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Le svolte del cognitivismo clinico – Editoriale

Nel mese di settembre il cognitivismo clinico ha fatto un po’ i conti con se stesso, la provata efficacia del modello cognitivo per alcuni disturbi è un successo che ormai comincia a avere i suoi anni e non può essere sempre presentato come l’ultimo grido.

Editoriale di Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero

 

Nel mese di settembre il cognitivismo clinico ha fatto un po’ i conti con se stesso, sia nella sede del congresso europeo organizzato dall’EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) che del congresso italiano promosso dalla SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva). La provata efficacia del modello cognitivo per alcuni disturbi è un successo che ormai comincia a avere i suoi anni e non può essere sempre presentato come l’ultimo grido. Dubbi emergono non certo sull’efficacia, ma su quale sia il reale meccanismo di funzionamento. Domanda cruciale, per capire come progredire.

 

Cognitivismo clinico: il meccanismo di funzionamento del modello cognitivo

Come si sa, la giustificazione teorica del funzionamento del modello cognitivo non è del tutto soddisfacente: esso ipotizza che la cura dipenda dall’esplorazione e dalla modificazione degli schemi e dei contenuti cognitivi ovvero da cosiddetti “first-order change” e la ricerca empirica non è riuscita a dimostrare conclusivamente che l’efficacia del modello cognitivo dipenda da questo tipo di modificazioni.

Sono mancate le evidenze definitive della relazione diretta tra rappresentazioni mentali della conoscenza di sé (self-knowledge e self-beliefs) e architettura dei processi disfunzionali emotivi e comportamentali (process architecture) (Mathews e Wells, 1999, p. 180).

All’EABCT però questa riflessione è stata nascosta dietro un tono celebrativo dei passati successi che lasciava perplessi. Più pensosi alla SITCC, in linea con l’atteggiamento critico degli italiani verso il modello standard, ma non più convincenti nel momento in cui occorreva dare delle risposte allo stallo. Entrambi i congressi sembravano intenzionati a reagire incrementando il livello di coinvolgimento esperienziale e corporeo, e in qualche modo neo-comportamentale, degli interventi cognitivi.

 

Cognitivismo clinico e approcci bottom-up

È il cosiddetto approccio bottom-up, che propone che la regolazione dei processi emotivi e cognitivi sia riattivata attraverso interventi di esposizione, o meglio di rieducazione esperienziale, come guided-imagery, role playing, esposizione esperienziale e interventi narrativi e cognitivi di ricostruzione del processo di apprendimento e di cronicizzazione delle distorsioni (biases) nel corso della storia evolutiva e personale del cliente e nell’evolversi delle relazioni con altri significativi. In questa area possono rientrare modelli anche molto disomogenei tra loro come la Schema Therapy (ST, Arntz e van Genderen, 2009; Young, Klosko e Weishaar, 2003) e la Metacognitive and Intepersonal Therapy (MIT, Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2015; Carcione, Nicolò e Semerari, 2016).

Questa svolta è indubbiamente interessante. Una perplessità, tuttavia, è che questa svolta esperienziale sia un’annessione superficiale, fatta in nome di una definizione di cognitivismo troppo elastica: in fondo ogni esperienza è anche uno stato mentale e quindi una cognizione. Il rischio è di fare male cose che forse altri orientamenti, come la Sensorimotor Psychotherapy (Odgen & Fisher, 2015) o l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing; Shapiro, 2001), sanno fare meglio. E poco importa se poi il cognitivismo clinico è più solido dal punto di vista teorico. L’esperienza (appunto) conta, e i concorrenti hanno iniziato prima di noi a impegnarsi nel campo degli interventi esperienziali e corporei.

 

Gli interventi Top Down

Inoltre l’insistenza sull’idea che l’intervento esperienziale, corporeo e –in alcuni casi- relazionale- preceda la regolazione emotiva esplicita e consapevole, che arriva solo in un secondo momento a fissare in routine cognitive le nuove abilità apprese, rischia di sottovalutare l’importanza degli interventi top down, che sono storicamente il punto di forza del cognitivismo clinico.

La terapia diventa un viaggio emotivo e un’esperienza relazionale in cui le nuove capacità regolative sboccerebbero sempre spontaneamente senza mai essere apprese esplicitamente, se non alla fine.

La fiducia nella capacità di padroneggiamento consapevole degli stati emotivi è scarsissima, tutto pare debba avvenire attraverso esperienze emotive correttive che non passano attraverso alcuna scelta e decisione volontaria. È conveniente seguire solo questo percorso e non nutrire più nessuna fiducia nelle capacità consapevoli (non razionali, ma consapevoli) del paziente? Colpisce anche che questa tendenza sia presente a livello europeo e non solo italiano.

 

La relazione tra esperienziale e cognitivo

Un’altra obiezione riguarda la separazione troppo netta tra esperienziale e cognitivo. In realtà ogni esperienza non è mai semplicemente sentita ed esperita ma anche elaborata a livello superiore e consapevole. I due livelli si intersecano costantemente. Forse in passato si è sottovalutata la componente esperienziale, per dare importanza solo alla riflessione consapevole. Oggi si corre il rischio opposto, finendo per ridurre la psicoterapia a un’esperienza guidata e a un incontro relazionale. L’informazione recepita per via esperienziale e relazionale deve poi trasformarsi in rappresentazione consapevole nella sede della coscienza per poi essere gestita in termini di scopi personali che non possono essere che espliciti, scelte di vita pensate e non solo sentite e su cui il soggetto ha riflettuto consapevolmente. Altrimenti l’intera vita individuale si riduce a una serie di risposte a stimoli esperienziali mai davvero decise ma sempre e solo subite.

Senza contare poi che l’intervento consapevole e riflessivo top down rimane la specializzazione più caratteristica del terapista cognitivo-comportamentale. È stato merito precipuo di questo orientamento terapeutico aver fatto riscoprire alla pratica clinica l’importanza del pensiero consapevole, precedentemente ridotto a un pallido riflesso di forze oscure e ingovernabili. La riflessione esplicita sui propri scopi, la capacità di riconoscere che un atteggiamento evitante corrisponde a una scelta di vita penalizzante e sterile non possono ridursi alla semplice esperienza. Senza contare che di esperienza il paziente comunque ne fa molta al di fuori della terapia. Sicuramente i pazienti traggono giovamento da una esposizione esperienziale che rende il tutto più “sentito”, ma ciò che cambia nella terapia è più l’osservazione consapevole delle esperienze che l’esperienza in sé.

 

SEGUI LA DISCUSSIONE:

Diagnosi differenziale tra disturbo dell’apprendimento non verbale e autismo ad alto funzionamento – Report dal Congresso Erickson

Il workshop si propone di fornire gli indici per una diagnosi differenziale fra il disturbo dell’apprendimento non verbale (NLD) e il disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento (HFA), una presentazione dei principali strumenti di valutazione e uno spunto di riflessione attraverso la presentazione di un caso clinico.

 

Workshop di Irene Cristina Mammarella e Ramona Cardillo (Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova)

Poiché non esistono criteri rigorosi e specifici per una diagnosi differenziale, i due disturbi vengono spesso confusi anche a causa degli elementi di comorbilità. Ramona Cardillo presenta una ricerca con l’obiettivo di definire quali siano i criteri diagnosticamente più rilevanti di entrambi i disturbi arrivando a definirne le specificità: i soggetti con disturbo di apprendimento non verbale presentano un alto deficit delle abilità visuospaziali, mentre i soggetti con autismo ad alto funzionamento mostrano un’attenzione ai dettagli che permette loro di ottenere delle cadute non significative nelle prove di tipo visuospaziale.

Vengono quindi presi in considerazione i test e prove utili per l’assessment e la diagnosi differenziale in modo da capire le diverse performance di un soggetto con disturbo dell’apprendimento non verbale e un soggetto con autismo ad alto funzionamento. Tra tutti quelli utilizzati nella ricerca, il test della Figura Complessa di Rey in cui la caduta del soggetto con disturbo dell’apprendimento non verbale è più significativa e il disegno di cubi della WISC-IV in cui in soggetto con autismo ad alto funzionamento ha una performance migliore, danno i risultati più esemplificativi delle specifiche caratteristiche dei due disturbi.

La presentazione del caso clinico permette alla platea di riflettere, alla luce della ricerca e dei dati riportati, sulla complessità della diagnosi differenziale fra il disturbo dell’apprendimento non verbale e il disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento.

Cosa motiva il comportamento prosociale nei narcisisti?

Le persone con elevati livelli di narcisismo hanno registrato alti tassi di partecipazione in situazioni prosociali formali e visibili al pubblico, anche se le motivazioni alla base di tali comportamenti sembrano essere legate a interessi personali, più che a spinte altruistiche o sociali.

 

Gli studi sul narcisismo si sono, spesso, concentrati sull’aggressività e su altri tratti di personalità percepiti come negativi in persone con tale patologia. Di recente, invece, un nuovo studio ha esaminato i fattori che si presume spingano i narcisisti a impegnarsi in comportamenti considerati pro-sociali in natura. Il comportamento pro-sociale può assumere molte forme, può essere il risultato di intenzioni altruistiche (“sacrificio”) o egoistiche e consente spesso di ottenere elogi se eseguito in ambienti pubblici. Per questo studio, pubblicato su Current Psychology, i ricercatori hanno condotto tre esperimenti per valutare la potenziale associazione di varie attività pro-sociali con il narcisismo.

Gli esperimenti

Il primo esperimento ha coinvolto 9062 soggetti adulti e riguardava l’iniziativa di beneficienza a favore della SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) nota come “Ice Bucket Challange”. Questo fenomeno dilagato su tutti i social-media richiedeva che una persona registrasse e pubblicasse un video di sé in cui si rovesciava in testa un secchiello pieno di ghiaccio oppure che donasse 100$ all’Associazione per la SLA. I soggetti coinvolti hanno indicato il loro livello di partecipazione all’evento (“non ne ho sentito parlare”, “ne ho sentito parlare, ma non ho partecipato”, “ho sfidato qualcuno”, “sono stato sfidato”, ecc..) e poi hanno completato il “Single Item Narcissism Scale”. Come previsto, le persone con un punteggio basso di narcisismo sono state quelle più propense a donare, senza completare la sfida del video, mentre quelli con punteggi più alti di narcisismo tendenzialmente hanno pubblicato il video, senza però fare alcuna donazione.

Il secondo esperimento ha incluso, invece, 289 studenti universitari che hanno completato un sondaggio online. In questo caso, il narcisismo è stato valutato più approfonditamente utilizzando il “16-item Narcissistic Personality Inventory” (NPI-16). I comportamenti pro-sociali oggetto di interesse sono stati il volontariato e il coinvolgimento all’interno della comunità di appartenenza (i cui livelli sono stati ottenuti tramite self-report). I partecipanti hanno inoltre completato la “23-item Prosocial Tendencies Scale” per determinare quale tra i diversi tipi di comportamento prosociale fossero più propensi a manifestare. I risultati hanno evidenziato che il narcisismo non è correlato con la percentuale di volontariato e coinvolgimento comunitario; inoltre, è emerso che i narcisisti hanno più probabilità di impegnarsi in comportamenti prosociali con visibilità pubblica e meno probabilità in forma anonima.

La terza ed ultima parte di questa inchiesta si è concentrata sul comportamento prosociale non formale, in contrasto con i comportamenti prosociali formali esplorati nel secondo esperimento. 800 adulti hanno completato una serie di questionari online e l’NPI-16. Sono state incluse anche misure per valutare l’empatia e la fonte di motivazione comportamentale. I punteggi più alti di narcisismo sono risultati associati a segnalazioni di comportamenti prosociali più frequenti; sono risultati invece meno associati alle motivazioni altruistiche/desiderabilità sociale e all’ empatia.

Conclusioni

Nel loro insieme, i risultati di questi esperimenti dimostrano che il narcisismo può avere un effetto significativo sul comportamento prosociale, ma che non rende meno probabile la possibilità che si verifichi. Le persone con elevati livelli di narcisismo effettivamente hanno registrato alti tassi di partecipazione in situazioni prosociali formali e visibili al pubblico, anche se le motivazioni alla base di tali comportamenti sembrano essere legate a interessi personali, più che a spinte altruistiche o sociali.

Giudizio morale e autismo: come gli autistici valutano i casi morali

Sembrerebbe che gli individui con autismo incontrino delle difficoltà nell’integrare l’informazione relativa agli stati mentali (ad es. le intenzioni) nel processo di valutazione morale. L’informazione a cui, invece, si appoggerebbero sarebbe quella relativa alle conseguenze prodotte dall’azione di chi è sotto giudizio e quella relativa alla reazione emotiva della vittima (ad esempio, se quest’ultima piange o meno).

 

 

Autismo e moralità

Sull’autismo sappiamo ormai molto, anche se non a sufficienza. Il disturbo è ben noto anche al pubblico generale. Sappiamo che si tratta di un disturbo del neurosviluppo, caratterizzato da un’incapacità di relazionarsi con gli altri, dovuta, in parte, a problemi nella comunicazione e nella comprensione di cosa possa passare nella mente altrui. Film come l’Uomo della pioggia, con l’ottimo Dustin Hoffman, hanno aiutato ad aumentare la consapevolezza su questo problema.

Nella vita sociale di tutti, gioca un ruolo importante riuscire a interpretare in maniera appropriata il comportamento altrui. Ad esempio, è cruciale riuscire a spiegare il comportamento attribuendo a chi agisce credenze, opinioni, preferenze, rappresentazioni sul mondo e così via. Quest’abilità si rivela utile e necessaria anche nel momento in cui ci troviamo impegnati nel giudizio sulla moralità di un’azione o di un individuo.

Due ricercatori afferenti al Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento (Francesco Margoni e Luca Surian), si sono chiesti se e in che modo gli individui con autismo integrino l’informazione relativa agli stati mentali altrui nel loro giudizio morale. Ne è nato un articolo di opinione per la rivista open access Frontiers in Psychology, dal titolo “Mental state understanding and moral judgment in children with Autistic Spectrum Disorder.”

 

Come gli autistici giudicano i casi morali semplici e complessi

Dalla letteratura scientifica passata in rassegna, sembrerebbe emergere un quadro chiaro, anche se in futuro saranno necessarie ulteriori e specifiche indagini empiriche per consolidare il quadro emerso. Sembrerebbe che gli individui con autismo incontrino delle difficoltà nell’integrare l’informazione relativa agli stati mentali (ad es. le intenzioni) nel processo di valutazione morale. L’informazione a cui, invece, si appoggerebbero sarebbe quella relativa alle conseguenze prodotte dall’azione di chi è sotto giudizio e quella relativa alla reazione emotiva della vittima (ad esempio, se quest’ultima piange o meno). Pertanto, fattori extra-morali influirebbero sul giudizio morale degli individui con autismo con maggiore peso rispetto a fattori come l’intenzione, generalmente centrali nella valutazione propria degli individui con sviluppo tipico.

Quando l’individuo con autismo deve valutare, per fare un esempio, un caso morale più semplice, come il caso di qualcuno che picchia la moglie avendone avuto l’intenzione, allora egli giungerà allo stesso verdetto di un individuo con sviluppo tipico. Entrambi condanneranno il marito violento. Tuttavia, l’individuo con sviluppo tipico condannerà l’atto ma anche l’intenzione, mentre l’individuo con autismo sarà portato a condannare per lo più le conseguenze.

Diversamente, in casi più complessi, dove, ad esempio, il marito avesse provocato accidentalmente un danno alla moglie, il giudizio dell’individuo con autismo si discosterebbe da quello di un individuo con sviluppo tipico. Infatti, in questo caso, il giudizio morale dell’individuo con autismo sarebbe più severo rispetto a quello dell’individuo con sviluppo tipico, proprio perché basato su un esame delle conseguenze e non delle intenzioni.

In conclusione, diversi lavori scientifici stanno confermando l’ipotesi che vi siano differenze importanti nel giudizio morale degli individui con autismo. Queste differenze potranno e dovranno essere prese in considerazione nel trattamento e nella cura di questo disturbo, a cui, per fortuna, è posta sempre maggiore attenzione da parte dei clinici e della popolazione generale.

Mindfulness: il problema della comprensione del processo di consapevolezza

Quando si parla di “consapevolezza” nell’ambito della meditazione, stiamo parlando di uno stato mentale vigile, grazie al quale è possibile osservare lo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento, essendone testimoni primordiali, che osservano quindi la natura essenziale di qualunque percezione interna od esterna a se stessi e la lasciano scorrere così com’è, senza respingere o pretendere di modificare alcunché.

Introduzione

Oramai diffuso, in riferimento alla mindfulness, il termine “consapevolezza”. Esso è la traduzione in italiano della parola inglese “mindfulness”, a sua volta traduzione in inglese del termine pali “sati”.

È importante sapere però che la parola “consapevolezza”, nella nostra lingua, può creare una serie di connessioni di significato che ci possono allontanare, più che avvicinare a quello che in questo contesto intende descrivere, creando dunque più confusione che comprensione, al lettore inesperto che si avvicina alla meditazione. Anche in inglese ormai la parola è entrata in uso e quindi si parla tranquillamente di mindfulness (come in Italia di consapevolezza) ma è utile capire che essa in realtà non esiste come oggetto, ma è uno stato mentale, un’attitudine della mente che nasce dal porgere l’attenzione in un certo modo alla propria esperienza sensoriale.

In questo si spiega in modo abbastanza esaustivo la definizione di Jon Kabat-Zinn (2003), ideatore del programma per la riduzione dello stress basato sulla mindfulness (MBSR): [blockquote style=”1″]la consapevolezza che emerge dal prestare attenzione di proposito, nel momento presente e in maniera non giudicante, allo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento.[/blockquote]

Si tratta dunque di una dimensione esperienziale, scaturita da una pratica personale compiuta con un certo tipo di attenzione, che favorisce lo sviluppo di questa attitudine chiamata mindfulness/consapevolezza. Ma anche così come vedete, non è facile comprendere fino in fondo cosa si intende per mindfulness/consapevolezza.

 

In cosa consiste davvero la mindfulness

Questo articolo vuole dunque essere un tentativo di chiarimento a riguardo, con lo scopo di avvicinare, chi fosse interessato, in modo più completo a quella che è davvero la mindfulness.

Andiamo dunque un po’ per ordine e torniamo al principio; alla parola “sati”. Essa, come ricorda Gunaratana (1995), non è descrivibile in parole, in quanto le parole vengono prodotte dai livelli simbolici della mente e descrivono la realtà con cui ha a che fare il pensiero simbolico. Sati è presimbolica, non è logica, ma ne si può fare alquanto facilmente esperienza. Essa è un processo sottile che noi tutti utilizziamo quotidianamente, quando osserviamo qualcosa, in quell’istante prima che colleghiamo quel qualcosa ad un contenuto simbolico nella nostra mente. Quando i nostri occhi inquadrano ad esempio un fiore, prima che la nostra mente, grazie alla memoria semantica, colleghi al concetto di fiore l’immagine arrivata al cervello tramite i nervi ottici; quando ancora cioè, in una frazione di secondo analizziamo le caratteristiche essenziali dell’oggetto osservato, per collegarle tutte e tradurle in un concetto. Ecco, lo stato mentale che accompagna il momento dell’analisi di quelle caratteristiche, può essere detto sati. È questo dunque, in parte, ciò che si intende quando si dice mindfulness o consapevolezza, parlando di meditazione, non solo quello che ci richiama il significato specifico del termine, ma tutto questo, e non solo.

In effetti la consapevolezza, in questo senso, è molto presente quando si osserva qualcosa per la prima volta; infatti lo stesso Jon Kabat-Zinn (2013) mette tra gli atteggiamenti fondamentali per una buona pratica del suo programma “La mente del principiante”; che consiste proprio nel prestare attenzione alle varie esperienze sensoriali in analisi, come se fossero percepite per la prima volta, e dunque osservare tutto senza giudizio. Altro elemento fondamentale infatti per l’autore è proprio il “Non-giudizio”. Quindi il fulcro della pratica meditativa diviene proprio questa osservazione primordiale e senza giudizio. Gunaratana (1995) ci tiene molto però a spiegare bene questo non-giudizio, prendendo l’esempio di uno scienziato che osserva un oggetto sotto il microscopio, senza preconcetti, solo per vedere l’oggetto così com’è. In effetti una volta riusciti in questo nella pratica, saremo molto vicini al passo più importante di tutti in meditazione, e dunque a “Lasciar Andare” (altro atteggiamento essenziale per Kabat-Zinn) ogni sensazione che percepiamo, brutta o cattiva, senza respingerla, ma lasciandola scorrere per osservarla così com’è. Per fare questo però dobbiamo prima accettare di avere quella sensazione, e quindi di essere ad esempio impauriti, tristi, arrabbiati, ecc. Come dice Gunaratana (1995) infatti, non possiamo osservare la nostra paura se non accettiamo di essere impauriti. Ecco perché l”Accettazione” rientra anch’essa tra le attitudini basilari da sostenere per la pratica prescritta da Kabat-Zinn (2013).

Quando si parla di “consapevolezza” nell’ambito della meditazione, ci si riferisce a tutto questo; stiamo parlando cioè di uno stato mentale vigile, grazie al quale è possibile osservare lo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento, essendone testimoni primordiali, che osservano quindi la natura essenziale di qualunque percezione interna od esterna a se stessi e la lasciano scorrere così com’è, senza respingere o pretendere di modificare alcunché.

A questo livello di indagine, come osserva Gunaratana (1995), è possibile vedere che tutto è transitorio, nulla è immutevole o permanente; perché si tratta in effetti solo di processi. E la novità è che va benissimo così. Giunti a questa conoscenza esperienziale infatti cominciano a svanire tante contaminazioni, lasciando il posto a stati mentali più salutari. Questo tipo di pratica certo può essere semplice, ma non necessariamente facile. Come osserva Jon Kabat-Zinn (2014) essa comporta autoindagine, la messa in discussione del nostro abituale modo di vedere il mondo e noi stessi, ma ci permette anche di risvegliarsi dal sonno degli automatismi, ponendoci in condizioni di vivere la vita godendo pienamente di tutte le nostre potenzialità, per apprezzare ciascun momento della nostra esistenza.

 

Conclusioni

In conclusione, proprio perché parliamo di uno stato mentale pre-simbolico, credo che per comprendere davvero il termine che gli viene assegnato per descriverlo, bisogna fare pratica di meditazione, averne esperienza, e infine leggerne. In effetti è possibile comprendere davvero il senso della parola sati, consapevolezza, o mindfulness che sia, quando la si sperimentata personalmente nella pratica. A quel punto la parola stessa ed ogni sua spiegazione non occorrerà più; essa si spiegherà da sola. Ho cercato di fare infatti in questo articolo un sunto delle sue caratteristiche, ma l’unica via per arrivare davvero a comprenderne il significato resta la pratica.

Sclerosi laterale amiotrofica: le dimensioni psicologiche

La Sclerosi laterale amiotrofica SLA, come qualsiasi altra malattia, è un evento critico che non colpisce solo chi ne porta i segni sul proprio corpo, ma tutta la famiglia che si trova costretta a fronteggiare il disagio personale, relazionale e organizzativo che da essa deriva (Cigoli, Mariotti, 2002). La malattia impone all’intera famiglia una riorganizzazione e un riadattamento concreti e simbolici, a seguito dei cambiamenti pratici, affettivi ed esistenziali che la malattia porta con sé.

Giulia Meloni, Naomi Aceto, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Le caratteristiche della SLA

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce il concetto di salute come [blockquote style=”1″]uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non meramente l’assenza di malattia o infermità [/blockquote](OMS, 1948). Tale definizione porta a riflettere sul fatto che esiste un’inscindibile unità tra la componente fisica e quella psichica della persona. Di fronte alla malattia diventa di primaria importanza tenere conto che questo binomio diventa ancora più evidente e richiede, da parte dell’ambito sanitario, un approccio globale al paziente.

Ciò è particolarmente vero e importante nella gestione di una patologia degenerativa e progressiva come la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA). La SLA, infatti, porta il soggetto malato ad uno stato di inevitabile dipendenza dagli altri e ad una conseguente perdita di autonomia personale, obbligando il soggetto a frequenti ricoveri ospedalieri proprio a causa delle diverse e devastanti complicanze fisiche che comporta.
In tale condizione risulta di fondamentale importanza porre grande attenzione alla componente soggettiva del paziente, soprattutto per via del fatto che ad oggi non esiste un trattamento specifico per la malattia, creando in questo modo le condizioni per una visione più ampia dell’assistenza alla persona malata. Non poter “guarire”, infatti, non è certo sinonimo di non poter “curare”.

Le malattie del motoneurone sono tutte quelle malattie che colpiscono i neuroni cosiddetti “motori” (Swash, Desai, 2000). L’espressione “malattie del motoneurone” in Europa viene usata per far riferimento ai disturbi neurodegenerativi progressivi che possono avere diversa eziologia ed una notevole variabilità clinica, ma un evento finale comune: la perdita dei neuroni motori sia superiori che inferiori (Oliveira, Pereira, 2009).

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) è la forma più comune di malattia progressiva del motoneurone e rappresenta un esempio paradigmatico di malattia neurodegenerativa. La SLA può essere considerata la più devastante di tali patologie (Harrison, 2005).

La SLA è caratterizzata dalla morte selettiva dei neuroni motori nel Sistema Nervoso Centrale (SNC), ovvero delle cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che portano le informazioni dal cervello ai muscoli, deputate pertanto ai movimenti della muscolatura volontaria.
Questa malattia fu identificata e descritta per la prima volta nel 1860 da Jean Martin Charcot, famoso neurologo francese, ed è per tale motivo che viene anche chiamata “malattia di Charcot”. Mentre in Australia o in Inghilterra ci si riferisce a questa malattia con “malattia dei motoneuroni”, in America la SLA è anche conosciuta come morbo di Lou Gehrig, famoso giocatore di baseball statunitense che si ammalò di SLA a soli trentasei anni nel 1939 (Zeller, Lynm, Glass, 2007).

 

Le dimensioni psicologiche della SLA e il coinvolgimento della famiglia

La SLA, come qualsiasi altra malattia, è un evento critico che non colpisce solo chi ne porta i segni sul proprio corpo, ma tutta la famiglia che si trova costretta a fronteggiare il disagio personale, relazionale e organizzativo che da essa deriva (Cigoli, Mariotti, 2002). La malattia impone all’intera famiglia una riorganizzazione e un riadattamento concreti e simbolici, a seguito dei cambiamenti pratici, affettivi ed esistenziali che la malattia porta con sé.

In un momento critico come quello rappresentato dall’insorgenza di una patologia, infatti, è necessario soffermarsi sul processo con cui la famiglia, in situazioni di difficoltà, resiste a un evento negativo e mantiene il proprio senso di padronanza, attivando adeguate strategie di coping. Tale processo prende il none di “resilienza” e costituisce un punto centrale in questo ambito.

Il termine resilienza, che deriva dal latino “resalio” (saltare, rimbalzare) è stato coniato in fisica dei materiali per indicare “la resistenza a una rottura dinamica determinabile con una prova d’urto” (Devoto, Oli, 1971). Nella letteratura psicologica il sostantivo indica la capacità umana di affrontare, superare e uscire rinforzati da esperienze negative (Grotberg, 1995).

Per accettare e superare una sfida dolorosa e impegnativa come quella di una malattia, sono inoltre certamente importanti fattori come la flessibilità, il senso di coerenza interno alla famiglia e la capacità di utilizzare le risorse sociali ed economiche disponibili, oltre che i processi comunicativi che devono essere chiari e consentire la condivisione delle emozioni. (Walsh, 2002). La comunicazione rappresenta, infatti, una componente fondamentale nella relazione con l’altro e il modo con cui viene affrontata la malattia dipenderà anche dalla modalità di comunicazione preesistente nella famiglia. Le difficoltà e i problemi connessi alla gestione della malattia che vengono sperimentati dalla famiglia prendono il nome di “family burden”. (Saita, 2009). Le difficoltà che possono portare a tale condizione comprendono i bisogni di assistenza continua, l’interruzione della normale routine familiare e l’improvviso cambio di ruoli all’interno del sistema-famiglia, le preoccupazioni finanziarie relative alle spese mediche e lo sconvolgimento emotivo attivato dalla malattia (Sales, 2002).

Il family burden può essere dunque definito come l’attivazione di tutte le risorse personali, familiari e sociali possibili al fine di garantire al malato un miglior adattamento alla difficile situazione esistenziale ed è costituito da tutte quelle difficoltà e sfide che sono una diretta conseguenza della malattia (Grunfeld, 2004; Sales, 2002).

 

La dimensione sessuale

La sessualità nei pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica sino ad ora ha ricevuto scarsa attenzione (Bardach, 1995; Oliver, 2000). Dal momento che la SLA colpisce soltanto il sistema motorio, la funzione sessuale non è direttamente interessata nella progressione della malattia (Shaw, 2000). Nonostante ciò, nell’ambito della sclerosi laterale amiotrofica i problemi che possono condurre ad un’ inibizione dell’attività sessuale sono molteplici (M. Wasner et al., 2004).

Con la malattia, infatti, si assiste ad un progressivo cambiamento del corpo, il quale può condurre il paziente ad una certa difficoltà a mostrare il proprio corpo per paura di non riuscire più a soddisfare il proprio partner o per la paura di un rifiuto (M. Wasner et al., 2004).
Quello che viene segnalato come il limite principale ad una soddisfacente attività sessuale, tuttavia, è costituito dalla progressiva debolezza fisica, associata alla perdita di forza muscolare (Wasner et al., 2004). Non dobbiamo dimenticare, inoltre, l’area respiratoria: la limitata funzionalità polmonare, infatti, può rendere la possibilità di un rapporto sessuale difficile se non, in alcuni casi, addirittura impossibile (Bardach, 1995).
Nei pazienti che si trovano ad uno stadio avanzato della malattia l’uso della ventilazione o della PEG può sicuramente interferire con l’attività sessuale (Wasner et al. 2004).

Associati a tali limiti fisici, entrano in gioco anche numerosi fattori psicologici, connessi prevalentemente al cambiamento del corpo del malato, i quali possono costituire dei grandi ostacoli nella gestione della sfera sessuale del paziente. Con la progressione della malattia, infatti, si modifica anche la percezione che il paziente ha di sé, non solo per via dei cambiamenti a livello funzionale, ma anche per il loro impatto, il quale è tipicamente soggettivo e varia da paziente a paziente. A ciò dobbiamo aggiungere che ogni singolo cambiamento che il malato esperisce a livello sensitivo sul proprio corpo, può anche essere osservato (visibilità) e frequentemente accade che il paziente da un deficit ne inferisca un altro (diffusione) (Carlson, 1980). Nonostante ciò, dallo studio di Wasner e colleghi del 2004 emerge che la sessualità rappresenta un’area molto importante nell’ambito della sclerosi laterale amiotrofica. In questo studio, infatti, su un totale di sessantadue pazienti partecipanti alla ricerca, quasi il 50% di essi risulta ancora essere altamente interessato alla sfera sessuale, sessualmente attivo nonostante le limitazioni fisiche e soddisfatto dei propri rapporti, anche se in maniera inferiore rispetto a prima che si sviluppasse la malattia. Inoltre su sei pazienti che hanno fatto ricorso alla ventilazione, cinque hanno dichiarato di avere rapporti sessuali almeno una volta al mese, il che dimostra un’importanza della sfera sessuale alta persino nei pazienti che ricorrono a ventilazione (Kaub-Wittemer et al. 2003).

Risulta estremamente interessante constatare che circa la metà degli intervistati dello studio di Wasner e colleghi del 2004 ha riportato, con la SLA, un miglioramento del rapporto globale con il proprio partner e in alcuni casi addirittura anche un miglioramento dal punto di vista sessuale. Risulta fondamentale focalizzarsi ora sulle conseguenza che lo sviluppo di una patologia come la SLA può avere da un punto di vista sessuale nel caregiver: in quest’area, infatti, il ruolo del caregiver diviene imprescindibile.

Nella SLA, a causa del crescente bisogno di cure fisiche del paziente, il rapporto sessuale potrebbe cambiare drammaticamente con il passaggio del partner dal ruolo di amante a quello di caregiver (M. Wasner et al. 2004). Associato a questo dato dobbiamo anche considerare che la SLA colpisce prevalentemente la popolazione più anziana e dunque la relazione sessuale può risultare influenzata anche dall’età (M. Wasner et al. 2004). Inoltre, lo sviluppo di una patologia progressiva e degenerativa come la SLA implica un notevole aumento del carico assistenziale del caregiver, il caregiver burden, il quale correla positivamente con la depressione nei caregivers stessi (Chiò et al. 2005). La depressione può influenzare negativamente il comportamento sessuale: la diminuzione della libido, infatti, può costituire uno dei primi sintomi della depressione (Arshag et al. 1991).

I risultati ottenuti nello studio condotto da Wasner e colleghi nel 2004 suggeriscono che la sessualità riveste un ruolo importante per i malati affetti da SLA e che tale sfera, fino ad oggi, è stata sottovalutata (Wasner et al., 2004). Indagare la relazione sessuale nell’ambito di una malattia come la sclerosi laterale amiotrofica appare un’impresa complessa per due fondamentali motivi, che è necessario prendere in considerazione: il primo riguarda la natura intima di tale area, che risulta difficile da affrontare non solo dai pazienti e dai caregivers ma anche dagli operatori sanitari; il secondo motivo riguarda la paura che tale tematica possa essere percepita dal malato e dal suo caregiver come insignificante rispetto alla gravità della patologia in questione (Oliveira, Pereira, 2009).

Nello studio condotto da Wasner e colleghi nel 2004, infatti, ventinove pazienti hanno rifiutato di partecipare alla ricerca. Il 38% di loro ha giustificato la propria scelta definendo l’argomento “non importante” e la restante parte dei non partecipanti ha giustificato la propria decisione dichiarando “inconveniente” la dimensione indagata.
Data l’alta prevalenza di problemi sessuali nell’ambito della SLA e la naturale riluttanza dei pazienti e dei caregivers nel trattare questa tematica, la dimensione della sessualità dovrebbe essere affrontata dagli operatori sanitari come parte integrante della cura del paziente, offrendo anche una consulenza appropriata nei casi in cui vi sia la necessità (M. Wasner et al. 2004).
È necessario comunque sottolineare che, data la scarsa letteratura disponibile su questo argomento, sono necessari ulteriori studi per delineare gli interventi più appropriati che possano aumentare la soddisfazione dei malati di SLA e dei loro partners per quanto riguarda un aspetto così importante all’interno della coppia (M. Wasner et al. 2004).

Autismo: Intervento educativo all’asilo nido e alla scuola dell’infanzia – Report dal Congresso Erickson

L’aumento epidemiologico dei casi di autismo nel mondo e la riduzione dell’età media della diagnosi impongono una maggior attenzione all’asilo nido e alla scuola materna come possibili contesti in cui implementare pratiche educative e modelli di intervento efficaci.

 

Workshop: Intervento educativo all’asilo nido e alla scuola dell’infanzia

Relatori: Giacomo Vivanti (A. J. Drexel Autism Institute, Philadelphia), Simone Antonioli (Direttore tecnico Fondazione Fobap onlus a marchio Anffas), Arianna Bentenuto (ODFLab-Laboratorio di Osservazione Diagnosi e Formazione, Università di Trento), Caterina Fruet (Ufficio Infanzia, Servizio Infanzia e istruzione del Primo Grado, Dipartimento della Conoscenza, Trento) e Filippo Gitti (Neuropsichiatra infantile UO di NPIA Ospedali Civili di Brescia)

Lo scopo di questo workshop è proprio quello di offrire alcuni esempi di applicazione di alcuni modelli di trattamento per l’autismo sul territorio internazionale e nazionale.

Intervento educativo all’asilo nido e alla scuola dell’infanzia - Autismi Erickson 2016

Giacomo Vivanti ci illustra la ricerca condotta a Melbourne per verificare la possibilità di implementare l’Early Start Denver Model, un intervento di tipo cognitivo-comportamentale su base naturalistica, nel contesto della scuola pubblica in bambini di età compresa tra i 12 mesi e i 5 anni. Non essendo economicamente sostenibile un rapporto educativo di un adulto per ogni bambino, ed essendo il piccolo gruppo un contesto tipico di apprendimento in questa fascia d’età, il modello è stato adattato per essere svolto in gruppetti, sotto la guida di personale scolastico formato all’utilizzo dell’ ESDM.

L’ambiente fisico delle classi è stato strutturato per invogliare i bambini all’apprendimento e per facilitare il raggiungimento degli obiettivi prefissati per ognuno di loro in maniera specifica. Gli insegnanti non sono mai dei semplici osservatori ma stanno sempre insegnando qualcosa di misurabile e lo fanno avendo sempre chiari gli obiettivi di apprendimento scrupolosamente  delineati per ogni bambino. I risultati sono stati incoraggianti, a sottolineare la possibilità che la scuola possa stimolare il percorso di crescita di tutti i bambini, anche quelli con bisogni speciali.

Torniamo in Italia con il contributo di Simone Antonioli che ci spiega il Progetto Piccolissimi rivolto a 6 bambini di età inferiore ai 31 mesi che ha l’ambizione di offrire al bambino un trattamento condiviso da tutte le principali figure che si relazionano con lui. Per questa ragione, oltre al trattamento diretto e intensivo rivolto al bambino secondo il modello ABA (Applied Behavior Analysis), diverse ore a settimana sono state dedicate al parent training e alla programmazione di attività da svolgere a scuola.

Arianna Bentenuto e Caterina Fruet ci descrivono un progetto che ha coinvolto una scuola di Trento, per un totale di 5 sezioni e 116 bambini. In questo caso l’intervento è stato indirizzato soprattutto al contesto di apprendimento attraverso la promozione di attività differenziate, l’adattamento dei tempi di lavoro, la destrutturazione delle routine, la promozione di lavori nel piccolo gruppo e la ricerca di spazi flessibili. Anche i contenuti della didattica sono stati ripensati per essere sintonici, costruttivi e attivi; per questa ragione sono state promosse attività laboratoriali  in aggiunta a due piccoli gruppi di potenziamento destinati a quei bambini che mostravano particolari carenze in alcune aree di sviluppo.

Queste due esperienze italiane dimostrano l’esistenza di progetti locali ben realizzati, seppur perfettibili, da cui prendere spunto per iniziare a diffondere l’idea di una scuola capace di farsi carico di progetti educativi di ottima qualità.

Le credenze sulla nicotina influiscono sul livello di soddisfazione dei fumatori

Un nuovo studio condotto presso il Center for Brain Health dell’Università del Texas (Dallas), mostra come il modo in cui il cervello risponde all’assunzione di nicotina, dipenda almeno in parte dalle credenze che il fumatore ha a proposito della sigaretta stessa.

I risultati dell’indagine sono stati pubblicati sulla rivista Frontiers in Psychiatry e hanno rivelato che fumare una normale sigaretta, credendo che non sia presente nicotina, viene percepito come meno soddisfacente rispetto al fumare una sigaretta credendo che sia presente. Dunque per soddisfare il loro desiderio di nicotina, i fumatori hanno non solo bisogno di fumarla, ma di credere di assumerla fumando.

[blockquote style=”1″]Questi risultati suggeriscono che i farmaci contro la dipendenza da nicotina per avere effetto sulla persona, devono anche soddisfare l’idea che la sostanza sia presente[/blockquote] dice il Dottor Xiaosi Gu, professore presso la scuola di Behavioral and Brain Sciences e principale autore dello studio.

Lo studio

Nello specifico, i ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI), per monitorare l’attività neurale nella corteccia dell’insula, una regione del cervello coinvolta nei comportamenti di dipendenza e di craving. Questa regione riveste anche un ruolo importante per altre funzioni, come la percezione corporea e la consapevolezza di sé.

Lo studio condotto in doppio cieco, ha visto la partecipazione di 24 fumatori dipendenti dalla nicotina. Nel corso di quattro visite, ai pazienti è stata fatta fumare per due volte una sigaretta normale contenente nicotina, e due volte si è dato loro del placebo. Ai partecipanti venivano fornite informazioni talvolta vere, talvolta false a proposito di ciò che stavano fumando (presenza di nicotina o meno).

[blockquote style=”1″]Abbiamo così esaminato l’impatto delle credenze. Sulla sensazione di soddisfazione esperita, e anche analizzando i dati provenienti dal neuroimaging[/blockquote] sottolinea Gu.

Sottoposti a scansione mediante fMRI, in ogni visita i partecipanti fumavano una sigaretta, nelle seguenti quattro condizioni sperimentali: il partecipante ritiene che la sigaretta contenga nicotina, ma riceve placebo; il partecipante ritiene che la sigaretta non contiene nicotina, mentre essa ne contiene; il partecipante ritiene che contenga nicotina e la sigaretta ne contiene oppure il partecipante ritiene che la sigaretta non contenga nicotina e riceve del placebo.

I risultati

Dai risultati provenienti dalla fMRI, si è potuto notare come il fumare una sigaretta, credendo che fosse senza nicotina, produca a livello neurale un’attivazione minore delle aree coinvolte nelle sensazioni di soddisfazione e appagamento.

Questo nuovo studio risulta essere molto importante nella strutturazione di nuovi programmi di trattamento per le tossicodipendenze, rivendicando la necessità di soffermarsi maggiormente sul ruolo delle credenze per aumentare le possibilità di successo.

Poso, dunque sono: il narcisismo negli autoritratti di Rembrandt

Nel corso della storia molti sono stati gli artisti che si sono confrontati con se stessi, mettendosi in gioco attraverso l’elaborazione di autoritratti, tra cui, appunto, Rembrandt. Fin dall’inizio della sua carriera il pittore olandese fu un ritrattista molto ricercato; la lunga serie degli autoritratti, parallela a quella altrettanto numerosa dei ritratti dei familiari, documenta le fasi della tormentata vicenda biografica dell’artista e l’evolversi della sua vita interiore.

Introduzione

Se Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606-1669), il pittore olandese celebre per i suoi ritratti, fosse vissuto nel XXI secolo, avrebbe probabilmente avuto un’ossessione per i selfies ed avrebbe pensato: “Poso, dunque sono”, analogamente a tanti di noi che, al giorno d’oggi, immortalano in continuazione la loro immagine per poi postarla su facebook. Rembrandt ci ha lasciato circa ottanta autoritratti, perché desiderava immortalare la sua immagine ed essere ricordato.

Quando ci scattiamo un selfie stiamo facendo la stessa dichiarazione, ovvero stiamo dicendo: “guardami”! Il selfie è una realtà che affonda le sue radici nell’autoritratto pittorico e nell’autoritratto fotografico e, secondo alcuni, è il riflesso della nostra autostima e del nostro narcisismo. Un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Ohio, in uno studio pubblicato sulla rivista “Personality and Individuality Differences”, afferma che le persone che pubblicano molti selfies non sono necessariamente narcisisti o psicopatici, ma che certamente hanno livelli medi di questi atteggiamenti antisociali piuttosto alti.

Gli autoritratti come rappresentazione della biografia di Rembrandt

Nel corso della storia molti sono stati gli artisti che si sono confrontati con se stessi, mettendosi in gioco attraverso l’elaborazione di autoritratti, tra cui, appunto, Rembrandt. Fin dall’inizio della sua carriera il pittore olandese fu un ritrattista molto ricercato; la lunga serie degli autoritratti, parallela a quella altrettanto numerosa dei ritratti dei familiari, documenta le fasi della tormentata vicenda biografica dell’artista e l’evolversi della sua vita interiore.

Rembrandt dette forma a ciò che caratterizza ciascun individuo, facendo ampio uso dei chiaroscuri, usò la luce per rendere visibile l’essenziale, ma essendo altrettanto importante l’invisibile, lasciò in ombra alcune parti, proponendo una rappresentazione non solo fisica, ma anche spirituale e psicologica dei personaggi.

I ritratti e gli autoritratti dell’artista olandese sono opere di marcata indagine psicologica, volta a rappresentare ed interpretare il carattere e lo stato d’animo dei personaggi, senza fermarsi all’aspetto esteriore. Rembrandt è l’artista che, forse più di ogni altro, ha ritratto se stesso, circa ottanta volte lungo la sua attività, dipingendosi a volte come borghese, altre volte come artista avvolto in abiti stravaganti o addirittura in quelli dell’apostolo Paolo.

Ovunque nei suoi lavori ritroviamo il suo volto decorato dagli scuri capelli ricci, talora pensoso e riservato, talora cupo e malinconico, altre volte raggiante ed elegante con il collo di pelliccia e la sciarpa di seta. Prima della fotografia e fino ai primi dell’Ottocento, l’autoritratto era praticato solo ed esclusivamente dai pittori, che si autodipingevano per lasciare traccia di sé ai posteri. Per Rembrandt l’autoritratto era uno strumento per indagare le emozioni.

Il narcisismo di Rembrandt: l’associazione tra gli autoritratti e i selfie

L’aver dipinto molti autoritratti fa pensare a Rembrandt come ad un maniaco del controllo della propria immagine e ad un narcisista. A seconda delle opinioni, infatti, l’autoritratto è simbolo ispiratore di libertà artistica, o sintomo di narcisismo, egocentrismo, desiderio di apparire. Oggi lo chiamiamo selfie. Il ritratto pittorico prima, l’autoscatto poi, il selfie oggi sono tutte forme del processo di conoscenza del proprio sé e di costruzione della propria identità individuale e sociale.

La lettura prediletta dai media per spiegare l’esplosione del fenomeno dei selfies è quella del narcisismo. Si tratta, certamente, di un fenomeno antropologico profondo. Tuttavia, io ritengo che la cifra antropologica del selfie non sia il narcisismo.

Nella mitologia greca, infatti, Narciso trascura la seducente Eco per perdersi nella propria immagine, accessibile solo ed esclusivamente a lui, mentre il selfie esiste per essere condiviso, per essere caricato in rete. Il selfista del XXI secolo chiama tutto il mondo a raccolta, non solo gli amici, ma anche quelli che non conosce, mostra loro tutti i suoi ritratti, chiede conferme e, tremebondo, attende numerosi “like: si tratta di una mania che rischia di sfociare in una patologia, nota col nome di sindrome da selfie. L’Associazione Psichiatrica Americana ha infatti riconosciuto la dipendenza da autofotoritratto mediante cellulare come disturbo mentale. E’ stata definita “Selfie Syndrome”, un insieme di disagi e comportamenti alterati, che derivano da un utilizzo smodato dello smartphone o del tablet per autoritrarsi ed esistono tre livelli di disturbo: saltuario (quando la persona si fotografa almeno tre volte al giorno, ma non pubblica le foto sui social network), acuto (quando l’individuo si fotografa non meno di tre volte al giorno e posta le foto sui social network), cronico (quando la persona è ossessionata, si autofotografa in continuazione e pubblica le immagini in internet almeno sei volte al giorno). Il selfista compulsivo è alla ricerca di “like”, di approvazione, di complimenti che possano confermare l’immagine e l’idea che vuole dare di sé. Narciso, invece, no, lui non aspettava “like”. Lo avrebbero distratto dalla propria immagine.

Cancro: gli effetti benefici dell’attività motoria

Cancro: L’attività motoria ha un ruolo importante nell’ ambito delle patologie tumorali, sia durante i trattamenti terapeutici (chemioterapia, radioterapia, ecc.) che nel periodo successivo.

Abstract

L’azione positiva che l’attività fisica regolare esercita è ascrivibile a più fattori. Fra di essi, si possono citare: il miglioramento della qualità della vita; il lenire la stanchezza legata alla patologia tumorale; il miglioramento della forma fisica, provata da terapie estremamente aggressive; l’attenuazione della sintomatologia depressiva che, sovente, accompagna il paziente affetto da neoplasia; l’incremento della forza muscolare. In virtù di questi benefici, agli ammalati di cancro è consigliata un’attività motoria moderata di almeno 150 minuti alla settimana. Malgrado le sollecitazioni ricevute, solo un esiguo numero di pazienti oncologici cambia stile di vita. Ciò è causato dalla scarsa autoefficacia e dai fattori emozionali, che inficiano il desiderio di dedicarsi ad un’attività motoria.

Keywords: cancro, attività motoria, autoefficacia, fattori emozionali.

L’azione positiva dell’attività motoria sui pazienti affetti dal cancro

L’attività motoria ha un ruolo importante nell’ambito delle patologie tumorali, sia durante i trattamenti terapeutici (chemioterapia, radioterapia, ecc.) che nel periodo successivo, come rivela la ricerca di Fong e coll. (2012).

L’azione positiva che l’attività fisica regolare esercita è ascrivibile a più fattori. Fra di essi, si possono citare il miglioramento della qualità della vita (Mishra e coll., 2012); il lenire la stanchezza legata alla patologia tumorale (Cramp e Byron – Daniel, 2012); il miglioramento della forma fisica, provata da terapie estremamente aggressive (Jones e coll., 2011); l’attenuazione della sintomatologia depressiva che, sovente, accompagna il paziente affetto da neoplasia (Craft e coll., 2012); l’incremento della forza muscolare (Stene e coll., 2013).

In virtù di questi benefici, agli ammalati di cancro è consigliata un’attività motoria moderata di almeno 150 minuti alla settimana (Schmitz e coll, 2010). Malgrado le sollecitazioni ricevute, solo un esiguo numero di pazienti oncologici cambia stile di vita, incrementando l’attività motoria settimanale (Blanchard e coll., 2008).

La psicologia di derivazione cognitivista ha cercato di capire le ragioni per le quali gli individui hanno difficoltà a cambiare i propri comportamenti più nocivi per sostituirli con altri più salutari. Un posto di rilievo nell’ambito delle teorie cognitive lo occupano i costrutti social – cognitivi, elaborati da Bandura (1986). All’interno di tali teorizzazioni, un paradigma importante è rappresentato dall’autoefficacia, intendendo con essa la convinzione relativa alle proprie capacità di portare a compimento una certa prestazione, perché si è in grado di eseguire tutte le azioni necessarie per raggiungere l’obiettivo prefissato (Bandura,1986). Alla luce di questa teoria, è stato ipotizzato che gli ammalati di cancro abbiano una scarsa autoefficacia, che inficia la loro capacità di seguire un programma regolare di attività motoria. È stato ipotizzato, inoltre, che alla base di questa scarsa propensione verso l’attività fisica potrebbe esserci la debolezza che questi pazienti avvertono e che è uno dei sintomi principali del cancro (Blaney e coll., 2013).

Un ruolo importante nel mantenimento di uno stile di vita attivo lo rivestono i fattori emozionali, come dimostra una recente ricerca di Lewis e coll. (2015).

Uno studio (Ungar, Wiskemann e Sieverding, 2016) compiuto dai ricercatori dell’Università di Heidelberg e del Centro Nazionale per le Malattie Tumorali di Heidelberg, in Germania, ha voluto capire per quale ragione i pazienti oncologici non seguono un programma di attività fisica regolare, malgrado siano a conoscenza dei benefici dell’attività motoria per la loro condizione. Per indagare questo aspetto sono stati reclutati 72 pazienti, fra le persone che erano in cura presso la Divisione di Oncologia Medica del Centro Nazionale per le Malattie Tumorali di Heidelberg. Essi erano per il 52% donne, con un’età media di 55 anni, per lo più ammalati di cancro al seno, al colon – retto e alla prostata. Il 33% aveva metastasi e il 37% al momento della ricerca era sottoposto a chemioterapia. I pazienti sono stati scelti perché presentavano un’attività fisica settimanale inferiore a 150 minuti. Nel conteggio delle ore di attività motoria sono stati considerati il pendolarismo, i lavori domestici, l’attività motorio – sportiva fatta nel tempo libero e l’attività fisica svolta nell’ambito del proprio lavoro.

Con i pazienti, nell’ambito del progetto MOTIVACTION (intervento motivazionale per incrementare l’attività fisica nei pazienti oncologici), sono stati programmati due incontri. Nel primo si sono utilizzate delle tecniche di counseling, che avevano lo scopo di convincerli a cambiare stile di vita. Nel corso dell’incontro è stato dato un opuscolo da leggere a casa, nel quale erano illustrate tutte le tecniche per cambiare i propri comportamenti. Inoltre, erano suggeriti degli esercizi di ginnastica da fare in ambiente domestico ed erano forniti dei piccoli attrezzi ginnici. Ogni paziente era tenuto a compilare un diario relativo all’attività fisica intrapresa.

Nel secondo incontro si insegnavano le tecniche utili per rilassarsi (respirazione addominale, rilassamento muscolare frazionato) e per fronteggiare lo stress. A casa, in più, i pazienti dovevano leggere un opuscolo, dove erano illustrate le tecniche per gestire al meglio lo stress, un CD per rilassarsi e un diario per registrare i progressi nella gestione dello stress.

Sono state fatte due valutazioni degli effetti degli interventi a distanza di 4 settimane e 10 settimane. La ricerca ha stabilito che nel cambiamento dello stile di vita, ovvero nell’intraprendere un’attività fisica regolare, un ruolo chiave lo rivestono sia l’autoefficacia che i fattori emozionali, come il piacere di dedicarsi ad un’attività motoria.

Solitudine e adolescenza: il benessere nel comportamento solitario dell’adolescente

Solitudine e adolescenza: il semplice trascorrere molto tempo insieme ad altre persone fa stare bene i ragazzi e, nel contempo, il passare del tempo da soli aiuta il ragazzo a gestire più adattivamente i propri contrasti interpersonali.

Valentina Retto – OPEN SCHOOL Studi cognitivi Modena

 

 

Un uomo deve mantenere un piccolo recesso dove può essere se stesso senza riserve. Solo nella solitudine egli può conoscere la vera libertà.

(Michel de Montaigne)

 

La solitudine non si presenta affatto come un concetto unitario. Già analizzando i termini esistenti nella lingua inglese, ad esempio, si nota come vengano utilizzati tre vocaboli per definire le sfumature del termine solitudine. Aloneness è usato per definire lo stare da soli, Solitude, similmente, indica lo stato oggettivo di essere soli lontano da tutte le altre persone, Loneliness, invece, ha un’accezione soggettiva e peggiorativa, che indica il sentimento personale di sentirsi soli, nonché la percezione di uno stato di abbandono (Zingarelli, 2016).

 

Solitudine e adolescenza: l’importanza del tempo per se stessi

Sebbene esistano dei vissuti indubbiamente negativi legati ai momenti in cui le persone stanno da sole, le ricerche documentano anche gli aspetti funzionalmente positivi, dimostrando che, alla solitudine vissuta negativamente, si differenzia il naturale bisogno di trascorrere del tempo con se stessi.

Winnicott (1968), ad esempio, sostiene che usare il tempo di solitudine in modo proficuo rappresenta indubbiamente uno dei traguardi dello sviluppo individuale. A tale proposito, è stato studiato come questo comportamento aumenti di frequenza e di importanza nel periodo adolescenziale, e come la capacità di utilizzare il tempo per se stessi in maniera costruttiva sia un’abilità che si stabilisce proprio in questa fase. L’adolescenza è il momento della vita in cui si trascorre maggior tempo da soli, la solitudine è “fisiologica” in particolare in questo periodo della vita. Lo sviluppo delle funzioni cognitive, psicologiche e sociali permette di usare il tempo trascorso in solitudine costruttivamente (Johnson, Lavoie, & Mahoney, 2001).

E’ stato evidenziato un ruolo significativo della solitudine nel delicato processo di separazione-individuazione dalle figure genitoriali, in quanto, essa crea quello spazio fisico e mentale nel quale l’individuo che cresce può ritagliarsi un’autonomia di pensiero e di azione propria. È stato dimostrato che, durante questi momenti di intimità, l’adolescente riflette, rielabora le proprie emozioni, si rilassa e si rinnova (Corsano, 2003).

Lo stare da soli è perciò un bisogno fondamentale per la crescita della persona, al pari del bisogno di attaccamento.

Suefeld scrive: 

La solitudine può ferire, ma lo stare con se stessi può curare

La chiave di lettura è custodita nella motivazione al comportamento di solitudine (Suefeld; in Peplau & Perlman, 1982, pag. 65). Mentre recentemente Zygmunt Bauman dice:

Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione.

Per parlare di negatività o positività del concetto di solitudine, dunque, occorre indagare le motivazioni sottostanti al comportamento solitario.

 

La Motivazione al comportamento solitario

Il comportamento delle persone è mirato al soddisfacimento dei bisogni e al perseguimento degli obiettivi; entrambi possono essere biologicamente o culturalmente determinati. I bisogni sono mediati a livello cognitivo da un sistema gerarchico di valori e di obiettivi che monitora le azioni volte al raggiungimento degli stessi, questo è il sistema delle motivazioni (Moderato, P., Presti, G., Chase, P.N., 2002).

La motivazione, dunque, viene considerata come un costrutto eterogeneo, una sua prima differenziazione, per esempio, è stata espressa in relazione ai tipi di bisogni che la muovono. Prendendo come riferimento la Teoria dei Bisogni di Maslow (1954), ampiamente riconosciuta, sono state distinte le motivazioni Primarie da quelle Secondarie. Le prime nascono dai bisogni fisiologici: nutrirsi, dormire, ripararsi dal freddo, ecc…, le seconde, invece, vengono apprese dall’individuo nel corso della propria vita e sono mediate dalla cultura di appartenenza.

Una seconda distinzione fa riferimento alla motivazione intrinseca o autonoma ed estrinseca o controllata. Nel primo caso essa rappresenta la volontà di intraprendere una data attività in quanto relativamente soddisfacente di per sé; l’individuo, cioè, agisce senza aspettarsi conseguenze future premianti, esterne all’attività stessa. Sono quelle attività intraprese spontaneamente, durante le quali la persona si sente libera di seguire i propri personali interessi. La motivazione Estrinseca, invece, dipende dal voler ottenere qualcosa d’altro rispetto al comportamento che si sta direttamente mettendo in atto, ad esempio riconoscimenti, vantaggi, denaro, oppure, dall’evitare conseguenze sgradevoli (Deci & Ryan, 2000).

La percezione di autonomia nel proprio comportamento è un aspetto fondamentale per preservare la motivazione intrinseca; dare la facoltà di scegliere e riconoscere l’esperienza personale del soggetto stimola un locus of control interno, una motivazione intrinseca e una maggiore confidenza nella propria performance (Deci & Ryan, 2000; Gagné & Deci, 2005; Hodgins, H. S., Brown, A. B., & Carver, B., 2007).

 

La motivazione autonoma o controllata

Una differenza pregnante all’interno dello spettro motivazionale, dunque, fa riferimento al livello di autonomia o di controllo che gli agenti esterni esercitano sullo stile di regolazione dell’individuo.

Varie ricerche hanno confrontato gli effetti psichici e comportamentali inerenti alle due tipologie di motivazione (Cameron, J., 2001; Deci & Ryan, 2000; Gagné & Deci, 2005; Ryan & Deci, 2006; Soenens & Vansteenkiste, 2005).

È stato riscontrato ad esempio che, gli studenti che presentano una motivazione allo studio relativamente controllata, possono apparire tanto motivati quanto quegli alunni che possiedono un orientamento autonomo. Tuttavia, i primi ottengono performance inferiori e un grado più modesto di benessere, mentre, i ragazzi con una motivazione di tipo intrinseco esibiscono alti livelli di competenza scolastica e di benessere (Ryan & Connell, 1989).

Inoltre, gli individui con uno stile di regolazione autonoma presentano anche una buona integrazione tra i tratti di personalità, le attitudini e i comportamenti agiti, ovvero, esibiscono un funzionamento ottimale della personalità. Ciò non accade, invece, per le persone caratterizzate da uno stile controllato, in questo caso viene rilevata una relazione debole, nonché negativa, tra i vari aspetti della personalità (Williams, Gagné, Ryan, & Deci, 2000; in Deci & Ryan, 2000).

 

L’Autodeterminazione in Adolescenza

Molti ricercatori dell’età evolutiva vedono lo sviluppo dell’autonomia in adolescenza come un processo di Separazione-Individuazione. In accordo con tale prospettiva la definizione dell’autonomia individuale comporta un movimento simultaneo, in cui l’adolescente si distanzia psicologicamente e fisicamente dai genitori (separazione), e assume su di sé maggiori responsabilità, senza più dipendere completamente da loro (individuazione) (Levpušček, M. P., 2006).

L’età adolescenziale è pervasa da una sorta di tensione tra due compiti di sviluppo, quello di conquistare l’autonomia nei confronti dei genitori e dei pari, e quello di conformarsi alle aspettative sociali.

Il raggiungimento del’autonomia implica, perciò, la capacità di basare le azioni sui principi personali e non sulle aspettative altrui; tramite il processo di internalizzazione, dunque, l’individuo giunge a un accrescimento del senso di sé. L’internalizzazione è un processo innato e attivo, grazie al quale le persone trasformano le usanze e le credenze sociali in idee e valori propri, integrandoli nel sé. Trasformando questi precetti da esterni ad interni, l’individuo può sperimentare il senso di autodeterminazione (Deci E. L., & Ryan R. M. (2008). Quando le motivazioni ad agire sono maggiormente internalizzate e quindi autonome, si riscontrano delle elevate capacità di coping, di impegno e serenità nello svolgimento dei compiti scolastici, in aggiunta, si evidenziano delle relazioni più positive tra gli adolescenti e i genitori o gli insegnati (Van Den Broeck, A., Vansteenkiste, M., & De Witte, H., 2008; Zimmer-Gembeck & Collins, 2003).

 

Scegliere quando stare da soli o in compagnia

Una motivazione controllata, sia nel comportamento solitario che in quello interpersonale, si associa ad alti valori d’ansia sociale e depressione, mentre il trascorrere semplicemente molto tempo da soli non è necessariamente indice di depressione. Parallelamente, avere una forte motivazione intrinseca, nel preferire una situazione sociale o nello scegliere di stare da soli, viene associata a bassi livelli d’ansia e di depressione. Dunque, il semplice trascorrere molto tempo insieme ad altre persone fa stare bene i ragazzi e, nel contempo, il passare del tempo da soli aiuta l’adolescente a gestire più adattivamente i propri contrasti interpersonali (Beiswenger, K. L., 2008).

In particolare, è stata trovata una netta differenza tra la motivazione autonoma e quella esternamente controllata dimostrando l’importanza della motivazione intrinseca al comportamento interpersonale e solitario, in funzione dell’adattamento e del benessere (Chirkov, V., & Ryan, R. M., 2001; Chua & Koestner, 2008).

La presenza della motivazione intrinseca nel mettere in atto il comportamento solitario o interpersonale aumenta il grado di benessere percepito dall’individuo.

Gli adolescenti intervistati danno una connotazione valoriale positiva alla solitudine attiva, cioè funzionale a una qualche attività tangibile, mentre valutano più negativamente i momenti solitari passivi, quando si trascorre semplicemente del tempo da soli, senza perseguire un proprio scopo personale (Beiswenger, K. L., 2008). Inoltre, se il comportamento solitario non dipende da una scelta autonoma, ma viene imposto, questo è associato a sentimenti negativi (Chua & Koestner, 2008).

La letteratura mette in evidenza l’importanza di un elevato grado di autodeterminazione nelle scelte quotidiane o di vita, per poter conquistare un reale benessere personale.

Il comportamento interpersonale e quello solitario sono le due gambe su cui avanza la crescita identitaria dell’adolescente. Se i loro passi vengono regolati da una buona dose di motivazione autonoma, e non da imposizioni esterne, sono associati a un buon adattamento e al benessere personale (Beiswenger, K. L., 2008; Corsano, P., Majorano, M., & Champretavy, L., 2006).

Black Mirror: riflessioni sui mutamenti psicologici e relazionali nel futuro della tecnologia

A volerne dare una lettura meno introspettiva, ma che richiami quello che sembra essere l’intento degli autori, Black Mirror si rivela il ritratto di una società in cui la tecnologia è molto più di uno strumento ideato per facilitare i nostri compiti quotidiani o per mettere a nostra disposizione mezzi di comunicazione istantanea che accorcino le distanze. Al contrario, quello che viene raccontato nel corso degli episodi è una distanza infinita tra esseri umani in un mondo dominato da sistemi che esercitano un potere spersonalizzante, antagonisti di un’autenticità delle relazioni.

 

Black Mirror: la serie TV

[blockquote style=”1″]The good news is that we move forward with giant steps toward the future. The bad news is that we may not be very prepared to deal with them.[/blockquote]
(Young, Abreu, 2011, p. 267)

Nata nel 2011 e rinnovata per una terza stagione in uscita il prossimo 21 Ottobre, Black Mirror è una serie tv inquieta, disarmante, a metà strada tra il genere sci-fi e la satira. Il titolo stesso introduce intuitivamente la tematica centrale in quanto rimanda allo schermo nero dei dispositivi tecnologici che noi tutti utilizziamo abitualmente. Nei vari episodi, ciascuno con diverse ambientazioni e personaggi, si susseguono scenari e storie governati da una brutale modernità fatta di incredibili invenzioni che rivoluzionano equilibri e sentimenti umani.

Psicologia e serie TV: i messaggi trasmessi da Black Mirror

Guardando nello schermo nero creato da Charlie Brooker, produttore britannico e autore della fortunata serie antologica, si scorgono dettagli che vanno al di là delle ovvie interpretazioni. Sebbene sia possibile, infatti, analizzarne la morale e i significati, non si può sottovalutare l’impatto emotivo e perturbante delle trame proposte.

A volerne dare una lettura meno introspettiva, ma che richiami quello che sembra essere l’intento degli autori, Black Mirror si rivela il ritratto di una società in cui la tecnologia è molto più di uno strumento ideato per facilitare i nostri compiti quotidiani o per mettere a nostra disposizione mezzi di comunicazione istantanea che accorcino le distanze. Al contrario, quello che viene raccontato nel corso degli episodi è una distanza infinita tra esseri umani in un mondo dominato da sistemi che esercitano un potere spersonalizzante, antagonisti di un’autenticità delle relazioni.
È possibile rintracciare in ciascun episodio una tematica che coinvolge (e sconvolge) l’idea tradizionale della natura umana.

Nel mondo creato da Brooker e colleghi, la capacità empatica sembra essere smarrita o, comunque, distorta. Nei racconti della serie i personaggi sono fondamentalmente assorbiti nel narcisismo tipico di chi guarda il mondo attraverso uno schermo, noncuranti dell’altro e del suo sentire. Sono tutti spettatori dell’altrui esistenza e traggono godimento da questa sorta di voyeurismo digitale.

In questo mondo non trova posto l’oblio della memoria che resta perennemente intatta e uguale a se stessa; uomini e donne, provvisti di personali microchip che ne conservano i ricordi, possono proiettare e riguardare gli eventi vissuti nei minimi dettagli. Una memoria privata dei suoi naturali mutamenti e distorsioni, impossibile da elaborare.

È una realtà in cui il progresso ha abolito il concetto di impossibile; persino di fronte all’irreparabilità della morte si può ricorrere a soluzioni “intelligenti”, a surrogati programmati per essere identici all’originale, forse addirittura migliorati. Una perfezione che spiazza perché altro non è che una vuota illusione.
E ancora, solitudine, azioni ripetitive e perdita del senso di identità e di individualità in una società paralizzata, bombardata da incessanti messaggi pubblicitari e in cui l’unica via di fuga è trasformarsi in maschere vuote che occupano tristi palcoscenici.

Questi alcuni dei temi di una serie che genera reazioni viscerali ed emotive prima ancora che animare dibattiti interiori e razionali sullo stato dell’evoluzione tecnologica e sul ruolo della persona all’interno di questo cambiamento. Black Mirror non è quindi solo un prodotto televisivo di intrattenimento, ma un moderno romanzo distopico; un’estremizzazione dell’attuale progresso tecnologico, disturbante al punto giusto da lasciare aperte considerazioni e interrogativi sui mutamenti che il consumo della tecnologia sta operando silenziosamente sulle nostre menti, sui nostri corpi e sui modi di entrare in contatto con l’altro.

La rivoluzione psico-tecnologica del nostro tempo è già iniziata, come testimonia il crescente interesse per le cosiddette nuove dipendenze e, in particolare, per le dipendenze tecnologiche. Alcuni autori, come Block (2008), sostengono l’esistenza di un vero e proprio disturbo (Internet Addiction), una condizione invalidante che implicherebbe importanti modificazioni comportamentali, ritiro sociale e sentimenti negativi di rabbia, depressione e un senso di tensione quando non si ha accesso ai dispositivi e alla rete.
L’intento degli studiosi che si approcciano a questo fenomeno non è, però, quello di demonizzare il progresso, ma di operare una riflessione consapevole sul rischio di un eccessivo ricorso alla tecnologia al fine di appagare i nostri bisogni emotivi, psicologici e sociali (Young, Abreu, 2011).

Con i suoi toni oscuri e profondi, Black Mirror narra questi mutamenti e scatena incertezze su un futuro che forse non è poi tanto lontano: una serie da vedere, o rivedere, in attesa dei nuovi episodi della terza stagione.

Gli effetti di Pokémon Go: una fonte di distrazione per conducenti, passeggeri e pedoni

Un nuovo report pubblicato online da JAMA Internal Medicine parla degli effetti di Pokémon Go e di come il recente e popolarissimo gioco di realtà aumentata porti a una forte distrazione di automobilisti, passeggeri e pedoni.

 

Un nuovo report sugli effetti di Pokémon GO

John W. Ayers della San Diego State University in California, affiancato dai suoi coautori, è andato a caccia di messaggi pubblicati sul social Twitter e di notizie in Google News che trattavano informazioni relative la distrazione dei conducenti alla guida e dei relativi incidenti a causa del gioco Pokémon GO, in quanto impegnati a catturare Pokémon in luoghi del mondo reale.

Un’ analisi fatta al principale target del gioco ha evidenziato come gli incidenti automobilistici siano la principale causa di morte, in particolare nei soggetti con un’età compresa tra i 16 e i 24 anni. I giovani conducenti sono infatti molto suscettibili alla distrazione. L’American Automobile Association riporta inoltre che il 59% degli incidenti che coinvolgono i giovani sono causati da forti distrazioni che nell’arco di 6 secondi portano allo schianto.

Gli autori dello studio hanno raccolto un campione causale di 4000 tweets contenenti i termini Pokémon, driving (guidando), drives (guida), drive (guidare), car (macchina) o queste parole associate tra loro (ad es. Pokémon e guida) per un periodo di 10 giorni durante il mese di luglio.

 

Gli effetti di Pokémon GO: risultati del report

Gli autori, sugli effetti di Pokémon GO, riportano che:

  • Il 33% dei tweets indicano che un conducente, un passeggero o un pedone sono stati distratti dal gioco Pokémon GO, e che questi dati si correlino a 113,993 incidenti segnalati su Twitter.
  • Il 18% dei tweets indicano che una persona stava giocando alla guida (“OMG I’m catching Pokémon and driving”), l’11% che stava giocando un passeggero (“Just made sis drive me around to find Pokémon”), e il 4% riguardava un pedone distratto (“Almost got hit by a car playing Pokémon GO”).
  • Sono stati effettuati 14 arresti la cui causa è stata attribuita a Pokémon GO, tra cui un giocatore che si è schiantato contro un albero.

Ha dichiarato Ayers:

Pokémon GO è una nuova fonte di distrazione per conducenti, pedoni e passeggeri, e i messaggi di sicurezza inseriti nel gioco sono scarsi e poco efficienti

Secondo gli autori queste scoperte potrebbero aiutare a sviluppare nuove strategie per gli sviluppatori del gioco, i legislatori e il pubblico, così da poter limitare i potenziali pericoli e i negativi effetti di Pokémon GO.

Per quanto riguarda gli autori del gioco, alcuni tentativi di miglioramento della sicurezza sono già stati fatti, principale tra tutti la restrizione del gioco a velocità superiori a 10 miglia l’ora (20 km/h), ma questo non è sufficiente.

Secondo Ayers e colleghi occorrerebbe rendere inaccessibile il gioco per un periodo prolungato tutte le volte che i giocatori superano il limite di velocità di marcia, con lo scopo di evitare che i conducenti giochino alla guida. Inoltre il gioco potrebbe essere disattivato nei pressi di strade e parcheggi per proteggere sia i pedoni che i conducenti. Infine il gioco potrebbe includere chiari avvertimenti circa la guida e la sicurezza dei pedoni.

 

 

Lo sport nel bene e nel male: il diffondersi della vigoressia

La vigoressia o bigoressia (dall’aggettivo inglese big) o dismorfia muscolare, una sorta di dipendenza patologica dall’esercizio fisico, si verifica nel momento in cui si pratica sport superando i limiti normalmente posti dallo sforzo, dalla noia e dalla stanchezza (Velea, 2016). Questa dipendenza nasce da una preoccupazione ossessiva per l’aspetto fisico e dal desiderio di modificarlo aspirando alla perfezione.

Paola Bertotti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

Nonostante ovunque si legga e si senta di quanto lo sport sia importante per la salute fisica e mentale dell’individuo, obiettivo di questo articolo è illustrare che, come in tutte le cose, anche in questo caso ci può essere l’altro lato della medaglia.

Come primo passo, sembra essenziale definire i termini e fare le dovute distinzioni fra:
– SPORT, definito come attività competitiva svolta all’interno di un sistema di regole e finalizzata alla ricerca di prestazione;
– ESERCIZIO FISICO, con significato di attività fisica strutturata, che mira a benefici per la salute;
– ATTIVITÀ FISICA (O MOTORIA), che comprende qualunque tipo di movimento che determini dispendio energetico;
– EDUCAZIONE FISICA E MOTORIA, che è l’attività svolta in ambito scolastico, con finalità sia specifiche, sia educative trasversali (Biddle & Mutrie, 2008).

Queste definizioni sono utili per capire come, ciò che noi chiamiamo genericamente (e per praticità) “sport”, abbia in realtà varie dimensioni e come il dare più importanza all’una o all’altra di esse dipenda dal tipo di interesse che ciascuno investe e dalle aspettative che ha. Cinque ore di nuoto settimanali per ragioni di salute o quaranta ore di allenamento per partecipare alle Olimpiadi non comportano le stesse aspettative, né gli stessi effetti: una differenza quantitativa, che diventa qualitativa e mette in discussione i “benefici” dell’attività motoria (Queval, 2016).
Lo sport (in tutte le sue dimensioni), infatti, può diventare una vera e propria ossessione e trasformarsi in dipendenza.

 

Vigoressia: definizione e diagnosi

La vigoressia o bigoressia (dall’aggettivo inglese big) o dismorfia muscolare, una sorta di dipendenza patologica dall’esercizio fisico, si verifica nel momento in cui si pratica sport superando i limiti normalmente posti dallo sforzo, dalla noia e dalla stanchezza (Velea, 2016). Questa dipendenza nasce da una preoccupazione ossessiva per l’aspetto fisico e dal desiderio di modificarlo aspirando alla perfezione, tanto che alcuni autori parlano di “complesso di Adone” (Velea, 2016), dalla celebre figura mitologica simbolo della giovanile bellezza maschile. Sembra essere, quindi, una nuova forma di disturbo della percezione della propria immagine corporea.

La vigoressia viene anche definita come anoressia inversa, in quanto, apparentemente, i sintomi sono opposti a quelli dell’anoressia nervosa: la paziente anoressica si vede sempre grassa pur essendo magrissima, mentre il vigoressico (in prevalenza di sesso maschile) si vede sempre magro e non abbastanza muscoloso anche quando ha raggiunto un fisico molto atletico (Ferrari e Ruberto, 2012).

Questa patologia sembra collocarsi a cavallo fra i Disturbi dell’Alimentazione, i Disturbi da Dismorfismo Corporeo e i Disturbi Ossessivo-Compulsivi (Ferrari e Ruberto, 2012), ma recentemente è stata inserita nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5) sotto la categoria “Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo” (Vernola, 2016).

La caratteristica principale di questo disturbo è una forte insoddisfazione e preoccupazione nei confronti del proprio fisico, che è visto come asciutto e poco muscoloso e quindi bisognoso di continuo esercizio. Il doversi continuamente esercitare può diventare una vera e propria mania e trasformarsi, di conseguenza, in una dipendenza, la quale comporta, come tutte le addiction, un cambiamento radicale nelle abitudini quotidiane.

Le persone che soffrono di questa patologia cambiano radicalmente la loro visione dello sport, modificando aspettative e tempo dedicato ad esso. L’esercizio diventa una priorità assoluta con conseguenze spesso drastiche nella vita sociale: sia nei rapporti affettivi, sia nella vita lavorativa, che vengono messi in secondo piano o addirittura abbandonati. Qualsiasi altra attività del tempo libero che non sia legata alla disciplina praticata viene trascurata e, solitamente, viene anche adottato un abbigliamento conforme alle esigenze della pratica sportiva (Velea, 2016).

La persona affetta da dismorfia muscolare trasforma inoltre le sue abitudine alimentari, prediligendo una dieta molto rigida e salutista, nella quale sono incluse grandi quantità di alimenti iperproteici, importanti per lo sviluppo muscolare, mentre sono quasi completamente evitati i cibi ricchi di grassi e carboidrati (Amabili, 2013). L’alimentazione risulta quindi limitata ed ossessiva, danneggiata talvolta da uno strappo alla regola, considerato un’eccezione e accompagnato da un gran senso di colpa, che la persona combatterà facendo ore e ore di esercizio fisico (Spinetta e Passoni, 2015). Al tempo stesso però, è molto frequente l’uso (e l’abuso) di integratori e sostanze anabolizzanti che risultano, nella mente del malato, fondamentali per aumentare la massa muscolare, per migliorare le proprie forme fisiche e per poter andare oltre i limiti fisici posti dalla natura umana (Amabili, 2013).

Nonostante tutte queste modificazioni nelle abitudini e nonostante la smisurata quantità di esercizio fisico svolto, il vigoressico vedrà sempre il suo corpo come troppo magro e troppo poco muscoloso (Stagi, 2008). Di conseguenza, cercherà di evitare o si sentirà in imbarazzo in tutte quelle situazioni, anche intime, in cui si troverebbe a dover, in qualche modo, esporre la propria fisicità.

In genere, la vigoressia interessa uomini giovani adulti di età compresa tra i 15 e i 23 anni circa, che praticano quei tipi di sport in cui lo scopo degli allenamenti è proprio quello di aumentare la propria muscolatura e la propria forza, come il football americano, il wrestling e, soprattutto, il body-building. La prevalenza del disturbo è calcolata intorno a 100,000 persone nel mondo e nelle palestre si aggira attorno al 10% dei frequentatori, anche se in realtà, con grande probabilità, la sua presenza è sottostimata, dal momento che non è sempre semplice riconoscere chi ne è affetto (Ferrari e Ruberto, 2012).

Questa difficoltà è dovuta al fatto che spesso queste persone hanno apparentemente un aspetto molto salutare. Alcuni segnali d’allarme o fattori di rischio possono essere: il forte desiderio di voler aumentare la propria massa muscolare, il continuare ad allenarsi anche in presenza di infortuni alle articolazioni o ai muscoli, la partecipazione a gare di bodybuilding, l’eccessivo guardarsi e controllarsi allo specchio, il vivere momenti di vergogna, depressione o senso di colpa quando non è possibile allenarsi o si è obbligati a sgarrare la dieta, l’uso o la dipendenza da steroidi anabolizzanti, una storia di bullismo in età giovanile legata, soprattutto, all’essere gracile o di aspetto debole, precedenti disturbi alimentari (Griffiths et al., 2015).

Rispetto ad altre dipendenze o ad altri tipi di disturbi alimentari, la vigoressia è più difficile da individuare proprio perché, ad un primo sguardo, le persone che ne soffrono sembrano prendersi molta cura di se stessi, svolgendo molta attività fisica e rispettando una dieta salutare. Come si diceva introducendo questo articolo, lo sport è visto indiscriminatamente come uno strumento positivo ai fini del benessere, permettendo di stare in forma fisicamente, di prevenire malattie di vario genere e di scaricare lo stress quotidiano.

 

La vigoressia e l’influenza dei media

Il dilagare di questo tipo di disturbi è sostenuto sempre più spesso dai media, che mostrano ideali di bellezza (per le ragazze) e di forza (per i ragazzi) irraggiungibili e inesistenti, nonché dai social network, luoghi ideali di condivisione, più o meno anonima, delle proprie abitudini sportive e alimentari.

Facebook, per cominciare con il social network più famoso degli ultimi tempi, permette di far parte di gruppi in cui l’attività fisica è vista, negli intenti degli ideatori, come un modo per stare meglio con se stessi, per aumentare la propria autostima e per ridurre l’obesità e il rischio delle malattie connesse ad essa. A tale scopo vengono messi a disposizione diversi programmi di workout per tutte le esigenze, dai principianti ai più “palestrati”. Gli allenamenti si spostano, quindi, dalla palestra al salotto di casa nostra, rendendo l’individuazione di soggetti potenzialmente a rischio ancora più difficile. Infatti, se, da un lato, il mostrare la possibilità di muoversi ed allenarsi anche da casa può essere molto utile per sdoganare l’idea che lo sport vada fatto solo in un determinato contesto, in determinate ore e con determinati attrezzi, dall’altro, si va incontro al rischio di creare una popolazione di “malati di sport” poco individuabile e poco studiabile.

Simile discorso può essere fatto per un altro famosissimo social network, Instagram, nel quale è possibile mostrare, attraverso immagini, i propri progressi dal punto di vista muscolare, nascondendosi dietro fantasiosi pseudonimi. Anche in questo caso il limite fra attività fisica come strumento di benessere e sport come dipendenza non è facilmente delineabile. Così come non è facile intuire dove si colloca la linea di confine fra un’alimentazione sana e variegata e un’alimentazione “malata”, nella quale le proteine vengono assunte (spesso in maniera incontrollata) tramite polveri proteiche inserite nelle ricette più classiche: dai frappè alle torte, dal cappuccino ai pancakes.

Risulta evidente come la vigoressia sia una problematica sempre più attuale e, di conseguenza, da esplorare attraverso studi e ricerche che dovrebbero tenere in considerazione innanzitutto le tre variabili suggerite dalle autrici Dalla Ragione e Scopetta (2009): evitamento sociale, a causa dell’aspetto corporeo di cui la persona vigoressica si vergogna e che non vuole mostrare; tempo dedicato all’attività sportiva; dieta seguita con lo scopo di migliorare l’aspetto fisico, includendo l’uso di integratori.
Inoltre ritengo sia utile indagare anche l’influenza dei mass media e dei social network nell’aumentare e sostenere disturbi di questo genere.

Quando l’output diventa anche input: come funziona il neurofeedback?

Il neurofeedback è una tecnica d’avanguardia che fa interfacciare cervello e computer, usata per il trattamento di vari disordini clinici, come depressione, ansia, dolore cronico, iperattività, schizofrenia ma anche per il potenziamento cognitivo.

 

Si basa sull’autoregolazione dell’attivazione cerebrale e si ispira ai principi dei sistemi di controllo a feedback, sistemi che trovano applicazione in ambito cibernetico, nell’automazione industriale, nei controlli qualità, nell’ottimizzazione dei processi e via dicendo.

Moses Sokunbi, ricercatore della SISSA di Trieste, ha messo in rassegna la letteratura sui sistemi di controllo a feedback, mostrando come dai “mattoni” rappresentati dai principi di base di questi sistemi si costruisce il neurofeedback.

Questo articolo potrà essere particolarmente utile per tutti quelli che si avvicinano a questa tecnica e ne vogliono comprendere gli aspetti basilari.

Chi lavora nel campo delle neuroscienze e si avvicina al neurofeedback, spesso non ha modo di approfondire la tecnica nel quadro più ampio dei sistemi a feedback e dei suoi fondamenti teorici – spiega Moses Sokunbi, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste – Il rischio è quello di lasciarsi sfuggire potenzialità e applicazioni innovative.

 

Il neurofeedback

Prima di comprendere come utilizzare i tracciati (fMRI, EEG, ecc) nel neurofeedback è infatti utile comprendere la logica dietro a questi sistemi di controllo, che sono applicati negli ambiti più vari, dalla cibernetica all’elettronica.

L’idea di base è che l’output del sistema diventa parte dell’input – precisa il ricercatore.

Immaginiamo per esempio un sistema che nel cervello controlli i movimenti delle gambe per camminare. Oltre a mandare segnali motori, per rendere davvero efficace la camminata il sistema ha bisogno anche delle informazioni propriocettive sulla posizione delle gambe, informazioni che cambiano durante il movimento. Queste informazioni sono a loro volta un prodotto del segnale motorio, l’output del sistema stesso. In questo modo si forma un flusso continuo di informazione.

Nel caso del neurofeedback tipicamente i pazienti ricevono informazioni sull’attivazione delle proprie aree cerebrali, che possono per esempio essere collegate a un disturbo clinico, come ansia o depressione. Nella versione più innovativa oggi si usa una combinazione di elettroencefalografia, EEG, e risonanza magnetica funzionale, fMRI, in tempo reale, ma la forma più tradizionale di neurofeedback si basa unicamente sui tracciati elettroencefalografici. Grazie al neurofeedback il soggetto pian piano riesce a controllare i propri segnali cerebrali, alleviando così la condizione patologica.

Nel suo lavoro, Sokunbi prende in esame un gran numero di lavori svolti in ambiti diversi (neurofeedback basato sull’EEG o sulla fMRI), esplorando dei sottosistemi di base (feedbck open-loop e closed-loop) del neurofeedback, la cui comprensione è fondamentale per chi inizia a cimentarsi con questa tecnica.

Quando ho iniziato a studiare il neurofeedback ho pensato che mi sarebbe stato utile avere una visione complessiva sull’argomento in special modo sui principi fondanti, per cui mi auguro che il mio lavoro che diventare uno strumento utile anche per altri.

La rassegna è stata pubblicata sulla rivista Magnetic Resonance Imaging.

Disturbi dello Spettro Autistico: l’intervento ABA in classe – Report dal Congresso Erickson

Carlo Ricci, Presidente dell’Istituto Walden di Roma, apre il workshop delineando le caratteristiche principali del metodo ABA (Applied Behavior Analysis).

 

L’intervento ABA in classe: perché e soprattutto come – Workshop

Relatori: Carlo Ricci (Presidente Istituto Walden, Roma), Chiara Magaudda ed Eleonora Mattei (Istituto Walden)

L’Applied Behavior Analysis è un metodo che fonda la proprie radici nell’analisi sperimentale del comportamento e nella scienza del comportamento. Alla luce della grande quantità di studi evidence-based effettuati negli anni, le Linee Guida sul trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti redatte dall’Istituto Superiore di Sanità, raccomandano l’ABA come intervento elettivo per i disturbi dello spettro autistico.

Pur non essendo un programma specifico per bambini con disturbi dello spettro autistico, l’ABA è un insieme di metodi e tecniche rigorosamente ancorati ai principi della scienza del comportamento e dimostra la sua efficacia in molti ambiti di applicazione nella clinica, nella riabilitazione e nella promozione della salute. Il metodo ABA permette un apprendimento di tipo formale delle capacità strumentali, sociali e di comunicazione e si ritiene che, applicato in modo rigoroso e con la particolare attenzione alle regole di setting, possa essere valido per intervenire sull’ apprendimento e sull’inclusione degli alunni con DSA nel contesto scolastico.

Chiara Magaudda ed Eleonora Mattei, collaboratrici di Ricci all’Istituto Walden, proseguono considerando l’applicazione del metodo ABA (Applied Behavior Analysis) nel contesto scolastico italiano. Gli studi sull’uso dell’ABA in classe riguardano maggiormente i contesti inglesi in cui esistono classi differenziate e nelle quali è possibile implementare il metodo in modo rigoroso e controllandone gli outcomes.

Per quanto riguarda la scuola italiana, la prima differenza evidente riguarda la composizione delle classi: non esistendo classi speciali, la classe mista può diventare una risorsa. In tal senso il metodo ABA può essere usato dagli insegnanti, formate attraverso un “teacher training”, in modo da poter creare opportunità di apprendimento per gli alunni con disturbi dello spettro autistico e utilizzare strumenti quali, per esempio, l’analisi funzionale per la comprensione e il trattamento dei comportamenti problematici, il modeling, il rinforzo, in modo da fornire aiuto immediato in situazioni in cui l’alunno con un disturbo dello spettro autistico ha mostrato difficoltà, renderlo più autonomo, guidare i compagni nell’interazione e facilitare quindi l’inclusione.

 

Intervento ABA in classe - Congresso Autismi 2016

 

Poiché il metodo ABA è intensivo e può essere applicato con bambini con disturbi dello spettro autistico già nei primi anni di vita, la scuola può e deve essere considerata una risorsa in quanto è il luogo in cui gli insegnanti possono individuare i segnali precoci di disturbi dello spettro autistico ed è il luogo della socializzazione in cui i bambini possono generalizzare le abilità apprese in altri contesti.

Rimangono comunque aperte le riflessioni per quanto riguarda la complessità dell’applicazione del metodo ABA a scuola: da una parte l’ambiente scolastico richiede una strutturazione che faciliti gli apprendimenti per gli alunni con disturbi dello spettro autistico, dall’altra è necessaria una rigorosa applicazione del metodo ABA che non può prescindere da una formazione adeguata.

Ciò che emerge quindi come elemento centrale riguarda il fatto che l’intervento ABA a scuola, per essere efficace e sostenibile ed avere quindi un rapporto costi/benefici adeguato, è necessario che sia co-costruito da insegnanti, compagni di classi e tecnici in un’ottica inclusiva in cui la scuola è luogo di apprendimento e promozione delle competenze socio-emotive di ogni alunno.

Come fa il cervello a decidere se una situazione è emotivamente piacevole o spiacevole?

I ricercatori del Max Planck Institute (Lipsia), guidati da Christiane Rohr, e dell’Università di Haifa (Israele), guidati da Hadas Okon-Singer, hanno identificato i meccanismi neurali che consentono di capire se una situazione sociale complessa sia emotivamente positiva o negativa.

 

[blockquote style=”1″]Se qualcuno ci offende mentre sta sorridendo, il nostro cervello dovrebbe interpretare il comportamento altrui come un sorriso o come una offesa? Il meccanismo evidenziato coinvolge due aree cerebrali che agiscono come due “telecomandi” che insieme determinano quale valore attribuire ad una situazione e quali altre aree cerebrali devono attivarsi o rimanere fuori dal processo[/blockquote] ha spiegato Okon -Singer.

Tutti noi conosciamo l’espressione “non so se ridere o se piangere”, con cui ci riferiamo ad una situazione che include sia elementi positivi che negativi. Ma come funziona il cervello?

Studi precedenti hanno identificato i meccanismi neurali alla base, tuttavia, la maggior parte di essi si è concentrata solo su situazioni dicotomiche – stimoli totalmente positivi (ad esempio, un bambino sorridente) o completamente negativi (un cadavere).

Lo studio

Questo studio, invece, ha esaminato situazioni complesse che implicano stimoli misti, individuando il meccanismo neurale che consente di “scegliere” la positività o la negatività di una situazione emotivamente ambigua. Al tal fine, i ricercatori hanno mostrato ai partecipanti alcune scene tratte dal film “Le iene” (Quentin Tarantino), che include molte situazioni di “conflitto emotivo”: ad esempio in una scena una persona ne tortura un’altra mentre sorride, balla e parla in modo amichevole alla sua vittima. I partecipanti hanno guardato le scene all’interno di un macchinario per risonanza magnetica, riferendo se avvertivano che ciascuna di esse includeva un conflitto. Per ogni spezzone, hanno valutato la misura in cui ritenevano che gli elementi positivi fossero dominanti e quindi la scena era piacevole da guardare, o se fossero gli elementi negativi a prevalere e quindi la scena risultava sgradevole.

Confermando i precedenti studi, i ricercatori hanno identificato due network di attività – uno che opera quando la situazione è percepita in modo positivo ed uno quando è percepita negativamente. Tuttavia, per la prima volta, hanno evidenziato il modo in cui il cervello passa da un network all’altro, ovvero attraverso l’intervento di due aree cerebrali: il solco temporale superiore (STS) e il lobulo parietale inferiore (IPL). Queste aree sono parte integrante dei due network, ma agivano anche quando i partecipanti percepivano un conflitto emotivo all’interno della scena mostrata. Il STS è risultato associato all’interpretazione di situazioni positive, mentre l’IPL all’interpretazione di situazioni negative. Queste due aree agiscono effettivamente come “telecomandi” che si azionano quando il cervello riconosce la presenza di un conflitto emotivo: “parlandosi” l’un l’altra ed interpretando la situazione in modo da decidere quale delle due rimarrà accesa e quale, invece, si spegnerà, determinano quale network cerebrale si debba attivare. Queste aree possono influenzare il valore positivo o negativo che dominerà in un conflitto emotivo attraverso il controllo di altre aree del cervello.

Conclusioni

La scoperta di aree del cervello che consentono di identificare situazioni e conflitti emotivi faciliterà studi futuri che intendono esaminare il motivo per cui tale meccanismo non funziona appropriatamente in alcune persone. [blockquote style=”1″]Noi ci auguriamo che comprendere le basi neurali dell’interpretazione delle situazioni ci aiuterà in futuro a capire il sistema neurale di chi mostra difficoltà emotive. Questo ci permetterà di sviluppare tecniche terapeutiche in grado di migliorare le interpretazioni di carattere emotivo di queste persone[/blockquote] hanno concluso i ricercatori.

E’ in arrivo Tachidino, il dinosauro che vince la dislessia

Ideato dall’ Istituto Scientifico Medea, il software Tachidino aiuta a far evolvere positivamente le difficoltà di lettura e scrittura, direttamente sul PC di casa, con monitoraggio a distanza. La presentazione il 22 settembre 2016 a Milano nell’ambito di BioNike per il Sociale.

Comunicato Stampa IRCCS Medea 

Tachidino, il software per la riabilitazione della dislessia

I ricercatori dell’Istituto Scientifico Medea – La Nostra Famiglia hanno messo a punto un nuovo strumento informatico per migliorare le abilità di lettura e di scrittura del bambino: è un gioco semplice e divertente che diventa strumento terapeutico attraverso l’intervento di un operatore qualificato nella riabilitazione della dislessia.

Tachidino è un software basato su due principi la cui rilevanza ed efficacia per i disturbi dell’apprendimento sono state ampiamente documentate nella letteratura scientifica internazionale, cui ha dato un importante contributo proprio la ricerca italiana. Il primo è il Balance Model di Dirk Bakker, che prevede la stimolazione dell’emicampo visivo destro o sinistro a seconda del tipo di dislessia diagnosticata; il secondo principio è l’allenamento dell’attenzione selettiva visuospaziale, della gestione del movimento rapido e dell’affollamento visivo (crowding), in base alla teoria magnocellulare, che collega le difficoltà di lettura a deficit nella percezione del movimento e nella localizzazione degli oggetti nello spazio.

 

Tachidino: come funziona il software

Il flusso di gioco è molto semplice. Bisogna aiutare Tachidino, l’amico dinosauro, a catturare uno specifico tipo di bon bon colorato che sbuca all’improvviso e percorre traiettorie vivaci e casuali. Solo uno di questi dolcetti è il bon bon a spirale di cui va ghiotto Tachidino, tutti gli altri gli spaccano i dentini. Quando il bambino cattura il bon bon giusto, compare per brevissimo tempo una parola da leggere e da suggerire a Tachidino: se il suggerimento è corretto il dinosauro può mangiare il dolcetto.

Difficoltà delle parole, lunghezza, forma e tipologia, tempo di visualizzazione sullo schermo variano in relazione a specifici parametri che possono essere individualizzati in base alle caratteristiche di lettura del bambino, così da “allenarlo” per potenziare le aree dove mostra difficoltà e migliorare le sue capacità di lettura.

Tachidino è disponibile in una versione base, completamente Free, che consente un allenamento a gioco libero. Il percorso è gestito da un algoritmo predefinito, in grado di adattarsi ad alcune caratteristiche del soggetto rilevate dal sistema in base ai risultati ottenuti al gioco.

Il genitore può scegliere anche di contattare un operatore qualificato, formato all’uso di questo strumento, all’interno del network “operatori Tachidino”. Nella versione Labs lo specialista, sulla base del profilo di lettura del bambino, imposta e personalizza i sofisticati parametri che definiscono il tipo di esercizio, gli ambienti e le caratteristiche dello stimolo e può monitorarli tramite collegamenti via web o in studio. Oltre 8200 parole della lingua italiana suddivise in 370 liste ciascuna con caratteristiche lessicali attentamente controllate, particolarità ortografiche e morfologiche, strategie di lettura specifiche e mirate. Il sistema parametrizza il livello di gioco, la lateralità dello stimolo (a seconda del tipo specifico di dislessia e con il controllo per bambini mancini), la tipologia d’esercizio (con input visivo o uditivo), il tempo di esposizione dello stimolo visivo e le caratteristiche percettive che ne determinano il livello di leggibilità.

[blockquote style=”1″]La nuova piattaforma informatica online nasce dall’applicazione dei dati di ricerca raccolti in più di quindici anni di studi sulla riabilitazione della dislessia, coniugati con le tecnologie più avanzate di gestione a distanza degli utenti e di regolazione delle proposte mediante algoritmi di apprendimento e autoaggiornamento[/blockquote] sottolinea la responsabile del progetto Maria Luisa Lorusso, neuropsicologa presso l’Istituto Scientifico Medea di Bosisio Parini (Lc).

 

Conclusioni

[blockquote style=”1″]E’ un modello di lavoro che trasferisce i risultati della ricerca direttamente nelle case della gente[/blockquote] evidenzia Massimo Molteni, responsabile della clinica e della ricerca in Psicopatologia presso il Medea. [blockquote style=”1″]E’ pensato per essere dalla parte del bambino perché è gioco, da fare in casa, magari assieme a mamma e papà, per conciliare le esigenze organizzative di ogni famiglia, ma è anche lavoro abilitativo importante perché conserva le caratteristiche utili a migliorare le abilità di lettura. E’ disponibile per tutti perché utilizza le enormi potenzialità dei sistemi web. E’ un frammento delle future smart cities che siamo chiamati a costruire: perché siano dalla parte dei più fragili, cioè dalla parte di tutti noi.[/blockquote]

Tachidino è stato presentato a Milano nell’ambito dell’evento BioNike per il sociale il 22 settembre 2016.

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