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Acceptance and Commitment Therapy in età evolutiva: come misurare le abilità di mindfulness e l’evitamento esperienziale

ACT in età evolutiva: Nel contesto italiano, il gruppo Act 4 Kids and Teens (Gruppo di Interesse Speciale di Act-Italia), si è dedicato allo studio, alla rielaborazione e allo sviluppo di protocolli di intervento e di strumenti di valutazione ACT specifici e compatibili con le esigenze e le competenze emotive e cognitive di bambini e adolescenti.

Arianna Ristallo, Marta Schweiger

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT; Hayes, Stroshal, & Wilson, 1999) è un modello di funzionamento psicologico e di intervento terapeutico che fa parte della terza onda delle terapie cognitivo-comportamentali (Moderato, Presti, & Miselli, 2008).

Attualmente in letteratura si contano più di 100 trial clinici randomizzati e 5 meta-analisi che descrivono i risultati di interventi basati sull’ACT in contesti clinici, di promozione della salute e organizzativi. Il numero di ricerche che descrivono gli esiti di interventi ACT in età evolutiva è esiguo. Solo recentemente, il modello ACT è stato applicato all’età evolutiva attraverso l’elaborazione di protocolli ACT-based specifici per bambini, adolescenti e genitori (Ciarrochi & Hayes, 2015; Greco & Hayes, 2008).

Per fornire maggiori evidenze scientifiche in questo ambito è necessario condurre ulteriori ricerche che abbiano due obiettivi principali: in primo luogo fornire una valutazione sistematica del cambiamento, in secondo luogo indagare come avviene tale cambiamento (quali processi sono coinvolti?).

 

L’ACT in età evolutiva: gli strumenti di valutazione ACT esistenti

Nel contesto italiano, il gruppo Act 4 Kids and Teens (Gruppo di Interesse Speciale di Act-Italia), si è dedicato allo studio, alla rielaborazione e allo sviluppo di protocolli di intervento e di strumenti di valutazione ACT specifici e compatibili con le esigenze e le competenze emotive e cognitive di bambini e adolescenti. A tal proposito, dal 2013, il gruppo ha studiato e successivamente validato due misure auto somministrate ACT-oriented, specifiche per bambini e adolescenti (10-18 anni): la Child and Adolescent Mindfulness Measure (CAMM; Greco, Baer & Smith, 2011) e l’Avoidance and Fusion Questionnaire for Youth (AFQ-Y; Greco, Lambert & Baer, 2008). Entrambi sono appositamente costruiti per adolescenti, utilizzano un linguaggio adatto e descrivono situazioni e comportamenti tipici dell’età evolutiva.

La CAMM è una misura self-report composta da 10 item in cui il soggetto risponde su una scala da 0 (mai) a 4 (sempre). Gli item sono brevi affermazioni e descrivono la mancanza di consapevolezza nelle azioni quotidiane, la difficoltà a tollerare pensieri ed emozioni negativi, l’atteggiamento giudicante verso le esperienze private e la difficoltà a portare l’attenzione sul momento presente. Punteggi totali elevati denotano buone abilità di mindfulness.

L’AFQ-Y è composto da 17 item a cui il soggetto risponde su una scala da 0 (= per niente vero) a 4 (=assolutamente vero). Si tratta di una misura del livello di fusione cognitiva e di evitamento esperienziale, due processi alla base dell’inflessibilità psicologica secondo il modello ACT. Punteggi totali elevati denotano scarsa flessibilità psicologica.

Il processo di traduzione e di adattamento di uno strumento a una nuova lingua richiede un lavoro complesso: è importante che la misura si adatti al nuovo contesto culturale (in questo caso quello italiano) e che, nello stesso tempo, nella traduzione si mantenga un’equivalenza semantica. Il processo di traduzione dell’I-CAMM e dell’I-AFQ-Y (la I iniziale identifica le versioni italiane delle scale) ha richiesto una pianificazione attenta e scrupolosa che ha coinvolto una madrelingua inglese, un gruppo di ricercatori e clinici esperti di ACT, e un campione di studenti che ha valutato la comprensibilità di ogni item. Terminato il processo di traduzione è quindi fondamentale valutare, nel nuovo contesto, le proprietà psicometriche della traduzione considerando che, come sottolinea Hambleton (2005), le differenze nelle proprietà psicometriche di versioni in lingue differenti dello stesso test sono da attribuirsi al fatto che la traduzione costituisce un nuovo strumento.

L’I-CAMM e l’I-AFQ-Y sono stati somministrati a un campione di 1336 studenti di età compresa fra gli 11 e i 18 anni reclutati in diverse aree geografiche dell’Italia.
L’I-CAMM presenta una struttura a due fattori denominati rispettivamente “Consapevolezza” e “Disponibilità” con un fattore sovraordinato denominato “Abilità di Mindfulness”. La I-CAMM mostra una buona consistenza interna e una buona stabilità test-retest. Inoltre il punteggio della I-CAMM correla negativamente con la presenza di sintomi psicopatologici. L’articolo di validazione del questionario, che comprende la versione completa del questionario, i dati relativi alle proprietà psicometriche e i dati normativi per la popolazione italiana è prossimo alla pubblicazione (Ristallo et al., 2016 in press).

È stata analizzata la struttura fattoriale anche dell’I-AFQ-Y. Il questionario in lingua italiana mostra una discreta consistenza interna e una discreta stabilità test-retest. Dal punto di vista clinico è importante sottolineare che il punteggio ottenuto nellʼI-AFQ-Y correla positivamente con la presenza di sintomi psicopatologici: in particolare un punteggio elevato risulta associato in adolescenza a problemi internalizzanti, come ansia-depressione, ritiro sociale e somatizzazione. L’articolo di validazione del questionario, con la versione italiana dello strumento, le sue caratteristiche psicometriche e i dati normativi relativi alla popolazione italiana è anch’esso in corso di pubblicazione (Schweiger et al., submitted).

L’I-CAMM e l’I-AFQ-Y rappresentano, a oggi, gli unici strumenti validati per misurare la mindfulness e l’evitamento esperienziale in età evolutiva in Italia. Al fine di promuovere la comunicazione scientifica e la condivisione degli esiti della ricerca il GIS ACT4 Kids and Teens ha presentato il lavoro sugli strumenti di assessment ACT in età evolutiva in occasione della XII Conferenza Annuale dell’Association for Contextual Behavioral Science (ACBS), tenutasi a Berlino nel luglio 2015.

Due sono i punti di forza di queste misure: possono essere compilate con facilità e in breve tempo direttamente dall’adolescente, inoltre gli item indagano processi individuali normali e non descrivono né si focalizzano su sintomi psicopatologici.
I due questionari possono essere efficacemente utilizzati in diversi ambiti e con scopi differenti: è utile sottolineare la possibilità di somministrarli in ambito scolastico e di comunità come strumenti di screening e/o per valutare l’efficacia di specifici interventi formativi o educativi; possono essere utilizzati in ambito di ricerca per approfondire il ruolo dei processi ACT come mediatori del cambiamento comportamentale e in ambito clinico come strumenti di assessment iniziale e/o come misure di outcome.

 

Conclusioni

Infine, considerando il crescente interesse per l’applicazione dell’ACT in età evolutiva, lo sviluppo di self-report e di metodologie obiettive per misurare la mindfulness e i processi a essa correlati in bambini e adolescenti rappresenta un passo importante per proseguire in questo ambito di ricerca.

L’idealizzazione amorosa in Les amours imaginaires (2010) – Cinema & Psicologia

Diretto da Xavier Dolan Les amours imaginaires (2010) è un film sull’infatuazione, sul concetto di amore spesso fuorviato e idealizzato che nel legame tra i tre protagonisti, Francis, Marie e Nicolas, si evidenzia nella fretta ad interpretare erroneamente i segnali ambigui, a perdersi nella fantasia e, infine, a sottostimare gli altri rapporti, potenzialmente intimi e soddisfacenti.

Les amours imaginaires: la trama

Marie e Francis sono amici stretti, entrambi infatuati del bellissimo, ambiguo e sconosciuto Nicolas, che si diverte a tirare il sasso e nascondere la mano, a provocare per poi ritrarsi: non si capisce bene, in sostanza, dove si posi il suo interesse, ammesso che ci sia un reale interesse per qualcuno di loro. In questa confusione, i due giovani mal interpretano i comportamenti, si autoconvincono di essere i prediletti e si ritrovano, inevitabilmente, a scontrarsi per ottenere le attenzioni del loro amato.

Le inquadrature riavvicinate, la scelta azzeccata della colonna sonora, e le scene a rallentatore rivelano le emozioni dei personaggi che nelle varie fasi del film attraversano diverse tappe. La percezione di Nicolas cambia a seconda di queste; nelle prime battute è un ragazzo bellissimo, solare e popolare, appena trasferito a Montreal, ma già noto alla cerchia di amici, poi diventa l’amico stretto, coinvolgente e spiritoso, successivamente si trasforma nell’oggetto desiderato che mantiene l’aplomb, anche quando il gioco si fa duro, per poi rivestire, alla fine, il ruolo di raggiratore respinto dai protagonisti, che da acerrimi nemici, litigatori seriali, ritornano ad essere buoni amici e migliori alleati.

In effetti Nicolas non si definisce mai; qualche volta adotta atteggiamenti espliciti, con chiari avvicinamenti fisici e frasi d’impatto, ma quando è il momento di accogliere o respingere le chiare avances di entrambi, resta neutrale. Il silenzio e il ritiro diventano le strategie predilette quando Francis e Marie lo mettono con le spalle al muro, ammettendo i sentimenti per lui. Nicolas sembra adottare di proposito un atteggiamento vago e sfuggente, probabilmente per mantenere viva l’attenzione su di lui; infatti, nell’indefinitezza, Francis e Marie sono tenuti sulle spine, continuano ad affrontare l’ambivalenza tra allontanamenti e avvicinamenti, mentre il tempo passa e la possibilità di coltivare un rapporto basato su una reale conoscenza si affievolisce.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

https://www.youtube.com/watch?v=OAGZz7Jgr8I

Non mancano gli incontri con altri individui che si rivelano, tuttavia, partner occasionali continuamente respinti: l’ossessione per Nicolas prende così il sopravvento, impedendo di analizzare la situazione con lucidità e di investire affettivamente su altre figure. Eppure Nicolas, implicitamente o meno, rivela in qualche modo le sue intenzioni; non dichiara apertamente e sinceramente i pensieri, le emozioni e le decisioni, in più, corteggia l’amica di Francis e un’altra ragazza alla sua festa di compleanno. Nel complesso non si sbilancia mai, mantiene una posizione immutabile che lascia la sensazione di indifferenza e neutralità. Con la strategia del “mi definisco ma non troppo” accresce il desiderio di Marie e Francis che credono di essere perdutamente innamorate e, in realtà, non conoscono nemmeno la vera personalità del loro oggetto del desiderio, bensì una strategia relazionale ricercata.

Sullo sfondo, le narrazioni sentimentali di altri personaggi, sconosciuti che raccontano le avventure amorose basate sull’idealizzazione del partner: il punto di ritorno è l’attaccamento morboso, la dipendenza patologica verso l’idea della persona, e non la persona in sé, che resta vivida anche quando il rapporto si conclude e lascia la scia dell’amaro in bocca. Lo stesso gioco delle parti, dove uno inganna e l’altro si lascia ingannare, diventa un elemento centrale insieme alla tendenza a ritenere significative e lancinanti le relazioni nelle quali l’altro mantiene l’ambiguità e il mistero, che, se svelati, spengono la scintilla e l’interesse svanisce del tutto.

Les amours imaginaires: i temi psicologici trattati

All’origine di questi fenomeni si trovano timori di vario genere, relativi all’abbandono e alle possibili delusioni; in altre parole chi resta vago può agire in tal senso per paura di deludere mostrando il vero carattere, mentre chi s’infatua di un soggetto “misterioso”, le cui intenzioni non sembrano chiare, senza riuscire a staccarsi, può nascondere la paura di costruire un legame intimo, di coinvolgersi in una conoscenza approfondita in cui si è portati a definirsi in qualità di partner. Per capire meglio le dinamiche è opportuno osservare i meccanismi di mantenimento e rottura della relazione; Nicolas sparisce interrompendo la frequentazione quando è messo alle strette, e quindi nel momento in cui è chiamato, implicitamente, a smettere di giocare e a prendere una decisione definitiva sul tipo di rapporto da instaurare con entrambi. Marie e Francis, al contrario, restano delusi dalla rivelazione, seppur implicita dell’amico: ritirandosi e ignorando le dichiarazioni aperte degli amici, Nicolas ha lasciato intendere, ancora una volta subdolamente, il rifiuto, svelando inconsciamente, il reale interesse: la disputa che divide gli amici intimi e nutre le attenzioni su di sé. La posizione di Nicolas sancisce la fine dell’ambivalenza e l’inizio della rassegnazione e del disinteresse di Marie e Francis. Il mistero finisce, ma gli amici non riflettono sulle dinamiche avvenute e quando compare un altro personaggio, simile a Nicolas, bellissimo e affascinante ma anche molto ambiguo, i protagonisti ne sono attratti nuovamente come calamite. Il regista termina il film con una scena emblematica che lascia intendere l’inevitabile circolo vizioso amoroso dei protagonisti, incapaci di amare, bensì eterne vittime di amori immaginari, irreali e fittizi, che non conosceranno mai, né approfondiranno, ma che nutriranno le fantasie dell’amore perfetto, privo di imperfezioni, platonico e irraggiungibile.

Les amours imaginaires: conclusioni

Les amours imaginaires pone l’inevitabile riflessione sul significato dell’amore immaginario, frutto dell’infatuazione nel quale l’oggetto del desiderio non è conosciuto e apprezzato in quanto tale, ma ammirato per la sua ambivalenza. Da questa vicenda tragicomica si possono trarre alcuni interessanti spunti, come l’importanza di distinguere i segnali ambigui, spesso mal interpretati, da quelli chiari, l’interesse per la persona da quello per il tipo di relazione, e infine l’ossessione per l’apparenza dal desiderio di scoprire una conoscenza intima. Necessaria è la riflessione sulle dinamiche intrapsichiche che ostacolano un rapporto soddisfacente e approfondito al fine di interrompere il circolo vizioso degli innamoramenti fittizi, dove l’immaginazione si sostituisce alla realtà. Senza una sana autocritica e una buona riflessione sulle motivazioni inconsce che portano a prediligere un tipo di rapporto all’altro, i meccanismi tenderanno a ripetersi continuamente impedendo l’apprendimento dall’esperienza che agevola il raggiungimento del benessere individuale e di coppia.

Il modello psicodinamico dell’anoressia

Modello psicodinamico della anoressia: Non si può veramente comprendere la psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione senza leggere l’opera della psicoanalista Hilde Bruch, una fra le prime a sistematizzare un modello teorico di questi tipo di disturbi. Va detto, però, che uno dei meriti della Bruch fu proprio quello di costruire un modello meno attento alle pulsioni e più capace di descrivere gli stati mentali consapevoli dei disturbi alimentari. Non è un caso che le idee migliori nascano in un luogo di confine tra psicoanalisi e cognitivismo.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Il modello psicodinamico della anoressia (Nr. 24)

Il modello psicodinamico della anoressia

L’approccio psicoanalitico (o psicodinamico) attribuisce particolare importanza alle esperienze infantili, come le fasi psicosessuali, agli impulsi repressi e ai conflitti irrisolti nell’inconscio. Secondo questo approccio, l’anoressia e la bulimia, e più in generale i disturbi dell’alimentazione, sono considerati espressione sintomatica di un conflitto interno o di una struttura mentale non del tutto completa e riflettono una serie di problematiche relative al proprio Sé. La prima teoria psicodinamica sull’anoressia nervosa fa riferimento al conflitto pulsione di cui parla Freud. Questa viene considerata una difesa messa in atto nei confronti delle fantasie sessuali orali. Il rifiuto del cibo deve essere interpretato come una difesa messa in atto nei confronti di fantasie sadiche e ambivalenti esperite nei confronti della madre (Szurek, 1951; Masserman, 1941).

La teoria psicoanalitica di Selvini Palazzoli

Selvini Palazzoli (1981) nella sua prima elaborazione psicodinamica ha proposto che l’anoressia derivi da un problema inerente alla fase orale non risolta, il quale impedisce la separazione-individuazione del soggetto. Le fantasie anoressiche riguardano l’ingestione orale di una serie di oggetti riferiti alla parte cattiva della madre, e proiettati sul corpo dell’anoressica. L’identità di questo corpo corrisponde all’identificazione di se stessa con la madre. La fame di sé è, dunque, il tentativo dell’adolescente di porre fine alla femminilizzazione del proprio corpo e di ridurre al minimo l’identificazione confusa e ambivalente con la madre. Quindi, il comportamento delle anoressiche deriva da queste rappresentazioni mentali distorte del proprio corpo, di se stesse e dell’oggetto materno.

Il modello dell’anoressia secondo Melanie Klein

Melanie Klein (1952) riconduce l’anoressia al mancato superamento della posizione schizoparanoide, che rappresenta una fase dello sviluppo adulto, durante la quale il seno materno è dissociato nel seno presente, buono, e in quello assente, cattivo. Hilde Bruch (1973) contempera concetti dinamici e cognitivi, giungendo alla conclusione che i vari sintomi vanno reinterpretati come manifestazioni di disturbi nel campo percettivo e concettuale (in particolare l’incapacità di riconoscere la fame e le altre sensazioni fisiche, che si associa alla scarsa consapevolezza del proprio corpo).

L’origine dei disturbi dipenderebbe da un disconoscimento dei bisogni del proprio corpo e da un disturbo della percezione dell’immagine corporea. In linea di massima, si associa la presenza di un Sé deficitario, con la paura di essere vuoti o malvagi interiormente. Attraverso il controllo del peso l’anoressia proclama la propria autonomia: a una confusione emozionale si sostituisce una certezza corporea. Nemiah (1950) individua una serie di fattori ambientali che potrebbero indurre l’anoressia: madre iperprotettiva ed eccessiva dipendenza e passività. Assumere cibo significa riconoscere la propria dipendenza nei confronti della madre e ammettere l’incapacità di essere autonomi. L’anoressia rappresenterebbe un arresto dello sviluppo maturativo riguardante i processi di separazione/individuazione delle relazioni oggettuali.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Conosciamoci: i nuovi webinars dell’Ordine Psicologi Lombardia in arrivo – Da Settembre a Dicembre 2016

Anche questo autunno OPL torna con il progetto webinar: seminari trasmessi online che permettono a tutti i colleghi di partecipare direttamente da casa e in un orario che interferisca il meno possibile con il lavoro.

 

Il tema che collegherà tutti gli eventi da settembre a dicembre sarà la presentazione di casi clinici da parte di affermati protagonisti della psicologia e psicoterapia italiana; spesso infatti psicologi e psicoterapeuti hanno solo un’idea vaga di quel che succede negli studi dei professionisti di orientamento differente dal proprio. Questo ciclo di seminari ha dunque lo scopo di permettere a tutti di “sbirciare” nello studio di terapeuti considerati punti di riferimento in uno specifico orientamento per allargare la comprensione delle scelte diagnostiche, di setting e d’intervento che ciascuno di loro fa in coerenza con la propria impostazione teorica.

In questo modo OPL cerca di venire incontro all’esigenza di molti colleghi di rimanere informati sugli sviluppi della clinica e spera di dare spunti interessanti a tutti gli psicologi che volessero diventare psicoterapeuti ma fossero in dubbio sugli indirizzi verso i quali orientarsi.

Il calendario da Settembre a Dicembre è così composto:

TABELLA_I nuovi webinars dell'Ordine Psicologi Lombardia in arrivo - Da Settembre a Dicembre 2016

 

Giovedì 15 Settembre 2016, ore 20:30

Nardone - I nuovi webinars dell'Ordine Psicologi Lombardia in arrivo - Da Settembre a Dicembre 2016

Giorgio Nardone

Centro di Terapia Breve Strategica

 

Il Prof. Nardone presenterà un caso di disturbo ossessivo compulsivo.

Il disturbo ossessivo compulsivo rappresenta la casistica più difficile, per la sua evidente “tirannia dell’assurdo“, tanto che la maggioranza dei colleghi evita di trattare certi casi inviandoli dallo psichiatra, il quale a sua volta si trova incapace di risolvere il disturbo e imbottisce di farmaci il paziente (usualmente il cocktail di antidepressivi, ansiolitici e antipsicotici)

Il caso presentato sarà un esempio di come trattare questa severa patologia in maniera rapida ed effettiva, mediante un modello di terapia costruito “ad hoc” che rappresenta il best practice nel campo.

Giorgio Nardone: fondatore, insieme a Paul Watzlawick del Centro di Terapia Strategica di Arezzo (CTS), ove svolge la sua attività di psicologo-psicoterapeuta, didatta e coach. Considerato l’esponente di maggior spicco della Scuola di Palo Alto, conosciuto tanto per la sua creatività quanto per il suo rigore metodologico, che gli ha permesso di creare decine di tecniche innovative e protocolli specifici di trattamento alcuni dei quali veri e propri best practice, come il caso della terapia degli attacchi di panico, del disturbo ossessivo compulsivo e delle fobie, della anoressia della bulimia-vomiting, del binge eating etc.

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Martedì 20 Settembre 2016, ore 20:30

SASSAROLI - I nuovi webinars dell'Ordine Psicologi Lombardia in arrivo - Da Settembre a Dicembre 2016

Sandra Sassaroli

Studi Cognitivi

 

La Prof.ssa Sassaroli presenterà il caso di una donna, attualmente in trattamento, entrata in terapia dopo un episodio di tentato suicidio ed estremamente impegnata nel piacere alla terapeuta tanto da nasconderle alcuni problemi. Verranno illustrati i risultati dei test somministrati, il contesto familiare di provenienza e le scelte d’intervento terapeutico.

Sandra Sassaroli: psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale. Direttore della scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva “Studi Cognitivi” con sedi a Milano, San Benedetto del Tronto e Modena. Responsabile del Coordinamento gruppi di ricerca e Socio Didatta nell’ambito della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC). Si è formata in psicoterapia sistemica nel 1977 con il Prof. Carl Whitaker (Madison, Wisconsin – USA) e in psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale dal 1983 con il dott. Vittorio F. Guidano. E’ autrice di numerosi libri e di articoli pubblicati su riviste peer reviewed.

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Giovedì 06 Ottobre 2016, ore 20:30

COIN- I nuovi webinars dell'Ordine Psicologi Lombardia in arrivo - Da Settembre a Dicembre 2016

Romina Coin

SIPRe

 

La Dott.ssa Coin presenterà il  caso di una coppia sulla cinquantina che ha deciso di separasi a seguito della scoperta di un tradimento e della convinzione di non amarsi più. Il caso, abbastanza tipico nella casistica delle coppie, verrà utilizzato anche per riflettere  sui molti impliciti che informano l’operare terapeutico.

Romina Coin: Romina Coin è psicologa, psicoterapeuta, psicoanalista della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione (SIPRe). Direttrice della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della SIPRe di Milano, docente di Psicoanalisi della Relazione e Etica della psicoterapia, analista di training e supervisore. Fa parte della direzione dell’Area Progetto Coppia e da un decennio svolge attività di docenza nell’ambito della formazione all’intervento di coppia. Svolge attività clinica privata, di formazione e supervisione presso comunità e servizi territoriali. Si occupa di tematiche inerenti l’etica e l’epistemologia in psicoanalisi. Su questi argomenti ha pubblicato diversi articoli e, con E. Gius, il volume I dilemmi dello psicoterapeuta. Il soggetto tra norme e valori (Cortina, Milano, 1999).

Anche sullo specifico dell’intervento di coppia annovera diverse pubblicazioni, tra cui, con M. Minolli, il volume Amarsi, Amando(Borla, Roma, 2007).

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Martedì 18 Ottobre 2016, ore 20:30

Telfener - I nuovi webinars dell'Ordine Psicologi Lombardia in arrivo - Da Settembre a Dicembre 2016

Umberta Telfner

Didatta Sistemico- Relazionale

 

Diagnosi: maniaco-depressività, disturbo schizoaffettivo, psicosi. Il paziente ha già intrapreso delle psicoterapie sia individualmente che nel setting familiare e la prima fase del trattamento con la Dott.ssa Telfener coinvolge un farmacologo dell’Ospedale e una farmacologa privata di riferimento.

La terapia è ancora in corso e i risultati sono estremamente positivi.

Umberta Telfner: Umberta Telfener vive e lavora a Roma. Conduce supervisioni in diverse Strutture Pubbliche italiane nell’ ambito della salute mentale e tiene seminari nel settore pubblico e privato. É  psicologa clinica e della salute – laureata sia in Filosofia che in Psicologia – e insegna alla Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”(dal 1998). Si é formata alla Philadelphia Child Guidance Clinic e all’Akerman Institute di New York ed ha lavorato in un Centro di Salute Mentale per 10 anni. Umberta Telfener lavora come libera professionista dal 1979.

Ha curato, oltre a numerosi articoli su riviste italiane e internazionali, i volumi Ammalarsi di psicoterapia, Franco Angeli (con Marco Bianciardi, 1998) e per i tipi della Bollati Boringhieri: Dall’individuo al sistema (1991), Sistemica, Voci e percorsi nella complessità (2003) e Ricorsività in psicoterapia (con Marco Bianciardi) (2015). Con l’editore Cortina ha pubblicato Apprendere i contesti, strategie per inserirsi in nuovi ambiti di lavoro (2011). Rispetto all’ interesse per le relazioni amorose e di coppia, nel 2006 è uscito il libro Ho sposato un narciso per i tipi di Castelvecchi e nel 2007 per la stessa casa editrice Le forme dell’addio Effetti collaterali dell’amore, nel 2014 La manutenzione dell’amore e per Magi editore (2011) Gli amori briciola. Umberta Telfener tiene una rubrica sulla testata on-line del Corriere della Sera.

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Mercoledì 09 Novembre 2016, ore 20:30

Fernandez - I nuovi webinars dell'Ordine Psicologi Lombardia in arrivo - Da Settembre a Dicembre 2016

Isabel Fernandez

EMDR Italia

 

La Dott.ssa Fernandez presenterà in modo articolato il piano terapeutico di un caso di disturbo borderline di personalità trattato con EMDR in tutte le sue fasi.

L’EMDR ha dimostrato di essere una terapia efficace nel trattamento del PTSD cronico e dei ricordi traumatici che sono alla base di molti disturbi mentali. L’obiettivo del trattamento EMDR è quello di affrontare gli aspetti del passato, presente e futuro in relazione ad eventi traumatici, al fine di elaborarli. Una volta desensibilizzati e rielaborati, i sintomi postraumatici mostrano una remissione significativa. Inoltre, i pazienti riportano cambiamenti comportamentali e una crescita postraumatica. L’applicazione del trattamento EMDR a individui che sono stati esposti a trascuratezza infantile e traumi interpersonali come nei casi di disturbi borderline, risulta ad oggi un’area molto promettente.

Isabel Fernandez: docente in varie scuole di Psicoterapia e in vari corsi di specializzazione in psicologia dell’emergenza, in psicologia clinica e delle organizzazioni. Presidente Associazione per l’EMDR in Italia e docente corsi EMDR. Membro del Consiglio Direttivo FISSP (Federazione Italiana Società Scientifiche di Psicologia) e dell’European Society for Traumatic Stress studies. Autrice di varie pubblicazioni in riviste scientifiche e di libri sul Trauma e sull’EMDR. Direttrice del Centro Ricerca e Studi in Psicotraumatologia, dove si occupa dello studio, l’insegnamento, la ricerca e l’intervento sui problemi legati alla psicotraumatologia e altri disturbi mentali. Membro dello Standing Committee Crisis, Trauma and Disaster dell’European Federation of Psychologists Association. Delegata nazionale al Consiglio d’Europa per gli interventi di supporto psicologico in caso di disastri collettivi.

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Martedì 15 Novembre 2016, ore 20:30

Scognamiglio - I nuovi webinars dell'Ordine Psicologi Lombardia in arrivo - Da Settembre a Dicembre 2016

Riccardo Scognamiglio

Istituto Psicosomatica Integrata

 

Riccardo Marco Scognamiglio: psicologo, psicoterapeuta e psicosomatologo, specialista in Psicologia Sociale e Psicologia Clinica, esperto in Psicologia della salute e Psicologia del Benessere, membro dell’International College of Psychosomatic Medicine (ICPM) e della Society for Psychoterapy Research (SPR). È direttore scientifico dell’ Istituto di Psicosomatica Integrata e fondatore della rivista Psicologia Psicosomatica.

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Giovedì 01 Dicembre 2016, ore 20:30

Ugazio - I nuovi webinars dell'Ordine Psicologi Lombardia in arrivo - Da Settembre a Dicembre 2016

Valeria Ugazio

E. I. S. T.

Valeria Ugazio: è psicoterapeuta. Svolge la propria attività terapeutica e formativa a Milano dove dirige l’European Institute of Systemic-relational Therapies, che ha fondato nel 1999. È inoltre professore ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Bergamo. Le dinamiche familiari sono al centro dei suoi interessi. La teoria delle polarità semantiche familiari e i modelli di interpretazione dei disturbi fobici, ossessivi, alimentari e dell’umore che Ugazio ha elaborato si basano sulla premessa che anche gli aspetti più soggettivi dell’esperienza individuale siano costruiti nel dialogo.

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Martedì 13 Dicembre 2016, ore 20:30

Bonfiglio Senise - i nuovi webinars dell ordine psicologi lombardia in arrivo -da settembre a dicembre 2016

Simonetta Bonfiglio Senise

S. P. I.

Simonetta Bonfiglio Senise: Psicologa,psicoterapeuta,psicoanalista  membro ordinarioSPI. Esperta qualificata IPA nell’analisi  dei bambini e degli adolescenti. Affianca da molti anni all’attività clinica di analista con adulti, adolescenti, coppie e genitori, quella di consultazione e ricerca, lavorando in particolare sulle tematiche del corpo in adolescenza, sulla genitorialità e sulla sofferenza dei legami familiari. Docente presso la Scuola di Psicoterapia analitica A.S.N.E.A.  di Monza e presso l’ I.I.P.G. (Istituto  Italiani di Psicoanalisi di Gruppo). Collabora come docente a contratto con l’Istituto Neurologico “Mondino” dell’Università di Pavia e  con la facoltà di Neuropsichiatria Infantile , dove svolge seminari ,  progetti di ricerca e attività  didattica  su metodiche di trattamento negli adolescenti. Ha svolto lavoro di supervisione e seminari clinici presso numerose istituzioni pubbliche della  Regione Lombardia (Neuropsichiatria Infantile, Aziende Ospedaliere). E’ stata Responsabile del Servizio Clinico di Consultazione del Centro Milanese di Psicoanalisi e  Referente  del Centro per l’analisi del bambino e dell’adolescente. Ha partecipato a numerosi Convegni e pubblicato su varie riviste su temi relativi alla psicoanalisi  dell’infanzia e dell’adolescenza, sulla genitorialità e sulla consultazione.

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L’alleanza terapeutica come sincronia fra psicoterapeuta e paziente

La seduta terapeutica è il luogo dove due alterità sintonizzano i loro esseri, che si esprimono con il linguaggio verbale e metaverbale, con i pensieri e con la fisiologia del corpo. Questa sincronia fra terapeuta e paziente diviene lo strumento che crea l’alleanza terapeutica.

 

 

Abstract

Partendo dallo studio di Koole, della Libera Università di Amsterdam, e di Tschacher, dell’Università di Berna, è analizzata la natura dell’alleanza terapeutica, che si crea fra terapeuta e paziente nel corso della psicoterapia, e gli elementi che concorrono a formarla. La seduta terapeutica è il luogo dove due alterità sintonizzano i loro esseri, che si esprimono con il linguaggio verbale e metaverbale, con i pensieri e con la fisiologia del corpo. Questa sincronia fra terapeuta e paziente diviene lo strumento che crea l’alleanza terapeutica, fondamentale in ogni percorso di psicoterapia.

 

Alleanza terapeutica: lo studio di Koole e Tschacher

Uno studio di Koole, della Libera Università di Amsterdam, e di Tschacher, dell’Università di Berna, analizza la natura dell’alleanza terapeutica, che si crea fra terapeuta e paziente nel corso della psicoterapia, e gli elementi che concorrono a formarla. La ricerca parte da un assunto di base, ovvero che terapeuta e paziente, nel corso della seduta, tendono a sincronizzare i loro linguaggi extraverbali (prosodia, movimenti corporei ecc.). Questa sintonia si crea anche fra la mente del terapeuta e quella del paziente.

In altre parole, la seduta terapeutica diviene il luogo dove due alterità sintonizzano i loro esseri, che si esprimono con il linguaggio verbale e metaverbale, con i pensieri e con la fisiologia del corpo. Più questa sintonia è completa e più la seduta diventa proficua, in quanto terapeuta e paziente raggiungono quella unisonia che permette a quest’ultimo di cambiare e di regolare le proprie emozioni.

Fin dai suoi esordi, la psicoterapia è stata considerata e definita come cura del parlare, dando in questa maniera una supremazia ideologica al linguaggio verbale nell’ambito del processo terapeutico (Koole e Tschacher, 2016). Dimenticando, così, che la psicoterapia è anche il luogo dove due corporeità si parlano in un codice simbolico che trascende il mero scambio di parole.

Diverse ricerche hanno analizzato lo scambio simbolico che si verifica fra terapeuta e paziente su paradigmi differenti rispetto al codice linguistico. La finalità di questo scambio è proprio la creazione di una sintonia fra curante e curato. Imel e coll. (2014), citati in Koole e Tschacher (op. cit.), hanno analizzato la sintonia che si crea fra la prosodia del terapeuta e quella del paziente. Ramseyer e Tschacher (2014) hanno evidenziato la sincronia di movimento corporeo che si determina fra curante e curato. Questa sintonia, che origina su più fronti, ha una sua ragione d’essere.

In altri termini, la sincronia gioca un ruolo importante nell’instaurarsi del rapporto terapeutico (Vacharkulksemsuk e Fredrickson, 2012, citati in Koole e Tschacher, op. cit.), nel cambio di prospettiva cognitiva del paziente (Wheatley, Kang, Parkinson e Looser, 2015, citati in Koole e Tschacher, op. cit.), nella regolazione dell’adattamento emotivo del curato alla realtà. Tutto questo fra propendere per una notevole importanza della sincronia fra terapeuta e paziente, che diviene uno strumento che crea l’alleanza terapeutica, fondamentale in ogni percorso di psicoterapia.

Lo “switch” cerebrale: il cervello che si salva da solo

Nel seguente articolo si riporta la storia eccezionale di un ragazzo bilingue, Alessandro Razvan Coviti, di origini rumene e residente in Italia da quando aveva sette anni, che perse l’uso della parola nel 2009 a seguito di un trauma cranico causato da un incidente stradale. 

La ricerca e l’esperienza di Alessandro

I ricercatori italiani, dell’Università di Udine, hanno scoperto che il cervello riesce da solo a compensare le mancanze di un emisfero attraverso un vero e proprio switch cerebrale.

La ricerca è stata dettagliatamente descritta sulla rivista Brain and Language (Marini A., Galetto V. Tatu K., Duca S., Geminiani G., Sacco K., Zettin M., 2016) dal titolo “Recovering two languages with the right hempisphere” ed è stata eseguita dalla già nominata Università di Udine e dal “Centro per il recupero cognitivo Puzzle”.
Nel dettaglio, il ragazzo nel 2009 a causa di questo incidente, dopo un mese di coma, si svegliò afasico, quindi perse l’uso della parola e dell’emisfero sinistro del cervello, nonché ebbe gravi difficoltà cognitive e motorie.

Dal 2011 al 2016 è stato sottoposto ad un programma di riabilitazione sperimentale attraverso il quale gli è stato possibile recuperare l’uso della parola.
[blockquote style=”1″]Nello specifico si è analizzato con successo il totale trasferimento delle informazioni dall’emisfero sinistro a quello destro in seguito a un forte trauma cranico che ha provocato il completo spegnimento del primo.[/blockquote] (Rizzo C., 2016).

L’aspetto incredibile di questa vicenda è che, nonostante la riabilitazione su cui i medici hanno lavorato riguardasse solo il recupero della lingua italiana, Alessandro ha recuperato anche l’uso della lingua rumena, dunque si è di fronte ad un recupero parallelo. I medici hanno in aggiunta osservato che per entrambe le lingue veniva utilizzata la stessa area dell’emisfero destro.

La riabilitazione sperimentale consiste nel sottoporre il ragazzo, dice Marini: [blockquote style=”1″]per tre giorni a settimana, dalle 9 am alle 5 pm, in un percorso riabilitativo consistente in un vero e proprio bombardamento di informazioni […]. A distanza di cinque anni dall’incidente il suo quadro afasico era diventato lieve, risultato davvero sorprendente in quanto l’emisfero sinistro del suo cervello non era attivo.[/blockquote] (Rizzo C., 2016).

Per verificare l’ipotesi che il responsabile del recupero parallelo delle due lingue fosse l’emisfero destro, è stata eseguita una risonanza magnetica funzionale per vedere così quali aree del cervello si attivassero a seguito di determinati stimoli e si notò così che c’era stato un trasferimento di informazioni dall’emisfero sinistro – quello danneggiato – all’emisfero destro – quello sano.
La conseguenza di questa riabilitazione è che ora [blockquote style=”1″]il ragazzo ha 26 anni, è ancora lievemente afasico, però parla, cammina servendosi di un bastone e non necessita di una sedia a rotelle.[/blockquote] (Rizzo C., 2016).

Conclusioni

Questo caso ha dimostrato che l’emisfero destro svolge un ruolo importante, sennonché attivo, nel recupero della lingua in pazienti afasici, un vero e proprio “switch”.
È un caso che mette in evidenza come il nostro cervello abbia un’elevata capacità di riorganizzazione e grazie alla sua plasticità cerebrale può utilizzare i collegamenti cerebrali in modo vicariante.

Questo studio apre inoltre a nuove possibilità di riabilitazione per il recupero del linguaggio anche in altri casi di lesioni, come gli ictus.
Non va inoltre dimenticato, che questo caso offre speranze nel campo della sperimentazione della prevenzione di malattie neurodegenerative cercando di – come dice Rossini – direttore dell’Istituto di Neurologia dell’Università Cattolica di Roma: «intercettare i malati prima che il cervello esaurisca le sue riserve e che, quindi, la patologia si manifesti con i sintomi: la speranza, di conseguenza, è di aiutare i pazienti a bloccare oppure a rallentare il processo neurodegenerativo con i farmaci e con la riabilitazione.» (Arcovio V., 2016).

Autostima e contesti culturali: come varia la valutazione di sè da una cultura all’altra

Autostima: Come la maggior parte degli altri aspetti del sé, le distorsioni di sopravvalutazione del sé operano in maniera alquanto diversa nelle varie culture. Benché la ricerca di un coerente senso di sé sia comune a tutte le culture, gli studi di Hazel Markus e Shinobu Kitayama (1991) hanno rivelato che a diverse culture corrispondono diversi modi di intendere il sé.

 

Autostima: come operiamo nel valutare noi stessi

L’autostima buona può essere un valido aiuto che ci protegge contro lo stress e le minacce al sé. In questo senso una buona valutazione di noi stessi non è solo una bussola per sapere dove orientarci (ruoli da intraprendere, mete congeniali o meno da perseguire ecc …); ma ha anche un valore protettivo tout court, ovvero ha un significato per il benessere individuale. Infatti molte ricerche sono concordi con il fatto che possedere una buona stima di se stessi è associata a sentimenti positivi e ad un minor rischio di depressione (Campbell, Chew e Scratchley).

Molti eventi rilevanti per l’economia del sé non sono né intrinsecamente positivi né negativi, ma sono interpretati e valutati. Spesso, nonostante il valore che un’accurata stima di noi stessi ha per muoverci nel mondo sociale, operiamo quello che Kunda (1990) chiama distorsioni da sopravvalutazione del sé, ovvero tendenze a raccogliere e interpretare le informazioni concernenti il sé in modo da produrre valutazioni eccessivamente positive. Innanzitutto preferiamo evitare situazioni in cui possiamo fallire e scegliere quelle in cui possiamo brillare, le nostre scelte sono il risultato di ambiti che ci consentono di esprimerci al meglio.

In secondo luogo, se possiamo, evitiamo situazioni di confronto con persone che sono più brave di noi e tendiamo a operare confronti al ribasso, ovvero comparazioni con situazioni o persone a cui diamo una valutazione inferiore alla nostra.

Infine, esiste una differenza tra le informazioni sui noi stessi che sono accessibili alla mente: in generale le persone tendono a ricordare le esperienze positive, di modo che queste diventino cronicamente più accessibili e questo fa sì che non sempre le idee negative su noi stessi siano costantemente pronte alla mente a meno di un esercizio cronico di autoanalisi.

 

L’autostima nelle varie culture

Come la maggior parte degli altri aspetti del sé, le distorsioni di sopravvalutazione del sé operano in maniera alquanto diversa nelle varie culture. Benché la ricerca di un coerente senso di sé sia comune a tutte le culture, gli studi di Hazel Markus e Shinobu Kitayama (1991) hanno rivelato che a diverse culture corrispondono diversi modi di intendere il sé.

In generale si parla di culture indipendenti e interdipendenti. Le prime sono generalmente identificate con le moderne culture occidentali, in esse l’accento è posto sull’individuo come unico e separato dal contesto sociale, le persone caratterizzano la propria individualità mediante tratti rappresentati da parole come onesto, responsabile, estroverso. Per contro nelle culture come il Giappone, l’accento viene posto sui rapporti con gli altri, le persone si descrivono mediante le appartenenze sociali e il nucleo di sé viene descritto dai rapporti del singolo con le persone a lui significative.

Dati provenienti dalle culture asiatiche interdipendenti evidenziano affascinanti differenze rispetto ai modelli diffusi nel Nord America e nell’Europa occidentale. Kitayama e colleghi (Kitayama, Markus, Matsumoto e Norasakkunkit, 1997) osservano che, mentre tra gli americani la sopravvalutazione del sé è comune, giapponesi e altri popoli asiatici sono meno inclini a questa distorsione. Secondo Kitayama e colleghi questo non sarebbe a causa di una individualità asiatica meno sana, tutt’altro. Il fatto che le persone asiatiche siano più sensibili ad integrare informazioni negative e feedback di fallimenti nel sé sarebbe il risultato della loro cultura. In nord America gli attributi e i valori personali sono la determinante maggiore del valore percepito del sé, e così è naturale che si creino sopravvalutazioni dei propri attributi personali. Nelle culture orientali, per contro, l’autostima personale dipende maggiormente dagli attributi sociali, il valore del sé non è misurato tanto da attributi personali, quanto dalla capacità di adeguarsi alle aspettative e alle caratteristiche dei gruppi a cui le persone appartengono. Per gli studenti giapponesi, per esempio, è normale a fine giornata riunirsi per discutere sui motivi per i quali non si è riusciti al fine di migliorare le prestazioni degli individui e arrivare agli obiettivi che il gruppo si è prefissato.

L’autostima, come anche tutti gli altri aspetti del sé, non si formano in un vacuum, ma sono fondati su significati culturali, e socialmente appresi.
A partire dagli anni ottanta si cominciato a riflettere sul fatto che molte delle ricerche sulla centralità dell’autostima per il benessere umano fossero condotte in America del Nord, con partecipanti nordamericani e da ricercatori nordamericani, per questo motivo sono fioriti degli studi in cui si è valutata la costruzione del sé come un processo connotato culturalmente, anche confrontandolo con altri Paesi rispetto a quelli occidentali.

Inoltre, a partire dagli anni novanta, la cultura nordamericana è stata “invasa” da produzioni culturali che decantano l’urgenza e l’utilità di godere di una buona autostima. Questo argomento è rilevante sia in ambienti accademici (c’è una grossa mole di lavori scientifici sull’autostima), sia tra la gente comune, attraverso la presenza di programmi televisivi e pamphlets su come aumentare la propria autostima.

In diversi studi si è vista una ampia correlazione tra individualismo e autostima, come se questa fosse dipendente e basata sulla concezione di sé che l’individuo ha come agente autonomo e portatore di pensieri e istanze personali.

In un articolo del 1999 Heine e colleghi (Heine, Lehman, Markus e Kitayama) discutono in modo ampio e articolato sulla questione dell’autostima come costrutto culturale ed ecologicamente orientato, e se essa sia un bisogno universale o meno.

All’inizio dell’articolo gli autori descrivono alcune delle caratteristiche sociologiche e psicologiche del Giappone, come per esempio una tendenza mirata all’autocritica (hansei), una sforzo pervasivo nell’auto-miglioramento e una rilevanza forte del giudizio altrui sulle proprie auto-percezioni. Queste sono le premesse per discutere del perché negli studi, seppur condotti con metodi diversi, l’autostima dei giapponesi si attesti su valori moderati e tenda ad una distribuzione normale, mentre le misurazioni dell’autostima degli statunitensi mostrino una tendenza fortemente distorta verso valori elevati di autostima.

Gli autori dell’articolo illustrato concludono che l’autostima intesa nelle produzioni scientifiche è un costrutto che risente della mentalità occidentale, ma che, il bisogno di conservare una buona valutazione di sé come esseri competenti è in qualche modo una tendenza universale, che si declina nei modi specifici che le varie culture prescrivono.
Per esempio l’autostima per i giapponesi ha una connotazione più relazionale che personale, ovvero è imprescindibilmente intessuta dalle relazioni che l’individuo vive (i giapponesi sovrastimano le caratteristiche dei propri amici, ed è l’unico bias trovato negli studi sull’autostima in questa cultura). Inoltre per la cultura del sol levante è di fondamentale pregnanza il mantenere una solida reputazione, ovvero conforme con le norme che la società dà; in questo senso può essere più importante per i giapponesi attenersi alle cornici di riferimento degli altri significativi piuttosto che riferirsi ad attributi e valori personali (cornici di riferimento esterne vs interne).

Disturbo specifico della compitazione – Introduzione alla Psicologia

Il disturbo specifico della compitazione consiste essenzialmente nella difficoltà a suddividere le parole in sillabe e, solitamente, è associato a problemi di disgrafia e discalculia.

 

Disturbo specifico della compitazione: introduzione

Il Disturbo specifico della compitazione rientra nella categoria dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), che possiedono una loro peculiarità ovvero essere esclusivi per una determinata abilità, equivale a dire che il disturbo presentato è circoscritto e localizzato, lasciando intatto il funzionamento intellettivo generale. Il particolare deficit presentato a carico di un’ abilità specifica si manifesta solo se è rispettato il criterio della discrepanza: si verifica una difformità tra l’abilità nel dominio interessato, che deve essere deficitaria in rapporto alle attese per l’età e/o la classe frequentata, e l’intelligenza generale proporzionata per l’età cronologica.

Secondo l’OMS i Disturbi Specifici dell’Apprendimento non sono dovuti né a una incapacità nell’apprendere, né a una malattia cerebrale acquisita, ma derivano da anomalie nell’elaborazione cognitiva legate in larga misura a qualche tipo di disfunzione biologica (OMS, 1992).

Nell’ICD-10, noto manuale diagnostico complementare al più diffuso DSM, i Disturbi Specifici dell’Apprendimento si dividono in:

  • Disturbi evolutivi specifici dell’eloquio e del linguaggio;
  • Disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche;
  • Disturbo evolutivo specifico della funzione motoria

Tra i Disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche troviamo:

  • Disturbo specifico di lettura
  • Disturbo specifico della compitazione
  • Disturbo specifico delle abilità aritmetiche
  • Disturbi misti delle abilità scolastiche
  • Altri disturbi evolutivi delle abilità scolastiche
  • Disturbi evolutivi delle abilità scolastiche non specificati

Durante le scorse settimane si è parlato di molti dei disturbi elencati (disgrafia, dislessia, disortografia, discalculia), oggi ci occuperemo, invece, del disturbo specifico della compitazione.

 

 

Disturbo specifico della compitazione: come riconoscerlo

Il  disturbo specifico della compitazione consiste essenzialmente nella difficoltà a suddividere le parole in sillabe e, solitamente, è associato a problemi di disgrafia e discalculia.

Si tratta di un disturbo specifico e significativo nello sviluppo delle abilità di compitazione in assenza di disturbi legati alla lettura. È un deficit non legato a problemi di vista, ma il bambino che ne è affetto mostra un livello scolastico inadeguato in relazione all’età cronologica e al quoziente intellettivo. Il disturbo specifico della compitazione si manifesta attraverso una incapacità di pronunciare e scrivere correttamente le parole. Questo disturbo si manifesta nel momento in cui il bambino inizia ad approcciarsi alla scrittura e alla lettura di parole o numeri. Quindi, durante il primo anno di scuola primaria chi soffre di disturbo specifico della compitazione manifesta i primi segni.

E’ importante non sottovalutare mai il problema, quando presente, ma affidarsi a un professionista, neuropsichiatra infantile o a uno psicologo, in grado di dare una corretta diagnosi e individuare il miglior percorso da eseguire per migliorare le capacità di apprendimento attraverso un lavoro volto al miglioramento.

 

 

Disturbo specifico della compitazione: di cosa si tratta

Il disturbo specifico della compitazione è un disturbo a base biologica, derivante da deficit a livello di computazione neurologica di una serie di processi implicati nella comunicazione delle informazioni. Si tratta di una serie di anomalie derivate dal percepire ed elaborare con precisione, e in modo efficiente, le informazioni in ingresso e per questo si manifestano delle difficoltà di apprendimento di competenze specifiche come la lettura, la comprensione, l’ortografia e l’espressione scritta, il calcolo aritmetico e il ragionamento matematico. In questo modo si possono manifestare delle difficoltà nell’apprendimento di argomenti più complessi che causano uno scarso rendimento scolastico. Se presenti disturbi derivanti da problemi visivi o uditivi o istruzione scolastica povera o inappropriata non è possibile effettuare diagnosi di DSA.

 

 

Disturbo specifico della compitazione: tipologie

Il disturbo specifico della compitazione è classificato in base alla gravità: si considera lieve se si hanno delle difficoltà di apprendimento che, se supportate da interventi riabilitativi specifici, si manifestano in maniera minima. Se le difficoltà di apprendimento richiedono dei periodi di intensa terapia riabilitativa al fine di ottenere adeguate competenza scolastiche, allora il disturbo è considerato moderato. Quando le difficoltà di apprendimento sono molto esplicite al punto da richiedere un supporto specialistico costante il disturbo è considerato grave.

 

 

Disturbo specifico della compitazione: insorgenza e comorbidità

Il disturbo specifico della compitazione colpisce circa il 5% -15% dei bambini in età scolare e il 4% degli adulti (Margari, Buttiglione, Craig, Cristella, de Giambattista, Matera, Operto, e Simon, 2013; Katusic, Colligan , Weaver, & Barbaresi, 2009).

Il disturbo specifico della compitazione può manifestarsi insieme ad altri disturbi. Uno studio condotto da Margari et al. (2013) ha rivelato che il 33% dei pazienti con disturbo specifico della compitazione mostrano anche segni di disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), il che indica meccanismi biologici di funzionamento comune ai due disturbi in questione. Inoltre, questo studio ha suggerito che altri disturbi, come disturbi d’ansia, disturbi depressivi e disprassia, possono tendere a co-verificarsi con il disturbo della compitazione.

 

Disturbo specifico della compitazione: cause

Mentre le basi biologiche del disturbo specifico della compitazione sono ancora non chiare, sono stati compiuti progressi nella comprensione di alcuni dei meccanismi responsabili dell’insorgenza del disturbo. Ad esempio, i bambini che sono nati pre-termine o con un peso molto basso hanno una maggiore probabilità di manifestare questo deficit (Simms et la., 2013;Taylor, Espy, e Anderson, 2009). Inoltre, le sostanze chimiche come pesticidi, diossine, e altre tossine organici sono associati a difficoltà di apprendimento (Jansen, 2013), e piccolo pezzi di M-RNA non complementari possono avere un impatto negativo sullo sviluppo neurologico del bambino portando a disturbi specifici dell’apprendimento (Kajta & Wójtowicz, 2013).

 

 

Disturbo specifico della compitazione: diagnosi

La diagnosi di disturbo specifico della compitazione può essere effettuata da professionisti specializzati in DSA, come Psicologi o neuropsicologi.

A queste figure va aggiunta quella di un logopedista che possa individuare l’intervento specifico per disturbo specifico. Il processo diagnostico deve essere effettuato attraverso test standardizzati specifici che possano restituire una diagnosi valida e attendibile.

Dopo ave eseguita una corretta diagnosi, i genitori potranno comunicarla alla scuola che predisporrà un Percorso Didattico Personalizzato in grado di stimolare adeguatamente il bambino, attraverso compiti comportamentali accuratamente selezionati, invitandolo a superare le difficoltà riscontrate. Il rischio, anche in questo caso come per gli altri disturbi dell’apprendimento, è sentirsi sempre inadeguati, non all’altezza e indietro  rispetto ai pari e avere di conseguenza delle ripercussioni psicologiche, come ansia, bassa autostima e abbassamento del tono dell’umore. In questo caso è consigliabile un percorso psicologico volto a migliorare lo stato di benessere del bambino.

 

 

Disturbo specifico della compitazione: trattamento

Diversi trattamenti sono disponibili per rimediare ai sintomi in maniera selettiva e puntuale. È consigliato l’uso di specifici software, che si sono dimostrati molto utili per migliorare i deficit della lettura e della comprensione (Saine, Lerkkanen, Ahonen, Tolvanen, e Lyyttinen, 2011). Anche il Neurofeedback, che prevede l’utilizzo di elettroencefalografia per monitorare l’attività del cervello, facilita significativamente la comprensione della lettura (Nazari, Mosanezhad, Hashemi, e Jahan, 2012), oltre ai classici compiti riabilitativi neuropsicologici e comportamentali.

Concludo ricordando che malgrado la psicoterapia tradizionale non affronti direttamente questo disturbo nella sua specificità, riesce a ottenere ottimi risultati e notevoli miglioramenti per disturbi depressivi e disturbi d’ansia che si manifestano spesso come conseguenza dell’impatto che i disturbi specifici dell’apprendimento possono avere sulla vita di un individuo. Di conseguenza, la psicoterapia può essere un importante e indispensabile trattamento adiuvante a migliorare la qualità della vita.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Non essere cattivo: un film “familiare” – Cinema e psicologia

Non essere cattivo: Il film postumo di Claudio Caligari scorre fra due sponde dolorose: da una parte la rievocazione di una generazione ferita da droga e AIDS e dall’altra il vissuto della malattia mortale del regista che tutto questo ha voluto filmare.

Non essere cattivo: introduzione

Si chiude così la sua trilogia di lungometraggi: Amore tossico (1983), L’odore della notte (1998) e quest’ultimo, Non essere cattivo (2015). Ritrattista di tossici, prostitute, travestiti, rapinatori e balordi di ogni specie, ha osato, per certi versi come il terapeuta familiare, esplorare le zone d’ombra di cui tutti gli altri avevano paura. Nei film ci sono anche i figli, le donne, le madri, gli amici di questi “cattivi” che tutti cercano di dimenticare senza riuscirci.
La similitudine, azzardata ma non troppo, sorge spontanea quando, ad una seconda visione (perchè la prima è sacra godersela con uno sguardo incontaminato) si esplorano le dinamiche familiari dei protagonisti. Ma non è quello che qui voglio ripercorrere.

Ciascuno di voi, colleghe e colleghi, può godersi la creazione di un’analisi tutta propria.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

La costruzione di una doppia memoria

Vorrei qui brevemente riflettere sulla costruzione di una doppia memoria.
Il regista è mancato all’età di 67 anni, prima che il suo ultimo film fosse terminato e mandato nel mondo a ricevere candidature, premi mancati, applausi silenziosi e un omaggio commosso da chi, come me, lo ha scoperto tardi. Il suo entourage ha lavorato sapendo che quello sarebbe stato un testamento e che la direzione dei passi fatti era il passato, non il futuro; come quei giorni interminabili di chi sta accanto ad una persona malata, in bilico fra i desideri contrastanti di trattenere e di lasciare andare, in un presente senza tempo dove ogni gesto fatto insieme potrebbe essere l’ultimo.

E poi c’è la memoria che Caligari ha voluto fotografare, quella delle borgate pasoliniane fra Roma e Ostia, fra quello che poteva essere e non è stato, fra chi c’è e chi non c’è più. Rivivono quei temerari sulle macchine volanti tanto cari a Luigi Cancrini, perchè trent’anni sono sufficienti per rielaborare i traumi di una generazione mutilata.
E rivivono anche perchè la storia sembra cambiare ed invece si ripete.

Non essere cattivo: un film sui temi della terapia familiare

Molte delle conquiste della terapia familiare sono dovute ai terapeuti che hanno saputo immergersi nel dolore di quel sottomondo proletario dove la droga la faceva da padrone, anzi, faceva il gioco dei padroni e si sostituiva alle figure paterne e materne, assenti anche a se stesse. Per chi lavora nel campo delle dipendenze, quelle conoscenze sono sempre utili e illuminanti, come le vecchie storielle che i nonni raccontano ai nipoti perchè non vadano perdute e perchè tutta la fatica non sia stata vana. Così per il cinema sarà l’opera di questo maestro, che sui “cattivi” eroi ha voluto un dilemma sempre aperto e mai una condanna fatta e finita. Quando chiesero a Caligari perchè avesse fatto solo tre film in trent’anni, egli rispose che aveva ancora tanto da raccontare ma che il suo intento era farlo senza i codici pubblicitari del cinema commerciale. “Quando sai comunicare, sei pericoloso”, disse.

Come un paziente designato, ma consapevole di esserlo, è riuscito a narrare la verità del sistema familiare e sociale, dando voce alle parti fragili ed impaurite che su di lui i colleghi avevano proiettato.

Il suicidio assisistito per i pazienti che soffrono di patologie psichiatriche

Secondo una dichiarazione del Canadian Medical Association Journal (CMAJ), offrire assistenza medica per morire alla popolazione canadese che soffre di patologie psichiatriche, potrebbe esporre le persone più vulnerabili ad una condizione di rischio.

 

Come dichiara il dottor Scott Kim c’è una grave lacuna tra l’idea che il suicidio assistito per i pazienti con patologie psichiatriche sia sostenuto e quella che poi è la realtà pratica, e questo è decisamente visibile in paesi come il Belgio e l’Olanda. Per tanto una politica che consenta l’accesso al suicidio assistito di pazienti non terminali che soffrono di malattie psichiatriche in Canada, potrebbe mettere a rischio quella parte di popolazione vulnerabile e stigmatizzata.

In Canada si è infatti di recente affrontato tale tema. Lo scenario è stato caratterizzato da un forte dibattito relativamente ad opinioni contrastanti che vanno al di là della semplice legalizzazione del suicidio assistito.

La Corte Suprema del Canada ha stabilito che gli adulti competenti che soffrono di una condizione medica grave e irrimediabile dovrebbero avere la possibilità di accedere al suicidio assistito. Tale richiesta è stata inviata al Parlamento così da poter sviluppare un regime legislativo e regolamentare così da poter avviare tale servizio.

Secondo una delle commissioni parlamentari, oltre ai pazienti che soffrono di patologie organiche dovrebbero avere la possibilità di accedere a questo servizio anche coloro che soffrono di malattie psichiatriche. Ma, secondo la legge canadese Bill C14, approvata sia dal Senato che dalla House of Commons, coloro che soffrono di malattie terminali con eziologia organica, il suicidio assistito è soggetto a limitazioni. Di conseguenza la presente legge escluderebbe la possibilità di ricorrere al suicidio assistito a tutti coloro che soffrono di patologie psichiatriche.

Ma a tal proposito il governo canadese sta affrontando questo scenario con lo scopo di giungere ad una soluzione nei prossimi anni.

Come dichiarano Kim e Lemmens, sono numerose le importanti sfide che bisognerà affrontare per decidere chi potrebbe beneficiare del suicidio assistito tra i diversi pazienti psichiatrici.

Dal Belgio e dall’Olanda giungono prove che mettono in mostra come i medici non siano d’accordo sulla definizione di criteri specifici che consentano o meno la possibilità di usufruire del suicidio assistito da parte dei pazienti psichiatrici.

A tal proposito il maggior dibattito ha toccato coloro che soffrono di depressione molto grave e difficile da trattare, in quanto si tratta di un tema molto delicato. Tuttavia non stabilire dei criteri vorrebbe dire consentire l’accesso a questo servizio a tutti coloro che soffrono di un disturbo psichiatrico tra cui i maggiori sono la Schizofrenia, i disturbi Alimentari, il Distrubo Post-Traumatico da Stress e i Disturbi di Personalità.

Sempre secondo Kim e Lemmens coloro che sostengono l’accesso al suicidio assistito da parte di persone caratterizzate da disturbi psichiatrici, sono disposti a tollerare un numero di morti premature che sarebbero potenzialmente evitabili, opinione a cui non tutta la popolazione potrebbe concordare.

È per tanto necessario, prima di mettere in atto una qualsiasi scelta, affrontare pubblicamente ed esplicitamente l’argomento con un importante dibattito globale.

Le tecniche motivazionali efficaci nell’esecuzione di un compito

Un recente studio, pubblicato sulla famosa rivista Frontiers in Psychology, ha evidenziato come ripetere a se stessi che si può fare meglio, può davvero portare le persone a fare meglio in una determinata prestazione.

 

Lo studio

In concomitanza con la BBC Lab UK, il professor Andrew Lane e i suoi colleghi hanno indagato quali abilità fisiologiche avrebbero potuto aiutare le persone a migliorare i loro punteggi in un gioco online. Per realizzare questa indagine hanno preso parte all’esperimento 44.000 persone proprio con lo scopo di capire quali sono le tecniche motivazionali realmente funzionanti.

Nello specifico l’obiettivo dello studio era quello di individuare la possibile esistenza di un metodo motivazionale efficace per qualsiasi aspetto riguardante un compito da svolgere, e qualora vi fossero state più tecniche motivazionali corrispondenti a questa descrizione, individuare la più efficace in assoluto.

I metodi motivazionali indagati sono stati: il parlare con se stessi (self-talk), l’immaginazione (imagery) e la pianificazione se-allora (if-then planning). Ognuna di queste abilità psicologiche è stata applicata ad una delle quattro fasi che caratterizzano l’esecuzione di un compito: il processo (process), il risultato (outcome), il controllo dell’eccitazione (arousal control) e l’istruzione (instruction).

I risultati

Il risultato principale emerso è che coloro che utilizzano la strategia motivazionale self-talk, come ad esempio ripetere a se stessi “La prossima volta posso fare meglio”, ottengono migliori risultati in qualsiasi fase del compito rispetto al gruppo di controllo.

A livello di associazione tra tecniche motivazionali e fasi del compito, i risultati migliori sono stati ottenuti là dove è stata applicata la self-talk al risultato (es. ripetere a se stessi “Posso battere il mio punteggio migliore”) e al processo (es. ripetere a se stessi “Questa volta sarò in grado di svolgere il compito più velocemente”), e l’imagery al risultato (es. immaginare se stessi giocare e battere il nostro miglior punteggio) e al processo (immaginare se stessi giocare e svolgere il compito più velocemente della volta precedente”).

Gli autori hanno inoltre scoperto che guardare un breve video motivazionale prima di una performance potrebbe migliorare l’esecuzione di questa. Infatti ai partecipanti, prima di giocare online, veniva fatto vedere un breve video a scopo motivazionale. L’allenatore che parlava in questo video era Michael Johnson, quattro volte campione olimpico, noto per aver sostenuto prima di ogni gara non solo una preparazione fisica, ma anche mentale.

Scarsi risultati sono stati ottenuti invece sulla strategia if-then planning, la quale è risultata essere la meno efficace in questo caso. In realtà si tratta di una tecnica che nella vita quotidiana è molto efficace per quel che riguarda la gestione del proprio peso e numerose altre sfide.

Le conclusioni

I risultati ottenuti possono essere di grande aiuto per affrontare al meglio la vita quotidiana, ma questo non è l’unico punto a favore del presente studio. Ciò che maggiormente stupisce è l’elevato numero dei partecipanti, ben 44.000 persone. Generalmente la maggior parte degli studi in ambito psicologico possiede meno di 300 partecipanti. I soggetti sono stati divisi in 12 gruppi sperimentali e un gruppo di controllo, contro gli abituali 2/3 gruppi sperimentali.

Citizen Gay. Affetti e diritti (2016) di V. Lingiardi

A poca distanza dall’approvazione della legge sulle unioni civili, un libro fondamentale sull’omosessualità dal punto di vista psicologico, filosofico, politico.

 

La terza edizione del più ampio ed importante libro dedicato alla condizione omosessuale che sia stato pubblicato in Italia esce a poca distanza dall’approvazione della legge sulle unioni civili. Il Paese, e soprattutto il Parlamento, sono risultati incredibilmente divisi sull’opportunità di un significativo passo avanti verso l’uguaglianza dei diritti delle persone omosessuali rispetto alle altre.  La legge che è stata varata, in ogni caso, è assai meno avanzata rispetto all’originale disegno di legge a firma Cirinnà. La possibilità di rendere legalmente riconosciuta l’unione tra due persone dello stesso sesso è stata condizionata all’impossibilità di un’equiparazione di tale unione a un vero e proprio matrimonio.

Si può affermare, quindi, che il passo avanti compiuto è coinciso con la riproposizione di una serie di pregiudizi, che sono riemersi in una parte significativa del Paese e si sono espressi anche attraverso la maggioranza della sua rappresentanza parlamentare. Se la legge è infatti passata, una parte significativa della maggioranza che l’ha approvata si è esplicitamente espressa contro la possibilità dell’adozione di figli da parte di una coppia gay e contro molte delle caratteristiche che avrebbero reso tale coppia in condizioni paritarie rispetto a una coppia eterosessuale.

Tra le caratteristiche psicologicamente più significative della legge, in questo senso, va considerata la rimozione dell’idea stessa di un legame di natura sessuale. Tra i fattori che vengono considerati motivo sufficiente per rescindere l’unione, infatti, non sono compresi né la fedeltà dei coniugi, né l’integrità della capacità di avere rapporti (che persino la Chiesa considera motivo per il possibile annullamento di un matrimonio religioso).

I pregiudizi contro l’omosessualità sono fortemente legati alla tradizione religiosa cattolica da una parte, a una persistente cultura conservatrice dall’altra (con una sovrapposizione significativa tra le due). Delle due tendenze, occorre dire, quella più resistente e difficile da sradicare è senz’altro la prima. Nel resto del mondo civile, infatti, gli esempi di politici conservatori che sono stati persino attivi promotori di leggi sulle unioni civili e sul matrimonio omosessuale sono assai numerosi.

Tra i più significativi esempi citati da Lingiardi va annoverato certamente il premier britannico Cameron. Questi si dichiarava a favore del matrimonio tra omosessuali “non malgrado l’essere conservatore, ma proprio in quanto conservatore”, nella convinzione che i propri valori coincidevano di certo con l’estensione di un istituto tradizionale come il matrimonio al numero più alto possibile di cittadini.

Al contrario, invece, la Chiesa si è sempre distinta nel mantenimento di una legislazione attivamente contraria non solo al matrimonio ma anche ai comportamenti omosessuali. A conferma di questo, si può ricordare che, nel 2008, su iniziativa della Francia, all’ONU venne presentato il primo documento che chiedeva la depenalizzazione universale dei reati basati sull’orientamento sessuale e l’identità di genere (puniti in alcuni stati con la pena di morte). Ebbene, il Vaticano fu tra i 58 stati che sostennero il documento di opposizione a quello francese proposto dalla Siria, in compagnia di numerosi paesi a religione islamica. Il rappresentante del Vaticano alle Nazioni Unite ribadì, del resto, nel 2011, la convinzione che “certe tipologie di comportamenti sessuali devono essere vietate per legge” e nulla da allora sembra cambiato. Si potrebbe anzi affermare che certe aperture apparenti possano in fondo risultare più deleterie delle esplicite condanne.

Spesso si cita fuori contesto una frase di Bergoglio (“Chi sono io per giudicare un gay..?”) a dimostrazione di un significativo passo compiuto dalla Chiesa in direzione della tolleranza. In realtà le parole del Papa erano inequivocabili nel chiudere ogni possibile porta. La famosa frase si chiarificava, infatti, condizionando la non-condannabilità alla ricerca di Dio, ovvero, di fatto, alla mancata consumazione del peccato, al senso di colpa per la propria condizione, al tentativo di superarla.

Fortunatamente non è il Cristianesimo in sé a costituire un ostacolo al riconoscimento della condizione di normalità degli omosessuali. Oltre alle ampie aperture da parte degli ambienti protestanti (come di consueto più progressisti di quelli cattolici) non vanno dimenticate le voci autorevoli anche da parte di alcuni prelati italiani, che hanno incrinato il muro di ostilità del Vaticano: i vari don Ciotti, don Gallo e soprattutto la carismatica figura del mai troppo rimpianto Carlo Maria Martini, del quale Lingiardi cita un intervento commovente nella sua limpida lucidità.

La psicologia e la psichiatria hanno, nel mondo, compiuto passi significativi anche se relativamente recenti per superare lo stigma nei confronti dell’omosessualità. Lingiardi ricostruisce la cronologia dei più importanti. Nel 1973, dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali veniva eliminata la voce Omosessualità egosintonica (cioè vissuta positivamente). Nel 1987 dal DSM veniva cassata anche la voce Omosessualità egodistonica, cioè non accettata soggettivamente: si riconosceva infatti che l’egodistonia fosse il risultato dell’interiorizzazione dello stigma sociale.

Nel 1991, per la prima volta l’American Psychoanalytic Association approvava un documento nel quale veniva ufficialmente deplorata ogni forma di discriminazione verso gli omosessuali compresa la possibile mancata selezione come candidato analista. Nel 2005 l’APA prendeva ufficialmente posizione a favore dei matrimoni gay, in nome della tutela della salute mentale di persone da considerare cittadini come tutti gli altri. A questo punto:

L’orientamente sessuale non è più un requisito obbligatorio per stabilire la salute mentale, la maturità personale e la capacità di instaurare relazioni amorose

(Lingiardi, 2016, p. 97)

Soprattutto, però, le scienze psi hanno offerto un contributo assai importante nel rovesciare il principio della normalità e porre degli interrogativi sul significato della resistenza verso l’accettazione della normalità della condizione LGBTQ “(acronimo che accorpa, per comodità, le varie identità lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, bisessuali, queer).  La cosiddetta omofobia è stata oggetto di numerosi studi scientifici, che ne hanno evidenziato un carattere fondamentale (del resto già da tempo ipotizzato in orbita psicoanalitica): la coincidenza del rifiuto dell’omosessualità altrui con il rifiuto (e la paura) di una possibile omosessualità propria.

 

Se si vuole trovare un punto di sintesi per consigliare caldamente la lettura di questo libro, si può affermare che il nostro Paese ha bisogno non solo di passare dall’intolleranza alla tolleranza, ma anche dalla tolleranza alla più attiva accettazione. L’equilibrio psichico di persone che trovano intorno a loro un mondo che non consente di considerarsi normali è oltremodo instabile. Il rischio di interiorizzare lo stigma dell’anormalità è concreto e porta continuamente al rischio ulteriore di non accettare il proprio orientamente sessuale.

Ogni volta che un politico, un prete, o più semplicemente un genitore, pronunciano parole di condanna verso l’omosessualità, un adolescente che forse conosciamo di persona compie un passo su un sentiero molto pericoloso, che può condurre anche al suicidio. Forse è ora di tenerlo presente. Citizen Gay può contribuire a chiarire tanti dubbi e a aiutarci tutti nella comprensione e nella consapevolezza di problemi che non riguardano solo la comunità LGTBQ, ma tutti coloro che sono interessati alla salute mentale del mondo che ci circonda.

The Martian, il sopravvissuto di Ridley Scott (2015) – Cinema & Psicologia

The Martian: L’astronauta Mark Watney inizia a formare gli aspiranti astronauti, facendo tesoro delle proprie esperienze nella soluzione dei problemi. Il film lascia allo spettatore tre indicazioni.

Il film prende spunto dal romanzo L’uomo di Marte di Andy Weir.
Matt Damon interpreta Mark Watney un astronauta che a seguito di una tempesta è erroneamente creduto morto e abbandonato su Marte dagli altri componenti della missione Ares III. Il film racconta la lotta per la sopravvivenza del protagonista in un ambiente ostile da dove tornare sembrerebbe impossibile. Le provviste sono scarse e insufficienti, la successiva missione non potrà raggiungere il pianeta prima di quattro anni.

Mark botanico e ingegnere meccanico riesce a far crescere patate, costruendo un complesso sistema di irrigazione. La Nasa si accorge attraverso segnali che arrivano da un satellite che l’uomo è vivo e inizia a progettare un intervento di recupero. L’imprevisto, però, è presente e ricorrente; costringerà sia gli esperti della Nasa sia il sopravvissuto ad affrontare e risolvere una serie di criticità. Watney viene alla fine salvato in maniera rocambolesca dai compagni astronauti che grazie all’intuito di un matematico nerd e alla collaborazione dell’agenzia spaziale cinese riescono a riportarlo sulla terra.

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The Martian: i messaggi significativi

Una volta tornato, l’astronauta Mark Watney inizia a formare gli aspiranti astronauti, facendo tesoro delle proprie esperienze nella soluzione dei problemi. Il film lascia allo spettatore tre indicazioni. La prima è nelle parole che il protagonista rivolge agli aspiranti astronauti durante la sua prima lezione:

[blockquote style=”1″]L’altra domanda che spesso mi viene fatta è: quando ero lassù abbandonato a me stesso ho pensato che sarei morto? Sì, assolutamente. E dovete sapere che se continuerete potrebbe capitare anche a voi. Questo è lo spazio, non collabora. A un certo punto vi succederà qualcosa di terribile e vi direte ecco è così che morirò. Ora, o accettate che accada o vi date da fare. Le cose stanno così. Dovete cominciare, fate calcoli, risolvete un problema e poi risolvete il successivo e quello dopo. E se ne avrete risolti abbastanza tornerete a casa.[/blockquote]

Un problem solving che impegna nel compito e non impedisce di accettare le criticità, le difficoltà, gli impedimenti che la realtà propone, anche se, come spesso accade nella vita e quasi mai al cinema, non ci sarà un lieto fine.

Il secondo messaggio è che attraverso la cooperazione è possibile trovare soluzioni che sembrano non esserci. La capacità di chiedere e offrire aiuto – senza la collaborazione dell’agenzia spaziale cinese l’impresa non sarebbe riuscita – può favorire la possibilità di individuare e adottare piani funzionali.

Ultima indicazione, ma non certo per importanza, è che la creatività – i calcoli esatti di Rich Purnell, matematico tanto geniale quanto originale del settore astrodinamica consentano all’equipaggio dell’Ares III di invertire la rotta di atterraggio e tornare a riprendere Mark nello spazio – è la spinta essenziale che apre prospettive diverse accrescendo la capacità di fronteggiare situazioni problematiche che apparentemente sembrerebbero irrisolvibili.

La fiaba perfetta. La lettura delle fiabe popolari e il loro uso in una visione psicoanalitica (2016) – Recensione

La fiaba perfetta di Daniela Bruno rappresenta un importante contributo alla comprensione dell’uso delle forme narrative come strumento di elaborazione di tutti gli aspetti dell’esistenza. L’autrice introduce il libro ripercorrendo le tappe che hanno consentito la nascita della fiaba e riconosce le sue radici nel pensiero magico, risorsa creativa usata dall’uomo sin dalla preistoria per spiegarsi la sua finitezza.

Dalle prime forme di aggregazione identitaria e sapienza condensate nel mito, all’attenzione per le gesta dell’uomo e per la religione nella leggenda, fino allo svelamento della funzione educativa della fiaba, la cultura popolare ha da sempre offerto validi strumenti per la transizione attraverso le epoche della vita.

Un viaggio che rivela non poche curiosità nascoste dietro quelle storie d’intrattenimento, che subiscono nel tempo l’influenza di chi le conserva e catturano l’attenzione di grandi e piccini. Nel vasto panorama storico, narrato con estrema abilità di sintesi, si passeggia nel pensiero dei suoi più celebri esponenti Perrault, I Grimm, Propp, Pitrè, Calvino, Gatto Trocchi e gli psicoanalisti Freud, Kaës, Bettelheim.

 

La lettura psicoanalitica della fiaba

Poche righe più in là si è colti da un insight che rende chiara l’esistenza universale di quel bisogno umano ineludibile di narrare e ascoltare storie e del suo perché. Non a caso la riflessione sulla lettura antropologica freudiana della società, ci avvicina a quanto di più ecologico si possa riconoscere alla fiaba, ossia una forza trainante per il superamento della coppia simbiotica madre-bambino e per la maturazione della sessualità. Come rileva l’autrice [blockquote style=”1″]le fiabe sono a favore dello sviluppo, spingono alla trasformazione, alla crescita, non accettano situazioni sclerotizzate, che difendono dalla paura del cambiamento.[/blockquote]

L’emblematico “c’era una volta” introduce la narrazione tranquillizzando chi ascolta che l’evento raccontato non fa parte del nostro tempo e allo stesso tempo suggerisce il privilegio di venirne a conoscenza. Il riferimento al contributo winnicottiano è quanto mai calzante e pone l’accento sull’ascolto, che si libera all’interno di uno spazio condiviso di una relazione e consente la distinzione tra realtà e fantasia.

Il cuore del testo si permea degli elementi cardine della fiaba, i personaggi e i suoi temi e del loro valore nella scelta della narrazione. È comprensibile dunque che essendo la fiaba nata in uno specifico contesto culturale, ne rifletta le sue immediate caratteristiche, rivelando la sua durezza o il suo romanticismo. L’occasione di incontrare il povero, che si riscatta dal suo stato d’indigenza attraverso le fatiche e il coraggio, o la matrigna, strumento per l’elaborazione della separazione non più in chiave persecutoria, ma tollerabile è celata tra le pagine della fiaba che si sceglie di leggere. Non può mancare un riferimento al cacciatore, il personaggio buono, simbolo della funzione paterna protettrice, il principe, che si avventura verso l’età adulta superando prove sconosciute e la vecchina, tra i personaggi ricorrenti in molte fiabe.

La fantasia e la magia, trovano sempre un posto privilegiato nelle fiabe e possono introdursi attraverso la strega, che ostacola la maturazione sessuale e conserva la dipendenza, oppure l’orco, l’emblema della voracità che divora gli oggetti buoni. Tuttavia, le fiabe che più di tutte sembrano catturare l’attenzione dei più piccoli sono quelle in cui il protagonista è un animale, il più celebre è indubbiamente il lupo, testimonianza della parte violenta della personalità, legata a un’oralità che richiede un soddisfacimento immediato e l’incontro con il proibito. Per gli amanti del lieto fine anche dopo la morte, un’attenzione particolare va dedicata al caso delle “quasi morti”, spesso sventurate fanciulle che in balia degli eventi cadono prede della morte, ma ritornano in vita perché salvate da un intervento eroico, una rinascita in termini di conquista della maturità.

Poiché qui si parla di sviluppo, il tema cardine, nella rassegna attenta che l’autrice ci propone è la separazione e l’incontro con l’altro riconosciuto diverso da sé. In questo stesso processo, l’incesto, non può essere trascurato, la procrastinazione del misfatto, ossia il matrimonio con il genitore del sesso opposto e la conoscenza del terzo, sono funzionali al raggiungimento della maturazione sessuale.

La narrazione si fa teatro della naturale evoluzione dell’uomo e in quanto tale appare connotata da sentimenti positivi e negativi. La gratitudine compare tra le pagine, quale sentimento indispensabile per la comprensione della propria e altrui bontà, spesso rappresentata da una figura materna che presenta aspetti buoni e cattivi, un riferimento chiaro della Bruno al contributo kleiniano. L’avidità e l’invidia al contrario invitano alla riflessione sulla dilatazione infinita di ciò che ci spetta e che affonda le sue radici nel bisogno del neonato, esclusivo e costante, del seno per sé, o a quell’istinto di distruzione di ciò che è buono.

Se come afferma l’autrice [blockquote style=”1″]le fiabe possono liberare le risorse per la mente, che accrescono lo stato di benessere[/blockquote] un occhio di riguardo va riservato a quelle in cui è al centro il tema della morte e ne sono diverse le testimonianze. Si prosegue lungo questo itinerario di sentimenti, cogliendone tra le pagine anche quelli scurrili, che in quanto tali costituiscono talvolta garanzia di attenzione per i bambini.

Ciò che non deve stupire è che questa ilarità è legata al narcisismo dei primi anni di vita e dunque all’autoerotismo e all’aggressività dell’oralità e del trattenere o del rilasciare delle feci. Anche della stupidità umana si tratta in modo divertente e rassicurante, tramite l’immagine dello sciocco che ingenuo come è tenta strade inesplorate e per questo viene premiato. La rappresentazione di ciò che va in scena, proprio come nel sogno è il prodotto di un funzionamento psichico infantile in cui il sentimento di onnipotenza gioca le sue carte rendendo tutto possibile e l’individuo invincibile.

 

La funzione della fiaba

L’ultima parte del testo sposta il focus attenzionale dalla struttura alla funzione della fiaba. Un insostituibile strumento di osservazione, che l’autrice ha ampiamente sperimentato nel corso della sua professione di psicologa, psicoterapeuta, impegnata nella formazione degli insegnanti e nella consulenza ai genitori.

Il ricorso a un “canovaccio proiettivo”, così definisce la fiaba, pronto ad accogliere impressioni e pensieri svincolati da pregiudizi, non può che svelare la sua ricchezza a chi ne sa comprendere l’utilità, purchè il buon senso e il proprio gusto personale definiscano un setting adeguato.

È probabile che nessuno abbia mai pensato ad attribuire così tante funzioni a questa forma narrativa, che se giocata in una relazione empaticamente orientata e non giudicante restituisce “digerita” una emozione impensabile, concede una prospettiva di se stessi e degli altri in cui l’ambivalenza è tollerata, in cui senso di colpa non è più prevaricante, in cui ci si apre alla collaborazione e alla condivisione. Per finire si deve riconoscere alla fiaba un fascino inesauribile e quel carattere polisemico ed inclusivo che la rendono ancora oggi uno strumento di conoscenza di sé e del mondo e che in modo suggestivo l’autrice è riuscita a comunicare.

[blockquote style=”1″]All’inizio si trattò di una citazione fatta in mezzo al baccano che lui produceva, poi la lettura di una riga, poi di un paragrafo, poi di un capitolo. Alla fine le storie non facevano più paura […] venivano cercate per creare un assetto mentale meno turbato […] più legato all’esperienza di capire e essere capito[/blockquote] (Bruno, 2016, p.113).

Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica (2016) – Recensione

La ripubblicazione italiana di questo importante studio del 1956 (dopo le traduzioni per Silva nel 1962 e per Feltrinelli nel 1982) testimonia ancora una volta l’interesse particolarmente vivo per la statura intellettuale e il pensiero di Edgar Morin, in particolare verso un approccio culturale inedito di tipo antropologico nello studio del cinema (e dei media in generale), inaugurato proprio da questo libro.

 

Il rapporto tra reale e immaginario nel cinema

La domanda iniziale dell’autore riguarda infatti la possibilità del cinema di risuscitare l’universo arcaico dei doppi e la metamorfosi tipici delle credenze arcaiche sulla sopravvivenza post mortem, già analizzate dettagliatamente nell’antropologia dell’immaginario del precedente libro del 1951, intitolato L’uomo e la morte (ripubblicato da Erickson nel 2014), a cui questo si ricollega. Il tema centrale dell’immagine cinematografica indaga contemporaneamente il rapporto tra reale e immaginario e quello tra modernità e arcaismo, che consentono a Morin di descrivere il fenomeno per cui l’illusione di realtà di cui noi abbiamo perfetta coscienza nel cinema non è mai disgiunta dal senso della realtà che ci permette di vivere direttamente delle esperienze come se fossero reali, pur avendo la consapevolezza che non lo siano.

Il focus centrale della sua analisi è la fase di passaggio dal cinematografo delle origini al cinema vero e proprio grazie alla crescente spettacolarità delle immagini proiettate sullo schermo. Il cinematografo era l’unità indifferenziata dell’irreale e del reale, mentre il cinema ne è l’unità dialettica, cioè l’unità nella distinzione che avviene nel passaggio dal fantastico alla fantasia, che non è altro che la sua progressiva razionalizzazione.

All’inizio il cinematografo Lumière suscita la curiosità degli spettatori con immagini che rispecchiano la realtà (come l’uscita degli operai dalla fabbrica o l’ingresso di un treno alla stazione) restando pur sempre immagini. Subito dopo, prendendola a prestito dalla fotografia, ma potenziandola con quelle tipologie di immagini in movimento che suscitano un particolare coinvolgimento emotivo, il cinematografo diventa cinema grazie alla fotogenia (il cui maggiore teorico è il regista e teorico dell’avanguardia francese Jean Epstein), in cui l’immagine, in quanto «presenza vissuta» e «assenza reale» recupera il tema arcaico della sopravvivenza e dell’immortalità sotto forma di doppio. Una prima definizione di fotogenia, senza alcuna pretesa di esaustività, proposta dall’autore è la seguente: [blockquote style=”1″]La fotogenia è quella qualità complessa e unica di ombra, di riflesso e di doppio che permette alle potenze affettive proprie dell’immagine mentale di fissarsi sull’immagine, frutto della riproduzione fotografica[/blockquote] (p.42).

La sopravvivenza del doppio e la morte-rinascita dell’animismo proprio della coscienza arcaica si trovano simbioticamente associate nella metamorfosi dell’universo fluido del cinema, in cui interagiscono nello stesso tempo il microcosmo umano e il macrocosmo.

 

La metamorfosi del tempo e dello spazio nel cinema

Oltre al doppio, il cinematografo delle origini riprende anche l’altro polo della magia, la metamorfosi, intesa come morte-rinascita. Entrambi, doppio e metamorfosi, rappresentano il bisogno di immortalità della mentalità arcaica e non a caso il primo ad operare la metamorfosi dal cinematografo al cinema con i suoi trucchi fantastici fu, secondo Morin, proprio George Méliés.

La prima “vera” rivoluzione tecnica fu però apportata dal montaggio, che fece acquisire dei caratteri spaziali e temporali nuovi al sistema di immagini animate che ancora nel cinematografo seguivano un tempo rigorosamente cronologico. Il tempo diventa fluido grazie alla compressione e alla dilatazione, al ralenti e all’accelerazione delle inquadrature, la cui successione discontinua ed eterogenea viene ordinata proprio in sede di montaggio.

Il tempo del cinema diventa reversibile, con il salto all’indietro dal presente al passato tramite la dissolvenza normale (che comprime il tempo) e la dissolvenza incrociata (che comprime lo spazio), il flash-back e il cut back. Insieme al tempo, abbiamo anche la metamorfosi dello spazio, con il movimento della macchina da presa mediante la panoramica e la carrellata, che consentono la metamorfosi degli oggetti. Morin, nei capitoli centrali (il terzo e il quarto) e indubbiamente più interessanti del suo lavoro, coglie perfettamente nella metamorfosi magica riesumata dal cinema la mescolanza tra il cosmomorfismo dell’uomo (il volto diventa paesaggio) e l’antropomorfismo degli oggetti (il paesaggio diventa volto).

L’antropo-cosmomorfismo emerge in particolare nel doppio processo di proiezione e di identificazione del cinema, che determina la partecipazione affettiva degli spettatori, da cui deriva “la realtà semi-immaginaria dell’uomo” (la definizione è ripresa da Gorkij). Il cinema ha messo in campo, oltre a quelle cinestesiche “normali”, anche altre tecniche per suscitare la partecipazione affettiva, come la mobilità della macchina da presa, la successione di piani, la musica, l’accelerazione e il ralenti, il primo piano, l’illuminazione e il gioco di luci e ombre, gli angoli di ripresa (inquadratura dall’alto e dal basso), la rappresentazione delle emozioni ecc. Avviene così la congiunzione tra il film e lo spettatore, tra cinestesi (movimento) e cenestesi (soggettività, affettività). I più importanti fenomeni di simbiosi prodotti dal cinema sono l’identificazione con un personaggio dello schermo (in base alle somiglianze fisiche o morali), in particolare con i personaggi privilegiati dello star system, il cui fenomeno è stato analizzato dettagliatamente nel libro successivo I divi (1957, tradotto da Garzanti nel 1977), che è il pendant di questo saggio.

 

Le proiezioni e identificazioni con i personaggi

Morin descrive anche le proiezioni-identificazioni polimorfe, che permettono di identificarsi con individui totalmente diversi da noi (e di solito odiati, disprezzati o evitati nella vita quotidiana), come neri, gangster, prostitute, assassini ecc. L’identificazione con il diverso mette in luce il nostro lato più nascosto (maledetto, dice l’autore) e i desideri più inconfessabili, ma traccia al tempo stesso una linea di separazione netta con la vita quotidiana. Oggi questa conclusione mi sembra che sia diventata piuttosto problematica, in quanto l’aumento esponenziale della fruizione di immagini porta inevitabilmente alla tendenza progressiva, seppur circoscritta, alla manifestazione di fenomeni di emulazione che ibridano l’immaginario con i modi di essere e i comportamenti della vita reale condizionandoli talvolta negativamente. Nella sua analisi sociologica Morin dimostra con esempi concreti che l’ego-involvement riguarda tutti i generi di film e la partecipazione polimorfa e affettiva non si limita soltanto ai personaggi, ma anche agli oggetti che assumono un’anima. In altri termini, la partecipazione affettiva è a suo avviso «lo stadio genetico» e «il fondamento strutturale» del cinema, come dimostrano ad esempio il close up e il primo piano del volto.

Un altro aspetto che all’autore interessa mettere in evidenza, accanto al processo soggettivo di proiezione-identificazione affettiva, è l’altrettanto rilevante processo oggettivo di costruzione della percezione, mediante l’identificazione delle forme apparenti con la forma della costanza della Gestaltheorie, che risulta chiaramente presente nella visione cinematografica. Grazie al movimento della macchina da presa, con l’utilizzo di tecniche proprie come la carrellata, le inquadrature, il primo e primissimo piano, la panoramica verticale o orizzontale, una successione di inquadrature parziali contribuisce alla costruzione della percezione globale, proprio come avviene nella percezione della realtà in cui, in base al processo della costanza degli oggetti, ricostituiamo l’intero quadro spazio-temporale. È proprio lo spettatore che dà la visione globale, l’unità della visione psicologica nonostante l’apparente passività del suo atteggiamento di fronte alle immagini. La visione psicologica è, in altri termini, la stessa sia per la visione pratica, oggettiva, razionale che per quella affettiva, soggettiva, magica.

Morin dimostra, attingendo soprattutto alla ricostruzione storico-sociale di autori classici come Georges Sadoul, Béla Balász e André Bazin (determinanti per l’intera costruzione del libro) che il cinematografo delle origini presentato all’Esposizione universale del 1900 aveva già nelle sue potenzialità tecniche il sonoro, il rilievo, il colore, lo schermo panoramico, ma queste nuove tecniche furono sfruttate soltanto con le crisi finanziarie, soprattutto la Grande Depressione del 1929-1935 e la concorrenza televisiva del 1947-1953, per rilanciare il medium cinematografico aumentando l’affluenza al botteghino degli spettatori.

 

L’intelligibilità nel cinema

Oltre all’aspetto magico, l’autore tenta di giusticare parallelamente l’emergere dell’intelligibilità nel cinema, cioè i motivi per cui il sistema narrativo del film da mera struttura magica e di fantasia, in virtù della sua costruzione interna (soggetto, sceneggiatura, intrigo) diventi nello stesso tempo un discorso logico e dimostrativo. È a suo avviso con Ejzenštejn (in film come La corazzata Pötemkin e, soprattutto, negli scritti teorici sul montaggio) che le stesse immagini che suscitano la partecipazione affettiva fanno emergere le idee, tramite il simbolo che riunisce in sé con un doppio filo il segno astratto e il sentimento.

In questo modo il linguaggio cinematografico diventa totale e polifunzionale: il sentimento è un momento della conoscenza e le immagini diventano simboli della costruzione di un’ideologia. Il cinema, pur concettualizzando, tuttavia non ha concetti propri, ma utilizza le forme proprie dell’immagine fotografica per creare un linguaggio universale. Il limite del film (oggi decisamente più ridotto anche se non sarà possibile superarlo del tutto) è che non potrà mai essere del tutto intelligibile perché è un prodotto sociale determinato dalla cultura di un determinato gruppo sociale di appartenenza, i cui codici possono essere indecifrabili per altre culture. Tuttavia riconosce che già negli anni cinquanta del secolo scorso il cinema americano è riuscito a diffondere su scala planetaria un linguaggio mimico nuovo, fatto di temi e di gesti facilmente imitabili e dunque universalizzabili. Ha creato un nuovo immaginario collettivo (the american way of life) che, a maggior ragione oggi, ha contribuito in modo determinante a omogeneizzare l’intero pianeta.

 

Conclusioni

Il cinema è psichico (secondo la formula di Epstein) in quanto comprende il reale nella percezione e secerne continuamente l’immaginario che lo nutre. In altri termini, è formato dall’immaginario che viene sviluppato dal macchinario tecnico, è un’industria che confeziona una merce che utilizza un linguaggio universale per soddisfare i bisogni psicologici delle masse con il fatturato economico del capitale. Morin elabora volutamente un’antropologia genetica e una sociologia dell’immaginario che, pur presupponendola, rinuncia all’analisi sociologica della tecnica e dell’economia dell’industria cinematografica per «reintegrare l’immaginario nella realtà dell’uomo» (p.212), ma forse è riuscito meglio nel fare il contrario, contribuendo in modo determinante a farci comprendere l’importanza del cinema nella vita quotidiana di ciascuno di noi.

L’abuso infantile e la violenza domestica predispongono alla dipendenza da sostanze e alcol

Secondo un recente studio canadese, i soggetti adulti oggi dipendenti da droghe o alcol riportano spesso traumi infantili dovuti ad aver assistito ad episodi violenti in casa o ad abusi sessuali. Infatti, i risultati evidenziano come un soggetto su cinque dipendente da droghe o un soggetto su sei dipendente da alcol abbia subìto violenze sessuali nell’infanzia. Tali numeri sono sconcertanti se paragonati a quelli della popolazione generale, che invece si attestano ad un soggetto su 19.

Lo studio

Stando a quanto affermato dal principale autore di questo articolo, il professor Esme Fuller-Thomson dell’Università di Toronto, sia le forme dirette (i.e., abuso fisico e sessuale) che indirette (i.e., assistere alla violenza domestica perpetrata da genitori) di vittimizzazione dei bambini si associano all’abuso di sostanze in età adulta.

Lo studio è stato condotto su un campione di 21’544 canadesi adulti, preso dai componenti del Canadian Community Health Survey-Mental Health del 2012. Tra questi, ad un certo punto della loro vita, 628 soggetti sono divenuti dipendenti da droghe e 849 dall’alcol.

Sorprendentemente la relazione ritrovata nello studio rimaneva significativa anche quando i ricercatori controllavano l’effetto delle malattie mentali (ad es., depressione), della povertà, del sostegno sociale e dei più comuni fattori associati all’abuso di sostanze.

Quindi la probabilità di sviluppare una dipendenza dall’alcol in età adulta tra coloro che avevano assistito ad episodi di violenza domestica portati avanti dai genitori era superiore del 50% rispetto ai soggetti senza questo tipo di esperienza alle spalle; tale percentuale era simile in grandezza a quella relativa ai soggetti abusati sessualmente durante la loro infanzia.

Secondo il prof. Fuller-Thompson un ambiente domestico caratterizzato da un clima violento ed immerso cronicamente nel caos predisporrebbe il soggetto a cadere nella spirale delle droghe o dell’alcol, poichè tali sostanze verrebbero consumate come strategia di coping. E’ bene sottolineare però che occorrono ricerche più approfondite a riguardo per capire le relazioni che intercorrono tra il subìre o l’assistere ad episodi violenti in casa e l’incidenza dell’abuso di alcol e droghe.

Conclusioni

I risultati di questo recente studio sottolineano l’importanza del prevenire gli abusi dei bambini e la violenza domestica e suggeriscono come i professionisti della salute debbano continuare a fornire supporto psicologico ai sopravvissuti di tali esperienze lungo tutto il corso della loro vita.

Rispetto ai limiti della ricerca, è bene considerare che molti sono i fattori associati alle dipendenze, come il basso livello educativo del soggetto, la povertà, l’essere maschio, essere single e una storia pregressa di depressione o ansia, che in maniera complessa intervengono nella relazione indagata e che in maniera diversa la influenzano.

Prime prove di efficacia per la Terapia Metacognitiva Interpersonale

Nel Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma abbiamo mosso un primo passo verso la dimostrazione dell’efficacia della Terapia Metacognitiva Interpersonale.

I primi passi per verificare l’efficacia della Terapia Metacognitiva Interpersonale

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) è stata sviluppata per trattare principalmente i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche che a essi si associano.

Dopo una prima formulazione (Dimaggio & Semerari, 2003; Dimaggio, Semerari, Carcione, Nicolò & Procacci, 2007) sono stati pubblicati alcuni casi singoli selezionati a posteriori che mostravano la sua capacità di migliorare sia il disturbo di personalità che i sintomi psicologici. Rimaneva necessaria una valutazione più rigorosa dell’efficacia. A questo fine, era necessaria una manualizzazione che fornisse istruzioni dettagliate su come agire con i pazienti con disturbi di personalità seguendo un razionale rigoroso e delle procedure riproducibili.

Il manuale “Terapia Metacognitiva Interpersonale dei disturbi di personalità” è stato quindi pubblicato (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013) e tradotto in inglese (2015). Nel Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma abbiamo quindi mosso un primo passo verso la dimostrazione dell’efficacia della Terapia Metacognitiva Interpersonale.

Gli studi effettuati

Abbiamo seguito un disegno sperimentale iniziale, una serie di casi singoli. I pazienti che afferivano al centro venivano selezionati in base al soddisfare dei criteri di inclusione. Ne sono stati selezionati 3 consecutivi che rispettavano tali criteri. Sono stati ripetutamente testati nel corso di un trattamento strutturato della durata di 2 anni, con follow-up di tre mesi. Il lavoro che riassume i risultati, “Metacognitive Interpersonal Therapy for personality disorders: A case study series” (Dimaggio, Salvatore, MacBeth, Ottavi, Buonocore e Popolo) è stato appena accettato dal Journal of Contemporary Psychotherapy.

Tutti e tre i pazienti hanno completato il trattamento e hanno mostrato reliable change nel numero di criteri soddisfatti per disturbi di personalità (misurati con la SCID-II) e sulla gravità dei sintomi (misurata con il Global Severity Index della SCL-90-R). Si è evidenziato miglioramento anche nei problemi interpersonali e nella regolazione emotiva. Naturalmente la natura limitata, solo 3 casi, non permette di generalizzare sull’efficacia della Terapia Metacognitiva Interpersonale ed è solo un primo passo nella sua valutazione.

Un ulteriore passo è lo studio appena completato alla Queensland University of Technology di Brisbane. Keely Gordon-King e Robert Schweitzer hanno coordinato un team formato in Terapia Metacognitiva Interpersonale e supervisionato da Giancarlo Dimaggio a seguire le procedure del manuale più recente. Si trattava di un multiple-baseline case series, 7 pazienti con disturbi di personalità seguiti per 1 anno. I risultati saranno presto sottoposti per la pubblicazione.

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