expand_lessAPRI WIDGET

Cognitivismo Clinico: presentazione del nuovo numero della rivista

L’Editoriale del numero appena pubblicato della rivista Cognitivismo Clinico. Il Direttore Antonino Carcione presenta e commenta gli articoli.

Antonino Carcione

 

Abbiamo deciso di aprire questo numero di Cognitivismo Clinico con un articolo speciale di Francesco Mancini che affronta un tema tanto essenziale per il cognitivismo, quanto a volte trascurato: gli scopi. L’articolo è molto interessante e in esso l’autore affronta in modo critico un argomento a lui molto caro, partendo dal presupposto che la scarsa rilevanza attribuita al concetto di scopi e al loro ruolo nella spiegazione della psicopatologia rappresenta uno dei limiti più significativi del cognitivismo clinico. Mancini sostiene con puntuali argomentazioni che il cognitivismo standard ha dato grande, troppa enfasi al ruolo delle credenze e dei processi cognitivi, trascurando il ruolo che hanno gli scopi nell’orientare i processi cognitivi e, di conseguenza, nella formazione delle credenze. È più frequente il ricorso a concetti disposizionali, come a esempio l’intolleranza all’incertezza o la fusione pensiero-azione, tanto per citare alcuni esempi, oppure a deficit cognitivi. Tali concetti si rivelano più descrittivi che esplicativi, pertanto l’autore argomenta le ragioni di tali limiti del cognitivismo e ci fornisce un contributo che si può rivelare utile, come auspica lo stesso Mancini, a dare piena dignità a un concetto che già, di per sé, è “… cruciale per spiegare e prevedere condotte ed emozioni proprie e altrui”.

La seconda parte è dedicata a un tema specifico: l’insonnia. L’idea di dedicare un numero monografico a tale argomento segue una giornata di aggiornamento organizzata dalle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva SPC e APC, sponsorizzata dalla SITCC-Lazio e coordinata da Davide Coradeschi, che si è tenuta il 20 maggio presso il Centro Convegni “Villa Palestro” a Roma: ‘Il trattamento dell’insonnia nel paziente psichiatrico: farmaci e psicoterapia cognitivo-comportamentale’.

L’attenzione a questo tema è legata al fatto che l’insonnia rappresenta sicuramente il più diffuso disturbo del sonno. Si stima che ne soffra in modo significativo almeno un italiano su 10 e, quantomeno occasionalmente, è stata sperimentata da più della metà della popolazione. Purtroppo, però, la diagnosi viene spesso effettuata in modo sbrigativo e superficiale, e da ciò derivano frequentemente errori nel suo trattamento. L’insonnia può dipendere da vari fattori e presentarsi come un disturbo a sé stante, ovvero in assenza di altri disturbi, oppure può insorgere in associazione ad altri problemi di ordine medico di tipo neurologico (a es. Parkinson), cardiovascolare (a es. angina), polmonare (a es, enfisema), digestivo (a es, ulcera peptica, reflusso gastro-esofageo), ecc. Più frequentemente, però, è espressione di altri disturbi psicologici, più spesso disturbi d’ansia e dell’umore, che interferiscono con il sonno peggiorandone la quantità e la qualità. Secondo le stime riportate nel recente DSM-5, come evidenziato dall’articolo di Devoto et al., il 40-50% degli insonni ha un disturbo psichiatrico associato e si calcola che ben l’80% dei pazienti depressi soffra anche di insonnia.

Del resto, l’insonnia rappresenta notoriamente un criterio diagnostico per diverse patologie di rilevanza psichiatrica ed è considerata un fattore di rischio per l’innesco e il mantenimento di diversi disturbi mentali. Vari studi longitudinali hanno, infatti, documentato che l’insonnia cronica non trattata incrementa il rischio dello sviluppo futuro di un disturbo psichiatrico, soprattutto di tipo depressivo.

Considerato, dunque, che può esserci un’eziologia variegata, è sempre molto importante, anzi essenziale, che si esegua un’accurata valutazione diagnostica per scegliere, di conseguenza, la terapia – medica e/o psicologica – più adeguata.

Inoltre, è stato osservato che, indipendentemente dalla primarietà o secondarietà dell’insonnia, il suo trattamento ha effetti benefici non solo sul sonno, ma anche sulla patologia concomitante. È per questa ragione che le linee guida ne consigliano il trattamento qualunque sia la sua eziologia.

La cura dell’insonnia, attualmente, prevede trattamenti sia farmacologici che non farmacologici. Spesso si pensa che il trattamento farmacologico sia il più efficace, in realtà le linee guida evidenziano che esso è più indicato per le insonnie occasionali o situazionali (a esempio il jet-lag), mentre i trattamenti non-farmacologici sono la terapia di scelta per le insonnie croniche, ma purtroppo tale evidenza non è del tutto conosciuta, diffusa o, peggio, consigliata. Spesso il trattamento è farmacologico, attraverso prescrizione di ansiolitici effettuata o da medici non specialisti o tramite un banalissimo “passaparola” tra insonni. Tutto ciò spesso si rivela inefficace o, addirittura, controproducente, peggiorando i meccanismi di mantenimento del disturbo o determinando dipendenze farmacologiche, peraltro a volte neppure generatrici di un buon sonno.

Oggi, la terapia non-farmacologica più accreditata è il trattamento cognitivo-comportamentale dell’insonnia (CBT-i – Cognitive-Behaviour Therapy for insomnia), un intervento psicologico, individuale o di gruppo, basato su tecniche che hanno mostrato una significativa efficacia in numerose ricerche sperimentali.

La CBT-i per l’insonnia non può essere considerata una vera e propria psicoterapia ma, piuttosto, un intervento specifico e mirato sul tipo di insonnia, basato sui modelli psicofisiologici di regolazione del sonno. Agisce sui fattori comportamentali, fisiologici e cognitivi di mantenimento del disturbo e prevede interventi comportamentali (Tecnica del Controllo degli Stimoli, Tecnica della Restrizione del Sonno), Cognitivi e Psicoeducativi. La CBT-i si rivela efficace in quanto l’integrazione degli interventi permette innanzitutto di modificare le varie credenze disfunzionali sul sonno che, come si è evidenziato, sono particolarmente diffuse e fungono da fattore di mantenimento del disturbo stesso. Le credenze disfunzionali hanno, infatti, un ruolo ancora più grave della mancanza di sonno stesso, visto che, contrariamente a quanto comunemente si crede, le ricerche finora condotte non hanno riscontrato evidenti cali prestazionali cognitivi (come attenzione e memoria) in seguito anche a sole 3-4 ore di sonno.

Il numero, che vede contributi di autorevoli specialisti e ricercatori esperti sull’argomento, fornisce diverse indicazioni utili al lettore per ampliare le sue conoscenze sulla valutazione e il trattamento dell’insonnia. L’articolo di Devoto, Battagliese, Fernandes, Lombardo e Violani, propone una panoramica generale, estremamente utile e dettagliata, sui principali strumenti utilizzabili per la valutazione clinica dell’insonnia. Gli autori evidenziano chiaramente come l’insonnia abbia una genesi multifattoriale; per questa ragione si rende particolarmente necessaria un’accurata e approfondita valutazione dei suoi diversi fattori di innesco e di mantenimento per strutturare un intervento terapeutico razionale e mirato. In questo articolo vengono illustrati gli standard procedurali per l’assessment del Disturbo di insonnia e alcuni strumenti diagnostici fondamentali per la sua valutazione clinica.

Partendo dai criteri diagnostici del DSM-5 e dal modello eziopatogenetico che descrive fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti, gli autori passano in rassegna i metodi di assessment che permettono al clinico di avere informazioni rilevanti per una diagnosi chiara del disturbo e una valutazione utile per poi seguire l’evoluzione dopo il trattamento: colloquio clinico, questionari e diario del sonno. Vengono anche descritti due strumenti obiettivi: l’actigrafia e la polisonnografia. Viene anche illustrato come la raccolta di tale materiale aiuta la diagnosi e,
di conseguenza, l’impostazione del trattamento, permettendo un’accurata e chiara restituzione diagnostica al soggetto che soffre d’insonnia.

Successivamente, visto l’importante ruolo svolto dalle credenze sul sonno nel generare e mantenere il disturbo, il secondo articolo, di Giganti, Arzilli, Cerasuolo e Ficca, descrive le caratteristiche della percezione soggettiva del sonno e dei suoi segnali nel soggetto insonne. L’articolo evidenzia come il trattamento dell’insonnia non dovrebbe tanto mirare a un aumento del tempo totale di sonno o a ridurre la latenza del tempo di addormentamento, quanto piuttosto a correggere le credenze errate sul sonno e all’eliminazione dei comportamenti disfunzionali associati.

Ad esempio, molti soggetti insonni cercano di alleviare le loro difficoltà trascorrendo più tempo a letto, magari con tentativi di riposo nel corso della giornata, ma questi tentativi di autocura conducono in realtà sia a un sonno ulteriormente frammentato, sia ad aumentare il tempo trascorso a letto da svegli ogni notte. Riconoscere le credenze errate sul sonno consente una maggiore compliance nella modificazione dei comportamenti di mantenimento dei disturbi del sonno.

Nell’articolo di Coradeschi si descrive la parte comportamentale dell’intervento. L’autore illustra nel dettaglio, rendendola fruibile al lettore, la tecnica del controllo dello stimolo e la restrizione del sonno che rappresentano due delle componenti centrali della CBT-i. La prima consiste in una serie di prescrizioni finalizzate a riconsolidare l’associazione tra letto e addormentamento, eliminando le attività che interferiscono con il sonno al momento di andare a dormire. La seconda ha lo scopo di restringere il tempo che il paziente trascorre a letto aumentando, attraverso uno stato di lieve deprivazione di sonno, la spinta all’addormentamento, regolarizzando e risincronizzando allo stesso tempo il ritmo sonno-veglia. Il lavoro guida il lettore con l’illustrazione delle procedure d’intervento, fornendo istruzioni ed esemplificazioni utili per il corretto utilizzo delle due tecniche comportamentali, esponendone il razionale e affrontando i principali ostacoli e le resistenze che si possono incontrare col paziente insonne.

Gli ultimi due lavori trattano di due tipologie specifiche di intervento: l’insonnia nei bambini e in pazienti cardiologici. Un problema diffuso che neo-genitori riportano ai pediatri è la difficoltà di addormentamento dei propri figli. L’articolo di Devoto descrive il trattamento cognitivo-comportamentale in età evolutiva, illustrandone le specificità. Si evidenzia come i problemi di inizio e mantenimento del sonno durante la notte sono piuttosto comuni, tanto che si stima una prevalenza intorno al 20%-30% durante la prima infanzia. Mentre, però, nell’adulto, di solito il problema ricade sul soggetto stesso, i problemi di sonno infantile hanno conseguenze negative non solo sul bambino che ne soffre ma, considerando la peculiarità della situazione, anche sul contesto familiare. I disturbi del sonno del bambino, infatti, sono spesso fonte di stress familiare e di effetti negativi per la relazione madre-bambino.

Le ricerche indicano che, in queste situazioni, aumentano pensieri e fantasie aggressive, nonché depressioni materne, contribuendo ad attivare comportamenti di attaccamento genitoriale. L’insonnia del bambino è, inoltre, correlata, in misura decisamente maggiore che nell’adulto, a cali prestazionali, alterazioni dell’umore e disturbi delle funzioni cognitive. Alla luce di queste considerazioni, il tema è quanto mai importante e prevede un trattamento che integra diversi setting coinvolgendo varie figure del nucleo familiare. Per questo motivo la valutazione clinica e il trattamento precoce dei problemi di insonnia nei bambini sono essenziali non solo per migliorare il sonno notturno e il benessere diurno del bambino, ma anche per fronteggiare e prevenire gli effetti negativi sul contesto familiare che amplificano e peggiorano il problema.

In linea con i lavori precedenti, anche in questo caso l’articolo aiuta a sfatare alcune credenze piuttosto diffuse, come la necessità di incrementare la presenza genitoriale per migliorare l’addormentamento del bambino. Ebbene, tale comportamento appare quanto mai disfunzionale e, pertanto, modificare credenze e comportamenti dei genitori sul sonno dei figli, in particolare riducendo il loro coinvolgimento attivo durante la notte, si rivela essenziale. Interessante e utile al lettore la descrizione di un caso esemplificativo trattato mediante le tecniche CBT-i specifiche per l’età evolutiva.

L’ultimo articolo dedicato all’insonnia – di Manno – descrive uno specifico trattamento CBT-i con pazienti ospedalizzati degenti in riabilitazione cardiologica. I sintomi d’insonnia, spesso presenti in pazienti con problematiche cardiologiche, peggiorano la qualità della vita rappresentando un fattore di rischio per ulteriori problemi cardiovascolari. L’autore descrive un’esperienza clinica con 99 pazienti in trattamento riabilitativo degenziale intensivo, successivo a recente intervento cardiochirurgico, evidenziando miglioramenti quantitativi (il numero dei risvegli, il tempo di veglia, il tempo totale di sonno, l’efficienza del sonno) e qualitativi del sonno (sensazione di riposo al risveglio e sensazione di piacevolezza del sonno), dopo trattamento CBT-i individuale, indipendentemente dall’assunzione di terapia psicofarmacologica, intervenendo, quindi, su possibili fattori di rischio per ulteriori ricadute.

Clinica delle disfunzioni sessuali (2012) di Fenelli A. e Lorenzini R. – Recensione

Rivolto a psicologi e medici che trattano i disturbi sessuali (disturbi della risposta sessuale), il manuale illustra un modello teorico e di intervento nelle varie fasi terapeutiche.

 

Il manuale si basa su un approccio integrato che combina la terapia mansionale integrata (TMI) all’interno di una prospettiva clinica cognitivo-costruttivista che valorizza anche la dimensione relazionale.

In particolare, il volume si sofferma sull’analisi degli specifici meccanismi patogenetici e sul trattamento di tre categorie di disfunzioni sessuali:

  • I disturbi dell’eccitazione (frigidità e impotenza);
  • I disturbi da dolore sessuale (vaginismo e dispaneuria);
  • I disturbi dell’orgasmo (inibizione e precocità).

Il metodo mansionale è un approccio strategico breve centrato sulla risoluzione del sintomo attuale e del circolo vizioso di automantenimento, perseguendo come obiettivo ‘il minimo cambiamento stabile possibile‘. Si articola in quattro fasi centrali che a partire dalla riscoperta individuale si orienta alla ricerca di cooperazione ed intesa all’interno della coppia:

  • La conoscenza di sé;
  • La conoscenza di sé tramite l’altro e la conoscenza dell’altro;
  • La conoscenza della propria dimensione del piacere;
  • La conoscenza del piacere condiviso di coppia.

Il principio sotteso a questo orientamento è quello di sperimentarsi in modi e situazioni nuove e diverse per poter accedere ad una inedita percezione di sé e degli altri, così da favorire un miglioramento nell’intimità e nella sessualità di coppia. Al terapeuta spetta il ruolo di guida nella fase di sperimentazione e riscoperta reciproca e di facilitatore degli scambi comunicativi all’interno della coppia.

La ricostruzione precisa della storia di attaccamento e di apprendimento delle credenze individuali che soggiacciono ai disturbi sessuali e che li mantengono nel presente è fondamentale per disambiguare l’origine ed il significato del sintomo. Una stessa manifestazione sintomatica, infatti, può derivare da esperienze, convinzioni e vissuti emotivi del tutto eterogenei. Ad esempio l’impotenza sessuale può originare da ansia prestazionale (“Non devo dimostrare incertezze”), da senso di colpa (“Se penso a me sono egoista”) come anche da rabbia (“L’altro pensa solo a sé”).

L’iter terapeutico viene descritto dal primo colloquio, al contratto, alla gestione della singola seduta, alle prescrizioni mansionali, all’esame delle dinamiche relazionali, delle resistenze e della relazione terapeutica. Una sezione intera illustra l’applicazione degli specifici interventi terapeutici attraverso le quattro fasi del trattamento.

Questo metodo non è indicato, né risulta efficace nel caso in cui siano compresenti anche patologie psichiatriche, profondi disturbi di personalità o gravi difficoltà relazionali all’interno della coppia che, invece, andranno trattati preliminarmente con una terapia tradizionale.

L’impatto di un percorso così intimo può essere significativo:

Poiché la terapia aumenta i gradi di libertà con cui il soggetto può costruire se stesso, i due usciranno da tale esperienza non soltanto con un futuro diverso ma anche con un passato diverso.

La sindrome metabolica e gli effetti del PTSD a livello neuroanatomico

La sindrome metabolica, una situazione clinica ad alto rischio cardiovascolare, secondo quanto riportato da uno studio pubblicato su Biological Psychiatry, potrebbe essere un meccanismo biologico collegante il disturbo post traumatico da stress (PTSD) ad anomalie strutturali del cervello.

La sindrome metabolica

Si caratterizza per tre o più delle seguenti condizioni: obesità, pressione alta, insulina-resistenza, dislipidemia (elevati trigliceridi o bassa densità di lipoproteine). Si ritiene, inoltre, che lo stress giochi un ruolo chiave nella patogenesi e nel decorso della sindrome metabolica e sono state varie le ipotesi avanzate a riguardo, ad esempio quella della disregolazione autonomica, della reattività cardiovascolare, della disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e della disfunzione del sistema immunitario.

Alcune caratteristiche della sindrome, inoltre, inficiano l’integrità strutturale del cervello. Ad esempio, un ridotto afflusso di sangue condurrebbe ad una peggiore perfusione e ad una riduzione dello spessore corticale (per lo più nelle zone temporali, frontali e parietali), un indicatore dell’integrità della materia grigia.

Il PTSD come fattore di rischio della sindrome metabolica

Secondo Erika Wolf, autrice dello studio, queste conclusioni sarebbero fondamentali per strutturare programmi di intervento destinati ai veterani di guerra rientranti da Iraq e Afghanistan, programmi che considererebbero il PTSD come fattore di rischio per la sindrome metabolica e che permetterebbero screening adeguati sui soldati.

Stando alle statistiche, infatti, la sindrome metabolica compare circa due volte più spesso in pazienti con PTSD rispetto alla popolazione generale; tali dati sottolineano quindi il ruolo chiave dello stress in questa relazione. Inoltre, la sindrome metabolica contribuirebbe ad aumentare il rischio di malattie cardiovascolari, il diabete di tipo 2, la neurodegenerazione e altre condizioni mediche avverse che di sovente accompagnano la sintomatologia del PTSD.

Lo studio

Lo studio in questione ha esaminato 346 veterani militari dispiegati in Iraq e Afghanistan. In linea con le precedenti evidenze scientifiche, la prevalenza della sindrome metabolica tra i veterani con PTSD era quasi due volte superiore a quelli senza PTSD. In aggiunta, i risultati delle tecniche di neuroimaging impiegate hanno rivelato un’associazione tra gravità della sindrome metabolica e il ridotto spessore corticale (lobi temporali e frontali). Questo risultato sarebbe particolarmente grave, data la giovane età media del campione (entro i 30 anni). Infatti, la maggiore preoccupazione connessa a questo risultato è che questa popolazione potrebbe andare incontro ad un declino neurocognitivo più marcato e più repentino.

E’ bene sottolineare, tuttavia, che i meccanismi che conducono alla riduzione dello spessore corticale sono ancora sconosciuti e che deve essere ancora esclusa la possibilità che tale riduzione sia in realtà un fattore di rischio, più che una conseguenza, del PTSD e della sindrome metabolica.
Concludendo questa è la prima evidenza scientifica a sostegno della relazione tra la gravità dei sintomi del PTSD, gravità della sindrome metabolica e ridotto spessore corticale nei lobi temporali e frontali.

L’uso di droghe e i tratti di personalità

Indipendentemente dalla funzione o dal tipo di droga, dall’età o dalle caratteristiche della popolazione indagata, si potrebbe affermare con un certo grado di sicurezza l’esistenza di una correlazione tra uso di sostanze e personalità, in particolare con alcuni tratti.

Sara Bellodi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Fino agli anni Cinquanta, quando si pensava alla parola droga, ci si stava riferendo semplicemente a spezie ed aromi. È solamente nel 1967 che l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) fornisce una definizione di droga, tuttora in vigore: “droga è ogni sostanza naturale o artificiale in grado di modificare la psicologia e l’attività mentale degli esseri umani”. Questi effetti vengono detti psicoattivi (alterazione sia degli stati di coscienza che del sistema nervoso).

 

L’utilizzo di sostanze nel corso della storia

Ogni individuo è inserito all’interno di un contesto sociale, che influenza i suoi comportamenti e le reazioni delle altre persone a tali atteggiamenti. Inoltre risulta particolarmente importante determinare i confini tra ciò che è considerato lecito da quello che invece viene valutato come illecito. Appare chiaro che questo confine è molto labile, a seconda del periodo storico di riferimento.

Nelle civiltà primordiali e fino al diciannovesimo secolo dopo Cristo, l’uso di sostanze è da considerarsi autocratico, in quanto veniva gestito dal potere con modalità peculiari e per i propri scopi religiosi, mistici, artistici e terapeutici. È stato utilizzato anche per fini bellici e politici.

Nell’Ottocento, al contrario, l’uso libero di sostanze si è rapidamente diffuso in tutto il mondo occidentale, soprattutto negli ambienti artistici e della moda.

Successivamente, nel ventesimo secolo, negli stati occidentali le droghe vennero dichiarate illecite, entrando di conseguenza nel giro della clandestinità. Negli anni Sessanta, in concomitanza con il movimento hippy, il consumo di sostanze si trasformò in un fenomeno di massa, definito erroneamente ‘cultura della droga’, che coinvolse prevalentemente i giovani. Si evince quindi un utilizzo di tipo democratico, in quanto coinvolge tutti i componenti del gruppo, benché la sostanza sia considerata illecita dal resto della società.

Ancora oggi esiste una cultura della droga del mondo occidentale. In questi raggruppamenti vi è normalmente un poliabuso di sostanze, tra cui hashish, marijuana, allucinogeni (es. LSD), stimolanti (es. cocaina), psicofarmaci sedativi, narcotici fino all’eroina. È emerso che queste comunità sono molto precarie, a causa della tendenza dei giovani componenti a cercare continuamente nuovi tipi di esperienze. Da qua si giunge al fenomeno della droga di massa, utilizzata da ragazzi sempre più giovani, alimentato dagli spacciatori delle sostanze illecite.

Riassumendo, è possibile individuare, nel corso della storia delle varie società umane, cinque funzioni del consumo di droghe (Durrant, Thakker, 2003): terapeutica, sociale, ricreazionale, strumentale, religiosa ed alimentare.

 

Classificazione delle droghe

Le droghe, a loro volta, possono essere classificate in sette gruppi (Malizia, Borgo, 2006): depressivi (alcol, barbiturici, gamma-idrossibutirrato – GHB –, tranquillanti – benzodiazepine –); oppiacei e oppioidi (oppio, morfina, eroina, codeina, tebaina ed etorfina); anestetici dissociativi (ketamina); antidepressivi e psicostimolanti (caffeina, nicotina, coca, cocaina); stimolanti anfetaminosimili (anfetamine, ecstasy); cannabici (marijuana, hashish).

Infine, come afferma Piccone Stella (1999, 2002, pag 15):

Non esiste un muro tra chi consuma tabacco, birra, superalcolici da una parte e chi consuma hashish o eroina dall’altra, come generalmente si ritiene, c’è piuttosto un continuum, una lunghissima e disuguale linea di gusti e di abitudini, di paure e di piaceri, di autocontrollo e di consumo sfrenato, di rischi più o meno consapevoli, lungo la quale le somiglianze e le differenze vanno attentamente esaminate e vagliate

L’organizzazione mondiale della sanità (OMS) definisce l’uso di droga un atto attraverso cui un soggetto si autosomministra una sostanza psicoattiva, senza subire effetti negativi. Mentre l’abuso di sostanze psicoattive viene definito dal DSM-IV come: “una modalità patologica d’uso di una sostanza, dimostrata da ricorrenti e significative conseguenze avverse correlate all’uso ripetuto della stessa” (American Psychiatric Association, 1996, p.206).

L’utilizzo prolungato e costante può provocare nel consumatore uno stato di dipendenza, che può essere fisica o psichica. Nel 1973 l’OMS ha definito:

  • Dipendenza fisica: “abitudine o assuefazione a una droga, che si manifesta con la comparsa di disturbi fisici violenti allorché l’autosomministrazione è interrotta. Questi sintomi, chiamati ‘sindrome di astinenza’ o ‘di privazione’, costituiscono un insieme specifico di sintomi psichici e fisici che variano per ciascun tipo di droga”. In alcuni casi i sintomi possono essere addirittura mortali, come nel caso di quelli da alcol.
  • Dipendenza psichica: “situazione nella quale una droga produce sensazioni di benessere e una pulsione psichica (spinta incontrollabile) a consumarla in maniera periodica o continua, al fine di ottenere un piacere o di prevenire sensazioni spiacevoli”. Si tratta quindi di un fenomeno biologico correlato a specifiche alterazioni biochimiche. Essa è normalmente associata ad un senso d’inadeguatezza interiore, alienazione e incapacità ad eseguire compiti che richiedano responsabilità. Questo tipo di dipendenza, come si deduce dalla definizione sopraccitata, è simile al desiderio di un’esperienza positiva, fino a diventare craving.

 

Uso di sostanze e personalità

Nel corso degli anni sono state svolte numerose ricerche relativamente alla possibile esistenza di un’associazione tra uso di sostanze e personalità, alcuni tratti in particolare (Comeau, Stewart e Loba, 2001; Denson & Earleywine, 2006; Dawe & Loxton, 2004; Deykin et al., 1987; Dougherty et al., 2007; Buckner & Smith, 2008; Harder, Stuart e Anthony, 2008; Foltin et al., 1990; Brook et al., 2001; Bernstein et al., 2015; Edlund et al., 2015).

L’uomo ha da sempre elaborato teorie sulla personalità, ma è solamente dal secolo scorso che sono state proposte usando una specifica strumentazione teorica ed empirica. Tuttavia, nonostante ciò, non si è ancora giunti ad un’univoca proposta interpretativa.

Allport (1931,1966), ad esempio, considera i tratti come le unità di base della personalità. Inoltre, secondo l’autore, questi rappresentano delle disposizioni generali della personalità in grado di spiegare le regolarità, a seconda delle situazioni e nel corso del tempo, nel comportamento di un individuo. Ha proposto una distinzione tra tratti cardinali (le passioni e le motivazioni che perdurano durante la vita dell’individuo), tratti centrali (tutti quegli aspetti che rappresentano la persona, come ad es. la pigrizia, che hanno una forte influenza sui suoi comportamenti) e tratti secondari (aspetti specifici del comportamento del soggetto, come amare o detestare una certa tipologia di film. Sono influenzati dall’ambiente circostante).

Cattell (1946c) invece aveva individuato 171 tratti, raggruppati in 36 gruppi fattoriali. Tra questi aveva identificato i tratti di superficie (aspetti che procedono assieme all’osservatore esterno) e i tratti sorgente (strutture che danno coerenza alla personalità, ma che non sono immediatamente individuabili).

Tra i tratti principalmente indagati nella ricerca sulla correlazione tra uso di sostanze e personalità troviamo ansia, depressione ed impulsività.

L’ansia è definita come un’emozione naturale e universale, che è generata da un meccanismo psicologico di risposta allo stress, il quale svolge la funzione di anticipare la percezione di un eventuale pericolo prima ancora che quest’ultimo sia chiaramente sopraggiunto, mettendo in moto specifiche risposte fisiologiche che spingono, da un lato, all’esplorazione per identificare il pericolo ed affrontarlo nella maniera più adeguata e, dall’altro, all’evitamento e all’eventuale fuga.

In uno studio condotto da Leventhal et al. (2013), con soggetti maggiorenni consumatori di tabacco, è emerso che la sintomatologia ansiosa (es. nervosismo) aveva una forte influenza nel determinare stati negativi (es. rabbia) durante l’astinenza da nicotina.

In accordo con questi risultati, in due ricerche svolte rispettivamente con giovani adulti e con degli studenti frequentati il college, si è scoperto che gli individui socialmente ansiosi consumavano più facilmente cannabis (Buckner, Bonn-Miller, Zvolensky, & Schmidt, 2007; Buckner & Schmidt, 2008). Tuttavia, in contrasto con gli studi appena citati, in una ricerca condotta in una popolazione non clinica, non è stata riscontrata alcuna correlazione significativa tra l’uso di cannabis e l’ansia derivante dalle situazioni quotidiane (Tournier, Sorbara, Gindre, Swendsen, & Verdoux, 2003).

La depressione invece può essere definita come un disturbo dell’umore, in cui c’è un’interazione tra sintomi cognitivi, comportamentali e affettivi. Nei casi peggiori può portare a gravi patologie (es. disturbo depressivo maggiore) che influenzano negativamente la vita lavorativa e quotidiana.

In un recente studio sull’ uso di sostanze e personalità condotto da Edlund et al. (2015) su una popolazione adolescente (età compresa tra i 12 e i 17 anni), si è osservata una forte correlazione tra gli episodi depressivi maggiori e il seguente utilizzo di oppioidi, portando gli autori a considerare l’episodio depressivo come un vero e proprio fattore, sia di rischio, sia predisponente ad un futuro uso/abuso della sostanza.

Similmente, McCann et al. (2014) hanno riscontrato che soggetti che consumavano ecstasy tra gli 11 e i 15 anni, avevano maggiori probabilità di sviluppare sintomi depressivi entro i 16 anni d’età.

Precedentemente, Denson e Earleywine (2005), hanno suddiviso la loro ricerca sull’uso di cannabis in due parti. Nella prima hanno separato il campione in base alla frequenza di utilizzo (uso quotidiano, una volta a settimana o meno, mai) ed è emerso che i consumatori quotidiani erano meno depressi e più positivi rispetto agli altri due gruppi. Nella seconda parte dello studio invece hanno analizzato i livelli di depressione in soggetti che usavano la cannabis con scopi ricreativi o con scopi medici. Questi ultimi avevano dei livelli di depressione più alti rispetto ai primi.

Un altro tratto di personalità spesso associato all’utilizzo di sostanze è, come detto inizialmente, l’impulsività. L’impulsività è ciò che spinge un individuo a compiere un’azione o un determinato comportamento senza pensarci, istintivamente.

Bernstein et al. (2015), in linea con i risultati ottenuti nelle ricerche su ansia e depressione, hanno riscontrato una correlazione tra impulsività ed uso di sostanze, in questo caso analizzando un campione di carcerati. Nello specifico, gli autori hanno rilevato che i soggetti abituati ad un poliabuso di droghe (alcol, oppiacei, benzodiazepine, cocaina, allucinogeni) oltre alla cannabis mostravano livelli di impulsività molto più alti rispetto ai non consumatori.

Sono state ottenute conclusioni similari anche in studi antecedenti sulle cosiddette ‘droghe leggere‘, quali tabacco (Baker, Brandon & Chassin, 2004; Bilieux, Van Der Linden & Ceschi, 2007) e marijuana (Dougherty et al., 2007), dove è stata confermata la correlazione con questo tratto di personalità.

In conclusione, indipendentemente dalla funzione o dal tipo di droga, dall’età o dalle caratteristiche della popolazione indagata, si potrebbe affermare con un certo grado di sicurezza l’esistenza di una correlazione tra uso di sostanze e personalità, in particolare con alcuni tratti.

Limitless (2011): bipolarismo, dipendenza e potenziamento delle capacità cerebrali –  Recensione del film

Protagonista di Limitless è Eddie, vittima di un incontro con un lucignolesco passato in cui spunta Lei: la pillola magica, irrintracciabile e sconosciuta, consente di sfruttare il fantomatico 100% delle potenzialità del cervello, in pratica il santo Graal, l’NZT.

 

Limitless: sinossi

Eddie Morra è uno scrittore fallito, un alcolizzato che vive ormai ai margini della società, abbandonato dalla fidanzata e costretto a miseri stratagemmi pur di evitare lo sfratto da un lurido appartamento in uno squallido sobborgo di Chinatown. Passa le sue giornate tra schermo bianco del computer, carte di hamburger avanzate e sudici bar nella speranza di spremere dalle meningi obnubilate una qualche frase del romanzo per il quale ha un contratto, prima che la sua editrice lo sbatta fuori dai giochi.

L’angoscia cresce ogni giorno, la voce narrante incalza un uomo schifato di se stesso e della propria condizione ai limiti della dignità; numerosi flashback puntellano l’escalation di sfacelo verso il più basso dei gradini: ‘Eddie sei finito, fai veramente schifo‘ decreta la voce sprezzante, ‘Non ti resta che tornare dai tuoi, hai chiuso‘.

E poi l’incontro con un lucignolesco passato: l’ex cognato spunta fuori dal cilindro delle droghe leggere e propone Lei. La pillola magica, irrintracciabile e sconosciuta: consente di sfruttare il fantomatico 100% delle potenzialità del cervello, in pratica il santo Graal, l’NZT.

Già dalla prima assunzione vediamo l’intero mondo di Eddie cambiare: luci, suoni, interpretazione della realtà e colori. I volumi aumentano, i movimenti accelerano, le informazioni a sua disposizione si fanno infinite: è come se tutta la conoscenza da lui acquisita negli anni fosse lì a disposizione, archiviata e pronta per essere utilizzata.

Improvvisamente ricorda tutto, ogni particolare, e riesce a metterlo in collegamento con altre informazioni apprese, anche di poco conto o viste per pochi attimi. E’ in grado di apprendere nuove capacità dopo pochi minuti di pratica e inizia a utilizzare questo immenso potere a scopo di lucro. Ma come ogni zucca o paese dei balocchi fiabesco, anche l’NZT ha delle conseguenze, che Eddie scopre ben presto a sue spese. Tra complicazioni di stampo mafioso che mettono continuamente in pericolo la vita del protagonista del film Limtless, ed effetti collaterali sempre più invalidanti veniamo a scoprire un mondo sotterraneo di personaggi dell’alta finanza la cui ascesa è stata in realtà potenziata dall’NZT.

Il magnate dell’alta finanza Carl Van Loon, prima mentore poi inquietante aguzzino, provoca a tal proposito Eddie, mettendolo di fronte al dilemma tutto morale: una capacità guadagnata sul campo nel tempo, è migliore di una geniale spuntata fuori dal nulla? E come se minacce di morte cruenta e ricatti infimi non bastassero, l’NZT comincia a rivelare la sua scure mortale: l’assunzione prolungata non solo provoca dipendenza, ma superato un punto di non ritorno al primo accenno di diminuzione della dose inizia un’escalation di disturbi fisiologici invalidanti che portano alla morte repentina. Il Santo Graal si mostra per ciò che realmente è: un sirenico estorsore.

GUARDA IL TRAILER ITALIANO DI LIMTLESS:

 

Limitless: la salvezza dal quotidiano fallimento tra bipolarismo e dipendenza

Chi mai vorrebbe rimanere un fallito, avendo a disposizione una pillola magica che ci offre su un piatto d’argento una versione potenziata di noi stessi praticamente invincibile e totipotente, instancabile e irrefrenabile? La risposta è retorica quanto la domanda, e coinvolge di per sé temi cari alla psicopatologia da anni.

Non abbiamo bisogno di sentir pronunciare a Eddie il passe partout ‘Smetto quando voglio‘, per addentrarci nei meandri oscuri della dipendenza: ci siamo già invischiati dai primi 15 minuti e ne siamo perfettamente e banalmente consapevoli.

L’aspetto a mio avviso più interessante di Limitless, però, risiede proprio nella natura della vera protagonista.  L’NZT non crea nulla che non sia già presente: potenzia ciò che già è. Alza i volumi, elimina la fragilità, l’umanità bisognosa di ristoro, elimina difese e barriere alimentando la leggenda millenaria sempre attuale del superuomo, del supereroe e dell’immortale. Miliardi di neuroni, incalcolabili sinapsi, la leggenda del 100% ciclicamente riportata in auge come a sottolineare l’inesorabile pochezza e fragilità dell’essere umano medio, la sua inesplicabile insufficienza quotidiana. ‘Non sei abbastanza, devi fare di più, non vali nulla‘ un ritornello al quale l’NZT pone un’aurea risposta.

Il dualismo vissuto da Eddie in Limitless, nell’alternanza tra assunzione e astinenza, ci richiama alla mente le fasi di un bipolarismo veloce, nel quale il doppio Dostoevskijano maniacale lo incita ad uscire da un sé sfatto e vergognoso; la mania indossa il colletto bianco dell’alta finanza e concupisce a suon di scintillanti spider e vertiginose ascese: è tutto lì sul piatto, signore e signori, non c’è trucco né inganno!

Ma il trucco, ovviamente, c’è. L’NZT è anche incontrollabile, si impossessa di te, dei tuoi desideri e delle tue aspettative. Logora il tuo corpo, ti mostra che i bisogni umani hanno una funzione necessaria, che senza di essi non esiste vita compatibile, che senza barriere e senza difese la tua mente è inerme verso le dinamiche psicologiche dell’altro e del gruppo. Il dolore, il fallimento, la disperazione non possono che essere parte dell’umana esperienza perché elementi fondanti dell’altra faccia dello specchio. Senza di essi non può esserci rispecchiamento né confronto.

Dopo la prima assunzione, Eddie si stupisce di non aver bisogno di mangiare né di riposarsi, persino il fumo e l’alcool sono lontani ricordi: improvvisamente si scopre efficiente e puntuale, dinamico e vincente in ogni singola azione, al di là di ogni suo più recondito sogno. Una fase maniacale perfetta, proiettata all’estremo di un super uomo, tanto caro ai nostri standard quotidiani del ‘mai abbastanza’, e della frenesia ad ogni costo. Una tale efficienza non può che creare dipendenza, proprio per il fatto che ci libera da ogni altra dipendenza o debolezza, stasi o fragilità, esitazione o timore.

Ma tutto ha un prezzo, e come ben sappiamo la fiamma che arde al doppio della potenza si consuma in metà del suo tempo. Debolezze, stasi, fragilità e timori sono parti costituenti dell’esperienza umana, ma non solo; donano ad essa la consapevolezza necessaria per affrontare le nuove sfide. Carl Van Loon ricorda ad Eddie come gli infimi scalini dell’ascesa, preparino al trono dell’ascesa stessa: evitandoli si rischia il fango. L’accettazione del percorso permette di fare spazio all’umano, al fragile peccatore; gli permette di rialzare la testa a partire dal fango del quale le sue ginocchia sono intrise. L’Eddie della pellicola ci lascia in sospeso: sarà stato in grado di farlo?

Assunzione di droghe e compromissione del riconoscimento delle immagini

Una nuova ricerca pubblicata su Neuropsychopharmacology mostra come l’LSD, una delle droghe psichedeliche più diffuse, alteri il processamento delle informazioni emotive veicolate dai volti mentre incrementa il comportamento prosociale.

 

Introduzione

Questa droga è stata spesso studiata in virtù delle sue proprietà psicoattive fin dal 1940; tuttavia dagli anni sessanta dello stesso secolo la ricerca su questo allucinogeno è stata fortemente limitata, in quanto collegata alla cultura hippie e al movimento contro la guerra. LSD è attualmente studiata per il trattamento di diversi disturbi mentali, tra cui ansia, dipendenza e disturbo da stress post-traumatico (PTSD).

Lo studio

Secondo i risultati di questo studio, condotto in doppio cieco e con un gruppo di controllo che assumeva un placebo, l’LSD tende a ridurre la capacità della persona di riconoscere le emozioni negative, migliorando l’empatia e la prosocialità di una persona. I ricercatori hanno per prima cosa reclutato 40 partecipanti adulti presso l’Università di Basilea in Svizzera; 11 di loro in precedenza avevano già provato l’assunzione di LSD. Ad ogni partecipante è stata poi data una singola dose orale da 100mg o da 200mg o un placebo inattivo. Circa 5-7h più tardi (circa 3h dopo il picco massimo di effetti psicotropi della LSD) i soggetti completavano una serie di test psicologici tesi a misurare il loro stato d’animo e l’elaborazione di informazioni emotive. Nel dettaglio questi erano: il Face Emotion Recognition Task, il Mutifaceted Empathy Test, il Social Value Orientation Test, le Visual Analog Scales e l’Adjective Mood Rating Scale.

I risultati

Al termine dell’esperimento si è osservato che i partecipanti sotto l’effetto di LSD avevano meno probabilità di riconoscere le espressioni facciali di paura e di tristezza. Tuttavia il farmaco non sortiva effetto sul riconoscimento di espressioni facciali neutre, felici o arrabbiate.

L’effetto della LSD, inoltre, produceva una riduzione dell’empatia cognitiva accompagnata da un incremento dell’empatia emotiva; i partecipanti che avevano assunto la droga avevano quindi difficoltà ad inferire lo stato mentale di una persona osservando una fotografia, ma erano più propensi a sentirsi preoccupati per il benessere della stessa.

Riguardo il comportamento prosociale, misurato per mezzo del Social Value Orientation Test – dove i soggetti devono scegliere come distribuire una piccola somma di denaro tra loro stessi e gli altri partecipanti – i soggetti sotto gli effetti di LSD optavano più spesso per una distribuzione eguale.
Rispetto all’umore dei partecipanti, infine, la droga stimolava sentimenti di vicinanza agli altri, la tendenza a fantasticare, il voler stare con gli altri, la felicità, l’apertura, la fiducia e l’introversione.

Gli effetti fisiologici registrati dalla LSD erano in linea con le precedenti evidenze scientifiche, e cioè ad una sua assunzione si accompagnano un aumento della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca, della temperatura del corpo e la dilatazione delle pupille.

Dolder e i suoi colleghi hanno affermato che i loro risultati potrebbero avere un rilevante significato clinico. Gli effetti dell’LSD, infatti, potrebbero ridurre la percezione di emozioni negative nel paziente e faciliterebbero l’alleanza terapeutica.

Magrezza non è bellezza – Genova, 01 Ottobre 2016

Si è svolto sabato 1 ottobre 2016 il primo incontro dal titolo “Magrezza non è bellezza” del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova”.

 

La partecipazione era aperta a professionisti che operano nel campo della salute mentale ed è stato organizzato dal nuovo centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva formato da un’equipe di psicoterapeuti ad orientamento cognitivo-comportamentale.

A condurre la giornata la dott.ssa Sassaroli che ci ha parlato dei disturbi dell’alimentazione. Partendo da un cappello introduttivo in cui si sono analizzati i criteri diagnostici dei disturbi dell’alimentazione secondo il DSM 5, abbiamo osservato i fattori di rischio temperamentali, psichiatrici, biologici che rappresentano un rischio di insorgenza dei disturbi anoressici e bulimici.

Particolare attenzione è stata posta sulle caratteristiche familiari che possono influire e in parte determinare lo sviluppo e anche il mantenimento del disturbo dell’alimentazione.

Infine ci si è soffermati sull’analisi di due casi clinici e sulla strutturazione della loro terapia permettendo un confronto aperto sulla gestione terapeutica di tali tipi di disturbi.

Il prossimo degli incontri organizzati dal centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva dal titolo “Tematiche suicidarie e psicoterapia” condotto dal Dr. Francesco Centorame si svolgerà sabato 22 ottobre 2016 dalle ore 10 alle ore 13.

PER SCOPRIRE DATE E ORARI DEI PROSSIMI INCONTRI CLICCA QUI

Cogenitorialità: le nuove forme dell’essere genitore

Le relazioni genitori-figli dovrebbero essere considerate in una cornice complessa che prevede l’interdipendenza di diversi rapporti diadici, in particolare la coppia coniugale e quella genitoriale, per cogliere questa complessità e cercare di definirla si è iniziato a usare il termine cogenitorialità o alleanza cogenitoriale per definire e studiare la relazione fra genitori che lavorano insieme per guidare un figlio.

Marzia Caffesi – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia e Ricerca, Milano

 

Cara, sono a casa!”. Poche parole che fin da subito evocano nella mente di tutti l’immagine dell’impiegato della middle class che, dopo una giornata in ufficio, rientra a casa per trovare: una cenetta deliziosa quasi pronta, due o tre pargoli puliti e sorridenti e dulcis in fundo un’adorabile mogliettina che, indossando un grazioso abito da cocktail, porge un aperitivo esclamando: “Oh caro! Che bello sei arrivato! Come è andata la giornata?”.

In questa scena ripresa più volte in passato (e in alcuni casi anche di recente) da numerose réclame televisive è espresso il cuore dell’ideologia famigliare tipica degli anni cinquanta ossia una rigida divisione dei ruoli dove alla moglie competeva l’andamento della casa e soprattutto la crescita dei figli mentre l’uomo, il cui compito principale consisteva nel procurare il sostentamento familiare, si limitava a qualche fugace apparizione nel ruolo di genitore se vi erano questioni urgenti di disciplina.

 

 

Il cambiamento di paradigma e il riconoscimento della cogenitorialità

Da allora la famiglia è mutata e si potrebbe dire che è tuttora in fase di ristrutturazione. Ciò che è certo è il ruolo sempre più attivo e partecipe richiesto alla figura paterna nella crescita dei figli e di conseguenza il modificarsi stesso dell’esperienza genitoriale sia dal punto di vista dei partner sia per quel concerne le ricadute sulla prole. Per questo motivo l’esperienza genitoriale e il fondamentale compito di cura responsabile che ne consegue sono stati largamente studiati soprattutto per le conseguenze nello sviluppo dei figli e come fattore di rischio o di protezione nel processo evolutivo dell’essere umano (McHale, J.P., Kuersten-Hogan, R., Lauretti, A. 1996).

Storicamente, gli studi si sono focalizzati sulla diade madre-bambino, in particolar modo sulla ricerca volta alle primissime fasi dello sviluppo, in cui alla donna viene attribuito un ruolo centrale nell’accudimento del bambino. Con l’avanzare degli anni e il progressivo coinvolgimento del padre, questi studi hanno iniziato a tenere in considerazione e comprendere la figura paterna, ma è solo recentemente che alcuni lavori hanno evidenziato che le diadi madre-figlio e padre-figlio formano modelli relazionali all’interno di una triade nella quale le caratteristiche delle relazioni tra genitori, già durante la gravidanza, assumono una funzione fondamentale (McHale, 1995).

Secondo queste prime considerazioni si è iniziato a capire che le relazioni genitori-figli dovrebbero essere considerate in una cornice complessa che prevede l’interdipendenza di diversi rapporti diadici, in particolare la coppia coniugale e quella genitoriale. L’interdipendenza di queste relazioni lascia emergere delle proprietà che sono più della semplice somma di rapporti diadici o dalle caratteristiche dell’individuo ma che potremmo definire familiari.

Per cogliere questa complessità e cercare di definirla si è iniziato a usare il termine cogenitorialità o alleanza cogenitoriale per definire e studiare la relazione fra genitori che lavorano insieme per guidare un figlio. La cogenitorialità viene intesa quindi la qualità della coordinazione tra gli adulti nei loro ruoli genitoriali (McHale, 2010). La definizione rimanda al mutuo investimento e coinvolgimento dei genitori nel crescere congiuntamente i loro figli. La cogenitorialità è inoltre la relazione attraverso cui i genitori negoziano i loro rispettivi ruoli, la responsabilità e i contributi nei confronti dei loro figli (Margolin, 2001), ma rimanda anche al sostegno, alla condivisione della responsabilità, al rispetto e alla fiducia tra madre e padre e anche al modo in cui i genitori affrontano insieme il loro ruolo (Feinberg, 2002).

Recentemente si è scoperto che la cogenitorialità risulta essere uno snodo centrale per ciò che concerne le relazioni famigliari (McHale, J.P., Rasmussen, J.L., 1998). Il termine cogenitorialità, al contrario del comune pensare non coincide con la suddivisione equa del lavoro genitoriale ma come un’alleanza tra i genitori che può contenere sia dimensioni positive quali il rispetto, la partecipazione, la comunicazione, e la cooperazione; sia caratteristiche negative come conflitto e triangolazione (McHale, 2010).

L’uso del termine alleanza è infatti significativo: veri alleati sono coloro che non solo convengono pubblicamente su un piano di azione, ma che poi continuano a sostenere quel piano sia quando esercitano la genitorialità con il partner sia quando la esercitano da soli. Un rapporto di questo tipo quindi, esiste tra due persone quando assumono un reciproco impegno, vincolante per il benessere del bambino.

 

Come si è arrivati allo studio del rapporto cogenitoriale e le sue dimensioni

È importante sapere che il concetto di cogenitorialità è entrato nella ricerca sulla famiglia, attraverso gli studi sulle famiglie divorziate, perché una buona cogenitorialità si è dimostrata prevenire gli effetti negativi del divorzio sul bambino come i problemi emotivo-comportamentali e solo successivamente l’importanza di questo fattore chiave è stata estesa e riconosciuta anche nelle famiglie intatte anche in virtù dell’assunzione di un’ottica preventiva (MCcHale, J. P., Fivaz-Depeursinge, E. 1999; Feinberg M.E., Brown L.D., & Kan M.L., 2012).

In seguito numerosi studi hanno esaminato questo legame all’interno del contesto del matrimonio identificando le tipologie che riflettono i modelli di comportamento cogenitoriale. Le tipologie principalmente riconosciute sono: la cogenitorialità oppositiva, caratterizzata da basso calore e cooperazione e alti livelli di antagonismo cogenitoriale; la cogenitorialità coesa, caratterizzata da più alti livelli di calore e cooperazione e bassi livelli di antagonismo e la cogenitorialità non restrittiva, caratterizzata da bassi livelli di calore e cooperazione e livelli di antagonismo simili a quelli del gruppo oppositivo, ma non così estremi.

Inoltre si è arrivati a intuire che il rapporto cogenitoriale comprende due dimensioni: una interna e una esterna. La dimensione interna è rappresentata dalle esperienze di cogenitorialità di ogni genitore ed è caratterizzata da sentimenti di convalida da parte del partner, a commenti positivi sull’impegno per il benessere del figlio, ed è dedicato a promuovere sia un sottosistema cooperativo dei genitori sia il sistema familiare nel suo complesso, mentre la dimensione esterna è rilevabile nelle interazioni triadiche, che prevedono la presenza di padre, madre e bambino.

 

 

Il valore di mediatore nei legami famigliari

Per quello che riguarda il rapporto con la relazione di coppia, sappiamo che la cogenitorialità è teorizzata ad un livello triadico per cui dovrebbe essere intrecciata, per la sua stessa essenza alla relazione coniugale. Allo stesso modo però, la relazione cogenitoriale va distinta, dalla pura relazione di coppia che esiste a livello diadico. Sarebbe meglio, quindi, definire le due relazioni come sottosistemi famigliari continui ma distinti.

Un certo numero di studi ha indagato come il legame cogenitoriale influenzi il legame di coppia. Quasi sempre però, in questi studi, non si ipotizza un’influenza diretta bensì un ruolo di mediazione che la cogenitorialità avrebbe tra rapporti coniugali e le pratiche genitoriali. Sembrerebbe quindi che l’alleanza cogenitoriale possa mediare l’associazione tra relazione coniugale e relazione genitoriale. In particolare, il rapporto cogenitoriale è influenzato dai sentimenti che i partner provano l’uno per l’altro, quindi relazioni coniugali buone si riflettono in cogenitorialità positiva, mentre rapporti ostili tra i coniugi si riflettono in cogenitorialità negativa.

È stato anche proposto un modello alternativo e altrettanto plausibile che propone una prospettiva in cui la cogenitorialità influenza simultaneamente sia le relazioni coniugali che le pratiche genitoriali. Si evidenzia così una correlazione tra relazioni cogenitoriali e legame coniugale: le coppie soddisfatte da un punto di vista coniugale mostrerebbero più calore, meno conflittualità e più cooperazione, sensibilità reciproca e supporto quando interagiscono di fronte ai figli.

Come spiega McHale (MCcHale, J.P., Kazali, C., Rotman, T., Talbot, J., Carleton, M., Lieberson, R., 2004), l’importanza cruciale di questa alleanza tra genitori è testimoniata dal fatto che, in famiglie in cui esiste un’alleanza forte e supportiva, tanto i genitori quanto i figli appaiono meno stressati, la relazione coniugale poggia su un piano di maggiore stabilità e i figli sperimentano un maggior successo nelle relazioni con i coetanei.

Ciò che invece non è sempre chiaro è che il diventare genitori non coincide, al contrario di quel che si pensa, con l’evento della nascita ma è legato a un lungo processo di rielaborazione sia a livello mentale sia a livello delle proprie relazioni affettive, che determina radicale cambiamento nel mondo del singolo e della coppia. Questa considerazione è tanto più veritiera se si pensa ai padri che non sperimentando in prima persona la gravidanza e, in alcuni casi, per retaggio culturale si trovano maggiormente in difficoltà nell’assunzione del ruolo genitoriale.

La nascita come cambiamento porta alla costituzione di un nuovo equilibrio che favorisce una relazione armoniosa bambino-genitori, ma può anche creare una situazione di disagio psichico che troverà espressione all’interno del sistema familiare in quanto la genitorialità implica anche un sostanziale riassetto delle relazioni interpersonali all’interno della rete di parentela della coppia stessa.

All’interno del panorama di ricerca gli autori hanno esplorato e approfondito il ruolo giocato dalla cogenitorialità nelle relazioni familliari e dai risultati è emerso che l’alleanza cogenitoriale gioca un ruolo importante nel mediare l’associazione tra relazione coniugale e relazione genitoriale (Margolin, Gordis, Jhon, 2001; Morril Hives, Mohamood, Cordova, 2010). Alcune ricerche recenti, (Pedro, Riberio Shelton, 2012; Holland Mc Elwain, 2013) hanno trovato come la cogenitorialità sia in grado di mediare l’associazione tra soddisfazione coniugale e pratiche genitoriali e come la percezione di essa da parte del singolo genitore medi la relazione tra qualità coniugale e il rapporto genitore-figlio.

Da altre ricerche è emerso come il conflitto coniugale influenzi negativamente il rapporto genitore-figlio e porti spesso ad una cogenitorialità ostile, competitiva e meno supportiva e come, invece, la soddisfazione coniugale porti a un aumento della cooperazione e del supporto tra i genitori con i figli (Erel, Birman, 1995; Katz, Gottman, 1996, Kitzmann, 2000). Inoltre questo è emerso anche in ricerche più recenti dove i livelli di adattamento coniugale si rivelano essere predittivi del sostegno cogenitoriale (Bonds, Gondoli, 2007).

 

 

L’importanza del legame cogenitoriale per i figli

Altri ricercatori hanno indagato maggiormente come la cogenitorialità influisse sull’adattamento dei figli nelle varie fasi della vita. Si è visto come la cooperazione genitoriale sia un fattore protettivo per l’adattamento del bambino, come la cooperazione percepita da uno dei due genitori possa essere perditore delle competenze sociali del bambino (Barnett, Scaramella, Mc Goron e Callahan, 2001) e come, invece, il conflitto cogenitoriale possa predire una relazione genitoriale negativa e la comparsa di comportamenti antisociali negli adolescenti (Feinberg, 2007). Vi sono però altri studi che sorprendentemente hanno trovato un’assenza di legame tra cooperazione cogenitoriale e soddisfazione di vita degli adolescenti (Teubert e Pinquart, 2011).

In sostanza il legame cogenitoriale è fondamentale anche per i suoi esiti, in particolare per ciò che concerne l’adattamento dei figli. Come già spiegato la relazione cogenitoriale può avere una potente influenza su molti aspetti della vita familiare e quindi anche sull’adattamento del figlio. È stato dimostrato che il conflitto cogenitoriale predice negatività genitoriale e comportamento antisociale nei figli e in generale a sintomi esternalizzanti o internalizzanti. Vi sono fattori che posso moderare l’influenza del conflitto cogenitoriale. Questi sono le caratteristiche del figlio (sesso, ordine di nascita ecc.) e le caratteristiche della famiglia (genitori divorziati o meno) e il contesto. D’altra parte si è dimostrato che l’influenza positiva della cooperazione cogenitoriale migliora la genitorialità di madri e padri e di conseguenza le percezioni del livello di cooperazione entro la relazione cogenitoriale predicono indipendentemente un aumento di competenze sociali dei bambini.

 

 

Per concludere

La cogenitorialità, soprattutto negli ultimi anni, si è scoperta essere uno snodo centrale per ciò che concerne le relazioni famigliari e può essere definita anche come alleanza genitoriale. L’uso del termine alleanza è infatti significativo: veri alleati sono coloro che non solo convengono pubblicamente su un piano di azione, ma che poi continuano a sostenere quel piano sia quando esercitano la genitorialità con il partner sia quando la esercitano da soli.

Questo legame risulta essere di centrale importanza e fungere da mediatore in molti legami famigliari come il rapporto tra partner, il rapporto genitoriale e di conseguenza per il benessere della prole. Infine la cogenitorialità risulta essere un oggetto di studio relativamente nuovo le cui forme si modificano e si adattano ai cambiamenti della società e alle sue esigenze. Per questo motivo, oltre che la sua importanza per il benessere famigliare e in seconda battuta per il benessere sociale, dobbiamo aspettarci che essa diventi sempre più oggetto di studio e di valutazione.

I selfie del Caravaggio: narrazione degli eventi tragici di una vita

Caravaggio affrontò l’impegno nella pittura con lo stesso impeto e coinvolgimento con cui fronteggiò la vita stessa. Tema della sua pittura fu la realtà drammatica in cui vive l’uomo, espressa con un linguaggio in cui protagonista assoluto è il gioco di luci ed ombre.

 

Vissuto a cavallo di due secoli (XVI e XVII), Michelangelo Merisi (1571-1610) detto il Caravaggio fu erede della tradizione cinquecentesca e, contemporaneamente, aprì una nuova vita all’arte. La sua evoluzione artistica si racchiude in circa quindici anni di attività, durante i quali si registrano continui e sostanziali mutamenti stilistici.

Caravaggio affrontò l’impegno nella pittura con lo stesso impeto e coinvolgimento con cui fronteggiò la vita stessa. Tema della sua pittura fu la realtà drammatica in cui vive l’uomo, espressa con un linguaggio in cui protagonista assoluto è il gioco di luci ed ombre.

 

Caravaggio: la vita

Quella di Michelangelo Merisi fu una vita difficile, burrascosa, segnata da sregolatezza e da eventi tragici.

Il Merisi aveva un temperamento violento ed era terrorizzato dalla morte, tema costante nelle sue opere, in cui si riflettono in modo ossessivo due eventi traumatici della sua vita: la morte del padre, avvenuta quando Michelangelo aveva appena sei anni e l’omicidio che commise all’età di trentacinque anni. Caravaggio, infatti, non si fece mancare nulla: duelli, risse, aggressioni, brutali liti e anche, appunto, un omicidio. Tutta la sua vita fu una sceneggiatura drammatica: il Merisi era solito girare per Roma armato (era vietato, all’epoca solo i nobili potevano portare la spada) e si metteva regolarmente nei guai, finiva in galera e poi usciva, grazie all’aiuto e all’intervento di amicizie importanti.

Dalle carte dei tribunali e dalle fonti biografiche storiche (Mancini, Baglione, Bellori) emerge che Caravaggio fu un personaggio molto particolare, irascibile e litigioso. Scrive Giulio Mancini in Considerazioni sulla pittura – di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1620):

Onde non si può negar che non fusse stravagantissimo, e con queste sue stravaganze non si sia tolto qualche decina d’anni di vita.  

Il Baglione (1642) lo descrive come:

un poco discolo, e tal’ hora cercava occasione di fiaccarsi il collo, o di mettere a sbaraglio l’altrui vita. Pratticavano spesso in sua compagnia huomini anch’essi per natura brigosi.

Infine, grazie al Bellori (1672) abbiamo anche una descrizione fisica:

Egli era di color fosco, ed aveva foschi gli occhi, nere le ciglia ed i capelli; e tale riuscì naturalmente nel suo dipingere….come nei costumi ancora era torbido e contenzioso. Non lasceremo di annotare i modi stessi nel portamento, e vestir suo, usando egli drappi e velluti nobili per adornarsi; ma quando poi si era messo un abito, mai lo tralasciava, finché non gli cadeva in cenci. Era negligentissimo nel pulirsi.

Numerosi sono gli autoritratti – veri o presunti – che ci ha lasciato il Caravaggio: da “Bacchino malato” (1593), a “Fanciullo morso da un ramarro” (1595-6), da “Fruttarolo” (1593) a “Bacco” (1595-6), da “Davide con la testa di Golia” (1609-10), a “Decollazione del Battista” (1608), da “Risurrezione di Lazzaro” (1608-9) a “Martirio di sant’Orsola” (1610).

 

Lettura psicologica del Caravaggio

Il Merisi incluse costantemente i propri autoritratti nelle sue opere, dalle prime (in cui traspare serenità e floridezza), fino alle ultime, in cui traspare il deperimento dovuto alla malattia. L’autoritratto è chiaramente una rappresentazione narcisistica di se stessi; in Caravaggio, però, non è solo questo, non è soltanto la rappresentazione della propria immagine nei vari periodi della vita, ma è anche e soprattutto la narrazione della condizione in cui si sente incatenato a causa degli eventi, spesso tragici e violenti, che segnano la sua vita.

A mio avviso si prestano particolarmente bene ad una lettura psicologica il “Fanciullo morso da un ramarro” e “Davide con la testa di Golia”, perché, attraverso questi dipinti, si ripercorre la vita e l’opera del Merisi che, da una condizione di  psicosi latente giunge, alla fine, ad una condizione di liberazione.

 

I selfie del Caravaggio narrazione degli eventi tragici di una vita Ramarro
Fanciullo morso da un ramarro

 

Di “Fanciullo morso da un ramarro” esistono due esemplari simili, l’uno conservato alla Fondazione Longhi a Firenze, l’altro alla National Gallery a Londra. L’opera risale ai primi anni romani ed è menzionata da Giulio Mancini, storico del Seicento:

In questo tempo fece per esso (monsignor Pandolfo Pucci) alcune copie di devozione e, per vendere, un putto che piange per essere stato morso da un racano che tiene in mano.

Come altre opere giovanili eseguite allo specchio, anche quest’opera potrebbe essere l’autoritratto del Merisi nelle vesti del giovane ferito. Il soggetto allude chiaramente ad un significato allegorico, sotteso a quello più immediato; potrebbe trattarsi, infatti, di un’allegoria del temperamento collerico, oppure essere una sorta di ammonimento sull’incertezza della vita, sulla giovinezza effimera e sulla morte che può giungere improvvisa.

Osservando il dipinto, se consideriamo il gelsomino bianco come un’allusione al desiderio, le amarene e le ciliegie allusive alla voluttà e al piacere amoroso e, infine, la rosa come un riferimento all’amore, il messaggio che trasmette il Caravaggio è, a mio avviso, che in ogni grande piacere si nasconde anche un grande dolore.

Attraverso la narrazione del dolore, l’opera d’arte diventa reazione al male, al destino avverso e alla difficoltà di capirne le ragioni, le cause, gli effetti. Se accettiamo l’ipotesi che si tratti di un autoritratto, dobbiamo dunque considerare l’opera come una rappresentazione non solo dei tratti somatici dell’artista, ma anche della sua personalità, delle sue emozioni, dei suoi sogni, o, addirittura, un vero e proprio tentativo di autoterapia. “Fanciullo morso da un ramarro” è anche un bellissimo fermo immagine: in questo senso si può affermare che Michelangelo Merisi sia stato l’inventore della fotografia molto prima dell’invenzione della macchina fotografica e che, se fosse vissuto nel XXI secolo, si sarebbe fatto molti selfie e, probabilmente, li avrebbe postati su facebook.

 

I selfie del Caravaggio narrazione degli eventi tragici di una vita DAVIDE GOLIA
Davide con la testa di Golia

 

Se “Fanciullo morso da un ramarro” è un’opera giovanile di Caravaggio, “Davide con la testa di Golia” è un’opera tarda, posteriore alla sua fuga da Roma. Ricordiamo che il Merisi fu costretto a fuggire da Roma nel 1606, dopo aver ucciso, in seguito ad un diverbio per una partita di pallacorda, tal Ferruccio Tommasoni.  “Davide con la testa di Golia” è tra le opere estreme del Caravaggio: in essa è riconoscibile il tragico autoritratto dell’artista nelle sembianze di Golia decapitato, verso cui Davide vincitore si volge con espressione di commossa pietà. Anche Davide potrebbe essere un autoritratto: un Caravaggio giovane, senza storia, che sorregge la testa del Caravaggio maturo, che ha condotto una vita dissoluta e distruttiva, divorata da fughe e sensi di colpa: è la messa in scena di quella che Freud chiama metafora delirante, che si applica nel tentativo di risolvere un dramma già avvenuto. Il pittore si specchia nel ritratto e, uccidendo il sé colpevole, si libera dal persecutore. Ancora una volta, una sorta di autoterapia artistica ed un ennesimo selfie, anzi doppio selfie a colpi di pennello.

Dal convegno sui Mental Modes a Londra, 28 e 29 luglio 2016 – Report del Prof. Bruno Bara

Il 28 e 29 luglio 2016 sono stato a Londra per il tradizionale convegno sui Mental Models, che quest’anno ha avuto una storia particolare. 

 

Il teorico dei modelli mentali, nonché maestro di molti dei presenti, Philip Johnson-Laird, compie 80 anni, e da tutto il mondo allievi e collaboratori convergono su uno dei luoghi sacri del cognitivismo, University College London (UCL), per festeggiarlo.

Purtroppo qualche mese fa è morto uno dei suoi collaboratori, e Johnson-Laird decide di trasformare la festa in un memorial, spiazzando tutti e inserendo nella sua festa di compleanno un tono commemorativo piuttosto incongruo.

Sindrome del maestro sopravvissuto all’allievo? Ben nota difficolta anglosassone a gestire le emozioni positive, privilegiando quelle negative?

Il primo giorno arrivo a UCL contemporaneamente a Jane Oakhill, nota studiosa di processi di acquisizione del linguaggio. Il top della mattina è proprio la relazione di Jane sulla comprensione di lettura nei bambini, una spiegazione bottom up di come i bambini con buone capacita di lettura siano favoriti nella acquisizione non solo di nuove parole, ma anche nella comprensione in profondità delle parole stesse, che va oltre il loro riconoscimento lessicale.

La spiegazione alternativa dello stesso fenomeno, cerco di spiegarle, sarebbe in un approccio alla Jerome Bruner basato sulla competenza dei bambini a creare storie a partire da frammenti lessicali. I bambini capaci di creare storie padroneggiano le parole in un contesto sociale, un bel vantaggio rispetto ai socialmente meno inseriti. Jane ribatte che diventerebbe una ricerca di psicologia sociale, e nessuno paga le ricerche di psicologia sociale, impeccabile pragmatismo economicista.

Il meglio del pomeriggio lo offrono Amelia Gangemi e Francesco Mancini con un lavoro sulle interazioni fra emozioni e ragionamento su pazienti ansiosi e ossessivi. Ricerche pulite, interessanti, con un senso che va oltre le microspecializzazioni che presentano molti degli altri relatori. La tesi è che la ricerca di controfattuali tipica degli ossessivi correla con l’emozione di colpa, mentre la ricerca di conferme tipica dei fobici correla con l’emozione di ansia. Entrambi sanno ragionare perfettamente, ma privilegiano stili diversi. Secondo me sia pensiero sia ragionamento sono influenzati da un terzo fattore causale, il tipo di relazione che le persone instaurano cogli altri, ma Francesco obietta che si tratta di una variabile troppo generica per essere controllata. Oppure bisogna capire come fare, e continuiamo a discutere.

Il contributo più divertente è quello finale della giovane Cinzia Chiandetti sulla risata. Con non poca naivete presenta una teoria a sfidare Platone e discendenti sui meccanismi del ridere, mostra filmati divertenti che fanno ridere, purtroppo la sua spiegazione anche; si ritrova parecchio contestata, ma ha il merito di aver tirato su la atmosfera.

La cena si fa al ristorante italiano Olivelli, una tragica avventura sotto ogni punto di vista, culinario, ambientale e sociale, dato che tutti oscillano fra essere tristi, anche per la presenza della vedova e delle bellissime bimbe di Vittorio Girotto, o allegri per la vitalità intelligente di Johnson-Laird, per la ennesima volta un esempio per tutti i suoi allievi, fortunati ad averlo incontrato sulla propria strada.

Nella seconda giornata arriva il momento atteso in cui Philip Johnson-Laird, dopo essersi fatto fotografare a turno con tutti noi, fa la sua relazione, presentandoci la nuovissima teoria unificata sui mental models. Non è chiarissimo, e non si chiarifica neppure con la presentazione del programma computazionale da parte di Sunny Khemlani, quali siano i vantaggi rispetto alla teoria precedente, ma l’ammirazione e l’affetto per Phil superano le possibili critiche. Sono l’autore di due dei modelli di simulazione precedenti, vengo citato ma in un altro contesto qualche obiezione a Sunny la avrei fatta, mi sento come un primatista cui dicono che il suo record e stato superato in circostanze non controllate.

Monica Bucciarelli riporta una bella serie di ricerche sulla capacità ricorsiva nei bambini. Il tema è caldissimo, Chomsky e molti altri considerano la ricorsione il vero tratto distintivo degli ominidi dagli altri primati, ma nessuno è mai riuscito a indagarla sperimentalmente in modo convincente. Il quesito metodologico insolubile consiste nella finora apparente impossibilità di separare la ricorsione dal linguaggio. Il lavoro di Monica rimane ancora esplorativo, ma apre orizzonti importanti.

Si continua bene con Cristina Quelhas che attacca il modello logico-analitico di Quine sul piano empirico; i filosofi si risentono, Johnson-Laird contrattacca, io non riesco a seguire la argomentazioni ma ci stiamo divertendo.

Markus Knauff da Giessen, grande, grosso, europeista e ricco di buon senso, presenta dati controintuitivi su come la Transcranial Magnetic Stimulation (TMS) dimostri che nella eterna querelle fra mental models e immagini mentali queste ultime siano inadeguate a spiegare il ragionamento spaziale, ma qui e fra amici non deve faticare a convincerci che abbiamo ragione noi.

Chiude Philipp Koralus, elegante Austriaco ora a Oxford, allargando lo sguardo a temi sociali. Ha in corso una affascinante ricerca applicata internazionale sul tema della pesca sostenibile senza depauperare definitivamente tutti i mari, ci mostra come i pescatori ragionino diversamente a seconda che in ballo ci sia il profitto della compagnia o la sopravvivenza delle loro famiglie. Come intuite, in questo secondo caso le regole vengono violate con facilita.

Baci, abbracci e promesse di rivedersi presto.

 

Per il programma completo del convegno clicca qui

I meccanismi neurali della time-based prospective memory

La memoria prospettica è, infatti, caratterizzata dall’abilità di ricordare intenzioni che precedentemente erano state progettate per un preciso momento futuro. J.A. Ellis nel 1996 indica cinque fasi di cui essa si compone, ovvero: la formazione dell’intenzione, l’intervallo di ritenzione, l’intervallo di prestazione, l’esecuzione dell’azione intenzionale e la valutazione del risultato.

 

La memoria prospettica: introduzione

Ogni individuo vive la propria vita orientata secondo la linea del tempo caratterizzata da passato, presente e futuro. La nostra mente è in grado di organizzare gli eventi del passato in modo ordinato, vivere il presente e progettare continuamente il futuro. Questo lavoro prova ad analizzare alcuni di questi aspetti servendosi delle più recenti ricerche riguardo la memoria prospettica.

La memoria prospettica è, infatti, caratterizzata dall’abilità di ricordare intenzioni che precedentemente erano state progettate per un preciso momento futuro. J.A. Ellis nel 1996 indica cinque fasi di cui essa si compone, ovvero: la formazione dell’intenzione, l’intervallo di ritenzione, l’intervallo di prestazione, l’esecuzione dell’azione intenzionale e la valutazione del risultato. La memoria prospettica si differenzia in “Event-Based Prospective Memory”, “Activity-Based Prospective Memory” e “Time-Based Prospective Memory”, sulla quale verterà l’attenzione principale del presente articolo, e la quale complessità è dovuta anche agli innumerevoli aspetti che concorrono durante il processo cerebrale. I principali fattori che influenzano la prestazione di Time-Based Prospective Memory, sono le funzioni esecutive, l’attenzione, il carico cognitivo richiesto, la complessità o l’importanza del compito; esistono inoltre alcuni modelli teorici che hanno portato al più moderno concetto di memoria prospettica.

Ecco un esempio di Time-Based Prospective Memory: “Fingiamo che siano adesso le 9:30 del mattino, siamo appena usciti di casa e mettiamo in programma che alle 15:30 dovremo fare una telefonata importante. In seguito, mentre siamo sul divano a guardare la TV ci ricordiamo che potrebbero essere intorno alle 15:30, quindi controlliamo effettivamente l’orario, spegniamo la TV e facciamo il numero di telefono. Proviamo ad osservare per bene cosa è successo; all’inizio abbiamo programmato un’azione che avremmo dovuto fare in futuro, poi siamo riusciti a ricordarci in tempo del nostro impegno ed una volta completato il richiamo dalla memoria, abbiamo interrotto l’azione in corso, per portare a termine quella intenzionale. Bisogna aggiungere che la forte importanza della telefonata ha fatto in modo che ci ricordassimo senza spendere troppe risorse cognitive nel monitoraggio del tempo.”

I meccanismi neurali alla base della memoria prospettica

Complessivamente in questo contributo si ha l’obiettivo di descrivere in maniera sintetica quali processi e quali aree cerebrali sono implicate nel processo di Time-Based prospective memory. Nel dettaglio quindi durante la fase di pianificazione dell’intenzione è importante il ruolo della corteccia prefrontale anteriore (Momennejad et al.,2012) ed in particolare della BA10 (Area di Brodmann 10) dell’emisfero di destra. Durante l’intervallo di prestazione invece potrebbe essere fondamentale l’ippocampo per la stima del tempo (Perbal et al.,2000) ed in particolare le “time cells” per la codifica di intervalli di tempo diversi (Eichenbaum et al.,2011).

E’ plausibile ipotizzare che in maniera sincronica potrebbero attivarsi i nuclei del putamen, del caudato e dello striato ventrale che in alcuni esperimenti hanno mostrato le stesse attività delle cellule del tempo nell’intervallo tra i due stimoli di condizionamento classico (Adler et al.,2013).

Insieme a questi processi endogeni di monitoraggio, vi è per la stima del tempo anche la BA10 (Volle et al., 2011) e alcuni studi dimostrano che può essere coinvolto anche il cervelletto (Gonneaud et al.,2014). La corteccia prefrontale anteriore oltre che nel monitoraggio sarebbe implicata nel tradurre in azione l’intenzione nel tempo appropriato, per poi spostare l’attività verso l’area motoria pre-supplementare che si attiva insieme alla zona prefrontale dorsolaterale di destra circa 5 secondi prima dell’esecuzione cosciente (Oksanen et al.,2014).

Per il recupero dell’intenzione è implicato, oltre che la BA10 (Volle et al.,2011), anche l’ippocampo secondo uno studio del 2007 (Martin et al.,2007). Seppure la ricerca abbia riguardato compiti di “Event-Based” è plausibile affermare che, vista la forte implicazione di quest’area nel recupero di informazioni temporali in ordine cronologico (Eichenbaum,2013), è probabile che si attivi insieme alla corteccia prefrontale anche nei compiti di “Time-Based”.

Uno studio conferma inoltre che l’attività prefrontale non diminuisce in concomitanza di altri compiti subentranti durante l’intervallo di prestazione (Cona et al.,2012). Per cominciare l’azione cosciente, si attiva la BA10 di sinistra mentre diminuisce l’attività nella parte mediale dell’area (Burges et al., 2000 e 2003); ai fini dell’esecuzione si attiva anche la BA 47 (Volle et al.,2011), il giro cingolato anteriore (Okuda et al.,2007) e nell’insieme del processo è stato dimostrato anche il ruolo del talamo (Cheng et al.,2010), che probabilmente svolge un ruolo importante nei diversi processi cognitivi della memoria prospettica. Bisogna poi ricordare che in compiti di “Event-Based” l’aumento di attività del lobo parietale e la conseguente diminuzione nella BA10 è associato a compiti di abituazione e più automatici. In futuro sarà interessante indagare anche le attività cerebrali dovute ad effetto priming di stimoli simili a quelli percepiti durante la fase di pianificazione. Einstein e McDaniel (2007) sostengono la possibilità di un meccanismo cognitivo interno e continuo in grado di segnalare il momento giusto per il recupero dell’intenzione, che si può ipotizzare sia associata ad una comunicazione tra le cellule del tempo e la corteccia prefrontale, non ancora dimostrata.

La memoria prospettica: conclusioni

Un’ importante implicazione di questo particolare tipo di memoria prospettica sta nell’ipotesi di un meccanismo cognitivo interno che funziona durante la giornata mentre noi non ce ne accorgiamo. Inoltre bisogna anche prendere in considerazione come il nostro cervello interpreta il tempo in maniera automatica ed implicita con l’azione di certe zone cerebrali e di come ci avverte di questa elaborazione. La memoria prospettica temporale infatti funziona e si attiva per via di un processo interno e mentale, a meno che non vi sia un orologio che ci ricordi che il tempo è passato.

I disturbi del sonno e le correlazioni col genere

Uomini e donne non vedono, sentono o si comportano ugualmente, pertanto perché dovremmo pensare che dormano allo stesso modo? O perlomeno è quanto propone un recente studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), condotto da Diane B. Boivin (Dipartimento di Psichiatria, McGill University) e dal Douglas Mental Health University Institute.

 

Manipolando i dati relativi al ciclo mestruale e all’uso di contraccettivi ormonali, la Boivin ha mostrato come l’orologio biologico influisca sul ritmo sonno-veglia in modo diverso negli uomini e nelle donne, spiegando perché le donne siano più inclini a manifestare disturbi del sonno.

[blockquote style=”1″]Osservando un simile ciclo di sonno in entrambi i sessi, abbiamo notato come l’orologio biologico femminile induca la donna ad addormentarsi e svegliarsi prima di un uomo. La ragione è semplice: il suo orologio biologico è spostato ad un fuso orario più a est[/blockquote] ha affermato il direttore del Centro per lo Studio e il Trattamento dei Ritmi Circadiani (ritmi caratterizzati da un periodo di circa 24 ore, ad esempio: ritmo sonno-veglia, ritmo della variazione della temperatura corporea) al Douglas Institute. E ha aggiunto: [blockquote style=”1″]Questa differenza osservata è essenziale per capire il motivo per cui le donne sono più suscettibili ai disturbi del sonno.[/blockquote]

Lo studio

Il team di ricercatori ha confrontato le variazioni biologiche di sonno e veglia di 26 soggetti (15 uomini e 11 donne). Tutte le partecipanti di sesso femminile possedevano un ciclo mestruale naturale: 8 di loro sono state analizzate nelle due fasi del ciclo mestruale (follicolare e luteale), le altre 3, invece, solo nella fase follicolare. Questo è un punto cruciale perché precedenti ricerche di Bolvin hanno dimostrato che le diverse fasi mestruali influenzano i ritmi biologici della temperatura corporea e del sonno.

I partecipanti sono stati sottoposti ad una procedura di registrazione di cicli ultradiani sonno-veglia (cicli della durata più breve di un giorno, ma superiore a un’ora) contraddistinta da 36 cicli formati da momenti di veglia alternati a opportunità di addormentamento. Durante la procedura sono stati rilevati i parametri relativi a temperatura corporea, melatonina salivare, vigilanza e qualità del sonno registrata attraverso polisonnografia.

I risultati

Tutte le misure ottenute hanno mostrato una significativa variazione diurna-circadiana durante tutta la procedura. Rispetto agli uomini, le donne hanno mostrato un significativo anticipo nei ritmi della temperatura corporea e nella variazione diurna-circadiana delle misure di sonno e vigilanza, ma non nei ritmi della melatonina. Inoltre, le donne hanno sperimentano una maggiore ampiezza della variazione diurna-circadiana della vigilanza. Nel complesso i risultati indicano che le donne iniziano il sonno in una fase circadiana più tardiva rispetto agli uomini, giustificando così la loro maggiore suscettibilità ai disturbi del sonno.

[blockquote style=”1″]I nostri partecipanti non hanno manifestato alcun disturbo del sonno durante lo studio. Ma ad ogni modo, questi risultati ci hanno aiutato a capire, tra le altre cose, perché le donne hanno più probabilità, rispetto agli uomini, di svegliarsi prima la mattina e sentirsi stanche anche dopo un’intera notte di sonno. E’ perchè sono meno vigili durante la notte[/blockquote] ha spiegato Bolvin.

I risultati di questo studio, pertanto, suggeriscono che le donne potrebbero essere biologicamente meno predisposte per il lavoro notturno. Ulteriori ricerche saranno necessarie per esplorare questa questione e sviluppare interventi differenziati per generi: i disturbi del sonno spesso determinano una serie di problemi funzionali.

Placare il cuore e la mente: un nuovo trattamento CBT per l’attacco di panico associato a patologia cardiaca

Solo recentemente (2016) è stato sviluppato lo specifico metodo PATCHD, basato sull’esperienza pregressa della CBT, coniugata però con le specifiche richieste cliniche e di assessment del paziente cardiopatico, tenendo conto dell’apporto di cardiologi, infermieri e fisiologi.

La comorbidità tra attacco di panico e patologia cardiaca

L’espressione “attacco di panico” fa riferimento al disturbo d’ansia somatico per antonomasia. Esso è infatti un breve stato di intensa paura e terrore con sintomi cognitivi e somatici durante il quale il soggetto generalmente teme di impazzire, morire o perdere il controllo.
La natura imprevedibile del disturbo e il circolo della paura ad esso associato compromettono lo svolgimento della vita quotidiana a lungo termine, soprattutto in assenza di trattamento.

Esso è spesso presente in netta comorbidità con un’altra patologia decisamente critica, quella cardiaca, spesso dovuta all’ostruzione delle coronarie. A tal proposito infatti la letteratura ha da anni sottolineato come la depressione e lo stress siano possibili fattori di rischio cardiaco, concentrandosi anche sulla stretta relazione tra ansia e malattia cardiaca. In particolare le situazioni ansiogene di varia natura diagnostica, comprendenti quindi anche l’attacco di panico, aumentando l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, accrescono il livello di catecolamine circolanti. Questa eccitazione superiore a un quadro abituale può avere un’influenza nel rischio di ipertensione e, nel lungo termine, di possibile sviluppo di malattia al muscolo portante del sistema circolatorio.

Studi longitudinali hanno in realtà dimostrato una relazione bidirezionale tra la dimensione dell’ansia e quella dell’ipertensione: la presenza di uno dei due fattori può implicare una maggiore possibilità della presenza dell’altro. (Player & Peterson, 2011)
Tale comorbidità non è da sottovalutare, in quanto è stato dimostrato (Tully, 2015) che l’esordio dell’attacco di panico associato ad insufficienza cardiaca si correla anche ad un alto tasso di ricovero ospedaliero.

L’insufficienza cardiaca presenta tra i sintomi anche molti elementi comuni alla sintomatologia della somatizzazione del panico, tra cui le palpitazioni, la dispnea o l’ortopnea (dispnea in posizione supina) e perciò la compresenza delle due diagnosi non stupisce.
Questa sovrapposizione tra i due disturbi crea tanta difficoltà sia nella corretta diagnosi differenziale specifica sia nella terapia.

La terapia cognitivo comportamentale dell’attacco di panico associato a patologie cardiache

Nonostante la terapia cognitivo comportamentale sia quella d’elezione in presenza di psicopatologie di questo genere, precedentemente nessuno studio ha dimostrato la sua possibile applicazione in presenza di comorbidità tra attacchi di panico e insufficienza cardiaca, dove è presente il rischio di un evento concreto, quale l’attacco cardiaco.
Solo recentemente (2016) in questa direzione è stato sviluppato lo specifico metodo PATCHD, basato sull’esperienza pregressa della CBT, coniugata però con le specifiche richieste cliniche e di assessment del paziente cardiopatico, tenendo conto dell’apporto di cardiologi, infermieri e fisiologi.

Il modello si compone di sei elementi: la formulazione del caso, la psicoeducazione relativa alle due malattie da cui è affetto il paziente, la riduzione dello stress grazie alla mindfulness, il miglioramento di abilità di coping e di attività per il dolore al petto, l’esposizione ad attività che contrastino con il comportamento di evitamento, oltre a interventi di natura cognitiva per identificare il pensiero poco adattivo che mantiene il panico e la tendenza all’evitamento.

La terapia si propone come breve, per una durata di circa otto incontri, in quanto il paziente cardiopatico ha difficoltà a considerare se stesso in un’ottica psicopatologica e abbandona più facilmente la terapia.

La formulazione del caso generalmente segue a una normale pratica adottata coi pazienti con patologia cardiaca, in quanto generalmente si effettua uno screening per la sensazione di panico, enfatizzato nel caso di un sospetto di psicopatologia. L’innovazione fornita dalla terapia consiste però in una formulazione a più voci, in quanto il terapista è accompagnato in questo compito dal personale sanitario che può fornire utili informazioni.

La psicoeducazione in questi contesti permette in seguito di far identificare al paziente l’ansia come una normale risposta a una malattia ormai comune come quella cardiovascolare e di analizzare i sintomi e i meccanismi responsabili o perpetuanti della situazione di panico. Essendo complicato discernere e far discriminare il paziente stesso in merito alla sintomatologia della patologia, è più utile scoprire ciò che può minacciarlo e indurre perciò il sintomo. Ciò permette anche di creare una ristrutturazione cognitiva che elimini le credenze patogene, conseguenze tipiche di ogni manifestazione cardiaca negativa.

Il contributo della mindfulness è invece legato alla consapevolezza del sintomo e di una modalità di rilassamento respiratoria per fronteggiarlo, apripista per l’apprendimento di modalità per la gestione del dolore. Queste nuove tecniche sono sviluppate in comunione con la classica metodologia CBT di esposizione per diminuire l’attitudine all’evitamento, fino a simulare addirittura la situazione di un attacco di cuore o a concentrarsi sull’attività fisica.
Al momento l’efficacia è stata testata solo su un numero minimo di pazienti, ma la sua innovazione potrebbe essere un valido alleato per migliorare la quotidianità di pazienti affetti da patologie tanto critiche quanto deleterie per la vita individuale.

 

Sindrome di Tourette: comorbilità con il disturbo Ossessivo-Compulsivo e con la sindrome P.A.N.D.A.S.

La Sindrome di Gilles de la Tourette, o più semplicemente sindrome di Tourette (TS), rientra nella classe dei disturbi del movimento, con esordio in età pre-adolescenziale. Colpisce circa l’1% della popolazione generale, ma l’incidenza sale notevolmente fino al 18% se si prende in considerazione la popolazione in età scolare, con una presenza maggiore nel genere maschile rispetto a quello femminile (3:1). Per circa la metà dei casi si ha una remissione di tutti i sintomi con il raggiungimento dell’età adulta. E’ caratterizzata da tic motori e fonatori più o meno costanti, involontari o semi-volontari.

Fratus Micaela, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Sebbene non siano ancora del tutto chiare le cause di sviluppo della Sindrome di Tourette, molti autori e ricercatori sono concordi nell’ affermare che si tratti di un’eziologia multifattoriale, in cui sono coinvolti fattori genetici e fattori ambientali. Recenti ricerche hanno sottolineato il coinvolgimento a livello neurologico di un malfunzionamento del talamo e dei gangli di base che determinano un’attività dopaminergica anomala. Attualmente i trattamenti maggiormente utilizzati sono sia di stampo comportamentale che farmacologico, a seconda dell’andamento dei sintomi o della gravità. La diagnosi della sindrome di Tourette è spesso correlata con il disturbo Ossessivo-Compulsivo (OCD) e con il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (AHDH).

La sindrome di Tourette: quadro clinico

Quello che maggiormente caratterizza la sindrome di Tourette (TS) è la tendenza del bambino di compiere piccoli movimenti senza finalità apparente e/o di produrre suoni più o meno articolati in maniera involontaria. I tic sono brevi, intermittenti e ripetitivi e possono essere classificati a seconda della loro complessità. I tic semplici, per la maggior parte delle volte camuffabili e semi-controllabili, riguardano un solo muscolo o un solo gruppo di muscoli e possono avere una durata differente. Nonostante la loro ripetitività possono essere scambiati per movimenti volontari e quindi passare inosservati. I tic complessi, invece, si riferiscono a delle vere e proprie sequenze di movimento sconnesse dal contesto ambientale in cui il soggetto è inserito. Sono descritti come ripetitivi, forzati, eccessivi e spesso socialmente inappropriati, come la copropassia (impulso a compiere gesti volgari e osceni) e l’ecoprassia (impulso a imitare i movimenti dell’altro). A livello sonoro, i tic complessi si traducono in vere e proprie frasi o sequenze di parole e mantengono tutte le caratteristiche di quelli motori precedentemente elencati (ripetitività, forzatura e inappropriatezza). Esempi di tic fonatori complessi sono la coprolalia, l’ecolalia e la palifisia (tendenza a ripetere proprie espressioni vocali).

In linea generale tutti i tic appena descritti posso essere inibiti e sono fortemente influenzabili da alcune attività che il soggetto intraprende. Alcuni tic sono controllati e addirittura possono sparire per un periodo di tempo, se il soggetto è in grado di concentrarsi e focalizzare la propria attenzione su altro (molti bambini con sindrome di Tourette non manifestano nessun tic mentre giocano con i videogiochi). Un’inibizione eccessiva e prolungata dei tic può portare però ad un vero e proprio scoppio con una conseguente acutizzazione delle sequenze ticcose e una maggiore difficoltà nel controllarli nuovamente. I bambini presentano gradi diversi di gravità a seconda dell’ambiente in cui si trovano e del livello di stress che percepiscono. Circa l’80% della popolazione colpita da questa sindrome afferma che qualche istante prima del manifestarsi del tic ha una sensazione o un fastidio (segni anticipatori) che ne segna l’imminente arrivo (prurito o bruciore agli occhi prima di un movimento oculare involontario, bruciore o pizzico alla gola prima di un colpo di tosse incontrollato, irrigidimento muscolare).

Secondo il DSM-IV-TR la diagnosi di sindrome di Tourette è attribuibile a soggetti che:
– In una certa fase manifestano, anche se non necessariamente in maniera contemporanea, sia tic motori multipli che uno o più tic sonori;
– Manifestano la sintomatologia ticcosa (attacchi) più volte al giorno, quasi ogni giorno, oppure in maniera ininterrotta per un certo periodo nell’arco di un anno, durante il quale non devono essere assenti per un periodo superiore a 3 mesi consecutivi;
– Presentano un’insorgenza di questi sintomi prima dei 18 anni.
– Il disturbo non deve essere attribuibile agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (es. stimolanti) o di una patologia medica (es. malattia di Huntington, encefalite postvirale).

E’ bene notare che la sintomatologia ticcosa non ha una forma invariata e stabile, ma può subire delle oscillazioni per quanto riguarda la gravità e frequenza; può, per esempio, manifestarsi con tic nuovi, più o meno complessi a seguito di un’apparente interruzione.
I tic si manifestano tipicamente intorno agli 8 anni e raggiugono la massima frequenza e gravità negli anni della pre-adolescenza. Per il 50% dei casi la sintomatologia scompare del tutto con il raggiungimento della maggiore età. Tale regressione sintomatica potrebbe essere attribuita ad una progressiva innervazione nigro-striatale del cervello degli adolescenti in fase di crescita. Ciò sposterebbe l’interesse relativo all’insorgenza della malattia su aspetti di disfunzionalità neurologica.

Più del 50% della popolazione affetta da sindrome di Tourette presenta un’altra patologia psichiatrica associata, più frequentemente un disturbo da deficit di attenzione/iperattività o un disturbo ossessivo-compulsivo (quando il bambino raggiunge i 7 anni di età circa). Stati di ansia, depressione e problemi comportamentali possono influire sulla sintomatologia aggravandola e possono essere altamente invalidanti tanto quanti i tic stessi. I tic e l’eventuale patologia associata possono ostacolare il rendimento scolastico e possono portare all’assunzione di un comportamento disfunzionale. Non è assente la possibilità di riscontare una sorta di ritiro sociale da parte dei bambini affetti da sindrome di Tourette, in primo luogo a causa del feedback negativo che ricevono dall’ambiente esterno e soprattutto dal gruppo di pari.

Comorbilità nella Sindrome di Tourette

Diversi studi forniscono un sostegno empirico all’idea della presenza di associazioni tra Sindrome di Tourette e altri disturbi. In una ricerca proposta da Hirschtritt M.E. et al. si evince che su un campione di 1374 soggetti affetti da sindrome di Tourette e 1142 soggetti con familiari affetti da TS, circa il 72% soddisfano anche i criteri per il disturbo ossessivo-compulsivo (OCD) e per il disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività (ADHD). I dati da essi riportati, fanno emergere anche la presenza di disturbi dell’umore e comportamento disfunzionale nel 30% dei soggetti. Gli stessi autori arrivano alla conclusione che, già nei primi esordi della malattia, tra i 4 e i 10 anni (fatta eccezione di disturbi alimentari e abuso di sostanze che hanno un esordio più tardivo, in soggetti adolescenti tra i 15 e i 19 anni) il rischio di comorbilità, soprattutto rispetto a queste due patologie, è molto alto e persistente. Non solo, ma la presenza di altri disturbi, da quelli dell’umore all’abuso di sostanze è fortemente incrementata dalla presenza di uno dei due disturbi. In ultima analisi, gli autori sostengono che la sindrome di Tourette, il disturbo ossessivo-compulsivo e/o il deficit dell’attenzione/iperattività, possono essere geneticamente determinate e quindi biologicamente in relazione tra loro.

La Sindrome di Tourette e il Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Il disturbo ossessivo-compulsivo è una condizione patologica caratterizzata da due fenomeni principali: l’ossessione e la compulsione. Nella maggior parte dei soggetti affetti da tale disturbo questi due aspetti sono simultaneamente presenti e si legano tra loro in maniera logica, ma disfunzionale. Sia l’ossessione che la compulsione sono strettamente legati all’ansia e al senso di controllo. L’ossessione si traduce in pensieri persistenti che nascono da timori privi di reale fondamento e si intromettono in maniera improvvisa nella mente del soggetto. Il bisogno di eliminare l’ansia eccessiva e di controllare tutto si traduce nella ricerca di precisione, di simmetria, di uniformità, di pulizia, di eccessivo interesse per le regole. L’ossessione è così presente e insistente che l’attività cognitiva subisce un evidente rallentamento.
Se l’ossessione riguarda il pensiero, la compulsione, invece, è più orientata all’azione. Si parla di comportamento compulsivo quando si evince l’esistenza abituale di rituali irrazionali messi in atto nel tentativo (ovviamente inefficace) di controllare e neutralizzare l’ansia causata dalle ossessioni.

La diagnosi di Disturbo ossessivo-compulsivo proposta dal DSM-VI-TR propone dei criteri sia per indagare la presenza di ossessività (es. presenza di pensieri o immagini ricorrenti e ansiogeni, intrusivi, indesiderati e inappropriati rispetto al contesto; tentativo di ignorare, sopprimere o neutralizzare con altre azioni ripetute tali pensieri, immagini e impulsi ossessivi causa di sofferenza) sia per indagare la presenza di compulsività (es. comportamenti ritualizzati o atti mentali che la persona è obbligata a mettere in atto in risposta a un’ossessione o nell’ambito di regole che devono essere applicate rigidamente).

La presenza copiosa di tic motori e fonatori tipici della Sindrome di Tourette non sono l’unica manifestazione della patologia. Nella maggioranza dei pazienti persiste un’incapacità più o meno marcata di orientare e focalizzare l’attenzione per un determinato periodo di tempo e in maniera costante. Tale difficoltà non è determinata soltanto da un coesistente disturbo ADHD, ma soprattutto dalla presenza intollerabile di idee e fissazioni ossessive riguardo taluni argomenti o oggetti. Chi soffre di questa sindrome è costantemente indaffarato e concentrato al fine di controllare e addirittura sopprimere i tic e le sensazione che ne predicono l’arrivo. Appare quindi evidente come i disordini ossessivo-compulsivi fanno parte dello spettro di manifestazione comportamentale della sindrome di Tourette. Si evince da quanto appena detto, che la linea di separazione tra i due disturbi, la sindrome di Tourette e il disturbo ossessivo-compulsivo, è molto sottile e spesso sovrapponibile.

All’interno di uno studio proposto da Lebowitz et al. (2012), è dimostrato come su 158 pazienti affetti da sindrome di Tourette, il 53,8% (85 soggetti) soddisfa anche i criteri per l’OCD. In pazienti in cui le due patologie coesistono in maniera associata si possono riscontrare sintomi di ansia e perdita di controllo a causa del costante timore di dire o fare qualcosa di inappropriato agli occhi degli altri. Le ossessioni sono caratterizzate dal fatto che non presentano una finalità specifica e sono ripetitive (es. lavaggio delle mani, conteggio degli oggetti). Come sostengono gli stessi autori, i giovani che manifestano una co-presenza di entrambe le patologie si caratterizzano per tic più gravi e invalidanti, un aumento dei sintomi ansiosi e depressivi, un più alto livello di stress patologico e un funzionamento globale povero.

I sintomi che caratterizzano l’ OCD ad oggi sono considerati come una condizione multidimensionale che può assumere la connotazione di un vero e proprio disordine primitivo, di origine idiopatica o familiare, oppure una condizione coesistente alla sindrome di Tourette, che ne arricchisce negativamente il quadro patologico e ne aggrava la pervasività.
La maggior parte degli studi si mostrano concordi nell’affermare che il disturbo ossessivo-compulsivo sia una parte integrante della complessa manifestazione sintomatologica della sindrome di Tourette. Ci sono, inoltre, numerose evidenze che dimostrano che i due disturbi sono anche geneticamente correlati.

Sindrome P.A.N.D.A.S., sindrome di Tourette e disturbo ossessivo compulsivo: analogie e differenze

L’acronimo P.A.N.D.A.S (Pediatric Autoimmune Neuropsychiatric Disorder associated with Streptococcal infections) è una malattia autoimmune che è stata descritta in bambini e adolescenti con diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo, di anoressia nervosa e/o sintomatologia ticcosa insorti dopo un’infezione da streptococco. La presenza di tic e di disturbi dello spettro ossessivo compulsivo e l’esordio in età pre-puberale creano delle difficoltà nel distinguere la sindrome PANDAS dalla TS e dal OCD. In realtà, a livello eziologico, nonostante le evidenti somiglianze elencate precedentemente, la sindrome PANDAS è generata da un’infezione batteriologica. Nello specifico, per circa il 20-30% dei pazienti, il fattore scatenante è rappresentato dalla risposta errata che le cellule immunitarie dell’organismo danno alle cellule B o ai gangli di base (stessa area cerebrale di interesse per quanto riguarda l’eziologia della TS e del OCD) quando entrano in contatto con lo streptococco. Va sottolineato che la relazione tra infezione da streptococco e comparsa di sintomi ossessivo-compulsivi non è così lineare e diretta: soggetti geneticamente predisposti a questo disordine possono manifestare i sintomi sia in seguito al primo episodio di infezione, sia in episodi successivi.

Inizialmente tutti i casi di bambini affetti da sindrome di PANDAS che manifestavano sintomi tipici della sindrome di Tourette e/o del disturbo ossessivo-compulsivo venivano diagnosticati come tali. In realtà le differenze tra PANDAS e sindrome di tourette, oltre che rintracciabili nella presenza o meno di un’infezione batterica, si manifestano anche nella sintomatologia ticcosa. I bambini affetti da Tourette presentano tic più invasivi e numerosi e la presenza di fenomeni quali l’ecolalia, assenti nei soggetti affetti da sindrome PANDAS. In quest’ultimo caso sarebbe più corretto associare la presenza di tic a tremori, contrazioni, goffaggine, smorfie, ipersensibilità al tocco e ai vestiti.

Altre differenze, seppur sottili, sono riscontrabili nella manifestazione sintomatologica ossessivo compulsiva.
Mentre nel quadro OCD puro i sintomi hanno un esordio graduale (spesso possono essere presenti da un anno prima di diventare problematici), i sintomi associati alla sindrome PANDAS hanno un esordio improvviso e rapido, anche da un giorno all’altro.
L’andamento della sintomatologia ossessivo-compulsiva nel PANDAS è soggetto a oscillazioni con picchi e crolli, a seguito della variabile numerosità di anticorpi in circolo, a differenza di dell’ OCD che ha un’oscillazione moderata o quasi assente.

Appare chiaro come, nonostante le patologie presentino delle caratteristiche simili e siano in qualche modo molto vicine dal punto di vista biologico, rispondono in maniera differente alle terapie proposte. Un trattamento psicoterapeutico e farmacologico ha buoni livelli di efficacia per la sindrome di Tourette, ma non per la sindrome PANDAS; al contrario l’utilizzo tempestivo di cicli di antibiotici comporta la remissione dei sintomi causati dall’infezione, ma non ha alcun effetto sui bambini affetti da TS.

Al fine di intervenire tempestivamente con un trattamento antibiotico e cortisonico che porta alla remissione dei sintomi ed evitare l’utilizzo di lunghi trattamenti inefficaci e spesso causa di cronicizzazione dei disturbi, è utile indagare l’origine dei sintomi e la possibile concomitanza con stati infettivi. E’ altamente consigliabile, quindi, controllare la presenza o meno di un’infezione da streptococco (o simili) in corso nel momento in cui si fa diagnosi di Sindrome di Tourette o di Disturbo ossessivo-compulsivo.

In tempi recenti, si è visto come questo tipo di quadro clinico non fosse conseguente unicamente a un’infezione da streptococco, ma anche ad altri tipi di infezione come quella da Erpes o da mycoplasma (si parlerebbe di sindrome di PANS). In questi casi alternativi il trattamento con soli antibiotici potrebbe non essere del tutto efficace, è utile intervenire anche con immunostimolanti o con i cicli di magnesio e di complessi multivitaminici.

L’utilizzo dei farmaci nella psicosi post-partum

Secondo una recente review della Northwestern Medicine sulle donne in gravidanza che soffrono di Disturbo Bipolare, le loro famiglie ed i medici dovrebbero essere a conoscenza del fatto che esiste un rischio significativamente elevato di sviluppare psicosi post-partum.

 

In accordo con la Northwestern Medicine, la Stanford University e l’Erasmus Medical Center in Olanda nella review viene evidenziato come la maggior parte delle psicosi post-partum derivino quasi sempre dalla presenza di un Disturbo Bipolare, ma purtroppo a tal proposito vi è una forte assenza di materiale di ricerca, dovuta in particolar modo alla mancata disponibilità di campioni da testare.

 

Psicosi post-partum e litio: effetti sull’allattamento

Oltre alla scarsa divulgazione di informazioni ad aggravare il problema vi è il fatto che i medici sono restii a prescrivere il Litio alle madri che allattano, in quanto vi è il timore che il farmaco possa avere un impatto negativo sul bambino.

Tuttavia, in uno studio che ha osservato madri trattate con Litio e i loro bambini allattati al seno è stato osservato che in realtà questi ultimi non subivano effetti negativi di alcun genere. Di fondamentale importanza sarebbe approfondire tale questione, in quanto il Litio è uno dei farmaci più efficaci e ad azione rapida per il trattamento della psicosi post-partum.

Secondo la review una diagnosi tempestiva affiancata alla consapevolezza che la psicosi post-partum sia curabile può impedire che si sfoci nella tragedia. Purtroppo l’interesse e l’adeguata informazione di tale patologia riguarda solo 1 o 2 madri su 1000. Se affianchiamo questo dato alla mancanza di ricerca, spesso effettuare una diagnosi risulta veramente molto difficile.

Il senso comune della gente porta spesso a pensare che quando una donna è incinta non è autorizzata ad avere autonomia sul proprio corpo, in quanto quello che succede alla madre succede anche al feto. Ma in realtà avere una mamma mentalmente sana è di fondamentale importanza per il corretto sviluppo del bambino – ha dichiarato Wisner – Là dove queste errate credenze vengono a mancare e alle donne è stata data la possibilità di prescrivere il Litio, sono state riscontrate buone risposte al trattamento.

 

Differenza tra psicosi post-partum e depressione post-partum

È importante che la psicosi post-partum non venga confusa con la depressione post-partum. Le donne che soffrono di depressione post-partum presentano sintomi che possono includere la stanchezza, l’ansia e pensieri ossessivi che spesso riguardano il timore di mettere in pericolo il proprio figlio (ad es. E se affogo il bambino nella vasca da bagno?). La differenza fondamentale è che in questo caso siamo in assenza di sintomi come allucinazioni e deliri che sono invece caratteristici della psicosi. Un’insorgenza di psicosi post-partum acuta è molto grave, in quanto le donne si trovano improvvisamente in uno stato disorganizzato e confuso, quasi come fossero in una sorta di delirio. Alcune pazienti presentano illusioni riguardanti una forza oscura o esterna che le porta a voler danneggiare il loro bambino.

 

Il ruolo dei medici

Un altro dato importante che è emerso riguarda il ruolo dei medici, i quali dovrebbero distinguere i trattamenti in base a due tipi di donne che sviluppano la psicosi post-partum: coloro che presentano episodi solo dopo il parto e coloro che hanno alterazioni dell’umore croniche sia durante che dopo la gravidanza.

Per le donne che sviluppano episodi solo dopo il parto Wesner sostiene l’importanza di fornire immediatamente il farmaco per impedire il formarsi di una psicosi grave. Alle donne che invece soffrono di Disturbo Bipolare cronico è necessario prescrivere il farmaco durante la gravidanza, è però fondamentale che il medico effettui continui controlli e che ne regoli i dosaggi di frequente per regolare i cambiamenti metabolici.

Infine la review richiama l’attenzione sulla mancata esistenza di servizi sanitari che prevedono la cura congiunta della madre e del bambino negli ospedali psichiatrici negli Stati Uniti. Negli ospedali di altri paesi esiste un’unità di ammissione comune in cui vengono ammesse sia le madri che i bambini, dove inoltre gli altri componenti della famiglia possono fare visita. Negli Stati Uniti, invece, le madri vengono ricoverate in un ospedale psichiatrico, dove non è consentita la visita dei bambini, rendendo così impossibile l’allattamento e non fornendo a queste donne la possibilità di prendersi cura del proprio figlio durante il periodo di recupero.

 

Esperienze dallo Standupificio: disoccupazione e vergogna

Standupificio è un progetto di intervento psicoeducativo rivolto a persone che hanno perso il lavoro o che, pur avendone uno, versano in una condizione di disagio lavorativo. Ha lo scopo di trasferire strumenti semplici di autoaiuto che possano permettere alle persone – come suggerisce il nome la cui radice rimanda all’inglese “to stand up”- di rialzarsi e di ricominciare da sé, soprattutto nella possibilità che il reinserimento nel mondo del lavoro possa tardare a venire.

 

Ideato dall’Associazione Dentro un quadro, Standupificio è stato lanciato in via sperimentale il 30 novembre 2015 con il supporto logistico e il patrocinio del Comune di Milano. Oggi è diventato un appuntamento mensile in seno al progetto Artepassante, un progetto finanziato da Fondazione Cariplo, grazie all’Associazione capofila Le Belle Arti che ha manifestato la sensibilità al tema del disagio legato al lavoro.
Nel corso degli appuntamenti di Standupificio, vengono anche raccolti dati ai fini di ricerca.

10 giugno 2016, un venerdì.

Dal mattino presto, ci troviamo al Passante ferroviario della Stazione Vittoria a Milano. Allestiamo lo spazio che ci è stato concesso dall’associazione Le Belle Arti, capofila del progetto Artepassante, per Standupificio.
Con Standupificio, che l’Associazione Dentro un quadro ha promosso per trasferire strumenti semplici di autoaiuto ai cittadini che versano in una condizione di disagio per via del lavoro, offriamo un percorso psicoeducativo individuale gratuito a tutti coloro che ne fanno richiesta per email. Abbiamo la nostra agenda, sappiamo chi arriverà nel corso della giornata.

Tiriamo dunque fuori sagome di cartone, mollette per i panni, corde. Spostiamo sedie, divani, tavoli. Esponiamo cartelli all’ingresso con la scritta “Standupificio. Dove io ricomincio da me”. E già lì, in quei minuti che precedono l’apertura della giornata, qualcuno di noi la nota: una donna ben vestita, non appariscente ma sicuramente non sciatta, di mezza età, ci osserva dai tornelli della metro a più riprese.
Sarà solo nel pomeriggio che capiremo, quando cioè accompagnata da un’amica troverà il suo modo per entrare nello Standupificio e presentarsi: “Sono disoccupata. Non mi sono prenotata… Posso fare lo stesso il percorso?”

Diamo a questa donna il nome di Sara. Spiegherà al terapeuta con cui fa il percorso che è lì dalla mattina ma che per troppa vergogna non è riuscita, se non grazie all’intervento dell’amica, a farsi avanti.

Castelfranchi definisce la vergogna come un tipo particolare di “dispiacere” legato all’autoconsapevolezza circa la compromissione della propria immagine agli occhi degli altri. La vergogna origina da un senso sgradevole di nudità che può investire qualcosa che si è fatto o quello che si è, ciò che si pensa o ciò che si prova, il proprio corpo, o ancora ciò che si possiede o che non si possiede. Un aspetto centrale, sottolineato da Castelfranchi nell’eziologia di questa emozione, consiste nell’importanza del contesto sociale e dei criteri di valore al suo interno condivisi: il proprio sentirsi adeguati è profondamente influenzato da cosa all’interno del contesto di riferimento viene ritenuto tale e che, una volta disatteso e qualora “visto” dagli altri membri, può causare un vissuto di vergogna.

Chi si vergogna arrossisce, abbassa lo sguardo e la testa, “si ingobbisce”, “si fa più piccolo”: questi rappresentano segnali comunicativi, spesso non intenzionali, attraverso i quali è come se il soggetto si scusasse della propria inadeguatezza, rinnovando in questo modo la condivisione dei valori riconosciuti nel contesto sociale ed esprimendo il desiderio di continuare a farne parte. Fra l’altro, ciò di cui ci si vergogna non necessariamente deve riguardare un’azione o una proprietà reale della persona: è sufficiente che un fatto sia correlato a una valutazione negativa – anche solo immaginata – che si ha paura di dover subìre per le ricadute inevitabili sulla stima di sé. È proprio per evitare di provare vergogna, infatti, che spesso si fa o non si fa qualcosa.

Lo stesso è successo a Sara, che è rimasta l’intera mattina ad osservarci, decidendo di non entrare nello Standupificio se non nel pomeriggio, trascinata da un’amica: “Non ho un lavoro, mi hanno lasciata a casa… – spiegherà – mi sento una sfigata, mi chiedo sempre dove ho sbagliato. E’ da mesi che rispondo a tutti gli annunci che trovo, mando curriculum, ma sono ancora qua! Mi chiedo cosa ho che non va. Chissà gli altri cosa pensano di me…”
Ecco. La vergogna e i suoi effetti.

Standupificio è stato lanciato il 30 novembre 2015 in Casa dei Diritti, messa a disposizione gratuitamente dal Comune di Milano che ha sostenuto l’iniziativa concedendo anche il Patrocinio. Oggi è diventato un appuntamento mensile e Sara è solo una delle persone disoccupate che abbiamo avuto il piacere di incontrare. Ripensando non solo a Sara ma anche alla maggioranza delle persone che finora hanno preso parte ai percorsi, la vergogna risulta essere un’emozione molto diffusa fra chi versa da tempo in una condizione di disoccupazione. Questo non può che far (anche) sorridere (amaramente): se, come dicevamo poco sopra, nell’eziologia della vergogna c’entra e non poco il senso di adeguatezza rispetto al contesto sociale di riferimento, non si può che constatare che l’avere o non avere un lavoro e la sua importanza nei processi di definizione di Sè cominci – in una fase socioeconomica drammatica come quella che da anni stiamo vivendo – a remarci contro in termini di benessere fisico e psichico.

Sara non lavora da quasi tre anni. Durante la seconda parte del percorso psicoeducativo ha attraversato alcuni momenti di commozione quando ha condiviso con il terapeuta alcune delle riflessioni che aveva maturato negli ultimi tempi. Durante il percorso non ha dato parola a nulla che, in fondo, non sapesse già, ma mettere in ordine le sue riflessioni per un momento le ha fatto dire “è per questo che questa mattina non riuscivo ad entrare…”, trovando da sé le ragioni sottese alla sua tentata fuga.

Nel tempo, molto prima di restare disoccupata, Sara aveva iniziato a pensare che il suo valore come persona fosse dovuto al lavoro che svolgeva, e non a caso si è accorta di come anche da questo traesse la motivazione a dedicarsi anima e corpo alla sua professione. Per questo l’ultimo momento del percorso è stato dedicato a scrivere un appunto da portare a casa, una “perla bianca” da rileggere e pensare nei momenti in cui, come in quella giornata, le capiterà di vergognarsi e di non riuscire a fare quanto desidera senza aver ben chiara la ragione dei suoi blocchi: “Anche se nel mio lavoro vorrei essere sempre capace e meritevole, a volte, come tutti, mi capita di sbagliare. E anche se in questo momento non riesco a trovare un lavoro non significa che sono una fallita… voglio iniziare a pensare di avere valore anche se a volte fallisco, voglio provare lo stesso…”

Al termine del nostro breve percorso, Sara era disoccupata come quando era entrata in Standupificio: nè più, nè meno. Con il terapeuta ha però posto i primi passi per guardare in una direzione più utile per affrontare il problema del lavoro che ancora oggi, nonostante anni di ricerche, non c’è.
Speriamo che Sara torni a darci buone notizie nei nostri prossimi incontri. I partecipanti, infatti, possono sempre tornare a trovarci in una delle nostre date e ritagliarsi un momento per aggiornare su come vanno le cose.

Il percorso per ricominciare da se stessi è lungo. Ma anche i percorsi più lunghi, in fondo, iniziano da un primo passo.

Donne serial Killer: profilo psicologico e differenze di genere

La criminologia è unanime nel considerare come tratto qualificante per un serial killer maschio il movente sessuale (componente sadica), mentre per ciò che concerne l’universo femminile la questione si fa più complessa. L’aspetto sessuale non appare infatti preminente: il minor grado di aggressività sadica nelle donne deriva sia da una minore predisposizione biologica (livelli più bassi di testosterone) sia dalle influenze culturali che scoraggiano le manifestazioni di aggressività.

Definizione di serial killer

Secondo la definizione ufficiale fornita dall’FBI nel Crime Classification Manual si definisce Serial Killer colui che [blockquote style=”1″]uccide tre o più vittime, in luoghi diversi e con un periodo di intervallo emotivo tra un omicidio e l’altro, coinvolgendo, in ciascun evento delittuoso, più di una vittima[/blockquote] (Douglas & coll. 1997).

In realtà Autori come De Luca (2001) hanno proposto una definizione più ampia ed esaustiva, intendendo l’assassino seriale come un soggetto che mette in atto personalmente due o più azioni omicidiarie separate tra loro, mostrando una chiara volontà di uccidere, anche se poi gli omicidi non si compiono effettivamente (citato in L’altro diritto, 2016).

I due elementi centrali in tale prospettiva sono la “ripetitività dell’azione omicidiaria”, che stabilisce un circuito ripetitivo patologico, e l’importanza dell’intenzione, a prescindere dalla reale commissione del delitto. La ripetitività dei delitti sottende una logica interna, una componente psicologica interna al soggetto che lo spinge alla reiterazione del comportamento omicidiario: ciò implica che l’azione omicida avviene sotto la spinta di schemi che l’assassino si costruisce nella sua mente, derivanti da esperienze traumatiche infantili. Si tratta di azioni eseguite secondo criteri costanti che riguardano aspetti quali la modalità di esecuzione del delitto e le caratteristiche della vittima, secondo un rituale ossessivo che concorre a delineare la “firma” di quel serial killer.

Donne serial killer: il profilo psicologico

Entrare nella mente di un serial killer significa fondamentalmente scandagliare i temi legati al movente del delitto, alle modalità e armi specifiche di aggressione e/o alle vittime che abbiano dei tratti distintivi, collegandoli alle storie infantili alla base della scelta omicidiaria.
Per esempio, la criminologia è unanime nel considerare come tratto qualificante per un serial killer maschio il movente sessuale (componente sadica), mentre per ciò che concerne l’universo femminile la questione si fa più complessa. L’aspetto sessuale non appare infatti preminente: il minor grado di aggressività sadica nelle donne deriva sia da una minore predisposizione biologica (livelli più bassi di testosterone) sia dalle influenze culturali che scoraggiano le manifestazioni di aggressività (L’altro diritto, 2016).

Al di là del movente sessuale svariate possono, però, essere le spinte emotive utili a mettere in atto l’azione criminale: denaro, gelosia, vendetta, potere o dominio. È proprio in questa cerchia di motivazioni che può essere ricondotta la causa scatenante del comportamento omicidiario seriale femminile. Per esempio, la vedova nera uccide al fine di impossessarsi dei beni della vittima, oppure incassare i premi assicurativi previsti, utilizzando il veleno, con lo scopo di indurre sintomi simili a quelli di malattie note. Quali sono le caratteristiche psicologiche ascrivibili a queste donne e quale ruolo hanno le esperienze infantili nell’esito evolutivo criminale?

E’ sbagliato pensare che si tratti di donne eccentriche o dalla cattiva fama presso amici e conoscenti; si tratta piuttosto di donne e madri di famiglia che, almeno all’apparenza, svolgono lavori del tutto normali che le rendono praticamente insospettabili (casalinga, infermiera, cameriera).
Donne che riscuotono simpatia presso i conoscenti perché appaiono affabili, affidabili, dal volto rassicurante; che, con grande perizia, riescono a creare un clima di confidenzialità e intimità con la vittima, scelta per la sua vulnerabilità, tra deboli o emarginati, in particolare donne e bambini.
Una facciata che nasconde la vera personalità, fredda, cinica, incapace di empatia, manipolatrice, e l’unica intenzione che guida i piani di annientamento delle vittime, ovvero quella di riprendersi una rivincita sulla vita, esprimere la propria superiorità e diventare celebri (L’altro diritto, 2016).

Non si tratta di normali cittadine, vicine della porta accanto che, all’improvviso, una mattina si svegliano e decidono di cominciare a uccidere. Il comportamento di una donna killer è frutto di una storia di esperienze traumatiche iniziate nella più tenera età e proseguite negli anni. E’ intorno al trauma che si costruisce la struttura della personalità del futuro killer.

La maggior parte di esse cresce in famiglie multiproblematiche, riportando quasi sempre una qualche forma di abuso durante l’infanzia. Bambine che perdono uno o entrambi i genitori o costrette a vivere in un ambiente ostile; lo stress derivante dalle oggettive condizioni di disagio, unito all’immaturità delle difese, conduce facilmente le future assassine all’isolamento dalla società, percepita come ostile e da cui “riscattarsi”, sottomettendo a propria discrezione tutto e tutti. In tutte le assassine seriali è comune la percezione della propria esistenza come negativa e degradata, e la presenza di forti sensi di inferiorità fisica e psichica, sociale e sessuale, che vengono compensati con un forte narcisismo (Lucarelli e Picozzi, 2003).

La storia di Leonarda Cianciulli

Emblematica è la storia di una delle più spietate Serial killer italiane, Leonarda Cianciulli, nota come la Saponificatrice di Correggio. Figlia indesiderata fin dalla nascita (la madre era rimasta incinta all’età di quattordici anni e obbligata a sposare il suo rapitore e violentatore), debole e malaticcia, trascorre un’infanzia triste e solitaria che passa chiacchierando con amici immaginari, mentre viene tenuta in disparte ed evitata perfino dai fratelli. Sopraffatta dai contrasti con la madre e da diciassette gravidanze (e dieci figli morti in tenera età) e dalle precarie condizioni economiche, ma soprattutto dal timore di perdere i figli rimasti, vedrà nel sacrificio di vite umane innocenti l’unico modo per allontanare la paura della morte dei figli adorati (Balloni, Bisi, & Monti, 2010).

Storie di infanzie di deprivazione e miseria, comuni tanto a uomini che donne criminali; accanto a tali somiglianze, tante però sono le differenze sostanziali, analizzabili secondo i criteri di tempistica, modalità di azione e scelta dell’arma e tipologia delle vittime (Serial Killers, 2016), oltre a quello relativo al movente, già citato.

Differenze di genere

  • Tempistica. La prima profonda differenza tra il binomio uomo-donna serial killer consiste nei tempi. La donna comincia a uccidere tra i trenta e i quarant’anni, circa un decennio più tardi del suo “collega” maschile. A differenza del maschio però la sua “vita criminale” è lunga il doppio, con un tempo medio di attività che si aggira intorno agli otto anni prima di essere arrestata.
  • Modalità di azione e scelta dell’arma. Una sostanziale differenza tra l’agire dell’uomo e della donna consiste nel mezzo utilizzato. L’uomo tende alla ricerca del contatto fisico con la vittima e alla partecipazione attiva all’uccisione (strangolamento, accoltellamento); come osserva Lunde (1975) l’uomo preferisce di gran lunga la sadica eccitazione derivante dal torturare, sezionare, mutilare e massacrare, in coerenza con il tipico movente sessuale maschile (citato in L’altro diritto, 2016). Le donne, invece, prediligono modalità meno fisiche, con l’utilizzo del veleno (arsenico, stricnina e clorato di potassio) e, al limite, lo strangolamento. Il veleno offre infatti vari vantaggi: è un’arma discreta, silenziosa, che, se usata bene, non lascia tracce e permette di far passare la morte della vittima come naturale. Se agiscono in contesti come gli ospedali (come gli angeli della morte) invece queste donne preferiranno l’iniezione di sostanze letali, attività di routine ospedaliera destinata, pertanto, a passare inosservata. In apparenza la scelta di armi soft può far credere che il “gentil sesso” sia meno spietato rispetto al corrispettivo maschile: tuttavia si deve sottolineare quanto più sadico ed efferato possa essere un omicidio in cui si assiste alla morte lenta di una persona cara, in preda a sofferenze prolungate e lancinanti causate, per esempio, dagli effetti lenti del veleno. Esistono comunque eccezioni, con l’utilizzo di modalità cruente di azione: Leonarda Cianciulli utilizzava i pezzi di corpi delle donne appena uccise per fabbricarne saponette e dolcetti da offrire agli ospiti (Balloni, Bisi, & Monti, 2010). Tra le “armi” della donna serial killer (non meno temibili di quelle prima elencate) si ricordano la seduzione e l’astuzia (capacità di gran lunga superiori rispetto agli uomini), che si trasformano in spietatezza e glacialità nell’approssimarsi al delitto e che aiutano nella costruzione di alibi pressoché inattaccabili, nella fase successiva al delitto.
  • Tipologia della vittima. Le tipiche vittime delle donne serial killer intrattengono con loro un qualche tipo di rapporto e quasi sempre appartengono allo stesso ambito familiare. Come osserva De Pasquali (2002), tra i familiari, il marito è il bersaglio più frequente, mentre gli estranei sono scelti tra i più deboli e indifesi. Inoltre le vittime vengono individuate e uccise “sul posto”, con modalità sedentarie (nella stessa casa dell’assassina o altri luoghi chiusi), fatto riconducibile alla scarsa mobilità nel territorio da parte della serial killer donna e alla strategia tipica di attirare le prede nella propria tana, conosciuta in criminologia come “tecnica del ragno”.

Perché le diete non funzionano? L’effetto iatrogeno della restrizione cognitiva

Un individuo segue una dieta dimagrante non appena esercita un controllo di ordine cognitivo sul proprio comportamento alimentare con l’obiettivo di dimagrire o di non ingrassare. L’individuo si nutre quindi con una modalità riflessiva. Si fida di credenze che definiscono le condotte alimentari maggiormente adatte al suo progetto di dimagrimento. Tali credenze riguardano le quantità di alimenti da consumare, la loro composizione, gli abbinamenti autorizzati, i metodi di cottura e di condimento, gli orari e le modalità di consumo.

Anne Galles, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Alcuni dati a supporto della condanna categorica delle diete dimagranti

[blockquote style=”1″]L’inefficacia e la iatrogenicità delle diete dimagranti dovrebbero portare a una tutela della popolazione, all’abbandono definitivo di tali pratiche da parte dei medici – o per lo meno alla loro sospensione – nell’attesa di avere dati integrativi. Converrebbe quindi orientarsi verso altri metodi per trattare i problemi ponderali[/blockquote] (Apfeldorfer & Zermati, 2007).

Per illustrare questa sentenza perentoria, gli autori citano lo studio di Stunkard e McLaren-Hume, già nel lontano 1959, che dimostra che soltanto il 5% delle persone che seguono una dieta dimagrante riesce a perdere peso senza poi riprenderlo (Apfeldorfer & Zermati, 2001).
I dati più recenti non sono maggiormente incoraggianti (Zermati & Apfeldorfer, 2010):
la metanalisi di Anderson (2001) relativa a ventinove trattamenti dimagranti dimostra che la perdita di peso di soggetti il cui peso medio è di cento chili, non supera i tre chili a cinque anni dall’inizio della dieta;
lo studio di Phelan (2003) coinvolge 2400 soggetti e conclude che il 94% delle persone che hanno perso peso l’hanno riacquistato interamente dopo due anni.

Come spiegare quindi il paradossale e sfrenato entusiasmo per i trattamenti dimagranti? Le diete sono inefficaci nella gestione dei problemi ponderali eppure non sono mai state così popolari: [blockquote style=”1″]lo spostamento dei canoni sociali verso un fisico snello ha generato un aumento della prevalenza delle diete e questo ha fatto sì che il pattern alimentare “normale” per la donna nord-americana sia proprio essere a dieta[/blockquote] (Polivy & Herman, 1987)

Cos’è una dieta dimagrante?

Per capire cosa intendiamo con il termine dieta dobbiamo prima definire cos’è un comportamento alimentare normale o fisiologico. Esso è caratterizzato da tre criteri (Apfeldorfer & Zermati, 2007):
– Il comportamento alimentare è un comportamento controllato: le teorie della regolazione fisiologica fanno dipendere il comportamento alimentare da circuiti omeostatici la cui funzione è assicurare la stabilità di alcuni valori biologici (massa grassa, nutrimenti e micronutrienti). Nel caso della massa grassa, l’omeostasi si traduce concretamente in un peso stabile o set point. Ogni scarto rispetto al set point si esprime in un fabbisogno che provocherà la ricerca e l’assimilazione degli alimenti che porteranno l’energia o dei nutrimenti che colmeranno il fabbisogno.
– Il comportamento alimentare è un comportamento motivato: le informazioni sulla variazione delle riserve energetiche raggiungono il cervello tramite la variazione delle concentrazioni di leptina e di glucosio nel sangue. Tali informazioni giungono alla coscienza sotto forma di sensazioni alimentari: la comparsa, la diminuzione e la scomparsa del fabbisogno energetico prenderanno successivamente la forma di sensazioni di fame, di appagamento e di sazietà. Le informazioni relative ai fabbisogni di micronutrienti si traducono in appetiti specifici: la loro comparsa e la loro scomparsa attivano aree emotive del cervello e l’atto di colmare il fabbisogno si esprime attraverso la soddisfazione.
– Il comportamento alimentare è un comportamento sensato ovvero gli alimenti e le modalità per consumarli sono supportati da rappresentazioni mentali legate alla cultura o alla storia di vita che contribuiscono al sentimento di sicurezza nel quale si dovrebbe collocare l’atto alimentare.

Come possiamo quindi definire una dieta? Dal suo carattere ipocalorico? Dal fatto che precluda alcuni alimenti vietati? Dalla frustrazione generata? Queste caratteristiche appaiono parziali e non esaustive. Secondo gli autori, [blockquote style=”1″]un individuo segue una dieta dimagrante non appena esercita un controllo di ordine cognitivo sul proprio comportamento alimentare con l’obiettivo di dimagrire o di non ingrassare. L’individuo si nutre quindi con una modalità riflessiva. Si fida di credenze che definiscono le condotte alimentari maggiormente adatte al suo progetto di dimagrimento. Tali credenze riguardano le quantità di alimenti da consumare, la loro composizione, gli abbinamenti autorizzati, i metodi di cottura e di condimento, gli orari e le modalità di consumo.[/blockquote]

Assistiamo quindi a uno spostamento da una teoria psicogena del sovrappeso, ormai superata, verso un ruolo preponderante delle conseguenze degli sforzi per dimagrire: le caratteristiche psicologiche delle persone in sovrappeso non sarebbero dei tratti personologici ma sarebbero dovute al fatto che questi individui tentano di rimanere al di sotto al proprio peso forma o set point lottando costantemente contro i meccanismi di regolazione biologica. Questo fenomeno farebbe nascere negli individui stati mentali paragonabili a quelli delle persone in stato di deprivazione alimentare come l’iperfocalizzazione sul cibo, la difficoltà di concentrazione, l’irritabilità e l’iperemotività.

La teoria della restrizione cognitiva per spiegare l’inefficacia delle diete

I dati sull’inefficacia delle diete si spiegano quindi come la sconfitta ineluttabile di un controllo cognitivo del comportamento alimentare nel medio e lungo termine. Si parla di restrizione cognitiva per indicare non uno bensì due stati che si alternano a un ritmo variabile:
uno stato di ipercontrollo durante il quale l’individuo inibisce le proprie sensazioni alimentari e padroneggia il proprio comportamento alimentare;
uno stato di disinibizione e perdita di controllo sotto forma di compulsioni e abbuffate.

La sperimentazione storica di Herman e Mack (1975) illustra questo fenomeno: viene offerto ai soggetti dell’esperimento un pasto a base di gelato, senza nessuna limitazione quantitativa; in base ai gruppi sperimentali, questo pasto è preceduto da nessuno, uno oppure due milk-shake (è il cosiddetto preload). I risultati mostrano che, dopo aver assimilato due milk-shake, le persone avendo una regolazione alimentare soddisfacente (unrestrained eaters) mangiano meno gelato durante il pasto successivo; al contrario, e con un preload equivalente (ovvero due milk-shake), le persone in stato di restrizione cognitiva (restrained eaters) mangiano successivamente una maggiore quantità di gelato: questo fenomeno di contro regolazione alimentare si spiegherebbe grazie all’effetto di trasgressione del divieto (abstinence violation effect) che si traduce nel seguente pensiero: “ho già sgarrato quindi non serve più a nulla controllarmi”.

Gli stessi risultati emergono quando si manipola la variabile di percezione dell’abbondanza delle porzioni di cibo (Polivy, Herman, & Deo, 2010): quando la fetta di pizza mangiata in fase di preload appare più grande, i restrained eaters tendono a mangiare, in una seconda fase dell’esperimento, una maggiore quantità di biscotti rispetto agli unrestrained eaters.
Anche la deprivazione pregressa di cioccolato per una settimana induce i restrained eaters a mangiare una maggiore quantità di cioccolato, rispetto agli altri gruppi di controllo, una volta che l’alimento è di nuovo disponibile (Polivy, Coleman, & Herman, 2005).

La restrizione cognitiva appare quindi come un meccanismo che modifica l’espressione di una fame fisiologica. L’individuo in stato di restrizione cognitiva non prova sensazioni nitide di fame o di sazietà e si colloca in una zona di indifferenza biologica (Herman, Polivy, Lank, & Heatherton, 1987). Diventa quindi ipersensibile ai fattori esterni, emotivi e sociali e mangia in base all’ambiente o alle sue credenze.

A livello clinico, la restrizione cognitiva è descritta come un passaggio da un tentativo di controllo mentale verso un controllo sempre più emotivo del comportamento alimentare. Secondo Apfeldorfer e Zermati (2007) questo passaggio avviene in quattro fasi:

fase 1: le sensazioni alimentari sono percepite ma deliberatamente ignorate. Vengono adottate alcune regole dietetiche (non mangiare tra i pasti, fare tre pasti al giorno, evitare alcuni alimenti, ecc.). Per seguire queste regole l’individuo deve ignorare le proprie sensazioni alimentari ed elaborare alcune strategie (ad esempio, non trovarsi in presenza di alimenti non autorizzati);

fase 2: le sensazioni alimentari sono percepite ma non possono più essere rispettate. Il comportamento dell’individuo è progressivamente dominato da schemi di pensiero dicotomici del tipo “se mangio un alimento vietato, devo mangiarne tanto perché non potrò più mangiarlo in futuro” oppure “se mangio tanti alimenti autorizzati mi passerà la voglia di mangiare quelli vietati”. Questi schemi inducono emozioni centrate sulla paura di aver fame, sulla paura che manchi il cibo, sulla colpa e sulla frustrazione. Sono quindi le credenze e le emozioni che controllano il comportamento alimentare a discapito delle sensazioni fisiologiche;

fase 3: le sensazioni alimentari non sono più percepite. L’individuo non prova né fame, né sazietà né appetiti specifici. A questo punto il controllo cognitivo diventa l’unico controllo possibile del comportamento alimentare;

fase 4: il comportamento alimentare è in balia delle emozioni. L’individuo non riesce più a controllare volontariamente il suo comportamento alimentare sul lungo termine. Alterna periodi di controllo mentale a periodi di controllo emotivo che possono tradursi in pasti esageratamente abbondanti, compulsioni a mangiare o vere e proprie abbuffate. Una minore resistenza fisica e mentale, degli eventi di vita oppure la semplice trasgressione di un divieto alimentare può scatenare una perdita di controllo.

La restrizione cognitiva si può inoltre manifestare con quattro gradi di gravità: leggera (so di aver fame ma non devo mangiare), moderata (so di non aver più fame ma non riesco a fermarmi), severa (non so più se ho ancora fame oppure se ho mangiato abbastanza), terminale (mangio senza aver fame e non riesco più a controllare nulla).

Quali implicazioni terapeutiche?

Il semplice fatto di seguire una dieta dimagrante oppure un programma di alimentazione “equilibrata” sia su richiesta medica sia in modo spontaneo induce l’individuo ad abbandonare un’alimentazione intuitiva a favore di un’alimentazione riflessiva, fondata su delle credenze. Questo tipo di comportamento alimentare corrisponde a una restrizione cognitiva o “controllo mentale dell’alimentazione”. Il livello di restrizione cognitiva può variare da una semplice sconnessione dalle proprie sensazioni alimentari a veri e propri disturbi del comportamento alimentare. La restrizione cognitiva deve quindi essere considerata alla meglio come un fattore di rischio per i disturbi del comportamento alimentare e alla peggio come un disturbo del comportamento alimentare in sé.

Di fronte a un paziente in stato di restrizione cognitiva, il primo obiettivo sarà di aiutarlo a ritrovare un comportamento alimentare guidato dai suoi sistemi di regolazione fisiologica e dalle sue preferenze alimentari. Una psicoterapia a orientamento cognitivo consentirà di lavorare sui processi di pensiero disfunzionali che portano a ignorare le proprie sensazioni di fame e sazietà e a mangiare in base a dei criteri esterni. Il fatto di mangiare seguendo invece i propri criteri interni dovrebbe consentire alle persone di recuperare un peso forma che dipende a sua volta dalla propria eredità genetica, dal proprio stile di vita e dalla propria storia alimentare e ponderale. [blockquote style=”1″]Questo set point è, oggettivamente, il peso auspicato, anche se non corrisponde alle tabelle del peso ideale o ai criteri di moda. Il lavoro sul comportamento alimentare per abbandonare lo stato di restrizione cognitiva deve spesso essere accompagnato da un lavoro psicoterapeutico per identificare risposte non alimentari a problemi di natura non alimentare (emotivi, relazionali) e per accettare e convivere con il proprio set point [/blockquote](Apfeldorfer & Zermati, 2001).

cancel