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46esimo Congresso EABCT – Stoccolma 2016

Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale: il 46eismo Congresso della Società Europea a Stoccolma 

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 02 Set. 2016

Roots and present branches of CBT

EABCT 2016

Il 46esimo congresso della società europea delle terapie comportamentali e cognitive (EABCT, European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) in corso a Stoccolma dal 31 agosto al 3 settembre è –a ragione- molto celebrativo. A tratti corre il rischio di esserlo un po’ troppo. Il tema del congresso sono le radici e la storia della terapia cognitivo-comportamentale, la buona vecchia CBT (cognitive behavioural therapy) e, accanto alle radici, le sue ramificazioni, le sue branches: “Roots and present branches of CBT”.  Il dubbio è che questo ritorno alle radici sia un compenso per l’eccessiva ramificazione, il moltiplicarsi delle “present branches”. Ramificazione che, come sappiamo, rischia di diventare frammentazione.

 

La storia della CBT

Fin dalla cerimonia di apertura molte presentazioni ripercorrono la storia della CBT. Nella prima giornata del congresso ne ha parlato Art Freeman, che ha raccontato i tempi eroici rievocando come fino al 1977 i termini “cognitive therapy” o “cognitive behavioural therapy” non fossero diffusi. La presentazione di Freeman però ha mostrato i limiti di un approccio celebrativo e anedottico, che ha finito di essere di scarso spessore. Ci sarebbero davvero ben altri argomenti su cui riflettere ripercorrendo la storia della CBT, a cominciare dalla sempre più evidente prevalenza delle credenze sul sè (self-beliefs) e degli schemi del sé (self-schemata) che hanno reso la CBT una sorta di psicologia del sé. Freeman invece ha preferito andare sul sicuro con i suoi racconti, ora affascinanti ora risaputi. Il momento migliore è stato quando ha rievocato la figura di Carlo Perris, lo psichiatra italo-svedese che fu tra i primi a portare la CBT in Europa.

 

Le sfide future della CBT

Più sostanzioso Terence Wilson che ha parlato del futuro e delle sue sfide invece che del passato. E queste sfide sono due: l’efficacia della CBT e la sua diffusione. Forse anche Wilson ha evitato i nodi teorici più critici, ma ha affrontato alcuni non detti che occorre riconoscere dietro il trionfalismo. L’efficacia è il primo. La CBT, almeno per alcuni disturbi, rimane la psicoterapia più efficace, anzi la prima davvero efficace in maniera nettamente maggiore rispetto al placebo. È la CBT che ha dimostrato che la psicoterapia può dare qualcosa di più rispetto al sostegno psicologico. Tuttavia questa efficacia non è ancora soddisfacente. Per troppi disturbi, come la bulimia, la percentuale di successo balla intorno alla metà dei casi o addirittura un po’ meno, come nel disturbo ossessivo compulsivo. In termini di efficacia assoluta si può essere contenti per il disturbo da panico e il disturbo d’ansia generalizzato, dove la CBT compete e supera i farmaci. Per quanto anche in questi casi il merito vada condiviso con interventi comportamentali e metacognitivi, massicciamente usati nei protocolli CBT.

La seconda sfida è la diffusione. Anche nei paesi dove c’è un riconoscimento istituzionale, come nel Regno Unito, vi è un singolare attrito degli operatori che rallenta la piena esecuzione della CBT vera e propria, eseguita rigorosamente secondo le regole protocollate. Sarà la naturale tendenza degli operatori psicoterapeutici ad applicare l’approccio più libero della conversazione, spesso spacciato per cura della relazione, fatto sta che siamo ancora lontani da un’applicazione rigorosa dei protocolli. È il problema dell’aderenza. In questo senso una delle presentazioni più attese sarà quella di David Clark, che ripercorrerà la storia (sempre la storia; è un congresso un po’ antiquario) di come il servizio sanitario britannico inserì la psicoterapia nei suoi programmi, il cosiddetto IAPT (Improving Access to Psychological Treatment). Vedremo cosa ci racconterà.

 

Successi e insuccessi della CBT

Sempre nella prima giornata una tavola rotonda su successi e insuccessi della CBT radunava Arnout Arntz, Judith Beck, Ann Marie Albano, Paul Emmelkamp, Art Freeman e Lars-Goran Ost. Dopo aver rapidamente enumerato i successi è stato interessante ascoltare i pareri sugli insuccessi, il che fa capire anche quali sono le future direzioni. Judith Beck ha tirato fuori quello che è ormai il suo marchio di fabbrica: la relazione terapeutica nel trattamento dei disturbi di personalità. È una risposta eclettica che pesca molto dalla psicoanalisi. Ha una sua efficacia, anche perché la Beck la declina in termini cognitivi evitando le genericità di altri: la relazione come esposizione in vivo ai problemi relazionali e possibilità di ristrutturarli in diretta. Una risposta di buon senso clinico che però difetta di robustezza teorica e che, inoltre, è applicata in maniera insufficiente. In fondo si tratta della stessa innovazione della Schema Therapy, che però riesce a produrre un’efficacia significativamente aumentata. La domanda è: è la Schema Therapy ancora una CBT? È una branch che può testimoniare la persistente forza della CBT o è invece prossima a distaccarsi e quindi a indebolire la CBT?

In rappresentanza della Schema Therapy ha parlato Arntz, che tra gli insuccessi della CBT ha enumerato la carenza di interventi esperienziali e l’eccesso di freddezza sperimentale. Anche lui insiste sulla relazione e sul buon senso clinico. Non mi pare un buon segno tutto questo insistere sul buon senso. Per sentire questo non è necessario venire a un congresso. Si delinea una svolta esperienziale e relazionale sempre più accentuata. Emmelkamp ha evocato un futuro tecnologico, con programmi informatici di realtà virtuale che permetteranno di manipolare l’esposizione con più facilità rispetto all’esperienza in vivo. Questo è almeno più concreto. Ann Maria Albano ha raccomandato che si dia maggiore importanza alla componente evolutiva, alla storia di vita del paziente. Storia di vita e relazioni, siamo sempre li, però la Albano ha un protocollo preciso per le relazioni genitoriali. Ancora una volta un po’ banale il contributo di Freeman, che ha esortato la CBT a restare unita e a evitare la frammentazione incombente. Ost invece ha giocato la parte del custode dell’ortodossia, sottolineando i successi.

 

Comportamentismo, CBT e ACT a confronto

In un’altra tavola rotonda si sono confrontati su un caso clinico Jonas Ramnero (comportamentista ortodosso), Keith Dobson (CBT standard) e Lance McCracken, seguace del nuovo approccio ACT (Acceptance and Commitment Therapy, terapia dell’accettazione e dell’impegno). È interessante come anche in questo caso il comportamentista e il CBTista, di fronte alle richieste di come avrebbero affrontato gli aspetti che sfuggono ai rispettivi approcci, abbiano tirato in ballo interventi relazionali ed esperienziali, che però risultavano attaccati in maniera incongrua al loro approccio, come mezzi di fortuna tirati fuori non sapendo che fare. L’esponente ACT aveva dalla sua la possibilità di descrivere il suo operare con una maggiore omogeneità teorica e clinica.

 

Il protocollo di cura dell’ansia sociale: aggiornamenti

Identica impressione nel workshop di David Clark sull’ansia sociale, di cui è autore del protocollo originale di cura. La CBT per l’ansia sociale è una dei grandi successi della nostra terapia. Eppure, non ci si può accontentare. Dopo quarant’anni è necessario se non altro produrre un “update”, un aggiornamento, che poi era il titolo del workshop. Ed è anche giusto riconoscere che la CBT è efficace, perfino molto efficace, ma anche che il numero di persone che non rispondono bene al trattamento rimane alto. Bisogna passare dal “più della metà” al “quasi tutti” migliorano. E anche questo in caso Clark aggiorna inserendo un’appendice non del tutto coerente con il corpo teorico centrale della CBT, ovvero l’addestramento attenzionale, la capacità di fare meno caso ai segnali relazionali in maniera da abbassare l’ansia di essere giudicati. Intervento davvero efficace e che ha anche il merito di non essere l’usuale manfrina sulla relazione, parola generica che ormai significa tutto e nulla. Al contrario, l’addestramento attenzionale è una tecnica molto ben definita. Esso però risponde più a una logica metacognitiva che CBT. Clark non ha affrontato questo nodo, anche a ragione trattandosi di un workshop e non di una prolusione teorica.

 

L’impressione generale

Insomma, l’impressione generale è che da qualche anno la CBT si stia dibattendo con i suoi limiti. Tentando di superarli, teme però di snaturarsi. Inoltre sembra indecisa tra una strada metacognitiva e una relazionale, interpersonale ed esperienziale. Fino a qualche anno fa la risposta prevalente sembrava la mindfulness, strada che aveva quasi egemonizzato un paio di congressi. Ora la mindfulness sembra una risposta tra le tante, e nemmeno quella prevalente. Questo congresso  sembra preferire la strada relazionale ed esperienziale, quest’ultima magari in chiave tecnologica e virtuale.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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