse interessato a partecipare o a ricevere ulteriori informazioni può contattare il ricercatore che si occupa dello studio al seguente recapito:

Dr.ssa Francesca Martino: [email protected]

Dr.ssa Alice Mazza: [email protected]

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