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La terapia psicodinamica dei disturbi alimentari – Magrezza non è bellezza Nr. 26

Nella terapia psicodinamica dei disturbi alimentari vengono analizzate le esperienze dolorose dell’infanzia e il terapeuta aiuta il paziente a interpretare le sue emozioni.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: La terapia psicodinamica dei disturbi alimentari (Nr. 26)

 

La terapia psicodinamica dei disturbi alimentari

Un problema che emerge quando si trattano pazienti che soffrono di disturbi alimentari è la tendenza ad essere molto influenzati dall’ambiente circostante a discapito di ciò che questi pazienti sentono. Essi tendono a fare ciò che il terapeuta desidera, possono persino accettare interpretazioni che non corrispondono veramente alla loro esperienza. C’è quindi il rischio che il paziente accolga le spiegazioni del terapeuta e che non entri in contatto con i suoi veri desideri, a causa di esperienze negative durante l’infanzia che non gli hanno permesso di sviluppare un contatto reale con la propria interiorità.

Il modello e la terapia dell’anoressia

L’anoressica, come accennato, è afflitta da un insieme di oggetti maternali introiettati, nel tentativo di separazione dalla madre (Masterson, 1976). Per arrestare questa fase di simbiosi e individuazione-separazione, le quali corrispondono alle parti negative del suo ego, l’obiettivo terapeutico è quello di integrare le rappresentazioni distorte di se stessa e dell’oggetto materno.

La terapia per questo disturbo consiste nello sviluppare un’alleanza terapeutica concentrandosi sulle cause delle fissazioni, dell’atipico sviluppo delle funzioni dell’ego, e delle proprie rappresentazioni. Le strategie per sviluppare l’alleanza e superare le barriere si basano sul confronto e sull’interpretazione.

La terapia della bulimia

La terapia per la bulimia consiste nel comunicare i propri desideri, bisogni e affetti in una forma simbolica, poiché il corpo della bulimica è il veicolo di divulgazione del proprio malessere, dei sintomi della malattia e dei conflitti irrisolti. Il proprio corpo non è integrato con la propria mente. La regolazione degli affetti è un meccanismo di difesa nei confronti della rappresentazione materna, non è integrata con la rappresentazione di se stessi.

Nel processo terapeutico occorre rendere i soggetti consapevoli dei propri impulsi, bisogni e sentimenti, cercando di porre riparo al senso di incapacità, alle distorsioni concettuali, all’isolamento e all’insoddisfazione che sottendono questi disturbi (Selvini Palazzoli, 1981).

L’approccio psicoanalitico di Bruch

Per Bruch (1989) la psicoanalisi tradizionale, con la sua enfasi sull’interpretazione dei processi inconsci, risulta piuttosto inefficace. Impiegando un approccio psicoanalitico meno ortodosso, che comprendeva un’attiva partecipazione da parte della paziente nella ricostruzione del suo passato, si ottenevano risultati decisamente migliori. Perché le pazienti sentivano di essere ascoltate per la prima volta nella loro vita, invece di dover subire un’interpretazione dei propri sentimenti e intenzioni. Una particolarità dei genitori delle anoressiche sembra, infatti, essere l’imposizione di decisioni e convinzioni, con scarsa attenzione verso le espressioni di bisogno e desiderio della bambina: sarebbe questa mancanza di conferme nelle prime interazioni madre-figlia a portare alle tipiche deficienze nel senso del Sé, di identità e di autonomia, oltre a una mancanza di coscienza del proprio corpo. Nella terapia dell’anoressia mentale si è riconosciuto, quindi, che l’interpretazione del contenuto è meno importante della ricostruzione dei modelli interazionali di sviluppo e della correzione delle idee sbagliate dell’infanzia.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

La colpa morale: la radice delle ossessioni

Alla radice del DOC c’è un particolare tipo di colpa, quella cosiddetta deontologica, la colpa morale. È legata alla trasgressione di una norma e alle conseguenze nocive che ne potrebbero germinare.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera il 7/08/2016

 

La colpa morale nei pazienti ossessivi

Battersi il petto finché non diventa blu di lividi. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. La colpa morale, la radice di tutte le ossessioni. La turbina che grava sulla coscienza e produce energia usata per ripetere allo stremo gesti inutili, finché non rimane tempo per guardare scogliere di granito rosa che si gettano nel mare, gatti che si stiracchiano, per bagnarsi mano nella mano con l’amata nelle pozze formate da un torrente che spacca una valle profonda.

Una vita ridotta a controllare tre volte, e poi tre e poi altre tre di avere chiuso il rubinetto del gas. Lavarsi le mani fino a consumare la pelle per azzerare il rischio di essersi contagiati. Lavarsi le mani, simbolo del pulirsi la coscienza, Lady Macbeth ne è il modello. Istiga il marito all’omicidio per diventare re di Scozia e non regge il peso della nefandezza. Sonnambula, si strofina le mani senza requie: ‘Via, maledetta macchia. Via!… Torneranno mai pulite queste mani?”. Lo Zingaro, il cattivo di Lo chiamavano Jeeg Robot ne è degno erede. È capace di uccidere per un minimo sgarbo a colpi di cellulare e poi disinfettarsi col sapone antibatterico, un oggetto che a vederlo sulla scrivania di un delinquente spietato e senza freni pare assurdo.

Ripensare all’infinito al giornale toccato ieri. C’era un primo piano di Freddie Mercury. Freddie Mercury è morto di AIDS. Il fotografo che lo ha ritratto gli era vicino. Può essersi contagiato. Il virus può essere passato attraverso le rotative vivo. È improbabile, ma chi mi dà la certezza assoluta che non sia successo? Avrei dovuto pensarci e non toccare il giornale senza sapere se le mie dita erano escoriate. Che scellerato che sono stato. Questi ragionamenti sfibranti si chiamano ossessioni. In ogni caso siatene certi: leggere La Lettura è esente da rischi!

Al contrario di Lady Macbeth e dello Zingaro, chi soffre di Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) i delitti non li ha commessi. Ma lo stesso vive una vita oppressa dal senso di colpa, nel timore della condanna di un tribunale mentale il cui giudice pone l’onere della prova a carico dell’imputato.

 

La colpa morale e la colpa altruistica

Presunto colpevole fino a prova contraria. È la tesi del preziosissimo libro “La mente ossessiva” (Cortina) di Francesco Mancini e il suo gruppo: alla radice del DOC c’è un particolare tipo di colpa, quella cosiddetta deontologica, la colpa morale. È legata alla trasgressione di una norma e alle conseguenze nocive che ne potrebbero germinare. L’altro tipo, non rilevante per il DOC, è la colpa altruistica, quella che ci porta a sacrificarci per il bene degli altri perché proviamo pena per le loro sfortune. È invece la colpa morale che ti domanda: hai chiuso il gas? Perché se non lo fai con sufficiente cura potresti causare danni atroci. Hai pensato per un attimo che volevi lanciare tuo figlio dalla finestra? Orrore. Chi ti dice che tu non possa farlo davvero? Chi ti assicura che tu sia un genitore retto e non un pazzo infanticida. Potranno mai i tuoi figli fidarsi di te? E allora, controlla se ti viene ancora quel pensiero. Focalizza su ogni momento in cui sei arrabbiato con lui: ieri lo hai sgridato aspramente, quindi fin dove potresti spingerti? Così facendo naturalmente il pensiero torna e ogni tentativo di sopprimerlo lo impone sempre più alla coscienza e lo rende più vivido, lo fa sembrare reale. È come se il bambino stesse volando davanti ai tuoi occhi. Una nota: non conosco genitore sano che non abbia almeno una volta desiderato di lanciare il figlio dalla finestra dopo la seconda ora di pianto ininterrotto! Come si chiama allora quel pensiero molesto? Esasperazione. Normalissima stanchezza e voglia di tornare a dormire. Quelli che li lanciano davvero non hanno lo scrupolo che avete voi.

Un paziente affetto da DOC non riesce a placarsi con una logica semplice. Ogni pensiero che gli sembra immorale, proibito lo tormenta. Mio marito mi ha fatto arrabbiare: sono una potenziale assassina? Quella bambina bionda sulla barca mi ha fatto una tenerezza enorme, avrei voluto prenderla in braccio: oddio, sono forse un pedofilo? A quel punto il malato di DOC ricerca la certezza assoluta che non si verificherà il danno da lui provocato. Così facendo condanna la sua mente ad un incessante rimuginio che lo priva del respiro dell’esistenza.

Non solo la colpa, nota Mancini giustamente, è alla radice di ossessioni e compulsioni, anche il disgusto. Il rifiuto delle sostanze sgradevoli esteso a ciò che riteniamo socialmente inferiore e si chiama disprezzo. Disprezzo di sé. È l’autoritratto di un pittore che ha deciso di mostrarsi sporco, indegno, immondo, dannoso e irresponsabile.

La forza del cognitivismo clinico è sempre racchiusa in una prassi semplice: hai una tesi? Formulala in modo che sia falsificabile. A me pare il massimo dell’onestà intellettuale. Mancini di esperimenti ne riporta tanti, con una chiarezza stilistica e una capacità narrativa che stimolano l’intelligenza del lettore. Le storie di vita ti portano nel cuore della scena, gli esperimenti ti ci fan ragionare su. Forte. Tra i tanti esperimenti cito il dilemma del trolley che serve a dimostrare la differenza tra colpa deontologica e altruistica. Immaginate un carrello ferroviario nella sua corsa impazzita su un binario. Cinque vittime ignare stanno per venire travolte e perdere la vita. Voi siete lì, allo scambio. Potete deviare la corsa del carrello su un altro binario, dove c’è una sola potenziale vittima. Che fate? Una norma deontologica vi dice: non prendere il posto di Dio. Non potete decidere chi vive o muore. Quindi, non attivate lo scambio. La norma altruistica vi fa pensare che una vittima è meno di cinque vittime e, con grande angoscia, attivate lo scambio e salvate quattro vite. Se ai soggetti dell’esperimento si induce colpa deontologica aumenta la tendenza a non agire, se gli si chiede di immaginarsi vicini alle vittime si attiva la colpa altruistica e tirano la leva. Chi soffre di DOC non tira la leva. Altri esperimenti mostrano come chi è sotto l’influenza della colpa morale incrementa comportamenti e pensieri ossessivi. La colpa altruistica non fa lo stesso effetto.

 

Conclusioni

Come aiutare le persone ad abbandonare l’idea che dentro di loro alberghi una Lady Macbeth, uno Zingaro, un timoniere malaccorto? Mancini descrive gli strumenti della terapia cognitiva, a tutt’oggi l’approccio che più di ogni altro si è mostrato utile per ridurre il DOC. Fai un’azione che credi dannosa ed evita di mettere in atto compulsioni, vedrai che tra un po’ l’ansia ti passa. Capisci che dietro il disgusto di te c’è la faccia sprezzante di tuo padre e rivolgi lo sguardo altrove, verso uno specchio più benevolo.

Syd Diamond, un genio chiamato Barrett di Mario Campanella (2016) – Recensione

Sebbene sia stato scritto da un giornalista e abbia come protagonista uno dei grandi geni maledetti della musica rock, “ Syd Diamond. Un genio chiamato Barrett ” è un libro molto psichiatrico, che è stato anche preceduto dalla pubblicazione da parte dell’autore di un articolo scientifico su una rivista prestigiosa (Campanella, 2015).

Syd Diamond e la sindrome di Asperger

Oltre all’accurato ed appassionato racconto della vicenda umana del grande chitarrista dei Pink Floyd (di cui quest’anno ricorre il decennale della morte), la nuova tesi che l’autore propone è che Syd fosse affetto dalla sindrome di Asperger, un disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento, che prende il nome dal pediatra austriaco che per primo descrisse questo quadro, di cui pare che pure lui stesso soffrisse in forma lieve.

Le persone affette da questo disturbo possono presentare stereotipie comportamentali, difficoltà nel provare empatia, sinestesie (la contaminazione tra diversi piani sensoriali), ecolalia (cioè il ripetere parole pronunciate da altri), una particolare andatura goffa, trasandatezza, tendenza al soliloquio e una certa predisposizione sul piano artistico (soprattutto nell’ambito delle arti visive). Alcuni di questi aspetti come la sinestesia, l’ecolalia, le stereotipie e la ricerca onomatopeica vengono riconosciuti dall’autore nelle particolari modalità compositive musicali di Syd Barrett e dei primi Pink Floyd ed emersero anche successivamente nel suo modo di dipingere.

Il caso di Syd Barrett

Questa tesi si contrappone a ipotesi precedenti di altri studiosi che avevano inquadrato il caso di Syd Barrett come schizofrenia. L’autore non nega che l’artista abbia avuto episodi psicotici, indotti però dal massiccio utilizzo di sostanze stupefacenti come l’LSD (vengono riportare assunzioni giornaliere fino a 50 trip al giorno) o il Mandrax (il potente barbiturico Metaqualone oggi fuori commercio). L’ipotesi di una psicosi esogena, rispetto a quella di una psicosi endogena può essere certamente accettabile. Dalle biografie risulta evidente come il funzionamento di Syd nella seconda parte della vita, da quando praticamente smise di fare il musicista, fu di tipo psicotico, con un importante ritiro sociale, un’assenza pressoché completa di relazioni, una regressione a un fortissimo legame con la figura materna, un’incapacità ad impegnarsi in altre attività se non la pittura di quadri che poi distruggeva.

L’autore sottolinea come Syd non venne praticamente mai ricoverato in ambito psichiatrico e anche l’assunzione di psicofarmaci fu ridotta, come a voler sottolineare che il quadro fu più di tipo psicorganico. Viene anche ipotizzato un possibile disturbo di personalità di tipo schizoide, sfociato in psicosi dall’uso imponente di sostanze stupefacenti. Oltre agli aspetti nosografici sicuramente puntuali ed interessanti, il libro contiene alcune interviste esclusive alle fidanzate e al nipote di Syd. La storia del musicista si intreccia nel libro con la storia della psichiatria degli anni settanta, che vide protagonisti rivoluzionari culturali e visionari come Gregory Bateson e Ronald Laing. Sicuramente interessante per gli appassionati del genere psicorock e dintorni.

Psicoanalisi e cinema: analisi del rapporto tra le due discipline

Psicoanalisi e cinema occupano ormai dall’inizio del XX secolo un posto centrale nella cultura contemporanea. Queste due discipline si può dire siano nate contemporaneamente ma entrate in contatto tardivamente. 

 

Psicoanalisi e cinema: la nascita del legame

Il primo tentativo narrativo cinematografico legato alla psicoanalisi è attribuibile al produttore Samuel Goldwin che per primo interpellò direttamente Freud per avere una sua approvazione in merito ad un progetto ambizioso (I misteri di un Anima 1926).

Ma il primo film in assoluto a parlare di psicoanalisi e ad avere la figura di uno psicoanalista fu “Carefree” del 1938  in cui niente meno che Fred Astaire ne vestiva appunto i panni e in cui cercava, tra una seduta e una ballata, di guarire la paziente Ginger Rogers, di cui però alla fine si innamorava perdutamente.

Un’ immagine caricata, una figura che nel tempo è comunque rimasta uno stereotipo costante e, se vogliamo, superficiale e denigrante.

 

L’analisi dei film secondo la psicoanalisi

Dal canto psicoanalitico invece l’analisi filmica persegue all’inizio due filoni fondamentali:

  1. Approccio contenutistico che aveva lo scopo di interpretare i film come prodotti dell’inconscio dell’autore, mettendo in rilievo temi e figure ricorrenti nell’opera di un regista e facendoli risalire a traumi e complessi dello stesso.
  2. Analisi della scrittura del film, che andava e va a sottolineare l’analogia tra il linguaggio cinematografico e il linguaggio dell’inconscio, per cui l’elemento più importante è il modo nel quale il testo è costruito, al di là dei significati che racchiude al suo interno.

Che dir si voglia, comunque il rapporto tra psicoanalisi e cinema è assolutamente bi-direzionale e complementare.

Un’ interessante riflessione, che coglie assolutamente il tema di questa analisi e la relazione che si può trovare tra queste due discipline è quella in cui viene posto il film come sogno, o meglio, posto come la funzione di un sogno (reso sogno quindi, da un analista e non solo bisognoso di immagini) prestandosi grazie proprio allo strumento scopico ai livelli di comunicazione iconica (polivalente a quella verbale e simbolica) da cui è possibile cogliere aspetti regrediti, sospesi. Svincolando i film che trattano di psicoanalisi ad esserne una documentazione, ogni film quindi può stimolare il campo evocativo nei diversi livelli.

 Esattamente come accade quando un analista viene a trovarsi di fronte al sogno di un suo paziente e si inaugura tra i due il complesso percorso teso a cogliere la funzione poietica e trasformatrice che la mente inscrive nelle pieghe del sogno

Il cinema di cui qui si vuol parlare non è rivolto, quindi, a quelle tematiche essenzialmente legate alla psicoanalisi.

Il cinema di cui qui si vuol parlare è quel tipo di cinema evocativo, un atto creativo prima che un oggetto nevrotico da analizzare, quel cinema che sfiori con delicatezza immagini che riescano a toccare aree sospese o bloccate del sé e che come le reverie dell’analista, gli enactment, le associazioni libere del paziente o l’attenzione fluttuante dell’analista, può creare un ulteriore dispositivo per portare icone al movimento del Processo Dissociativo, che non deve necessariamente essere accostato a necessità psicopatologiche ed essere cosi un cinema che ci faccia semplicemente entrare in contatto con noi stessi, che ci emozioni, che assolva quindi il concetto di opera d’arte, che assolva contemporaneamente l’essere caverna di immagini fatue e visitatore all’interno di essa, che ne ponga la propria e originale visione, sia per lo spettatore che per l’autore.

Metodi di ricerca qualitativa e quantitativa – Introduzione alla psicologia

Ricerca qualitativa e quantitativa: Per eseguire una ricerca solitamente si possono utilizzare due diversi metodi: quantitativi e qualitativi. Da sempre esiste un ampio dibattito riguardo ai metodi di ricerca qualitativa e quantitativa usati per realizzare sperimentazioni di diverso tipo e in diversi ambiti.

Metodi di ricerca qualitativa e quantitativa: Introduzione

La ricerca scientifica è un processo creativo di scoperta, sviluppato da un ricercatore, volto a produrre nuova conoscenza partendo dalla conoscenza esistente. Per questo, costituisce il processo migliore per produrre nuove informazioni e approfondimenti in maniera ciclica e costante.

Per eseguire una ricerca solitamente si possono utilizzare due diversi metodi: quantitativi e qualitativi. Da sempre esiste un ampio dibattito riguardo ai metodi di ricerca qualitativa e quantitativa usati per realizzare sperimentazioni di diverso tipo e in diversi ambiti. Chiaramente, esistono posizioni diverse: c’è chi sostiene si possa trattare di due strategie del tutto indipendenti e basate su visioni alternative del mondo in cui effettuare una ricerca, e chi, invece, mescola questi approcci per ottenere una maggiore variabilità di dati. Ad ogni modo si tratta di due diversi modi di svolgere una ricerca che portano a generalizzare i risultati in maniera dissimile. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta.

Metodi di ricerca qualitativa e quantitativa: la Storia

Dare scientificità alla psicologia è stato un processo molto lungo nato dalla insoddisfazione di alcuni psicologi comportamentisti che hanno cercato di studiare i comportamenti mettendo a punto dei veri esperimenti. Di conseguenza, era necessario utilizzare il rigore derivante dalle scienze matematiche per ottenere risultati assolutamente inconfutabili su comportamenti osservati. Da qui nasceva l’esigenza di usufruire di strumenti che andassero aldilà della soggettività e soprattutto che fossero riproducibili e riutilizzabili in futuro.
Naturalmente, è possibile studiare un fenomeno attraverso approcci diversi che richiedono l’applicazione di strumenti diversi: numerici o non numerici.

Metodi di ricerca qualitativa

La ricerca qualitativa porta alla raccolta delle informazioni osservabili non in forma numerica, ma attraverso una serie di etichette o di classificazioni. I dati solitamente sono acquisiti tramite l’utilizzo di un diario, di un questionario aperto, di interviste o di osservazioni non strutturate. Si tratta solo di alcuni degli strumenti più utilizzati in ambito qualitativo, naturalmente quelli elencati sono i più noti e usati. I dati qualitativi sono principalmente dei dati descrittivi il che rende più difficile il loro utilizzo e, di conseguenza, la loro elaborazione sarà più complessa. La ricerca qualitativa è utile negli studi su casi singoli e per descrivere un determinato evento o comportamento. In sostanza si tratta di esprimere delle qualità di un determinato oggetto d’indagine sotto forma di informazioni testuali attraverso, per lo più, strumenti di indagine non strutturati.

La ricerca qualitativa, insomma, si concentra sulla raccolta di dati soprattutto verbali, piuttosto che su misurazioni numeriche. Quindi, le informazioni raccolte sono poi analizzate in maniera interpretativa, soggettiva, anche se esistono strumenti statistici che permettono di giungere a risultati accurati e attendibili il più possibile.

Metodi di ricerca qualitativa: i vantaggi

In generale la ricerca qualitativa è meno strutturata di quella quantitativa, per questo permette di individuare una serie di sfumature di un determinato comportamento o evento che non potrebbero essere colte diversamente. In ambito psicologico osservare la variabilità individuale porta ad arricchire notevolmente il dato osservato, costruendo post hoc teorie molto ricche e dettagliate.

Metodi di ricerca qualitativa: gli svantaggi

I limiti di questa metodologia possono essere l’estrema individualità e soggettività con cui si raccoglie un dato. Per questo motivo, spesso, risulta difficile replicare il processo inferenziale che induce alla generalizzazione del dato alla popolazione generale. Malgrado ciò, la ricerca qualitativa è stata molto rivalutata recentemente grazie all’utilizzo di un maggiore rigore nell’applicazione delle procedure e dell’elaborazione dei dati.

Metodi di ricerca quantitativa

La ricerca quantitativa, come lascia intendere la parola usata, aiuta alla raccolta di informazioni che si presentano sotto forma numerica. I dati ottenuti, grazie all’utilizzo di strumenti strutturati e standardizzati (uguali per tutti, come test e questionari a risposta chiusa) possono essere categorizzati, ordinati e classificati, oltre a essere misurati su scale numeriche. Dai dati si possono costruire grafici e tabelle, per poi procedere con l’elaborazione statistica degli stessi grazie a una serie di procedure parametriche, inferenziali, estremamente accurate.

La ricerca quantitativa, dunque, si occupa di quantificare, misurare, calcolare, le informazioni ricavate attraverso l’applicazione di un approccio empirico, che consiste nel misurare con sufficiente precisione l’oggetto di studio per giungere a conclusioni molto precise e dettagliate. A causa della severità con cui si svolge una ricerca di questo tipo spesso è condotta in ambienti controllati, come i laboratori. Lo scopo è assicurarsi l’obiettività del dato ottenuto minimizzando al massimo le possibili influenze derivanti dalle situazioni esterne. Chiaramente una procedura così rigida aiuta e facilita la replicabilità dello studio, e assicura la generalizzazione del risultato ottenuto.

La ricerca quantitativa, grazie al suo estremo rigore, risulta essere predittiva di una serie di eventi, derivanti dalla verifica di ipotesi di ricerca, volte a conoscere esattamente come si sviluppa e si genera un determinato fenomeno. La ricerca quantitativa, inoltre, tende a utilizzare un gran numero di partecipanti, avvalendosi di veri esperimenti attuati attraverso l’utilizzo di questionari psicometrici molto strutturati e corredati da norme standardizzate, da cui si inferiscono dati inequivocabili.

Metodi di ricerca quantitativa: i vantaggi

I vantaggi derivanti dalla ricerca quantitativa riguardano la riproducibilità del dato e della procedura utilizzata nell’elaborazione dello studio. Ovviamente, il dato rappresenta un riscontro oggettivo del comportamento osservato, che dopo essere stato misurato diventa riproducibile e replicabile anche da chi non ha partecipato direttamente alla sperimentazione.

Metodi di ricerca quantitativa: gli svantaggi

In alcuni casi, però, i dati ottenuti attraverso il metodo quantitativo potrebbero essere sostanzialmente delle conferme di quanto il ricercatore vorrebbe ottenere attraverso la ricerca effettuata. Questo, è un bias molto evidente che in determinati ambiti rappresenta un rischio. Per questo, non bisogna mai procedere per confermare, ma sempre disconfermando le ipotesi sperimentali, procedendo per tentativi di errore.
I dati quantitativi non contengono le sfumature della variabilità umana, di conseguenza accomunano i soggetti in macro categorie. Tutto questo facilita e semplifica il processo di conoscenza, ma depaupera di molto la natura umana riducendola ai minimi termini.

Metodi di ricerca qualitativa e quantitativa: confronto

Entriamo nel dettaglio e confrontiamo le due metodologie secondo i diversi processi utilizzati nello svolgimento di una ricerca.

1. Obiettivo e scopo della ricerca
Lo scopo principale di una ricerca qualitativa è di fornire una descrizione completa e dettagliata dell’ipotesi della ricerca, che solitamente è più di natura esplorativa.
La ricerca quantitativa, d’altra parte, si concentra più nel conteggio e sulla classificazione e costruzione di modelli statistici utili a spiegare ciò che si osserva.

2. A cosa serve
La ricerca qualitativa è tipica per le fasi precedenti di progetti di ricerca, mentre per l’ultima parte del progetto di ricerca, la ricerca quantitativa è altamente raccomandata.
La ricerca quantitativa fornisce al ricercatore un quadro più chiaro di cosa aspettarsi nella sua ricerca rispetto al dato qualitativo.

3. Strumenti di raccolta dati
per la raccolta di dati qualitativi è possibile usufruire di strumenti differenti, specifici rispetto all’oggetto della misurazione, ma che in ogni caso sono tutti a basso controllo, ad esempio le singole interviste, i focus group, le narrative, etc.
Al contrario, la ricerca quantitativa si avvale di strumenti altamente controllati, univoci e quantitativamente riproducibili.

4. Tipo di dati
I dati in una ricerca qualitativa si esprimono attraverso le parole, etichette, o le immagini, video o foto. Quindi, molto probabilmente nella discussione dei dati si è soliti imbattersi in figure, in racconti, in grafici rappresentativi di quanto ottenuto. Invece, in una ricerca quantitativa, quello che molto probabilmente sarà visualizzato nella discussione saranno spesso tabelle, numeri anche molto complessi perché derivano da elaborazioni molto sofisticate atte a garantire l’indiscutibilità del dato ottenuto.

Metodi di ricerca qualitativa e quantitativa: conclusioni

Giunti a questo punto sarebbe lecito domandarsi che tipo di metodo di ricerca utilizzare e quando. Conforta sapere che in molti hanno cercato una risposta plausibile alla quale, chiaramente, non segue un esito univoco. In ogni caso, è possibile dire che se si volesse realizzare un esperimento in cui si volessero ottenere evidenze numeriche, allora si dovrebbe fare uso della ricerca quantitativa. In caso contrario, se si volesse spiegare ulteriormente il motivo per cui un particolare evento è accaduto, o quali sono le caratteristiche dell’oggetto di studio, allora si dovrebbe fare riferimento alla ricerca qualitativa.
Indubbiamente, non può mancare un ulteriore punto di vista, che consiste nell’unire le due metodologie, l’una a completamento dell’altra.
La tendenza a combinare i metodi qualitativi e quantitativi in maniera complementare è emerso negli ultimi anni, poiché applicando entrambi i metodi di ricerca, è possibile usufruire di un bagaglio di tecniche più ampio e complesso che portano ad arricchire di molto il dato ottenuto.

In ogni caso, i metodi qualitativi forniscono una comprensione maggiore e un ragionamento più approfondito dell’evento oggetto di studio e per questo sono considerati di particolare importanza in psicologia clinica. Mentre, in psicologia generale o sperimentale trovano maggiore applicabilità i metodi quantitativi.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Il ruolo della finzione narrativa e l’impatto sull’empatia

Secondo il pensiero comune è presumibile che la finzione narrativa abbia una buona influenza sulla salute mentale. A tal proposito in una recente review pubblicata sulla rivista Trends in Cognitive Sciences dallo psicologo e scrittore Oatley viene approfondita tale questione. 

La finzione narrativa incrementa l’empatia

Oatley sostiene che leggere o guardare racconti può incrementare l’empatia. Esplorare la vita interiore dei personaggi tramite le pagine di un libro, porta i lettori a formare idee sulle emozioni, motivazioni e idee altrui.

Questa interdisciplinarità tra letteratura e psicologia ha preso piede solo negli ultimi anni. Oatley sostiene che tale ritardo sia dovuto al fatto che solo ora i ricercatori dell’ambito psicologico stiano riconoscendo il ruolo fondamentale dell’immaginazione, e questo è dovuto soprattutto al grosso contributo delle recenti innovazioni nel campo degli studi di neuroimaging che hanno aperto il contesto accademico a queste idee.

Lo studio

All’interno della review Oatley si concentra in particolar modo su uno studio in cui ai partecipanti veniva chiesto di immaginare alcune cose sulla base di frasi che venivano fornite dagli sperimentatori (ad es. “un tappeto blu scuro”, “una matita arancione a strisce”) mentre si trovavano all’interno di una macchina fMRI. Ciò che è emerso è che erano sufficienti solo tre frasi ad attivare al massimo delle sue potenzialità l’ippocampo, ovvero quella regione di cervello associata prevalentemente all’apprendimento e alla memoria. Questo risultato sottolinea il potere della mente di ciascun lettore, in quanto la produzione di un’immaginazione esaustiva del lettore non è necessariamente dovuta dalla descrizione approfondita degli scenari, ma è sufficiente suggerire una scena per scaturire un buon prodotto di fantasia.

Sulla base di quanto emerso, Oatley, Mar e una serie di colleghi dell’Università di Toronto hanno condotto un ulteriore studio. Secondo gli autori la lettura narrativa e la finzione narrativa portano il lettore a simulare una sorta di mondo sociale, il quale consente di sperimentare comprensione e una forte empatia.

Per misurare questa risposta empatica da parte del lettore Oatley e colleghi hanno condotto un esperimento in cui per la prima volta è stato utilizzato il “Mind of the Eyes Test”, in cui i partecipanti sono sottoposti alla visione di 36 fotografie raffiguranti gli occhi di alcune persone, e per ciascuna di esse devono scegliere tra quattro termini per indicare ciò che la persona raffigurata sta pensando o provando in quel momento. I punteggi emersi hanno evidenziato come la lettura narrativa fantastica (ovvero relativa a storie inventate) abbia dato vita a punteggi più alti e significativi rispetto alla lettura narrativa non fantastica (relativa a storie di realtà). Si tratta di un risultato molto importante e valido in quanto questa associazione è rimasta significativa anche dopo aver controllato la personalità e le differenze individuali dei partecipanti.

Effetti simili riguardanti l’amplificazione dell’empatia sono stati riscontrati anche in altri studi, in cui ai soggetti veniva chiesto di guardare una serie televisiva inventata “The West Wing”, o di giocare a un videogioco con una trama narrativa. Ma qual è l’elemento in comune che unisce tutti questi mezzi di comunicazione così da poter ottenere gli stessi risultati? Secondo Oatley l’anello fondamentale della catena è l’impegno che il lettore applica nel tentativo di pensare al personaggio protagonista.

Conclusioni

[blockquote style=”1″]La caratteristica più importante dell’essere umano è possedere una vita sociale e il tratto distintivo è che all’interno di questa vita vengano fatti accordi sociali con altre persone, sia che questi siano amici, amanti o bambini. La finzione pertanto può aiutarci ad aumentare la comprensione delle nostre esperienze sociali[/blockquote], dichiara Oatley.

Questo nuovo campo della psicologia riguardante la finzione narrativa ha ancora un lungo percorso da intraprendere. Ad esempio sono numerose le domande che riguardano il ruolo della narrazione in quella che è l’evoluzione dell’uomo. Quasi tutte le culture umane creano storie, che fino ad ora, sono state definite in modo piuttosto sprezzante con il termine di intrattenimento, osserva Oatley, ma secondo l’autore il ruolo giocato dai racconti è molto più importante.

Oatley conclude dando un’ipotetica risposta al quesito precedente in un’ottica romantica: [blockquote style=”1″]Che cosa sono un pezzo di narrativa, un romanzo, un racconto, un gioco, un film o una serie televisiva? Sono pezzi di coscienza che vengono passati da una mente all’altra. Quando leggiamo o guardiamo un film, stiamo prendendo un pezzo di coscienza di qualcuno che facciamo nostro.[/blockquote]

Andiamo a comandare…e un panino al salame! Psycho-analisi dei tormentoni estivi del 2016

L’estate sta finendo e un anno se ne va, e con lui anche lo stormo dei mitologici tormentoni estivi, che quest’anno, oltre all’ immancabile perla latin (Sofia di Alvaro Solar), comprende anche due brani italiani, che contengono diversi riferimenti alla nostra salute psico-fisica e per questo degni di essere analizzati.

 

Tormentoni estivi: Andiamo a comandare e il fenomeno ‘balli di gruppo’

Il primo, che possiamo definire tormentonissimo è senza dubbio ‘Andiamo a comandare’ di Fabio Rovazzi, al momento attuale quasi sessanta milioni di visualizzazioni su youtube e soprattutto il raggiungimento dell’ambito riconoscimento di ‘tormentone con ballo di gruppo’ (cercare video di ferragosto sulle spiagge del Salento per rendersi conto del fenomeno).

Sul fenomeno del ballo di gruppo i colleghi antropologi hanno già speso fiumi di inchiostro dimostrando come sia reperibile praticamente in tutte le civiltà e risponda a una serie di bisogni umani. Può assumere il significato di rito propiziatorio (prima di una battaglia), di momento di corteggiamento (contribuendo al successo riproduttivo della specie), di momento catartico per aumentare il senso di appartenenza a un gruppo, ma anche più banalmente può essere un’occasione per migliorare la forma fisica, con benefici dimostrati anche a livello cardiovascolare da un recente studio sul Sirtaki (Vordos et al., 2016).

Oltre all’aspetto pro-motorio, ‘Andiamo a comandare‘ di Rovazzi è stato molto apprezzato a livello di contenuti dai genitori degli adolescenti perché forse per la prima volta un rapper (ma in realtà Rovazzi è un videomaker che si improvvisa rapper) non si schiera con il coro di cantanti osannatori della marjuana o più in generale del THC (canta infatti il Rovazzi: “Non mi fumo canne, sono anche astemio”), che trovano nella sostanza magica la panacea di tutti i mali dell’umanità e che vedono nella sua legalizzazione la più importante battaglia civile del ventunesimo secolo.

Il messaggio autoironico del tormentone estivo di Rovazzi risulta certamente più originale di quello di molti colleghi, senza essere bacchettone o proibizionista e si accompagna a una certa leggerezza di cui in questo momento evidentemente percepiamo il bisogno. Per certi versi sembra percorrere in maniera molto efficace quel filone di esaltazione del nerd che ha preso molto piede tra i personaggi delle serie tv (The Big Bang Theory, Ugly Betty).

 

Il tormentone estivo di Zucchero…e un panino al salame

L’altro tormento (lapsus!) prevalentemente radiofonico e di dimensioni comunque più ridotte  è ‘13 buone ragioni‘ di Zucchero, che arriva a stordirti con il suo hook (il riff o la frase che in una canzone vengono create per catturare l’attenzione dell’ascoltatore) che recita “e un panino al salame”, senza fare mistero di un mood, almeno gastronomico, decisamente emiliano. A differenza dell’altro tormentone estivo in questo caso Adelmo dichiara di preferire alla protagonista della canzone attività edonostiche quali bere birra e fumare canne.

Difficile non pensare che il panino al salame venga a soddisfare l’atavica fame chimica da cannabis, con buona pace dei vegani. Sarà per l’età o per la provenienza dalla provincia reggiana che conosco un poco, confesso che non ce lo vedo poi così tanto Zucchero con una canna in bocca, mentre riesco a associarlo maggiormente e liberamente con la birra (ma ancor di più il classicissimo bicchiere di lambrusco) e il salume (in tutte le sue varianti compresi ciccioli, ciccioli frolli, coppa di testa, etc.). Non so con quale livello di consapevolezza, ma con il suo panino al salame Zucchero pare schierarsi – e in maniera per nulla velata- contro i nuovi disturbi alimentari come l’ortoressia, l’ossessione psicologica per il mangiare sano, che può arrivare al fanatismo e al disadattamento sociale.

 

Tormentoni estivi: cosa li rende tali?

Che inneggi o no a comportamenti salutistici il fenomeno dei tormentoni estivi resta qualcosa di misterioso ma diffusissimo, che ha attirato anche l’attenzione dei ricercatori. Da un lato la ripetizione, la serialità dei suoni è ciò che da sempre tranquillizza gli animi e crea sicurezza; basti pensare alle ninne nanne o filastrocche di tutti i bambini del mondo, che ritrovano in quella cantilena la propria casa e le proprie certezze.

In termini tecnici quando il motivetto musicale ti entra in testa anche e si presenta all’improvviso si parla di Involuntary musical imagery (INMI) o più prosaicamente earworms (vermi dell’orecchio!). Il fenomeno è molto diffuso e pare che quasi il 90% delle persone lo sperimenti. Nella maggior parte dei casi si tratta di esperienze piacevoli o neutrali, mentre in circa un terzo dei casi tali stimoli sonori intrusivi possono risultare fastidiosi, portando alla tendenza alla distrazione e disturbi d’ansia (Williamson et al., 2014).

Le strategie comportamentali di risposta atte ad eliminare i vermi sonori possono essere attive, come distrarsi con altri stimoli (ad esempio pensare all’elefante rosa , il tormentone scaccia tormentone) o passive, come semplicemente aspettare che la musichina passi spontaneamente. La letteratura ha espresso pareri discordanti rispetto a quale possa essere la strategia più efficace.

Lo studio più stupefacente in questo senso rimane comunque quello dei ricercatori dell’Università di Reading (2015) che hanno mostrato come masticare chewing gum influisca sui sistemi di memoria e sul richiamo del tormentone. Nel loro esperimento chi masticava la gomma era meno propenso al ritorno ossessivo del brano, per via del fatto che l’attività del masticare coinvolge aree cerebrali associate alla produzione del linguaggio, che diventerebbero in questo caso meno disponibili per la produzione dei vermi sonori. La scoperta potrebbe avere anche delle ripercussioni sulla gestione dei pensieri ossessivi.

Masticate gente, masticate.

Il timore di colpa per irresponsabilità nel disturbo ossessivo compulsivo: studi clinici

Numerosi studi clinici hanno confermato il ruolo centrale assunto dalla caratteristica clinica di iper-responsabilità rispetto all’esordio ed al mantenimento del Disturbo Ossessivo Compulsivo (Mancini F., 2007). In tale direzione, varie ricerche condotte sulla popolazione generale hanno dimostrato che il timore di colpa e l’elevato senso di responsabilità predicono la tendenza ad avere ossessioni e compulsioni (Rachman et al., 1995; Rhéaume et al., 1995).

Il presente contributo si propone di esporre i risultati di alcune importanti recenti ricerche effettuate sul tema del timore di colpa per l’irresponsabilità nel Disturbo ossessivo compulsivo.

This article aims to present the results of some important recent research done on the subject of fear of guilt for irresponsibility in obsessive compulsive disorder.

 

Disturbo ossessivo compulsivo: sintomatologia e decorso

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) è un disturbo frequente e invalidante, la cui prima descrizione in termini scientifici risale ad Esquirol (1838).
La prevalenza puntuale del disturbo oscilla fra 1,5% e 0,65%, mentre la prevalenza lifetime si colloca intorno al 2-2,5% nella popolazione generale (Stein M, Forde D, Anderson G, Walzer J., 1997; Foa EB, Franklin ME, 2001).
L’esordio del disturbo si manifesta generalmente in adolescenza e in giovinezza (il massimo dell’incidenza si ha tra i 15 e 25 anni).
Generalmente alcuni aspetti del disturbo sono presenti già prima dell’esordio della sindrome, con sintomi che compaiono sporadicamente, di bassa intensità e non tali da provocare disagio al soggetto. Rispetto a ciò, si rileva che i sintomi prodromici spesso consistono in comportamenti tipici del Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità, quali perfezionismo, preoccupazioni per l’ordine e per il controllo.

Il decorso del Disturbo Ossessivo Compulsivo è raramente episodico, viceversa nella gran maggioranza dei soggetti il disturbo diventa cronico, anche se con fasi fluttuanti di miglioramento e di peggioramento; in una percentuale tra il 5 e il 10% il decorso è ingravescente (Andrews G, Creamer M, Crino R, Hunt C, Lampe L, Page A., 2003).
Nella maggior parte dei casi, la qualità di vita dei pazienti con DOC è gravemente compromessa in quanto varie ore della giornata sono occupate dall’esecuzione di azioni compulsive conseguenti alla presenza dei pensieri ossessivi; in alcuni casi la sintomatologia risulta incompatibile rispetto ad una normale vita sociale e lavorativa.

 

Il ruolo della colpa e dell’iper-responsabilità nel disturbo ossessivo compulsivo

Numerosi studi clinici hanno confermato il ruolo centrale assunto dalla caratteristica clinica di iper-responsabilità rispetto all’esordio ed al mantenimento del Disturbo Ossessivo Compulsivo (Mancini F., 2007).
In tale direzione, varie ricerche condotte sulla popolazione generale hanno dimostrato che il timore di colpa e l’elevato senso di responsabilità predicono la tendenza ad avere ossessioni e compulsioni (Rachman et al., 1995; Rhéaume et al., 1995).

Altri studi, condotti sia con soggetti affetti da DOC che con soggetti tratti dalla popolazione generale, hanno confermato la correlazione intercorrente tra responsabilità e comportamenti ossessivo compulsivi (Steketee et al., 1998; Bouchard et al., 1999; Wilson e Chambles, 1999; Menzies et al., 2000).

Nei pazienti ossessivi, tuttavia, è stata riscontrata una tendenza a provare senso di colpa e a sentirsi responsabili più elevata rispetto a quella osservata sia nella popolazione generale, sia in quella composta da pazienti con disturbi dell’umore e altri disturbi d’ ansia (Bouvard et al., 1997; Cartwright –Hutton e Wells, 1997).

Relativamente allo stato mentale di colpa per irresponsabilità, infatti, le ricerche hanno confermato che la convinzione di essere massimamente responsabili di ciò che potrebbe accadere è un criterio discriminante tra i pazienti affetti da Disturbo ossessivo compulsivo e soggetti normali o affetti da altri disturbi di ansia (Steketee, Frost e Cohen, 1998).

Parallelamente, vari studi sperimentali effettuati su pazienti ossessivi hanno dimostrato che la diminuzione della responsabilità genera una significativa diminuzione della preoccupazione e dell’urgenza di eseguire i rituali di controllo compulsivo (Lopatcka e Rachman, 1995).
Il timore di colpa per irresponsabilità è focalizzato su ciò che la persona crede che potrebbe e dovrebbe fare per prevedere e prevenire il danno di cui si ritiene responsabile.

La sua angoscia è generata dalla previsione di essere accusato di non aver fatto tutto ciò che costituisce suo dovere, di essere stato superficiale, disattento, di non aver agito nel momento in cui prevenire il danno sarebbe stato possibile e doveroso.
Spesso nel ragionamento ossessivo la preoccupazione riguarda l’essere colpevoli di errori di omissione, più che di errori di commissione.
Tale aspetto è stato indagato da alcuni studi condotti su soggetti non clinici, in cui è stato dimostrato che l’induzione di un forte timore di colpa influenza, in soggetti non affetti da DOC, le modalità di controllo delle ipotesi, in un modo peculiare, definito ‘prudenziale’ (Gangemi, Balbo, Bocchi, Carriero, Filippi, Lelli, Mansutti, Mariconti, Moscardini, Olivieri, Re, Setti, Soldani, & Mancini, 2003; Mancini & Gangemi, 2004a, 2004b).

Nel modo prudenziale i soggetti focalizzano l’ipotesi peggiore o di pericolo; ricercano la conferma dell’ipotesi peggiore e la disconferma dell’ipotesi più favorevole; in caso di disconferma dell’ipotesi peggiore continuano il processo di controllo, vale a dire che richiedono molte più prove per rigettare l’ipotesi peggiore che per mantenerla.
Secondo Salkovskis e Forrester (2002), l’iper-responsabilità tipica delle persone affette da Disturbo Ossessivo Compulsivo discende dalla convinzione di avere un potere cruciale (“pivotal power”) nel causare o prevenire esiti negativi soggettivamente molto importanti; [blockquote style=”1″]questi esiti sono rappresentati come essenziali da prevenire; essi potrebbero essere reali, ossia potrebbero avere conseguenze nel mondo reale e/o a livello morale[/blockquote] (Salkovskis, 1996).

Rispetto a ciò, sono stati realizzati numerosi studi sperimentali finalizzati ad indagare gli effetti dell’incremento della responsabilità e della colpa sulla stima di probabilità di accadimento e sull’attribuzione di gravità di un evento negativo.
Tali ricerche hanno dimostrato che, a fronte dell’induzione di un forte senso di responsabilità e di un forte timore di colpa per irresponsabilità, si verifica una modificazione della percezione di pericolo e delle aspettative di danno sia in pazienti DOC che soggetti non clinici.
In tal senso, in riferimento agli studi con soggetti non clinici, Menzies e colleghi (Jones e Menzies, 1997; Menzies et al., 2000) hanno dimostrato che l’attribuzione di gravità di un esito negativo aumenta se questi soggetti si ritengono i principali responsabili dell’esito stesso;
viceversa, la stima della gravità dell’esito diminuisce se ritengono qualcun altro colpevole.

Parallelamente, in merito agli studi compiuti su pazienti ossessivi, Lopatcka e Rachman (1995) e Shafran (1997) hanno rilevato che la diminuzione, indotta sperimentalmente, del senso di responsabilità per un determinato esito negativo genera nei soggetti DOC una diminuzione della stima di probabilità di accadimento dell’esito stesso.
Tali risultati sperimentali contribuiscono a spiegare l’errore cognitivo di sovrastima della minaccia (OCCWG, 1987), tipicamente presente nella sintomatologia ossessiva.

Conoscere la simulazione di patologia mentale: “la più fine simulazione è servirsi bene della verità”

Non è da tutti e per tutti la simulazione di patologia mentale. Facile sembrerebbe agli occhi di chi non conosce le sottigliezze della psicopatologia: entrare nel ruolo di paziente con malattia mentale presuppone una conoscenza totale di ciò che si vuol simulare.

Cinzia Borrello – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

 

È pressoché impossibile fingere d’amare se non si è già molto prossimi a essere innamorati, o almeno se non si ama in qualche modo; bisogna infatti aver lo spirito e i pensieri dell’amore per questa finzione, altrimenti come mai se ne potrebbe parlare?

Anonimo, Discorso sulle passioni d’amore, XVII sex. (attribuito a Blaise Pascal)

 

Presupposto indispensabile per un tentativo di simulazione è proprio ciò che l’autore citato mette in evidenza: saper fingere è una virtù. Non è da tutti e per tutti la simulazione di patologia mentale. Facile sembrerebbe agli occhi di chi non conosce le sottigliezze della psicopatologia. Simulare un mal di pancia potrebbe essere alla mercé di molti, ma entrare nel ruolo di paziente con malattia mentale presuppone una conoscenza totale di ciò che si vuol simulare.

In ambito clinico il tentativo di smascherare un simulatore potrebbe non essere di alcuna utilità; cardine dell’efficacia di una terapia dovrebbe essere infatti l’alleanza terapeutica, l’eliminazione di ogni forma di pregiudizio, l’essere acritici e l’aver un rapporto di fiducia con il paziente. Quando però si affaccia il dubbio di simulazione di patologia mentale, il clinico si deve dare la possibilità di riuscire a svelare l’inganno.

 

 

Perché smascherare una simulazione di patologia mentale?

A cosa serve riconoscere i meccanismi messi in atto dal simulatore? Chi è il simulatore? Da che motivazione è mosso? Quali atteggiamenti inducono il dubbio nel clinico? Come svelare una malattia simulata? Vi sono strumenti che possono aiutare il clinico ad identificare un simulatore?

Si cercherà qui di rispondere alle molteplici domande.

Nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders 5 (DSM5) così come nella passata edizione, la simulazione di patologia mentale viene inclusa fra le condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica. Non vi è quindi diagnosi di simulazione ma una definizione della condizione, al fine di poterne tener conto.

Il manuale definisce simulazione come

La presentazione o produzione volontaria di sintomi psichici o fisici esagerati. I sintomi sono prodotti per perseguire uno scopo che è riconoscibile attraverso la comprensione della situazione dell’individuo piuttosto che attraverso la sua psicologia.

La ‘produzione volontaria’ la si descrive in quanto il simulatore rende palesi sintomi che in realtà non vi sono o che vi sono in misura lieve; mostra ciò che in realtà non sente o tenta di far credere ad altri cose o fatti che in realtà non esistono. I sintomi sono, quindi, per lo più inesistenti o lievi e vengono proposti e/o esagerati.

Il concetto ‘per seguire uno scopo’ sta ad indicare che il simulatore segue incentivi esterni come ad esempio, evitare il servizio militare, il lavoro, ottenere risarcimenti finanziari, evitare procedimenti penali, oppure ottenere farmaci; in generale di trarre vantaggi sul piano giuridico-forense. Vi è quindi  da parte di chi è valutato un interesse ad ottenere un certo risultato (Fornari, 2008).

Molteplici sono i contesti in cui vengono rese probabili condotte di simulazione di patologia mentale: penale (valutazione della capacità di intendere e di volere); civile (valutazione sul danno della persona e/o valutazione sulle capacità di provvedere a se stesso); previdenziale (valutazione sulla capacità lavorativa, invalidità, accompagnamento); canonico (valutazione sulla maturità psicoaffettiva) (Stracciari, Bianchi, Sartori 2010).

Il meccanismo di simulazione di malattia viene molto spesso rilevato in ambito forense in quanto il periziato non ha vincoli dati dal contratto terapeutico. L’obiettivo della valutazione non si esaurisce con la promozione della salute, ma la condizione mentale e la situazione soggettiva vengono valutati in funzione all’atto rilevante dal punto di vista giuridico. Spesso accade infatti, che l’inviante è la figura dell’avvocato.

 

 

Quando sospettare una simulazione di patologia mentale

La simulazione dovrebbe esser sospettata quando vi è un contesto medico-legale di presentazione dei sintomi, quando ai reperti obiettivi non vi è corrispondenza con lo stress e/o la compromissione lamentata dal soggetto, quando manca la collaborazione alla valutazione diagnostica e nell’accettare il percorso terapeutico e, infine, quando vi è presenza di un disturbo Antisociale di Personalità. Ulteriori caratteristiche che porterebbero il clinico a mettere in dubbio la sintomatologia del paziente, potrebbero essere la presentazione idilliaca del funzionamento premorboso oppure l’incapacità selettiva delle sole attività lavorative (Ferracuti et al., 2007).

Constatato che la più fine simulazione è servirsi bene della verità, Fornari (2008) propone alcune sottigliezze che potrebbero mettere ulteriormente in allerta il clinico. Il simulatore di patologia potrebbe imitare solamente i singoli sintomi, non legati da una correlazione patologica, così come potrebbe esibire dei disturbi che solitamente il soggetto realmente malato tende a negare. Potrebbe proporre incoerenza e incostanza nella presentazione dei sintomi e/o descrivere in maniera scientificamente esatta deliri e allucinazioni. Il simulatore potrebbe presentare una refrattarietà ai trattamenti psico-farmacologici e psicoterapeutici, resistere così ad una terapia che generalmente attenua i sintomi in soggetti affetti da patologie reali. Inoltre sono possibili emissioni di comportamenti puerili, drammatizzazione, variazioni dell’umore di tipo infantile e ricerca della figura materna; simulando così regressioni o stati di ritardo mentale. Infine molto frequente è la prodigiosa guarigione correlata all’andamento del processo penale, questo però rischia di essere un indicazione post-processo, e probabilmente il simulatore avrà già raggiunto il suo obiettivo.

 

 

L’importanza della diagnosi differenziale

Non essendoci una diagnosi di simulazione di patologia mentale non esiste un comportamento che possa essere definito come tipico del simulatore; il soggetto va osservato attentamente per porre attenzione a tutti  gli aspetti sopra citati e quanti altri possano mettere in dubbio la veridicità del sintomo proposto.

Centrale nell’identificazione della condotta di simulazione risulta essere il lavoro sulla diagnosi differenziale. Per parlare di Simulazione di patologia mentale bisogna quindi escludere diverse condizioni, tra le quali vi sono il disturbo di conversione e disturbo somatoforme, il disturbo dissociativo, il disturbo fittizio, la sindrome di Münchhausen , la sindrome di Münchhausen per procura e la sindrome di Ganser.

La produzione intenzionale di una sintomatologia vi è sia nella Simulazione che nel Disturbo Fittizio. Ciò che li differenzia è lo scopo che muove le diverse condizioni: nel disturbo Fittizio vi è il bisogno intrapsichico di mantenere il ruolo di malato con il fine di ricevere la cura e l’attenzione da parte di una persona cara. Allo stesso modo, a differenza della sindrome di Münchhausen, disturbo psichiatrico in cui le persone colpite fingono la malattia o un trauma psicologico per attirare attenzione e simpatia verso di sé, la simulazione è mossa da incentivi esterni. Ciò che differenzia invece il disturbo Somatoforme e di Conversione dalla condotta simulativa è la produzione non intenzionale del ventaglio di sintomi fisici. Nella sindrome di Ganser infine, vi è una reazione isterica basata su una motivazione inconscia del soggetto ad evitare la responsabilità, sforzandosi di apparire infermo di mente; la componente intenzionale, determinante all’inizio, finisce con il lasciare il posto a confusione e/o ad uno stato crepuscolare.

Tra i criteri che possono essere seguiti per distinguere la simulazione di patologia mentale da forme psicopatologiche che condividono alcune caratteristiche con la simulazione stessa, vi sono la produzione intenzionale di contro alla produzione inconsapevole e il vantaggio esterno e/o materiale di contro al vantaggio intrapsichico puro. La condotta di simulazione si propone quindi in un quadrante dove il vantaggio esterno e/o materiale si interseca con la produzione intenzionale del ventaglio di sintomi.

Conoscere i segnali di simulazione di patologia mentale è utile per il clinico per porsi in una posizione tale da non suggerire esso stesso i sintomi che potrebbero essere poi simulati. Inoltre conoscerne le caratteristiche è utile ad evitare di essere coinvolti in meccanismi di manipolazione e a migliorare la valutazione clinica per il riconoscimento ed il trattamento della simulazione della malattia mentale.

Hurst (1940) indicava due sole condizioni che danno la certezza di una avvenuta simulazione. Una di queste due condizioni è il cogliere il simulatore durante l’atto di esercitare la funzione psichica che aveva dichiarato essere menomata. La seconda condizione è quella in cui il simulatore ammette esso stesso di star simulando una patologia ai fini di un incentivo esterno. Da questo si evince la rarità di detenzione di simulazione. Comunque sia, nonostante vi siano situazioni in cui alcuni esperti preparano i propri assistiti prima di una valutazione psicodiagnostica, suggerendo le risposte più adeguate al raggiungimento del beneficio atteso e rendendo così più ostica l’individuazione della simulazione, vi sono molteplici condizioni insite nella valutazione stessa che permettono al clinico la detenzione della simulazione.

 

 

Gli strumenti di valutazione della simulazione di patologia mentale

Tra i diversi strumenti a disposizione dei clinici vi sono alcuni strumenti psicodiagnostici e reattivi di personalità, comunemente utilizzati, che presentano caratteristiche peculiari tali da aiutare la detenzione della simulazione di patologia mentale. In questa sede ne prenderemo in considerazione alcuni tra cui il questionario di personalità multiscala MMPI-2, la SIRS (Structured Interview of Reported Symptoms), il test Rorschach, il Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS), e  un esempio di test inserito in batterie di test neuropsicologici, il Test of Memory Malingering (TOMM).

L’MMPI-2 fornisce indicazioni sulla personalità del soggetto e su quanto il suo profilo corrisponda con diversi quadri nosografici psichiatrici. Peculiari del questionario sono le scale di validità che verificano l’attendibilità nella compilazione dello stesso e la presenza di atteggiamenti di dissimulazione o di simulazione.  Ad esempio l’indice F-K ricavato dalla differenza fra il punteggio grezzo alla scala F e alla scala K ha una provata capacità di individuare la simulazione.

La SIRS è lo strumento di riferimento per la valutazione della simulazione a carattere psichiatrico. Viene composta in modo da poter rilevare molteplici stili di risposta associati alla simulazione e permettere di classificare un quadro come finzione o descrizione onesta, e verifica inoltre la presenza di altri stili problematici di risposta  (Stracciari, Bianchi, Sartori 2010).

Per quanto riguarda il test Rorschach, si è osservato che con un adeguato addestramento il soggetto è in grado di simulare una condizione non reale; basterebbe infatti affermare di vedere ciò che non si vede realmente per alterare la validità del test. I simulatori vengono comunque smascherati in base a punteggi quali il rifiuto di produzione della risposta alla presentazione di una tavola, fallimento nel riportare le risposte più frequenti, bassa percentuale di forme buone, numerose risposte bizzarre o strane, confabulazioni accuratamente costruite e forti incongruenze o dislivelli di rendimento (Netter,Viglione, 1994; Gacono, Barton Evans, 2008).

Nel test WAIS, attraverso l’analisi della dispersione, è possibile rilevare la simulazione di patologia. Ad esempio soggetti simulatori di depressione presentano solitamente un basso rendimento in tutte le prove, mentre i soggetti affetti realmente da tale sintomatologia presentano un rendimento alto nelle prove verbali, mostrando invece un cedimento nelle prove di performance (Pajardi, 2006). Rispetto al QI si potrebbe cadere in inganno pronunciando una facile deduzione secondo cui un soggetto che ottiene un QI basso non è in grado di simulare. E’ sì reale come deduzione, in quanto la simulazione presuppone un buon livello cognitivo, ma risulta necessario tenere in considerazione anche il fatto secondo cui il QI basso può essere simulato.

In generale ciò che desta maggior interesse ai fini della detenzione di simulazione sono gli elementi quali: il punteggio al subtest Memoria di cifre il quale risulta scadente sia in caso di simulazione che in caso di pazienti neurologici, punteggi nella norma potrebbero indurre al dubbio; il punteggio inferiore a 7 nell’indice Memoria di cifre affidabile; infine un punteggio in grado di distorcere il protocollo è quello della differenza tra il punteggio al subtest Vocabolario e quello di Memoria di cifre, quando il punteggio del primo risulta di gran lunga superiore evidenzia il rischio di simulazione (Ferracuti, 2008).

Tra i test neuropsicologici specifici per la simulazione dei disturbi di memoria vi è il TOMM. Il test è formato da principalmente 3 fasi: la prova 1 dove avviene una prima presentazione e rispettiva memorizzazione degli stimoli target, con successiva prova di rievocazione con un’immagine distrattore; la prova 2 che prevede la medesima presentazione degli stimoli target, ma nella prova di rievocazione vi sono molteplici stimoli distrattori; infine abbiamo la prova 3, della rievocazione differita dopo circa 15 minuti.  Le prestazioni significativamente al di sotto del livello di scelta casuale indicano l’intenzionalità di produzione del sintomo; è bene tener conto che un punteggio molto basso è necessario per una diagnosi di simulazione. Un decremento significativo tra seconda e terza prova può essere interpretato come ulteriore conferma di simulazione.

Vi sono poi modalità di correlazione anatomo-clinica che consentono di individuare una simulazione tramite metodi di neuro immagine, in particolar modo quando vi esiste già la possibilità di oggettivare il correlato neurale della sintomatologia. Questo metodo confronta la sede lesionata con i sintomi accusati dal paziente, permettendo l’individuazione sia delle contraddizioni qualitative, quindi della sintomatologia inattesa rispetto a tale lesione, sia delle contraddizioni quantitative, quando i sintomi lamentati non presentano la stessa corrispondenza con la gravità della lesione.

Vi sono inoltre tecniche molto specifiche dell’ambito neuropsicologico, tra cui il Symptom Validity Testing (SVT)  il quale si pone lo scopo di attestare la veridicità del sintomo. Basato su una trappola matematica secondo la quale una prestazione significativamente inferiore a quella attesa da una prestazione casuale si può ottenere solo conoscendo le risposte e dando intenzionalmente la risposta errata. In test così proposti minore sarà il punteggio ottenuto e maggiore potrà essere l’accuratezza della diagnosi di simulazione di patologia mentale (Stracciari, Bianchi, Sartori 2010).

Come metodo finale, ma non di minor importanza, vi sarà l’occhio clinico dell’esperto nonché la competenza dello stesso messa in atto in sede di colloquio, confrontando i sintomi riportati con la propria conoscenza potrà individuare discordanze e svelare così il tentativo di simulazione.

La bugia nei bambini: funzione e tappe della menzogna nell’età evolutiva

Secondo l’accezione comune, si parla di menzogna quando una persona intende trarre in inganno un’altra deliberatamente (Ekman, 2001). Come nasce la menzogna e che funzione assume la bugia nei bambini?

 

Tappe e motivazioni della menzogna

La prima bugia nei bambini è un monosillabo: un ‘no‘, quando dovrebbe essere pronunciato un si.

Il loro no nasconde delle esigenze fondamentali: evitare il castigo, cancellare la colpa, affermare la propria indipendenza. Nel primo caso la bugia è intesa come negazione di una cattiva intenzione e non come negazione di un fatto in sé, e viene utilizzata quando il bambino teme una punizione troppo severa, che ai suoi occhi appare come una vera ingiustizia. Nel secondo caso il bambino utilizza la bugia come fosse una bacchetta magica con cui cerca di far scomparire una cosa spiacevole; negando di aver commesso un errore, il bambino è come se negasse di esser stato goffo e incapace e quindi mette in atto un meccanismo riparatore per conservare la stima in se stesso. Inoltre un bambino dicendo ‘no’ scopre di avere una propria identità, una mente propria, scopre, avendo un segreto, di avere qualcosa di esclusivamente suo e giunge così alla percezione di sé come un individuo a tutto tondo (Laniado, 2001).

Trovandosi di fronte ad una realtà che non capiscono o che non accettano, i bambini reagiscono cercando di ridefinirla.

Il piccolo che racconta una storia, non narra mai un evento in sé ma l’impressione che ha avuto di quell’evento, immedesimandosi nei protagonisti della vicenda. I bambini piccoli non sanno distinguere tra reale e immaginario perché il reale è recentissimo, e l’immaginario è ancora presente. Inoltre il pensiero del bambino non è in grado di isolare i dettagli senza perdere di vista l’insieme del problema.

Nei primissimi anni il bambino vede le situazioni come un tutto indivisibile, non distingue la causa dall’effetto, né il passato dal presente e dal futuro. Fissa la sua attenzione sul dettaglio, sul particolare perdendo di vista il contorno. Nei primi anni di vita il bambino non è ancora in grado di distinguere la fantasia dalla realtà, e anima gli oggetti come fossero persone vere (Laniado, 2001).

I bambini sono in grado di dire bugie molto precocemente, molto prima di quanto supponga la maggior parte degli adulti. A 4 anni, ma spesso anche prima, alcuni bambini sanno già mentire e lo fanno: non si tratta di semplici errori ma di tentativi deliberati di ingannare.

Verso i 6 anni, il bambino comincia a capire che non sempre i punti di vista delle persone coincidono. Si rende conto che gli altri hanno un modo di guardare alle cose diverso dal suo, e si accorge che è possibile vedere il mondo con occhi diversi. Dalla bugia come fuga nell’immaginario o come negazione di un fatto, il bambino passa a un livello superiore. Egli è ora capace di mentire sui propri stati d’animo, di dissimulare le proprie intenzioni. Mentire presuppone competenze e capacità intellettive complesse. Secondo Piaget, uno dei padri della moderna psicologia, chi mente deve possedere competenze comunicative, abilità di immedesimazione nel punto di vista dell’altro e avere l’intenzione di ingannare.

Il concetto di verità cambia a seconda delle fasi di sviluppo. I bambini comprendono di poter ingannare un adulto solo dopo i 5 anni. Ma appena vengono istruiti sulla malvagità della menzogna diventano moralisti intransigenti, tutto ciò che non è aderente alla realtà diviene per loro totalmente falso, e quindi da condannare (Laniado, 2001).

Secondo Paul Ekman fin verso gli 8 anni i bambini considerano qualsiasi affermazione falsa una menzogna, a prescindere dal fatto che sia intenzionale o meno. Non conta l’intenzionalità, ma la veridicità dell’informazione. I bambini piccoli, anche se sanno che l’interlocutore non ha intenzione di ingannare nessuno, lo chiamano bugiardo in quanto fornisce un’informazione falsa. A otto anni, invece, la maggior parte dei bambini- così come gli adulti- non considera un bugiardo chi dà involontariamente informazioni false.

Intorno ai 10-11 anni quasi tutti i ragazzi sono in grado di simulare la verità; sanno dare al volto un’espressione credibile, una giusta intonazione in base alle circostanze e sono abbastanza disincantati per non cadere in grossolane contraddizioni. I ragazzi a questa età smettono di pensare che le bugie siano sempre qualcosa di male, diventano più flessibili. Se sia giusto mentire o no dipende dall’esito della situazione. Se è vero che nella preadolescenza e pubertà i ragazzi comprendono che mentire è sbagliato perché comporta la perdita della fiducia da parte degli altri, questo non è sempre in primo piano nella loro mente. Anche gli adulti nel momento in cui mentono perdono di vista la conseguenza che ciò avrà sulla fiducia reciproca (Ekman 2009).

Secondo gli studiosi della menzogna, il bravo mentitore tiene in considerazione il punto di vista della sua vittima. Mettersi nei panni dell’altro, capire come potrebbe reagire, cosa potrebbe apparirgli sospetto, permette al mentitore di prevedere la conseguenza del proprio comportamento sulla persona che intende ingannare. In età prescolare, la bugia nei bambini è priva di dimestichezza con tali operazioni, in quanto non si rendono ancora conto del fatto che possano esistere più punti di vista e credono che tutti vedano le cose come le vedono essi stessi. Ma crescendo, avvicinandosi all’adolescenza, i ragazzi riescono ad assumere il punto di vista dell’altro.

 

La bugia nei bambini: il ruolo dei genitori

È molto importante che il genitore non assuma dei comportamenti scorretti che potrebbero essere di cattivo esempio per i loro bambini, come ad esempio dare una risposta falsa, raccontare una falsa verità, o fare un promessa che poi non si avvera, fa sentire il bambino profondamente tradito e ferito, quindi in qualche modo autorizzato a mentire a sua volta.

Musicisti si nasce o si diventa? Il ruolo della pratica individuale nell’apprendimento musicale

Se si ritiene limitata la propria dotazione iniziale indispensabile per impegnarsi nell’apprendimento musicale, difficilmente si svilupperà una motivazione solida verso l’attività musicale e non si investiranno energie, tempo e risorse nello studio della musica. La questione diventa allora: musicisti si nasce o lo si diventa?

 

I pregiudizi che ostacolano l’apprendimento musicale

La pratica musicale rappresenta un’attività in grado di offrire numerosi benefici a livello psicologico, emotivo e sociale a tutte le età (Hallam, 2010). Purtroppo, l’interesse per lo studio della musica può essere stroncato sul nascere, spesso a causa di un pregiudizio da tempo radicato (e a volte ancora presente!) nell’educazione musicale e nella didattica della musica strumentale e vocale.

In base a questo, si ritiene che la performance musicale dipenda dal grado di talento musicale posseduto dall’individuo, che nasce già più o meno dotato di abilità sonore e musicali: un bagaglio giudicato difficilmente potenziabile in caso di scarse competenze.

La conseguenza è che molte persone, pur essendo incuriosite o affascinate dalla possibilità di fare musica, avendo vissuto esperienze di insuccessi musicali, sono state spinte a definirsi, in modo lapidario, stonate o non portate per la musica. Frasi quali ‘Non ho orecchio musicale’, ‘sono negato per la musica!’, o ‘la musica non fa proprio per me!’ si sentono ancora frequentemente utilizzate per chiudere discussioni legate alle prestazioni musicali individuali. Se si ritiene limitata la propria dotazione iniziale indispensabile per impegnarsi nell’apprendimento musicale, difficilmente si svilupperà una motivazione solida verso l’attività musicale e non si investiranno energie, tempo e risorse nello studio della musica. La questione diventa allora: musicisti si nasce o lo si diventa?

 

Apprendimento musicale: musicisti si nasce o lo si diventa?

La psicologia della musica ha cercato di comprendere se effettivamente i risultati nell’ambito della performance musicale dipendano dal grado di talento posseduto dal musicista, o vi siano altri fattori che influenzano il successo dell’apprendimento musicale. Uno degli aspetti più indagati è stata la pratica musicale individuale.

Una nota ricerca condotta da Ericsson, Krampe e Tesch-Römer (1993) ha esaminato gli elementi che influenzano il livello qualitativo dell’esecuzione musicale raggiunto da alcuni violinisti studenti di musica. I partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi, in base al giudizio loro assegnato dai propri docenti di strumento: i migliori violinisti, i buoni violinisti e gli insegnanti di musica (questi ultimi presentavano bassi punteggi nell’esecuzione strumentale e si avviavano ad una successiva carriera in ambito educativo). Sono state raccolte informazioni relative all’attività di studio e di pratica musicale dei musicisti con informazioni demografiche (età, genere, partecipazione a concerti e concorsi,etc.), interviste e diari. In base ai risultati è emerso il ruolo rilevante che la pratica musicale individuale ha nel contribuire al raggiungimento di uno specifico livello di performance: i gruppi dei migliori e dei buoni musicisti tendevano ad esercitarsi con il proprio strumento per una quantità di ore settimanali circa tre volte superiore a quella degli studenti che si preparavano a diventare insegnanti di musica.

Tuttavia successive ricerche hanno messo in evidenza come non sia la sola quantità nella pratica, in termine di ore di studio, a determinare in modo univoco il successo nella performance. È ciò che è stato rilevato, ad esempio, da Williamon e Valentine (2000), che hanno affidato un compito di apprendimento musicale a pianisti studenti di musica a livello avanzato. Le sessioni di pratica sono state analizzate considerando sia aspetti legati alla quantità (tempo impiegato in ogni sessione) sia alla qualità (strategie impiegate per imparare il nuovo brano); inoltre la performance finale è stata valutata da un gruppo di pianisti esperti. Si è visto che la quantità di ore di studio allo strumento non risulta correlata alla qualità della performance; sembrano invece avere un ruolo rilevante nella pratica aspetti qualitativi, di tipo metacognitivo e progettuale, come la definizione di obiettivi specifici di apprendimento per ogni sessione di studio, e il tipo di strategie di apprendimento impiegate. Sembra che in questo caso a contare non sia il “quanto”, ma piuttosto il “come”.

La pratica musicale rimane comunque uno degli aspetti di maggior peso nel determinare il successo dell’apprendimento musicale. Platz, Kopiez, Lehmann e Wolf (2014) nel loro lavoro di meta-analisi sulle ricerche che hanno considerato la pratica musicale deliberata, confermano tale affermazione, sottolineando che, in ogni caso, vi sono altri fattori rilevanti (legati al processo di insegnamento, alla relazione didattica studente-insegnante e di tipo sociale) che possono mediare l’effetto della pratica di studio sull’apprendimento musicale.

 

Apprendimento musicale: conclusioni

Gli esempi brevemente riportati offrono una conferma al fatto che musicisti non si nasce, lo si diventa, essendo il percorso di apprendimento musicale influenzato da diverse variabili, tra le quali emerge lo studio e pratica individuale dello strumento musicale o del canto. Più che un dono innato, il talento musicale sembra essere il frutto di uno sforzo specifico, consapevole, prolungato nel tempo e sostenuto da un supporto educativo efficace nella figura dell’insegnante. Maggiori indagini sono sicuramente necessarie per comprendere la complessità degli aspetti influenzanti l’apprendimento musicale, ma tale consapevolezza dovrebbe aprire le porte dell’esperienza musicale a tutti gli individui, in accordo con le loro potenzialità, interessi e esigenze.

Il disturbo dissociativo di identità: il trattamento cognitivo-comportamentale – Recensione

Il Disturbo Dissociativo di identità è un argomento notoriamente complesso, su cui è da tempo aperto un interessante dibattito scientifico. Questo libro si offre come valido contributo su tale tema, affrontandolo a partire dalle basi neurofisiologiche della coscienza fino ad arrivare alle metodologie diagnostiche e all’intervento clinico (psicofarmacologico, psicoterapeutico e riabilitativo).

 

Introduzione

L’approccio terapeutico cui gli autori dedicano lo spazio maggiore è la psicoterapia cognitivo-comportamentale, declinata nelle sue varie accezioni (CBT, EMDR, terapia dialettico-comportamentale, ACT e mindfulness), considerata in questo periodo la psicoterapia più efficace da un punto di vista scientifico (Layard e Clark, 2014), offrendo spunti interessanti sul ruolo della riabilitazione psichiatrica nei disturbi dissociativi.

Nella prima parte il testo offre spazio ai più recenti aspetti di neurofisiologia della coscienza, partendo dalle concettualizzazioni di Jaspers fino alle teorie di ordine superiore della coscienza e agli studi effettuati attraverso le tecniche di neuroimaging dei giorni nostri. Molto interessante ed esplicativo è il capitolo dedicato alle patologie della coscienza, che partendo dalla patologia estrema, il coma, descrive tutti gli stati intermedi di patologia di tipo quantitavo, qualitativo e quali-quantitativo.

Tra i disturbi qualitativi della coscienza vengono individuati i disturbi dissociativi, di cui il testo propone un approfondimento diagnostico secondo le caratterizzazioni del DSM-5 e dell’ICD-10, precisando che: [blockquote style=”1″]la dimensione “dissociatività” si colloca in un continuum psicopatologico che spazia da un livello “normale” ad uno “patologico”, questa va da un’attenzione divisa, focalizzata o totalmente concentrata su di uno stimolo come quello ipnotico a disturbi che causano un notevole disagio psicosociale (disturbi dissociativi).[/blockquote]

La teoria della dissociazione strutturale della personalità

Viene quindi spiegata la teoria della dissociazione strutturale della personalità, che, in seguito ad un evento traumatico, distingue due prototipi dissociativi dell’identità: la Parte Apparentemente Normale (PAN) e la Parte Emotiva (EP) (Schlumpf et al. 2014). I soggetti che manifestano la Parte Apparente Normale non riescono a personificare le esperienze traumatiche e i ricordi, in essi si riscontra un certo grado di amnesia retrograda, presentano sintomi di depersonalizzazione ed una sensazione di intorpidimento fisico. I soggetti con PAN mostrerebbero un basso coinvolgimento emotivo nei confronti del trauma subito.

Altri individui mostrano quella che è definita Parte Emotiva (EP), a sua volta suddivisa in due principali sottotipi:
– Difesa attiva: associata ad emozioni intense, come la paura (regolate dal sistema nervoso simpatico).
– Difesa passiva: che si manifesta con un intorpidimento emotivo, come se l’individuo fosse anestetizzato.

Le risposte al trauma degli individui che mostrano EP attive sono emotive e corporee (come riscontrato anche nei soggetti affetti da Disturbo Post Traumatico da Stress).

Gli autori distinguono tra 3 tipi di dissociazione strutturale della personalità: Primaria (con la presenza di una Parte Apparentemente Normale e una Parte Emozionale. Solitamente la PAN è quella che prevale con una sorta di autocontrollo che può sfociare nell’amnesia dell’accaduto. La Parte Emozionale è presente in maniera latente, causando disagi al soggetto, non essendo pienamente cosciente), Secondaria (sopravvento delle Parti Emozionali rispetto alla Parte Apparentemente Normale), Terziaria (caratterizza la maggior parte dei casi di disturbo dissociativo di identità e rappresenta la forma più grave di dissociazione. Sono presenti più Parti Emotive e più Parti Apparentemente Normali, che interagiscono fra loro, fino a essere indistinguibili.).

Gli autori affrontano quindi il tema del Disturbo Dissociativo di Identità, presentandone le differenze nosografiche tra la versione del DSM-IV e quelle del DSM-5, le caratteristiche cliniche, il corso del disturbo, gli aspetti epidemiologici ed etiologici (con attenzione orientata alle differenti forme di trauma e le risposte umane ad essi), la comorbidità con gli altri disturbi psichiatrici (ad es. epilessia del lobo temporale, sclerosi multipla, trauma cranici, emicrania, DPTS, disturbo Borderline di personalità, ecc.) ed infine la diagnosi differenziale.

Gli strumenti di valutazione del disturbo dissociativo di identità

Successivamente il testo presenta sommariamente gli strumenti di valutazione utilizzati per la diagnosi del disturbo dissociativo di identità: Dissociative Experiences Scale (DES); Dissociative Experiences Scale-II (DES-II); The Child Dissociative Checklist (CDC); Dissociative Disorders Interview Schedule (DDIS); Structured Clinical Interview for Dissociative Disorders (SCID-D); Questionnaire on Experiences of Dissociation (QED); Cambridge Depersonalization Scale (CDS); The Dissociative Experiences Scale Taxon (DES-T); The Multidimensional Inventory of Dissociation (MID); The Depersonalization Severity Scale (DSS); The Adolescent Dissociative Experiences Scale (A-DES); Fewtrell Depersonalisation Scale; Wessex Dissociation Scale.

Le terapie del disturbo dissociativo di identità

Gli autori affrontano in seguito le possibili terapie, partendo da quelle farmacologiche che sono legate ai mutevoli sintomi che il paziente può presentare, a quelle psicoterapiche che mirano all’integrazione delle diverse personalità presenti nel disturbo dissociativo.
Viene poi descritto l’intervento attraverso l’ipnosi, che permette di esplorare tematiche latenti nella coscienza dell’individuo. L’intervento con l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) invece prevede il riaffiorare dei ricordi relativi ad un evento traumatico da parte del paziente mentre fa con gli occhi dei movimenti, che seguono uno stimolo luminoso o sonoro.
Questi movimenti permetterebbero l’intensificazione delle connessioni fra l’emisfero destro e quello sinistro del cervello, migliorando la memoria del soggetto (Samara et al., 2011).

Particolare approfondimento è dato dagli autori alle Tecniche Cognitivo-Comportamentali (CBT), che tendono a promuovere con molta attenzione la trasformazione degli errori cognitivi (che nel disturbo dissociativo hanno anche un grande significato strategico e difensivo) con cognizioni più salutari, piuttosto che ad una loro semplice classica sostituzione; per questi motivi si preferisce promuovere l’apprendimento di un più ampio repertorio di strategie di coping.

Successivamente viene descritta anche la Terapia dialettica comportamentale (DBT), tesa fondamentalmente ad ottenere nei pazienti l’accettazione (volta a contrastare le sensazioni di impotenza del paziente) e il cambiamento (di quei pensieri disfunzionali, che causano una disregolazione delle emozioni). L’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è anche un intervento che può aiutare i pazienti con Disturbo dissociativo di identità, attraverso l’accettazione delle proprie emozioni legate ai traumi passati, che non consiste nell’acconsentire in ogni situazione (ad esempio, relazioni
violente), ma nell’accettare quelle che sono le circostanze legate al passato, con l’aspettativa di un eventuale cambiamento. Questo cambiamento deve avvenire nel presente (Mattaini, 1997). Uno degli scopi dell’ACT è quello di raggiungere una flessibilità psicologica, per stimolare il soggetto a vivere il presente, modulando i comportamenti secondo la situazione che si sta vivendo (Masuda e Tully, 2012).

Gli autori descrivono anche l’intervento Mindfulness, che attraverso un’apertura all’esperienza e al riconoscimento dei propri sentimenti, e una maggiore conoscenza dei contenuti a livello cognitivo che garantisca una possibilità di cambiamento delle cognizioni disfunzionali, mira a rendere i pazienti consapevoli e capaci di accettare la realtà, permettendo loro di tollerare meglio le situazioni stressanti.

Spunto originale è il capitolo dedicato al ruolo della riabilitazione psichiatrica (tuttora sperimentale), che si prospetta utile considerando che la terapia può durare molti anni (Braun, 1986; Cohen et al., 1991) e gli interventi effettuati possono essere necessari per mantenere o sviluppare competenze funzionali o per facilitare l’integrazione dei traumi passati con la vita presente. Gli interventi riabilitativi, affiancati alla psicoterapia, aumentano il senso di benessere del paziente, permettendo l’emergere spontaneo delle differenti identità.

E’ fondamentale però che tali interventi avvengano in equipe, in modo tale che il riabilitatore sui supervisionato da un possibile coinvolgimento eccessivo nei confronti di un paziente con una diagnosi così affascinante. Tra i possibili interventi del riabilitatore psichiatrico vengono descritte le attività espressive (disegno, produzione musicale, movimento), l’arteterapia (un buono strumento per promuovere la padronanza in esperienze di vita che impediscono l’indipendenza personale) e la tecnica del gioco con la sabbia. Quest’ultima è una tecnica che in origine era utilizzata solo da psicoterapeuti ad orientamento psicodinamico; oggi, invece, può essere utilizzata anche dai riabilitatori psichiatrici, con il supporto di un terapeuta.

Questa tecnica è riconducibile ai rituali primitivi, in cui erano disegnati nella sabbia dei cerchi a scopo protettivo ed apotropaico.
Sostanzialmente gli autori offrono un testo utile per gli addetti ai lavori, evidenziando nozioni e spunti applicativi interessanti sul Disturbo dissociativo di identità, disturbo molto complesso il cui trattamento risulta essere molto impegnativo: [blockquote style=”1″]Il paziente ha la necessità di vedersi come “intero” e non come uno specchio rotto, in cui la sua immagine riflessa risulta come sconnessa. Per farlo deve scoprire cosa è accaduto, chi e che cosa hanno ridotto quello specchio in più pezzi. Non è in grado di farlo da solo, a causa delle amnesie e deve essere aiutato da persone competenti, che riescono ad ottenere la sua fiducia.[/blockquote]

 

Il modello psicodinamico della bulimia – Magrezza non è bellezza Nr. 25

Modello psicodinamico della bulimia: E’ possibile concepire il disturbo alimentare come un implacabile attacco sadico verso il proprio corpo. Per i soggetti affetti da questo disturbo il corpo rappresenta il conflitto con la madre, con la propria femminilità, e con la sessualità (Kernberg, 1994).

 

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Il modello psicodinamico della bulimia (Nr. 25)

Il modello psicodinamico della bulimia

Il modello psicodinamico della bulimia concepisce il disturbo come la rimozione di un disturbo narcisistico di personalità. Le grandiosità narcisistiche infantili derivano da una serie di delusioni vissute come traumatiche, celate dietro l’idealizzazione di altri oggetti e persone. Questa condizione fa sì che si proiettino su altri le proprie paure, le quali riflettono parti temute di se stessi (Masterson, 1976). Sugarman e Kurash (1982) individuano nelle pazienti anoressiche un distanziamento tra le funzioni dell’ego e la costanza dell’oggetto: se separate dal rapporto simbiotico con la madre, sono incapaci di evocare automaticamente una rappresentazione della madre integra e diventare indipendenti. Il corpo della bulimica è il veicolo per comunicare con il resto del mondo, e i sintomi bulimici sono l’espressione di conflitti inconsci. Il corpo di queste pazienti non è integrato nel proprio essere.

In generale, è possibile concepire il disturbo alimentare come un implacabile attacco sadico verso il proprio corpo. Per i soggetti affetti da questo disturbo il corpo rappresenta il conflitto con la madre, con la propria femminilità, e con la sessualità (Kernberg, 1994).

Gli aspetti caratteristici dei pazienti bulimici

Tre sono gli aspetti fondamentali osservabili nei soggetti bulimici:

1) Una struttura psicopatologica specifica, derivante dalla scissione psichica disuguale, per cui buona parte della personalità cresce e si sviluppa adeguatamente, mentre l’altra parte funziona manipolando il cibo e danneggiando il corpo, a volte anche fino alla morte, e la realtà che riguarda la funzione alimentare e la propria immagine corporea è spesso negata.

2) Un particolare insieme di fantasie inconsce focalizzate sul cibo, con il quale il soggetto ha un rapporto ambivalente (lo ama e lo odia, considerandolo simbolo della parte buona e cattiva della madre) che rappresenta il legame tra sé e la figura materna interiorizzata, non ancora distinta da quella paterna e caricata di tutte le proiezioni dei propri impulsi voraci, angoscianti e invidiosi. Il processo di separazione-individuazione dalla madre è rimasto incompleto tanto che queste persone, coi loro sintomi, manifestano la difficoltà e l’ambivalenza tra il voler diventare “adulte”, superando la dipendenza, e il voler restare nell’illusoria protezione della relazione primaria onnipotente. L’angoscia fisiologica scatenata dalla crescita si rifugia nella regressione all’oralità (cristallizzazione alla fase orale). Così il cibo, desiderato, rifiutato, vomitato, idealizzato, diviene il segno del conflitto tra l’illusione di essere padroni di se stessi e la dipendenza patologica.

3) Una storia familiare patogena. La madre in particolare, anch’essa intrappolata nella relazione simbiotica con la figlia, risponde sin dai primissimi momenti di vita di quest’ultima ad ogni tipo di bisogno e di domanda con il cibo. Il padre, invece, è generalmente una figura assente e periferica.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

 

The effects of sleepiness on rating facial expressions – Middlesex University London

Survey: The effects of sleepiness on rating facial expressions

Your child is being invited to take part in a research study. Before you decide whether you’re happy for your child to participate, it is important for you to understand why the research is being done and what it will involve. Please take your time to read the following information carefully, and discuss it with others if you wish. Please ask if there is anything that is not clear or if you would like more information. Take your time to decide whether or not you wish your child to take part.

The purpose of this research is to establish whether feeling sleepy influences how intense children (aged 7-10 years) perceive facial expressions to be. Your child will complete a short survey online which will first involve answering some questions about how sleepy they feel. Then they will be shown pictures of either fearful or neutral faces and asked to rate how scared they think the person in the picture looks. The entire study is expected to take no more than 10 minutes. Your child will see fearful faces so there is a very small risk that your child may feel scared looking at these pictures. We therefore request that you remind your child that they can stop the survey at any time they wish.

Participation in this research is entirely voluntary. You do not have to allow your child to take part if you do not want to. If you decide to allow your child to take part, your child may withdraw at any time during their participation. You may withdraw your child’s data up until data analysis begins in December 2016.

All proposals for research using human participants are reviewed by an Ethics Committee before they can proceed. The Middlesex Psychology Department’s Ethics Committee have reviewed this proposal. This research may be published in Psychology journals, however, no identifiable information about your child will be included. The study is entirely anonymous.

Thank you for taking the time to read this letter and please click ‘next‘ to begin the survey.

If you have any questions or concerns, please contact:
Dr Gemma Reynolds: [email protected], 020 8411 6506

GO TO THE SURVEY 9733

sopravvivere alle frustrazioni quotidiane secondo David Foster Wallace

Il video, tratto dal discorso di David Forster Wallace alla cerimonia delle lauree al Kenyon college (21 maggio 2005), è un elogio alla consapevolezza dei meccanismi automatici di pensiero e all’importanza di prendere ogni giorno decisioni coscienti rispetto al significato che vogliamo attribuire agli eventi.

 

Come suggerisce Wallace, la quotidianità è fatta da piccole sequenze di eventi ripetitivi (andare al al lavoro, guidare nel traffico, fare la spesa), che inducono la nostra mente a reagire ad esse in modo sempre più automatico, fino a raggiungere una sensazione di impossibilità di scelta. Diamo sempre lo stesso significato alle cose e perdiamo la libertà di considerare delle alternative. Questo meccanismo è rinforzato dal fatto che involontariamente tendiamo ad attribuire significati alle cose solo dalla nostra prospettiva, che ci porta a sentirci al centro della nostra esistenza e di conseguenza al centro del mondo, per cui il mio dolore o la mia insofferenza diventano più grandi, speciali e quindi meritevoli di particolare cura da parte degli altri.

Ecco che il mondo esterno si trasforma in un ostacolo ai miei scopi e al mio benessere, provocando pensieri che alimentano rabbia e frustrazione. Per dirla alla Ellis, si possono generare pensieri irrazionali (Di Giuseppe et al., 2014), es. ‘Questa situazione è insopportabile‘, ‘Non tollero tutte queste persone in coda davanti a me‘, ‘Stare chiuso qui dentro è terribile’.

Tra le possibili alternative, Wallace suggerisce di provare a concentrarsi sull’ipotesi che le altre persone stiano vivendo la nostra stessa frustrazione oppure che abbiano problemi più grandi dei nostri. Questa modalità può essere utile, non solo per l’idea che ‘Mal comune mezzo gaudio‘, ma soprattutto perché stimola a uscire dalla prospettiva egocentrata e a spostare i riflettori della nostra mente su ciò che ci circonda.

Il primo passo per raggiungere questa forma di libertà è quindi prendere coscienza dei propri processi automatici di pensiero in un’ottica metacognitiva, e successivamente decidere consapevolmente di assumere prospettive diverse.

Sebbene sia improbabile che questo processo vi porterà a trovare la donna o l’uomo della vostra vita, come lascia simpaticamente supporre il video, per lo meno trasformerà l’esperienza infernale del supermercato in una nuova occasione di apprendimento.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Sq94OhMGh8M&app=desktop

 

Cosa ci fa restare insieme? Attaccamento ed esiti della relazione di coppia (2010) – Recensione

Scorrevole e utile guida per i professionisti che si occupano di terapia di coppia, il manuale si propone di analizzare le dinamiche della relazione a due a partire dai principi della teoria dell’attaccamento, soffermandosi sulla considerazione degli aspetti di continuità e/o discontinuità tra le esperienze individuali passate e presenti e sulla valutazione della loro influenza nel definire il funzionamento e l’esito della relazione di coppia (durata, stabilità, riuscita).

 

Interpretando il sentimento d’amore come ‘uno stato dinamico che comprende i bisogni di entrambi i partners e le loro capacità di attaccamento, accudimento e sessualità‘ in accordo con molti teorici dell’attaccamento (Shaver e Mikulincer 2002; Mikulincer e Goodman 2006; Feeney 2008), secondo gli autori Castellano Rosetta, Velotti Patrizia e Zavattini Giulio Cesare, sarebbe possibile comprendere pienamente il legame tra i partners solo chiarendo l’interazione integrata tra i principali sistemi motivazionali implicati nelle relazioni di coppia:

  • Il sistema di attaccamento: stimolato dalla ricerca e dal mantenimento della vicinanza al partner, è finalizzato a garantire un approdo sicuro da eventuali situazioni difficili;
  • Il sistema di accudimento: attivato dalle richieste d’aiuto o dai segnali di disagio di un partner, è in grado di mostrare interesse, offrire protezione e conforto tramite rassicurazioni e azioni concrete di assistenza anche strumentale;
  • Il sistema sessuale: innescato dal desiderio e dall’attrazione fisica, è volto a soddisfare la componente edonica e ad assicurare la trasmissione del patrimonio genetico.

Una buona relazione di coppia sarebbe, quindi, caratterizzata da una situazione di equilibrio dinamico tra questi tre sistemi che può però comprendere delle fisiologiche e temporanee fasi di sbilanciamento in concomitanza di specifici eventi esterni (il lutto di una figura significativa per uno dei due partner, il cambio o la perdita del lavoro, una malattia ecc.).

Secondo Judith Feeney (2003) ed il suo modello del ‘circolo della sicurezza‘, alla base di una relazione equilibrata ci sarebbero un bilanciamento e una reciprocità tra i comportamenti di caregiving (Vi è la capacità di fornire accudimento al partner quando richiesto?) e di care-receiving/ seeking (Vi è la capacità di richiedere un accudimento al partner nei momenti di bisogno?). Il posizionamento rigido ed esclusivo nel ruolo di caregiver (capace di fornire cure) da parte di un partner e nel ruolo costante di care-receiver (oggetto delle cure) da parte dell’altro determinerebbe un assetto asimmetrico che non favorirebbe nel lungo termine né un percorso esplorativo e di crescita individuale, né un’evoluzione delle dinamiche di coppia.

L’esperienza di intimità dipenderebbe anche dal livello di autonomia ed indipendenza sperimentato all’interno della coppia (Vi è la capacità di sentirsi a proprio agio con se stessi in quanto persona autonoma e indipendente, pur stando in coppia?) che deriva da una negoziazione soggettivamente soddisfacente del rapporto tra vicinanza e distanza emotiva. Una coppia equilibrata è in grado di tollerare le normali oscillazioni tra questi due poli.

La funzionalità del rapporto di coppia, inoltre, non è data da uno stato di permanente sintonia, quanto piuttosto dalla capacità di ripristinare l’equilibrio dei sistemi motivazionali in seguito agli eventi critici e di riparare i passaggi dagli stati armonici a quelli disarmonici che sono quelli che più frequentemente viviamo (Vi è la capacità di negoziare rispetto ad eventuali discussioni che possono sorgere?).

Diversamente dalle rotture dannose che sono caratterizzate da rabbia, rifiuto e violenza, le rotture benigne sono riparabili attraverso meccanismi di riconnessione emotiva che sono volti a ripristinare il livello di contatto abituale della coppia e che sono, dunque, funzionali all’adattamento reciproco e all’affinamento in fieri delle specifiche strategie relazionali.

Il funzionamento del rapporto di coppia non è dunque prevedibile solo in base alle storie d’attaccamento dei due partners, ma dipende fortemente anche dall’impegno individuale e dal reciproco e continuo processo di coregolazione affettiva.

 

Mindfulness – Le origini e le caratteristiche

Jon Kabat-Zinn (2003), biologo molecolare statunitense e ideatore del programma per la riduzione dello stress basato sulla mindfulness (MBSR), definisce la mindfulness come la consapevolezza che emerge dal prestare attenzione di proposito, nel momento presente e in maniera non giudicante, allo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento. Si tratta cioè di dirigere volontariamente la propria attenzione a quello che accade nel proprio corpo e intorno a sé, ascoltando accuratamente la propria esperienza e osservandola per quello che è, senza valutarla o criticarla.

Le origini della mindfulness

L’approccio della mindfulness deriva da un tipo di pratica meditativa buddista, la meditazione vipassana, ripulita di ogni sua componente mistica e adattata ad un training clinico. Il programma, di otto settimane, è basato su un apprendimento di tipo esperienziale praticato durante sedute di gruppo a cadenza settimanale e rafforzato da un impegnativo lavoro quotidiano, che viene prescritto per i restanti sei giorni della settimana. Esso porta i soggetti ad esperire un nuovo modo per entrare in contatto con ciò che accede dentro e fuori di se stessi. Si tratta di un training ad oggi ampiamente validato in letteratura, per la sua efficacia nel trattamento di svariate problematiche correlate allo stress, e diffuso ormai in tutto il mondo.

Ma torniamo un attimo alle origini, e dunque alla meditazione vipassana, descritta molto bene e in modo alquanto semplice nel testo di Henepola Gunaratana (1995), monaco buddista, autore di numerose pubblicazioni sul tema.
In effetti è interessante partire proprio da un capitolo abbastanza centrale del suo libro, per comprendere il legame tra la prima forma di meditazione e il training Mindfulness Based Stress Reduction e per dedurre i motivi della sua efficacia. Il capitolo in questione è “Consapevolezza e concentrazione”, e parla appunto della differenza tra concentrazione e consapevolezza, e del passaggio dalla prima alla seconda, durante il percorso di meditazione. Un cammino che comincia dal riportare continuamente l’attenzione ad un oggetto ed evolve verso l’osservazione non giudicante, momento per momento, di tutto ciò che percepiamo all’interno e all’esterno di noi stessi. Quest’ultima fase è appunto quella della consapevolezza; uno spazio in cui tutto accade, e in cui noi semplicemente osserviamo.

 

Le fasi del percorso di meditazione

In effetti il testo di Gunaratana spiega in modo molto dettagliato i passi essenziali del processo di evoluzione dell’individuo durante il percorso di meditazione. Partendo, dalla prima fase, che conduce ad un potenziamento della capacità di concentrazione, per arrivare infine alla padronanza della consapevolezza. Comprendiamo dunque che la concentrazione si allena ogni qualvolta, durante la meditazione sul respiro, alla comparsa di una distrazione, ne prendiamo nota e riportiamo l’attenzione al respiro. Questa semplice attività, che all’inizio può sembrare una forzatura, poi, se fatta in modo non giudicante e con gentilezza verso se stessi, porterà, in una fase più avanzata della pratica a portare questa stessa modalità di attenzione a pensieri e sentimenti, per esperire infine un nuovo modo di vivere il momento presente. Appunto con consapevolezza. Dunque la consapevolezza diviene uno spazio di osservazione non giudicante, non forzato, in cui osservare lo scorrere dell’esperienza momento per momento e lasciarla scorrere così come si presenta.

Dalla coltivazione di questo stato particolare di presenza a se stessi, nella vita quotidiana, è possibile imparare tanto. Prima di tutto lo stato di impermanenza di tutte le cose; suoni, emozioni e pensieri; qualsiasi evento ha un suo inizio, una sua naturale durata e una fine. Conoscenza questa che ci allontana da quelle reazioni impulsive quanto dannose di evitamento, rispetto ad emozioni e sensazioni negative, per portarci ad una maggiore accoglienza di tutto ciò che ci accade, al fine di poterlo vivere in modo sereno. Se c’è una preoccupazione dunque, essa merita di essere accolta ed osservata, per esserne consapevoli e trarne insegnamento.

Altro elemento sicuramente importante, che viene ad essere acquisito è la capacità di restare nel presente per assaporarlo in tutta la sua fragranza. In un capitolo precedente, infatti, su come affrontare le distrazioni, il testo di Gunaratana evidenzia il fatto che per nostra natura, in automatico, etichettiamo e giudichiamo qualsiasi cosa, senza più coglierne il valore originario. Quando ad esempio percepiamo un rumore, automaticamente ne deduciamo origine e conseguenze, senza renderci conto che tutto ciò lo stiamo solo immaginando. Dunque noi in realtà viviamo quell’evento originario, solo per un istante, in quel microsecondo in cui lo udiamo, per il resto del tempo lo viviamo solo nella nostra mente, nelle nostre congetture, e quindi perdiamo il contatto con la realtà per vivere in un mondo immaginario.

 

Il potere della consapevolezza

Ecco dunque il fulcro di tutto. Il potere della consapevolezza in questo senso sta nel vivere l’essenza delle cose senza utilizzo di preconcetti, ma percependole nelle loro caratteristiche fisiche basilari. Osservare l’esperienza sensoriale ed emotiva in questo modo ovviamente spinge verso qualcosa di molto diverso da rimuginii su pensieri patologici, fonte di ansia e preoccupazioni, che non fanno altro che allontanarci dalla soluzione del problema. Restare nel presente e prenderlo così com’è, nella sua realtà tangibile e non contaminata da pessimismo, non può che essere una liberazione per molte delle sofferenze umane. Questo richiama infatti molto da vicino la differenza tra reazione e risposta allo stress, di cui parla anche Kabat-Zinn (2013), dove la reazione è l’automatismo patologico, fatto di evitamenti e rimuginio, e la risposta è la soluzione consapevole, ponderata e più affine agli scopi dell’individuo. Lo sviluppo della consapevolezza permette di privilegiare sempre più spesso l’uso della risposta ponderata e funzionale, rispetto a quella impulsiva e dannosa.

La vera sfida però, sottolinea Gunaratana, non è quella di chiudersi in un tempio a meditare, ma estendere la consapevolezza alla vita quotidiana. Più avanti nel testo infatti l’autore evidenzia la possibilità di progredire nel cammino di meditazione, prendendo come oggetto di esercizio per la consapevolezza, prima l’azione del camminare vera e propria e successivamente qualsiasi attività quotidiana, provando quindi ad eseguirla in modo più lento e attento ad ogni componente motoria, allo scopo di estendere la consapevolezza alla vita quotidiana. Egli ci dice dunque che il fine ultimo della meditazione vipassana è la trasformazione radicale e permanente della nostra intera esperienza sensoriale e cognitiva. Un cambiamento della vita stessa o quantomeno del modo di vivere.

 

Il training Mindfulness Based Stress Reduction

Ma cosa ha accolto quindi Kabat-Zinn nel suo training Mindfulness Based Stress Reduction e cosa ha aggiunto, rispetto all’originaria pratica vipassana, per rendere funzionale e commestibile anche a noi occidentali questo cammino interiore così lontano dalla nostra cultura, tanto dal renderlo comprensibile in un programma clinico di otto settimane?

Il training di Jon Kabat-Zinn in effetti inizia con un esercizio simpatico, il famoso esercizio dell’uvetta, in cui si prescrive di dare attenzione ad un chicco d’uva secca (a volte neanche nominato come tale) come se fosse un oggetto mai visto; e dunque di osservarne ogni piccola caratteristica fisica con attenzione e interesse, fino ad assaporarlo con lo stesso approccio. Questo primo esercizio è utilissimo per cominciare ad addestrare quella che Gunaratana chiama “concentrazione” e fa intuire con semplicità gli atteggiamenti basilari da tenere anche durante le successive fasi di addestramento.

La seconda aggiunta di Kabat-Zinn è costituita dall’esplorazione del corpo (detta anche body scan); un esercizio in cui si richiede di porre attenzione, progressivamente ad ogni singola parte del corpo, partendo dalle dita dei piedi fino ad arrivare alla sommità del capo, e di restare con ogni sensazione percepita senza pretendere di cambiarla. Durante l’esercizio si introducono anche momenti di attenzione e utilizzo del respiro a fini rilassanti. Il body scan costituisce dunque un primo utile passo verso se stessi. Infatti, mentre il precedente prendeva come oggetto di attenzione un elemento esterno, questo è già più personale. Si comincia perciò ad indirizzare la concentrazione su se stessi e con l’utilizzo del respiro si fa in modo di avvicinarsi a questa cosa in modo più rilassato possibile.

Questa parte dell’addestramento trova il suo significato nella necessità di predisporre le menti occidentali ad un tipo particolare di attenzione, momento per momento e non giudicante, alle nostre esperienze sensoriali. Qualcosa che sarà molto utile con i successivi esercizi, che gradualmente andranno sempre più in profondità, a livello emotivo e cognitivo.

Sempre nella fase iniziale del MBSR si comincia già a praticare la meditazione focalizzata sul respiro; essenziale anche nella meditazione vipassana, e che progressivamente si concretizzerà nel fulcro della pratica: la “meditazione seduta”, che pone attenzione anche a suoni esterni, pensieri ed emozioni, senza lasciarsi prendere da essi, ma osservandoli come fossero eventi impersonali e senza porvi giudizio o limitazione. Dunque anche nel programma MBSR di Kabat-Zinn, come in quello della tradizionale meditazione vipassana, la vera crescita si concretizza in questa parta centrale, dove si assiste al passaggio dalla concentrazione alla consapevolezza, come direbbe Gunaratana.

A questa Kabat-Zinn aggiunge una fase dedicata allo yoga, utile a rafforzare ulteriormente la pratica sul corpo e ad indurre un senso di rigenerazione fisica, e dunque a restituire un feedback positivo al praticante. Successivamente vi si affianca la meditazione camminata e già dai primi incontri si raccomanda di provare a compiere più attività quotidiane con le stesse modalità attentive apprese negli incontri (pratica informale). Anche questi ultimi due elementi però non sono aggiunte di Kabat-Zinn, bensì erano già presenti, come abbiamo visto, nella pratica spiegata da Gunaratana. Essi sono utili, come detto, ad estendere quanto appreso durante le pratiche formali alla vita quotidiana.

 

Conclusioni

In sintesi, il training di Jon Kabat-Zinn si propone di avviare il praticante allo stesso tipo di meditazione della tradizione buddista vipassana, epurando quest’ultima dalla sua componente mistica e aggiungendo delle pratiche utili a comprenderne meglio atteggiamenti e modalità, e a rafforzarne quanto più possibile gli effetti sulla motivazione e sulla vita quotidiana.

Riassumendo, tali aggiunte riguardano essenzialmente l’esercizio dell’uvetta, il body scan e lo yoga; ma al centro di tutto rimane sempre quella che viene chiamata “meditazione seduta”, durante la quale si apprende gradualmente ad osservare qualsiasi evento, interno o esterno a se stessi, e a lasciarlo fluire liberamente. L’attitudine appresa da questo tipo di esercizio sarà quella che darà infatti il cambiamento vero e proprio, una volta generalizzata alla vita quotidiana.

 

L’efficacia del training della mindfulness

I risultati sono ormai di pubblico dominio. L’approccio basato sulla mindfulness per la riduzione dello stress è stato utilizzato come ausilio a svariati approcci terapeutici e ha dimostrato ampiamente la sua utilità in diversi campi dedicati al benessere dell’individuo. Come osserva Antonella Rainone (2012), psicoterapeuta e didatta alla scuola di psicoterapia cognitiva APC/SPC, la mindfulness, nella sua pratica di fermarsi a vivere il presente senza giudicare la propria esperienza psicofisica, risulta terapeutica per molti motivi. Essa infatti, secondo l’autrice, diminuisce la ruminazione e favorisce l’accettazione; elimina dunque pensieri e valutazioni negative; aumenta la capacità di decentramento (e quindi gli stati mentali sono trattati solo come tali e non come costitutivi dell’individuo) e diminuisce il cosiddetto “affect as information” (e dunque le emozioni non vengono più prese come fonte di informazione su tutto, ma ci si basa su fatti osservabili); funge da esposizione esperienziale rispetto agli stati emotivi che normalmente venivano evitati, modificando così i significati patogeni; infine offre la possibilità di ridurre gli automatismi, e dunque le strategie disfunzionali di soluzione, privilegiando una risposta più ponderata e consapevole dei propri scopi e possibilità. Tali cambiamenti nella vita di un individuo sono essenziali alla soluzione di svariate dinamiche che mantengono talvolta anche disturbi di grave entità.

Concludendo, la mindfulness sembra avere davvero un considerevole potere terapeutico; la sua radice, come abbiamo visto, origina da una tradizione molto antica che, come evidenzia Gunaratana, risale allo stesso Buddha. Ma non per questo essa, per essere funzionale, ha bisogno obbligatoriamente di insegnamenti religiosi. Alla base del successo della pratica c’è un’antica e nobile disciplina molto efficace, che ha attraversato millenni migliorandosi nella crescita interiore delle persone che l’hanno praticata e perfezionata nel tempo. Ma, come ha dimostrato Kabat-Zinn col suo training MBSR, alla base del suo successo c’è la pratica stessa e gli atteggiamenti con i quali la si affronta quotidianamente, non un Dio o un concetto religioso. Tutto quello che bisogna fare è praticare col giusto atteggiamento.

Chiudo dunque con una citazione dal suo testo fondamentale (“vivere momento per momento”, 2013): [blockquote style=”1″]Il buddismo non ha alcun Dio, cosa che lo rende una religione molto particolare. Ha invece un principio centrale, che si ritiene incarnato in maniera esemplare da una persona storica, detta il Buddha. Si racconta che un giorno un uomo si accostò al Buddha, che era ritenuto un grande saggio e maestro, e gli chiese: «Sei un dio?» Buddha rispose: «No. Sono sveglio.»[/blockquote]

Mommy (2014): una relazione madre-figlio che ci porta sulle montagne russe emotive

Mommy (2014) ruota attorno alla relazione burrascosa e morbosa tra la mamma Die e il figlio quattordicenne problematico Steve. In apertura, vediamo Die che va a riprendere il figlio dall’istituto in cui ha passato gli ultimi anni della sua vita, per portarlo a casa con sé e provare a ricostruire il rapporto e ricostituire una qualche forma di normalità familiare.

 

A poche settimane dalla visione di La pazza gioia di Virzì, ho avuto l’occasione di vedere il pluripremiato Mommy (2014) del regista franco-canadese Xavier Dolan. Dalle atmosfere scanzonate e rocambolesche di Virzì, che ci racconta le peripezie alla Thelma e Louise di due donne in fuga da una comunità in una Toscana assolata, al grigio di un sobborgo di una città del Canada francese, in cui una mamma tra i quaranta e i cinquant’anni, vedova, fatica ad arrivare fine mese e ha la cantina piena di cianfrusaglie e ricordi di una vita precedente, che è restia a sistemare poiché ciò significherebbe probabilmente aprire il vaso di Pandora di emozioni ritenute ingestibili e troppo dolorose.

 

Mommy: trama del film

E’ un Canada realistico ma non reale: la frase in apertura del film Mommy ci proietta in un tutt’altro che futuristico 2015 in cui è da poco entrata in vigore una controversa legge che consente ai parenti di minori difficili, in caso di emergenza, di effettuare un ricovero coatto presso un istituto psichiatrico, saltando la procedura legale.

Mommy ruota attorno alla relazione burrascosa e morbosa tra la mamma Die e il figlio quattordicenne problematico Steve. In apertura, vediamo Die che va a riprendere il figlio dall’istituto in cui ha passato gli ultimi anni della sua vita, per portarlo a casa con sé e provare a ricostruire il rapporto e ricostituire una qualche forma di normalità familiare. Fin da subito capiamo che il mantenimento dell’equilibrio sarà un’impresa assai ardua: mentre Die lo va a prendere, Steve ha appena dato fuoco al refettorio della scuola provocando ustioni gravi ad un altro ragazzo.

Emerge immediato il contrasto e l’incomunicabilità tra l’approccio cinico e disilluso della direttrice dell’istituto, che si fa forte di essere quella con i piedi per terra (‘Non basta amare qualcuno per salvarlo’) e l’ingenuità, il coinvolgimento emotivo, e la tendenza all’idealizzazione della mamma (‘Gli scettici dovranno ricredersi!‘), che dà voce al disperato bisogno di credere e sperare in qualcosa, di aggrapparsi alla relazione col figlio, quando tanti altri progetti di vita sono ormai sfumati.

L’incomunicabilità intesa come totale incapacità della direttrice di comunicare a livello verbale in maniera appropriata e di sintonizzarsi emotivamente coi bisogni e le aspettative della mamma (non le spiega ad esempio in quali momenti e con quali persone il ragazzo va più in crisi, ma lo presenta come uno dei tanti casi disperati che, se anche magari in qualche modo ‘la sfangherà’ nella vita senza diventare un delinquente e finire in galera, sarà comunque per pura casualità, e non di certo per interventi o accortezze di gestione da parte del contesto relazionale circostante).

A fronte di ciò, una volta che gli è stato trasmesso il messaggio che suo figlio è fondamentalmente ‘una mela marcia‘, Die manifesta all’opposto la speranza e la determinazione nel fatto che le cose andranno diversamente, che tutto si sistemerà, che inizieranno da zero una nuova vita insieme, che l’amore e la cura della mamma potranno rivelarsi la medicina per tutti i problemi.

 

I risvolti psicologici del film Mommy

Nelle prime scene di Mommy quindi emerge la tendenza della mamma all’idealizzazione, e, per dirla alla Libet, il suo piano immunizzante (ossia una strategia per non entrare in contatto con gli stati d’animo dolorosi attraverso il mantenimento forzato di uno stato desiderato, che annulli nel breve termine lo stato d’animo doloroso), perché intuisce che affrontare mentalmente e nella pratica quotidiana tutte le difficoltà che si presenteranno sarà molto doloroso e faticoso. Vediamo il bisogno di immunizzarsi in Die anche nella sua necessità di ricorrere all’alcool per gestire i momenti di malessere.

Facciamo poi la conoscenza di  Steve, ragazzo intelligente, arguto, sempre pronto alla battuta, esplosivo nei comportamenti e nei sentimenti e sempre sopra le linee. Dal momento in cui entra in scena il film è tutto urlato, il ritmo è incalzante, ci sentiamo costretti, claustrofobici quasi (anche grazie all’espediente del formato inusuale quadrato, più stretto di un 4:3, che costringe a prevedere una persona sola in ogni inquadratura o a strizzarne due per poterle guardare da vicino), e con il perenne fiato sospeso per il timore che stia per succedere qualcosa di grave e irrecuperabile.

Tocchiamo con mano, in Mommy, cosa si può intendere con il termine Emotività espressa, costrutto molto studiato come determinante per l’emergere ed il mantenimento dei sintomi di vari disturbi psicopatologici tra i quali la schizofrenia. L’emotività espressa è la temperatura emotiva delle relazioni familiari, implica la tendenza alla critica e all’ostilità, oppure un rifiuto della persona per quello che è, piuttosto che per quello che fa. Implica anche un ipercoinvolgimento emotivo verso il familiare: risposte emotive eccessive, drammatizzazione, iperidentificazione, autosacrificio.

I familiari ad alta Emotività Espressa sono tendenzialmente intrusivi, cercano il contatto senza tener conto delle effettive esigenze e  richieste, vogliono esercitare un controllo, si sostituiscono in tutto e per tutto, senza tenere in debito conto delle necessità relazionali del congiunto. Tendono a considerare la persona responsabile di tutte le sue azioni, anche quelle che chiaramente costituiscono sintomi, a trovare una colpa da addossare all’altro, e ad individuare in esso un capro espiatorio che elude e nasconde i propri problemi di accettazione e di ostilità. Quasi tutti questi aspetti sono presenti nella relazione tra Die e Steve, ma si intensificano soprattutto quando sorge una difficoltà che non sanno come affrontare.

Steve alterna brevi momenti di competenza apparente (qualcosa di simile a quella di cui parla Marsha Linehan relativamente al Disturbo Borderline di Personalità) in cui vuole fare il grande e si sente onnipotente facendo trasparire la presenza di un probabile accudimento invertito (dicendo alla mamma ‘mi prenderò io cura di te’), e momenti in cui ha gravi scoppi di rabbia incontrollabile, distruttivi per gli altri o per sé stesso (aggressioni alla mamma, tentativo di suicidio).

Penso che la sensazione che prova lo spettatore durante la visione di Mommy possa rispecchiare bene la condizione mentale in cui si trova una persona che si prende cura di un ragazzo con disturbi comportamentali gravi, ma probabilmente anche dello stare vicino a una persona che presenta una forte disregolazione emotiva e comportamentale: paura, senso di impotenza, vergogna, senso di colpa, tristezza.

Le ‘etichette diagnostiche’ di Steve emergono all’incirca a metà del film, nei racconti della mamma alla vicina di casa Kyle. Le problematiche di Steve vengono inquadrate come ADHD (disturbo da deficit di attenzione e iperattività), Disturbo Oppositivo Provocatorio e un disturbo dell’attaccamento che la mamma non riesce a definire ulteriormente.

E’ appropriato parlare di etichette proprio perché sembra che non sia stata data a Die una spiegazione del funzionamento del ragazzo, in termini di caratteristiche predisponenti e fattori di rischio, fattori scatenanti, conseguenze e circoli viziosi comportamentali che si possono attivare. Questa scarsa conoscenza e comprensione del suo vissuto emotivo e delle sue motivazioni portano ovviamente Die ad un senso di impotenza e imprevedibilità che faranno sì che vengano confermate le aspettative pessimistiche della direttrice dell’Istituto.

La prorompenza di Steve, per quanto disfunzionale, riesce però a smuovere e far uscire dal guscio l’impacciata vicina, che, traumatizzata dalla morte del suo bambino, ha letteralmente perso le parole, acquisendo una forma di balbuzie invalidante, che le non le consente di continuare a svolgere il suo mestiere di insegnante. Con lei la diade madre-bambino intesse una delicata e autentica amicizia trascinandola nel tourbillon delle loro avventure turbolente. Steve la sblocca, in maniera molto brusca, con forme seduttive e provocatorie inappropriate, ma riuscendo a darle un nuovo significato di vita, un nuovo ruolo, una nuova importanza, che, chiusa nelle mura del suo appartamento circondata dai ricordi, non riusciva più a intravedere. Kyla dà lezioni a casa a Steve, ed entra sempre di più nella realtà quotidiana di Steve e Die, diventando loro compagna di avventure durante cene, danze, gite in bicicletta.

Pur non essendo il messaggio principale di Mommy, esso ha tuttavia anche il pregio di farci intuire come una delle scintille per riavviare il motore in momenti di umore molto negativo e in cui si entra nel loop della ruminazione, possa essere il riappropriarsi di tanti piccoli e apparentemente insignificanti ‘qui ed ora’, anche grazie a stimoli o gratificazioni di natura sensoriale ed emotiva (come la visione di un bel paesaggio o la sensazione dell’aria fresca sulla pelle durante una corsa in bicicletta).

 

GUARDA IL TRAILER ITALIANO DI MOMMY:

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