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Attaccamento traumatico: il ritorno alla sicurezza (2016) – Recensione

Attaccamento traumatico: il ritorno alla sicurezza. Un titolo denso di speranza e di fiducia quello scelto dall’autrice, che descrive percorsi clinici possibili, basati su solide basi teoriche, per i bambini e gli adulti che non hanno potuto avere benefici da una base sicura (J.Bowlby, 1980). Dal trauma che rompe la possibilità di sicurezza alla terapia che genera possibilità di sperimentare il senso di sicurezza.

L’attaccamento traumatico e gli effetti delle traumatizzazioni infantili

Anna Rita Verardo è psicologa e psicoterapeuta, con specializzazione in terapia cognitiva comportamentale e sistemica relazionale, è docente e supervisore per l’associazione EMDR e vanta numerosi studi circa gli effetti delle traumatizzazioni infantili e dell’ attaccamento traumatico.

Nella prima parte del testo l’autrice ripercorre il processo di costruzione del legame d’attaccamento tra genitore e bambino, illustrando i fondamentali presupposti teorici: i sistemi motivazionali; i modelli operativi interni; il concetto di base sicura.
Molto interessante l’approfondimento circa la depressione post-partum; gli stati intersoggettivi nella diade mamma-bambino e i processi di rottura e di riparazione nella relazione tra caregiver e bambino.

Che cosa accade a un bambino quando nella sua primissima infanzia vive e subisce un’esperienza traumatica? Un abbandono, un maltrattamento, un abuso o l’assistere a una violenza intra-familiare? Dove vanno queste immagini, questi ricordi nella sua mente?
Gli eventi traumatici nella prima infanzia, ormai da anni la ricerca l’ha dimostrato, non si dissolvono nel cervello di un bambino seppure molto piccolo….. costruiscono una traccia mnestica precisa nelle reti neurali; una traccia in parte accessibile a livello della coscienza ma una traccia capace di interrompere lo stato di sicurezza e di ostacolare il sano e armonico sviluppo psicologico del bambino.

Le teorie che spiegano l’attaccamento traumatico

La dottoressa Verardo spiega gli effetti delle traumatizzazioni infantili alla luce della teoria Polivagale di Porges (2011) e del concetto di “finestra di tolleranza” di Siegel (1999). Per finestra di tolleranza s’intende il grado di arousal che garantisce al soggetto, sia esso adulto o bambino, le condizioni ottimali per un buon funzionamento.

Il grado ottimale di attivazione varia da persona a persona e si modifica in relazione alle esperienze precedenti, esso si colloca tra gli estremi scarsa attivazione (sotto la finestra di tolleranza) ed eccessiva attivazione (sopra la finestra). Molto spesso le storie di traumi infantili, a causa dello stress prolungato, riducono l’ampiezza della finestra di tolleranza e il soggetto tende a emettere risposte di disregolazione emotiva e comportamentale anche se si trova in situazioni di sicurezza.

Nel testo si descrivono specifiche situazioni traumatiche in età evolutiva quali il lutto, l’abbandono da parte del genitore biologico e l’adozione. Alla luce della teoria di Siegel e di Porges l’autrice ne illustra gli esiti possibili sullo sviluppo emotivo e relazionale del bambino e fornisce indicazioni circa il trattamento psicoterapico.

Teoria dell’attaccamento e Teoria Polivagale non solo forniscono una base esplicativa ma importanti indicazioni che il clinico potrà utilizzare per favorire “il ritorno alla sicurezza”.

EMDR: possibile trattamento dell’attaccamento traumatico

Inoltre lo psicoterapeuta troverà nel testo importanti contributi provenienti dall’approccio EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). Il National Institute of Mental Health ha approvato l’utilizzo dell’EMDR come metodo elettivo per la rielaborazione dei traumi. Emdr si basa sulla teoria dell’elaborazione adattiva dell’informazione (Shapiro, 1995): sembra esserci nell’uomo un’innata capacità di autoguarigione delle ferite emotive favorendo un’elaborazione adattiva dei ricordi delle ferite stesse. A volte accadono esperienze così traumatizzanti da mandare in corto circuito questo sistema bloccandolo e mantenendo le informazioni riguardanti il trauma (immagini, suoni, parole, pensieri ecc.) congelate in uno stato disturbante.
L’Emdr si focalizza sul ricordo dell’esperienza traumatica e mediante un protocollo specifico di otto fasi, permette il riequilibrarsi dell’elaborazione dell’informazione traumatica.

Le otto fasi comprendono:
1. Anamnesi
2. Preparazione del bambino: spiegazione del metodo; esercizio del posto al sicuro e installazione di risorse.
3. Assessment
4. Desensibilizzazione
5. Installazione
6. Scansione corporea
7. Chiusura
8. Rivalutazione.

Il protocollo standard in otto fasi è declinato in diversi adattamenti in base al tipo di esperienza traumatica vissuta e all’età del cliente/paziente. Nel testo, Verardo descrive l’adattamento del protocollo EMDR per l’età evolutiva con gli opportuni accorgimenti e semplificazioni che un bambino necessita, secondo la specifica età e delle competenze emotive e cognitive.

Inoltre ampio spazio è dedicato al lavoro con i bambini adottati e i loro genitori adottivi, e al protocollo per l’elaborazione del lutto.

Verardo descrive il programma Feel Safe, ideato da lei e suoi collaboratori: si tratta di un intervento di sostegno psicologico rivolto ai bambini che hanno subito esperienze avverse e ai loro genitori. Il programma Feel Safe si avvale dell’EMDR per prevenire e risolvere quadri psicopatologici, e/o difficoltà relazionali ed emotive derivanti da traumi infantili; traumi dei genitori o traumi dei figli.

Il testo è arricchito da numerose esemplificazioni cliniche e da materiali in grado di agevolare il lavoro del clinico, ad esempio il questionario ACE (Adverse Childhood Experience) che quantifica il numero delle esperienze negative occorse entro i diciotto anni. Il lettore troverà questionari di assessment sia per i genitori sia per i bambini, inoltre scale di autovalutazione dei bisogni del genitore, utile punto di partenza per un lavoro educativo e di sostegno psicologico con i caregiver.
L’autrice generosamente descrive le attività che propone ai bambini durante la terapia: il gioco degli sguardi, la scatola dei ricordi positivi e il gioco del volume. Si tratta di attività pensate e sperimentate per facilitare la relazione terapeutica con il piccolo paziente e facilitare la connessione tra parti traumatizzate e nuove parti, l’integrazione tra presente, passato e futuro; lo scopo è che queste parti possano dialogare in modo adattivo generando la possibilità di pensare a un futuro positivo.

Il lavoro d’integrazione delle parti fatto con l’Emdr aiuta il bambino a comprendere che gli elementi delle esperienze traumatiche del passato (pensieri, emozioni, sensazioni del corpo) possono essere elaborati e non incastrati causando continuamente sofferenza. [blockquote style=”1″]Se correttamente integrati all’interno della propria storia, lo lasceranno libero di fare esperienze positive nel presente e di poter avere fiducia nel futuro.[/blockquote]
Questa frase dell’autrice racchiude il senso e lo scopo del lavoro dello psicoterapeuta con i bambini traumatizzati.

Credo nelle capacità riparative dei genitori e degli operatori (psicoterapeuti e educatori) e penso che questo testo possa essere un valido supporto ai colleghi che si occupano di questo delicato lavoro e auguro a questi bambini di poter sperimentare la sicurezza.

Significato e implicazioni psicologiche del breast ironing nelle comunità camerunesi

Il breast ironing, noto anche come appiattimento del seno, è una procedura utilizzata in Camerun e riguarda le bambine dagli 8 ai 12 anni, periodo in cui comincia a svilupparsi il seno. A differenza delle procedure di mutilazione genitale femminile, tale pratica non è ancora molto conosciuta a livello internazionale.

Antonietta Mastrandrea – OPEN SCHOOL, Bolzano

 

Che cos’è il Breast Ironing

Il breast ironing, noto anche come appiattimento del seno, è una procedura utilizzata in Camerun e riguarda le bambine dagli 8 ai 12 anni, periodo in cui comincia a svilupparsi il seno.

A differenza delle procedure di mutilazione genitale femminile, tale pratica non è ancora molto conosciuta a livello internazionale, ma se ne è iniziato a parlare nel 2005 a seguito di uno studio nazionale condotto da una associazione camerunese, ‘La Rete Nazionale delle Ziette (RENATA)’ e delle ricerche sul campo del dottor Flavien Ndonko e della dottoressa Germaine Ngo’o che collaborano con la ‘Società tedesca per la cooperazione internazionale’.

Dalla ricerca, condotta sotto forma di intervista, è emerso che gli strumenti utilizzati per attuare il breast ironing possono essere i più vari e il loro utilizzo è dovuto a numerose tradizioni e superstizioni: si passa dall’applicazione di specifiche foglie medicinali riscaldate, gusci di noce di cocco, ghiaccio, fino all’utilizzo di stracci caldi, noccioli di frutti, pietre per macinare e pestelli di legno. L’oggetto in questione viene di solito riscaldato e applicato sul seno attraverso un movimento di massaggio o di vera e propria pressione. Il metodo più utilizzato nella pratica di breast ironing è quello di riscaldare un pestello a una estremità e poi schiacciare i seni immaturi per qualche minuto; di solito le ragazze sottoposte a tale pratica vengono sorprese nel sonno e immobilizzate per evitare la fuga. Ma sono documentate anche pratiche in cui si fa abbracciare alla bambina a petto nudo un tronco di banano e poi la si fa sfregare vigorosamente intorno ad esso.

Secondo le donne intervistate, la durata delle sessioni di breast ironing varia dai 10 ai 15 minuti e la frequenza del trattamento può variare da due volte al giorno, per settimane o anche mesi, fino a che il seno non sparisce.

L’appiattimento del seno viene praticato dalle donne della famiglia: mamme, nonne, zie, cugine, sorelle, bambinaie, a prescindere dal livello socio-economico,  istruzione, cultura di appartenenza e credo religioso. I padri spesso non sono a conoscenza dell’accaduto, è una pratica tutta al femminile. La motivazione spesso addotta a giustificare la pratica è l’intenzione delle donne di famiglia di preservare la fanciullezza delle figlie che iniziano a svilupparsi precocemente, per dissuadere le attenzioni di carattere sessuale da parte degli uomini e l’inizio di un’attività sessuale che potrebbe portare a una gravidanza non desiderata. Tuttavia è emerso che le donne che praticano l’appiattimento di solito non spiegano le motivazioni del gesto alle bambine.

 

Effetti del Breast Ironing

Come ben si può immaginare, la pratica del breast ironing può avere delle conseguenze non solo sulla salute fisica della bambina, ma anche su quella mentale.

Sebbene non siano stati condotti studi medici sugli effetti collaterali dell’appiattimento del seno, dalle interviste condotte emerge che gli effetti fisici maggiormente riscontrati sono il ritardo o interruzione della crescita del seno, ascessi con febbre, ferite, bruciature e cicatrici e in ultimo anche cancro al seno. Tuttavia non possono essere confermate o negate conseguenze a lungo termine.

Molte ragazze che hanno subito il breast ironing, soffrono anche a livello psicologico: esse riportano di soffrire molto per le cicatrici emotive che derivano dall’appiattimento del seno, poiché il messaggio che arriva loro dalle donne della famiglia è che avere il seno è sbagliato e vergognoso. In particolare si osservano fenomeni di interiorizzazione della colpa dovuta all’interpretazione di subire la pratica come punizione per aver causato dispiacere ai propri genitori; sensazione costante di paura; quando poi il seno si sviluppa in seguito, emerge uno stato di vergogna, in quanto nella mente della ragazza si fa largo l’idea che non dovrebbe avere il seno; depressione e ritiro in se stessa; esclusione ed emarginazione sociale, qualora la pratica dell’appiattimento arrivi a distruggere il seno della ragazza; non per ultimo diminuzione dell’autostima e della motivazione, sensazione di depersonalizzazione, non sentirsi più donna.

Le suddette implicazioni psicologiche del breast ironing derivano dal fatto che le ragazze che subiscono l’appiattimento, non ne conoscono i motivi e vivono l’evento come doloroso e inspiegabile; dalle interviste emerge che poi le ragazze reprimono il ricordo e non associano l’appiattimento del seno con i disturbi psicologici che sviluppano, oppure arrivano a negare di avere dei sintomi, riferendo quello che accade loro come normale.

Dall’altra parte ci sono le implicazioni psicologiche di chi effettua l’appiattimento del seno: come può una madre provocare questa immensa sofferenza alla propria figlia? Sebbene sappiano quanto dolore fisico causino alle proprie ragazze, queste donne non lo fanno con l’intento di mutilarle, ma per la loro protezione e per garantire loro il massimo interesse, ovvero poter preservare la fanciullezza per evitare gli stupri, non rimanere precocemente incinta, mantenere intatta la loro reputazione, proseguire il più possibile gli studi per guadagnare l’indipendenza e per contrarre un buon matrimonio in un’età più adeguata.

 

Considerazioni

In un’ottica interpretativa occidentale, il breast ironing può essere visto come una procedura brutale equiparabile alle pratiche tradizionali dannose come  la mutilazione genitale femminile, il matrimonio in età infantile o la dote della sposa. Può essere considerata una discriminazione silenziosa perché nessuno ne parla e paradossale perché avviene tra simili, appartenenti alla stessa cultura e addirittura alla stessa comunità. In realtà è plausibile dover interpretare i fenomeni tenendo sempre presente la cultura di riferimento.

Nel nostro caso, l’appiattimento del seno viene vissuto come uno strumento di protezione e di controllo del proprio corpo da parte della donna, in una cultura in cui tutto il potere viene esercitato dagli uomini e dove le donne non sono libere di essere consapevoli delle loro scelte. Anche se i cambiamenti socio-culturali dovuti alla maggiore istruzione e alle varie campagne di sensibilizzazione stanno includendo sempre più la donna all’interno della società, le decisioni maggiori nei vari ambiti della vita rimangono in mano agli uomini: si veda ad esempio le pratiche matrimoniali che rimangono bene o male quelle tradizionali, che includono il matrimonio a un’età della donna precoce, la poligamia e disparità di diritti in caso di divorzio.

Un’altra interpretazione plausibile è il controllo della famiglia sulla propria figlia: uno sviluppo precoce dei seni, indica maturità sessuale; se una ragazza giovane accetta le avance sessuali degli uomini, può rimanere incinta al di fuori del matrimonio, guadagnandosi una cattiva reputazione e rovinando anche quella dell’intera famiglia. Anche qui siamo nella situazione in cui la singola donna non può essere padrona del proprio corpo.

Infine l’appiattimento del seno può essere interpretato come speranza per una vita più indipendente a livello economico e sociale e meno dipendente dal potere maschile: con il seno piatto diminuiscono le possibilità di matrimonio precoce, aumentano la possibilità per le donne di aumentare la propria istruzione e di arrivare a fare carriera in ambito lavorativo, facendo sì che autonomia e autosufficienza diventino sempre più la realtà in un contesto sociale ancora troppo maschilista.

 

Conclusioni

Anche se la pratica del breast ironing è una componente della cultura all’interno delle comunità camerunesi, ciò non significa che non costituisca uno strumento di sofferenza psichica e fisica delle giovani ragazze e questo non solo va contro la convenzione sui diritti dell’infanzia (articolo 19) ma è stato inserito tra i crimini contro le donne dalle Nazioni Unite, e perciò si auspica che venga abbandonata. A tal proposito gli interventi da mettere in atto sono le campagne di sensibilizzazione sulla salute e la biologia umana, l’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole, favorire una migliore educazione e comunicazione tra genitori e figli, ma anche la diffusione dell’esistenza di tale pratica a livello nazionale e internazionale.

Inoltre lo Stato del Camerun negli ultimi anni si è impegnato a tutelare i diritti umani, quelli delle donne e dei bambini attraverso la ratifica di numerosi atti internazionali quali la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) e la Carta di Ottawa per la Promozione della Salute dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità (1986). Tuttavia per quanto riguarda il breast ironing nello specifico, non sono state ancora emesse leggi che rendano la pratica illegale.

Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, sai che ci sono

A conti fatti, la terza volta che mi trovo in una chiesa dopo la prima comunione. Un paio di matrimoni da cui è stato impossibile sottrarsi. Ai funerali, mai andato. C’è gente che ha rotto con me per questo. Ma non posso farci niente. Non reggo il mio imbarazzo, l’inadeguatezza fisica – anche il semplice fatto di avere due braccia e due gambe – di fronte al dolore altrui.

Questa volta, la terza, la messa per mia madre.

Poca gente. Se muori dopo aver attraversato quasi tutti gli stadi della demenza, per la maggior parte delle persone sei morto molto prima. Solo che fare le condoglianze ai parenti in quel momento sarebbe indelicato. Ora, non lo ammettono, non è morto nessuno. È solo arrivato il momento di disfarsi di un oggetto inservibile.

Sto seduto in prima fila accanto a mio padre, lui stesso sgomento, sorpreso per quanto stia soffrendo. Anche se fa in modo che il suo dolore occupi meno spazio possibile. La sua tendenza a mantenere un basso profilo, rendersi poco evidente. La sua specialità, passare inosservato, eppure essere capace di guizzi improvvisi che lasciano l’interlocutore e gli eventuali altri presenti disorientati. Mi ricordo una cena sociale con un gruppo di suoi colleghi (mio padre fa il cardiologo). Mi aveva portato con sé ad un congresso a Vienna sponsorizzato da una casa farmaceutica. Avevo diciassette anni. Portarmi con sé era uno dei suoi modi per dirmi che mi vedeva già medico come lui. E a me stava benissimo, perché in quella fase della mia vita questo era un modo efficace per dargli una prova di quanto potessi diventare un’estensione di lui. A quella cena c’erano alcuni colleghi che lui non conosceva. Lo osservavo con un’inquietudine la cui natura non comprendevo pienamente in quel momento. Ora so che intravedevo il suo senso di estraneità. Quando rideva per una battuta di un suo collega, il suo imbarazzo si scioglieva momentaneamente, sembrava meno oppresso da un peso invisibile, e allora anche io mi lasciavo alleggerire da una risata piena, anche perché il suo collega faceva veramente pisciare sotto quando faceva finta di parlare in tedesco con l’accento viennese (del tutto inventato).

Fino a un secondo prima tutte quelle persone non lo avevano visto.

Il loro sguardo era passato rapidamente su quell’ometto brizzolato e grintoso alla Dustin Hoffmann nella riduzione cinematografica de La versione di Barney. Poi quello sguardo aveva archiviato immediatamente l’informazione come non rilevante. Era in situazioni come queste che mio padre poteva uscirsene all’improvviso con una risposta o una battuta che lo rendeva improvvisamente visibile. La sua presenza diventava palpabile. Discreta ma imprescindibile. Da quel momento iniziavi a scorgere nell’espressione di alcuni dei presenti una specie di diffidenza assorta. Come se per loro non fosse stato lì fin dall’inizio.

Come se fosse comparso all’improvviso seduto al suo posto.

Il prete, don Carlo, a mia madre voleva bene. Almeno così dice. Il fatto è che nelle fasi intermedie del suo lento deterioramento, mia madre faceva continuamente donazioni alla parrocchia, quindi è difficile che don Carlo la vedesse come una nemica della fede.

Mi conosce di vista. Non so se lo fa perché quel giorno è a corto di personale o per una forma molto religiosa di presa per il culo, ma mi chiama a declamare la lettura e quel richiamo ipnotico dei fedeli alla sintonizzazione forzata che chiamano Salmo Responsoriale.

Mi tocco un paio di volte il petto con l’indice per mimare a don Carlo ‘chi, io? Ma è sicuro?’, poi mi avvio verso l’ambone scambiandomi solo uno sguardo rapido con Cristo, che se ne sta lì, in alto, troneggiante, moribondo, inchiodato a una croce di legno spesso. Messo lì al centro preciso di ogni cosa.

Quello che deve essere il sagrestano mi mostra le due pagine che dovrò leggere, contando molto sul mio intuito. E sbagliando, perché inverto la sequenza delle declamazioni. Inizio col Salmo. E leggo:

– Il Signore è il mio past..

Il sagrestano, che si è messo alla destra dell’ambone, si precipita felinamente sul microfono per coprirlo con la mano. Mi guarda come se mi avesse sorpreso mentre profano la tomba del papa, poi forse si ricorda che sono il figlio della defunta e si addolcisce, indicandomi dove iniziare a leggere.

I pochi grumi di platea fanno finta di non aver rilevato la cosa. Mio padre mi guarda con un’espressione assente.

Riprendo, imponendomi di dominare il rossore prendendo la cosa sportivamente. In fondo, mi immaginano confuso dal dolore:

– Dal libro del profeta Isaia…

E faccio una pausa perché il ricordo infantile riemerso all’occorrenza mi dice che si fa così. Poi vado in modalità congresso di psichiatria, e recito con distacco professionale:

– In quel giorno, preparerà il Signore dell’universo per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi é il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza».

Sollevo un momento lo sguardo sull’uditorio. Rilevo che non ha un’espressione molto diversa da quella che aveva prima che io iniziassi a leggere.

– Parola di Dio.

E loro, in coro:

– Parola di Dio.

Freno la tentazione di ripetere due o tre volte Parola di Dio per verificare che mi vengano dietro. Poi guardo il sagrestano per chiedergli l’ok. Lui me lo dà con un cenno del capo. Sento che tra me è lui c’è già un’intesa speciale. Mi gaso un po’ quando declamo:

– Ripetete con me: “Il Signore é il mio pastore: con lui non manco di nulla.”

E loro ripetono.

E io:

– Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.

Li guardo e loro, puntuali:

– Il Signore è il mio pastore: con lui non manco di nulla.

Prendo il ritmo.

– Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Incespico sulla parola “vincastro” perché non so assolutamente che significhi.

– Il Signore è il mio pastore: con lui non manco di nulla.

– Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca.

– Il Signore è il mio pastore: con lui non manco di nulla.

– Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni.

Sull’ultimo ‘Il Signore è il mio pastore: con lui non manco di nulla’, guardo il sagrestano, che mi telecomanda al mio posto.

Mi sento strano.

Don Carlo mi ringrazia con un cenno della testa. Con molto più mestiere di me inizia a leggere il passo del Vangelo che ha scelto per mia madre, discostandosi un po’ dal rito funebre classico. Un prete flessibile. La sua voce é suadente, sincopata.

“Un uomo chiese a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n`ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».”

Il buon samaritano. Trattare il prossimo tuo come vorresti che il prossimo tuo trattasse te.  La compassione.

Senza soluzione di continuità si mette a parlare di mia madre. Mentre dice le cose di routine sulla vita eterna mi guardo le nocche della mano destra. Non ho mai capito perché nelle situazioni in cui c’è solo da aspettare che passi il tempo mi guardo le nocche delle mani, e soprattutto perché mi guardo proprio le nocche della mano destra.

Poi però don Carlo dice una cosa su mia madre, paragonandola al buon samaritano. Qualcosa che ha a che fare con la generosità, ma di cui la mia mente non riesce a registrare testualmente. Una cosa che in quel momento mi sembra nuova. E che può sapere solo chi l’ha conosciuta veramente. Non chi, come me, l’ha conosciuta e basta. Non capisco bene il concetto, perché raggiunge solo la metà del mio cervello non impegnata a fissare le mie nocche. Tanto che non ricordo nemmeno le parole esatte che don Carlo usa per esprimerlo. Qualcosa dentro di me fa più presto della comprensione semantica. Il senso di una corrispondenza sperata. Quella cosa che mia madre aveva è la stessa cosa che io ho sempre desiderato avere. Come se mi arrivasse all’improvviso la consapevolezza che questa cosa che ha a che vedere con la generosità, lei ha provato ad insegnarmela per tutta la vita, ma non c’è riuscita perché io non sono stato in grado di capire in tempo.

Faccio a piedi la strada che separa la chiesa dal mio studio. Ho deciso che oggi è meglio lavorare.

Il cellulare non la smette di vibrare. Tanto che lo tengo in mano. Gli sms fioccano. Recitano tutti diverse variazioni sul tema di quella frase. La solita. “Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, non esitare a chiamarmi”. Molti degli sms provengono da persone che ho salutato poco fa. Al funerale, c’erano. Al termine della funzione si sono messi in fila, composti. Un gregge affranto. Ciascuno di loro, quando è arrivato il suo turno, mi ha abbracciato tenendo lo sguardo basso e scuotendo la testa. Alcuni hanno solo scambiato con me uno sfioramento di guance, prima una poi l’altra. Di altri, ho sentito l’umido delle labbra sulla pelle del viso.

Ma sentono che non basta. Che ti devono qualcosa di più. E allora ti fanno arrivare questo sms nel momento, loro immaginano, che sarai rimasto solo. Se lo immaginano come il momento più difficile, quello in cui la messa finisce e tu rimani senza di loro.

Nei giorni successivi ne riceverò tanti altri, di sms. Sarà il turno di quelli che al funerale non ci sono venuti. Tra l’altro, ci farò caso solo in quel momento che al funerale non c’erano. Perché, anche se il tema e il tono non variano (“Se posso fare qualcosa per te ti prego dimmelo”, “Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, sai che ci sono”, “Sono con te, e per qualunque cosa fai affidamento su di me”, ecc.), gli sms di questa seconda serie sono preceduti da bugie sociali che hanno la forma di acrobazie del luogo comune del tipo “Mi è stato impossibile esserci fisicamente ma ero lì con te nello spirito”.

Fatto sta che quello che più o meno tutti mi dicono è che il mio lutto mi abilità a disporre di loro.

Possibile che chi dice o scrive questa frase pensi veramente che lo chiameremo alle tre del mattino, in preda all’angoscia, solo per dirgli che siamo in preda all’angoscia? E che, attanagliati dall’angoscia per tutta la giornata, ci siamo dimenticati di andare a comprare il pane, e se per cortesia può alzarsi, vestirsi, uscire e trovare un forno, tanto nel giro di un’ora apriranno (che gli costa aspettare una mezz’ora in macchina davanti alla saracinesca chiusa?) e portarci uno sfilatino caldo. Quello sì, che attenuerebbe l’angoscia. Possibile, poi, che se quella frase te la dice un’amica bona che hai sempre desirato scoparti senza riuscirci, questo possa voler dire che stavolta lei non potrà sottrarsi?

Insomma, quando le persone pronunciano quella frase o te la scrivono via sms, che sembra quasi che dal telefonino esca pure la loro faccia costernata, accudente, fanno veramente? Ma sul serio la morte di qualcuno con cui avevi un legame sufficientemente stretto genera il diritto temporaneo a disporre del prossimo? Riproducendo (anche se per un tempo limitato, perché poi il lutto ci mette poco, soprattutto per gli altri, ad andare in prescrizione, anche il più atroce) l’onnipotenza dell’infanzia.

 

 

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Le bugie: quali motivazioni le sostengono, l’influenza del testosterone e gli effetti sul benessere psicologico

La menzogna è una riproduzione verbale di un’ immagine della realtà, volutamente alterata con lo scopo di condizionare la reazione cognitiva, emotiva e comportamentale dell’altro.

Irene Desimoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Menzogna, finzione, errore e segreto: le differenze

Ammettiamolo, a chi non è mai capitato di dire una bugia? Quella volta che mamma ci ha chiesto se avevamo finito i compiti e noi abbiamo volutamente mentito perché avevamo fretta di uscire in bicicletta con gli amici; oppure tutte quelle volte che ci diciamo “domani incomincio la dieta”, ma in fondo sappiamo che stiamo mentendo a noi stessi, o ancora, quando qualcuno ci chiede se stiamo bene e noi puntualmente rispondiamo “bene, grazie”, ma in realtà non siamo poi così in forma.

Queste ipotetiche situazioni sono esempi di alterazioni della verità. Ma come mai ci capita? Quali motivazioni ci spingono a dire una bugia? Prima di rispondere a questa domanda, è bene comprendere che cosa sono le “bugie” e da quali altri comportamenti simili si differenziano.
Innanzitutto differenziamo tra menzogna e finzione. Già etimologicamente queste due parole sottolineano una diversità, infatti mentre la menzogna fa riferimento al mentire e al falso, la finzione fa invece riferimento al fingere e al finto.

Fare finta richiama inevitabilmente gli studi dello psicologo Jean Piaget sul gioco simbolico, definito come un’ attività caratteristica di una fase evolutiva del bambino (che inizia dai 18 ai 24 mesi) dove qualcosa viene utilizzato per rappresentare qualcos’altro (Piaget, 1970). Oggetti, azioni, identità, situazioni, vengono utilizzati per rappresentare oggetti, azioni, identità e situazioni diverse e soltanto immaginate (ad esempio un tavolo coperto da una tovaglia diventa una casa, un lenzuolo blu diventa il mare). Quindi, la finzione è trasporre un qualcosa con un determinato significato a qualcos’altro, che però in un altro contesto assume un significato diverso.

Un’altra importante distinzione è quella tra menzogna ed errore. Affermare il falso per ignoranza del vero è molto diverso dall’affermare il falso pur essendo al corrente di come stanno realmente le cose. La differenza dunque sta nel fatto che nella bugia si è a conoscenza della verità e intenzionalmente si dichiara il falso; l’errore invece non è una bugia, chi dice il falso per ignoranza lo fa in buona fede, non ha l’intenzionalità di non dire il vero, anche perché crede nella verità di quello che sta affermando.

In ultimo, bisogna differenziare la menzogna dal segreto. In entrambi si ha l’intenzione di nascondere e non rivelare conoscenze, ma nel caso del segreto si pensa di avere il diritto di non riferire ad altri specifiche informazioni.

La definizione di menzogna

Detto questo, non volendo di proposito badare alle varie sfumature che assume la definizione di menzogna a seconda dell’autore che l’ha studiata, possiamo comunque darne una definizione esaustiva citando le parole di Paul Ekman (1989) il quale definisce la bugia come [blockquote style=”1″]atto comunicativo consapevole e deliberato di trasmettere una conoscenza non vera ad un altro in modo che quest’ultimo assuma credenze false sulla realtà dei fatti.[/blockquote]

Luigi Anolli (2003) successivamente ha integrato tale definizione specificando come la bugia sia [blockquote style=”1″]un atto comunicativo consapevole e deliberato di ingannare un altro che non è consapevole e che non desidera essere ingannato.[/blockquote]

La menzogna è una riproduzione verbale di un’ immagine della realtà, volutamente alterata con lo scopo di condizionare la reazione cognitiva, emotiva e comportamentale dell’altro. Con questa definizione si presuppone che il mentire avvenga all’interno di una interazione sociale fra una o più persone, in cui si ha uno scambio comunicativo del tipo:
X mente a Y affermando P se, e solo se, sa che P è falso (e che quindi non-P è vero) e conduce Y a credere che P è vero.

La bugia inconsapevole quindi non esiste, in quanto nessuno può dire menzogne senza intenzionalità e consapevolezza di farlo e questo può verificarsi in due maniere: colui che mente può cercare di far credere il falso, oppure chi mente può tentare di non far credere il vero.
Volendo riassumere i contenuti sopra riportati, la menzogna è caratterizzata da tre elementi essenziali:
1. La falsità del contenuto di colui che comunica in modo linguistico o paralinguistico
2. La consapevolezza del contenuto falso
3. L’intenzionalità di ingannare l’interlocutore

Anolli (2003) aggiunge che[blockquote style=”1″] mentire è sempre una interazione sociale e un atto comunicativo rivolto a un destinatario che può assumere o la funzione di “vittima” – quando crede nella menzogna del mentitore – o la funzione di “smascheratore” – quando scopre la menzogna.[/blockquote] Nel primo caso si parla di “successo” della menzogna; nel secondo caso di “insuccesso”.

Infine, bisogna sottolineare che la menzogna si sviluppa su due canali comunicativi: il primo è il canale verbale che prende in riferimento la successione logica delle parole, il secondo è il canale non verbale il quale si compone di abilità paralinguistiche come la voce, la mimica facciale, i gesti e la prossemica (Keltner & Ekman, 2003).

Perchè si mente?

Veniamo dunque alla domanda centrale: “Perché mentiamo?”.
“L’arte dell’inganno” è presente non solo nel comportamento dell’essere umano, ma in quasi tutti gli esseri viventi, dal grande mammifero, ai volatili, agli anfibi, ai vegetali e persino nei batteri. In particolare, sono interessanti gli studi del biologo Robert Trivers (2011), il quale sostiene come la concorrenza tra ingannatori e ingannati sia una parte saliente del processo evolutivo derivante dalla lotta fra i geni per la sopravvivenza della propria specie. Per fare un esempio, la tartaruga alligatore presenta sulla sua lingua due lembi rosa molto simili a lombrichi, i pesci vengono così ingannati e attirati nella trappola. Le farfalle invece scoraggiano i predatori colorandosi in modo da ricordare i colori di specie velenose, i cuculi si evitano il fastidio di allevare i figli deponendo le loro uova nei nidi di altri volatili.

In generale dunque, anche alla base dell’intelligenza umana vi sarebbe l’inganno che, a certi livelli e non prendendo in considerazione morale ed etica, ricopre una funzione importante consentendo di ingannare le altre persone e garantire, in termini evolutivi, la sopravvivenza della specie umana (Trivers, 2011).

A livello più psicologico, ricercatori nel campo della psicologia, hanno più volte tentato di categorizzare le menzogne, esse possono essere distinte in base al grado di malignità, grado di patologia e a seconda della motivazione che spinge l’individuo a mentire (Anolli, 2003; Mayer, 2008; Neuburger, 2008).

In questo articolo prenderemo in riferimento la classificazione delle menzogne in base alla motivazione che le sostiene.
Le menzogne si distinguono principalmente in bugie transitorie (di evitamento, di difesa, di acquisizione e bugie di autoinganno) legate all’appartenenza a specifiche età, ruoli e situazioni di vita, e le bugie caratteriali (pseudologie, di timidezza, di discolpa e bugie gratuite) riferite alla storia di vita del mentitore e alla sua personalità, dunque tendono ad essere più stabili, ricorrenti e pervasive (Lewiss, & Saarni, 1993).

Vediamole insieme:
Bugie di evitamento: muovono dalla motivazione di evitare una punizione, un conflitto, un rifiuto o per difendere la propria privacy. Le menzogne per evitare una punizione si ritrovano nelle persone adulte, ma soprattutto nei bambini, i quali imparano già verso i 2-3 anni a mentire quando si rendono conto di aver commesso una trasgressione punibile. Le menzogne per evitare un conflitto e/o un rifiuto si ritrovano spesso nell’adulto e vengono utilizzate nella sfera lavorativa, sociale o familiare per evitare di entrare in conflitti senza fine dannosi per qualsiasi tipo di relazione interpersonale. Infine, le bugie per difendere il proprio privato, riguardano prevalentemente adolescenti ed adulti, nascono dal bisogno di preservare un senso di indipendenza, di autonomia e di libertà personale, sono comportamenti protettivi che restituiscono al mentitore una percezione di controllo relazionale sull’altro preservando la propria autonomia e il proprio vissuto.

Bugie di difesa o innocenti: partono dalla motivazione di una persona di proteggere il proprio sé o i sentimenti di persone amate. Pensiamo ai complimenti che i bambini ricevono di fronte ai loro primi scarabocchi, oppure, se a Natale riceviamo un regalo che non ci piace, difficilmente lo comunicheremo alla persona che ce l’ha regalato; è più verosimile che dissimulando la delusione, ci mostreremo contenti. Soprattutto gli adulti mentono per cortesia, ma i bambini imparano questa regola sociale precocemente tramite un’istruzione diretta o per osservazione dei comportamenti dei genitori.

Bugie di acquisizione: muovono dal bisogno di sentirsi approvati, la motivazione sottostante è quella di migliorare e/o aumentare l’immagine della persona che la racconta, di accedere a un’immagine di sé perduta o inaccessibile, il tutto per ottenere un vantaggio personale. La persona potrebbe inventarsi di appartenere a una famiglia molto benestante, di avere conoscenze importanti, oppure potrebbe attribuirsi maggiori meriti scolastici o lavorativi per accaparrarsi un posto di lavoro. E’ un tipo di menzogna considerata normale nell’infanzia e fino a quando occupa un posto ragionevole nell’immaginazione del bambino. Tale comportamento viene considerato comprensibile fino ai 6 anni, la sua continuità oltre tale età potrebbe invece evidenziare psicopatologie, come ad esempio il disturbo narcisistico di personalità.

Bugie di autoinganno: partono dalla motivazione di proteggere il proprio sé, hanno l’effetto di un “anestetico psicologico” ossia hanno lo scopo di non prendere una totale consapevolezza di parti del proprio funzionamento mentale e comportamentale, o di non prendere coscienza di certi aspetti o situazioni della nostra vita per le quali, si potrebbe provare disagio. Secondo De Cataldo e Gullotta (2009) [blockquote style=”1″]L’autoinganno è in primo luogo uno stato nel quale si determina una divergenza tra ciò che il soggetto che mente sa, sia pure a livello inconsapevole, e ciò che egli riconosce. Tale meccanismo impone di accettare il fatto che una persona creda allo stesso tempo ad una proposizione e alla proposizione che la nega. [/blockquote]Chi pratica l’autoinganno non da rilievo alle motivazioni più valide a livello razionale, ma quelle maggiormente funzionali per il raggiungimento del proprio benessere e dei propri desideri.

– Pseudologie fantastiche: meglio conosciute come “bugie patologiche”, muovono dalla motivazione di auto accrescimento della propria autostima o per proteggersi dal giudizio altrui. Diversi studi (Colombo, 1996; Treanor, 2012) definiscono tali menzogne come abituali, intenzionali e facilmente mascherabili in quanto poggiate su costruzioni di natura complessa e fantasiosa, che vengono vissute dal soggetto come reali. Sono dunque bugie a cui lo stesso autore crede, possono riguardare i più svariati eventi o argomenti e, a differenza delle bugie di acquisizione, non vengono dette per ottenere un vantaggio sociale. E’ una bugia caratteristica delle personalità istrioniche, che si ritrova anche nei bugiardi patologici e nella sindrome di Mùnchausen.

Bugie di timidezza: una motivazione che può spingere una persona a raccontare bugie è la timidezza. Le persone timide solitamente sono caratterizzate da una concezione di base di sé negativa, possono affrontare le situazioni sociali con la sensazione di essere inferiori rispetto alla maggior parte delle altre persone. Questa lettura della realtà può portarli a raccontare bugie per apparire migliori agli occhi degli altri, per evitare situazioni sociali o attività considerate imbarazzanti e dove potrebbero sentirsi al centro dell’attenzione e inadeguati.

Bugie di discolpa: muovono dal bisogno di discolparsi da insinuazioni più o meno fondate. Sono una tipologia di bugie diffusa nei bambini, ma si riscontra anche negli adulti solitamente caratterizzati da un’idea di sé come inferiori e incapaci di gestire le proprie responsabilità di azione.

Bugie gratuite: sono bugie che apparentemente non hanno una motivazione che le sostiene, vengono dette con lo scopo di divertire, per allegria o per dare sfogo alla fantasia. Potrebbero sottolineare il bisogno di attenzione o il bisogno di sentirsi capaci e ben visti agli occhi degli altri.

La menzogna e il legame con il testosterone

Sulla menzogna esistono una mole ampia di scritti e ricerche scientifiche; interessanti sono i dati “controtendenza” ottenuti da uno studio condotto dal Dipartimento di Scienze Neuro – Cognitive dell’Università di Bonn (2012).
Un gruppo di studiosi con a capo il neuro scienziato Weber Bernd, ha scoperto che onestà e sincerità hanno una connessione diretta con i livelli di testosterone, l’ormone steroideo prodotto principalmente dalle gonadi maschili e in minor quantità, dalle gonadi femminili.
Questo ormone conosciuto come “l’ormone dell’aggressività” sembra in realtà, non avere solo una connessione con comportamenti antisociali ed aggressivi, ma anche un’influenza sui comportamenti pro sociali.

Il gruppo di ricerca ha infatti dimostrato una correlazione positiva tra sincerità e testosterone, ossia, all’aumentare del testosterone aumentano i livelli di onestà e sincerità. Maggiore è il testosterone e minore è la possibilità di ricorrere alle bugie.

Lo studio ha interessato 91 uomini adulti, giovani e senza problemi clinici significativi che sono stati preparati e sottoposti a diversi test comportamentali.
Metà del campione è stato sottoposto a un trattamento gel a base di testosterone, l’altra metà ha ricevuto un gel placebo senza alcun effetto ormonale.
A seguito delle prove comportamentali è emerso che gli uomini a cui è stato dato il trattamento gel con testosterone dimostravano una maggiore predisposizione a dichiarare il vero rispetto agli uomini che avevano assunto il gel senza testosterone.
Sembra dunque che la propensione a dire bugie sia influenzata anche dai livelli di testosterone presenti nell’individuo.

Menzogna e benessere psicologico

Un’altra ricerca interessante proviene dall’università di Notre Dame (Indiana, Usa), dove attraverso uno studio preliminare, si è tentato di capire se esiste una connessione tra le menzogne e il benessere psicologico delle persone (Kelly & Wang, 2012).

Lo studio, diretto dalla professoressa Anita Kelly, ha coinvolto 110 persone (34% adulti e 66% studenti universitari) di età compresa tra i 18 e i 71 anni, con livelli di reddito differenti. Il campione è stato poi suddiviso in due gruppi: il primo è stato istruito a evitare di mentire e quindi a dire la verità, mentre al secondo, utilizzato come gruppo di controllo, non si era data alcuna istruzione. L’esperimento, della durata di 10 settimane prevedeva che, in questo lasso di tempo, i partecipanti riportassero ai ricercatori il numero di menzogne eventualmente raccontate e fossero relazionate sul loro stato di benessere mentale e fisico.

Dai dati raccolti è emerso che, al diminuire delle menzogne, diminuivano il numero e la gravità dei disagi psicologici, tra cui malinconia e tensione, e fisici, in particolare mal di testa e mal di gola; di contro, un maggior uso delle bugie comportava un’accentuazione di disagi psicologici e fisici.
Infine, dalla ricerca è emerso che le persone che erano state istruite a non mentire, riportavano un miglioramento nei loro rapporti interpersonali e, complessivamente, le interazioni sociali erano migliori.
Ciò fa pensare che a un numero inferiore di bugie dette corrisponde un migliore stato di benessere fisico e psicologico.

Mark Rothko: il senso tragico dell’esistenza nelle sue tele

Markus Rotkowičs, noto come Mark Rothko (1903-1970), pressoché sconosciuto sino all’inizio degli anni Sessanta, è oggi uno degli artisti più quotati sul mercato dell’arte; nel 2012 il suo “Orange, Red, Yellow” del 1961 fu venduto all’asta per quasi 87 milioni di dollari (circa 67 milioni di euro) dalla casa d’aste newyorkese Christie’s, battendo ogni record nel settore dell’arte contemporanea.

Il senso tragico dell’esistenza nell’arte di Mark Rothko

Storicamente appartenente al movimento artistico del cosiddetto Espressionismo astratto, Mark Rothko scelse come mezzo espressivo fondamentale il colore, attraverso il quale voleva che i suoi quadri “parlassero”. Sempre molto restio a dare spiegazione dei propri dipinti, l’artista, ad un certo punto, smise persino di dare un titolo alle sue opere, scrisse solo numeri e date, mentre saranno alcuni mercanti d’arte, più tardi, a scegliere un titolo, utilizzando i nomi dei colori caratteristici dei dipinti.

Mark Rothko, ripudiando l’etichetta di “astrattista”, dichiarò che gli interessava solo [blockquote style=”1″]esprimere le emozioni fondamentali dell’uomo e comunicarle agli altri. [/blockquote]

L’artista sentiva di dover comunicare, attraverso la sua arte, fatta di forme semplici e di colori assoluti, il senso tragico dell’esistenza.
Nei suoi Scritti leggiamo: [blockquote style=”1″]La violenza è l’humus dei miei quadri e l’unico equilibrio possibile è quello precario che precede l’istante del disastro. Rimango sempre sorpreso nel sentire che i miei dipinti comunicano un’impressione di pace. In realtà sono una lacerazione. Nascono dalla violenza.[/blockquote]

Rothko era un uomo molto inquieto e spesso depresso, gli amici lo descrivono come una persona difficile e solitaria ed i suoi quadri altro non sono che una rappresentazione della tragedia esistenziale del loro autore.

Breve biografia e la morte di Mark Rothko

Di origini ebree, la famiglia di Mark Rothko, che si era trasferita da Dvinsk (oggi in Lettonia) negli Stati Uniti, non comprese mai appieno la vocazione artistica di Mark Rothko al quale veniva spesso rimproverato di non sostenere economicamente la madre, soprattutto dopo la morte del padre. Dopo un primo matrimonio costellato da una serie infinita di litigi, nel 1945 Rothko contrasse un secondo matrimonio che, nel 1968, andò definitivamente in crisi, mentre un aneurisma lo condannò all’inattività, portandolo ad una profonda depressione. La sua disperazione andò via via aumentando, si chiuse nella più struggente solitudine, finchè, logorato nel corpo e nell’anima da anni di profonda depressione, una mattina di febbraio del 1970 Rothko si tolse la vita, scegliendo un sistema crudissimo: si tagliò le vene dopo aver ingerito due flaconi di sonnifero. Una lama di rasoio a doppio taglio, una pozza di sangue di fronte al lavandino.

Quanti brutti pensieri dovettero attraversargli la mente in quelle prime buie ore del mattino in una New York d’inverno, quante intense emozioni dovettero turbargli l’anima e quali tremendi ricordi dovettero attraversargli la memoria in quelle ultime ore è un mistero per noi insondabile.

La conclusione tragica della vita di Rothko non deve però far pensare ad un’aridità spirituale, quanto piuttosto ad una drammatica crisi. Ne sono testimonianza alcune sue opere dell’ultimo periodo, tutte giocate su toni scuri. Mentre all’inizio degli anni Cinquanta le sue tele erano pervase da tonalità cangianti, espressione di emozioni forti e piene di vita, nell’ultima fase della sua carriera i suoi quadri si fecero molto cupi, denotando una condizione esistenziale disturbata ed un periodo particolarmente difficile per l’artista. Ancora una volta e fino alla fine, Rothko si affidò unicamente al colore, anche se non più al giallo, all’arancio o al rosso; le sue ultime opere sono tutte giocate su toni scuri e profondi, prevalgono i neri e i grigi, che indicano l’assenza di speranza.

Appartiene infatti all’ultimo periodo della vita di Rothko una serie di “Untitled” (i “Black on Grey”), dove le pennellate, alternativamente nere e grigie, diventano la metafora del vuoto, della solitudine, dell’inquietudine, del dolore dell’artista, del suo stato d’animo al culmine della disperazione, che lo porterà poi al suicidio. Gli ultimi lavori di Rothko risultano molto diversi rispetto alle opere precedenti: le caratteristiche della sua pittura erano cambiate, così come era cambiata la sua visione del mondo: a prevalere sono, alla fine, i temi della sofferenza e della disperazione che vengono portati alle estreme conseguenze.

 

Orange Red Yellow - Mark Rothko - 1961

Orange Red Yellow – Mark Rothko – 1961

Psiche: dialoghi sulle zone di confine (2014) di L. Aversa, un omaggio a Mario Trevi – Recensione

Un meritato omaggio a Mario Trevi e al suo gruppo: un’antologia di scritti apparsi sulla rivista Metaxú (1986-1993).

Che un libro si proponga come omaggio a Mario Trevi, compianto analista junghiano scomparso pochi anni fa, costituisce già un grande titolo di merito. L’opera di Trevi, infatti, pur essendo egli considerato in vita un punto di riferimento fondamentale, teorico e clinico, da parte degli psicologi analisti, non ha ricevuto negli ultimi anni l’attenzione che meritava. Mario Trevi fu tra i fondatori dell’Associazione Italiana per lo studio della Psicologia Analitica e poi del Centro Italiano di Psicologia Analitica (le due associazioni junghiane storiche in Italia). Si tenne invece lontano dal mondo accademico, malgrado fosse stato da giovane assistente di Giovanni Bollea. Fu invece prolifico autore di saggi e libri, tutti incentrati su una possibile riforma della psicologia analitica alla quale dette il nome di junghismo critico (Trevi, 1987; 1988).

 

Mario Trevi e Jung

Trevi era convinto infatti che il più importante contributo di Jung alla psicologia del profondo non fosse costituito dalla concezione dell’inconscio collettivo, alla quale il nome dello psicologo svizzero viene usualmente accostato. Ad avviso di Mario Trevi era piuttosto l’apertura ermeneutica, riconducibile a Tipi psicologici (Jung, 1921), ciò che costituiva il motivo di vera originalità dello psicologo svizzero. Jung (1913) fu il primo ad osare affermare che tanto il modello di Freud, quanto il modello di Adler potessero essere ambedue validi, ognuno in un proprio spazio di applicazione. La spiegazione di questo paradosso era che ogni psicologo teorizza solo la propria personale psicologia, o al massimo quella del proprio tipo.

Nel primo, appena abbozzato, schema di Jung, la psicologia adleriana si riferiva al tipo introverso e quella freudiana al tipo estroverso. Nell’opera successiva, moltiplicandosi il numero dei tipi psicologici possibili, aumentava esponenzialmente anche il numero delle possibili psicologie. Onde Jung poté prevedere (correttamente) il moltiplicarsi delle teorie in ambito psicologico.

Secondo Mario Trevi, l’idea che ogni teoria costituisse nulla più che un modello probabile fondava un atteggiamento nuovo in campo psicoterapeutico e contrastava profondamente con l’aspirazione di Jung a individuare negli archetipi dell’inconscio collettivo una base comune per tutti gli esseri umani. Secondo Trevi, anzi, l’idea di una radice inconscia unica costituiva un elemento di contraddizione rispetto all’istanza tipologica e a un (cauto) relativismo.

Jung aveva costruito una psicologia sostanzialmente contraddittoria e si trattava di scegliere a cosa rinunciare. Era perfettamente legittimo costruire, come Hillman, una psicologia archetipica; ma era altrettanto legittimo proporre uno junghismo che si ispirasse piuttosto all’atteggiamento ermeneuticista. In questo senso, Mario Trevi (1986) proponeva anche la valorizzazione della teoria junghiana del simbolo, che veniva visto come elemento psicologico inesauribile e motore del processo di individuazione umano; dove Freud si limita a interpretazioni obiettivizzanti.

 

Mario Trevi e la rivista Metaxù

L’attività di Mario Trevi si è anche dispiegata nella collaborazione con importanti figure della cultura italiana (era uno degli animatori del Circolo Fenomenologico) e nella formazione di altri analisti. Verso la metà degli anni ottanta del Novecento, proprio un gruppo di analisti junghiani legati a Mario Trevi dette vita sotto la sua guida a un’iniziativa editoriale di durata relativamente breve, ma che ha lasciato una traccia importante nella cultura filosofica e psicologica italiana di fine secolo: la rivista Metaxú.

Si trattava di un tentativo di offrire proprio un contributo allo studio del simbolo, in quanto oggetto sfuggente al confine tra varie discipline, partendo dalla comune matrice junghiana dei redattori ma aprendosi al dialogo con studiosi riferentisi a paradigmi molto diversi. La redazione comprendeva nomi già noti nell’ambiente junghiano o destinati a diventarlo, quali Umberto Galimberti, Luigi Aversa, Enzo Vittorio Trapanese, Paolo Francesco Pieri, Angiola Iapoce, Amedeo Ruberto, Paulo Barone, Mauro La Forgia, Maria Ilena Marozza (oltre naturalmente allo stesso Mario Trevi). Nei primi numeri, nel novero dei redattori era anche Alberto Gaston; negli ultimi anche Vincenzo Caretti. Tutti sono stati autori di contributi importanti alla psicologia analitica e non solo. Alcuni di loro, sotto la direzione di Pieri, hanno contribuito in seguito alla nascita di Atque, altra rivista storica in posizione di dialogo tra filosofia e psicologia.

Molti numeri di Metaxú proponevano, oltre a contributi di membri del gruppo redazionale, dei dialoghi tra il gruppo stesso e un ospite non-junghiano, scelto tra studiosi spesso esterni al campo psicologico ma interessati nella propria disciplina alla tematica del simbolo. I dialoghi hanno avuto, si potrebbe dire ex post, esiti anche molto differenti.

Ad avviso di chi scrive, i due estremi potrebbero essere rappresentati da Paul Ricoeur e Giovanni Jervis. Il primo ha sicuramente manifestato negli scritti successivi all’incontro con il gruppo di Metaxú un interesse del tutto inedito in precedenza per Jung (Innamorati e Pastore, 2015), proprio per la scoperta di quell’elemento ermeneutico che in realtà è assai più coerente con l’opera junghiana (Trevi e Innamorati, 2000) che con quella di Freud (pur essendo stato Ricoeur uno dei più affermati sostenitori di una lettura ermeneutica della psicoanalisi classica). Jervis è invece rimasto completamente disinteressato alla psicologia analitica anche negli ultimi anni di attività, conservandone l’immagine di una disciplina esoterica e non scientifica.

Psiche: dialoghi sulle zone di confine costituisce un’antologia di Metaxú basata in modo pressoché esclusivo su dialoghi della redazione con gli ospiti (contiene però anche un’intervista di Aversa a Trevi apparsa invece su Atque). Da un lato l’operazione è giustificata dalla notorietà dei nomi coinvolti (oltre ai due citati, sono presenti Carlo Sini, Virgilio Melchiorre, Franco Crespi, Carlo Tullio Altan, Pier Aldo Rovatti, Pietro Prini, Renato Tagliacozzo). D’altra parte è abbastanza incomprensibile come si sia scelto di omettere del tutto i contributi di un gruppo culturalmente importante e coeso, la cui originalità non potrà essere certo compresa a partire dalle domande rivolte ai pur illustri personaggi coinvolti.

Il proverbiale bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto può essere un’immagine banale quanto rispondente all’esito di questa selezione: un’iniziativa editoriale meritoria, della quale la casa editrice Fattore Umano va calorosamente ringraziata; iniziativa che però poteva essere sfruttata meglio. A meno che non si pensi di proporre un volume secondo che colmi le lacune del primo.

Gli ictus si possono prevenire? La risposta è affermativa

La presente ricerca si basa sui risultati di una parte dello studio INTERSTROKE che ha individuato dieci fattori di rischio modificabili per l’ictus in 6000 partecipanti provenienti da 22 diversi paesi.

Dieci sono i fattori di rischio che possono essere modificati e che sono responsabili di nove su dieci ictus in tutto il mondo, ma la classifica di questi fattori varia a livello regionale. La prevenzione degli ictus è una delle principali priorità per la salute pubblica, ma la presenza di diversità tra le regioni dovrebbe stimolare a sviluppare strategie ad hoc per ridurre il rischio di ictus.
L’ictus è una delle principali cause di morte e disabilità, in particolare nei paesi a basso e medio reddito. I due principali tipi di ictus sono l’ictus ischemico, che rappresenta l’85% degli ictus e l’ictus emorragico, che rappresenta il 15% degli ictus.

La ricerca

La presente ricerca si basa sui risultati di una parte dello studio INTERSTROKE che ha individuato dieci fattori di rischio modificabili per l’ictus in 6000 partecipanti provenienti da 22 diversi paesi. Sono stati successivamente aggiunti nello studio 20.000 persone provenienti da 32 paesi dell’Europa, Asia, America, Africa e Australia per cercare di individuare le principali cause dell’ictus nelle diverse popolazioni (giovani e anziani, uomini e donne).

Questo studio ha l’obiettivo di esplorare i fattori di rischio di ictus in tutte le principali regioni del mondo e all’interno delle diverse popolazioni.
Sono stati confermati i dieci fattori di rischio modificabili associati con il 90% dei casi di ictus in tutte le regioni, sia nei giovani che negli anziani, sia uomini che donne.

I risultati

Lo studio conferma anche che l’ipertensione arteriosa è il più importante fattore di rischio modificabile ed il fattore chiave per ridurre l’incidenza di ictus.
I ricercatori hanno determinato la percentuale di ictus che si potrebbero evitare intervenendo preventivamente sui fattori di rischio.

L’incidenza di ictus verrebbe praticamente dimezzata (48%) in assenza di ipertensione , ridotta di più di un terzo (36%) nelle persone fisicamente attive e diminuita di quasi un quinto (19%) nei soggetti con uno stile alimentare corretto. Inoltre, questa percentuale si ridurrebbe ulteriormente del 12% nei casi di astensione dal fumo. Le principali cause di ictus sono il 9% per disturbi cardiaci, il 4% per diabete, il 6% per consumo di alcool, il 6% per stress e il 27% per la presenza elevata di lipidi nel sangue.
Molti di questi fattori di rischio sono noti per essere associati tra loro (come l’obesità e il diabete) e quando sono presenti in concomitanza, il fattore di rischio saliva al 91% e tale fattore non si differenziava per età, genere e regione.

L’importanza della provenienza culturale

Tuttavia, l’importanza di alcuni fattori di rischio sembrava variare in base alla regione. Ad esempio, l’importanza dell’ipertensione variava dal 40% in Europa occidentale, Nord America e Australia al 60% nel Sud-Est asiatico. Il rischio di alcol era più basso in Europa occidentale, Nord America e Australia, ma più alto in Africa e Asia meridionale, mentre l’impatto potenziale dell’inattività fisica era più alto in Cina.
Un ritmo cardiaco irregolare era significativamente associato con l’ictus ischemico in tutte le regioni, ma aveva un maggiore impatto in Europa occidentale, Nord America e Australia rispetto alla Cina o all’Asia meridionale.
Tuttavia, quando tutti i 10 fattori di rischio venivano considerati insieme, la loro importanza era simile in tutte le regioni.

Conclusioni

Sarà fondamentale sviluppare interventi globali nella popolazione per ridurre l’incidenza di ictus ed impostare programmi su misura per singola regione: creare una migliore educazione alimentare e sanitaria, favorire l’astensione dal fumo e utilizzare farmaci efficaci per l’ipertensione e la dislipidemia.

In conclusione, l’ictus è una malattia altamente prevenibile grazie alla modificabilità dei fattori di rischio. Nel futuro sarà fondamentale sviluppare programmi di prevenzione per gli ictus ed impostare ulteriori ricerche sui fattori di rischio: i governi di tutti i paesi dovrebbero sviluppare e implementare un piano d’azione di emergenza per la prevenzione primaria degli ictus.

Festival della Psicologia di Bollate 2016 – Dalla pax mafiosa alla pace comunitaria

Festival della Psicologia di Bollate
8 Ottobre 2016
Biblioteca Comunale di Bollate
Palazzo Seccoborella (Piazza Carlo Alberto Dalla Chiesa, 30)
(15 ottobre, 22 ottobre, 29 ottobre, 3 novembre, 5 novembre, 17 novembre)

 

Come funziona la mente di un mafioso?

Per rispondere a questa ambiziosa domanda, il Festival della Psicologia di Bollate ha scelto di dedicare l’inaugurazione della IV edizione al tema Pace e mafia, nella splendida cornice della Sala Conferenze della Biblioteca comunale di Bollate (Palazzo Seccoborella).

A dare il via ai lavori, sabato 8 ottobre 2016, accanto ai saluti istituzionali delle Autorità cittadine e dell’Ordine Psicologi Lombardia nella persona del Presidente Dr. Riccardo Bettiga, ci penseranno il Prof. Antonino Giorgi, Docente dell’Università Cattolica di Brescia e il dr. Gian Antonio Girelli, Presidente della Commissione speciale antimafia della Lombardia.

Il prof. Giorgi, con il suo intervento “Dalla pax mafiosa alla PACE comunitaria. Come la mafia inter-agisce dentro la mente e nella comunità” ci accompagnerà in un affascinante viaggio alla scoperta della Psicologia mafiosa: come vengono sostenute le vittime? Quali le dinamiche psicologiche che hanno a che fare con il fenomeno mafioso?

Dopo aver esaminato temi come la coppia e le relazioni, le famiglie e i minori, l’adolescenza, il nutrimento della mente e dei legami, si parlerà quest’anno di pace. Un concetto universale che verrà affrontato attraverso un programma eclettico per la prima volta articolato su più giornate, e sedi, per offrire alla cittadinanza sempre più opportunità.

Se il programma dell’intero Festival della Psicologia di Bollate 2016 si conferma essere ricco e articolato, ecco che la vera novità di quest’anno, come anticipato, è che non si esaurirà in un solo weekend.
Tanti saranno i temi trattati negli interventi in calendario, 7 per la precisione, fissati lungo tutto il mese di ottobre, fino alla prima metà di novembre.
Dalla crescita dell’autostima nei piccoli e piccolissimi alla gestione della rabbia passando per i disturbi narcisistici alla prevenzione del declino cognitivo negli anziani e molto altro ancora.
Una serie di incontri ospitati in diverse sedi volti a rispondere alla domanda che sta alla base di questa 4° edizione della kermesse dedicata a mente e anima di Bollate: cosa può dirci la cultura psicologica rispetto alla ricerca della pace dentro e fuori la famiglia, la mente e la comunità?

Ideato e organizzato dalle dottoresse Lara Franzoni (www.psicologiadicoppia.com) e Guendalina Losi (www.sessuologia-milano-brianz a.it), il Festival conferma il suo obiettivo ovvero diffondere la cultura psicologica, la conoscenza e la promozione della professionalità di psicologo, a sostegno del benessere degli individui attraverso incontri culturali gratuiti e ad accesso libero.

Rinnovato il team di lavoro. A curare gli interventi saranno come sempre Psicologi del territorio bollatese, specializzati in diverse aree, che si sono messi a per incontrare i cittadini per parlare di famiglia, anziani, minori e molto altro ancora. I relatori coinvolti per questa quarta edizione del Festival della Psicologia di Bollate sono Lara Franzoni, Guendalina Losi, Laura Galbiati, Valeria Manstretta, Federica Lollo, Eleonora Martin, Barbara Perfetti e Annalisa Soresini.

Il Festival della Psicologia di Bollate 2016 ha ricevuto il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Città di Bollate e dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

La quarta edizione del Festival della Psicologia di Bollate si conferma essere un appuntamento da non perdere.

Vi aspettiamo!

 

Per informazioni:
D.ssa Lara Franzoni tel. 340.12.29.738
D.ssa Guendalina Losi tel. 347.85.42.151
[email protected]
festivaldellapsicologia.blogsp ot.it

 

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Programma Festival della Psicologia di Bollate 2016 – 4° Edizione

Sabato 8 ottobre Ore 16.00 Biblioteca Centrale di Bollate:
Inaugurazione della manifestazione e saluto delle Autorità cittadine e Ordine Psicologi Lombardia

Interverrà il Presidente dell’Ordine degli Psicologi Dr. Riccardo Bettiga

Interverrà dr. Gian Antonio Girelli, Presidente della Presidente della Commissione speciale antimafia della Lombardia
Intervento del Prof. Antonino Giorgi Docente dell’Università Cattolica di Brescia, Psicologo, Psicoterapeuta
“Dalla pax mafiosa alla PACE comunitaria. Come la mafia inter-agisce dentro la mente e nella comunità.”

  • Sabato 15 ottobre Ore 15 Associazione Uniter Arese via Varzi 13
    “L’autismo non è contagioso! Miti e leggende da sfatare sul disturbo dello spettro autistico” Dr.ssa Laura Galbiati e dr.ssa Valeria Manstretta
  • Sabato 22 ottobre Ore 15 Associazione Uniter Arese via Varzi 13
    “Strategie per la gestione della rabbia e dei conflitti interpersonali” Dr.ssa Federica Lollo e dr.ssa Eleonora Martin
  • Sabato 29 ottobre Ore 14.30 Via magenta 33 Bollate
    “Narcisi dalla famiglia alla coppia: come gestire la relazione con un narcisista” Dr.ssa Barbara Perfetti
  • Giovedì 3 novembre Ore 18 Istituto Comprensivo Brianza
    “Le regole dell’Autostima. Come aiutare i figli a rispettare le regole, promuovendo la loro autostima” Dr.ssa Lara Franzoni
  • Sabato 5 novembre Via Magenta 33 Bollate Ore 15.00
    “Regole d’oro per prevenire il declino cognitivo negli anziani” Dr.ssa Annalisa Soresini
  • Giovedì 17 novembre Ore 18 Istituto Comprensivo Brianza
    “Piccoli naviganti. Manuale di istruzioni per genitori di giovani nativi digitali” Dr.ssa Guendalina Losi

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L’evoluzione della terapia cognitiva – Report dal congresso SITCC 2016 di Reggio Calabria

XVIII Congresso della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC)

Si è svolto a Reggio Calabria, dal 15 al 18 settembre 2016, il diciottesimo congresso della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC). L’organizzazione è stata curata dai colleghi calabresi capitanati da Giuseppe Nicolò con il supporto dell’associazione Ecopoiesis di Reggio Calabria, che diffonde la formazione e la pratica clinica cognitivo-comportamentale in quelle zone.

Il congresso è stato ricco di contributi e di stimoli. Fin dalla plenaria iniziale, con Bruno Bara e Francesco Mancini, ci si è confrontati con le nuove tendenze del movimento cognitivista clinico. Mancini ha raccomandato la necessità di studiare i processi psicopatologici in maniera più vicina alla psicologia di base. Il contributo delle ricerche cliniche basate sui contenuti cognitivi –le cosiddette credenze – è stato utilissimo per delineare protocolli di intervento efficaci ma sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva.

Per trovare interventi più efficaci occorre riesaminare i processi e i meccanismi psicopatologici con una terminologia e una metodologia più rigorosa e vicina alla psicologia di base. Forse così si potrà coprire la distanza che ancora divide ricerca e clinica. Il parere di Bara era sostanzialmente analogo, ed era prevedibile considerando la lunga esperienza di Bara nello studio sperimentale dei mental modes. L’unica differenza tra Mancini e Bara stava nella preferenza verso differenti meccanismi. Mancini sembra più interessato ai meccanismi cognitivi di tipo scopistico e motivazionale, nonché alle strategie e stili di pensiero. La strategia controfattuale dei pazienti ossessivi, ad esempio, è da anni oggetto delle sue ricerche e riflessioni. Bara invece preferisce indagare i processi relazionali ed emotivi di conoscenza incarnata.

Non è stato possibile seguire tutte le relazioni, naturalmente. Ne segnalo alcune sparse. Carcione, Nicolò e Semerari proseguono a sviluppare il modello di Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) in un modello integrato di terapia che va al di là delle diagnosi categoriali e punta al trattamento dei fattori generali della patologia della personalità. Il parallelo lavoro di Dimaggio e Popolo sulla TMI sembra privilegiare gli interventi di immaginazione guidata, ed è forse il modo più coerente di intervenire cognitivamente sui processi bottom up.

Fenelli impiega profittevolmente la teoria dell’attaccamento per indagare le relazioni di coppia. Stoppa Beretta e Bara esplorano l’uso del corpo in psicoterapia, fedeli al modello della conoscenza incarnata. Mancini e il suo gruppo presentano i dati definitivi del loro pluriennale lavoro sul disturbo ossessivo-compulsivo. Tullio Scrimali continua a far evolvere il suo modello di bio-feedback avanzato per la psicosi. Cesare Maffei, Livia Colle, Donatella Fiore e Fabio Monticelli si confrontano sul disturbo borderline di personalità e sulle applicazione della terapia dialettico-comportamentale. Gabriele Caselli ha esplorato le applicazioni della terapia metacognitiva alle dipendenze, mentre Sandra Sassaroli ha indagato il valore dei temi dolorosi e dei piani disfunzionali nei processi psicopatologici. Stefano Lucarelli ha presentato un’originale applicazione della terapia dialettico-comportamentale ai disturbi alimentari. Antonio Pinto e Roberto Framba hanno riflettuto sulla mindfulness nella formazione degli allievi. E così via.

Il momento migliore del congresso è stato probabilmente la simulazione di seduta effettuata domenica mattina, nel giorno di chiusura del congresso. Sandra Sassaroli, Giovanni Liotti, Antonio Semerari e Juan Balbi hanno affrontato una collega terapista che simulava una paziente con aspetti di diffidenza paranoica nella relazione terapeutica. Ogni terapista ha mostrato in vivo aspetti del proprio operare. Un’esperienza istruttiva e accattivante, che merita un articolo a parte.

L’abuso duraturo di alcolici compromette le abilità neurocognitive

L’ipotesi principale che ha mosso lo studio è che le conseguenze negative dovute all’ abuso di alcolici in quantità eccessive siano peggiori per i soggetti di età più avanzata.

 

Introduzione: l’abuso di alcolici e gli effetti neurocognitivi

Il forte abuso di alcolici può causare significativi cambiamenti neurofisiologici e cognitivi che vanno da comuni disturbi del sonno fino ad effetti neurotossici cerebrali diretti o indiretti più gravi. Sappiamo inoltre che l’invecchiamento di per sé è un fattore chiave nel fisiologico declino cognitivo che interessa lo sviluppo di ciascun individuo. Gli studi finora condotti sull’interazione tra abuso di alcolici e invecchiamento hanno generato un quadro di risultati eterogeneo, incoerente e poco chiaro. Il presente studio, pubblicato su Alcoholism: Clinical and Experimental Research, ha cercato di fare chiarezza sul tema, approfondendo la relazione esistente tra età, alcolismo e funzionamento neurocognitivo. L’ipotesi principale che ha mosso lo studio è che le conseguenze negative dovute al consumo di alcol in quantità eccessive siano peggiori per i soggetti di età più avanzata.

Lo studio

Lo studio ha coinvolto 66 soggetti (35 donne e 31 uomini), reclutati presso il Centro di Ricerca per l’AIDS della Brown University, che hanno completato una batteria completa di test neurocognitivi per raccogliere dati riguardanti il funzionamento cognitivo globale, le funzioni attentive/esecutive, l’apprendimento, la memoria, la funzione motoria, le funzioni verbali e la velocità di elaborazione.
Il campione è stato classificato in non-bevitori, bevitori moderati (n =45) e forti bevitori (n = 21); quest’ultimi sono stati definiti tali sulla base dei criteri del National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism e tramite l’utilizzo di interviste cliniche strutturate. Circa il 53% dell’intero campione ha avuto una storia di dipendenza alcolica.

Conclusioni

I risultati hanno mostrato come l’abuso corrente di alcolici nei soggetti di età più avanzata sia associato ad un impoverimento consistente del funzionamento cognitivo globale, dell’apprendimento, della memoria e delle funzioni motorie. Inoltre, lo studio ha evidenziato che una storia duratura di dipendenza da alcolici è associata ad uno scarso funzionamento negli stessi domini neurocognitivi sopracitati, così come nel dominio di attenzione/esecuzione, a prescindere dall’età. In sintesi, questi risultati suggeriscono che seppur l’abuso corrente di alcolici risulti associato a prestazioni insufficienti in un gran numero di domini neurocognitivi, sembra che una storia di dipendenza alcolica, anche in assenza di uso corrente di alcolici, determini conseguenze negative più durature.

Positività Sociale (2015) di Ventruto: recensione dell’album – Psicologia & Musica

Sì, anche noi possiamo cambiare, il nostro modo di guardare il mondo può cambiare e tingersi di mille colori fino a prospettarci un futuro improntato su una nuova Positività Sociale.

 

La musica aiuta a fronteggiare i piccoli e grandi problemi di ogni giorno, questo lo si sa. Ma se un brano è scritto da un artista che è qualcosa di più di un cantautore, tutto può cambiare. Sì, anche noi possiamo cambiare, il nostro modo di guardare il mondo può cambiare e tingersi di mille colori fino a prospettarci un futuro improntato su una nuova Positività Sociale. Titola così, e non è un caso, l’ultimo lavoro discografico di Ventruto, cantautore, autore ed interprete per Rai Trade e Universal, musicista, chitarrista ritmico e solista di impostazione Rock-Blues-Folk e dottore in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica e Psicosociale.

Dottore premiato, proprio per l’attività di Musicoterapia individuale e di gruppo che effettua all’interno del reparto di psichiatria dell’Ospedale di L’Aquila (NDR: in stretta collaborazione con il Prof. Alessandro Rossi, Direttore SPUDC) al congresso nazionale di psichiatria ‘Progetto Musica Mente’ tenutosi a Perugia. Una terapia in musica, dunque, la sua, che si snoda, canzone dopo canzone, fino a toccare ogni corda della nostra psiche.

Il Cd Positività Sociale, nei circuiti dal 2 ottobre 2015, vede, tra l’altro, la partecipazione di diversi artisti della scena musicale italiana: i Gang in Un Pregiudizio, i Modena City Ramblers in Un mondo accessibile, Max “Ice” Ghiacci in Maslow, Alma Manera in Incontrarsi nell’alba, Alessandro de Gerardis in Linea Sociale e Marco Carena in Radio Speaker.

Così, ancora una volta, l’artista – reduce dall’ottimo riscontro ottenuto con il precedente Cd Terapie di Fantasia (già recensito da questa rivista) – consegna un prodotto di altissimo livello. Le melodie sono affascinanti e riconoscibili, sia per il loro sound fiabesco ma nel contempo deciso, incisivo e graffiante, sia per il fondersi di note sapientemente dosate in un pentagramma in cui a regalare emozioni è il miscelarsi di ballate, pezzi swing e folk, in un pop rock inconfondibile, firmato Ventruto.

Velluto musicale impreziosito da testi mai banali, socialmente impegnati ma non criptici, espressione di chi, come il cantautore, in quelle parole ci crede davvero, le sente dentro e non perde mai la forza di lottare per un futuro più puro, più vero ed improntato su valori semplici ma importantissimi. E’ così che l’artista brindisino crea Positività Sociale, un disco diverso dal solito, un concept album –premiato, a soli due giorni dall’uscita, con la Targa della critica – MEI (Meeting Etichette Indipendenti) sul prestigioso palco di Faenza (Contest ORAMUSICA) proprio per l’impegno sociale – denso di imput positivi, in cui ogni brano assume valore non solo di per sé, ma perché si lega a doppio filo ad ognuna delle altre tracks, come a scrivere un unico discorso dal sapore autentico e propositivo.

 

Tra le tracce di Positività Sociale

Passeggiando sulle note di Positività Sociale, ci si ritrova a riflettere, ascoltando Un pregiudizio, sulla lesività psicologica di chi costruisce barriere sociali per isolare chi presenta un qualsiasi tipo di diversità (fisica, psichica, etnica, sessuale). Diversità che, come dice Ventruto nelle sue interviste, va letta come particolarità, caratteristica personale e non come connotato negativo. In fondo, canta l’artista «si dice perfetto chi non ha un difetto, ma spiegami che cos’è? Non c’è il perfetto, c’è sempre un difetto, non siamo diversi io e te».

A seguire, una tematica prettamente psicologica: Maslow e il senso di appartenenza che ciascuno di noi brama di trovare nelle persone che sente vicine, per ideali e sentimenti.

Si passa, poi, con Un mondo accessibile alla protesta per la società attuale, spesso disattenta verso le difficoltà di chi non ha gli strumenti, culturali o economici, per poterla vivere a 360°.

Esorta, invece, a non lasciarsi ingannare dall’apparenza, il testo di La tua musica e scivolano tra antichi sentimenti le parole di Incontrarsi nell’alba, uno dei brani più toccanti dell’album, in cui l’autore si confronta con la solitudine stringendo forte il sogno di un amore eterno che un giorno, in un’alba meravigliosa o altrove, in un’altra dimensione, tornerà a scaldargli il cuore e a dare un nuovo senso al tempo.

Ma si torna con i piedi per terra con Questa vita è mia – spot A.C.I. nazionale per la sicurezza stradale e inserita nel ‘Cantatutto Volume 4’ (Universal/Ricordi) – scritta da Ventruto per sensibilizzare i giovani a guidare con prudenza, senza mai perdere di vista l’importanza di salvaguardare la propria vita e quella altrui.

In Linea sociale, invece, l’artista commuove per la sensibilità dimostrata nel saper respirare la magia di un abbraccio, di una donna che porta con sé la bambina che era, di un sentimento onesto, artefice di pure emozioni.

Si viaggia, poi, attraversando il ritmo frizzante di Radio speaker, nell’universo, intriso di una malinconia costruttiva, di chi, in amore, ha dato tutto, cieco di fronte alla vera personalità di chi nasconde un’anima «perversa di identità», così lanciando un monito: scrutare a fondo di chi ci è accanto, senza per questo rinunciare a vivere appieno una relazione.

Chiude, infine, con il pianforte e lo stile gospel di Una maschera: una track breve ma intensa, che offre all’ascoltatore la chiave per comprendere, ancora più a fondo e sotto un’ulteriore ottica, il filo conduttore dell’intero album che esorta, sempre e comunque, a vivere i rapporti interpersonali con sano ottimismo ma anche con la necessaria dose di prudenza e un occhio sempre attento a chi, nella sua ambiguità ed indossando una maschera di finto buonismo, vuole apparire… senza essere.

 

GUARDA IL VIDEO DELLA CANZONE ‘UN PREGIUDIZIO’:

Ma quante ne sai? Lingue straniere, una palestra per la mente

Non si finisce mai di imparare certo, ma a che ritmo siamo in grado di apprendere le lingue straniere? 

Sara Bidinost

 

Il mercato delle lingue fluttua quanto quello della finanza, determinando nuove necessità di comunicazione al servizio dei commerci. L’inglese ad oggi risulta la lingua più parlata, ma già si vocifera quali potranno essere quelle con maggiore influenza economica in futuro, come il cinese mandarino per esempio o l’indiano (hindi). Spaventati da cotanta competitività? Niente panico, vi sveliamo un segreto per restare al passo con i tempi. Secondo una ricerca pubblicata su Nature dalla University Higher School Of Economics in collaborazione con l’Università di Helsinki, il nostro cervello assimila in maniera esponenziale.

Tramite elettroencefalogramma (EEG) nell’esperimento di scienze cognitive è stata misurata l’attività elettrica nel cervello di 22 finlandesi mentre ascoltavano sia parole note che termini sconosciuti.

Successivamente i dati neurofisiologici sono stati accorpati a quelli sulla passata esperienza con altri idiomi. E pare sia proprio quest’ultima a influenzare la capacità e la rapidità nella costruzione di tracce di nuove parole nella memoria, registrate da un aumento della risposta neurofisiologica nella corteccia fronto-temporale sinistra.

La spiegazione data dai ricercatori si basa sul confronto: nella mente la formazione linguistica sembra interagire con la familiarità dei suoni del lessico. Imparare parole nuove implica infatti prendere confidenza con una nuova fonetica, una distinta fonologia o addirittura diversi contrasti tonali.

La ricerca ha messo in luce anche un altro aspetto relativo all’età dei soggetti. Tipicamente più precoce era l’età di acquisizione (9-15 anni) e maggiore il numero di lingue, più il cervello risultava predisposto all’apprendimento, potenziando quindi la plasticità dei nostri circuiti cerebrali.

Secondo Yuriy Shtyrov autore dello studio, padroneggiare più lingue porterebbe le persone a velocizzare la codifica di nuove parole all’interno della rete neuronale.

Qualunque sia la vostra età, non sentitevi troppo vecchi per imparare. In età adulta si osservano ugualmente dei benefici, come l’incremento nella densità di materia grigia, ma anche la capacità di ritardare le malattie neurodegenerative come demenza e Alzheimer.

E se credete di non avere abbastanza tempo da dedicare allo studio di altre lingue, approfittate delle situazioni informali all’estero, provando a ordinare pane e caffè con i termini della nazione ospitante. Sarà un’occasione unica per ascoltare la pronuncia corretta. D’altronde ‘non esistono lingue morte ma solo cervelli in letargo‘ diceva Carlos Ruiz Zafón.

 

Ma quante ne sai? Lingue straniere, una palestra per la mente - tab 1

 

(Fig. 1) Età media di acquisizione e conoscenza di ciascun linguaggio riportato. La maggior parte dei partecipanti 86 % aveva appreso l’inglese come prima lingua non nativa, il resto di loro lo svedese. Due partecipanti hanno avuto un’età di acquisizione della lingua prima dell’ingresso a scuola, a causa di un’esposizione nel loro quartiere. L’età media dei partecipanti era di 24 anni. La dimensione del cerchio e il numero tra parentesi indicano la percentuale di soggetti che hanno riferito l’apprendimento della lingua. La conoscenza veniva auto valutata su scala da 1 a 5 (1=base, 5=ottimo). L’età di acquisizione correlava negativamente con la conoscenza: prima la lingua era stata acquisita, maggiore era la sua conoscenza.

Alla ricerca della felicità: adottare il pensiero positivo o percorrere la “via negativa”?

La via negativa alla felicità è un punto di vista differente riguardo a ciò che ci sforziamo di evitare abitualmente, significa imparare ad apprezzare l’incertezza, a smetterla di cercare il pensiero positivo ad ogni costo e a familiarizzarci con il fallimento e con le emozioni negative che esso comporta.

Simone Negrini – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Felicità oggi: tra pensiero positivo e ricerca del successo

Sustine et abstine, recita il motto del filosofo greco Epittèto che riassume l’etica della filosofia stoica: sopporta quel che capita e astieniti da tutto ciò che non è in tuo potere cambiare. Questa antica formula per la felicità sembra tuttavia essere in contrasto con la tendenza odierna del pensiero positivo e del proliferarsi di manuali di self-help e di corsi che sono orientati ad aiutarci a prendere in mano le redini della nostra vita attraverso uno sforzo personale di concentrazione sulla visualizzazione del felice esito delle situazioni.

Questo approccio, teorizzato a volte dalla psicologia tradizionale, viene oggi spesso estremizzato e generalizzato a qualunque ambito della vita delle persone, diventando di fatto un businness, tanto che è ormai noto il proliferarsi, specialmente negli Stati Uniti, di seminari a pagamento nei quali vengono invitati come oratori personalità dall’indubbio successo personale allo scopo di motivare anche i più reticenti, e di spronarli verso la dottrina del ottenere il successo a tutti i costi e del raggiungimento degli obiettivi personali (Salerno, 2005).

Del resto, basta osservare gli scaffali di qualunque libreria e troveremo almeno un reparto composto da libri che vorrebbero aiutarci a liberarci dai nostri problemi, che riguardino la nostra autostima, la produttività sul lavoro, o il successo personale.

Anche in un campo delicato in questo periodo storico come quello economico, alcuni studiosi pensano che una delle cause della spregiudicatezza con la quale i broker di banche d’affari hanno agito negli ultimi anni, dando così il via alla attuale crisi economica, sia l’applicazione diretta di questo modo di pensare orientato all’ottimismo e al raggiungimento degli obiettivi a breve termine a discapito di un atteggiamento più realistico e prudenziale nella lettura della realtà economica attuale (Ehrenreich, 2010).

Seppur sia riconosciuto in termini evoluzionistici il ruolo del pensiero positivo, la felicità e l’umana tendenza a guardare al futuro con positività, il trend odierno sembra quello di voler imporre una visione basata sull’ottimismo incrollabile sempre e in qualunque contesto bandendo qualunque sentimento che sia in contrasto con questa visione.

 

Felicità e consapevolezza dei limiti

Ed è qui che si evidenziano le differenze fondamentali tra lo stoicismo e il modello di pensiero degli odierni promotori dell’ottimismo. L’approccio dei filosofi stoici teneva in grande considerazione il senso del limite che l’uomo per la sua stessa natura mortale, conteneva in sé. Il senso del limite portava gli stoici a ritenere che l’aspirazione dell’essere umano consistesse al massimo nel raggiungimento di una placida tranquillità in armonia con l’ambiente circostante che prescindeva dalla faticosa ricerca del controllo degli eventi spiacevoli e dei pensieri negativi. In questo senso, una delle strategie utilizzate consisteva proprio nel confrontarsi con le esperienze negative della vita e con le emozioni che ne conseguivano, e di esaminarle attraverso l’uso della ragione, invece di tentare di eluderle (Irvine, 2008).

Oliver Burkeman, autore di diversi libri che raccolgono il lavoro di psicologi e filosofi, sostiene nel suo ultimo lavoro ‘La regola del contrario‘, che questo modo di pensare, cioè lo sforzo continuo di eliminare le difficoltà e le incertezze della vita attraverso l’ottimismo a tutti i costi e la visualizzazione del successo possa essere perfino controproducente al fine di raggiungere quella che viene comunemente intesa come felicità. Secondo Burkeman, la problematica di fondo di alcune teorie che sostengono la tesi che per essere felici si debba imparare a essere ottimisti in ogni circostanza, è proprio questa tendenza all’assolutismo e alla non tollerabilità dei possibili esiti negativi che renderebbe il fallimento ancora più difficile da gestire (Burkeman, 2015).

Egli scrive infatti:

La formula generale, al di là delle differenze nell’approccio dell’argomento trattato, sembra essere questa: se ti sforzi di pensare alla positività e al successo, di concentrarti sul raggiungimento degli obiettivi, felicità e successo arriveranno da sé.

In altre parole, una volta deciso di adottare l’ideologia del pensiero positivo dovremmo sforzarci  di interpretare praticamente ogni eventualità come giustificazione del pensiero positivo. L’ipotesi del fallimento non è contemplata. Alcuni editori parlano della regola dei diciotto mesi, secondo la quale l’acquirente più probabile di un libro di self-help è quello che negli ultimi diciotto mesi ha comprato un libro dello stesso genere e che evidentemente  non ha risolto tutti i suoi problemi.

Ma il lavoro di svariati studiosi in questo ambito ci suggerisce anche un ‘alternativa più promettente – scrive ancora Burkeman – ovvero un approccio alla felicità che potrebbe assumere una forma completamente diversa. Il primo passo è dare un taglio alla ricerca della positività ad ogni costo, al contrario, diversi autori della “via negativa” sostengono, in modo paradossale ma persuasivo, che accogliere deliberatamente ciò che riteniamo negativo sia una precondizione della vera felicità. L’ottimismo incondizionato non fa che acuire lo shock quando le cose vanno per il verso sbagliato: sforzandoci di nutrire esclusivamente convinzioni positive sul futuro, il pensatore positivo finisce per essere meno preparato e più vulnerabile agli (inevitabili) eventi che non riesce a classificare come auspicabili. Voler vedere sempre il bicchiere mezzo pieno richiede uno sforzo costante e faticoso. Se il nostro impegno fallisce o si dimostra insufficiente a reggere uno shock imprevisto, ricadremo in una depressione forse ancora più nera (Burkeman, 2015).

Nel corso degli anni sono state condotte svariate ricerche in questo campo, al fine di verificare le possibili conseguenze negative sul benessere e sulla salute mentale dell’applicazione di un approccio così radicale. La conclusione alla quale sono giunte è stata la seguente: i nostri tentativi di raggiungere la felicità attraverso l’auto-imposizione di un pensiero positivo può renderci più depressi, così come i nostri tentativi di eliminare tutto ciò che crediamo essere negativo, come il fallimento, l’incertezza, e i sentimenti di tristezza, sono proprio gli stessi che contribuiscono a renderci più insicuri, ansiosi o infelici.

 

La via negativa per la felicità

In questo scenario sembra plausibile quindi tentare di adottare un approccio alternativo, una via negativa alla felicità appunto, un punto di vista differente riguardo a ciò che ci sforziamo di evitare abitualmente. Significa imparare ad apprezzare l’incertezza, a smetterla di cercare di pensare positivo ad ogni costo e a familiarizzarci con il fallimento e con le emozioni negative che esso comporta (Shapiro, 2006).

Sebbene come abbiamo visto l’imperativo positivo abbia raggiunto una notevole popolarità in questo periodo, questo diverso punto di vista trae le sue origini da fonti lontane e autorevoli. Le filosofie greche e latine ad esempio sottolineavano già allora i vantaggi di prendere in considerazione lo scenario peggiore quando ci si confronta con paure ed incertezze. E’ insita nel buddismo la consapevolezza che solo attraverso l’accettazione incondizionata delle insicurezze e delle emozioni negative si possa raggiungere la serenità interiore. Infine è un concetto ripreso e utilizzato a tutt’oggi nell’ambito delle psicoterapie cognitive-comportamentali, come la REBT di Albert Ellis, e dalle cosiddette terapie di terza ondata.

Tra gli studiosi più illustri delle problematiche del pensiero positivo figura Daniel Wegner, professore di psicologia nonché direttore del Mental Control Laboratory dell’università di Harvard. In particolare Wegner si è a lungo soffermato sulla teoria del processo ironico, ovvero lo studio di come i nostri tentativi di sopprimere alcuni pensieri o comportamenti finiscano paradossalmente per rafforzarli.

In un famoso esperimento un gruppo di soggetti venne istruito in particolare a non pensare a un orso bianco per cinque minuti, mentre i soggetti raccontavano i pensieri che liberamente attraversavano la loro mente. Ogni volta che avessero pensato ad un orso bianco avrebbero dovuto suonare un campanello. Ad un altro gruppo invece non venne fornita alcuna specifica istruzione riguardo all’imporsi di non pensare all’orso. Il risultato eclatante fu che si osservò un aumento nella frequenza dei trilli del campanello nel gruppo che aveva il compito specifico di non pensare all’orso bianco rispetto al gruppo che aveva la facoltà di pensarci liberamente. Secondo Wegner, si tratta di un malfunzionamento della metacognizione, vale a dire di quella capacità di distanziarsi, di auto-osservare e di riflettere sui propri stati mentali.  Questa capacità di pensare ai nostri pensieri abitualmente ci consente di avere consapevolezza e di analizzare il nostro punto di vista, tuttavia può nascere una problematica quando la attiviamo per tentare di controllare i nostri pensieri quotidiani oggettuali, per esempio sforzandoci di non pensare agli gli orsi bianchi oppure rimpiazzare i pensieri negativi con quelli positivi.

Lo sforzo che facciamo per eliminare un pensiero dalla nostra mente, ad esempio il tentare di non pensare all’orso bianco, automaticamente attiva un meccanismo di monitoraggio metacognitivo atto a stabilire se il tentativo è efficace oppure no. In questo contesto, quando ci sforziamo eccessivamente di evitare un pensiero, secondo gli studi di Wegner, la metacognizione rischia di deragliare e il monitoraggio di voler rubare ai pensieri la scena cognitiva, ed ecco che ci si troverà quasi costantemente a pensare agli orsi bianchi e a quanto siamo incapaci di pensare agli orsi bianchi (Wegner, 1989).

Secondo le ricerche svolte in questa direzione, lo stesso tipo di bias metacognitivo può essere applicato anche nel caso in cui ci sforziamo di essere positivi ottenendo di fatto il risultato opposto. Ad esempio, in un ulteriore studio di Wegner è stato dimostrato che i soggetti che vengono informati di una notizia triste e poi invitati a non sentirsi tristi finiscono per sentirsi peggio di quelli che vengono informati della notizia senza ulteriori istruzioni (Wegner et al., 1993). In un altro studio, ad alcuni pazienti che soffrivano di attacchi di panico venivano fatti ascoltare degli audio rilassanti insieme alla richiesta di sforzare di rilassarsi da parte degli sperimentatori, ma il loro cuore batteva più rapidamente rispetto ad altri pazienti che ascoltavano dei comuni audiolibri e a qui non era stata data alcuna istruzione. O ancora, dopo un lutto, i soggetti che erano sollecitati a sforzarsi più intensamente di evitare il dolore della perdita, erano quelli che ci mettevano più tempo ad elaborarlo (Lindeman, 1944).

Un’altra argomentazione a supporto dell’ipotesi della via negativa si rifà agli studi del 2009 della psicologa Joanne Wood. Wood si concentra in particolare sull’efficacia delle affermazioni positive, quella serie di statement che secondo i fautori del pensiero positivo dovrebbero incondizionatamente aumentare il tono dell’umore di chi le ripete. La teoria dell’autoraffronto prevede tuttavia che la sensazione di possedere un identità organica e coerente sia prevalente rispetto al nostro tentativo di visualizzarci come persone positive anche in situazioni che indurrebbero sentimenti di frustrazione o infelicità. Ne consegue che tendiamo a trovare artefatti e poco credibili i messaggi che confliggono con il senso di identità, e pertanto spesso li rifiutiamo, anche se veicolano messaggi ottimistici e anche se provengono da noi stessi. L’ipotesi di partenza è che a cercare conforto nelle auto-affermazioni positive incondizionate siano per definizione i soggetti più insicuri, i quali tuttavia, proprio per questo motivo, finirebbero per ribellarsi a tali messaggi in quanto incompatibili con l’immagine di sé.

In una serie di esperimenti, i soggetti venivano divisi in due gruppi a seconda del loro livello di autostima misurata in precedenza tramite dei test specifici e poi invitati a svolgere un esercizio che consisteva nel tenere un diario in cui riportavano le sensazioni provate durante l’esperimento. Ogni volta che veniva fatto squillare un campanello, dovevano ripetere a se stessi la seguente frase: ‘Io sono una persona adorabile’. I risultati di questi esperimenti ottenuti tramite le registrazioni dei pensieri su di sé dei diari dei soggetti mostrarono che il gruppo composto da soggetti con bassa autostima diventavano ancora più infelici e frustrati dopo essersi ripetuti che erano persone adorabili. L’immagine che avevano di sé collideva drasticamente con il pensiero positivo di essere una persona realmente adorabile, e il tentativo di convincersi del contrario non aveva fatto che rafforzare la loro negatività. L’utilizzo del pensiero positivo aveva di fatto peggiorato il loro stato d’animo (Wood et al., 2009).

 

La via negativa verso la felicità in psicoterapia

In ambito psicoterapeutico, numerosi sono gli approcci che attingono per alcuni aspetti all’idea della via negativa alla felicità.

L’idea originaria di Albert Ellis era offrire un’esemplificazione concreta di una filosofia antica, quella degli stoici appunto, tra i primi a ipotizzare che la via per la felicità potesse fondarsi sulla negatività.

Molti di noi, riflettono gli stoici, credono che a renderci tristi, ansiosi o arrabbiati siano certi eventi, persone o situazioni, mentre in realtà sono le convinzioni che noi nutriamo su questi eventi, persone o situazioni a renderci tali. Il nostro punto di vista o, per dirla alla Ellis, le nostre credenze irrazionali ci pongono nello stato d’animo sgradevole in cui siamo. Questo concetto, ripreso dalla filosofia stoica, è espresso anche dal imperatore-filosofo Marco Aurelio; il quale sosteneva che ‘le cose non toccano l’anima, i turbamenti vengono soltanto dall’opinione che si forma all’interno’. Una delle strategie utilizzate in questo tipo di terapia è lo spronare ad esercitarsi ad affrontare gradualmente le situazioni che ci sembrano insostenibili, invece di mettere in atto evitamenti cognitivi e comportamentali riguardo a ciò che ci fa paura, o che percepiamo come indesiderabile. Solo in questo modo ci renderemo conto di un risvolto psicologico interessante: le nostre convinzioni su quanto l’esperienza sarà atroce, una volta portate alla luce ed esaminate con razionalità, appariranno del tutto sproporzionate.

Ecco perché quando ci si trova in contesti altamente indesiderabili la strategia della visualizzazione negativa dello scenario peggiore risulta efficace: la distinzione fra eventi molto negativi e assolutamente terribili ci aiuta a dare un confine a paure che inizialmente ci possono apparire senza limiti. Inoltre, le nostre convinzioni assolutistiche, i must per dirla alla Ellis, siano essi positivi (dobbiamo essere sempre ottimisti) o negativi ci portano in genere a soffrire di uno stress indebito e ad una eccessiva preoccupazione di fallire nel tentativo di soddisfare costantemente i nostri standard (Ellis, 1989).

In conclusione, riporta Burkeman:

Ci sono tanti modi di essere infelici ma c’è un solo modo di stare tranquilli, ed è smetterla di correre dietro alla felicità.

Un’acuta osservazione utile a ribadire il problema del culto dell’ottimismo, quello sforzo ironico e, a volte controproducente, che se eccessivo finisce per scardinare la positività (Burkeman, 2015).

Qual è la terapia efficace contro la depressione? Sette interventi psicoterapeutici a confronto

I disturbi dell’umore e la depressione in particolare, sembrano essere molto comuni: si stima che circa un quinto della popolazione dei paesi ad alto reddito presenti, nel’arco della vita, sintomi depressivi.

 

La depressione risulta essere il quarto disturbo al mondo con impatto negativo sulla qualità di vita degli individui e si stima che, entro il 2030, si posizionerà al primo posto nei Paesi economicamente più avvantaggiati con un ovvio impatto sulla capacità produttiva e sulla salute fisica dei cittadini.

Data l’importanza e la gravità del disturbo, diversi interventi psicoterapeutici sono stati sviluppati per il trattamento della depressione, tra cui approcci cognitivo-comportamentali, interpersonali, terapie umanistiche e terapie psicodinamiche.

Mentre vi è un ampio consenso sul fatto che gli interventi psicoterapeutici siano benefici per i pazienti depressi, c’è un dibattito ancora in corso circa il diverso grado di efficacia dei vari orientamenti.

Precedenti meta-analisi hanno trovato come la terapia cognitivo-comportamentale sia più efficace di altri interventi. Al contrario, però, un’ulteriore meta-analisi ha stabilito come non vi sia alcuna differenza di efficacia tra la CBT e la terapia psicodinamica breve.

Per cercare di giungere a una risposta univoca, Barth e colleghi, autori di una meta-analisi pubblicata pochi anni fa, hanno confrontato ben 198 studi sull’efficacia dei vari tipi di psicoterapia nel trattamento del disturbo, per un totale di 15118 pazienti adulti con diagnosi di depressione.

Per la meta-analisi in questione sono stati selezionati solo gli studi con un disegno randomizzato: trattasi di studi condotti su soggetti adulti con un disturbo depressivo, o con un’elevata presenza di sintomi depressivi, in cui sono stati confrontati due diversi approcci terapeutici tra loro o gli effetti di un intervento psicoterapeutico con una condizione di controllo (es. liste d’attesa o trattamenti placebo).

Sulla base di una precisa tassinomia, sono stati classificati sette tipi differenti di interventi terapeutici: terapia interpersonale, interventi di attivazione comportamentale, terapia cognitivo-comportamentale, terapia centrata sul problem solving, social skills training, terapia psicodinamica, e counselling di supporto.

Quale tra questi sia risultato più efficace, è difficile dirlo: dall’analisi dei dati è emerso che i vari tipi di intervento presentano effetti comparabili sui sintomi depressivi, e che tutti gli approcci terapeutici portano a un significativo miglioramento dei pazienti depressi, rispetto agli individui appartenenti ai gruppi di controllo.

Dovendo contrastare gli effetti degli studi di piccole dimensioni sull’intera meta-analisi, sono state condotte ulteriori analisi sulle ricerche di medie e grandi dimensioni. Dall’analisi dei dati sono così emersi effetti notevolmente positivi per la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia interpersonale e la terapia centrata sul problem-solving, mentre gli effetti sono stati meno robusti per la terapia psicodinamica, il counselling di supporto, e gli interventi di attivazione comportamentale.

Sarebbe auspicabile continuare con le ricerche sul tema per giungere a una conclusione univoca su quale psicoterapia sia più efficace nella cura della depressione, tuttavia possiamo già cogliere il primo importante risultato emerso da meta-analisi come quella appena presentata: gli interventi psicoterapeutici risultano essere più efficaci del “non curarsi”, questo sottolinea come sia necessario, per chi soffre di depressione, rivolgersi in modo tempestivo ad uno psicoterapeuta esperto, qualunque sia la sua formazione.

La fine della storia tra Angelina Jolie e Brad Pitt: quando le difficoltà di coppia non si superano

Brad e Angelina si lasciano, e si lasciano male, scambiandosi botte da orbi. Termina un episodio di pace nella guerra tra i sessi, un episodio che ci aveva un po’ illuso e consolato, anche se i motivi di allarme erano tanti e da tempo.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 24/09/2016

La psicologia moderna dedica uno spazio a sé, un santuario a parte allo studio dei rapporti tra uomini e donne, tra maschi e femmine. Una nicchia separata dalle correnti maggiori della psicoanalisi e della psicologia cognitiva. Che ci sia questo spazio a sé e riservato ci avverte della natura di mistero sacro di questi rapporti. Uno spazio difficile da scoprire, perché tende a disperdersi nel bacino più vasto della psicologia della famiglia. I cui sacerdoti sono silenziosi e meno noti al grande pubblico. Più raramente ci è capitato di sentir parlare di Salvador Minuchin e Mara Selvini Palazzoli rispetto allo Zeus della psicologia, Freud. Come silenziosa e meno nota è la dea del focolare domestico, Estia in Grecia e Vesta a Roma, rispetto agli altri Dei olimpici dalla fama più rumorosa. Eppure il silenzio di Vesta non ci parla solo di tranquillità domestiche, ma di sotterranee tensioni destinate a scoprirsi improvvise, come quelle tra Angelina e Brad.

Le difficoltà di coppia già nei racconti antichi

Ne siamo molto consapevoli da sempre; perfino il racconto della Genesi è una sottile analisi delle difficoltà di coppia: [blockquote style=”1″]Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà.[/blockquote] Malgrado l’apparenza, non è una dichiarazione di superiorità del maschio e sottomissione della femmina, piuttosto un’amara descrizione di una millenaria incomprensione reciproca in cui non vince nessuno.

I racconti antichi procedevano per allusioni rapide e precise come sciabolate, che lasciavano molto all’immaginazione. Non è così nella letteratura moderna, nella quale lo scavo del dettaglio psicologico è portato fino all’estenuazione. Nella sonata a Kreutzer Tolstoi ci descrive ogni movimento emotivo della coppia di sposi, fino alla tragedia finale. Proust non ci risparmia nulla della relazione tra Marcel e Albertine, e poco cambia che all’ombra dei due personaggi ci fossero due maschi: Proust e Agostinelli. Il movimento di coppia rimane identico anche nell’identità dei sessi, e la guerra tra i sessi è destinata a complicarsi ora che sono più di due.

Gli antichi invece dobbiamo spiarli dal buco della serratura e seguirne i rapidissimi movimenti mai commentati da troppe parole. Così intuiamo nel racconto di Erodoto che la moglie di Candaule, il re di Lidia, fosse irritata e stanca da tempo dei comportamenti fatui e penosi del marito, fino a decidere di farlo uccidere dalla guardia del corpo Gige. Da quanto tempo questa donna disprezzava il marito? Non lo sappiamo. Conosciamo solo l’ultimo episodio, in cui lo sciocco Candaule si vanta della bellezza del corpo nudo della moglie con un suo sottoposto, appunto la guardia del corpo Gige. E porta a tal punto questa fatua vanteria da ragazzone malcresciuto da permettere a Gige di spiare la nudità di sua moglie. Possiamo perfino immaginare Candaule vantarsi?

-Gige, non puoi immaginare mia moglie cos’è. Che corpo, che donna!-

O peggio:

-Gige, te lo dico. Mia moglie è semplicemente una figa. Dovresti vederla nuda. Anzi, sai che ti dico? Te la faccio vedere. Stanotte!-

È sconfortante notare come il realismo di un racconto dialogato moderno riveli la volgarità della vita, laddove il mito avvolge di favola e mistero perfino eventi che, a ben guardare, furono penosi. Come questo di Candaule.

E quindi quella sera, seguendo il piano di Candaule, Gige si nascose dietro l’uscio della camera da letto regale per vedere la regina spogliarsi prima di andare a dormire. La regina però vide Gige allontanarsi dalla stanza e capì di esser stata tradita e offesa dal marito. E ne decise la morte.

Dietro questo episodio da fiaba è possibile intravedere la storia di una relazione vera, una relazione tra un uomo sciocco e superficiale e una donna orgogliosa e astuta. Offesa col marito, questa donna, di cui mai conosciamo il nome, convoca Gige il quale, come ci racconta Erodoto, “credendo che ella non sapesse nulla di quanto era accaduto, venne al richiamo; era solito presentarsi anche prima, quando la regina lo chiamava. Appena arrivò, gli disse: “Delle due strade che ora ti si presentano, ti do la scelta, Gige, di prendere quella che vuoi: o uccidi Candaule e hai me e il regno di Lidia; oppure devi morire subito […]. Deve morire l’autore di questo inganno o tu, che mi hai visto nuda e hai fatto cose non lecite”. E Gige scelse di uccidere Candaule e diventare egli stesso re.

Come si erano incontrati quest’uomo stupido e questa moglie spietata? Non lo sappiamo. Forse un matrimonio dinastico; ma poi la loro relazione era andata oltre l’interesse e aveva preso sostanza. Probabilmente era diventata la relazione tra un uomo forse dolce ma infantile nel suo essere così fiero della bellezza della moglie e una donna dura che non lo rispettava. Uno scenario non nuovo: il marito inconsapevole dei movimenti emotivi, la moglie invece perfino troppo.

L’attualità dei miti del passato

Eppure questo comportamento sepolto nel passato di un racconto a metà tra mito e storia (l’esistenza storica di Gige e Candaule è plausibile) è anche un comportamento molto comune. Il candaulesimo, l’esposizione con o senza assenso delle nudità del proprio partner al voyeurismo di un estraneo, è una pratica erotica diffusa tra gli scambisti ed è una fantasia sessuale non infrequente. Non vi è distanza tra questo re dimenticato di un racconto di due millenni fa e le fantasie di un impiegato o le pratiche di un don Giovanni di provincia dei giorni nostri.

Torniamo a Candaule. Era un uomo così preso dalla sua infatuazione per il corpo della moglie dal parlarne con tutti, comprese le guardie del corpo. Forse era anche un uomo innamorato, ma lo esprimeva in questa maniera squalificante. Probabilmente era un uomo che aveva da tempo perso credito agli occhi di tutti, non solo della moglie. Candaule era politicamente squalificato. L’assassinio di un re e la sua sostituzione con uno dei suoi pretoriani non è un evento che si possa improvvisare. Se Gige se la cava e diventa re, vuol dire anche che Candaule ormai non godeva più del favore della corte e che l’avvicendamento al potere fu ben organizzato. Nessuno protesta quando Candaule muore e Gige sale sul trono senza problemi.

Insomma, è una donna potente, questa moglie di Candaule. Una king-maker. Decide lei chi sale e chi scende dal trono. Vigeva ancora una sorta di matriarcato in Lidia? D’altronde era un regno che aveva per patrona una dea, Rea o Cibele la grande madre, madre di Zeus e di molti altri dei. Non possiamo dire altro. Come spesso nei racconti antichi, dobbiamo intuire tutto da un episodio. Un episodio di ambivalenza nei rapporti di coppia. Un’ambivalenza che ci racconta come la coppia maschio-femmina sia sempre una negoziazione politica tra due potenze, potenze che conducono un’eterna trattativa che compone e dispone gli interessi stridenti, ma talvolta anche armonici, dei due giocatori.

Misofonia: Non voglio sentirti! Non voglio guardarti!

Il termine misofonia è stato creato nel 2001, e introdotto in letteratura nel 2002, dal gruppo di lavoro di Pawel Jastreboff per indicare quei pazienti che reagivano negativamente solo verso determinati suoni e non riportavano miglioramenti quando trattati come iperacusici (Jastreboff & Jastreboff, 2014). Pur riconoscendo come comune denominatore la ridotta tolleranza ai suoni (Decrease Sound Tolerance, DST) presente sia nell’iperacusia (ipersensibilità generica verso i suoni) che nella misofonia, quest’ultimo disturbo è caratterizzato dalla presenza di un’importante reazione emotiva, generalmente rabbia, disgusto o ansia.

 

Che cos’è la misofonia

Martina, 35 anni, mi racconta: “Tra poco è ora di pranzo, i miei familiari saranno tutti a tavola, oggi c’è anche mio padre con noi, già so come andrà a finire… mi dovrò sbrigare a mangiare e a cercare subito una scusa per alzarmi da tavola per non sentirli e non vederli. Quando mangio lo faccio velocemente, cerco di coprire i loro suoni, cerco di non guardarli ma non ci riesco se ho finito il mio pasto. La mia attenzione va tutta lì verso di loro, come una calamita, e inizio ad innervosirmi, mi chiedo perché lo fanno, perché non smettono?”.

Riccardo, 52 anni: “ero in treno e il tipo davanti a me ha iniziato a mangiarsi le unghie… ho provato schifo, non riuscivo più a stare seduto, avrei voluto urlargli contro, sentivo in me la rabbia crescere… ma cavolo, che schifo è? Come si permette? A volte ho quasi l’impulso di picchiare, ho voglia sempre di fuggire, di far smettere quel tormento”.

Queste appena riportate sono le parole di pazienti che soffrono di quella che viene oggi definita misofonia, una problematica ancora sconosciuta a molti e soprattutto ai pazienti che si rivolgono allo specialista otorinolaringoiatra per una visita audiologica perché credono di “sentire troppo” oppure perché soffrono anche di acufeni (suoni come fischi o fruscii, anche di forte intensità, che possono essere percepiti in una o in entrambe le orecchie, o all’interno della testa).

Per quanto gli studi scientifici a disposizione siano scarsi e tante le domande rispetto alle limitate risposte, cercherò di delineare un quadro generico sulla problematica.

 

I sintomi della Misofonia

Il termine “misofonia” è stato creato nel 2001, e introdotto in letteratura nel 2002, dal gruppo di lavoro di Pawel Jastreboff per indicare quei pazienti che reagivano negativamente solo verso determinati suoni e non riportavano miglioramenti quando trattati come iperacusici (Jastreboff & Jastreboff, 2014). Pur riconoscendo come comune denominatore la ridotta tolleranza ai suoni (Decrease Sound Tolerance, DST) presente sia nell’iperacusia (ipersensibilità generica verso i suoni) che nella misofonia, quest’ultimo disturbo è caratterizzato dalla presenza di un’importante reazione emotiva, generalmente rabbia, disgusto o ansia, in risposta a stimoli uditivi con caratteristiche di specificità che vedremo di seguito.

La reazione emotiva può essere anticipata o accompagnata da stimoli visivi e, in questo caso, il disturbo prende il nome misokinesia (Schröder et al., 2013). Nella misofonia, a differenza dell’iperacusia, la reazione dipende dal contesto in cui il suono è presente o dalla persona che lo emette e non dalle caratteristiche fisiche del suono stesso (Jastreboff & Jastreboff, 2014). I suoni comunemente riconosciuti come trigger sono quelli prodotti dalla bocca (es. masticazione), dal naso (es. starnutire, respirare) e altri ripetitivi tipo giocare con il click della penna o il rumore della tastiera quando scriviamo al computer (Eldestein et al., 2013; Jastreboff & Jastreboff, 2014; Schröder et al., 2013).

Le persone sono spinte ad allontanarsi dall’evento trigger oppure avvertono il desiderio di essere violente verso la persona che emette il suono o compie determinati gesti (Bernstein et al., 2013). Le reazioni fisiche associate possono manifestarsi in: tachicardia, ipertensione, rigidità muscolare, dispnea, sudorazione, ipertermia (Cavanna & Seri, 2015). La vita quotidiana, nei casi più gravi, è compromessa, caratterizzata da evitamenti e difficoltà nella gestione delle relazioni interpersonali (Bernstein et al., 2013; Cavanna & Seri, 2015).

 

Misofonia: le difficoltà nel definire la prevalenza e le comorbidità

Non ci sono stime sulla prevalenza del disturbo nella popolazione generale a causa della mancanza di strumenti di valutazione validati e perché i pazienti si rivolgono a specialisti differenti come neurologo, otorino, psicologo, audiologo e questo rende complessa una raccolta omogenea dei dati (Jastreboff & Jastreboff, 2014). La misofonia generalmente insorge nella tarda infanzia (Cavanna & Seri, 2015; Eldestein et al., 2013; Schröder et al., 2013) e coinvolge inizialmente le persone più vicine, come i membri della famiglia (Bernstein et al., 2013).
Non è chiara ancora la connessione tra la misofonia e altri disturbi di tipo psichiatrico.

Nello studio di Ferreira et al. (2013) vengono riportati tre casi in cui la misofonia viene vista come sintomo secondario di disturbo d’ansia generalizzato, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbo schizoide di personalità. In realtà però nell’articolo non è stato specificato con quali modalità sono state effettuate le diagnosi e non vi è evidenza di una valutazione con esami audiologici.

 

Gli studi sulla Misofonia

Schröder e colleghi (2013) suggeriscono di considerare la misofonia come un disturbo psichiatrico distinto, inserito nello spettro dei disturbi ossessivo-compulsivi, e riportano gli ipotetici criteri per farne diagnosi. Il campione di riferimento è formato da 42 pazienti valutati con la Structured Clinical Interview for DMS-IV Axis II (SCID-II), la Hamilton Depression Rating Scale (HAM-D), e la Symptom Checklist (SCL-90) e una scala prodotta dai ricercatori stessi chiamata Amsterdam Misophonia Scale (A-MISO-S) costruita a partire dalla Yale-Brown Obessive-Compulsive Scale (Y-BOCS). Da evidenziare che il 52,4% dei pazienti ha riportato una diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo di personalità; soltanto 5 pazienti del campione hanno effettuato controlli audiologici.

Jastreboff e Jastreboff (2014) ritengono che nello studio di Schröder (2013) si è tenuto conto solo di una popolazione di tipo psichiatrico e che invece, secondo la loro esperienza, i pazienti con misofonia non presentano generalmente disturbi di questo tipo; anche qui non riportano stime precise e metodi di valutazione psichiatrica. Avvalorano la loro posizione dichiarando che i pazienti misofonici sono migliorati con un trattamento combinato tra counseling e terapia sonora specifica, senza nessun tipo di intervento psichiatrico. A detta degli autori il trattamento è risultato efficace per 139 pazienti su 167 (83% dei casi); l’assessment è stato effettuato con un’intervista strutturata da loro prodotta a partire dalla Tinnitus Retraining Therapy e non riportano dati sul follow-up.

La realtà attuale è che la scarsità degli studi non permette di delineare linee di intervento psicoterapeutico precise, né tantomeno sulla possibilità di un trattamento farmacologico.

 

Misofonia: possibili trattamenti

Uno studio piuttosto scarno su due giovani con misofonia (McGuire et al., 2015) utilizza la CBT con tecniche di esposizione e prevenzione della risposta per incrementare l’abituazione agli stimoli non tollerati. Unici test somministrati nell’assessment sono il Misophonia Questionnaire e la Misophonia Severity Scale, entrambi non ancora validati.

L’unico case study di Bernstein e colleghi (2013), piuttosto dettagliato, illustra un protocollo CBT (Cognitive Behavioural Therapy) per l’ansia adattato alla misofonia ed include ristrutturazione dei pensieri automatici, esposizioni, modificazione delle strategie di coping disfunzionali, training attentivo e lavoro sull’assertività. Alla fine dello studio gli autori riportano un punto importante emerso dal trattamento: la paziente ha capito che sotto il disturbo c’era il pensiero che i suoi bisogni non erano importanti per le persone vicino a lei… peccato che questo aspetto, a mio avviso preminente, non sia stato particolarmente trattato lungo il percorso terapeutico.

 

Conclusioni

Quanto riportato non pretende di essere un’esposizione esaustiva a proposito di una patologia ancora poco conosciuta, ma intende stimolare l’interesse degli esperti, sia nel campo della mente che in quello dell’udito, per effettuare diagnosi più accurate sulla base di criteri omogenei e per avviare ricerche scientifiche in merito. Questo tipo di lavoro, a mio avviso, comporta la necessità di un approccio multidisciplinare troppo spesso sottovalutato e, soprattutto, poco utilizzato.

Infine, credo sia necessario far conoscere ai pazienti le caratteristiche di questo disturbo, fornendo loro informazioni scientifiche aggiornate, affinché possano essere consapevoli dei trattamenti oggi disponibili, in modo da evitare di intraprendere un percorso terapeutico basato su false cure “miracolose” come già succede, in alcuni casi, per il trattamento degli acufeni.

Le rappresentazioni sociali: immagini, rappresentazioni, stereotipi e pregiudizi

Rappresentazioni sociali: Una rappresentazione mentale è, infatti, un pensiero operato in sostituzione di un oggetto, persona o evento percepito in precedenza, pensiero che è il risultato di un processo percettivo e cognitivo in relazione diretta o elaborata con lo stimolo percepito.

Rossella Pavani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Le rappresentazioni sociali: definizioni

Le rappresentazioni sociali sono alla base dei complessi meccanismi della produzione della conoscenza sociale e dell’agire di ognuno di noi; sono un fondamentale costrutto teorico, ma soprattutto [blockquote style=”1″]uno strumento indispensabile per comprendere ed eventualmente modificare i comportamenti collettivi[/blockquote] (Palmonari & Emiliani, 2014).

Le rappresentazioni: ovvero “la mappa non è il territorio”?
Per iniziare una disamina intorno alle rappresentazioni sociali, si potrebbe partire parafrasando la suggestione condivisa da Bell (1945) e da Korzybsky (1958) sulla constatazione che la mappa non corrisponde alla cosa mappata, ma rispetto alla quale, in qualche modo, ci muoviamo come se lo fosse.

Una rappresentazione mentale è, infatti, un pensiero operato in sostituzione di un oggetto, persona o evento percepito in precedenza, pensiero che è il risultato di un processo percettivo e cognitivo in relazione diretta o elaborata con lo stimolo percepito. [blockquote style=”1″]È un rimandare di qualcosa a qualcosa che è altro[/blockquote] (Ruggiero, 2011).

L’oggetto della rappresentazione si presenta come un [blockquote style=”1″]insieme complesso di idee, immagini, informazioni, atteggiamenti e valori tenuto insieme da un sistema cognitivo avente una propria logica e un proprio linguaggio[/blockquote] (Grande, 2005) che dipende sia dal soggetto che lo costruisce/esprime, sia dall’oggetto esterno o sociale che lo suscita. Il sistema rappresentativo è caratterizzato da tre dimensioni: l’informazione, ovvero le conoscenze possedute sull’oggetto rappresentato; l’atteggiamento, che indica le disposizioni favorevoli o contrarie verso l’oggetto rappresentato; e il campo della rappresentazione, cioè la struttura che organizza, articola e dispone gerarchicamente le unità di informazione (Moscovici, 1976, Grande, 2005).

Rappresentare una situazione, per Moscovici (1976), [blockquote style=”1″]non vuol dire semplicemente sdoppiarla, ripeterla o riprodurla, vuol dire ricostruirla ritoccarla, cambiarne il testo.[/blockquote] Nel processo ri-costruttivo, ad un’immagine si sovrapporrà inevitabilmente un significato di natura simbolica, impedendone, di fatto, una “rappresentazione oggettiva”. Ciò avviene soprattutto perché l’individuo non costruisce da zero la realtà, ma subisce una contaminazione anche da parte di elementi/significati/valori che circolano nella sua società e nel suo tempo. Attorno agli “oggetti”, gli individui formeranno delle “idee calde, cariche di significati emozionali” (Gastaldi & Contarello, 2006) e quando la conoscenza sarà elaborata e condivisa collettivamente, attorno a quell’oggetto, a quel punto divenuto sociale, per Moscovici e Farr (1989) si creeranno delle rappresentazioni sociali che non sono semplicemente [blockquote style=”1″]opinioni su o atteggiamenti verso, ma sono di diritto teorie o branche della conoscenza che vengono usate per la scoperta e l’organizzazione della realtà.[/blockquote]

Rendendo familiare ciò che è estraneo o distante dall’esperienza dei membri di un gruppo, per Palmonari, Rubini e Cavazza (2002), non solo si faciliterà la comunicazione in merito ad una realtà comune, ma il sapere condiviso avrà anche la funzione di guida del comportamento, appiattendo ed omologandone i tratti. Questa articolazione, che gli autori definiscono “dinamica ed evolutiva” tra componenti individuali e sociali, mostra la natura sociale e collettiva che gli individui hanno di loro stessi e del modo in cui si porranno nel mondo che li circonda, evidenziando la pervasività delle rappresentazioni sociali nelle azioni quotidiane. Anche per lo stesso Moscovici (1991) le rappresentazioni sociali [blockquote style=”1″]mostrano un potere d’influenza notevole, perché non è più possibile distinguerle dal mondo dell’esperienza collettiva che le reifica. Insinuandosi in tutte le azioni reciproche e le cerchie sociali, diventano il codice genetico […] delle combinazioni successive.[/blockquote]

 

Le rappresentazioni sociali e le categorizzazioni

In questa direzione il contributo di Tajfel appare fondamentale; come riportato da Rubini (2003), egli opera una distinzione fra categorizzazione tout court (raggruppamento di oggetti/eventi per similarità, che permette una riduzione del carico cognitivo) e categorizzazione sociale. Quest’ultima, oltre ad essere caratterizzata dalle funzioni cognitive che regolano i normali processi di classificazione degli stimoli (semplificazione e ordinamento della realtà percepita), è carica di valori sociali che influenzano la divisione dell’ambiente sociale in “noi” e “loro”.

Fra gli effetti cognitivi prodotti dalle categorizzazioni sociali, oltre alla semplificazione euristica della realtà, saranno presenti delle distorsioni valutative come l’effetto contrasto (la sovrastima delle differenze intercategoriali – “noi siamo diversi da loro”) e l’effetto assimilazione (l’accentuazione delle somiglianze intracategoriali – “loro sono tutti simili”). L’espressione di questi due effetti comporta una maggiore variabilità percepita fra i membri dell’ingroup dovuta all’effetto della familiarità e, di conseguenza, la percezione di un’omogeneità nell’outgroup (Rubini, 2003).

La spiegazione che viene ipotizzata da Tajfel (1974) sul comportamento ingroup/outgroup si rifaceva al bisogno degli individui di raggiungere la differenziazione o specificità positiva del proprio gruppo, attraverso la quale derivava la valorizzazione della propria identità sociale. Questi sono gli assunti di base della teoria dell’identità sociale (Tajfel & Turner, 1979) che è definita [blockquote style=”1″]motivazionale per il fatto che la forza psicologica che spinge gli individui all’appartenenza ai gruppi sociali è l’enfatizzazione o il mantenimento della stima di sé. Il raggiungimento della specificità positiva del proprio gruppo produce un riverbero positivo sull’immagine di sé[/blockquote] (Rubini, 2003).

È invece slegando l’autostima dalle idee di base della teoria dell’identità sociale, che Turner (1985) formulò la teoria della categorizzazione del Sé, attraverso la quale cercava di dar conto non solo delle differenze percepite ma anche dei comportamenti effettivi. Turner sosteneva che le identità sociali fossero le responsabili del comportamento intergruppi e ciò è evidente proprio dal fatto che le persone che si identificano in un gruppo si comporteranno in modo coerente con gli altri membri del gruppo. Da un punto di vista cognitivo la teoria mette in risalto che [blockquote style=”1″]il Sé non si configura come un’entità fissa ma piuttosto come qualcosa che dipende dal contesto intergruppi saliente[/blockquote] (Cognizione sociale, 2009), facendo risaltare gli aspetti psicologici dell’appartenenza ad un gruppo, accentuandone quelle caratteristiche prototipiche e stereotipiche che aumentano la percezione di somiglianza fra sé e i membri dell’ingroup.

 

I processi di stereotipizzazione: dalle rappresentazioni sociali ai pregiudizi

Sarà appunto la tendenza ad assimilare fra loro gli elementi che compongono una determinata categoria, attenuandone o appiattendone le differenze interne (Rubini, 2003), che farà diventare la categorizzazione sociale “conoscenza in senso comune”, nella misura in cui essa concorre alla costruzione consensuale della nostra realtà quotidiana (Grande, 2005).

Il collegamento fra le rappresentazioni sociali e la nascita dello stereotipo era stato avviato dal giornalista Walter Lippmann (1922) il quale, oltre a coniare il termine stereotipo mutuandolo dall’ambiente tipografico, sosteneva che gli individui si approcciassero alla realtà non in modo diretto, ma attraverso delle immagini mentali che ognuno si forma su un particolare della propria realtà (Mazzara, 1997). Per l’autore, queste immagini mentali costituiscono un filtro, uno “pseudo-ambiente” attraverso il quale l’individuo interagisce, e ciò che ne passa attraverso sono semplificazioni, spesso grossolane. Come riportato in un suo recente articolo, Fiore (2015) definisce uno stereotipo come [blockquote style=”1″]una scorciatoia mentale usata per incasellare persone o cose in determinate categorie stabilite. Sono delle valutazioni rigide, inflessibili, che si riferiscono a concetti mai appresi in maniera diretta, ma mediati dal senso comune.[/blockquote]

In ragione del fatto che, bypassando le verifiche empiriche dirette, uno stereotipo si propone di [blockquote style=”1″]rappresentare gruppi e non individui, immagini globali e non specifiche rappresentazioni di singole persone[/blockquote] (Arcuri & Cadinu, 2011), ne deriva che la realtà rappresentata si articolerà in prospettive contrapposte secondo il punto dal quale ci si colloca per osservarla. Proprio per il fatto che entra in gioco lo status del gruppo, gli stereotipi non sono dei sistemi di [blockquote style=”1″]rappresentazione «neutrali»: essi normalmente veicolano in maniera implicita sistemi di valore, gerarchie di criteri, preferenze e giudizi tendenziosi[/blockquote] (Arcuri & Cadinu, 2011) che spesso offrono una base fertile, un “nucleo cognitivo” al pregiudizio (Mazzara, 1997).

Per Fiore (2012) lo stereotipo è spesso collegato al pregiudizio dal momento che è una [blockquote style=”1″]rappresentazione mentale di un preconcetto, vale a dire l’insieme degli elementi di informazione e delle credenze circa una certa categoria di oggetti, rielaborati in un’immagine coerente e tendenzialmente stabile, in grado di sostenere e riprodurre il pregiudizio nei loro confronti.[/blockquote]

Nelle scienze sociali il termine pregiudizio somma così, oltre al significato più comune di giudizio emesso a priori (e in assenza di dati empirici), due ulteriori precisazioni: la prima è che ci si riferisce principalmente a specifici gruppi sociali e la seconda, che sia di solito sfavorevole perché tende a penalizzare l’oggetto del giudizio stesso (Mazzara, 1997). Come lo stereotipo, anche il pregiudizio può essere positivo, utile e corretto seppur formulato in assenza di validazione empirica, ma il crinale fra l’esigenza utilitaristica di classificare un mondo incredibilmente vario e complesso e farne un uso distorto, per Mazzara (1997), sta nel motivo per cui un determinato tratto entra a far parte di una categoria. Per l’autore avviene [blockquote style=”1″]un’estensione dai requisiti di base che definiscono la categoria e che sono relativi ad appartenenze sociali, a requisiti accessori di tipo psicologico, e riguardano i tratti di personalità, le disposizioni, le qualità morali.[/blockquote]

L’accezione negativa di pregiudizio è, di solito, predominante e può concretarsi in stigma quando in una società [blockquote style=”1″]sono consolidate e culturalmente condivise delle credenze che assegnano ad alcuni gruppi una posizione di inferiorità e li fanno oggetto di espressioni di disprezzo [/blockquote](Arcuri & Cadinu, 2011).

Per Clark (1965) il grave rischio per gli individui presi di mira da forme di stigma sociale è che dubitino del loro valore, indebolendo la loro autostima, offrendo ulteriormente il fianco a successive ed ulteriori espressioni negative. Sebbene i dati riportati da Fiske e Taylor (2009) rivelino che solo il 10% della popolazione occidentale detiene stereotipi manifesti, non si può certo affermare che razzismo o sessismo siano scomparsi, ma piuttosto che siano celati sotto forme latenti, sottili, di “razzismo riluttante”. La maggior parte delle persone, infatti, rifiuta l’idea di poter detenere delle credenze o delle intenzioni razziste (Gaertner & Dovidio, 1986) e ciò può essere determinato dal tentativo di rifuggire a loro volta dal marchio/stigma di individui poco politically correct, rivolto verso coloro i quali si siano sbilanciati ad esprimerli apertamente. Tutto ciò può comportare un adeguamento, una conformazione a norme e credenze che siano ritenute collettivamente più accettabili, spesso celandole sotto mentite spoglie, le quali però continuano a far sentire gli effetti dei bias a chi ne è stato fatto oggetto (Fiske & Taylor, 2009).

Molte delle pubblicazioni (per una rassegna si veda Wheeler & Petty, 2001) mostrano che l’attivazione degli stereotipi può influenzare il comportamento degli individui. Gli autori analizzarono i dati operando tre principali distinzioni: fra stereotipi positivi e negativi; fra stereotipi che riguardano il proprio gruppo (self-stereotype) o il gruppo a cui non si appartiene (other-stereotype); fra l’effetto comportamentale dell’assimilazione o quello del contrasto. Le loro analisi mostrano come, nella maggioranza degli studi presi in considerazione, le persone assimilano il loro comportamento allo stereotipo attivato. Inoltre, temendo di confermare con la propria prestazione lo stereotipo (Fiske & Taylor, 2009), le persone subirebbero una sorta di “minaccia da stereotipo” (Steele, 1997), la quale consente di predire che l’essere costretti a confrontarsi con auto-stereotipi negativi salienti porterà i membri di un gruppo svantaggiato a peggiorare le proprie performance in un compito per il quale sono stati ritenuti “meno adatti” (Fiske & Taylor, 2009; Wheeler & Petty, 2001).

Per Fiore (2012) la ragione che ci spinge ad adottare e mantenere gli stereotipi non è per una deprecabile [blockquote style=”1″]tendenza all’errore, ma per non rimanere senza schemi e senza aspettative[/blockquote] e questo comporterebbe degli innegabili benefici da un punto di vista cognitivo, in quanto si riescono ad accumulare dati sul mondo che ci circonda assimilando le nuove informazioni a quando precedentemente appreso e già in memoria, per ridurre operazioni complesse ad azioni semplici.

Ciò può avvenire attraverso l’uso di euristiche, semplici strategie cognitive, forme semplificate ed economiche di ragionamento, che costituiscono strumenti in grado di ridurre la complessità degli elementi e di fornire una spiegazione “al meglio” di quanto viene comunicato. Vi è una quantità di informazioni praticamente illimitata alla quale siamo esposti quotidianamente: parte di essa potrebbe essere influente sulle decisioni che si prendono nella vita, ma un’altra parte potrebbe essere di dubbio valore. Per Fiske & Taylor (2009), dati i vincoli temporali, per complessità o mole delle informazioni rilevanti, [blockquote style=”1″]non è realistico che, per formulate i propri giudizi, il pensatore sociale utilizzi strategie esaustive.[/blockquote] In molte circostanze si comporta come una persona che “si accontenta” di effettuare inferenze e decisioni adeguate, piuttosto che come un “ottimizzatore” che cerca di arrivare alle inferenze e alle decisioni che siano le migliori in assoluto.

Il modello sistemico dei disturbi alimentari

Modello sistemico dei disturbi alimentari: Minuchin parla di “famiglia anoressica”, una terminologia che sottolinea ed evidenzia come la famiglia sia al centro dell’attenzione e la paziente designata sia semplicemente la portatrice di un sintomo all’interno di un sistema più complesso. In questo contesto diventa importante osservare e valutare le relazioni che intercorrono nella famiglia, il panorama trigenerazionale, le linee generazionali, i triangoli all’interno della famiglia e i miti che percorrono le famiglie delle anoressiche.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARIIl modello sistemico dei disturbi alimentari – (Nr. 27)

Il modello sistemico dei disturbi alimentari

La terapia sistemico-relazionale e familiare, partendo dalla teoria dei sistemi, si focalizza sui rapporti all’interno della famiglia, sui giochi relazionali e sui sottosistemi familiari.

Minuchin (1984) parla di anoressia come sindrome psicosomatica caratterizzata da sintomi sia di natura fisica sia psichica. Certi tipi di organizzazione familiare sono strettamente correlati allo sviluppo e al mantenimento di sindromi psicosomatiche; non è l’individuo ad essere sintomatico ma il sistema stesso. I confini interni tra i membri sono praticamente assenti (invischiamento), mentre i confini con l’esterno sono molto rigidi.

Minuchin parla di “famiglia anoressica”, una terminologia che sottolinea ed evidenzia come la famiglia sia al centro dell’attenzione e la paziente designata sia semplicemente la portatrice di un sintomo all’interno di un sistema più complesso. In questo contesto diventa importante osservare e valutare le relazioni che intercorrono nella famiglia, il panorama trigenerazionale, le linee generazionali, i triangoli all’interno della famiglia e i miti che percorrono le famiglie delle anoressiche. La famiglia diventa la matrice dell’identità, il luogo dove viene definito il proprio sé.

Il modello sistemico dei disturbi alimentari: la famiglia anoressica

Selvini Palazzoli (2006) prende in considerazione gli stili comunicativi e i modelli interattivi, notando come ogni diversità venga azzerata con una costante opera, dall’esterno, di ridefinizione delle emozioni, che non vengono negate bensì disconfermate. Ogni membro non fa qualcosa perché lo desidera, ma lo fa in rapporto alle esigenze altrui e “per il bene di qualcun altro”. Si parla di “matrimonio a tre” dove ogni membro è come se fosse sposato con due persone: il padre con la madre e la figlia, la figlia con il padre e la madre ecc. Tutto ciò non permetterà alla figlia di condurre una vita autonoma.

A questo quadro si affianca anche la presa in considerazione della realtà intrapsichica, non solo della figlia ma anche della madre, che spesso, sotto l’apparenza esteriore di moglie sottomessa, nasconde idee di ribellione e di abbandono non assecondate solo per paura della condanna sociale.

L’emacipazione del corpo esprime un comportamento paradossale: l’onnipotenza della schiavitù. L’anoressica si sente onnipotente perché attaccando il corpo come un oggetto esterno, possedimento della madre che non riconosce i bisogni altrui, colpisce là dove è riposta la potenza dell’altro; sottrae il suo corpo alla madre in modo che non possa, attraverso il cibo, plasmarlo secondo i suoi desideri.

L’anoressia, dunque, è un disturbo che riflette modalità particolari di funzionamento familiare, quali la tendenza a evitare i conflitti, un atteggiamento eccessivamente protettivo dei genitori nei confronti dei figli, una mancanza di regole chiare e di confini tra i membri della famiglia, da cui risulta un’eccessiva intrusione di ciascuno negli spazi dell’altro. Allo stesso modo, le madri delle ragazze anoressiche sono quasi tutte iperprotettive e dominanti. Sembra che in queste famiglie siano incoraggiati e premiati la disciplina e il successo, più che la conquista dell’autonomia e di una consapevolezza matura. Un’apparente armonia tra i membri della famiglia diventa il modo in cui ci si preserva dall’affrontare i problemi e si mantiene la stabilità.

Il modello sistemico dei disturbi alimentari: la famiglia dei pazienti obesi o bulimici

Anche lo sviluppo dell’obesità e della bulimia sembrano essere collegati a caratteristiche familiari particolari, come la presenza di una madre iperprotettiva e una mancanza di calore, supporto nei confronti del soggetto. Le figlie obese si sentono colpevolizzate, come se non riuscissero a perdere peso per una mancanza di volontà e di controllo. L’invischiamento, ovvero la mancanza di confini, è quella situazione familiare in cui si attribuisce un’importanza fondamentale alla relazione con l’altro. Chi cresce in questa famiglia dà un valore capitale alla relazione con l’altro, quasi che l’altro definisca il sé della persona stessa. Un sistema così chiuso e protetto cela in realtà una forte conflittualità che diventa una dinamica manifesta all’interno della famiglia stessa.

Andando in cerca di un senso di identità e di autonomia, le ragazze non accettano nulla di quanto i genitori o il mondo che le circonda possono offrire; preferirebbero morire di fame piuttosto che continuare una vita di accomodamenti. Invischiamento e iperprottetività vanno nelle famiglie anoressiche di pari passo. Talvolta la figura paterna è in posizione periferica nella famiglia. Gli impegni di lavoro, il modello culturale, ormai superato in una società in cui sia l’uomo sia la donna lavorano fuori casa, lo portano a delegare quasi completamente il compito di seguire i figli alla madre. Questo comportamento paterno può generare nei figli un senso di abbandono e di inadeguatezza, per cui finiscono erroneamente per considerarsi poco importanti per il genitore. Inoltre, durante l’adolescenza, talvolta le figlie entrano in conflitto con la madre, mentre risulterebbe più armonico il rapporto con il padre.

Le ragazze tendono a dipingere un quadro positivo della loro famiglia. Si tratta, in parte, di una negazione diretta dei fatti o del timore di trovarsi costretti a esprimere una critica; ma è anche espressione di eccessivo conformismo: quello che dicono i genitori è sempre giusto e le ragazze si rimproverano di non essere abbastanza buone. In molte famiglie si pone l’accento su un comportamento educato e i genitori sono fieri della loro bambina perfetta che non ha mai manifestato i comuni atti di insubordinazione infantile, come il contraddire, la caparbietà o l’ira. Infatti, la mancata espressione dei sentimenti, specie di quelli negativi, è una regola generale finché non si manifesta il problema e l’antica bontà cede il passo a un negativismo indiscriminato.

Molti giovani si preoccupano dell’impressione che fanno, di quello che la gente penserà e dell’immagine che rimandano alla società. Le famiglie di anoressiche sembrano quadri ben dipinti perfetti, da esporre al mondo. Una pace a tutti costi, un rapporto ostentatamente corretto e rispettoso quasi una caricatura dello stesso: se si osservassero attentamente le dinamiche interne, le disconferme tra i diversi membri e le squalifiche apparirebbero continue. Esiste la possibilità che nelle famiglie anoressiche esista una polarità semantica di fondo “vincente/perdente” e questa squalifica rappresenterebbe esattamente la necessità di uscire vittorioso dalla lotta.

 

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