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I selfie del Caravaggio: narrazione degli eventi tragici di una vita

Caravaggio affrontò l’impegno nella pittura con lo stesso impeto e coinvolgimento con cui fronteggiò la vita stessa. Tema della sua pittura fu la realtà drammatica in cui vive l’uomo, espressa con un linguaggio in cui protagonista assoluto è il gioco di luci ed ombre.

 

Vissuto a cavallo di due secoli (XVI e XVII), Michelangelo Merisi (1571-1610) detto il Caravaggio fu erede della tradizione cinquecentesca e, contemporaneamente, aprì una nuova vita all’arte. La sua evoluzione artistica si racchiude in circa quindici anni di attività, durante i quali si registrano continui e sostanziali mutamenti stilistici.

Caravaggio affrontò l’impegno nella pittura con lo stesso impeto e coinvolgimento con cui fronteggiò la vita stessa. Tema della sua pittura fu la realtà drammatica in cui vive l’uomo, espressa con un linguaggio in cui protagonista assoluto è il gioco di luci ed ombre.

 

Caravaggio: la vita

Quella di Michelangelo Merisi fu una vita difficile, burrascosa, segnata da sregolatezza e da eventi tragici.

Il Merisi aveva un temperamento violento ed era terrorizzato dalla morte, tema costante nelle sue opere, in cui si riflettono in modo ossessivo due eventi traumatici della sua vita: la morte del padre, avvenuta quando Michelangelo aveva appena sei anni e l’omicidio che commise all’età di trentacinque anni. Caravaggio, infatti, non si fece mancare nulla: duelli, risse, aggressioni, brutali liti e anche, appunto, un omicidio. Tutta la sua vita fu una sceneggiatura drammatica: il Merisi era solito girare per Roma armato (era vietato, all’epoca solo i nobili potevano portare la spada) e si metteva regolarmente nei guai, finiva in galera e poi usciva, grazie all’aiuto e all’intervento di amicizie importanti.

Dalle carte dei tribunali e dalle fonti biografiche storiche (Mancini, Baglione, Bellori) emerge che Caravaggio fu un personaggio molto particolare, irascibile e litigioso. Scrive Giulio Mancini in Considerazioni sulla pittura – di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1620):

Onde non si può negar che non fusse stravagantissimo, e con queste sue stravaganze non si sia tolto qualche decina d’anni di vita.  

Il Baglione (1642) lo descrive come:

un poco discolo, e tal’ hora cercava occasione di fiaccarsi il collo, o di mettere a sbaraglio l’altrui vita. Pratticavano spesso in sua compagnia huomini anch’essi per natura brigosi.

Infine, grazie al Bellori (1672) abbiamo anche una descrizione fisica:

Egli era di color fosco, ed aveva foschi gli occhi, nere le ciglia ed i capelli; e tale riuscì naturalmente nel suo dipingere….come nei costumi ancora era torbido e contenzioso. Non lasceremo di annotare i modi stessi nel portamento, e vestir suo, usando egli drappi e velluti nobili per adornarsi; ma quando poi si era messo un abito, mai lo tralasciava, finché non gli cadeva in cenci. Era negligentissimo nel pulirsi.

Numerosi sono gli autoritratti – veri o presunti – che ci ha lasciato il Caravaggio: da “Bacchino malato” (1593), a “Fanciullo morso da un ramarro” (1595-6), da “Fruttarolo” (1593) a “Bacco” (1595-6), da “Davide con la testa di Golia” (1609-10), a “Decollazione del Battista” (1608), da “Risurrezione di Lazzaro” (1608-9) a “Martirio di sant’Orsola” (1610).

 

Lettura psicologica del Caravaggio

Il Merisi incluse costantemente i propri autoritratti nelle sue opere, dalle prime (in cui traspare serenità e floridezza), fino alle ultime, in cui traspare il deperimento dovuto alla malattia. L’autoritratto è chiaramente una rappresentazione narcisistica di se stessi; in Caravaggio, però, non è solo questo, non è soltanto la rappresentazione della propria immagine nei vari periodi della vita, ma è anche e soprattutto la narrazione della condizione in cui si sente incatenato a causa degli eventi, spesso tragici e violenti, che segnano la sua vita.

A mio avviso si prestano particolarmente bene ad una lettura psicologica il “Fanciullo morso da un ramarro” e “Davide con la testa di Golia”, perché, attraverso questi dipinti, si ripercorre la vita e l’opera del Merisi che, da una condizione di  psicosi latente giunge, alla fine, ad una condizione di liberazione.

 

I selfie del Caravaggio narrazione degli eventi tragici di una vita Ramarro
Fanciullo morso da un ramarro

 

Di “Fanciullo morso da un ramarro” esistono due esemplari simili, l’uno conservato alla Fondazione Longhi a Firenze, l’altro alla National Gallery a Londra. L’opera risale ai primi anni romani ed è menzionata da Giulio Mancini, storico del Seicento:

In questo tempo fece per esso (monsignor Pandolfo Pucci) alcune copie di devozione e, per vendere, un putto che piange per essere stato morso da un racano che tiene in mano.

Come altre opere giovanili eseguite allo specchio, anche quest’opera potrebbe essere l’autoritratto del Merisi nelle vesti del giovane ferito. Il soggetto allude chiaramente ad un significato allegorico, sotteso a quello più immediato; potrebbe trattarsi, infatti, di un’allegoria del temperamento collerico, oppure essere una sorta di ammonimento sull’incertezza della vita, sulla giovinezza effimera e sulla morte che può giungere improvvisa.

Osservando il dipinto, se consideriamo il gelsomino bianco come un’allusione al desiderio, le amarene e le ciliegie allusive alla voluttà e al piacere amoroso e, infine, la rosa come un riferimento all’amore, il messaggio che trasmette il Caravaggio è, a mio avviso, che in ogni grande piacere si nasconde anche un grande dolore.

Attraverso la narrazione del dolore, l’opera d’arte diventa reazione al male, al destino avverso e alla difficoltà di capirne le ragioni, le cause, gli effetti. Se accettiamo l’ipotesi che si tratti di un autoritratto, dobbiamo dunque considerare l’opera come una rappresentazione non solo dei tratti somatici dell’artista, ma anche della sua personalità, delle sue emozioni, dei suoi sogni, o, addirittura, un vero e proprio tentativo di autoterapia. “Fanciullo morso da un ramarro” è anche un bellissimo fermo immagine: in questo senso si può affermare che Michelangelo Merisi sia stato l’inventore della fotografia molto prima dell’invenzione della macchina fotografica e che, se fosse vissuto nel XXI secolo, si sarebbe fatto molti selfie e, probabilmente, li avrebbe postati su facebook.

 

I selfie del Caravaggio narrazione degli eventi tragici di una vita DAVIDE GOLIA
Davide con la testa di Golia

 

Se “Fanciullo morso da un ramarro” è un’opera giovanile di Caravaggio, “Davide con la testa di Golia” è un’opera tarda, posteriore alla sua fuga da Roma. Ricordiamo che il Merisi fu costretto a fuggire da Roma nel 1606, dopo aver ucciso, in seguito ad un diverbio per una partita di pallacorda, tal Ferruccio Tommasoni.  “Davide con la testa di Golia” è tra le opere estreme del Caravaggio: in essa è riconoscibile il tragico autoritratto dell’artista nelle sembianze di Golia decapitato, verso cui Davide vincitore si volge con espressione di commossa pietà. Anche Davide potrebbe essere un autoritratto: un Caravaggio giovane, senza storia, che sorregge la testa del Caravaggio maturo, che ha condotto una vita dissoluta e distruttiva, divorata da fughe e sensi di colpa: è la messa in scena di quella che Freud chiama metafora delirante, che si applica nel tentativo di risolvere un dramma già avvenuto. Il pittore si specchia nel ritratto e, uccidendo il sé colpevole, si libera dal persecutore. Ancora una volta, una sorta di autoterapia artistica ed un ennesimo selfie, anzi doppio selfie a colpi di pennello.

Dal convegno sui Mental Modes a Londra, 28 e 29 luglio 2016 – Report del Prof. Bruno Bara

Il 28 e 29 luglio 2016 sono stato a Londra per il tradizionale convegno sui Mental Models, che quest’anno ha avuto una storia particolare. 

 

Il teorico dei modelli mentali, nonché maestro di molti dei presenti, Philip Johnson-Laird, compie 80 anni, e da tutto il mondo allievi e collaboratori convergono su uno dei luoghi sacri del cognitivismo, University College London (UCL), per festeggiarlo.

Purtroppo qualche mese fa è morto uno dei suoi collaboratori, e Johnson-Laird decide di trasformare la festa in un memorial, spiazzando tutti e inserendo nella sua festa di compleanno un tono commemorativo piuttosto incongruo.

Sindrome del maestro sopravvissuto all’allievo? Ben nota difficolta anglosassone a gestire le emozioni positive, privilegiando quelle negative?

Il primo giorno arrivo a UCL contemporaneamente a Jane Oakhill, nota studiosa di processi di acquisizione del linguaggio. Il top della mattina è proprio la relazione di Jane sulla comprensione di lettura nei bambini, una spiegazione bottom up di come i bambini con buone capacita di lettura siano favoriti nella acquisizione non solo di nuove parole, ma anche nella comprensione in profondità delle parole stesse, che va oltre il loro riconoscimento lessicale.

La spiegazione alternativa dello stesso fenomeno, cerco di spiegarle, sarebbe in un approccio alla Jerome Bruner basato sulla competenza dei bambini a creare storie a partire da frammenti lessicali. I bambini capaci di creare storie padroneggiano le parole in un contesto sociale, un bel vantaggio rispetto ai socialmente meno inseriti. Jane ribatte che diventerebbe una ricerca di psicologia sociale, e nessuno paga le ricerche di psicologia sociale, impeccabile pragmatismo economicista.

Il meglio del pomeriggio lo offrono Amelia Gangemi e Francesco Mancini con un lavoro sulle interazioni fra emozioni e ragionamento su pazienti ansiosi e ossessivi. Ricerche pulite, interessanti, con un senso che va oltre le microspecializzazioni che presentano molti degli altri relatori. La tesi è che la ricerca di controfattuali tipica degli ossessivi correla con l’emozione di colpa, mentre la ricerca di conferme tipica dei fobici correla con l’emozione di ansia. Entrambi sanno ragionare perfettamente, ma privilegiano stili diversi. Secondo me sia pensiero sia ragionamento sono influenzati da un terzo fattore causale, il tipo di relazione che le persone instaurano cogli altri, ma Francesco obietta che si tratta di una variabile troppo generica per essere controllata. Oppure bisogna capire come fare, e continuiamo a discutere.

Il contributo più divertente è quello finale della giovane Cinzia Chiandetti sulla risata. Con non poca naivete presenta una teoria a sfidare Platone e discendenti sui meccanismi del ridere, mostra filmati divertenti che fanno ridere, purtroppo la sua spiegazione anche; si ritrova parecchio contestata, ma ha il merito di aver tirato su la atmosfera.

La cena si fa al ristorante italiano Olivelli, una tragica avventura sotto ogni punto di vista, culinario, ambientale e sociale, dato che tutti oscillano fra essere tristi, anche per la presenza della vedova e delle bellissime bimbe di Vittorio Girotto, o allegri per la vitalità intelligente di Johnson-Laird, per la ennesima volta un esempio per tutti i suoi allievi, fortunati ad averlo incontrato sulla propria strada.

Nella seconda giornata arriva il momento atteso in cui Philip Johnson-Laird, dopo essersi fatto fotografare a turno con tutti noi, fa la sua relazione, presentandoci la nuovissima teoria unificata sui mental models. Non è chiarissimo, e non si chiarifica neppure con la presentazione del programma computazionale da parte di Sunny Khemlani, quali siano i vantaggi rispetto alla teoria precedente, ma l’ammirazione e l’affetto per Phil superano le possibili critiche. Sono l’autore di due dei modelli di simulazione precedenti, vengo citato ma in un altro contesto qualche obiezione a Sunny la avrei fatta, mi sento come un primatista cui dicono che il suo record e stato superato in circostanze non controllate.

Monica Bucciarelli riporta una bella serie di ricerche sulla capacità ricorsiva nei bambini. Il tema è caldissimo, Chomsky e molti altri considerano la ricorsione il vero tratto distintivo degli ominidi dagli altri primati, ma nessuno è mai riuscito a indagarla sperimentalmente in modo convincente. Il quesito metodologico insolubile consiste nella finora apparente impossibilità di separare la ricorsione dal linguaggio. Il lavoro di Monica rimane ancora esplorativo, ma apre orizzonti importanti.

Si continua bene con Cristina Quelhas che attacca il modello logico-analitico di Quine sul piano empirico; i filosofi si risentono, Johnson-Laird contrattacca, io non riesco a seguire la argomentazioni ma ci stiamo divertendo.

Markus Knauff da Giessen, grande, grosso, europeista e ricco di buon senso, presenta dati controintuitivi su come la Transcranial Magnetic Stimulation (TMS) dimostri che nella eterna querelle fra mental models e immagini mentali queste ultime siano inadeguate a spiegare il ragionamento spaziale, ma qui e fra amici non deve faticare a convincerci che abbiamo ragione noi.

Chiude Philipp Koralus, elegante Austriaco ora a Oxford, allargando lo sguardo a temi sociali. Ha in corso una affascinante ricerca applicata internazionale sul tema della pesca sostenibile senza depauperare definitivamente tutti i mari, ci mostra come i pescatori ragionino diversamente a seconda che in ballo ci sia il profitto della compagnia o la sopravvivenza delle loro famiglie. Come intuite, in questo secondo caso le regole vengono violate con facilita.

Baci, abbracci e promesse di rivedersi presto.

 

Per il programma completo del convegno clicca qui

I meccanismi neurali della time-based prospective memory

La memoria prospettica è, infatti, caratterizzata dall’abilità di ricordare intenzioni che precedentemente erano state progettate per un preciso momento futuro. J.A. Ellis nel 1996 indica cinque fasi di cui essa si compone, ovvero: la formazione dell’intenzione, l’intervallo di ritenzione, l’intervallo di prestazione, l’esecuzione dell’azione intenzionale e la valutazione del risultato.

 

La memoria prospettica: introduzione

Ogni individuo vive la propria vita orientata secondo la linea del tempo caratterizzata da passato, presente e futuro. La nostra mente è in grado di organizzare gli eventi del passato in modo ordinato, vivere il presente e progettare continuamente il futuro. Questo lavoro prova ad analizzare alcuni di questi aspetti servendosi delle più recenti ricerche riguardo la memoria prospettica.

La memoria prospettica è, infatti, caratterizzata dall’abilità di ricordare intenzioni che precedentemente erano state progettate per un preciso momento futuro. J.A. Ellis nel 1996 indica cinque fasi di cui essa si compone, ovvero: la formazione dell’intenzione, l’intervallo di ritenzione, l’intervallo di prestazione, l’esecuzione dell’azione intenzionale e la valutazione del risultato. La memoria prospettica si differenzia in “Event-Based Prospective Memory”, “Activity-Based Prospective Memory” e “Time-Based Prospective Memory”, sulla quale verterà l’attenzione principale del presente articolo, e la quale complessità è dovuta anche agli innumerevoli aspetti che concorrono durante il processo cerebrale. I principali fattori che influenzano la prestazione di Time-Based Prospective Memory, sono le funzioni esecutive, l’attenzione, il carico cognitivo richiesto, la complessità o l’importanza del compito; esistono inoltre alcuni modelli teorici che hanno portato al più moderno concetto di memoria prospettica.

Ecco un esempio di Time-Based Prospective Memory: “Fingiamo che siano adesso le 9:30 del mattino, siamo appena usciti di casa e mettiamo in programma che alle 15:30 dovremo fare una telefonata importante. In seguito, mentre siamo sul divano a guardare la TV ci ricordiamo che potrebbero essere intorno alle 15:30, quindi controlliamo effettivamente l’orario, spegniamo la TV e facciamo il numero di telefono. Proviamo ad osservare per bene cosa è successo; all’inizio abbiamo programmato un’azione che avremmo dovuto fare in futuro, poi siamo riusciti a ricordarci in tempo del nostro impegno ed una volta completato il richiamo dalla memoria, abbiamo interrotto l’azione in corso, per portare a termine quella intenzionale. Bisogna aggiungere che la forte importanza della telefonata ha fatto in modo che ci ricordassimo senza spendere troppe risorse cognitive nel monitoraggio del tempo.”

I meccanismi neurali alla base della memoria prospettica

Complessivamente in questo contributo si ha l’obiettivo di descrivere in maniera sintetica quali processi e quali aree cerebrali sono implicate nel processo di Time-Based prospective memory. Nel dettaglio quindi durante la fase di pianificazione dell’intenzione è importante il ruolo della corteccia prefrontale anteriore (Momennejad et al.,2012) ed in particolare della BA10 (Area di Brodmann 10) dell’emisfero di destra. Durante l’intervallo di prestazione invece potrebbe essere fondamentale l’ippocampo per la stima del tempo (Perbal et al.,2000) ed in particolare le “time cells” per la codifica di intervalli di tempo diversi (Eichenbaum et al.,2011).

E’ plausibile ipotizzare che in maniera sincronica potrebbero attivarsi i nuclei del putamen, del caudato e dello striato ventrale che in alcuni esperimenti hanno mostrato le stesse attività delle cellule del tempo nell’intervallo tra i due stimoli di condizionamento classico (Adler et al.,2013).

Insieme a questi processi endogeni di monitoraggio, vi è per la stima del tempo anche la BA10 (Volle et al., 2011) e alcuni studi dimostrano che può essere coinvolto anche il cervelletto (Gonneaud et al.,2014). La corteccia prefrontale anteriore oltre che nel monitoraggio sarebbe implicata nel tradurre in azione l’intenzione nel tempo appropriato, per poi spostare l’attività verso l’area motoria pre-supplementare che si attiva insieme alla zona prefrontale dorsolaterale di destra circa 5 secondi prima dell’esecuzione cosciente (Oksanen et al.,2014).

Per il recupero dell’intenzione è implicato, oltre che la BA10 (Volle et al.,2011), anche l’ippocampo secondo uno studio del 2007 (Martin et al.,2007). Seppure la ricerca abbia riguardato compiti di “Event-Based” è plausibile affermare che, vista la forte implicazione di quest’area nel recupero di informazioni temporali in ordine cronologico (Eichenbaum,2013), è probabile che si attivi insieme alla corteccia prefrontale anche nei compiti di “Time-Based”.

Uno studio conferma inoltre che l’attività prefrontale non diminuisce in concomitanza di altri compiti subentranti durante l’intervallo di prestazione (Cona et al.,2012). Per cominciare l’azione cosciente, si attiva la BA10 di sinistra mentre diminuisce l’attività nella parte mediale dell’area (Burges et al., 2000 e 2003); ai fini dell’esecuzione si attiva anche la BA 47 (Volle et al.,2011), il giro cingolato anteriore (Okuda et al.,2007) e nell’insieme del processo è stato dimostrato anche il ruolo del talamo (Cheng et al.,2010), che probabilmente svolge un ruolo importante nei diversi processi cognitivi della memoria prospettica. Bisogna poi ricordare che in compiti di “Event-Based” l’aumento di attività del lobo parietale e la conseguente diminuzione nella BA10 è associato a compiti di abituazione e più automatici. In futuro sarà interessante indagare anche le attività cerebrali dovute ad effetto priming di stimoli simili a quelli percepiti durante la fase di pianificazione. Einstein e McDaniel (2007) sostengono la possibilità di un meccanismo cognitivo interno e continuo in grado di segnalare il momento giusto per il recupero dell’intenzione, che si può ipotizzare sia associata ad una comunicazione tra le cellule del tempo e la corteccia prefrontale, non ancora dimostrata.

La memoria prospettica: conclusioni

Un’ importante implicazione di questo particolare tipo di memoria prospettica sta nell’ipotesi di un meccanismo cognitivo interno che funziona durante la giornata mentre noi non ce ne accorgiamo. Inoltre bisogna anche prendere in considerazione come il nostro cervello interpreta il tempo in maniera automatica ed implicita con l’azione di certe zone cerebrali e di come ci avverte di questa elaborazione. La memoria prospettica temporale infatti funziona e si attiva per via di un processo interno e mentale, a meno che non vi sia un orologio che ci ricordi che il tempo è passato.

I disturbi del sonno e le correlazioni col genere

Uomini e donne non vedono, sentono o si comportano ugualmente, pertanto perché dovremmo pensare che dormano allo stesso modo? O perlomeno è quanto propone un recente studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), condotto da Diane B. Boivin (Dipartimento di Psichiatria, McGill University) e dal Douglas Mental Health University Institute.

 

Manipolando i dati relativi al ciclo mestruale e all’uso di contraccettivi ormonali, la Boivin ha mostrato come l’orologio biologico influisca sul ritmo sonno-veglia in modo diverso negli uomini e nelle donne, spiegando perché le donne siano più inclini a manifestare disturbi del sonno.

[blockquote style=”1″]Osservando un simile ciclo di sonno in entrambi i sessi, abbiamo notato come l’orologio biologico femminile induca la donna ad addormentarsi e svegliarsi prima di un uomo. La ragione è semplice: il suo orologio biologico è spostato ad un fuso orario più a est[/blockquote] ha affermato il direttore del Centro per lo Studio e il Trattamento dei Ritmi Circadiani (ritmi caratterizzati da un periodo di circa 24 ore, ad esempio: ritmo sonno-veglia, ritmo della variazione della temperatura corporea) al Douglas Institute. E ha aggiunto: [blockquote style=”1″]Questa differenza osservata è essenziale per capire il motivo per cui le donne sono più suscettibili ai disturbi del sonno.[/blockquote]

Lo studio

Il team di ricercatori ha confrontato le variazioni biologiche di sonno e veglia di 26 soggetti (15 uomini e 11 donne). Tutte le partecipanti di sesso femminile possedevano un ciclo mestruale naturale: 8 di loro sono state analizzate nelle due fasi del ciclo mestruale (follicolare e luteale), le altre 3, invece, solo nella fase follicolare. Questo è un punto cruciale perché precedenti ricerche di Bolvin hanno dimostrato che le diverse fasi mestruali influenzano i ritmi biologici della temperatura corporea e del sonno.

I partecipanti sono stati sottoposti ad una procedura di registrazione di cicli ultradiani sonno-veglia (cicli della durata più breve di un giorno, ma superiore a un’ora) contraddistinta da 36 cicli formati da momenti di veglia alternati a opportunità di addormentamento. Durante la procedura sono stati rilevati i parametri relativi a temperatura corporea, melatonina salivare, vigilanza e qualità del sonno registrata attraverso polisonnografia.

I risultati

Tutte le misure ottenute hanno mostrato una significativa variazione diurna-circadiana durante tutta la procedura. Rispetto agli uomini, le donne hanno mostrato un significativo anticipo nei ritmi della temperatura corporea e nella variazione diurna-circadiana delle misure di sonno e vigilanza, ma non nei ritmi della melatonina. Inoltre, le donne hanno sperimentano una maggiore ampiezza della variazione diurna-circadiana della vigilanza. Nel complesso i risultati indicano che le donne iniziano il sonno in una fase circadiana più tardiva rispetto agli uomini, giustificando così la loro maggiore suscettibilità ai disturbi del sonno.

[blockquote style=”1″]I nostri partecipanti non hanno manifestato alcun disturbo del sonno durante lo studio. Ma ad ogni modo, questi risultati ci hanno aiutato a capire, tra le altre cose, perché le donne hanno più probabilità, rispetto agli uomini, di svegliarsi prima la mattina e sentirsi stanche anche dopo un’intera notte di sonno. E’ perchè sono meno vigili durante la notte[/blockquote] ha spiegato Bolvin.

I risultati di questo studio, pertanto, suggeriscono che le donne potrebbero essere biologicamente meno predisposte per il lavoro notturno. Ulteriori ricerche saranno necessarie per esplorare questa questione e sviluppare interventi differenziati per generi: i disturbi del sonno spesso determinano una serie di problemi funzionali.

Placare il cuore e la mente: un nuovo trattamento CBT per l’attacco di panico associato a patologia cardiaca

Solo recentemente (2016) è stato sviluppato lo specifico metodo PATCHD, basato sull’esperienza pregressa della CBT, coniugata però con le specifiche richieste cliniche e di assessment del paziente cardiopatico, tenendo conto dell’apporto di cardiologi, infermieri e fisiologi.

La comorbidità tra attacco di panico e patologia cardiaca

L’espressione “attacco di panico” fa riferimento al disturbo d’ansia somatico per antonomasia. Esso è infatti un breve stato di intensa paura e terrore con sintomi cognitivi e somatici durante il quale il soggetto generalmente teme di impazzire, morire o perdere il controllo.
La natura imprevedibile del disturbo e il circolo della paura ad esso associato compromettono lo svolgimento della vita quotidiana a lungo termine, soprattutto in assenza di trattamento.

Esso è spesso presente in netta comorbidità con un’altra patologia decisamente critica, quella cardiaca, spesso dovuta all’ostruzione delle coronarie. A tal proposito infatti la letteratura ha da anni sottolineato come la depressione e lo stress siano possibili fattori di rischio cardiaco, concentrandosi anche sulla stretta relazione tra ansia e malattia cardiaca. In particolare le situazioni ansiogene di varia natura diagnostica, comprendenti quindi anche l’attacco di panico, aumentando l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, accrescono il livello di catecolamine circolanti. Questa eccitazione superiore a un quadro abituale può avere un’influenza nel rischio di ipertensione e, nel lungo termine, di possibile sviluppo di malattia al muscolo portante del sistema circolatorio.

Studi longitudinali hanno in realtà dimostrato una relazione bidirezionale tra la dimensione dell’ansia e quella dell’ipertensione: la presenza di uno dei due fattori può implicare una maggiore possibilità della presenza dell’altro. (Player & Peterson, 2011)
Tale comorbidità non è da sottovalutare, in quanto è stato dimostrato (Tully, 2015) che l’esordio dell’attacco di panico associato ad insufficienza cardiaca si correla anche ad un alto tasso di ricovero ospedaliero.

L’insufficienza cardiaca presenta tra i sintomi anche molti elementi comuni alla sintomatologia della somatizzazione del panico, tra cui le palpitazioni, la dispnea o l’ortopnea (dispnea in posizione supina) e perciò la compresenza delle due diagnosi non stupisce.
Questa sovrapposizione tra i due disturbi crea tanta difficoltà sia nella corretta diagnosi differenziale specifica sia nella terapia.

La terapia cognitivo comportamentale dell’attacco di panico associato a patologie cardiache

Nonostante la terapia cognitivo comportamentale sia quella d’elezione in presenza di psicopatologie di questo genere, precedentemente nessuno studio ha dimostrato la sua possibile applicazione in presenza di comorbidità tra attacchi di panico e insufficienza cardiaca, dove è presente il rischio di un evento concreto, quale l’attacco cardiaco.
Solo recentemente (2016) in questa direzione è stato sviluppato lo specifico metodo PATCHD, basato sull’esperienza pregressa della CBT, coniugata però con le specifiche richieste cliniche e di assessment del paziente cardiopatico, tenendo conto dell’apporto di cardiologi, infermieri e fisiologi.

Il modello si compone di sei elementi: la formulazione del caso, la psicoeducazione relativa alle due malattie da cui è affetto il paziente, la riduzione dello stress grazie alla mindfulness, il miglioramento di abilità di coping e di attività per il dolore al petto, l’esposizione ad attività che contrastino con il comportamento di evitamento, oltre a interventi di natura cognitiva per identificare il pensiero poco adattivo che mantiene il panico e la tendenza all’evitamento.

La terapia si propone come breve, per una durata di circa otto incontri, in quanto il paziente cardiopatico ha difficoltà a considerare se stesso in un’ottica psicopatologica e abbandona più facilmente la terapia.

La formulazione del caso generalmente segue a una normale pratica adottata coi pazienti con patologia cardiaca, in quanto generalmente si effettua uno screening per la sensazione di panico, enfatizzato nel caso di un sospetto di psicopatologia. L’innovazione fornita dalla terapia consiste però in una formulazione a più voci, in quanto il terapista è accompagnato in questo compito dal personale sanitario che può fornire utili informazioni.

La psicoeducazione in questi contesti permette in seguito di far identificare al paziente l’ansia come una normale risposta a una malattia ormai comune come quella cardiovascolare e di analizzare i sintomi e i meccanismi responsabili o perpetuanti della situazione di panico. Essendo complicato discernere e far discriminare il paziente stesso in merito alla sintomatologia della patologia, è più utile scoprire ciò che può minacciarlo e indurre perciò il sintomo. Ciò permette anche di creare una ristrutturazione cognitiva che elimini le credenze patogene, conseguenze tipiche di ogni manifestazione cardiaca negativa.

Il contributo della mindfulness è invece legato alla consapevolezza del sintomo e di una modalità di rilassamento respiratoria per fronteggiarlo, apripista per l’apprendimento di modalità per la gestione del dolore. Queste nuove tecniche sono sviluppate in comunione con la classica metodologia CBT di esposizione per diminuire l’attitudine all’evitamento, fino a simulare addirittura la situazione di un attacco di cuore o a concentrarsi sull’attività fisica.
Al momento l’efficacia è stata testata solo su un numero minimo di pazienti, ma la sua innovazione potrebbe essere un valido alleato per migliorare la quotidianità di pazienti affetti da patologie tanto critiche quanto deleterie per la vita individuale.

 

Sindrome di Tourette: comorbilità con il disturbo Ossessivo-Compulsivo e con la sindrome P.A.N.D.A.S.

La Sindrome di Gilles de la Tourette, o più semplicemente sindrome di Tourette (TS), rientra nella classe dei disturbi del movimento, con esordio in età pre-adolescenziale. Colpisce circa l’1% della popolazione generale, ma l’incidenza sale notevolmente fino al 18% se si prende in considerazione la popolazione in età scolare, con una presenza maggiore nel genere maschile rispetto a quello femminile (3:1). Per circa la metà dei casi si ha una remissione di tutti i sintomi con il raggiungimento dell’età adulta. E’ caratterizzata da tic motori e fonatori più o meno costanti, involontari o semi-volontari.

Fratus Micaela, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Sebbene non siano ancora del tutto chiare le cause di sviluppo della Sindrome di Tourette, molti autori e ricercatori sono concordi nell’ affermare che si tratti di un’eziologia multifattoriale, in cui sono coinvolti fattori genetici e fattori ambientali. Recenti ricerche hanno sottolineato il coinvolgimento a livello neurologico di un malfunzionamento del talamo e dei gangli di base che determinano un’attività dopaminergica anomala. Attualmente i trattamenti maggiormente utilizzati sono sia di stampo comportamentale che farmacologico, a seconda dell’andamento dei sintomi o della gravità. La diagnosi della sindrome di Tourette è spesso correlata con il disturbo Ossessivo-Compulsivo (OCD) e con il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (AHDH).

La sindrome di Tourette: quadro clinico

Quello che maggiormente caratterizza la sindrome di Tourette (TS) è la tendenza del bambino di compiere piccoli movimenti senza finalità apparente e/o di produrre suoni più o meno articolati in maniera involontaria. I tic sono brevi, intermittenti e ripetitivi e possono essere classificati a seconda della loro complessità. I tic semplici, per la maggior parte delle volte camuffabili e semi-controllabili, riguardano un solo muscolo o un solo gruppo di muscoli e possono avere una durata differente. Nonostante la loro ripetitività possono essere scambiati per movimenti volontari e quindi passare inosservati. I tic complessi, invece, si riferiscono a delle vere e proprie sequenze di movimento sconnesse dal contesto ambientale in cui il soggetto è inserito. Sono descritti come ripetitivi, forzati, eccessivi e spesso socialmente inappropriati, come la copropassia (impulso a compiere gesti volgari e osceni) e l’ecoprassia (impulso a imitare i movimenti dell’altro). A livello sonoro, i tic complessi si traducono in vere e proprie frasi o sequenze di parole e mantengono tutte le caratteristiche di quelli motori precedentemente elencati (ripetitività, forzatura e inappropriatezza). Esempi di tic fonatori complessi sono la coprolalia, l’ecolalia e la palifisia (tendenza a ripetere proprie espressioni vocali).

In linea generale tutti i tic appena descritti posso essere inibiti e sono fortemente influenzabili da alcune attività che il soggetto intraprende. Alcuni tic sono controllati e addirittura possono sparire per un periodo di tempo, se il soggetto è in grado di concentrarsi e focalizzare la propria attenzione su altro (molti bambini con sindrome di Tourette non manifestano nessun tic mentre giocano con i videogiochi). Un’inibizione eccessiva e prolungata dei tic può portare però ad un vero e proprio scoppio con una conseguente acutizzazione delle sequenze ticcose e una maggiore difficoltà nel controllarli nuovamente. I bambini presentano gradi diversi di gravità a seconda dell’ambiente in cui si trovano e del livello di stress che percepiscono. Circa l’80% della popolazione colpita da questa sindrome afferma che qualche istante prima del manifestarsi del tic ha una sensazione o un fastidio (segni anticipatori) che ne segna l’imminente arrivo (prurito o bruciore agli occhi prima di un movimento oculare involontario, bruciore o pizzico alla gola prima di un colpo di tosse incontrollato, irrigidimento muscolare).

Secondo il DSM-IV-TR la diagnosi di sindrome di Tourette è attribuibile a soggetti che:
– In una certa fase manifestano, anche se non necessariamente in maniera contemporanea, sia tic motori multipli che uno o più tic sonori;
– Manifestano la sintomatologia ticcosa (attacchi) più volte al giorno, quasi ogni giorno, oppure in maniera ininterrotta per un certo periodo nell’arco di un anno, durante il quale non devono essere assenti per un periodo superiore a 3 mesi consecutivi;
– Presentano un’insorgenza di questi sintomi prima dei 18 anni.
– Il disturbo non deve essere attribuibile agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (es. stimolanti) o di una patologia medica (es. malattia di Huntington, encefalite postvirale).

E’ bene notare che la sintomatologia ticcosa non ha una forma invariata e stabile, ma può subire delle oscillazioni per quanto riguarda la gravità e frequenza; può, per esempio, manifestarsi con tic nuovi, più o meno complessi a seguito di un’apparente interruzione.
I tic si manifestano tipicamente intorno agli 8 anni e raggiugono la massima frequenza e gravità negli anni della pre-adolescenza. Per il 50% dei casi la sintomatologia scompare del tutto con il raggiungimento della maggiore età. Tale regressione sintomatica potrebbe essere attribuita ad una progressiva innervazione nigro-striatale del cervello degli adolescenti in fase di crescita. Ciò sposterebbe l’interesse relativo all’insorgenza della malattia su aspetti di disfunzionalità neurologica.

Più del 50% della popolazione affetta da sindrome di Tourette presenta un’altra patologia psichiatrica associata, più frequentemente un disturbo da deficit di attenzione/iperattività o un disturbo ossessivo-compulsivo (quando il bambino raggiunge i 7 anni di età circa). Stati di ansia, depressione e problemi comportamentali possono influire sulla sintomatologia aggravandola e possono essere altamente invalidanti tanto quanti i tic stessi. I tic e l’eventuale patologia associata possono ostacolare il rendimento scolastico e possono portare all’assunzione di un comportamento disfunzionale. Non è assente la possibilità di riscontare una sorta di ritiro sociale da parte dei bambini affetti da sindrome di Tourette, in primo luogo a causa del feedback negativo che ricevono dall’ambiente esterno e soprattutto dal gruppo di pari.

Comorbilità nella Sindrome di Tourette

Diversi studi forniscono un sostegno empirico all’idea della presenza di associazioni tra Sindrome di Tourette e altri disturbi. In una ricerca proposta da Hirschtritt M.E. et al. si evince che su un campione di 1374 soggetti affetti da sindrome di Tourette e 1142 soggetti con familiari affetti da TS, circa il 72% soddisfano anche i criteri per il disturbo ossessivo-compulsivo (OCD) e per il disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività (ADHD). I dati da essi riportati, fanno emergere anche la presenza di disturbi dell’umore e comportamento disfunzionale nel 30% dei soggetti. Gli stessi autori arrivano alla conclusione che, già nei primi esordi della malattia, tra i 4 e i 10 anni (fatta eccezione di disturbi alimentari e abuso di sostanze che hanno un esordio più tardivo, in soggetti adolescenti tra i 15 e i 19 anni) il rischio di comorbilità, soprattutto rispetto a queste due patologie, è molto alto e persistente. Non solo, ma la presenza di altri disturbi, da quelli dell’umore all’abuso di sostanze è fortemente incrementata dalla presenza di uno dei due disturbi. In ultima analisi, gli autori sostengono che la sindrome di Tourette, il disturbo ossessivo-compulsivo e/o il deficit dell’attenzione/iperattività, possono essere geneticamente determinate e quindi biologicamente in relazione tra loro.

La Sindrome di Tourette e il Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Il disturbo ossessivo-compulsivo è una condizione patologica caratterizzata da due fenomeni principali: l’ossessione e la compulsione. Nella maggior parte dei soggetti affetti da tale disturbo questi due aspetti sono simultaneamente presenti e si legano tra loro in maniera logica, ma disfunzionale. Sia l’ossessione che la compulsione sono strettamente legati all’ansia e al senso di controllo. L’ossessione si traduce in pensieri persistenti che nascono da timori privi di reale fondamento e si intromettono in maniera improvvisa nella mente del soggetto. Il bisogno di eliminare l’ansia eccessiva e di controllare tutto si traduce nella ricerca di precisione, di simmetria, di uniformità, di pulizia, di eccessivo interesse per le regole. L’ossessione è così presente e insistente che l’attività cognitiva subisce un evidente rallentamento.
Se l’ossessione riguarda il pensiero, la compulsione, invece, è più orientata all’azione. Si parla di comportamento compulsivo quando si evince l’esistenza abituale di rituali irrazionali messi in atto nel tentativo (ovviamente inefficace) di controllare e neutralizzare l’ansia causata dalle ossessioni.

La diagnosi di Disturbo ossessivo-compulsivo proposta dal DSM-VI-TR propone dei criteri sia per indagare la presenza di ossessività (es. presenza di pensieri o immagini ricorrenti e ansiogeni, intrusivi, indesiderati e inappropriati rispetto al contesto; tentativo di ignorare, sopprimere o neutralizzare con altre azioni ripetute tali pensieri, immagini e impulsi ossessivi causa di sofferenza) sia per indagare la presenza di compulsività (es. comportamenti ritualizzati o atti mentali che la persona è obbligata a mettere in atto in risposta a un’ossessione o nell’ambito di regole che devono essere applicate rigidamente).

La presenza copiosa di tic motori e fonatori tipici della Sindrome di Tourette non sono l’unica manifestazione della patologia. Nella maggioranza dei pazienti persiste un’incapacità più o meno marcata di orientare e focalizzare l’attenzione per un determinato periodo di tempo e in maniera costante. Tale difficoltà non è determinata soltanto da un coesistente disturbo ADHD, ma soprattutto dalla presenza intollerabile di idee e fissazioni ossessive riguardo taluni argomenti o oggetti. Chi soffre di questa sindrome è costantemente indaffarato e concentrato al fine di controllare e addirittura sopprimere i tic e le sensazione che ne predicono l’arrivo. Appare quindi evidente come i disordini ossessivo-compulsivi fanno parte dello spettro di manifestazione comportamentale della sindrome di Tourette. Si evince da quanto appena detto, che la linea di separazione tra i due disturbi, la sindrome di Tourette e il disturbo ossessivo-compulsivo, è molto sottile e spesso sovrapponibile.

All’interno di uno studio proposto da Lebowitz et al. (2012), è dimostrato come su 158 pazienti affetti da sindrome di Tourette, il 53,8% (85 soggetti) soddisfa anche i criteri per l’OCD. In pazienti in cui le due patologie coesistono in maniera associata si possono riscontrare sintomi di ansia e perdita di controllo a causa del costante timore di dire o fare qualcosa di inappropriato agli occhi degli altri. Le ossessioni sono caratterizzate dal fatto che non presentano una finalità specifica e sono ripetitive (es. lavaggio delle mani, conteggio degli oggetti). Come sostengono gli stessi autori, i giovani che manifestano una co-presenza di entrambe le patologie si caratterizzano per tic più gravi e invalidanti, un aumento dei sintomi ansiosi e depressivi, un più alto livello di stress patologico e un funzionamento globale povero.

I sintomi che caratterizzano l’ OCD ad oggi sono considerati come una condizione multidimensionale che può assumere la connotazione di un vero e proprio disordine primitivo, di origine idiopatica o familiare, oppure una condizione coesistente alla sindrome di Tourette, che ne arricchisce negativamente il quadro patologico e ne aggrava la pervasività.
La maggior parte degli studi si mostrano concordi nell’affermare che il disturbo ossessivo-compulsivo sia una parte integrante della complessa manifestazione sintomatologica della sindrome di Tourette. Ci sono, inoltre, numerose evidenze che dimostrano che i due disturbi sono anche geneticamente correlati.

Sindrome P.A.N.D.A.S., sindrome di Tourette e disturbo ossessivo compulsivo: analogie e differenze

L’acronimo P.A.N.D.A.S (Pediatric Autoimmune Neuropsychiatric Disorder associated with Streptococcal infections) è una malattia autoimmune che è stata descritta in bambini e adolescenti con diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo, di anoressia nervosa e/o sintomatologia ticcosa insorti dopo un’infezione da streptococco. La presenza di tic e di disturbi dello spettro ossessivo compulsivo e l’esordio in età pre-puberale creano delle difficoltà nel distinguere la sindrome PANDAS dalla TS e dal OCD. In realtà, a livello eziologico, nonostante le evidenti somiglianze elencate precedentemente, la sindrome PANDAS è generata da un’infezione batteriologica. Nello specifico, per circa il 20-30% dei pazienti, il fattore scatenante è rappresentato dalla risposta errata che le cellule immunitarie dell’organismo danno alle cellule B o ai gangli di base (stessa area cerebrale di interesse per quanto riguarda l’eziologia della TS e del OCD) quando entrano in contatto con lo streptococco. Va sottolineato che la relazione tra infezione da streptococco e comparsa di sintomi ossessivo-compulsivi non è così lineare e diretta: soggetti geneticamente predisposti a questo disordine possono manifestare i sintomi sia in seguito al primo episodio di infezione, sia in episodi successivi.

Inizialmente tutti i casi di bambini affetti da sindrome di PANDAS che manifestavano sintomi tipici della sindrome di Tourette e/o del disturbo ossessivo-compulsivo venivano diagnosticati come tali. In realtà le differenze tra PANDAS e sindrome di tourette, oltre che rintracciabili nella presenza o meno di un’infezione batterica, si manifestano anche nella sintomatologia ticcosa. I bambini affetti da Tourette presentano tic più invasivi e numerosi e la presenza di fenomeni quali l’ecolalia, assenti nei soggetti affetti da sindrome PANDAS. In quest’ultimo caso sarebbe più corretto associare la presenza di tic a tremori, contrazioni, goffaggine, smorfie, ipersensibilità al tocco e ai vestiti.

Altre differenze, seppur sottili, sono riscontrabili nella manifestazione sintomatologica ossessivo compulsiva.
Mentre nel quadro OCD puro i sintomi hanno un esordio graduale (spesso possono essere presenti da un anno prima di diventare problematici), i sintomi associati alla sindrome PANDAS hanno un esordio improvviso e rapido, anche da un giorno all’altro.
L’andamento della sintomatologia ossessivo-compulsiva nel PANDAS è soggetto a oscillazioni con picchi e crolli, a seguito della variabile numerosità di anticorpi in circolo, a differenza di dell’ OCD che ha un’oscillazione moderata o quasi assente.

Appare chiaro come, nonostante le patologie presentino delle caratteristiche simili e siano in qualche modo molto vicine dal punto di vista biologico, rispondono in maniera differente alle terapie proposte. Un trattamento psicoterapeutico e farmacologico ha buoni livelli di efficacia per la sindrome di Tourette, ma non per la sindrome PANDAS; al contrario l’utilizzo tempestivo di cicli di antibiotici comporta la remissione dei sintomi causati dall’infezione, ma non ha alcun effetto sui bambini affetti da TS.

Al fine di intervenire tempestivamente con un trattamento antibiotico e cortisonico che porta alla remissione dei sintomi ed evitare l’utilizzo di lunghi trattamenti inefficaci e spesso causa di cronicizzazione dei disturbi, è utile indagare l’origine dei sintomi e la possibile concomitanza con stati infettivi. E’ altamente consigliabile, quindi, controllare la presenza o meno di un’infezione da streptococco (o simili) in corso nel momento in cui si fa diagnosi di Sindrome di Tourette o di Disturbo ossessivo-compulsivo.

In tempi recenti, si è visto come questo tipo di quadro clinico non fosse conseguente unicamente a un’infezione da streptococco, ma anche ad altri tipi di infezione come quella da Erpes o da mycoplasma (si parlerebbe di sindrome di PANS). In questi casi alternativi il trattamento con soli antibiotici potrebbe non essere del tutto efficace, è utile intervenire anche con immunostimolanti o con i cicli di magnesio e di complessi multivitaminici.

L’utilizzo dei farmaci nella psicosi post-partum

Secondo una recente review della Northwestern Medicine sulle donne in gravidanza che soffrono di Disturbo Bipolare, le loro famiglie ed i medici dovrebbero essere a conoscenza del fatto che esiste un rischio significativamente elevato di sviluppare psicosi post-partum.

 

In accordo con la Northwestern Medicine, la Stanford University e l’Erasmus Medical Center in Olanda nella review viene evidenziato come la maggior parte delle psicosi post-partum derivino quasi sempre dalla presenza di un Disturbo Bipolare, ma purtroppo a tal proposito vi è una forte assenza di materiale di ricerca, dovuta in particolar modo alla mancata disponibilità di campioni da testare.

 

Psicosi post-partum e litio: effetti sull’allattamento

Oltre alla scarsa divulgazione di informazioni ad aggravare il problema vi è il fatto che i medici sono restii a prescrivere il Litio alle madri che allattano, in quanto vi è il timore che il farmaco possa avere un impatto negativo sul bambino.

Tuttavia, in uno studio che ha osservato madri trattate con Litio e i loro bambini allattati al seno è stato osservato che in realtà questi ultimi non subivano effetti negativi di alcun genere. Di fondamentale importanza sarebbe approfondire tale questione, in quanto il Litio è uno dei farmaci più efficaci e ad azione rapida per il trattamento della psicosi post-partum.

Secondo la review una diagnosi tempestiva affiancata alla consapevolezza che la psicosi post-partum sia curabile può impedire che si sfoci nella tragedia. Purtroppo l’interesse e l’adeguata informazione di tale patologia riguarda solo 1 o 2 madri su 1000. Se affianchiamo questo dato alla mancanza di ricerca, spesso effettuare una diagnosi risulta veramente molto difficile.

Il senso comune della gente porta spesso a pensare che quando una donna è incinta non è autorizzata ad avere autonomia sul proprio corpo, in quanto quello che succede alla madre succede anche al feto. Ma in realtà avere una mamma mentalmente sana è di fondamentale importanza per il corretto sviluppo del bambino – ha dichiarato Wisner – Là dove queste errate credenze vengono a mancare e alle donne è stata data la possibilità di prescrivere il Litio, sono state riscontrate buone risposte al trattamento.

 

Differenza tra psicosi post-partum e depressione post-partum

È importante che la psicosi post-partum non venga confusa con la depressione post-partum. Le donne che soffrono di depressione post-partum presentano sintomi che possono includere la stanchezza, l’ansia e pensieri ossessivi che spesso riguardano il timore di mettere in pericolo il proprio figlio (ad es. E se affogo il bambino nella vasca da bagno?). La differenza fondamentale è che in questo caso siamo in assenza di sintomi come allucinazioni e deliri che sono invece caratteristici della psicosi. Un’insorgenza di psicosi post-partum acuta è molto grave, in quanto le donne si trovano improvvisamente in uno stato disorganizzato e confuso, quasi come fossero in una sorta di delirio. Alcune pazienti presentano illusioni riguardanti una forza oscura o esterna che le porta a voler danneggiare il loro bambino.

 

Il ruolo dei medici

Un altro dato importante che è emerso riguarda il ruolo dei medici, i quali dovrebbero distinguere i trattamenti in base a due tipi di donne che sviluppano la psicosi post-partum: coloro che presentano episodi solo dopo il parto e coloro che hanno alterazioni dell’umore croniche sia durante che dopo la gravidanza.

Per le donne che sviluppano episodi solo dopo il parto Wesner sostiene l’importanza di fornire immediatamente il farmaco per impedire il formarsi di una psicosi grave. Alle donne che invece soffrono di Disturbo Bipolare cronico è necessario prescrivere il farmaco durante la gravidanza, è però fondamentale che il medico effettui continui controlli e che ne regoli i dosaggi di frequente per regolare i cambiamenti metabolici.

Infine la review richiama l’attenzione sulla mancata esistenza di servizi sanitari che prevedono la cura congiunta della madre e del bambino negli ospedali psichiatrici negli Stati Uniti. Negli ospedali di altri paesi esiste un’unità di ammissione comune in cui vengono ammesse sia le madri che i bambini, dove inoltre gli altri componenti della famiglia possono fare visita. Negli Stati Uniti, invece, le madri vengono ricoverate in un ospedale psichiatrico, dove non è consentita la visita dei bambini, rendendo così impossibile l’allattamento e non fornendo a queste donne la possibilità di prendersi cura del proprio figlio durante il periodo di recupero.

 

Esperienze dallo Standupificio: disoccupazione e vergogna

Standupificio è un progetto di intervento psicoeducativo rivolto a persone che hanno perso il lavoro o che, pur avendone uno, versano in una condizione di disagio lavorativo. Ha lo scopo di trasferire strumenti semplici di autoaiuto che possano permettere alle persone – come suggerisce il nome la cui radice rimanda all’inglese “to stand up”- di rialzarsi e di ricominciare da sé, soprattutto nella possibilità che il reinserimento nel mondo del lavoro possa tardare a venire.

 

Ideato dall’Associazione Dentro un quadro, Standupificio è stato lanciato in via sperimentale il 30 novembre 2015 con il supporto logistico e il patrocinio del Comune di Milano. Oggi è diventato un appuntamento mensile in seno al progetto Artepassante, un progetto finanziato da Fondazione Cariplo, grazie all’Associazione capofila Le Belle Arti che ha manifestato la sensibilità al tema del disagio legato al lavoro.
Nel corso degli appuntamenti di Standupificio, vengono anche raccolti dati ai fini di ricerca.

10 giugno 2016, un venerdì.

Dal mattino presto, ci troviamo al Passante ferroviario della Stazione Vittoria a Milano. Allestiamo lo spazio che ci è stato concesso dall’associazione Le Belle Arti, capofila del progetto Artepassante, per Standupificio.
Con Standupificio, che l’Associazione Dentro un quadro ha promosso per trasferire strumenti semplici di autoaiuto ai cittadini che versano in una condizione di disagio per via del lavoro, offriamo un percorso psicoeducativo individuale gratuito a tutti coloro che ne fanno richiesta per email. Abbiamo la nostra agenda, sappiamo chi arriverà nel corso della giornata.

Tiriamo dunque fuori sagome di cartone, mollette per i panni, corde. Spostiamo sedie, divani, tavoli. Esponiamo cartelli all’ingresso con la scritta “Standupificio. Dove io ricomincio da me”. E già lì, in quei minuti che precedono l’apertura della giornata, qualcuno di noi la nota: una donna ben vestita, non appariscente ma sicuramente non sciatta, di mezza età, ci osserva dai tornelli della metro a più riprese.
Sarà solo nel pomeriggio che capiremo, quando cioè accompagnata da un’amica troverà il suo modo per entrare nello Standupificio e presentarsi: “Sono disoccupata. Non mi sono prenotata… Posso fare lo stesso il percorso?”

Diamo a questa donna il nome di Sara. Spiegherà al terapeuta con cui fa il percorso che è lì dalla mattina ma che per troppa vergogna non è riuscita, se non grazie all’intervento dell’amica, a farsi avanti.

Castelfranchi definisce la vergogna come un tipo particolare di “dispiacere” legato all’autoconsapevolezza circa la compromissione della propria immagine agli occhi degli altri. La vergogna origina da un senso sgradevole di nudità che può investire qualcosa che si è fatto o quello che si è, ciò che si pensa o ciò che si prova, il proprio corpo, o ancora ciò che si possiede o che non si possiede. Un aspetto centrale, sottolineato da Castelfranchi nell’eziologia di questa emozione, consiste nell’importanza del contesto sociale e dei criteri di valore al suo interno condivisi: il proprio sentirsi adeguati è profondamente influenzato da cosa all’interno del contesto di riferimento viene ritenuto tale e che, una volta disatteso e qualora “visto” dagli altri membri, può causare un vissuto di vergogna.

Chi si vergogna arrossisce, abbassa lo sguardo e la testa, “si ingobbisce”, “si fa più piccolo”: questi rappresentano segnali comunicativi, spesso non intenzionali, attraverso i quali è come se il soggetto si scusasse della propria inadeguatezza, rinnovando in questo modo la condivisione dei valori riconosciuti nel contesto sociale ed esprimendo il desiderio di continuare a farne parte. Fra l’altro, ciò di cui ci si vergogna non necessariamente deve riguardare un’azione o una proprietà reale della persona: è sufficiente che un fatto sia correlato a una valutazione negativa – anche solo immaginata – che si ha paura di dover subìre per le ricadute inevitabili sulla stima di sé. È proprio per evitare di provare vergogna, infatti, che spesso si fa o non si fa qualcosa.

Lo stesso è successo a Sara, che è rimasta l’intera mattina ad osservarci, decidendo di non entrare nello Standupificio se non nel pomeriggio, trascinata da un’amica: “Non ho un lavoro, mi hanno lasciata a casa… – spiegherà – mi sento una sfigata, mi chiedo sempre dove ho sbagliato. E’ da mesi che rispondo a tutti gli annunci che trovo, mando curriculum, ma sono ancora qua! Mi chiedo cosa ho che non va. Chissà gli altri cosa pensano di me…”
Ecco. La vergogna e i suoi effetti.

Standupificio è stato lanciato il 30 novembre 2015 in Casa dei Diritti, messa a disposizione gratuitamente dal Comune di Milano che ha sostenuto l’iniziativa concedendo anche il Patrocinio. Oggi è diventato un appuntamento mensile e Sara è solo una delle persone disoccupate che abbiamo avuto il piacere di incontrare. Ripensando non solo a Sara ma anche alla maggioranza delle persone che finora hanno preso parte ai percorsi, la vergogna risulta essere un’emozione molto diffusa fra chi versa da tempo in una condizione di disoccupazione. Questo non può che far (anche) sorridere (amaramente): se, come dicevamo poco sopra, nell’eziologia della vergogna c’entra e non poco il senso di adeguatezza rispetto al contesto sociale di riferimento, non si può che constatare che l’avere o non avere un lavoro e la sua importanza nei processi di definizione di Sè cominci – in una fase socioeconomica drammatica come quella che da anni stiamo vivendo – a remarci contro in termini di benessere fisico e psichico.

Sara non lavora da quasi tre anni. Durante la seconda parte del percorso psicoeducativo ha attraversato alcuni momenti di commozione quando ha condiviso con il terapeuta alcune delle riflessioni che aveva maturato negli ultimi tempi. Durante il percorso non ha dato parola a nulla che, in fondo, non sapesse già, ma mettere in ordine le sue riflessioni per un momento le ha fatto dire “è per questo che questa mattina non riuscivo ad entrare…”, trovando da sé le ragioni sottese alla sua tentata fuga.

Nel tempo, molto prima di restare disoccupata, Sara aveva iniziato a pensare che il suo valore come persona fosse dovuto al lavoro che svolgeva, e non a caso si è accorta di come anche da questo traesse la motivazione a dedicarsi anima e corpo alla sua professione. Per questo l’ultimo momento del percorso è stato dedicato a scrivere un appunto da portare a casa, una “perla bianca” da rileggere e pensare nei momenti in cui, come in quella giornata, le capiterà di vergognarsi e di non riuscire a fare quanto desidera senza aver ben chiara la ragione dei suoi blocchi: “Anche se nel mio lavoro vorrei essere sempre capace e meritevole, a volte, come tutti, mi capita di sbagliare. E anche se in questo momento non riesco a trovare un lavoro non significa che sono una fallita… voglio iniziare a pensare di avere valore anche se a volte fallisco, voglio provare lo stesso…”

Al termine del nostro breve percorso, Sara era disoccupata come quando era entrata in Standupificio: nè più, nè meno. Con il terapeuta ha però posto i primi passi per guardare in una direzione più utile per affrontare il problema del lavoro che ancora oggi, nonostante anni di ricerche, non c’è.
Speriamo che Sara torni a darci buone notizie nei nostri prossimi incontri. I partecipanti, infatti, possono sempre tornare a trovarci in una delle nostre date e ritagliarsi un momento per aggiornare su come vanno le cose.

Il percorso per ricominciare da se stessi è lungo. Ma anche i percorsi più lunghi, in fondo, iniziano da un primo passo.

Donne serial Killer: profilo psicologico e differenze di genere

La criminologia è unanime nel considerare come tratto qualificante per un serial killer maschio il movente sessuale (componente sadica), mentre per ciò che concerne l’universo femminile la questione si fa più complessa. L’aspetto sessuale non appare infatti preminente: il minor grado di aggressività sadica nelle donne deriva sia da una minore predisposizione biologica (livelli più bassi di testosterone) sia dalle influenze culturali che scoraggiano le manifestazioni di aggressività.

Definizione di serial killer

Secondo la definizione ufficiale fornita dall’FBI nel Crime Classification Manual si definisce Serial Killer colui che [blockquote style=”1″]uccide tre o più vittime, in luoghi diversi e con un periodo di intervallo emotivo tra un omicidio e l’altro, coinvolgendo, in ciascun evento delittuoso, più di una vittima[/blockquote] (Douglas & coll. 1997).

In realtà Autori come De Luca (2001) hanno proposto una definizione più ampia ed esaustiva, intendendo l’assassino seriale come un soggetto che mette in atto personalmente due o più azioni omicidiarie separate tra loro, mostrando una chiara volontà di uccidere, anche se poi gli omicidi non si compiono effettivamente (citato in L’altro diritto, 2016).

I due elementi centrali in tale prospettiva sono la “ripetitività dell’azione omicidiaria”, che stabilisce un circuito ripetitivo patologico, e l’importanza dell’intenzione, a prescindere dalla reale commissione del delitto. La ripetitività dei delitti sottende una logica interna, una componente psicologica interna al soggetto che lo spinge alla reiterazione del comportamento omicidiario: ciò implica che l’azione omicida avviene sotto la spinta di schemi che l’assassino si costruisce nella sua mente, derivanti da esperienze traumatiche infantili. Si tratta di azioni eseguite secondo criteri costanti che riguardano aspetti quali la modalità di esecuzione del delitto e le caratteristiche della vittima, secondo un rituale ossessivo che concorre a delineare la “firma” di quel serial killer.

Donne serial killer: il profilo psicologico

Entrare nella mente di un serial killer significa fondamentalmente scandagliare i temi legati al movente del delitto, alle modalità e armi specifiche di aggressione e/o alle vittime che abbiano dei tratti distintivi, collegandoli alle storie infantili alla base della scelta omicidiaria.
Per esempio, la criminologia è unanime nel considerare come tratto qualificante per un serial killer maschio il movente sessuale (componente sadica), mentre per ciò che concerne l’universo femminile la questione si fa più complessa. L’aspetto sessuale non appare infatti preminente: il minor grado di aggressività sadica nelle donne deriva sia da una minore predisposizione biologica (livelli più bassi di testosterone) sia dalle influenze culturali che scoraggiano le manifestazioni di aggressività (L’altro diritto, 2016).

Al di là del movente sessuale svariate possono, però, essere le spinte emotive utili a mettere in atto l’azione criminale: denaro, gelosia, vendetta, potere o dominio. È proprio in questa cerchia di motivazioni che può essere ricondotta la causa scatenante del comportamento omicidiario seriale femminile. Per esempio, la vedova nera uccide al fine di impossessarsi dei beni della vittima, oppure incassare i premi assicurativi previsti, utilizzando il veleno, con lo scopo di indurre sintomi simili a quelli di malattie note. Quali sono le caratteristiche psicologiche ascrivibili a queste donne e quale ruolo hanno le esperienze infantili nell’esito evolutivo criminale?

E’ sbagliato pensare che si tratti di donne eccentriche o dalla cattiva fama presso amici e conoscenti; si tratta piuttosto di donne e madri di famiglia che, almeno all’apparenza, svolgono lavori del tutto normali che le rendono praticamente insospettabili (casalinga, infermiera, cameriera).
Donne che riscuotono simpatia presso i conoscenti perché appaiono affabili, affidabili, dal volto rassicurante; che, con grande perizia, riescono a creare un clima di confidenzialità e intimità con la vittima, scelta per la sua vulnerabilità, tra deboli o emarginati, in particolare donne e bambini.
Una facciata che nasconde la vera personalità, fredda, cinica, incapace di empatia, manipolatrice, e l’unica intenzione che guida i piani di annientamento delle vittime, ovvero quella di riprendersi una rivincita sulla vita, esprimere la propria superiorità e diventare celebri (L’altro diritto, 2016).

Non si tratta di normali cittadine, vicine della porta accanto che, all’improvviso, una mattina si svegliano e decidono di cominciare a uccidere. Il comportamento di una donna killer è frutto di una storia di esperienze traumatiche iniziate nella più tenera età e proseguite negli anni. E’ intorno al trauma che si costruisce la struttura della personalità del futuro killer.

La maggior parte di esse cresce in famiglie multiproblematiche, riportando quasi sempre una qualche forma di abuso durante l’infanzia. Bambine che perdono uno o entrambi i genitori o costrette a vivere in un ambiente ostile; lo stress derivante dalle oggettive condizioni di disagio, unito all’immaturità delle difese, conduce facilmente le future assassine all’isolamento dalla società, percepita come ostile e da cui “riscattarsi”, sottomettendo a propria discrezione tutto e tutti. In tutte le assassine seriali è comune la percezione della propria esistenza come negativa e degradata, e la presenza di forti sensi di inferiorità fisica e psichica, sociale e sessuale, che vengono compensati con un forte narcisismo (Lucarelli e Picozzi, 2003).

La storia di Leonarda Cianciulli

Emblematica è la storia di una delle più spietate Serial killer italiane, Leonarda Cianciulli, nota come la Saponificatrice di Correggio. Figlia indesiderata fin dalla nascita (la madre era rimasta incinta all’età di quattordici anni e obbligata a sposare il suo rapitore e violentatore), debole e malaticcia, trascorre un’infanzia triste e solitaria che passa chiacchierando con amici immaginari, mentre viene tenuta in disparte ed evitata perfino dai fratelli. Sopraffatta dai contrasti con la madre e da diciassette gravidanze (e dieci figli morti in tenera età) e dalle precarie condizioni economiche, ma soprattutto dal timore di perdere i figli rimasti, vedrà nel sacrificio di vite umane innocenti l’unico modo per allontanare la paura della morte dei figli adorati (Balloni, Bisi, & Monti, 2010).

Storie di infanzie di deprivazione e miseria, comuni tanto a uomini che donne criminali; accanto a tali somiglianze, tante però sono le differenze sostanziali, analizzabili secondo i criteri di tempistica, modalità di azione e scelta dell’arma e tipologia delle vittime (Serial Killers, 2016), oltre a quello relativo al movente, già citato.

Differenze di genere

  • Tempistica. La prima profonda differenza tra il binomio uomo-donna serial killer consiste nei tempi. La donna comincia a uccidere tra i trenta e i quarant’anni, circa un decennio più tardi del suo “collega” maschile. A differenza del maschio però la sua “vita criminale” è lunga il doppio, con un tempo medio di attività che si aggira intorno agli otto anni prima di essere arrestata.
  • Modalità di azione e scelta dell’arma. Una sostanziale differenza tra l’agire dell’uomo e della donna consiste nel mezzo utilizzato. L’uomo tende alla ricerca del contatto fisico con la vittima e alla partecipazione attiva all’uccisione (strangolamento, accoltellamento); come osserva Lunde (1975) l’uomo preferisce di gran lunga la sadica eccitazione derivante dal torturare, sezionare, mutilare e massacrare, in coerenza con il tipico movente sessuale maschile (citato in L’altro diritto, 2016). Le donne, invece, prediligono modalità meno fisiche, con l’utilizzo del veleno (arsenico, stricnina e clorato di potassio) e, al limite, lo strangolamento. Il veleno offre infatti vari vantaggi: è un’arma discreta, silenziosa, che, se usata bene, non lascia tracce e permette di far passare la morte della vittima come naturale. Se agiscono in contesti come gli ospedali (come gli angeli della morte) invece queste donne preferiranno l’iniezione di sostanze letali, attività di routine ospedaliera destinata, pertanto, a passare inosservata. In apparenza la scelta di armi soft può far credere che il “gentil sesso” sia meno spietato rispetto al corrispettivo maschile: tuttavia si deve sottolineare quanto più sadico ed efferato possa essere un omicidio in cui si assiste alla morte lenta di una persona cara, in preda a sofferenze prolungate e lancinanti causate, per esempio, dagli effetti lenti del veleno. Esistono comunque eccezioni, con l’utilizzo di modalità cruente di azione: Leonarda Cianciulli utilizzava i pezzi di corpi delle donne appena uccise per fabbricarne saponette e dolcetti da offrire agli ospiti (Balloni, Bisi, & Monti, 2010). Tra le “armi” della donna serial killer (non meno temibili di quelle prima elencate) si ricordano la seduzione e l’astuzia (capacità di gran lunga superiori rispetto agli uomini), che si trasformano in spietatezza e glacialità nell’approssimarsi al delitto e che aiutano nella costruzione di alibi pressoché inattaccabili, nella fase successiva al delitto.
  • Tipologia della vittima. Le tipiche vittime delle donne serial killer intrattengono con loro un qualche tipo di rapporto e quasi sempre appartengono allo stesso ambito familiare. Come osserva De Pasquali (2002), tra i familiari, il marito è il bersaglio più frequente, mentre gli estranei sono scelti tra i più deboli e indifesi. Inoltre le vittime vengono individuate e uccise “sul posto”, con modalità sedentarie (nella stessa casa dell’assassina o altri luoghi chiusi), fatto riconducibile alla scarsa mobilità nel territorio da parte della serial killer donna e alla strategia tipica di attirare le prede nella propria tana, conosciuta in criminologia come “tecnica del ragno”.

Perché le diete non funzionano? L’effetto iatrogeno della restrizione cognitiva

Un individuo segue una dieta dimagrante non appena esercita un controllo di ordine cognitivo sul proprio comportamento alimentare con l’obiettivo di dimagrire o di non ingrassare. L’individuo si nutre quindi con una modalità riflessiva. Si fida di credenze che definiscono le condotte alimentari maggiormente adatte al suo progetto di dimagrimento. Tali credenze riguardano le quantità di alimenti da consumare, la loro composizione, gli abbinamenti autorizzati, i metodi di cottura e di condimento, gli orari e le modalità di consumo.

Anne Galles, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Alcuni dati a supporto della condanna categorica delle diete dimagranti

[blockquote style=”1″]L’inefficacia e la iatrogenicità delle diete dimagranti dovrebbero portare a una tutela della popolazione, all’abbandono definitivo di tali pratiche da parte dei medici – o per lo meno alla loro sospensione – nell’attesa di avere dati integrativi. Converrebbe quindi orientarsi verso altri metodi per trattare i problemi ponderali[/blockquote] (Apfeldorfer & Zermati, 2007).

Per illustrare questa sentenza perentoria, gli autori citano lo studio di Stunkard e McLaren-Hume, già nel lontano 1959, che dimostra che soltanto il 5% delle persone che seguono una dieta dimagrante riesce a perdere peso senza poi riprenderlo (Apfeldorfer & Zermati, 2001).
I dati più recenti non sono maggiormente incoraggianti (Zermati & Apfeldorfer, 2010):
la metanalisi di Anderson (2001) relativa a ventinove trattamenti dimagranti dimostra che la perdita di peso di soggetti il cui peso medio è di cento chili, non supera i tre chili a cinque anni dall’inizio della dieta;
lo studio di Phelan (2003) coinvolge 2400 soggetti e conclude che il 94% delle persone che hanno perso peso l’hanno riacquistato interamente dopo due anni.

Come spiegare quindi il paradossale e sfrenato entusiasmo per i trattamenti dimagranti? Le diete sono inefficaci nella gestione dei problemi ponderali eppure non sono mai state così popolari: [blockquote style=”1″]lo spostamento dei canoni sociali verso un fisico snello ha generato un aumento della prevalenza delle diete e questo ha fatto sì che il pattern alimentare “normale” per la donna nord-americana sia proprio essere a dieta[/blockquote] (Polivy & Herman, 1987)

Cos’è una dieta dimagrante?

Per capire cosa intendiamo con il termine dieta dobbiamo prima definire cos’è un comportamento alimentare normale o fisiologico. Esso è caratterizzato da tre criteri (Apfeldorfer & Zermati, 2007):
– Il comportamento alimentare è un comportamento controllato: le teorie della regolazione fisiologica fanno dipendere il comportamento alimentare da circuiti omeostatici la cui funzione è assicurare la stabilità di alcuni valori biologici (massa grassa, nutrimenti e micronutrienti). Nel caso della massa grassa, l’omeostasi si traduce concretamente in un peso stabile o set point. Ogni scarto rispetto al set point si esprime in un fabbisogno che provocherà la ricerca e l’assimilazione degli alimenti che porteranno l’energia o dei nutrimenti che colmeranno il fabbisogno.
– Il comportamento alimentare è un comportamento motivato: le informazioni sulla variazione delle riserve energetiche raggiungono il cervello tramite la variazione delle concentrazioni di leptina e di glucosio nel sangue. Tali informazioni giungono alla coscienza sotto forma di sensazioni alimentari: la comparsa, la diminuzione e la scomparsa del fabbisogno energetico prenderanno successivamente la forma di sensazioni di fame, di appagamento e di sazietà. Le informazioni relative ai fabbisogni di micronutrienti si traducono in appetiti specifici: la loro comparsa e la loro scomparsa attivano aree emotive del cervello e l’atto di colmare il fabbisogno si esprime attraverso la soddisfazione.
– Il comportamento alimentare è un comportamento sensato ovvero gli alimenti e le modalità per consumarli sono supportati da rappresentazioni mentali legate alla cultura o alla storia di vita che contribuiscono al sentimento di sicurezza nel quale si dovrebbe collocare l’atto alimentare.

Come possiamo quindi definire una dieta? Dal suo carattere ipocalorico? Dal fatto che precluda alcuni alimenti vietati? Dalla frustrazione generata? Queste caratteristiche appaiono parziali e non esaustive. Secondo gli autori, [blockquote style=”1″]un individuo segue una dieta dimagrante non appena esercita un controllo di ordine cognitivo sul proprio comportamento alimentare con l’obiettivo di dimagrire o di non ingrassare. L’individuo si nutre quindi con una modalità riflessiva. Si fida di credenze che definiscono le condotte alimentari maggiormente adatte al suo progetto di dimagrimento. Tali credenze riguardano le quantità di alimenti da consumare, la loro composizione, gli abbinamenti autorizzati, i metodi di cottura e di condimento, gli orari e le modalità di consumo.[/blockquote]

Assistiamo quindi a uno spostamento da una teoria psicogena del sovrappeso, ormai superata, verso un ruolo preponderante delle conseguenze degli sforzi per dimagrire: le caratteristiche psicologiche delle persone in sovrappeso non sarebbero dei tratti personologici ma sarebbero dovute al fatto che questi individui tentano di rimanere al di sotto al proprio peso forma o set point lottando costantemente contro i meccanismi di regolazione biologica. Questo fenomeno farebbe nascere negli individui stati mentali paragonabili a quelli delle persone in stato di deprivazione alimentare come l’iperfocalizzazione sul cibo, la difficoltà di concentrazione, l’irritabilità e l’iperemotività.

La teoria della restrizione cognitiva per spiegare l’inefficacia delle diete

I dati sull’inefficacia delle diete si spiegano quindi come la sconfitta ineluttabile di un controllo cognitivo del comportamento alimentare nel medio e lungo termine. Si parla di restrizione cognitiva per indicare non uno bensì due stati che si alternano a un ritmo variabile:
uno stato di ipercontrollo durante il quale l’individuo inibisce le proprie sensazioni alimentari e padroneggia il proprio comportamento alimentare;
uno stato di disinibizione e perdita di controllo sotto forma di compulsioni e abbuffate.

La sperimentazione storica di Herman e Mack (1975) illustra questo fenomeno: viene offerto ai soggetti dell’esperimento un pasto a base di gelato, senza nessuna limitazione quantitativa; in base ai gruppi sperimentali, questo pasto è preceduto da nessuno, uno oppure due milk-shake (è il cosiddetto preload). I risultati mostrano che, dopo aver assimilato due milk-shake, le persone avendo una regolazione alimentare soddisfacente (unrestrained eaters) mangiano meno gelato durante il pasto successivo; al contrario, e con un preload equivalente (ovvero due milk-shake), le persone in stato di restrizione cognitiva (restrained eaters) mangiano successivamente una maggiore quantità di gelato: questo fenomeno di contro regolazione alimentare si spiegherebbe grazie all’effetto di trasgressione del divieto (abstinence violation effect) che si traduce nel seguente pensiero: “ho già sgarrato quindi non serve più a nulla controllarmi”.

Gli stessi risultati emergono quando si manipola la variabile di percezione dell’abbondanza delle porzioni di cibo (Polivy, Herman, & Deo, 2010): quando la fetta di pizza mangiata in fase di preload appare più grande, i restrained eaters tendono a mangiare, in una seconda fase dell’esperimento, una maggiore quantità di biscotti rispetto agli unrestrained eaters.
Anche la deprivazione pregressa di cioccolato per una settimana induce i restrained eaters a mangiare una maggiore quantità di cioccolato, rispetto agli altri gruppi di controllo, una volta che l’alimento è di nuovo disponibile (Polivy, Coleman, & Herman, 2005).

La restrizione cognitiva appare quindi come un meccanismo che modifica l’espressione di una fame fisiologica. L’individuo in stato di restrizione cognitiva non prova sensazioni nitide di fame o di sazietà e si colloca in una zona di indifferenza biologica (Herman, Polivy, Lank, & Heatherton, 1987). Diventa quindi ipersensibile ai fattori esterni, emotivi e sociali e mangia in base all’ambiente o alle sue credenze.

A livello clinico, la restrizione cognitiva è descritta come un passaggio da un tentativo di controllo mentale verso un controllo sempre più emotivo del comportamento alimentare. Secondo Apfeldorfer e Zermati (2007) questo passaggio avviene in quattro fasi:

fase 1: le sensazioni alimentari sono percepite ma deliberatamente ignorate. Vengono adottate alcune regole dietetiche (non mangiare tra i pasti, fare tre pasti al giorno, evitare alcuni alimenti, ecc.). Per seguire queste regole l’individuo deve ignorare le proprie sensazioni alimentari ed elaborare alcune strategie (ad esempio, non trovarsi in presenza di alimenti non autorizzati);

fase 2: le sensazioni alimentari sono percepite ma non possono più essere rispettate. Il comportamento dell’individuo è progressivamente dominato da schemi di pensiero dicotomici del tipo “se mangio un alimento vietato, devo mangiarne tanto perché non potrò più mangiarlo in futuro” oppure “se mangio tanti alimenti autorizzati mi passerà la voglia di mangiare quelli vietati”. Questi schemi inducono emozioni centrate sulla paura di aver fame, sulla paura che manchi il cibo, sulla colpa e sulla frustrazione. Sono quindi le credenze e le emozioni che controllano il comportamento alimentare a discapito delle sensazioni fisiologiche;

fase 3: le sensazioni alimentari non sono più percepite. L’individuo non prova né fame, né sazietà né appetiti specifici. A questo punto il controllo cognitivo diventa l’unico controllo possibile del comportamento alimentare;

fase 4: il comportamento alimentare è in balia delle emozioni. L’individuo non riesce più a controllare volontariamente il suo comportamento alimentare sul lungo termine. Alterna periodi di controllo mentale a periodi di controllo emotivo che possono tradursi in pasti esageratamente abbondanti, compulsioni a mangiare o vere e proprie abbuffate. Una minore resistenza fisica e mentale, degli eventi di vita oppure la semplice trasgressione di un divieto alimentare può scatenare una perdita di controllo.

La restrizione cognitiva si può inoltre manifestare con quattro gradi di gravità: leggera (so di aver fame ma non devo mangiare), moderata (so di non aver più fame ma non riesco a fermarmi), severa (non so più se ho ancora fame oppure se ho mangiato abbastanza), terminale (mangio senza aver fame e non riesco più a controllare nulla).

Quali implicazioni terapeutiche?

Il semplice fatto di seguire una dieta dimagrante oppure un programma di alimentazione “equilibrata” sia su richiesta medica sia in modo spontaneo induce l’individuo ad abbandonare un’alimentazione intuitiva a favore di un’alimentazione riflessiva, fondata su delle credenze. Questo tipo di comportamento alimentare corrisponde a una restrizione cognitiva o “controllo mentale dell’alimentazione”. Il livello di restrizione cognitiva può variare da una semplice sconnessione dalle proprie sensazioni alimentari a veri e propri disturbi del comportamento alimentare. La restrizione cognitiva deve quindi essere considerata alla meglio come un fattore di rischio per i disturbi del comportamento alimentare e alla peggio come un disturbo del comportamento alimentare in sé.

Di fronte a un paziente in stato di restrizione cognitiva, il primo obiettivo sarà di aiutarlo a ritrovare un comportamento alimentare guidato dai suoi sistemi di regolazione fisiologica e dalle sue preferenze alimentari. Una psicoterapia a orientamento cognitivo consentirà di lavorare sui processi di pensiero disfunzionali che portano a ignorare le proprie sensazioni di fame e sazietà e a mangiare in base a dei criteri esterni. Il fatto di mangiare seguendo invece i propri criteri interni dovrebbe consentire alle persone di recuperare un peso forma che dipende a sua volta dalla propria eredità genetica, dal proprio stile di vita e dalla propria storia alimentare e ponderale. [blockquote style=”1″]Questo set point è, oggettivamente, il peso auspicato, anche se non corrisponde alle tabelle del peso ideale o ai criteri di moda. Il lavoro sul comportamento alimentare per abbandonare lo stato di restrizione cognitiva deve spesso essere accompagnato da un lavoro psicoterapeutico per identificare risposte non alimentari a problemi di natura non alimentare (emotivi, relazionali) e per accettare e convivere con il proprio set point [/blockquote](Apfeldorfer & Zermati, 2001).

La terapia sistemica dei disturbi alimentari

Terapia sistemica dei disturbi alimentari: Nel modello sistemico le strategie terapeutiche vengono indirizzate contro le modalità di transazione. Il terapeuta ha il compito di riformulare il sistema familiare, ed è attivamente coinvolto come agente del rinnovamento mediante l’uso di tecniche atte a provocare crisi e tali da scuotere il sistema e costringerlo a cercare un nuovo equilibrio strutturale, più salutare.

 

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARILa terapia sistemica dei disturbi alimentari (Nr. 28)

Il programma della terapia sistemica dei disturbi alimentari

La terapia prevede un programma comportamentale con la paziente e, se necessario, una fase di ospedalizzazione e una cura pediatrica. Strategie usate sono l’iperfocalizzazione o la defocalizzazione del sintomo.

La terapia familiare inizia di solito con una seduta centrata sul sintomo e sui confini gerarchici della famiglia (tecnica la cui utilità nel tempo è oggi criticata da molti autori: Minuchin et al., 1980). Emerge la difficoltà di instaurare una terapia individuale con le pazienti più gravi che, a causa della loro incapacità di concepire un rapporto che non sia simbiotico e annullante, di fronte all’incombere del transfert finiscono col rifugiarsi nel sintomo, unica possibilità di indipendenza.

La gestione del contro transfert

Per quanto riguarda il contro-transfert, invece, si consiglia una continua analisi, perché le anoressiche sono abilissime a suscitare nel terapeuta un sentimento di totale impotenza atto a provocare in lui le reazioni più diverse (Selvini Palazzoli, 1981). Scopo finale della terapia individuale sarà il rafforzamento dell’Io dell’anoressica di fronte al suo sentimento d’inadeguatezza o d’impotenza e al terrore di essere sopraffatta e invasa dal superpotere altrui. In tale direzione, sarebbe opportuno essere umani e aperti e ascoltare le pazienti, stabilendo con loro un senso di intimità, piuttosto che assumere l’atteggiamento dello psichiatra onnipotente, immagine profonda del genitore onnipotente (Selvini Palazzoli, 1976).

La rinuncia all’allontanamento dell’anoressica dalla madre durante il trattamento

L’allontanamento dalla madre è un tipo di tecnica che non viene più usata in quanto, nel tempo, si è notato che i miglioramenti ottenuti dalla paziente erano ben presto destinati a svanire una volta che questa rientrava in famiglia. Se non vengono mutate le relazioni familiari, la paziente non ha la possibilità di mantenere i cambiamenti fatti e ricade nella malattia. È necessario un lavoro che agisca sull’intero sistema familiare, perché solo con un adeguato mutamento degli equilibri interni è possibile che i cambiamenti ottenuti dalla paziente divengano stabili (Selvini Palazzoli, 2006).

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

 

La fatica di diventare se stessi – fluIDsex

Ciao, mi chiamo Mariella e ho 22 anni. Il mio sesso biologico è femminile, ma fin da piccola mi sono sempre sentita un maschio. Per me la disforia di genere è fonte di grande malessere psicologico e sto pensando al cambio di sesso. Vorrei sapere quali sono i requisiti e le procedure per la transizione di genere. Grazie,

Mariella da Torino

 

Car* Mariella,

percepire un’incongruenza tra la propria identità ed il suo attuale involucro è un’esperienza dolorosa, che tende a spiazzare chiunque la sperimenti. Soprattutto se si vive all’interno di una società che ci propone esclusivamente due modelli standardizzati di maschile e di femminile, rischiando così di portarci ad annullare e svalutare le nostre particolarità. È importante specificare, inoltre, che il disturbo nasce dall’eventuale intenso disagio associato alla non conformità di genere e non dalla condizione stessa (APA, 2014).

A tal proposito, potrebbe esser necessario darsi il tempo ed il modo per soffermarsi sull’origine del disagio: la sofferenza, infatti, talvolta potrebbe non esser dovuta esclusivamente alla percezione di un corpo femminile che non rappresenta un’identità maschile, ma anche alla mancanza di uno spazio all’interno del quale poter esprimere liberamente la propria identità (Dèttore, 2005).

Detto questo, il percorso di transizione è un percorso lungo e difficilmente reversibile, che probabilmente porterà con sé anche dei momenti di sconforto. Tuttavia, è importante tenere a mente che questi verranno completamente ripagati da ogni singolo cambiamento che avvicinerà sempre più il tuo corpo a quello con cui vorresti presentarti (anche) agli altri.

Per quanto riguarda la diagnosi, invece, questa segue un iter specifico, che si basa su sintomi letti in relazione alla storia personale. Al fine di avere dei chiarimenti, ti suggerisco di contattare uno dei centri specializzati più vicini a te (come ad esempio il CI.D.I.GE.M A Torino), che saprà darti ulteriori informazioni ed eventualmente accompagnarti nel tuo cammino.

In bocca al lupo e buon percorso!

Irene Lisa Gargano

 

Altre curiosità sulla sessualità fluida

Qual è il valore aggiunto che la definizione di sessualità fluida porta alla società? In che modo avere una nuova definizione aiuta chi ancora non aveva trovato la propria categoria?

Gipsy

 

Buongiorno Gipsy,

inizio rispondendo alla tua prima domanda: l’idea di sessualità fluida che abbiamo presentato nell’articolo introduttivo vorrebbe evitare di essere un nuovo termine, con annessa definizione, per aiutare chi non ha ancora trovato una propria categoria, ma si propone piuttosto come concetto, per aiutare chiunque a trovare se stesso, senza necessariamente far riferimento ad una o più categorie già esistenti.

Il valore che tale concetto di sessualità fluida potrebbe portare si instaura più a livello personale, che sociale. Si può però osservare come questi due insiemi (individuo-società), essendo molto intrecciati, danno il via ad una ruota di reciproco influenzamento.

Se ogni persona si sentisse libera di poter trovare la propria identità, la società potrebbe diventare, da un certo punto di vista, uno spazio più sereno; allo stesso modo, se la società non suggerisse dall’infanzia alle persone di doversi identificare in categorie, le persone stesse saranno più serene, evitando così di rinunciare a parti di sé per rientrare in qualche classe esistente ed evitando anche di vivere la fatica di creare nuove classi di appartenenza, in cui sentirsi rappresentati adeguatamente.

In questo processo resta da comprendersi meglio l’azione di meccanismi quali il “definirsi”, lo “omologarsi” ed il “differenziarsi” e come questi influenzino la formazione dell’identità di ciascuno di noi.

Per qualsiasi altra curiosità, sai dove trovarci!

Greta Riboli

 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Hillary, Bill e Donald: archetipi psicostorici

Dopo Angelina e Brad, Hillary e Donald. Finita la tregua degli amori estivi, questo autunno sembra la stagione del confronto tra i sessi.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta

 

I maschi sembrano ricacciati nel ruolo riservato a una rudezza vieux style: Brad Pitt bello e stupido, propenso all’alcol e all’impulsività aggressiva, dapprima sopportato e improvvisamente scacciato dalla moglie incline alla beneficienza e alle gioie dell’intelletto. Donald da mesi verbalmente intemperante mentre Hillary ricopre il suo ruolo istituzionale con fredda compostezza.

 

Hillary e Donald: la battaglia tra i sessi nel passato

Nella storia e nel mito cerchiamo gli archetipi di questa eterna battaglia. Nel passato la lotta del potere avveniva all’interno del matrimonio, nel quale maschi e femmine erano immancabilmente avvinghiati. Oggi ci si confronta al di fuori, nell’arena politica o giudiziaria.

Qualche secolo dopo il racconto di Candaule e sua moglie incontriamo un episodio simile –raccontato da Socrate Scolastico, storico della tarda antichità- che ci racconta una fase successiva dei rapporti di potere tra i sessi. Questa volta il confronto non è sanguinoso, non muore nessuno. Siamo al tramonto dell’epoca classica, poco prima della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. L’imperatore romano Valentiniano, un prode guerriero che aveva appena provveduto a ricacciare tutti i barbari oltre il confine (sarà però l’ultimo che ci riesce) si riposava dalle fatiche della guerra in una delle sue capitali, Treviri o Milano.

Era sposato e la consorte imperatrice si chiamava Marina Severa. Matrimonio combinato tra quelle famiglie di etnia illirica che erano da tempo a capo dell’Impero. Il matrimonio era avvenuto in un momento in cui la carriera di Valentiniano si era fermata in un vicolo cieco. In disgrazia per una scaramuccia di confine con i barbari mal gestita, si era beccato tutta la colpa e lo sfavore dell’Imperatore, che era Giuliano, il famoso apostata. Congedato dall’esercito, si era ritirato nelle sue terre a Sirmio (oggi Sremska Mitrovica in Serbia) a fare il gentiluomo di campagna e ne aveva approfittato per sposarsi. La coppia aveva avuto un figlio, Graziano, nel maggio del 359.

Qualche anno dopo, morto Giuliano, il favore imperiale per un soldato così competente era tornato e Valentiniano fu richiamato a ricoprire cariche militari. Severa lo seguì nel crescere del suo potere, dapprima comandante della guardia imperiale a cavallo, poi accolto nel consiglio di guerra imperiale, e infine inaspettatamente imperatore.

Il proprietario terriero sposato sei anni prima era salito sul trono imperiale e aveva indossato la porpora. E con lui Severa. Chi lo sa come visse questa assunzione nel massimo cielo del potere. Forse male, se volessimo dare un significato all’incomprensibile suo comportamento successivo. Il matrimonio andò ancora avanti ancora alcuni anni, finché inaspettatamente terminò. E vedremo come, perché qui sta il bello.

Non sappiamo come fossero andati avanti gli anni del matrimonio. L’assenza di altri figli dopo Graziano lascia immaginare che i due coniugi abbiano smesso di conoscersi carnalmente dopo la prima gravidanza, che il loro consorzio abbia assunto i contorni di un’amichevole distanza. Supposizioni, però corroborate dalla storia della fine del matrimonio.

Marina Severa aveva, come imperatrice, dame di compagnia con le quali s’intratteneva e conduceva la sua vita di corte. Tra queste ve ne era una che era, a quanto pare, di particolare bellezza. Il suo nome era Giustina. Tra le due donne nacque una grande amicizia e confidenza, tanto da condividere l‘intimità del bagno. E fu proprio qui, nei bagni e nelle terme, che origina la stranezza di questa storia. Severa, alla vista del corpo nudo di Giustina, rimase colpita dalla sua bellezza e lo raccontò al marito.

Cosa passa per la testa di una donna che tesse le lodi al marito del corpo nudo di un’altra donna? Cosa era accaduto tra Valentiniano e Severa negli anni? La moglie manda un segnale al marito? Un segnale di cessato desiderio di intimità fisica, un invito a servirsi altrove?

Certo, non si trattava di un matrimonio borghese, nato nelle illusioni sentimentali dell’amore moderno. Gli antichi, quando non erano schiavi, erano tutti contadini e soldati, il loro mestiere era lavorare la terra e fare la guerra. Completamente presi dal servizio pubblico, questi uomini non concepivano sogni e illusioni romantiche. Meno liberi di noi, non erano capaci di concepire la vita come un percorso personale da inventare ogni giorno. Compresi nella loro funzione sociale, nel compito del loro ceto di appartenenza fin dalla nascita, non avevano vita privata e non si concedevano sogni, si sottomettevano a un destino premeditato, in cui i matrimoni erano combinati e così le altre scelte di vita.

Eppure, c’era anche una letteratura popolare che parlava di amore e di libertà. Circolavano romanzi sentimentali in cui, al posto delle tragedie piene di storie di vendetta e di sangue, si raccontava di amori giovanili e contrastati dalle famiglie in cui gli amanti percorrevano tutto il mondo conosciuto tra inseguimenti e rapimenti di pirati ma alla fine si ricongiungevano felicemente. Vi era poi il sentimentalismo delle nuove religioni orientali, prima tra tutte il cristianesimo, che insegnavano agli individui l’esistenza di un vita personale che non era soggiogata a un destino impersonale, ma era protetta da un Dio che aveva a cuore la felicità umana. E così via.

Tutto questo confluì nello strano episodio di Severa e Valentiniano. Vi era dunque una delusione tra loro? Il loro era un matrimonio combinato che aveva obbedito a ragionamenti di convenienza e che ormai si era esaurito, e che come passione non era mai nato? E soprattutto, improvvisamente tutto questo era diventato intollerabile nella mente di Marina Severa, tanto da indurla a sviare altrove i desideri fisici del marito?

Oggi il sesso pervade le nostre vite al punto tale da sembrare una pietra angolare della libertà. Eppure si tratta di un fenomeno tardo, legato alle moderne tecniche anticoncezionali. Prima il sesso, specialmente per la donna, era un attentato alla libertà. Ecco che allora il comportamento di Marina Severa cambia di segno. Marina Severa voleva forse una vita più libera e lontana dal marito? Una donna che parla al marito della bellezza di un’altra donna, e non di una bellezza misteriosa ma ignuda, lubrica, una bellezza contemplata nei bagni, sta emettendo un messaggio. Vi è una strana consonanza con il racconto di Candaule e di sua moglie che abbiamo già incontrato. Ancora una volta una nudità di donna penetra nella mente del maschio, lo affascina e lo incanta.

Fatto sta che Valentiniano rispose a quel messaggio e si comportò di conseguenza. Una sera Valentiniano decise di controllare di persona le strane chiacchiere della moglie. Non conosciamo i dettagli. Possiamo immaginare che, deciso a contemplare e a toccare quel corpo nudo di cui tanto parlava la moglie, cerco l’amore con Giustina e tanto lo gradì da ripudiare Marina Severa, con la sbrigativa cerimonia che regolava questa faccenda, e poi propose a Giustina di sposarlo.

Beninteso, il matrimonio fu una favola orientale ma anche un calcolo politico. Giustina era una nipote del grande imperatore Costantino e sposandola Valentiniano legittimava ulteriormente il suo potere imperiale. Tuttavia, accanto al calcolo politico, possiamo vedere anche la storia di una donna che può vivere una vita più libera e indipendente. E altresì possiamo vedere un imperatore che indulge a un tipico secondo amore maschile della tarda maturità con una donna più giovane, dopo aver goduto del racconto lesbo-chic servitogli dalla prima moglie: donne nude al bagno.

Tutto questo c’entra qualcosa con Hillary e Donald o con Angelina e Brad? Forse poco. Però nel racconto ci sono strane assonanze tra Hillary e Bill, l’Imperatrice e l’Imperatore. Speriamo che anche Hillary, come Marina Severa, sappia conquistarsi la sua autonomia e la sua libertà menando per il naso i maschietti che la circondano.

Disoccupazione e disagio psichico: i primi risultati dallo Standupificio

All’interno di questo drammatico scenario di disoccupazione, nel 2015 nasce Standupificio, un progetto ideato e realizzato dall’Associazione Dentro un quadro. La radice del termine è tratta dal verbo inglese “to stand up” che significa “alzarsi” e che intende rimandare alla capacità delle persone di rimettersi in piedi. Il ripartire da sé e dalle proprie risorse si ritiene, infatti, essere la precondizione necessaria per cercare di vincere forme inevitabili di scoraggiamento che spesso sconfinano in sintomatologie d’ansia e depressione invalidanti, quando non in sintomatologie da traumatizzazione vera e propria.

[blockquote style=”1″]La disoccupazione è una cosa per il disoccupato e un’altra per l’occupato. Per il disoccupato è come una malattia da cui deve guarire al più presto, se no muore; per l’occupato è una malattia che gira e lui deve stare attento a non prenderla se non vuole ammalarsi anche lui.[/blockquote], Alberto Moravia, Nuovi racconti romani, 1959.

Il fenomeno della disoccupazione si configura oggi come una delle problematiche maggiormente caratterizzanti il nostro Paese. Dopo il calo dello 0,8% registrato a maggio 2016, a giugno la stima dei disoccupati torna a salire dello 0,9% assestandosi su un tasso di disoccupazione pari all’11,6% (dati provvisori Istat) (1). Parallelamente, aumenta la stima degli occupati dello 0,3%, una crescita che riguarda però gli indipendenti (+78mila), mentre restano invariati i dipendenti (2).

In questo contesto, Milano si configura come città metropolitana con un tasso di disoccupazione che aumenta dello 0,6% (+18000 disoccupati) rispetto a dicembre scorso, con particolare riferimento alle persone tra 25 e 49 anni (stima Istat) (3).
La letteratura scientifica evidenzia l’alta incidenza della disoccupazione sul livello di stress fisico e psichico e sul senso di autoefficacia delle persone, con ricadute negative sulla capacità di ritrovare un secondo lavoro dopo un periodo di minimo sei mesi di inattività, con fenomeni di ritiro sociale e con peggioramento dei livelli d’ansia, depressione, irritabilità e disturbi psicosomatici (4). La perdita di lavoro è, inoltre, annoverata dal National Institute of Mental Health (5) fra i fattori di rischio più comuni per lo sviluppo di un Disturbo Post traumatico da Stress (PTSD).

Standupificio: un progetto per ridurre il disagio psichico derivante dalla disoccupazione

All’interno di questo drammatico scenario, nel 2015 nasce Standupificio, un progetto ideato e realizzato dall’Associazione Dentro un quadro. La radice del termine è tratta dal verbo inglese “to stand up” che significa “alzarsi” e che intende rimandare alla capacità delle persone di rimettersi in piedi. Il ripartire da sé e dalle proprie risorse si ritiene, infatti, essere la precondizione necessaria per cercare di vincere forme inevitabili di scoraggiamento che spesso sconfinano in sintomatologie d’ansia e depressione invalidanti, quando non in sintomatologie da traumatizzazione vera e propria.

Standupificio è stato lanciato in via sperimentale il 30 novembre 2015 con un evento scientifico dal carattere non convenzionale che ha previsto due momenti: un momento pomeridiano, presso la Casa dei Diritti concessa gratuitamente dal Comune di Milano che ha anche patrocinato l’iniziativa, in cui si è sperimentata una modalità laboratoriale in piccolo gruppo; e un momento serale presso un ristopub milanese allestito ad hoc, in cui si sono, invece, sperimentati percorsi psicoeducativi individuali, prevedendo anche un momento psicoeducativo gruppale attraverso un gioco a quiz ideato per l’occasione, Chi vuol essere meno precario.

Oggi Standupificio è parte del progetto Artepassante (associazione capofila: Le Belle Arti), un progetto finanziato da Fondazione Cariplo che ha lo scopo di diffondere cultura in tutte le sue forme, adesso anche cultura psicologica. Si rivolge ai cittadini disoccupati o che vivono una situazione di precarietà, offrendo percorsi psicoeducativi gratuiti e non convenzionali fondati sui saperi della psicoterapia cognitivista e cognitivo-comportamentale.

Gli incontri mensili di Standupificio

Gli appuntamenti mensili di Standupificio si svolgono presso la stazione Vittoria del passante ferroviario di Milano. Nell’arco di ciascuna giornata, con le risorse logistiche attuali riusciamo a offrire mediamente i percorsi a 7-9 persone.

Il percorso psicoeducativo è individuale ed è finalizzato a trasferire strumenti di autoaiuto attraverso la focalizzazione degli aspetti cognitivi, emotivi e sensoriali dell’esperienza della perdita del lavoro, permettendo così ai partecipanti di sviluppare maggiore consapevolezza sulle modalità soggettive e diversificate con cui concepiscono il proprio disagio. Ciascun partecipante è seguito da uno psicoterapeuta.

Prima dell’inizio del percorso le persone compilano una breve batteria di test clinici volti a indagare alcuni aspetti emotivi della situazione attuale. Successivamente, il partecipante viene assegnato ad un terapeuta che lo accompagna durante un percorso di 50’ suddiviso in tre fasi, denominate rispettivamente “muro di rabbia”, “change!” e “perle a catena”:
1. “Muro di rabbia”: le persone hanno a disposizione vari materiali per manifestare la rabbia conseguente alla perdita del lavoro, un termometro di cartone per indicarne l’intensità percepita e un manichino per localizzare nel corpo le sensazioni.
2. “Change!”: si ispira alla tecnica cognitivo comportamentale “ABC”, ideata nel 1957 dallo psicologo Albert Ellis che l’ha poi formalizzata con la cosiddetta Terapia Razionale-Emotiva (Rational-Emotive Behaviour Therapy) (7). Change! prevede la messa a fuoco dell’evento della perdita del lavoro, nonché i pensieri e le emozioni corrispondenti, così da riflettere su come intervenire sul disagio che ne consegue. La messa a fuoco avviene in tre momenti distinti: “evento”, “emozioni”, “cognizioni”.
3. “Perle a catena”: si basa sul principio secondo cui modificando il pensiero è possibile incidere sul vissuto emotivo della persona (8). L’attenzione viene focalizzata su due pensieri che denominiamo “perle”: una “perla nera” individuata all’inizio del percorso e contenente un pensiero che innesca emozioni dolorose con riferimento alla difficoltà lavorativa e, al termine del percorso, una “perla bianca” che offre un pensiero alternativo che aiuta a vedere la difficoltà lavorativa in modo diverso.

La ricerca

In questo articolo vengono riportati alcuni dei risultati più significativi emersi dai tre incontri di Standupificio successivi all’evento lancio del 30 novembre 2015, ovvero il 29 gennaio 2015 nuovamente in Casa dei Diritti del Comune di Milano, il 13 maggio e il 10 giugno 2016 presso l’Atelier della parola nel mezzanino del Passante Ferroviario Stazione Vittoria di Milano.

Date le indicazioni presenti in letteratura secondo cui la disoccupazione con un periodo di inattività superiore ai 6 mesi (3) produce conseguenze emotive clinicamente significative, abbiamo voluto verificare nel nostro campione l’eventuale presenza di forme di disregolazione emotiva e di problemi nella sfera della depressione.

I partecipanti dei tre appuntamenti hanno compilato una scheda anamnestica, due test clinici – Beck Depression Inventory (BDI) (9) e il Difficulties in Emotion Regulation Scale (DERS) (10) – e un questionario finale di valutazione. Il BDI rileva un problema nel campo della depressione, mentre la DERS misura la difficoltà nella regolazione delle emozioni individuando, nel campo della gestione emotiva, la mancanza di accettazione, la difficoltà nel distrarsi, la mancanza di fiducia e di controllo e la difficoltà nel riconoscerle.

La numerosità oggi ancora esigua del campione (N = 20) non impedisce di condividere le evidenze più significative, come intuibile, senza alcuna pretesa di generalizzazione nè di validità finale.

Il campione

Il campione è costituito da 20 soggetti, tutti di cittadinanza italiana, 60% donne e 40% uomini.
Il 55% del campione ha un’età compresa tra i 40 e 60 anni, il 30% dei soggetti si distribuisce equamente (il 15%) nelle fasce di età “minore di 30 anni” e “oltre 60 anni”, mentre il 15% si colloca nella fascia tra i 30 e 40 anni.
Il 35% del campione è coniugato e/o convivente, il 25% separato e/o vedovo e il 40% è di stato civile libero. Fra le persone che hanno avuto e/o hanno una relazione in essere la metà hanno anche figli, con una presenza maggiore nel gruppo dei separati/vedovi.
Solo una persona dichiara di avere ancora un lavoro: i restanti sono tutti disoccupati. Il 47% lo sono da meno di un anno, il 20% da 1 a 2 anni, il 27% da 2 a 3 anni e nella stessa percentuale (27%) da 3 a 4 anni.
Il livello di scolarità è medio-alto: il 50% dei soggetti ha conseguito la laurea, il 45% il diploma di maturità e il 5% possiede un altro titolo diverso dalla laurea e dal diploma di maturità.

Alcune delle evidenze più significative

Dai dati raccolti, emerge con chiarezza come la motivazione sottesa alla partecipazione a Standupificio si divida prevalentemente tra la richiesta di aiuto (50%) e la curiosità (40%), con una minoranza (10%) che dichiara di essere stata mossa dall’esigenza di avere un confronto con persone che vivono la stessa condizione.

Dal punto di vista clinico, osserviamo come il campione che afferisce al servizio non sembri corrispondere ai criteri per una depressione clinica, ma presenti nel 70% dei casi un problema inerente l’umore depresso. Se andiamo a guardare i valori complessivi di riferimento, solo il 25% delle persone ha difficoltà nella regolazione emotiva, ma ad uno sguardo più approfondito emerge poi che la maggioranza esprime mancanza di fiducia e ritiene di avere difficoltà nel distrarsi volontariamente dalle emozioni.

Sembrerebbe esista quindi una relazione tra il funzionamento depressivo subclinico dei partecipanti e la loro capacità di regolare gli stati emotivi: persone con umore maggiormente depresso hanno minori capacità di gestire i vissuti emotivi (0,523; Sig. 0,018) e si rileva un rapporto interessante tra il funzionamento depressivo e la mancanza di accettazione (0,531; Sig. 0,016), la difficoltà nella distrazione (0,584; sig. 0,007) e la mancanza di fiducia (0,662; sig. 0,001). Punteggi elevati nell’umore depresso sembrerebbero corrispondere dunque a vissuti di inadeguatezza in specifiche abilità della gestione emotiva.

Le tematiche affrontate risultano percepite come sufficientemente approfondite per la totalità del campione ad eccezione che per un partecipante, con un buon grado di utilità riconosciuta al percorso per aiutare a fronteggiare in modo preponderante il senso di frustrazione (45%), l’ansia (30%), la rabbia e il senso di colpa (15%) e, in ultimo, la vergogna e il senso di responsabilità (10%).

Un aspetto a noi caro investe la metodologia utilizzata: Standupificio nasce volutamente come format innovativo e originale, così come di natura non convenzionale è il percorso psicoeducativo che proponiamo, data l’ipotesi che la creatività possa aiutare noi professionisti della salute mentale ad avvicinare le persone che versano in una condizione di disagio psichico – di qualunque tipo di disagio si tratti – alla psicologia e alla psicoterapia.
Il campione sembrerebbe dare ragione alla nostra caparbietà, definendo quasi all’unanimità (88,2%) – l’11,8% ha espresso un non gradimento senza però motivare la risposta – come adeguata la metodologia proposta.
Fra le ragioni dell’apprezzamento sono da annoverarsi la possibilità di avvicinare le persone al tema della disoccupazione (29,4%) e di affrontarlo con leggerezza (17,6%), essendo il tema riconosciuto come difficile e, al contempo, offrendo una prospettiva diversa della psicologia (17,6%).
Ugualmente apprezzate risultano essere le diverse fasi del percorso psicoeducativo (80%), che sembrerebbero permettere di esprimere con maggiore facilità le emozioni (31,25%) e di entrarvi facilmente in contatto (12,5%) ma anche “una metodologia di questo tipo facilita la relazione con lo psicologo” (6,25%) e “contribuisce a dare un’idea diversa della psicologia” (6,25%).

Il grado di soddisfazione risulta essere, infine, complessivamente molto alto, assestandosi per la maggioranza del campione (85%) “fra il 70 e il 100%”. Per il 10% l’apprezzamento è medio (= 50%) e per il 5% è invece molto basso (= 10% di apprezzamento).

Conclusioni

Coerentemente con quanto riportato in letteratura, i dati raccolti finora nel corso dei tre appuntamenti di Standupificio, nonostante l’esiguità del campione e, conseguentemente, la sua non rappresentatività, sembrerebbero confermare che persone disoccupate da almeno 6 mesi abbiano difficoltà collegate all’umore depresso, un senso interno di scarsa fiducia, difficoltà legate all’accettazione di quanto accade e difficoltà nel distrarsi dalle emozioni dolorose.

Questi risultati sembrerebbero suggerire che, oltre a un sostegno finalizzato alla gestione del problema di trovare un nuovo lavoro, queste persone abbiano anche bisogno di un sostegno nella gestione dei vissuti emotivi che, ci sembra, non sia sufficiente siano solamente riconosciuti ed espressi, ma che debbano essere anche elaborati e riorganizzati con modalità di pensiero più sane ed efficaci, pena il rischio che i pensieri tornino inevitabilmente al punto doloroso ritenuto ingestibile, impedendo alle persone di rimettersi in piedi.
Alla luce di queste primissime evidenze, il completamento del percorso di Standupificio con la messa a fuoco da parte del partecipante di una “perla bianca”, ovvero di un pensiero alternativo che aiuta a vedere la difficoltà lavorativa in modo diverso, risulterebbe essere ben funzionale e rispondente al quadro clinico. L’alto grado di soddisfazione, l’utilità percepita, nonché gli apprezzamenti espressi rispetto alla metodologia originale e innovativa adottata con Standupificio incoraggiano ad andare avanti.

 

Pet therapy: che cos’è e gli studi sull’efficacia

La pet therapy si sta espandendo molto anche in Italia, con metodi ed applicazioni a tipologie di pazienti molto diverse tra loro. Crescono anche gli studi scientifici internazionali sull’efficacia di questi interventi.

Chiara Daldosso, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Pet therapy: che cos’è

Cani, cavalli, delfini e gatti possono aiutare molti pazienti a migliorare nelle aree emotive, sociali e comportamentali.

La comunicazione verbale tra terapeuta – di qualsiasi orientamento egli sia – e paziente, è il veicolo principale attraverso cui pensieri, emozioni e sofferenza trovano una forma condivisibile tra i 2. La pet therapy è una forma di terapia in cui il canale comunicativo più usato e sollecitato è quello dell’immediata espressione delle emozioni, in cui si attiva il sistema rettiliano, nel paziente come nell’animale.

La pet therapy in Italia viene riconosciuta come utilizzabile per la cura di anziani e bambini nel decreto ministeriale del 2003. Nel 2005 anche il comitato nazionale bioetico la riconosce.
Nel frattempo, nel 2004, nasce la ESAAT (European Society for Animal Assisted Therapy) che certifica la formazione degli operatori e definisce le linee guida del trattamento degli animali impegnati in tutte le attività di terapia, di assistenza e di educazione, affinchè venga sempre preservato il loro benessere.
In realtà gli animali sono impiegati nella cura di diverse patologie da molto più tempo ed oggi esistono molti tipi di quella che viene comunemente conosciuta come “pet therapy”.

Le origini della pet therapy

Da quando gli animali sono stati coinvolti nella cura di alcune patologie psicologiche e fisiche dell’uomo?
L’addomesticamento degli animali da parte dell’uomo ha origini molto antiche, ma solo all’inizio del XX secolo si capisce quanto la vicinanza degli animali possa sortire effetti positivi e terapeutici nella psiche umana ed in alcune patologie fisiche. Negli anni ’60 lo psichiatra infantile Boris Levinson nota gli effetti positivi della presenza del suo volpino nelle sedute con i suoi piccoli pazienti. Per primo conia il termine “pet therapy” e gli attribuisce valore scientifico attraverso i suoi studi.
Sulla scìa delle ipotesi di Levinson, negli USA si susseguono altre applicazioni: nella cura dei disturbi mentali e come “facilitatori di relazioni” per gli anziani.

Negli anni ’80, Erica Friedmann, osservando per un anno pazienti dimessi dall’ospedale a seguito di problemi cardiaci, rileva una correlazione tra la sopravvivenza dei pazienti ed il loro possesso di animali domestici. In ricerche successive, la Friedmann scopre che non è necessario il contatto tra paziente ed animale, ma che basta l’osservazione dell’animale per indurre nel paziente cardiopatico la diminuzione della pressione, la regolarizzazione del battito cardiaco e della respirazione, il rilassamento del tono muscolare e delle espressioni del viso.
Nel 1992, mentre la pet therapy inizia a diffondersi anche in italia, Holcomb mette a punto un protocollo terapeutico per pazienti anziani: ne risulta che il livello di depressione cala con l’esposizione dei pazienti a uccellini e conigli.

Oggi la pet therapy si sta espandendo molto anche in Italia, con metodi ed applicazioni a tipologie di pazienti molto diverse tra loro. Crescono anche gli studi scientifici internazionali sull’efficacia di questi interventi. Prima di addentrarci nel merito è bene fare un po’ di chiarezza terminologica.

La prima importante distinzione da farsi è tra le Animal Assisted Activities (AAA), ovvero tutte quelle attività che migliorano la qualità della vita delle persone con handicap fisici o psico-fisici, e le Animal Assisted Therapies (AAT), veri e propri percorsi di terapia, che affiancati ad altri più tradizionali, hanno l’obiettivo di migliorare lo stato fisico, sociale, emotivo e cognitivo dei pazienti.
Le AAT possono essere usate, ad esempio, in carcere, a scuola, con pazienti psichiatrici, con anziani, con pazienti affetti da disturbi dello spettro autistico, con pazienti oncologici. Le sedute hanno fin dall’inizio un obiettivo terapeutico preciso e possono essere svolte in gruppo o individualmente. Dietro le quinte della progettazione di tali interventi vi sono quasi sempre equipe multidisciplinari composte da operatori specializzati, educatori, psicomotricisti, psicologi, medici, veterinari.

Le esperienze di pet therapy in Italia

In italia, onlus come Frida’s Friends dal 2012 si occupano di portare le AAA e le AAT in diversi contesti, con diversi pazienti e diversi obiettivi. Dalle scuole primarie, in cui attraverso i cani si riescono a creare contesti di maggiore inclusione tra i pari per i bimbi con difficoltà, alla Casa Pediatrica dell’ Ospedale Fatebenefratelli di Milano. In questo contesto, per i bimbi con disabilità gravi viene svolto un lavoro di riabilitazione sensoriale, in cui l’obiettivo può essere che il bimbo percepisca il contatto del muso del cane su un arto, o riesca a muovere un piedino e sorridere grazie alla presenza del cane.
In questa come in altre situazioni meno gravi (le ospedalizzazioni, i deficit cognitivi, i prelievi ematici), i cani che intervengono sono selezionati e monitorati dagli operatori, ma mai addestrati a fare qualcosa di specifico. Ogni cane (ed ogni altro animale impiegato nelle pet therapy) ha un temperamento specifico ed un suo modo di entrare in relazione con le persone, e viene lasciato libero di agirlo in quel dato momento.
L’impiego dei cani in contesti terapeutici ed educativi è stato dimostrato essere un fattore facilitante il raggiungimento degli obiettivi proprio perchè l’animale viene percepito dai bambini come un operatore non giucante e non portatore delle aspettative che invece caratterizzano spesso gli adulti umani (Friesen, 2010).

Questi setting dalle dinamiche libere e non del tutto prevedibili hanno come risvolto della medaglia una grande difficoltà di standardizzazione. Mettere a punto dei protocolli può significare, per alcuni operatori, snaturare il tipo di attività.

Gli studi sull’efficacia della pet therapy

La conseguenza più immmediata è che sebbene la pet therapy nei reparti pediatrici degli ospedali sia sempre più diffusa, ci sono ancora relativamente pochi studi scientifici che ne dimostrano l’efficacia. Nella Casa Pediatrica del Fatebenefratelli si stanno iniziando a raccogliere dati.
Lo racconta la Dott.ssa Beatrice Garzotto, responsabile e coordinatrice dell’attività: le prime rilevazioni fatte con il saturimetro rivelano che quando i bambini affrontano il prelievo ematico con il cane accanto, si regolarizza il battito cardiaco, la pressione arteriosa si abbassa e c’è una maggior ossigenazione del sangue rispetto a quando i prelievi vengono affrontati in condizioni classiche, senza il cane. Sono tutti indicatori fisiologici associati al livello di ansia.

Buoni risultati in questa direzione sono già stati riportati da Kaminski, Pellino e Wish, che nel 2002 hanno osservato un campione di 70 bambini e hanno usato come dato anche il livello dell’umore osservato dai genitori nei figli ospedalizzati.
A fronte di valori fisiologici immutati come la pressione sanguigna o il ritmo respiratorio, la presenza del cane può però far diminuire significativamente il livello del dolore percepito da bambini tra i 3 ed i 17 anni, in contesti ospedalieri e in alcuni momenti in cui il dolore è particolarmente forte (Braun, Stangler, Narveson, Pettingell, 2009).

Più nello specifico, secondo Sobo, Eng e Kassity-Krich, il fattore cognitivo sarebbe quello maggiormente influenzato: i pensieri negativi relativi al dolore percepito verrebbero affiancati e sostituiti da pensieri confortanti relativi all’essere in piacevole compagnia ed al sentirsi in un contesto più vicino a casa.

I pazienti ospedalizzati che ricevono pet-therapy avvertono anche un maggior livello di energia ed un abbassamento del livello di fatica, secondo lo studio di Bulette Coakley e Mahoney (2009).
Oltre ai cani, anche i cavalli, anch’essi animali che in natura vivono in branco e che quindi sono particolarmente abituati a relazionarsi con gli altri, sono sempre più spesso protagonisti di interventi a scopi terapeutici o educativi.

All’Ospedale Niguarda di Milano è attivo da anni il centro di riabilitazione equestre per persone con disabilità. Altri progetti, più propriamente ascrivibili nell’ambito AAT, partiranno al Fatebenefratelli con un pony che visiterà i bambini nel cortile ed in corsia.
Altri ancora, rivolti a pazienti psichiatrici e a donne con cancro al seno sono portati avanti dal Fienile Animato, un centro in provincia di Milano, in cui vengono impiegati cavalli e cani, talvolta insieme.

Alcune peculiarità metodologiche dell’approccio, che prevede setting in piccolo gruppo o individuali, sono che contrariamente a quanto avviene con i cani ad esempio, non vi è quasi mai contatto fisico tra paziente e cavallo. Inoltre il paziente entra in un’area erbosa in cui il cavallo (al massimo con capezza e longe) viene lasciato libero di pascolare ed, eventualmente, di cibarsi. Quest’ultimo aspetto in particolare è rilevante perchè consente al cavallo di “cedere” alla distrazione del cibo: un elemento molto significativo rispetto a quanto può rimandare l’animale in termini di dinamica relazionale, così come l’eventuale forte attivazione (corsa, imbizzarimento, ..).

Nel momento in cui il paziente entra nel perimetro del cavallo, dopo essere stato opportunamente preparato dal professionista, entra in relazione in maniera diretta e non mediata con il grande animale erbivoro. Entrambi possono provare le somatic experiencies della fuga, dell’attacco o del congelamento. Il terapeuta, al termine della seduta, aiuta il paziente a decifrare l’esperienza vissuta, accoglie le emozioni riportate e lo supporta nell’attribuzione di significato relativamente agli obiettivi terapeutici.

La presenza di un cane nei percorsi di supporto psicologico a donne con diagnosi di cancro al seno si è dimostrata favorire la comunicazione con i professionisti e quindi la partecipazione ed il coinvolgimento nella terapia, nello studio di White, Quinn, Garland, Dirkse, Wiebe, Hermann e Carlson (2015).

Le ultime tendenze in ambito di AAT ci dicono che da qualche tempo si sta facendo strada negli USA come in Europa, la Green Care: fattorie e contesti agricoli e rurali vengono usati nei programmi di promozione della salute fisica e mentale. In quest’ottica sono compresi non solo gli animali che abitualmente popolano le fattorie, ma anche la vegetazione ed il paesaggio stesso.
In tal senso uno studio fatto da Berget, Ekeberg e Braastad (2008) su un campione di 90 pazienti psichiatrici (schizofrenici, disordini affettivi, ansia e disturbi di personalità) usando la pet therapy con animali da fattoria, ha dimostrato un buon risultato in termini di aumento dell’auto-efficacia percepita e delle abilità di coping.

Conclusioni

In conclusione, in Italia non si è ancora giunti ad una regolamentazione chiara e unica per tutte le regioni. Di fatto queste attività non vengono riconosciute come terapie e quindi nella maggior parte dei casi non godono di finanziamenti degli enti sanitari pubblici, ma vengono portate avanti dalle onlus e da associazioni di volontariato.
Anche in merito alla dimostrabilità scientifica dell’efficacia ci sono ancora molti passi avanti da fare, ma meta-studi come quello di Nimer e Lundahl del 2007, che hanno considerato 250 ricerche, hanno rilevato che le AAT influenzano significativamente i risultati in 4 aree: le sindromi dello spettro autistico, le difficoltà fisiche, i problemi di comportamento ed il benessere emotivo. Le caratteristiche specifiche dei partecipanti e degli studi invece non si sono dimostrate significative.

I motivi per scegliere di studiare psicologia – Introduzione alla psicologia

Gli studi di psicologia permettono di acquisire una serie di competenze diverse che variano dal comportamento osservato alla fisiologia del cervello. Lo scopo è comprendere come la mente umana funzioni e in che modo consenta la messa in atto di comportamenti diversi in situazioni diverse.

Introduzione

Ogni anno in molti, dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore, devono scegliere quale percorso di studi intraprendere. Tante sono le offerte formative proposte dagli atenei e tanti sono i dubbi che possono sopraggiungere. Decidere cosa studiare spesso è un processo lungo e difficile, visto che si tratta di una scelta che andrà a incidere sul proprio futuro.
Tra i molti percorsi di studio possibili troviamo quello in Psicologia.

Storia della psicologia

La psicologia nacque nell’antica Grecia nel momento in cui iniziarono le prime trattazioni sistematiche sulla mente umana, argomento trattato da molti filosofi. Successivamente, la psicologia acquistò una sua autonomia e diventò una disciplina autonoma, ma solo nel XIX secolo si crearono le condizioni che permisero di rendere la psicologia una scienza vera e propria. Nell’800 si ottenne un repentino sviluppo negli studi anatomici e fisiopatologici del sistema nervoso, che permisero di identificare le leggi che regolano l’attività nervosa. Si evidenziò, in questo modo, la relazione esistente tra funzionamento di una serie di aree del cervello, le attività dell’organismo sottese da queste aree e, di conseguenza, i processi psichici a esse legate (Ellemberger, 1976).

Definizione di psicologia

Il termine “psicologia” è stato utilizzato per la prima volta da Wundt, psicologo- filosofo tedesco, alla fine dell’800, per individuare un’area di studio riguardante il comportamento umano. Per questo, fondò nel 1879 il primo Laboratorio di Psicologia a Lipsia.

Proprio il 1879 è considerato l’anno di nascita della psicologia moderna e sperimentale. Solo col passare del tempo e grazie al lavoro di molti studiosi psicologi è stato possibile attribuire al termine psicologia una definizione precisa (Ferraris, 2006).

Per psicologia si è soliti intendere la scienza che indaga l’attività psichica e il comportamento umano. La psicologia è una scienza che studia le mille sfaccettature della mente: come funziona, come si sviluppa e come si traduce in comportamenti (Legrenzi, 2012).
Indubbiamente, la psicologia investe un ambito molto ampio, che varia dalla psicologia dello sviluppo, alla psicologia sociale, alla psicologia del lavoro, etc.
Molte, dunque, potrebbero essere le aree che possono muovere interesse, incuriosire e, per questo, potrebbero influenzare il percorso di studi da intraprendere.

Perché studiare psicologia

Gli studi di psicologia permettono di acquisire una serie di competenze diverse che variano dal comportamento osservato alla fisiologia del cervello. Lo scopo è comprendere come la mente umana funzioni e in che modo consenta la messa in atto di comportamenti diversi in situazioni diverse.

Quali potrebbero essere, quindi, le motivazioni che spingono a scegliere la facoltà di psicologia?

Ci sono diversi motivi per studiare psicologia, primo tra tutti capire come funziona la mente umana. Comprendere il funzionamento della mente umana, aiuta a definire il motivo di molti comportamenti normali o patologici. Quotidianamente siamo tempestati da un gran numero di emozioni e pensieri, che possono aiutarci ad affrontare le situazioni o renderle più difficili. Quindi, capire come reagiamo, per esempio, a un lutto o a una perdita, o perchè effettuiamo scelte relazionali sempre uguali, o individuare i motivi dell’ansia pre-esame, può aiutare a gestire meglio gli eventi quotidiani o imprevisti, attribuendo dei significati a degli stati d’animo o emozioni. Tutto questo aiuta a comprendere meglio cosa avviene nella nostra mente, soprattutto se supportato da una serie di spiegazioni su cosa avviene fisiologicamente nel cervello, sia a livello di neurotrasmettitori, sia a livello di aree che si attivano in maniera selettiva per comportamenti specifici. Di conseguenza, le neuroscienze svolgono un ruolo fondamentale, poiché forniscono le risposte in relazione ai diversi comportamenti attuati. Per esempio, si parte dalla percezione, conoscenza diretta del mondo esterno, per capire come funziona normalmente e quando è alterata: illusioni ottiche, dispercezioni di alcune parti del corpo e allucinazioni. Cosa fondamentale è comprendere i meccanismi che utilizza la mente, ovvero come funzionano le diverse aree cerebrali, le cellule di cui sono composte e come interagiscono tra loro, o perchè non lo fanno e a quali conseguenze, emotive e comportamentali, può portare questa non interazione.

Conoscere come si sviluppa nel corso del tempo la mente umana può essere un altro motivo che induce a scegliere di studiare psicologia. La psicologia evolutiva aiuta a comprendere come avviene lo sviluppo cognitivo dai primi giorni di vita all’età adulta. Lo sviluppo è un processo di evoluzione e di cambiamento incrementale. Si parte dallo studio dello sviluppo cognitivo nei bambini, che si conclude entro l’adolescenza, per poi passare al cambiamento decrementale cognitivo, come il deterioramento cognitivo e il declino di una serie di processi mentali. Il tutto è coadiuvato dallo studio delle relazioni, soprattutto quella madre- bambino, che non solo è alla base di un adeguato sviluppo cognitivo, ma può anche influenzare le possibili scelte relazionali future.

La qualità della relazione madre-bambino determina infatti il tipo di legame di attaccamento che si sviluppa e quindi il modello di relazione che ciascuno andrà ad interiorizzare e sulla base del quale plasmerà scelte ed aspettative relazionali successive. L’attaccamento, che è un sistema dinamico di atteggiamenti e comportamenti volti alla ricerca di cura e protezione da parte dell’altro, può generare sicurezza – il cosiddetto “attaccamento sicuro” – e farci sentire protetti, amati e accolti, o insicurezza – i cosiddetti attaccamenti evitanti o ambivalenti – e indurre a una serie di emozioni e comportamenti caratterizzati dall’incertezza rispetto al legame con l’altro, come dipendenza, paura del rifiuto, ansia e irritabilità. Ne consegue che la strutturazione di un attaccamento insicuro può presiedere allo sviluppo di una serie di disagi con se stessi, relazionali e sociali.

Un’altra motivazione per scegliere psicologia è che tale percorso di studi fornisce una conoscenza di base dei metodi di ricerca. Apprendere come sviluppare una ricerca facilita la messa in atto del pensiero deduttivo, pratico, volto al raggiungimento dello scopo. In questo ambito si facilita l’applicazione del pensiero critico, che consiste nell’analizzare con cura l’argomento oggetto di studio, valutarne le possibili implicazioni e giungere a conclusioni che si suppone possano essere corrette il più possibile. Il pensiero critico aiuta e agevola in molti ambiti, facilita a non giungere a conclusioni affrettate né a procrastinare nel conseguire la scelta. Il pensiero critico porta a non formulare ipotesi aggiuntive rispetto a quelle strettamente necessarie, procedendo per tentativi di errore. Questa modalità di pensiero aiuta nella vita quotidiana ad affrontare le situazioni, eliminando atteggiamenti o comportamenti superflui.

Potrebbe essere motivante anche capire come relazionarsi in situazioni di gruppo e duali. La psicologia sociale studia gli effetti dei processi sociali, identificando il modo in cui gli individui interagiscono tra loro attraverso dei processi sociali, ovvero i modi in cui i pensieri, le emozioni e le azioni sono influenzate dalle persone che ci circondano, dai gruppi a cui si appartiene, dai rapporti individuali, dalla famiglia e dalla cultura di origine. Questi meccanismi condizionano i comportamenti messi in atto in una relazione di coppia o amicale, nel gruppo dei pari e nell’ambiente lavorativo. In quest’ultimo caso si studiano i comportamenti delle persone nel contesto lavorativo e nello svolgimento della loro attività professionale. In altre parole, si applicano i modelli e le teorie della psicologia all’ambiente di lavoro per favorire il benessere non solo individuale, ma anche lavorativo facilitando una possibile progressione di carriera.

Ultima motivazione che potrebbe influire sulla scelta di intraprendere gli studi in psicologia è conoscere la psicopatologia dal punto di vista più propriamente clinico. Si parte dal padre fondatore, Sigmund Freud, secondo cui i processi psichici inconsci condizionano il pensiero, il comportamento e le interazioni tra le persone. Da qui si articola tutta la sua teoria che si basa, in estrema sintesi, sull’interpretazione dei sogni e l’applicazione del metodo ipnotico mentre il paziente è adagiato su un lettino. Dopo Freud, tanti altri si sono occupati di malattia mentale, ricordiamo Jung, Melanie Klein, Bion, e altri fino ad arrivare al giorno d’oggi. Attualmente, la malattia mentale è accuratamente classificata e incasellata nel manuale diagnostico e statistico della malattia mentale (DSM 5), dove criterio dopo criterio si definiscono le diverse patologie riconosciute sul piano clinico.

È possibile, inoltre, diagnosticare la malattia mentale attraverso una serie di test standardizzati e tarati che permettono di giungere a una diagnosi accurata e oggettiva. I test riguardano nello specifico il campo della psicodiagnostica, in cui ogni comportamento osservabile è misurabile e oggettivabile. I test permettono di inquadrare adeguatamente la patologia del paziente, sia per quanto riguarda i disturbi d’ansia, sia per i disturbi di personalità. I test sono usati in molti ambiti, non solo per effettuare diagnosi psicologiche, ma anche in ambito giuridico, oltre a soddisfare, ovviamente, la pura e semplice curiosità personale.

Concludendo, tante sono le aree che possono incuriosire e stimolare interesse. La psicologia è una scienza che investe diversi ambiti, che variano dall’individuale al collettivo, passando, ovviamente, lungo un continuum che va dalla normalità alla patologia. Sicuramente, studiare psicologia anche per pura cultura personale potrebbe aiutare a individuare modelli o teorie che possano facilitare la quotidianità.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La somministrazione di EPO per il trattamento dei deficit cognitivi nei pazienti depressi o con disturbo bipolare

Un nuovo studio ha dimostrato che l’eritropoietina (EPO), un ormone la cui funzione principale è regolare la produzione dei globuli rossi e meglio conosciuto per il suo impiego negli sport come doping per incrementare la propria performance, può migliorare le capacità cognitive in pazienti con disturbo bipolare o con depressione.

 

Questi disturbi, sebbene noti principalmente per gli effetti sortiti sull’umore dell’individuo, si accompagnano a dei deficit cognitivi significativi (Arts, Jabben, Krabbendam & Van Os, 2008; Bortolato et al., 2016) e i risultati dello studio in questione, pubblicato su European Neuropsychopharmacology, darebbero speranza agli scienziati riguardo la possibilità di trattarli.

Infatti, tra i pazienti depressi e bipolari si rilevano deficit per lo più a carico delle funzioni esecutive e della memoria verbale; i depressi, in aggiunta, evidenzierebbero anche una compromissione parziale delle proprie capacità attentive. Inoltre, più del 70% dei pazienti in remissione dal disturbo bipolare e più del 40% in remissione dalla depressione continuano a mostrare questo genere di compromissioni cognitive.

Per ciò che riguarda l’EPO, essa è per lo più secreta dai reni ed è appunto essenziale alla produzione di globuli rossi. In sostanza, ad una più alta concentrazione di EPO corrisponde una maggiore capacità del sangue di trasportare ossigeno. Per questo motivo è impiegata per il trattamento dell’anemia e in ambito sportivo per incrementare le performance fisiche.

In questo articolo vengono illustrati due RCT (randomized controlled trials) dove i ricercatori hanno valutato le funzioni cognitive di 79 pazienti depressi o con disturbo bipolare: a 40 di questi fu somministrata l’EPO per nove settimane, i rimanenti 39 invece assunsero un placebo.

Al termine degli studi si è osservato un significativo miglioramento nei test cognitivi (ad es., di memoria verbale, attenzione, abilità di planning) dei pazienti che avevano assunto l’EPO. Inoltre questo miglioramento permaneva anche dopo il follow-up di 6 settimane dal termine del trattamento. Secondo la dott.ssa Kamilla Miskowiak, autrice e lead researcher dello studio:

I pazienti trattati con EPO hanno mostrato un miglioramento delle loro funzioni cognitive fino a cinque volte superiore rispetto ai loro livelli di baseline rispetto ai pazienti trattati con placebo, che miglioravano solo del 2%.

Si è osservato anche che i pazienti che ottenevano bassi punteggi nei test neuropsicologici erano gli stessi che beneficiano di più dell’assunzione di EPO, caratteristica che permetterebbe ai clinici di meglio identificare i pazienti che trarrebbero maggior beneficio dal trattamento.

Gli autori hanno concluso affermando che sono necessari ulteriori studi che replichino questi risultati e che diano maggiori informazioni relative al dosaggio e alla frequenza di assunzione di EPO; invece, essendo già prescritta per il trattamento dell’anemia, la sicurezza dell’ormone è ormai conclamata. Infatti, la eritropoietina è generalmente sicura, a patto che i livelli dei globuli rossi del paziente siano controllati regolarmente; gli unici pazienti che dovrebbero evitare tale ormone sarebbero, ad esempio, i fumatori o coloro che in passato hanno avuto importanti coaguli.

Stile di camminata e personalità aggressiva: trovate nuove correlazioni

Un nuovo studio ha mostrato come una persona aggressiva possa essere identificata dal suo modo di camminare. Questa ricerca potrebbe risultare utile nella prevenzione della criminalità, al fine di riconoscere una persona con intenti aggressivi prima dell’agito criminoso.

 

Lo studio

Lo studio, condotto presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Portsmouth, è stato pubblicato sulla rivista Journal of Nonverbal Behavior, con l’obiettivo di utilizzare le tecniche di analisi della camminata, per dimostrare la relazione esistente tra andatura e personalità.

Liam Satchell e colleghi, si sono concentrati sulle cinque grandi dimensioni di personalità, sulla base della teoria del Big Five (McCrae e Costa): estroversione-introversione, gradevolezza-sgradevolezza, coscienziosità-negligenza, nevroticismo-stabilità emotiva, apertura mentale-chiusura mentale. Insieme questi cinque tratti possono aiutarci a determinare il modo in cui l’individuo pensa, sente e si comporta. Questi aspetti sono stati indagati in relazione all’andatura.

Un totale di 29 partecipanti hanno preso parte all’esperimento. Inizialmente è stata effettuata una valutazione di personalità basata sul modello del Big Five, e in seguito è stata registrata la camminata di ciascuno (attraverso la tecnologia Motion Capture), mentre camminava sopra un tapis roulant a velocità normale.

vLa tecnologia Motion Capture, registra i movimenti umani e utilizza le informazioni restituendo un modello animato in 3-D. Sono stati presi in considerazione i movimenti del torace e del bacino, insieme alla velocità del passo.

I risultati hanno mostrato come un movimento particolarmente marcato del corpo, sia nella parte alta come nella parte bassa, siano indicatori di aggressività. E’ stata inoltre osservata una moderata correlazione tra la velocità del passo e aggressività nei maschi, mentre tale correlazione non è stata rilevata tra le femmine, e nel campione intero.

I risultati dello studio

I partecipanti su cui è stata rilevata una predisposizione all’aggressione fisica più alta hanno mostrato dei movimenti maggiori sia nella parte superiore del corpo sia in quella inferiore. [blockquote style=”1″]Le persone sono generalmente consapevoli che c’è una relazione tra spavalderia e psicologia. La nostra ricerca fornisce una prova empirica che conferma come la personalità si manifesti anche nel nostro modo di camminare[/blockquote] dice Satchell.

Questo tipo di rilevazioni potrebbero essere utilizzate per aiutare nella prevenzione del crimine. [blockquote style=”1″]Se gli osservatori a circuito chiuso potessero essere addestrati a riconoscere una “camminata aggressiva”, come dimostrato nella presente ricerca, il loro riconoscimento preventivo di un crimine potrebbe esserne migliorato[/blockquote] aggiunge Satchell.

Ulteriori ricerche sono comunque necessarie per stabilire la tipologia di correlazione e i rapporti di causalità tra andatura e personalità.
[blockquote style=”1″]L’esistenza di queste correlazioni mostra il potenziale di ricerca nelle relazioni tra differenze psicologiche individuali e differenze nei movimenti. [/blockquote]

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