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Dipendenza da cocaina e ricadute: la rilevazione dell’elettricità corticale

Una nuova ricerca condotta alla Mount Sinai School of Medicine (MSSM) di New York City, indica che gli adulti dipendenti da cocaina possono essere più vulnerabili alle ricadute negli intervalli di tempo compresi tra due giorni e un mese di astinenza, e tra uno e sei mesi.

Questo è quanto risultato dalle rilevazioni condotte tramite elettroencefalogramma (EEG). I risultati della ricerca, pubblicati sulla rivista JAMA Psychiatry, mostrano come il periodo più intenso per la brama della sostanza, corrisponde paradossalmente con il periodo di rilascio dai trattamenti per la tossicodipendenza.

Per oltre cinque anni e mezzo, il team di ricerca ha raccolto i dati provenienti da registrazioni EEG di 76 adulti dipendenti da cocaina, in diverse fasi di astinenza (due giorni, una settimana, un mese, sei mesi e un anno). L’elettroencefalogramma è stato effettuato mentre i partecipanti stavano esaminando diversi tipi di immagini, comprese scene di individui che simulavano l’uso di cocaina (ricerca, preparazione, assunzione). In seguito a questa fase veniva richiesta la compilazione di un questionario self-report al fine di valutare il loro livello di desiderio durante la visione di tali immagini.

Discussione dei risultati

E’ stato il primo studio che ha utilizzato un EEG per quantificare il livello di attivazione cerebrale indotto dal desiderio per la sostanza in soggetti cocainomani. Studi precedenti erano stati condotti solo su popolazioni animali.

Il risultato più interessante dello studio, è stato rilevare la mancanza di correlazione tra le misure di attivazione registrate dall’EEG e le affermazioni self-report. Mentre queste ultime segnalavano una diminuzione della percezione del desiderio con l’aumentare della durata dell’astinenza, i dati dell’EEG hanno provato il contrario, ossia che l’attivazione fisiologica era più alta.

[blockquote style=”1″]I nostri risultati sono importanti perché identificano un periodo oggettivamente accertato di vulnerabilità alle ricadute[/blockquote] dice Muhammad Parvaz, autore principale dello studio. [blockquote style=”1″]Purtroppo, questo periodo di vulnerabilità, coincide con la finestra di scarico della maggior parte dei programmi di trattamento, aumentando forse la propensione dei pazienti alle ricadute.[/blockquote]

[blockquote style=”1″]I risultati di questo studio sono allarmanti, in quanto suggeriscono che molte persone alle prese con la tossicodipendenza, vengono rilasciate dai programmi di trattamento nel momento in cui hanno un maggiore bisogno di supporto[/blockquote] ha detto Rita Goldstein, professore di psichiatria e neuroscienze presso la MSSM.[blockquote style=”1″] I nostri risultati potrebbero, nel prossimo futuro, guidare per mettere a punto nuove strategie di trattamento alternative, più individualizzate e funzionali, riguardo alle tempistiche di azione e conclusione del trattamento.[/blockquote]

La relazione tra alimentazione ed esperienze sociali nei primi anni di vita

Secondo uno studio pubblicato all’interno di Proceedings of the National Academy of Sciences i bambini, durante il pasto prestano molta attenzione al cibo che viene mangiato dalle persone che stanno loro intorno, e soprattutto al cibo che loro stessi mangiano. Inoltre all’interno dello studio si parla di un crescente corpo di ricerca, il quale suggerisce che i bambini molto piccoli sono in grado di pensare in maniera sofisticata ai diversi spunti sociali che gli si presentano.

Lo studio

La ricerca ha evidenziato che i bambini, quando sono a tavola, fanno molto di più dell’apparente giocare con il biberon o con gli oggetti che trovano a portata di mano.

Gli autori hanno osservato che i bambini di 1 anno possiedono aspettative sulle persone che equivalgono a quelle che possiedono per il cibo, a meno che queste persone appartengano a diversi gruppi sociali o culturali (ad es. parlare una lingua differente). Come ha dichiarato Kinzler, una co-autrice dello studio, lo studio sottolinea quanto le nostre scelte alimentari siano strettamente collegate al nostro pensiero sociale.

[blockquote style=”1″]Nei primi anni di vita i bambini sono sensibili ai gruppi culturali. Quando i bambini vedono qualcuno mangiare, non stanno solo imparando a conoscere il cibo, ma imparano anche a conoscere chi mangia cosa con chi. Questo perché la capacità di formulare attribuzioni sulle persone come “uguale o diversa”, e “noi o loro” compare molto precocemente[/blockquote] ha dichiarato Kinzler.

Kinzler, Liberman, Woodward e Sullivan, hanno impostato una serie di studi in cui hanno mostrato a più di 200 bambini dell’età di 1 anno una serie di video raffiguranti persone che esprimevano pareri di simpatia o antipatia sugli alimenti. Quando i bambini vedevano due persone che parlavano la stessa lingua o che agivano come se fossero amici, i bambini si aspettavano che ai due protagonisti piacessero gli stessi cibi. Quando invece vedevano due persone che parlavano lingue diverse o che agivano come se fossero nemici, i bambini si aspettavano che ai due protagonisti piacessero cibi differenti.

Gli studi hanno approfittato di un fatto ben noto in psicologia dello sviluppo: i bambini prestano maggior attenzione ad azioni nuove o a cose che si discostano dalle loro aspettative generali del mondo.

Lo studio inoltre ha evidenziato che i bambini hanno un pensiero leggermente diverso quando si tratta di alimenti che li possono danneggiare. Quando i bambini vedevano una persona disgustata dal mangiare un determinato cibo, si aspettavano che anche la seconda persona sarebbe stata disgustata da quel cibo, anche nel caso in cui la seconda persona faceva parte di un gruppo sociale diverso. Ciò suggerisce che i bambini potrebbero essere particolarmente vigili relativamente alle informazioni sociali che potrebbero segnalare pericolo.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che vi sono discrepanze tra i vari bambini relativamente a ciò che essi identificano come differenze culturali significative. Mentre per i bambini monolingue persone che parlano lingue diverse mangiano cibi differenti, per i bambini bilingue le persone che parlano lingue diverse potrebbero mangiare gli stessi cibi. Kinzler ha ipotizzato che questo avvenga in quanto i bambini bilingue potrebbero aver sperimentato una situazione simile in casa, dove sono presenti persone che parlano lingue diverse riunite intorno allo stesso tavolo.

Conclusioni

Pertanto è importante che i genitori tengano in considerazione il fatto che quando mangiano tutti insieme, i loro bambini li stanno osservando. Alimentare il proprio bambino con la dieta perfetta, mentre allo stesso tavolo genitori e amici si nutrono con del cibo spazzatura è piuttosto inutile, in quanto in quel momento il bambino sta imparando qualcosa sul cibo e sulle esperienze sociali delle persone che lo mangiano.

Assunzione di cannabis e ridotta motivazione a guadagnare tramite il lavoro

Un nuovo articolo pubblicato su Psychopharmacology dimostrerebbe in maniera affidabile gli effetti a breve termine del consumo di cannabis sulla motivazione negli esseri umani. Infatti, secondo i risultati di questo studio, fumare l’equivalente di uno spinello di cannabis renderebbe la gente meno disposta a lavorare per soldi.

 

Lo studio

Nel presente studio sono stati reclutati 57 volontari. Nella prima parte dell’esperimento 17 soggetti che avevano utilizzato cannabis di tanto in tanto, inalavano vapori di cannabis o cannabis-placebo (vapore acqueo) in condizioni separate. Subito dopo completavano un compito progettato per misurare la loro motivazione a guadagnare soldi. In ogni prova i volontari potevano decidere se completare le attività a basso o alto sforzo per vincere diverse somme di denaro.

I risultati mostravano che le persone sotto l’effetto della cannabis erano significativamente meno propense a scegliere l’opzione ad alto sforzo.

Nella seconda parte dello studio, 20 persone dipendenti da cannabis venivano abbinate a 20 partecipanti del gruppo di controllo che avevano riportato il medesimo pattern di consumo di altre droghe (esclusa la cannabis). I partecipanti non potevano consumare altre droghe all’infuori del caffè e del tabacco nelle 12 h antecedenti lo studio e completavano lo stesso compito assegnato al gruppo della prima parte dello studio.
I risultati evidenziavano come non ci fossero differenze nella motivazione tra i volontari cannabis-dipendenti e il gruppo di controllo.

 

Conclusioni

Quindi i ricercatori inizialmente avevano ipotizzato che la cannabis potesse inficiare la motivazione dei soggetti se consumata per lunghi periodi. Questa ipotesi è stata però scartata quando i ricercatori hanno confrontato le persone dipendenti da cannabis con i soggetti del gruppo di controllo, entrambi quando non avevano assunto cannabis, concludendo che non vi era alcuna differenza nei livelli di motivazione. Sembrerebbe quindi che l’utilizzo di cannabis a lungo termine non comporterebbe problemi di motivazione residui. Sottolineiamo però che questi risultati non sono sufficienti per affermare con sicurezza l’assenza di effetti sulla motivazione; occorreranno infatti delle ricerche longitudinali.

Il primo giorno di scuola: differenze tra passato e modernità

Il primo giorno di scuola con la sua ritualità ci protegge. Ma anche con il suo valore iniziatico. Forse soprattutto il primo giorno del primo anno di elementari, in cui ci si separa da quello dei genitori che ci accompagna a scuola. Nella mia infanzia si era lasciati incustoditi più facilmente e più precocemente, almeno così mi pare di ricordare, e andai da solo al mio primo giorno di elementari. Oggi mi pare non più, anche perché non si ha più la sensazione di vivere in un quartiere in cui ci si conosce in po’ tutti.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 10/09/2016

I rituali del primo giorno di scuola

Non so se il primo giorno di scuola sia un rito di iniziazione, un ingresso in un’età adulta. Primo giorno di quale scuola, poi? Delle elementari, delle medie, delle superiori? E di quale anno? Dal primo anno delle scuole elementari all’ultimo delle superiori si srotola negli anni un nastro di primi giorni che prolunga per tutta l’infanzia e l’adolescenza una periodica iniziazione.

Mancando un rito vero e proprio, una separazione netta che ci separi dalla nostra immaturità pilucchiamo qua e là occasioni che lentamente ma mai del tutto ci fanno proseguire nel nostro viaggio. Eppure pare che questi eventi rinnovati aiutino a controllare le condotte più disturbate. Il solito studio di psicologia cin informa che i più gravi disturbi infantili e giovanili, i terribili disturbi di carenza dell’attenzione e iperattività (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, ADHD), della condotta (Conduct Disorder, CD) e oppositivo provocatorio (Oppositional Defiant Disorder, ODD) si sviluppano in ambienti degradati, in cui queste scansioni rituali del tempo, della giornata e dell’anno, sono assenti.

 

I riti del passato e le differenze col presente

Così il primo giorno di scuola con la sua ritualità ci protegge. Ma anche con il suo valore iniziatico. Forse soprattutto il primo giorno del primo anno di elementari, in cui ci si separa da quello dei genitori che ci accompagna a scuola. Nella mia infanzia si era lasciati incustoditi più facilmente e più precocemente, almeno così mi pare di ricordare, e andai da solo al mio primo giorno di elementari. Oggi mi pare non più, anche perché non si ha più la sensazione di vivere in un quartiere in cui ci si conosce in po’ tutti. Che non si vivesse più in quartieri che erano piccoli paesi era già nell’infanzia di noi cinquantenni; già si viveva in grandi condomini spersonalizzanti, ma si andava avanti per inerzia con la vecchia mentalità di reciproca confidenza, le case di ringhiera a Milano o i bassi a Napoli. Oggi credo che tutti siano accompagnanti dalle mamme o dai papà alle elementari, e ci si liberi della tutela solo alle scuole medie e anche dopo. Ma sono impressioni, non ho dati da offrire.

Immaginiamo che un tempo fosse diverso, che queste cerimonie avessero un potere che le portava oltre la nudità dell’evento. In realtà non lo sappiamo, non ne sappiamo un bel nulla. Immaginiamo, appunto, ci beiamo di fantasie mitiche. E a loro volta quelle cerimonie rimandavano a miti, ovvero in fondo a fatti, a eventi accaduti. Quindi il cerchio si chiude: eventi sepolti nel tempo diventarono cerimonie rituali da ripetere ogni anno. E cerimonie ripetute ogni anno persero nel tempo ogni significato, diventando eventi annuali vissuti nella loro semplicità. Come il primo giorno di scuola. Quindi ora, nel presente, viviamo di nuovo nel mito? E il passato, che ci sembra mitico, invece si svolgeva dopo il mito?

In età romana la cerimonia che dava accesso alla maturità consisteva nella concessione al ragazzo acerbo di una veste, la toga virilis che andava a sostituire la toga praetexta, indossata per tutta la prima giovinezza e orlata di una fascia purpurea. La cerimonia avveniva al compimento di un certo anno di età, il quattordicesimo secondo alcune fonti, il diciassettesimo secondo altre. Veste che era dono del padre del ragazzo. E il permesso di indossarla significava il primo ingresso nel foro e nella vita pubblica da cittadino libero e adulto. Non so se questo accesso era vissuto con l’ansia del primo giorno di scuola. Probabilmente si.

Questa iniziazione a lungo desiderata avveniva in un giorno ben noto dell’anno, alla metà di marzo, giorno in cui cadevano insieme due feste e che quegli uomini antichi chiamavano “il sedicesimo giorno precedente le calende di aprile” (ante diem sextum decimum Kalendas Apriles). Era un giorno al crocevia tra l’inverno e le stagioni più temperate, un giorno in cui le menti degli uomini già presentivano la primavera. Era l’anno agricolo, in cui d’inverno ci si riposava insieme alla terra non coltivata e nei mesi temperati e caldi si lavorava. Che differenza con l’anno moderno e industriale, che come ben sappiamo inizia a settembre. Al giorno d’oggi ci si riposa d’estate e si lavora nei mesi freddi. È vero che il calendario ancora porta l’eredità di quelle età passate, dato che esso inizia a gennaio, nel profondo del freddo invernale. Ma è solo un residuo. Il vero capodanno è a settembre, quando si torna al lavoro e si iniziano le scuole. Con il primo giorno di scuola inizia l’anno, e questo è uno dei suoi significati rituali.

Quel giorno antico di marzo ospitava due feste. La prima erano gli Agonalia, festa in cui un sacerdote che portava un nome regale, il Rex Sacrorum -poiché in un tempo antichissimo e dimenticato questo sacerdote era stato Re degli uomini e dello Stato, ma poi egli aveva visto il suo dominio contrarsi alle sole cose sacre e si era ridotto da re a prete- sacrificava un capro a molti dei. Ora, questi dei erano tanti, un popolo numeroso, di un numero talmente elevato che nessuno poteva dire di conoscerli tutti. Ma di questi almeno quattro erano noti a ognuno. Il primo era Giano (Janus), il Dio bifronte e italico, colui che custodiva la pace ma sapeva senza titubanza aprire la porte alla guerra, quando necessario. Lo seguiva in processione Liber Pater, il padre Libero o Bacco, Dio non solo del vino, ma anche della benedetta fecondità. Dopo accorreva Vedovius, dio bizzarro e oscuro, ben conosciuto solo agli appassionati di storie e cose religiose, sfaccendati che raccontavano storie in piazza e sapevano dirti che questo Vedovius era un tipo dalle amicizie molteplici e contraddittorie, essendo assiduo sia della casa celeste Giove che della reggia sotterranea di Plutone. Ultima infine appariva in processione l’immagine del Sol Indiges, il Sole indigeno e ancestrale della città.

Ma questa era solo la prima delle due feste. La seconda festa erano i Liberalia, la festa del già menzionato dio Liber Pater. I Liberalia erano una festa popolare, celebrata non sulla sacralità separata e altezzosa degli altari dei grandi templi nel Foro, ma nelle case e per le strade, da donne che su banchetti di legno preparavano piccoli pani insaporiti con miele e poi, coronate di edera, agendo come sacerdotesse del dio, li offrivano ai passanti. E così nelle case le matrone facevano lo stesso in riti domestici, offrendo i loro piccoli pani mielati ai figli e al marito.

 

Considerazioni

Mi chiedo se queste mamme che portano i loro bimbi e le loro bimbe a scuola siano differenti da quelle donne che offrivano piccoli pani al miele su banchetti di legno. È una domanda oziosa finché non capita che, andato oggi che è venerdì 9 settembre accompagnando mio figlio all’Istituto dove ha il suo primo giorno, non incontriamo nell’atrio delle donne che offrono dolci a chi arriva. Probabilmente brioscine al cioccolato. Non ho osato controllare se ci fossero dolci al miele. Beh, queste madri in fondo sono simili alle loro antenate che festeggiavano l’ingresso alla maggiore età dei figli. Mentre vado via mi viene in mente che nello stesso giorno nelle campagne si tenevano processioni sacre alla rinnovata fertilità della terra, portando in giro grossi falli scolpiti nel legno.

Il disturbo ossessivo compulsivo e l’alto rischio di suicidio

Un recente studio pubblicato su Molecular Psychiatry ha stabilito che i pazienti affetti da Disturbo Ossessivo-Compulsivo (OCD) siano 10 volte più a rischio di commettere suicidio rispetto alla popolazione generale.

Ogni anno circa 800’000 persone nel mondo si tolgono la vita (1,4% delle morti); i soggetti affetti da patologie mentali sono esposti ad un rischio maggiore di suicidio e tra chi commette suicidio circa il 90% soffre di un disturbo mentale.
Tuttavia, ben poca attenzione è stata dedicata al rischio di suicidio tra le persone colpite da OCD, per altro uno dei disturbi psichiatrici più comuni (Ruscio, Stein, Chiu & Kessler, 2010). Infatti, il disturbo ossessivo-compulsivo colpisce circa il 2% della popolazione generale (Ruscio et al., 2010), ha solitamente un decorso cronico e si associa ad una minore qualità di vita.

Storicamente il OCD è stato considerato un disturbo a relativo basso rischio di suicidio. Tuttavia, questa evidenza deriva principalmente da un ridotto numero di studi dai campioni piuttosto piccoli (Coryell, 1981; Goodwin, Guze, & Robins, 1969; Kringlen, 1965) e di questi inoltre il follow-up generalmente era breve e perciò insufficiente ad identificare un reale rischio di suicidio per questa patologia. Un recente studio epidemiologico ha concluso che gli individui con OCD (n = 10155) hanno un rischio triplo di suicidarsi rispetto ai controlli (Meier, Mattheisen, Mors, Schendel, Mortensen & Plessen, 2016).

 

Lo studio

Nel tentativo di fornire stime più accurate del rischio di suicidio tra questi pazienti e identificare i fattori di rischio e di protezione associati allo stesso, i ricercatori del Karolinska Istitutet in Svezia hanno analizzato 36788 soggetti contenuti nello Swedish National Patient Register (1969-2013). Stando ai risultati dello studio, 545 soggetti si erano suicidati e 4297 avevano tentato di farlo; il rischio di morte, quindi, era circa 10 volte superiore a quello della popolazione generale, mentre il rischio di suicidio circa 5 volte superiore. Dopo aver controllato l’effetto degli altri disturbi psichiatrici presenti (sebbene il 43,49% dei soggetti suicidatisi non riportavano altri disturbi in comorbilità), il rischio risultava inferiore, ma comunque la differenza con la popolazione di riferimento era sostanziale. La soluzione primariamente scelta per togliersi la vita risultava l’avvelenamento (ad es., overdose di psicofarmaci prescritti), sia per gli uomini che per le donne.

Tra la coorte di pazienti OCD, i precedenti tentativi di suicidio erano i predittori più affidabili del rischio di morte per suicidio, stabilendo, quando presenti, un rischio cinque volte superiore alla norma. Anche avere un disturbo di personalità o una dipendenza da sostanze in comorbilità aumentava il rischio di suicidio del 40-82%. Contrariamente, avere un disturbo d’ansia o possedere uno status socioeconomico elevato si configuravano come fattori protettivi.

 

Conclusioni

I ricercatori hanno perciò concluso che il disturbo ossessivo-compulsivo è in effetti un disturbo associato ad un significativo rischio di suicidio, anche in assenza di altre condizioni psichiatriche in comorbilità, al pari di altri disturbi come schizofrenia, disturbo bipolare, disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) e superiore a quello del disturbo post-traumatico da stress (PTSD) o alla dipendenza da alcol.

Identificare i fattori di rischio associati al suicidio risulta fondamentale per sviluppare protocolli taylor-made di intervento atti alla riduzione di tale rischio. Come infatti risulta dalla letteratura di riferimento, strategie di prevenzione come ridurre la prescrizione di psicofarmaci potenzialmente letali se assunti in grande quantità, incoraggiare il self-help, incrementare l’aiuto fornito da clinici, educatori e terze parti, hanno mostrato una buona efficacia nel prevenire il suicidio (Mann et al., 2005; Pirkis, San Too, Spittal, Krysinska, Robinson & Cheung, 2015). Tuttavia queste strategie non sono specifiche per i pazienti OCD e per tale motivo i futuri studi avranno l’onere di stabilire quale metodologia risulta maggiormente efficace per questo tipo di pazienti.

Uno sguardo su La fluidità sessuale. La varianza dell’orientamento e del comportamento sessuale, di Dettore e Lambiase

La fluidità sessuale: a distanza di 5 anni dalla sua pubblicazione, questo testo, l’unico in Italia nel suo campo di indagine, porta ad una riflessione estremamente attuale. Scritto da Davide Dèttore e Emiliano Lambiase, entrambi psicologi, psicoterapeuti ed esperti in campo sessuologico, tra le loro pubblicazioni troviamo Il disturbo dell’identità di genere (Dèttore, 2005), La disforia di genere in età evolutiva. Implicazioni cliniche, sociali ed etiche (Dèttore, Ristori, Antonelli, 2015), Omosessualità e psicoterapie. Percorsi, problematiche e prospettive (Lambiase, Cantelmi, 2009).

Greta Riboli

 

Questo saggio, strutturato in tre capitoli, tratta in particolare la fluidità dell’orientamento sessuale, passando in rassegna i maggiori studi sull’argomento. «Da questa breve rassegna bibliografica emerge come l’orientamento sessuale per molte persone non sia rigidamente fissato, o non venga percepito come tale, ma possa subire delle variazioni nel corso del tempo».

Nel primo capitolo, nonostante il focus del libro sia l’orientamento sessuale, vengono illustrati alcuni concetti fondamentali dell’identità sessuale, tra cui l’identità di genere e l’identità di orientamento sessuale, opportunamente distinta dall’orientamento sessuale [per una descrizione della terminologia vedere il glossario, NdR]. Questa scelta è dettata dal fatto che una giusta analisi dell’orientamento sessuale non può prescindere dalle altre componenti, sebbene non coincida con esse. «L’orientamento sessuale, infatti, è in parte, ma non del tutto, legato all’identità e al ruolo di genere e ne è altrettanto dipendente in un circuito “riverberante” di cui è impossibile determinare il punto di inizio».

Il secondo capitolo risulta essere il perno del libro. Gli autori hanno scelto e riportato alcuni tra gli studi condotti sulla fluidità dell’orientamento sessuale, a livello principalmente psicologico, ma anche sociologico e antropologico. Rispetto ad altri argomenti, il tema della sessualità fluida è stato poco indagato; le maggiori ricerche psicologiche sono state pubblicate negli USA a partire dal corrente millennio. Per quanto riguarda l’ambito sociologico e antropologico il materiale si riduce ulteriormente, probabilmente in quanto fino agli anni ’70 i comportamenti non eterosessuali non venivano considerati legittimi campi di indagine.

Un’ulteriore analisi viene condotta sulla metodologia utilizzata negli studi riportati. Gli autori notano come spesso gli strumenti di valutazione siano soggettivi, e presentano, a questo proposito, le tecniche oggettive di valutazione fisiologica utilizzate ad oggi e gli interessanti risultati raggiunti: durante la visione di immagini e filmati che riproducono diverse scene, alcune di queste erotiche “le donne rispondono primariamente alle attività sessuali eseguite dagli attori, mentre gli uomini rispondono primariamente al genere degli attori”.

Il terzo ed ultimo capitolo è strettamente connesso al secondo, ed ha lo scopo di illustrare diverse ipotesi di funzionamento della sessualità fluida. Alcuni ricercatori avanzano ipotesi principalmente legate alla maggiore fluidità sessuale femminile e ne rintracciano le cause tra fenomeni psicologici, ad esempio legate al fatto che l’amore non ha orientamento e può determinare desiderio sessuale, socio-culturali, come la differenza di potere tra uomini e donne, o biologici, ipotizzando la sessualità come fattore predisposto a livello genetico dal cromosoma X e legato ai cicli e ai livelli ormonali. Inoltre vi è chi rintraccia le cause della variabilità sessuale a livello cognitivo «c’è una forma di apertura cognitiva (… che) permetterebbe la manifestazione del potenziale bisessuale che, secondo gli autori, è in ognuno di noi». Essi «ritengono che il processo centrale per produrre uno schema di genere aperto includa l’abilità di “rompere” cognitivamente la connessione tra il genere e la preferenza sessuale».

Merito di Dèttore e Lambiase è aver selezionato ed organizzato in un libro di un centinaio di pagine gli studi più significativi, dando al lettore gli elementi essenziali, ma non per questo incompleti, per approcciarsi al tema della sessualità fluida e ad un suo eventuale approfondimento tramite la lettura della bibliografia citata. Gli autori confrontano i dati emersi dalle diverse ricerche, li mettono in rapporto e li discutono anche in base al proprio punto di vista, il quale prende un maggiore spazio nelle conclusioni. Nella sezione finale vengono introdotti alcuni spunti di psicologia clinica, per sottolineare l’assenza di valutazioni psicologiche dei partecipanti agli studi riportati, e di psicologia evolutiva, circa il rapporto tra attaccamento e sessualità.

L’intervento degli autori rende il libro non una semplice e ben strutturata sintesi di alcuni studi, ma un saggio dall’autonomia propria. Risulta per questo motivo una lettura scorrevole e di significativa importanza per un pubblico di psicologi e non solo, in un ambiente, come quello italiano, in cui il tema della sessualità fluida non occupa uno spazio di riflessione privilegiato. In conclusione, gli autori propongono una riflessione, in accordo con le linee dell’APA (2009) e dell’Ordine degli psicologi della Lombardia (2010), sulle terapie riparative: «dire che l’orientamento sessuale “può” cambiare è molto diverso dal dire che “si può” cambiare».

 

Recensione a cura di Greta Riboli, fluIDsex

 

 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

L’impiego della S-Ketamina nella depressione resistente al trattamento

Un nuovo studio pubblicato su Biological Psychiatry afferma che l’impiego di esketamina (o S-ketamina), un anestetico affine alla ketamina, produce un rapido e significativo miglioramento dei sintomi depressivi in pazienti che non rispondono alle terapie oggi disponibili.

Precedentemente la ketamina aveva riscosso successo nell’alleviare i sintomi della depressione poichè, somministrando tale droga a basse dosi entro 2h si assisteva ad un effetto antidepressivo piuttosto rapido, al contrario dei classici farmaci impiegati (i.e: SSRI) che richiedono fino a tre mesi per produrre un effetto. Inoltre, la ketamina era risultata efficace anche su quei pazienti cosiddetti non-responders, ovvero sui quali le terapie convenzionali non funzionavano.

 

Lo studio

Nello studio in questione per la prima volta gli autori hanno esaminato la sicurezza e l’efficacia della esketamina in pazienti con depressione resistente al trattamento. In uno studio in doppio cieco, quindi, i ricercatori hanno assegnato in modo casuale 30 pazienti ad una condizione di trattamento con placebo e a condizioni di somministrazione di esketamina (un gruppo con 0,2 mg / kg e un gruppo con 0,4 mg / kg). I pazienti hanno ricevuto due somministrazioni della droga e sono stati seguiti in una fase di follow-up per due settimane, in cui i pazienti potevano richiedere fino a 4 dosi opzionali a quelle previste.

I primi effetti sono stati registrati a partire da 2h dopo la prima iniezione. Dopo 3 giorni, oltre il 60% dei pazienti trattati con entrambi i dosaggi di eskatamina mostravano miglioramenti nei sintomi depressivi. Nessuno dei pazienti trattati con placebo invece mostrava miglioramenti. L’effetto registrato è confrontabile ad un tasso di risposta compreso tra il 37-56% dei pazienti dopo 6-12 settimane di trattamento con antidepressivi convenzionali.

Secondo gli autori questo studio chiarisce i vantaggi del farmaco rispetto al placebo e suggerisce che la dose più bassa di eskatamina (0,2 mg / kg) può configurarsi come una valida alternativa, e a tratti più sicura, dei farmaci convenzionalmente usati per il trattamento della depressione. Quest’ultima affermazione sarebbe in linea con quanto riscontrato con il trattamento a più alti dosi di esketamina, dove i pazienti (il 17% per l’esattezza), sperimentavano cambiamenti percettivi transitori entro le 4h dalla somministrazione.

 

Conclusioni

Sebbene quindi gli effetti a lungo termine di questo farmaco vadano ancora chiariti, questo studio altamente affidabile (in doppio cieco, con randomizzazione e gruppo di controllo) si presenta come un buon risultato in vista dell’applicazione clinica di un nuovo farmaco.

Il gruppo analitico e la funzione gamma

Il gruppo analitico è considerato, secondo un’ottica bioniana, come un insieme unitario dotato di un’attività mentale propria, in cui circolano la condivisione di aspetti individuali che vengono convogliati in un contenitore comune (Neri, C., 2004).

 

Francesco Corrao, ha introdotto il pensiero bioniano in Italia, curandolo negli anni 60-70. L’autore sostiene che il Piccolo Gruppo Analitico è rappresentato strutturalmente ‘come un Insieme Unitario, che funziona mediante attività mentali trans-individuali (meta-noiche) ed usa un pensiero multiplo di tipo meta-logico‘ (Corrao,1985, pag. 88).

Corrao F. (1981) propone una funzione gamma del gruppo analitico che sarebbe per il gruppo l’analogo simmetrico della funzione alfa dell’individuo.

 

La funzione alfa di Bion

La funzione alfa proposta da Bion (1962), in analogia con la funzione somatica della digestione, ha il compito di elaborare i pensieri. È una funzione della personalità che opera su tutte le percezioni sensoriali e sulle emozioni.

Inoltre, la funzione alfa è un processo che dipende strettamente dal rapporto che il bambino stabilisce con la madre o da chi ne fa le veci. Questo rapporto si instaura grazie alla rêverie materna. Bion con il termine rêverie indica la capacità della madre di ricevere le impressioni emotive e sensoriali grezze del neonato, grazie all’identificazione proiettiva, e in seguito di bonificarle in una forma più digeribile affinché la psiche del neonato possa reintroiettarle e assimilarle. Il neonato così può introiettare sia le esperienze emotive rese pensabili, sia un oggetto accogliente e comprensivo col quale identificarsi, sviluppando nel tempo la sua capacità di pensare.

L’adeguato funzionamento della funzione alfa determina, secondo Bion (1962), la formazione della barriera di contatto, ossia una parte importante dell’apparato psichico, costituito dall’insieme di elementi alfa che determinano il contatto o la separazione fra conscio e inconscio.

 

La funzione gamma nel gruppo analitico

La funzione gamma nel gruppo analitico corrisponde alla capacità che ha il pensiero di gruppo nel digerire gli elementi sensoriali ed emotivi grezzi (elementi beta) che sono sparsi nel campo analitico, che vengono poi  trasformati in elementi gamma, necessari per la formazione del pensiero di gruppo.

La funzione gamma è ‘[…]intesa come una variabile incognita, che si può definire l’analogo simmetrico, nella struttura di GRP, di ciò che rappresenta la funzione α nella struttura personale‘ (Corrao, F., 1981, pag. 39).

Pertanto, la funzione gamma nel gruppo analitico tende verso il pensiero, la ricostruzione di senso, la verbalizzazione condivisa di ciò che apparentemente sembra essere solo un’atmosfera impercettibile, ma che è il fondamento del lavoro del gruppo terapeutico.

La funzione gamma eseguirà, quindi, analoghe operazioni trasformative sugli elementi sensoriali ed emotivi del gruppo, generando in tal modo elementi gamma disponibili per la formazione di pensieri gruppali onirici, miti ecc.; per organizzare una barriera gamma atta a distinguere il conscio, dall’inconscio nell’ambito della struttura gruppale (Corrao, F., 1981).

L’attivazione della funzione gamma del gruppo, permette di elaborare gli elementi sensoriali ed emotivi immessi in esso, generando in questo modo elementi gamma necessari alla produzione di sogni e miti di gruppo, allucinazioni di gruppo, memoria di gruppo ecc…

Il gruppo analitico può avere una funzione di rêverie, così come afferma il Grupo Sygma (2001) in Rêverie di Gruppo, una possibile funzione?. Gli autori argentini in questo articolo evidenziano i due fattori della rêverie di gruppo: uno di contenimento e un altro denominato ensoñacion, specifico nella creazione e nell’uso dei miti (Grupo Sygma, 2001).

Per ciò che riguarda ensoñacion, gli autori si rifanno al mito e al contenuto manifesto del sogno. Essi si dovrebbero considerare come versioni gruppali e individuali della stessa cosa, elementi costantemente in congiunzione. Pertanto, il Grupo Sygma ha proposto l’ipotesi che la capacità di rêverie di gruppo, riguardo a questo fattore di ensoñacion, si manifesterebbe nella creazione e nel uso dei miti (Grupo Sygma, 2001).

Corrente (2004) considera la rêverie di gruppo ‘come un fattore della funzione gamma, un fattore fondamentale e fondante, nel senso che è la situazione gruppale a promuovere uno stato di rêverie da dove nasce e si sviluppa la stessa funzione gamma‘ (Corrente, G., 2004, pag. 4).

L’autore vede una funzionalità reciproca tra funzione gamma del  gruppo analitico e funzione alfa dell’individuo. Egli mostra come la funzione gamma opera trasformazioni che accrescono la funzione alfa individuale, mediante l’addormentamento momentaneo della funzione alfa.

La funzione gamma opera trasformazioni che alimentano costantemente la funzione alfa individuale, seppure questo processo si attivi mediante la sospensione o meglio direi l’addormentamento momentaneo della funzione Alfa. (Corrente, G., 2004, pag. 3).

Anche Neri C. (2004) rileva, la capacità metabolica del gruppo, intesa come facoltà di ‘disintossicare la mente dell’individuo da eccessive tensioni che vi si possono essere accumulate e che la occupano’ (Neri. C, 2004, pag 138).

La funzione terapeutica del pensiero di gruppo si esplica, pertanto, come capacità di elaborare l’angoscia in presenza di un ambiente accogliente e di una situazione gruppale conviviale.

In sintesi, attraverso le diverse elaborazioni proposte dai vari autori, abbiamo potuto costatare che la funzione gamma del gruppo analitico sta alla base delle trasformazioni emozionali, relazionali della vita gruppale (Corrao, 1998; Grupo Sygma, 2001; Corrente, 2004; Neri 2004).

Come si stimano le proprie capacità? Confrontandosi con gli altri

Le valutazioni che facciamo delle nostre capacità sono fortemente influenzate dalle prestazioni altrui, secondo quanto afferma un nuovo studio pubblicato su Neuron.

Interagire con performance alte fa sentire più capaci all’interno di un team, ma meno abili in situazioni competitive. Questa “unione-sé-altro” è risultata associata all’attività di una particolare regione cerebrale precedentemente implicata nella teoria della mente (ToM): la capacità di comprendere gli stati mentali propri e altrui. Nonostante le persone stimino le loro capacità sulla base della propria performance razionalmente, le stime su di sé risultano comunque in parte fuse alle prestazioni altrui.

[blockquote style=”1″]I risultati hanno potenziali implicazioni per comprendere le interazioni sociali tra individui in ambito lavorativo, nonché alcuni disturbi clinici, come la depressione[/blockquote] ha affermato il principale autore Marco Wittmann, dottorando in Neuroscienze Cognitive all’Università di Oxford.

Stimare le proprie capacità e quelle altrui è la chiave per la sopravvivenza, per decidere a quali gruppi sociali aderire e se attaccare o ritirarsi. Nella vita quotidiana, noi giudichiamo costantemente noi stessi e gli altri su tutto. Un patrimonio di ricerca psicologica ha dimostrato che il confronto con gli altri può essere utilizzato come mezzo efficace per l’auto-valutazione, e che, viceversa, le persone basano i loro giudizi sugli altri basandosi sulla conoscenza delle proprie caratteristiche. Tuttavia, molto poco si sa su quali regioni cerebrali siano coinvolte nella stima delle capacità.

 

La ricerca

Wittmann ed colleghi hanno cercato di rispondere a questa domanda. Pertanto, 24 soggetti hanno completato due compiti (valutazione cromatica di forme e stima temporale) durante risonanza magnetica funzionale, consapevoli che altri due giocatori stavano eseguendo contemporaneamente gli stessi compiti. Dopo ciascuna prova, i soggetti hanno ricevuto un feedback sulla propria prestazione e sulla prestazione altrui. Prima della prova successiva, ai soggetti è stato chiesto di valutare il rendimento atteso sia per sé che per gli altri. I ricercatori hanno valutato tra l’altro come le stime delle prestazioni attese fossero influenzate da contesti cooperativi o competitivi.

In situazioni cooperative, i soggetti hanno valutato se stessi più positivamente quando gli altri giocatori hanno ottenuto buoni risultati e più negativamente in caso di cattiva esecuzione del compito. Nel contesto competitivo, invece, i soggetti hanno valutato se stessi più negativamente quando interagivano con performance buone rispetto a quando si rapportavano a cattive prestazioni. [blockquote style=”1″]I nostri risultati rispecchiano molto bene ciò che la gente sperimenta sul luogo di lavoro[/blockquote] ha affermato Wittmann.

I dati di neuroimaging

I dati di neuroimaging hanno rivelato che la stima delle capacità di sé e degli altri si può rintracciare in due distinte regioni corticali frontali: la corteccia cingolata anteriore periungueale e l’area dorsomediale frontale (area 9). Quest’ultima è parte del network della ToM identificato nell’uomo; inoltre, la ricerca nelle scimmie ha dimostrato che struttura e funzione dell’area 9 sono influenzate dallo status di dominanza sociale e dalla dimensione della rete sociale. Presi insieme, questi risultati suggeriscono che l’area 9 potrebbe integrare le informazioni su sé e gli altri per calcolare la propria posizione all’interno di un network sociale.

 

Conclusioni

Il passo successivo sarà quello di verificare come l’unione-sè-altro e l’attività dell’area 9 possano essere colpiti nelle popolazioni cliniche. [blockquote style=”1″]Stiamo riflettendo sulla possibilità che i meccanismi cerebrali alla base della valutazione di sé e dell’altro possano essere alterati in sindromi cliniche come la depressione, dove le persone si sentono impotenti nel fronteggiare attività quotidiane[/blockquote] ha affermato. [blockquote style=”1″]Sembra intuitivo che le persone affette da depressione possano giudicare quanto bene stanno facendo qualcosa in modo diverso rispetto alle persone non depresse. Credo che varrebbe la pena proseguire su queste riflessioni.[/blockquote]

Un approccio olistico nel trattamento del Binge Eating Disorder: l’utilizzo dello Yoga

Esiste un tipo specifico di Yoga che aiuterebbe i pazienti con Binge Eating Disorder che hanno vissuto un trauma: esso è il Trauma-Sensitive Yoga. È uno stile gentile di yoga che promuove l’equilibrio nella mente e nel corpo attraverso l’uso del respiro, la meditazione e, di particolare importanza in questo ambito, le posture fisiche o “asana”. Tale disciplina parte dal presupposto che i sopravvissuti ad un trauma rivivono la loro esperienza sul corpo giornalmente. In questo senso, il corpo diventa il loro nemico (van der Kolk, 1994), sentono che il corpo li ha traditi nel passato e continua a farlo nel presente.

Roberta Porta, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Binge Eating Disorder: la diagnosi e il trattamento

Il Disturbo Binge Eating, solo recentemente identificato come una diagnosi ufficiale nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, si caratterizza per periodi di assunzione di grandi quantità di cibo, associati a sensazione di perdita di controllo con conseguenti emozioni di vergogna, senso di colpa ed isolamento sociale. Non sono presenti inoltre comportamenti compensativi al fine di regolare il peso e\o l’assunzione di cibo.

Diversi studi evidenziano come il trattamento di eccellenza sia la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), efficace in termini di remissione completa solo però nel 50-60 per cento delle persone. Ciò può portare a pensare che sia necessario ampliare la visione di questo Disturbo Alimentare e conseguentemente i suoi strumenti di cura poiché questi pazienti manifestano anche altre difficoltà in svariati ambiti della loro vita. Raccogliendo l’anamnesi di questi pazienti ciò che emerge è un disagio precoce, molto spesso già in età giovanile in cui ciò che viene evidenziato è il disagio sociale esteso alla maggior parte dei rapporti interpersonali, la difficoltà a gestire le proprie emozioni, il senso di impotenza legato all’incapacità di controllare il proprio comportamento alimentare e il conseguente aumento di peso con l’aggiunta della distorsione nella visione del proprio corpo che alimenta un senso di insicurezza e d’inadeguatezza che permane anche nell’età adulta.

La complessità di questo disturbo, e quindi della sua cura, è legata alla elevata numerosità di pazienti che presenta comorbilità con depressione maggiore, disturbo di panico e di alcuni disturbi di personalità. Infatti, pazienti con binge eating disorder sono caratterizzati da specifiche caratteristiche di personalità e proprio questi aspetti vengono considerati come fattori di vulnerabilità individuale che la terapia non può non prendere in considerazione per ampliare il suo grado di efficacia.

Vari studi, come quello di Fassino et al., 2002, si sono avvalsi del Temperament and Character Inventory (TCI) uno strumento specifico utilizzato per analizzare il profilo temperamentale e caratteriologico. Essi hanno evidenziato che i pazienti con Binge eating disorder (BED) confrontati con pazienti obesi senza BED ottengono alti punteggi nella scala HA (Harm Avoidance), per cui sono soggetti più insicuri, timidi, apprensivi, nervosi, irascibili e impulsivi, più passivi e si scoraggiano più facilmente.

Secondo un altro studio (Marcus et al., 1990; De Zwaan el al., 1994; Kirkley et al., 1992) i pazienti Binge Eating Disorder tendono ad ottenere tramite tale strumento bassi livelli di SD (autodirezionalità) e di C (cooperatività) per cui mostrano maggiore immaturità, debolezza, fragilità, tendenza alla colpevolizzazione altrui e scarsa tolleranza allo stress. Oltre agli aspetti caratteriali e temperamentali ciò che emerge dalla letteratura è che i pazienti affetti da Disturbo da Alimentazione Incontrollata presentano una prevalenza significativa di attaccamento disorganizzato, soprattutto di tipo irrisolto (Barone et al., 2009; Tasca et al., 2014) e tassi particolarmente bassi di attaccamento di tipo B con una ricaduta più frequentemente nello stile di attaccamento insicuro (Tasca et al., 2014), caratterizzato da sfiducia verso le altre persone e aspettative negative nei confronti delle relazioni (Fabbro et al., 2010); inoltre, i soggetti affetti da Binge Eating Disorder sembrano riferire dei tassi di maltrattamento infantile ed altre esperienze traumatiche che correlano con attaccamento di tipo disorganizzato che sono circa due o tre volte superiori a quelli riportati da campioni normativi; in particolare, gli studi condotti da Grilo e colleghi (2001 & 2002) e Becker e collaboratori (2011) hanno evidenziato che l’80% dei pazienti con Binge Eating Disorder tende a riportare almeno un tipo di maltrattamento infantile e Caslini e colleghi (2015) hanno osservato che il Binge Eating Disorder risulta associato a tutte le tipologie di abuso infantile (sessuale, fisico ed emotivo).

Riassumendo possiamo dire che i pazienti affetti da Disturbo da Alimentazione Incontrollata presentano spesso una comorbilità in Asse I con i disturbi dell’umore (Weightman et al., 2014; Kerr et al., 2003), la dipendenza da alcool (Maurage et al., 2015) e il PTSD (Nazarov et al., 2013). Infine, per quanto riguarda l’Asse II, Friborg e colleghi (2014) e Grilo e collaboratori (2002) hanno riportato che circa il 30% dei pazienti con Binge Eating Disorder presenta almeno un disturbo di personalità e che i disturbi più frequentemente associati sono quelli appartenenti al Cluster C (Evitante e Ossessivo-Compulsivo) e al Cluster B (Borderline). È soprattutto nei pazienti con Cluster B che ritroviamo il deficit di regolazione emotiva.

 

Binge eating disorder: i fattori determinanti nella genesi e nel mantenimento del disturbo

Tra i fattori che la letteratura recente indica come determinanti nella genesi e nel mantenimento del disturbo vi sono l’esperienza e la regolazione disfunzionale delle emozioni: le persone a rischio di questi disturbi spesso presentano difficoltà nella gestione delle emozioni, sperimentano frequentemente emozioni negative molto intense e utilizzano il cibo per regolarle (Polivy e Herman, 2002; Bardone-Cone e Cass, 2006; Macht, 2008).

Inoltre, si è osservato in uno studio condotto da Carano, De Berardis, Gambi, et al., (2006) che ha indagato la relazione tra immagine corporea e presenza del costrutto alessitimico nei soggetti con Binge Eating Disorder, che questi ultimi mostrano una maggiore gravità del disturbo alimentare (indici di massa corporea più elevati) e una maggiore insoddisfazione per il proprio corpo rispetto ai pazienti non alessitimici.

I soggetti Binge Eating Disorder alessitimici rispetto ai soggetti BED non alessitimici rispondono meno ai trattamenti psicoterapeutici e nutrizionali, mostrando elevati tassi di drop-out. Nello specifico, i pazienti BED alessitimici hanno difficoltà a identificare e a descrivere sentimenti ed emozioni senza presentare caratteristiche di pensiero orientato esternamente. Come affermano Taylor e al., (1997), le persone affette da BED sono fondamentalmente alessitimiche, in quanto presentano deficit nel riconoscimento dei propri stati interni (fame, sazietà, senso di vuoto), nell’esplorazione del proprio mondo interiore e nella competenza necessaria per riconoscere ed esprimere le proprie emozioni. La mancanza d’informazioni sul proprio stato di benessere e sui propri desideri e bisogni, ostacola la creazione di confini stabili con gli altri, aumentando, di conseguenza, la dipendenza dall’ambiente esterno per avere conferme e sicurezze. Quindi emerge in tali pazienti una mancanza di consapevolezza enterocettiva, con conseguente confusione e incertezza nel riconoscere e rispondere in modo preciso agli stati emotivi. Al fine di favorire il processo di cura anche di questi pazienti con caratteristiche ben specifiche si è ipotizzato di inserire un percorso di Yoga nel trattamento CBT già in uso al fine di favorire il potenziamento della attenzione consapevole, intenzionale e non-giudicante nel momento presente.

Inoltre lo scopo principale è quello di aiutare il paziente, che spesso ha dimenticato il suo corpo fisico (soprattutto se in anamnesi troviamo episodi legati al trauma) a relazionarsi con esso e a riconoscere, ascoltare e rispettare i ritmi naturali del proprio corpo e aumentare così la propria consapevolezza enterocettiva. Durante la lezione di Yoga si eseguono pratiche che vengono appositamente organizzate in modo tale da concentrare l’attenzione del paziente al presente: le asana, esse sono caratterizzate da benefici e controindicazioni, che vengono considerati durante ogni lezione in modo tale da rendere ogni paziente partecipante attivo ai benefici sulla propria salute.

Il secondo obiettivo che ci si propone di favorire è la riduzione dello stress e la produzione di un aumento graduale dello stato di rilassamento. Ciò viene favorito dalla sensazione di equilibrio psicofisico, imparando ad entrare in contatto con se stessi, sperimentando lo stato di calma, grazie alle tecniche di rilassamento guidato ed a convivere con i propri limiti corporei cercando di generare importanti benefici sull’allungamento muscolare e sulla mobilità del corpo tramite le asana contrastando i problemi su muscoli e scheletro provocati dal comportamento alimentare che ha generato lo stato di sovrappeso\obesità.
Il terzo e ultimo obiettivo è il miglioramento della coordinazione e della capacità respiratoria.

 

La pratica dello yoga

La pratica dello yoga nasce 5000 anni fa in Oriente, ed è una disciplina che armonizza tecniche di respirazione, postura, allungamento muscolare e meditazione. Esistono diversi tipi di yoga: il più diffuso e praticato in Occidente è l’Hatha yoga, finalizzato a un benessere tanto fisico quanto mentale.

Le evidenze scientifiche derivanti da diversi studi hanno evidenziato cambiamenti significativi tra prima e dopo la pratica di Yoga. Nei gruppi di studio si sono registrati punteggi più alti per qualità di vita, emotività e autoconsapevolezza, mentre sono diminuiti i punteggi riguardanti ansia, panico e stress autopercepito (Amber W.Li, 2012) . Alcuni studi hanno preso in considerazione anche parametri di controllo biochimici: ai soggetti sono state misurate le concentrazioni di cortisolo (ormone dello stress), DHEA (ormone che promuove la lipolisi), melatonina e GABA (la prima regola il ritmo sonno-veglia e il secondo è connesso al rilassamento). I ricercatori non hanno trovato cambiamenti significativi nei livelli di cortisolo e DHEA, mentre sono leggermente aumentati quelli di melatonina e GABA: lo yoga sembra dunque promuovere la secrezione di sostanze collegate allo stato di calma mentale e fisica. Inoltre in un altro studio è stato analizzato l’effetto dello yoga sulla secrezione di leptina e adiponectina e ciò che è emerso è una correlazione tra il tempo da cui si praticava yoga e lo stato di benessere: le praticanti yoga da più tempo mostravano che il profilo dei marker antinfiammatori erano correlati a un minor rischio per la salute cardiovascolare e il diabete.

Parallelamente a questo studio, una review ha dimostrato che lo yoga permette di normalizzare i livelli di pressione arteriosa, di colesterolo e di glucosio nel sangue (Kiecolt-Glaser JK, Christian LM, Andridge R, Hwang BS, 2012). Gli studi sottolineano comunque che chi pratica yoga è anche più attento ad altri fattori che influenzano il benessere e la salute, come ad esempio la dieta, la scelta di alimenti biologici e di stagione, la gestione dello stress, l’astensione dal consumo di alcol e fumo.

 

Lo yoga con i pazienti con Binge Eating Disorder

Esiste un tipo specifico di Yoga che aiuterebbe i pazienti con Binge eating disorder che hanno vissuto un trauma: esso è il Trauma-Sensitive Yoga. È uno stile gentile di yoga che promuove l’equilibrio nella mente e nel corpo attraverso l’uso del respiro, la meditazione e, di particolare importanza in questo ambito, le posture fisiche o “asana”. Tale disciplina parte dal presupposto che i sopravvissuti ad un trauma rivivono la loro esperienza sul corpo giornalmente. In questo senso, il corpo diventa il loro nemico (van der Kolk, 1994), sentono che il corpo li ha traditi nel passato e continua a farlo nel presente.

In uno studio di Van der Kolk si è visto come le donne che ricevevano il Trauma-Sensitive Yoga riportavano diminuzioni significative nella disregolazione emotiva e aumenti nelle attività di riduzione della tensione e dell’hyperarousal corporeo (van der Kolk et al., 2014). Un corso di 10 settimane di TSY è associato a una diminuzione significativa nei sintomi del PTSD nei sopravvissuti al trauma con un PTSD complesso. Al fine di aiutare il paziente nel percorso di cura sono stati studiati gli effetti della disciplina sui livelli dei neurotrasmettitori (nello specifico, il GABA) associati al PTSD complesso. Il GABA (acido γ-aminobutirrico) è il principale neurotrasmettitore inibitorio nel cervello; il suo rilascio, infatti, impedisce all’impulso nervoso di propagarsi da un neurone all’altro. Il GABA ha profondi effetti ansiolitici e smorza le risposte comportamentali e fisiologiche ai fattori di stress. Si è notato in diversi studi scientifici che i livelli di questo neurotrasmettitore sono particolarmente bassi nei soggetti con disturbi d’ansia e con PTSD complesso, come se si perdesse la capacità chimica di limitare la risposta allo stress.

In uno studio del 2007 si è rilevato (attraverso metodiche di neuroimaging) che i livelli di GABA nel cervello aumentano dopo una sessione di yoga. Il concetto che dalla letteratura emerge con interesse maggiore collegato a questi dati è quello relativo al fatto che alcuni pazienti con Binge Eating Disorder cronici hanno in anamnesi il PTSD complesso: si tratta, cioè, di bambini che hanno fatto esperienza di [blockquote style=”1″]eventi traumatici molteplici, cronici e prolungati, soprattutto di natura interpersonale e ad esordio precoce, spesso nel loro sistema di accudimento primario[/blockquote] (Cook et al., 2005).

Nel PTSD complesso si evidenziano (van der Kolk et al., 2005):
1. la regolazione delle emozioni e il controllo degli impulsi: le persone non riescono a gestire emozioni intense e improvvise (come la rabbia) e mettono in atto condotte auto-distruttive (auto-lesionismo, abuso di sostanze,abbuffate, ecc.) quando iniziano a percepire come intollerabili e opprimenti anche minimi fattori di stress;
2. l’attenzione e la consapevolezza: presenza di episodi dissociativi, amnesia e incapacità di focalizzarsi su uno stimolo rilevante, che rappresentano delle risposte emesse dagli individui per sottrarsi ai pensieri/ricordi e sensazioni fisiche/emozioni legati alle esperienze traumatiche;
3. la percezione di sé: le vittime di esperienze traumatiche sviluppano una visione di se stesse come indesiderate, deboli, impotenti, “danneggiate” e provano senso di colpa e vergogna cronici perché, nella maggior parte dei casi, si ritengono responsabili dell’abuso che hanno subìto;
4. i rapporti interpersonali: incapacità di fidarsi o di entrare in intimità con gli altri, elevata sospettosità e isolamento sociale;
5. i sistemi di significato: le persone iniziano a pensare che la vita non abbia più senso e che non saranno mai in grado di apportare dei cambiamenti positivi alla propria vita, come se osservassero se stessi, gli altri e il mondo attraverso delle “lenti di colore nero”;
6. la somatizzazione: presenza di sintomi cronici a livello somatico (dolori addominali, nausea, vomito, mal di testa, ecc.) che non sono riconducibili a delle cause mediche, ma che sono il risultato di alterazioni neuro-biologiche causate dalle esperienze traumatiche (iper-attivazione del sistema nervoso centrale, eccessiva produzione delle catecolamine, bassi livelli di serotonina, ecc.) e che sembrano rappresentare una modalità inconsapevole per comunicare il dolore emotivo (che i sopravvissuti a eventi traumatici non riescono a esprimere con le parole, né a se stesse né agli altri).

Tutti questi sintomi rientrano nel costrutto diagnostico chiamato CPTSD/DESNOS (Disturbo Post Traumatico da Stress Complesso/Disturbo da Stress Estremo non Altrimenti Specificato, dalla denominazione inglese Complex Post-Traumatic Stress Disorder / Disorder of Extreme Stress Not Otherwise Specified). Alcuni studi (p.e., van der Kolk et al., 2005) hanno riscontrato che il 25-45% delle persone che avevano subìto un trauma e il 68% tra coloro che avevano subìto abusi sessuali mostravano sintomi di CPTSD/DESNOS. La spiegazione va ricercata nella natura del trauma.

I traumi, infatti, possono essere distinti in due macrocategorie:
– Traumi con la T maiuscola o “grandi” traumi corrispondenti a “esperienze traumatiche di natura estrema” che comprendono la percezione di pericolo al corpo, attacco al sé, che portano alla morte o minaccia all’integrità fisica propria o delle persone care;
– traumi con la t minuscola o “piccoli” traumi che corrispondono a “esperienze traumatiche non estreme” che implicano eventi di vita meno catastrofici, con una percezione intensa di pericolo ma non per questo meno traumatici se costanti e ripetitivi. Secondo Judith Herman (Emerson, 2015) il trauma che si verifica nel contesto delle relazioni e che si prolunga nel tempo, come nei casi di abusi sessuali infantili, rientra nel Trauma con la T maiuscola.
Le persone con storie di traumi interpersonali, eventi traumatici multipli e/o traumatica esposizione di lunga durata sono quelle che con maggiore probabilità presentano i sintomi di CPTSD/DESNOS (p.e., Jagodzinski, 2011).

 

Efficacia dello yoga come trattamento per il PTSD

È proprio partendo da queste premesse che van der Kolk e coll. (2014) hanno pubblicato i risultati di un trial controllato e randomizzato finalizzato a valutare l’efficacia dello yoga come trattamento per il PTSD, e i disturbi d’ansia.

Un campione di 64 donne con PTSD cronico, refrattario al trattamento (le partecipanti infatti si erano sottoposte ad almeno 3 anni di terapia finalizzata al trattamento del disturbo PTSD), è stato assegnato casualmente a due gruppi (gruppo di yoga vs. gruppo di educazione alla salute), ognuno dei quali prevedeva un incontro alla settimana per 10 settimane. Le ipotesi dei ricercatori erano che le donne traumatizzate, assegnate alla condizione yoga, avrebbero mostrato un miglioramento clinico significativo in termini di riduzione della sintomatologia PTSD al post-trattamento, come pure un incremento nelle capacità di regolazione emotiva. I risultati dello studio hanno rilevato che il 52% delle pazienti nel gruppo yoga, rispetto al 21% di quelle nel gruppo di controllo, non soddisfaceva più i criteri del DSM per il PTSD. Entrambi i gruppi di pazienti mostravano cambiamenti significativi nella sintomatologia post-traumatica durante la prima metà del trattamento, ma questi miglioramenti erano mantenuti solo nel gruppo yoga. La conclusione degli autori è che la pratica di yoga, focalizzandosi sul respiro e su esercizi fisici che combinano movimento, rilassamento muscolare e meditazione, possa aumentare la capacità di accettare e tollerare le esperienze fisiche e sensoriali associate alle emozioni, migliorandone la regolazione.

Lo scopo del trattamento delle memorie traumatiche è ricostituire l’interezza degli eventi vissuti, associandone le diverse componenti frammentate (emotiva, sensoriale, motoria, cinestesica, cognitiva) e permettendone l’integrazione nella narrazione autobiografica del paziente. Poiché le memorie traumatiche provocano emozioni soverchianti le capacità dell’individuo di farne fronte, è necessario che tale lavoro di integrazione sia preceduto da quello sulla regolazione delle emozioni.

Gli interventi mente-corpo, come la mindfulness e lo yoga, incoraggiano nel paziente una posizione da osservatore, finalizzata a mantenere l’attenzione su ciò che accade nel momento presente, senza giudizio, con apertura, accettazione e curiosità. Tali pratiche che stimolano la consapevolezza aumentano l’accettazione e la tolleranza di emozioni, migliorandone di fatto la regolazione emotiva. Secondo questi approcci la disregolazione emotiva, che abbiamo visto essere una caratteristica tipica dei pazienti traumatizzati, potrebbe essere proprio la conseguenza evoluzionistica dell’attivazione, anche in situazioni non pericolose, dell’esperienza sensomotoria vissuta al tempo del trauma. In questi casi le strutture corticali non hanno influenza su quelle sottocorticali come l’amigdala e l’organismo non permette una regolazione top-down. Inoltre, l’orientamento verso l’esperienza del qui e ora stimola proprio la presentificazione (Janet, 1928), vale a dire l’azione mentale di essere saldamente radicati nel presente, integrando il proprio passato, presente e futuro. Il lavoro clinico con questa tipologia di pazienti non può dunque prescindere dal prendere in considerazione la dimensione del corpo, soprattutto per ciò che concerne le connessioni con gli effetti dei traumi.

Per i motivi sopra citati si potrebbe pensare di poter inserire all’interno del percorso riabilitativo delle pazienti affette da disturbo da alimentazione incontrollata una sessione di 10 incontri di yoga al fine di aumentare e migliorare il già efficace trattamento CBT.

Gli zuccheri? Una droga!

Guardatevi intorno, quanto zucchero trovate? Vi siete mai accorti di essere costantemente bombardati da cibi pieni di zucchero! E lo sapevate che mangiare troppo zucchero fa male? 

Ebbene, sì: lo zucchero fa male, è risaputo, sia alla forma fisica sia alla psiche. Pare si possano avere notevoli ripercussioni negative sia sulle funzioni cognitive sia sul benessere psicologico. In che modo? Scopriamolo insieme!

Le sostanze dolcificanti, chiamate anche glucosio, fruttosio, melata e sciroppo di mais, si trovano nel 75% dei cibi confezionati presenti nei supermercati. E nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomandi di fare in modo che solo il 5% delle calorie assimilate quotidianamente provenga dagli zuccheri, in una tipica dieta il 13% delle calorie assunte ogni giorno proviene dai dolcificanti. Caspita, quanto zucchero!

Guardiamo più da vicino cosa succede. Gli zuccheri attivano le papille gustative presenti sulla lingua, esattamente come ogni altro alimento, ma subito dopo il segnale è inviato in una parte del cervello particolare: quella imputata alla ricompensa. In questo modo si attiva la produzione di una serie di ormoni associati alla sensazioni di benessere, uno fra tutti la dopamina che innesca un meccanismo a cascata di perdita di controllo sull’ingestione di zucchero portando la persona a continuare a cercare e ricercare ancora l’ennesima dose, di zucchero ovviamente.

Chiaramente, il problema nasce quando si stimola questo meccanismo costantemente, poiché solo in questo caso possono cominciare i problemi.
Attivare questo sistema di ricompensa in maniera incontrollata provoca una serie di infelici conseguenze: perdita di controllo, desiderio irresistibile di assumere sostanze zuccherine e l’incremento della tolleranza verso gli zuccheri stessi. Praticamente una catena di eventi simili a quelli delle droghe!
Insomma, guardiamo nel dettaglio cosa succede e “gustiamoci” la visione di questo video.
“Buona visione!”

 

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Ruminazione: basta un poco di zucchero e la pillola va giù? 

Sogno, mito, poesia. Tre saggi di Otto Rank – Recensione

I saggi racchiusi nel libro Sogno, mito, poesia risalgono al periodo di più intensa vicinanza e di massima collaborazione tra Freud e Otto Rank. Il primo dei tre, Un sogno che si interpreta da solo, risale al 1910 (quando ancora lo stesso Adler fa parte del gruppo viennese!); gli altri due, cioè Sogno e mito e Sogno e poesia vedono invece la luce nel 1914 (l’anno in cui Jung rassegna le dimissioni dall’Associazione Internazionale di Psicoanalisi).

Otto Rank: il legame con Freud

Otto Rank rappresenta una delle figure chiave della storia della psicoanalisi. Entrato in contatto con Freud nel 1906, inizia subito a partecipare alle «serate del mercoledì» cioè alle riunioni che Freud teneva ogni settimana a casa sua con i primi membri del nascente Movimento psicoanalitico (erano iniziate nel 1902 con quattro presenti più Freud stesso). Ben presto delle riunioni viene nominato segretario verbalizzante, compito che svolgerà con impegno e perizia per diversi anni. A lui si devono dunque le minute dei Dibattiti della Società Psicoanalitica di Vienna (Nunberg e Federn, 1962), che rappresentano un documento fondamentale per gli storici della psicoanalisi. Considerato da Freud uno dei suoi collaboratori più creativi, Otto Rank entra nel famoso «Comitato segreto» (destinato a custodire l’ortodossia della psicoanalisi) fin dalla sua creazione, nel 1912.

Gli altri componenti, oltre allo stesso Freud, sono Karl Abraham, Sándor Ferenczi, Ernest Jones. Tra loro, Otto Rank è l’unico non laureato in medicina e si può ben affermare che, insieme ad Hanns Sachs, egli rappresenti il più importante esponente laico (cioè appunto non medico) del movimento psicoanalitico, per il primo ventennio della sua storia (in seguito, probabilmente, la palma sarebbe toccata ad Anna Freud e Melanie Klein, le vere pioniere dell’analisi infantile). Con Sachs, del resto, Otto Rank condiresse dalla fondazione Imago – Rivista per l’applicazione della psicoanalisi alle scienze dello spirito, la seconda rivista dedicata integralmente alla psicoanalisi (sarebbe però sopravvissuta allo Jahrbuch) e la prima incentrata sul rapporto tra psicoanalisi e cultura.

Otto Rank: l’allontanamento dal Movimento psicoanalitico

Il legame personale con Freud, tuttavia, non risparmia a Rank l’allontanamento dal Movimento psicoanalitico in seguito alla svolta teorica sancita con la pubblicazione di Il trauma della nascita (Rank, 1923). Qui Rank afferma che la maggior parte dei problemi nevrotici debba essere ricondotta, appunto, al trauma che l’infante affronta nel venire al mondo e che lo scopo fondamentale della terapia debba consistere nel rievocare catarticamente tale momento.

Recensendo il successivo libro sulla tecnica psicoanalitica (Rank, 1926), Ferenczi – destinato peraltro a cadere a sua volta in disgrazia – così si esprime: [blockquote style=”1″]L’autore, con l’acume che ben conosciamo, riesce a compiere un lavoro interpretativo che sembrerebbe talora impossibile, ma per far ciò deve ricorrere a interpretazioni di una violenza finora sconosciuta, la cui unilateralità supera tutto ciò che sotto questo riguardo hanno potuto fare Jung e Adler[/blockquote] (Ferenczi, 1926, p. 379).

Sono parole che, soprattutto nell’allusione finale ai due più noti eretici della psicoanalisi, suggeriscono anatema e scomunica. Dopo qualche tentennamento e numerose discussioni interlocutorie con Rank, in effetti, Freud decide di prendere a sua volta ufficialmente posizione contro la novità teorica in Inibizione, sintomo, angoscia. Freud ammette che [blockquote style=”1″]la tesi di Rank all’inizio era anche la mia[/blockquote] (Freud, 1926, p. 307) e concede: [blockquote style=”1″]Rank rimane sul terreno della psicoanalisi, di cui prosegue le linee di pensiero, e bisogna ammettere che il suo è uno sforzo legittimo per risolvere i problemi analitici [/blockquote] (Freud, 1926, p. 298).

Tuttavia sembra proprio inappellabile la sentenza per cui [blockquote style=”1″]questa teoria si libra nelle nuvole anziché appoggiarsi su solide osservazioni[/blockquote] (Freud, 1926, p. 299). Il 12 aprile 1926 Freud e Rank si incontrano per l’ultima volta e quest’ultimo regala al maestro, con gesto assai simbolico, un’edizione completa delle opere di Nietzsche, che Freud porterà con sé a Londra nel 1938. Negli ultimi anni Rank, trasferitosi prima a Parigi e poi a New York (dove muore nel 1939), continua ad esercitare la professione di analista ma da outsider.

I saggi Sogno, mito, poesia

I saggi racchiusi nel libro Sogno, mito, poesia risalgono però al periodo di più intensa vicinanza e di massima collaborazione tra Freud e Rank. Il primo dei tre, Un sogno che si interpreta da solo, risale al 1910 (quando ancora lo stesso Adler fa parte del gruppo viennese!); gli altri due, cioè Sogno e mito e Sogno e poesia vedono invece la luce nel 1914 (l’anno in cui Jung rassegna le dimissioni dall’Associazione Internazionale di Psicoanalisi). La loro importanza storica è difficilmente sopravvalutabile, perché strettamente legata alla storia della revisione della più famosa opera di Freud, cioè L’interpretazione dei sogni (Freud, 1899).

Freud, in effetti, meditava di riscrivere integralmente la sua opera capitale, e di compiere tale lavoro a quattro mani proprio con Otto Rank, che già aveva suggerito svariati intarsi nell’edizione del 1909. L’intenzione freudiana è testimoniata in una lettera a Jung datata 17/2/1911 (McGuire, 1974, pp. 423 e ss.). In effetti, la teoria delle pulsioni elaborata nei Tre saggi sulla teoria sessuale (Freud, 1905) si scostava in modo deciso dal modello dell’Interpretazione dei sogni basato sull’idea di desiderio. Alcuni ritengono si tratti di schemi esplicativi dell’inconscio sostanzialmente incompatibili tra loro (Greenberg e Mitchell, 1983). Se Freud non realizzò il suo progetto, ed anzi l’Interpretazione dei sogni conobbe numerose altre edizioni (sia pure aumentando di mole), si deve all’opposizione di Franz Deuticke, l’editore di riferimento del movimento psicoanalitico. Questi era (non a torto) convinto che ritirare dalla circolazione un’opera ponderosa apparsa pochi anni prima per sostituirla con un nuovo libro poteva comportare il rischio di confondere parecchio anche i lettori ben disposti (McGuire, 1974, p. 453). L’intenzione di coinvolgere Rank rimase tuttavia viva e se il saggio Un sogno, che interpreta se stesso, costituisce solo un’integrazione virtuale all’edizione del 1909, i due successivi videro la luce all’interno dell’Interpretazione dei sogni apparsa nel 1914 e vi rimangono anche nell’edizione del 1922. Vengono invece espunti a partire dall’edizione del 1930, quando i rapporti tra i due sono definitivamente compromessi. Nel frattempo Freud (1908) aveva a sua volta già contribuito con un proprio scritto a un’opera pensata da Rank, cioè Il mito della nascita dell’eroe (Rank, 1909); e una larga, diretta ispirazione aveva tratto dal rankiano Il doppio (Rank, 1914) nel concepire Il perturbante (Freud, 1919), saggio breve ma celeberrimo.

Sogno, mito, poesia è curato da Francesco Marchioro, studioso da tempo impegnato nella diffusione delle opere di Rank in Italia, avendone proposto edizioni nella nostra lingua da più di trent’anni. Oltre ai tre saggi di Rank, il volume comprende una prefazione, una breve ma densa biografia di Rank e un’utile bibliografia rankiana firmate dallo stesso Marchioro; uno scritto finale dello psicoanalista Andrea Scardovi dal titolo Gli psicoanalisti sono capaci di sognare? Una nota sulla ‘stagione primaria’ della psicoanalisi, interessante excursus tra filosofia, clinica e scienza.

 

I miei genitori non hanno figli (2015) di M. Marsullo – Recensione

I temi dell’aspettativa, del non sentirsi mai abbastanza, dello scontro generazionale e delle difficoltà comunicative tra genitori e figli, sono quelli che segnano una commedia spassosa e divertente, delicata ma al tempo stesso graffiante.

 

– Allora, hai deciso, sì?

– Eh?

– L’università, allora, l’hai decisa? Hai diciotto anni, sei grande, ormai.

L’esordio del libro ‘I miei genitori non hanno figli‘ di Marco Marsullo, è quello di una brevissima conversazione tra madre e figlio. Una domanda che all’apparenza sembrerebbe ammettere risposte aperte ma che segretamente (poi neanche così tanto) cela il bisogno di una risposta che vorrebbe vedere appagato l’io genitoriale: mamma e papà sarebbero compiaciuti all’idea di sentire risposte determinate da un figlio adolescente ma risoluto che sentenzia il proprio giudizio universitario. I temi dell’aspettativa, del non sentirsi mai abbastanza, dello scontro generazionale e delle difficoltà comunicative tra genitori e figli, sono quelli che segnano una commedia spassosa e divertente, delicata ma al tempo stesso graffiante.

L’autore sin da subito ci porta con sé, ci apre le porte della sua casa. Ci fa osservare, senza giudizio, le dinamiche emotive di una coppia scoppiata, quella dei suoi genitori, di un legame familiare confuso e disorientato. La parola è data all’adolescenza e a quell’adolescente, figlio di separati (così si definisce l’autore) che ha varcato la maturità degli anni anagrafici ma che si sente ancora sulla strada della crescita, quella fatta di scelte che fanno maturare e rendono coraggiosi.

E la scelta universitaria fa parte di quella categoria di decisioni esclusive e tortuose, impegnative, dal sapore di assoluto perché sembrano per sempre. Perché in fondo ogni scelta ha a che fare con la storia, con le esperienze che ogni persona ha vissuto e vive, con il modo con cui ci si approccia ai bivi, agli incroci di cui è fatta la vita. Ogni scelta ha a che fare con il modo con cui la nostra famiglia, i nostri genitori primi fra tutti, ci hanno supportato e valorizzato, con il modo con cui ci hanno fatto sentire capaci di poter scegliere, di assumerci la responsabilità delle azioni, di correre il rischio che spesso ne deriva. Ma soprattutto ogni scelta ha a che fare con la dose di fiducia che i nostri genitori hanno voluto regalarci, dono di speranza e crescita.

E dalla trafelata crociata verso la conquista dei primi esami di legge, nel testo si alternano i flashback della separazione dei genitori del protagonista, finita non nel migliore dei modi, a colpi di discussioni rumorose avvenute di sera in cucina, di avvocati che si sfidano, per colpa di una ‘quella là’ che si è messa in mezzo. Confusione, tristezza, rabbia, nostalgia, solitudine, è un testo emotivamente ricco, coinvolgente.

Noi figli dei separati siamo come ostaggi. Merce di scambio, casi diplomatici, dividiamo l’opinione pubblica. Solo che non c’è una nazione con il fiato sospeso che affanna per la nostra sorte. Ci siamo solo noi, e basta.

Parole legittime e provocatorie da parte di un figlio di separati. Ed è chiaro che questo status non protegge e non fa sentire così stabili. In aggiunta c’è la pungente descrizione di un padre evitante in termini di attenzioni e considerazione perché troppo preso da diktat e luoghi comuni che risultano stucchevoli, troppo lontani dalla realtà, spesso mutevole, di un adolescente in corsa.

Un rapporto quello tra padre e figlio, caratterizzato da sermoni sterili, paternali che suonano di superficialità. ‘Abbiamo dovuto proprio metterci d’impegno per non riconoscerci nei pensieri’ la descrizione del loro rapporto, senza parafrasare le parole dell’autore.

Una madre ancora troppo arrabbiata, che fa fatica a fare pace con la vita ma soprattutto una donna ferita. Lacerata da ricordi che stentano a trovare una collocazione in una vita ricca di attività (yoga, pilates, etc) che non bastano per far fronte ad un dolore, quello della separazione, mai metabolizzato. Una madre che mette in atto dei tentativi maldestri di coinvolgere o forse di tenere a sé il frutto di un amore finito, come la creazione di un gruppo su whatsapp (chiamato Family), i cui componenti sono madre e figlio (forse un numero un po’ piccolo per parlare di gruppo che abbia caratteristiche familiari?).

Perché è un po’ così, dal titolo stesso, i genitori non hanno figli se il confronto è sempre con i figli dei propri colleghi che in qualsiasi altra attività risultano più tenaci, escono vittoriosi da qualsiasi battaglia che ingaggiano. I genitori non hanno figli se non c’è un ponte comunicativo, se non c’è empatia che fa da cornice nei rapporti genitori-figli, se non c’è condivisone e spazio di ascolto.

Amedeo Modigliani: la biografia e la sua arte

Amedeo Modigliani era un grande disegnatore, riusciva, con un tratto volumetrico e bidimensionale, a catturare la sensibilità e la psicologia delle persone; coloro che gli fecero da soggetto per i suoi ritratti ebbero a dire che farsi dipingere da Modigliani era come “farsi spogliare l’anima”. Ed infatti i ritratti di Modì esprimono il desiderio dell’artista di penetrare la natura intima dell’essere umano, anticipando l’interesse dei surrealisti per l’inconscio e le sue manifestazioni.

Amedeo Modigliani: biografia

“Sono Modigliani, ebreo, cinque franchi per un ritratto”: così si presentava l’artista livornese ai vicini di tavolo, quando, seduto in qualche bar o bistrot parigino, offriva la propria arte in cambio di pochi soldi o di un paio di bicchieri di vino.

Amedeo Modigliani (1884-1920), artista dotato di grande talento e di profonda energia espressiva, condusse una vita turbolenta, tra la pittura, la droga, l’alcool e le donne. Era un uomo profondamente segnato nel fisico dalla malattia: nell’adolescenza contrasse una febbre tifoide e fu affetto da una forma grave di tubercolosi, che condizionò la sua intera esistenza, costringendolo persino ad abbandonare la scultura, a causa delle polveri che vengono generate durante la lavorazione. La sua vita dissoluta fu profondamente legata alla città di Parigi, dove l’artista livornese si trasferì nel 1906 e dove lavorò intensamente. Pare che dipingesse molto velocemente: gli bastavano un paio di sedute per completare una di quelle figure dal collo lungo e flessuoso, dal corpo sinuoso e dagli occhi sottili, che rendono immediatamente riconoscibili i ritratti di Modì, come fu soprannominato l’artista.

Modigliani amava dipingere le persone, soprattutto le donne, che ritraeva anche in posizioni molto sensuali; le sue nudità, esibite per la prima volta a Parigi nel 1917, fecero chiudere, dopo poche ore dall’apertura e con un intervento del capo della polizia, la sua prima mostra personale. Modì era l’artista degli eccessi e a Parigi alcool e droga divennero suoi compagni inseparabili e la sua salute, già precaria, fu definitivamente compromessa. Non riuscì a convincere né critici, né collezionisti, versando in pessime condizioni economiche. La moglie, la pittrice Jeanne Hébuterne, gli restò accanto fino alla fine; il loro amore non fu scalfito né dalla povertà, né dalla malattia di lui. Un’altra persona rimase accanto a Modigliani fino all’ultimo, sostenendone l’avventura artistica ed esistenziale: fu il poeta e mercante d’arte polacco Léopold Zborowski, che viveva in un albergo parigino insieme alla moglie e all’amica di lei, Lunia Czechowska, con cui Amedeo instaurò un rapporto di intima amicizia. Di Lunia ci sono pervenuti quattordici splendidi ritratti, che testimoniano il profondo legame e l’attenzione intima di Modigliani verso quella giovane donna.

Amedeo Modigliani: la sua arte

Modigliani era un grande disegnatore, riusciva, con un tratto volumetrico e bidimensionale, a catturare la sensibilità e la psicologia delle persone; coloro che gli fecero da soggetto per i suoi ritratti ebbero a dire che farsi dipingere da Modigliani era come “farsi spogliare l’anima”. Ed infatti i ritratti di Modì esprimono il desiderio dell’artista di penetrare la natura intima dell’essere umano, anticipando l’interesse dei surrealisti per l’inconscio e le sue manifestazioni. Nei nudi è evidente il coinvolgimento emotivo del pittore, che riflette nelle modelle le sue emozioni, non solo artistiche, ma anche e soprattutto appassionate e carnali, come in Nudo sdraiato, a braccia aperte (detto anche Nudo rosso) del 1917, oppure in Nudo sdraiato (1917) o in Nudo disteso (1919): Modigliani tratteggia i corpi sinuosi di donne completamente nude, adagiate in posa provocante, su un divano. Sono le donne con cui l’artista tentava di soddisfare la sua irrefrenabile lussuria, tra ubriacature ed esperimenti con le droghe, che Modì considerava necessari anestetici in grado di lenire i dolori del corpo e dell’anima.

Modigliani ritraeva donne con colli lunghissimi e delicati e con gli occhi “vuoti” come quelli delle statue (si pensi, per esempio, a Ritratto di Jean Hébuterne (1917), Ritratto di Lunia Czechowska (1919), oppure a Donna con il ventaglio , del 1919). Se facciamo una lettura psicologica di queste opere d’arte, emerge un conflitto tra gli impulsi fisici e la parte intellettuale e razionale dell’individuo: il collo, infatti, è l’organo che divide la testa dal corpo. Inoltre, le teste rappresentate da Amedeo Modigliani sono spesso storte e deformate: la testa è l’organo dell’autocontrollo e, quando viene ingigantita e deformata, sta a significare la perdita di autocontrollo.

Gli occhi “vuoti” come quelli di una statua e semichiusi, invece, sono occhi che sembrano guardare il mondo senza realmente vederlo e, attraverso di essi, l’artista rappresenta la distanza che percepisce tra il proprio Io e la realtà esterna. Ed infatti la maggior parte dei ritratti di Modigliani emana un profondo senso di solitudine, con quegli spogli sfondi su cui si stagliano. La scelta stessa di dipingere esclusivamente figure umane è un indizio del terrore che Modigliani doveva avere nei confronti della solitudine, ma fu anche una vera e propria anomalia per la sua epoca, quando dipingere esclusivamente ritratti era davvero molto insolito.

Il “mostro ubriaco” – come venne definito Modigliani dal poeta russo Nikolaj Gumiliev, morì a soli 35 anni, stroncato da una meningite tubercolare. L’artista livornese, che in vita non ebbe né fama, né successo, nè danaro, fu, dopo la sua morte, a lungo ignorato anche dagli storici dell’arte, ma nel novembre 2015 il suo Nudo sdraiato (1917) ha reso giustizia al suo talento: l’opera, infatti, in un’asta da Christie’s a New York, è stato aggiudicato, dopo pochi minuti di gara a colpi di rilanci, a oltre 170 milioni di dollari (oltre 157 milioni di euro).

Il consumo di droghe può ostacolare il giudizio morale

I consumatori regolari di cocaina e metanfetamine possono avere difficoltà a discriminare tra comportamento giusto e comportamento sbagliato, probabilmente a causa del danneggiamento di alcune regioni cerebrali predisposte all’elaborazione morale e al controllo emotivo, provocato dal consumo abituale di suddette droghe. Questo è quanto emerge da una nuova ricerca condotta, da Samantha Fede e Kent Kiehl presso l’Università del New Mexico, tra una campione di detenuti.

 

Abuso di sostanze e compromissione del giudizio morale

I risultati dello studio, finanziato dal National Institute on Drug Abuse, sono stati pubblicati sulla rivista Psychopharmacology.
Negli Stati Uniti circa il 75% della popolazione carceraria ha problemi di abuso di sostanze, per cui esisterebbe un forte legame tra consumo di droghe e comportamento criminale.
La ricerca ha dimostrato che chi assumeva con costanza cocaina o metanfetamine, aveva difficoltà ad identificare le emozioni di altre persone, ed a dimostrare empatia. Questi due aspetti giocano un ruolo importante nel processo di decisione morale. Altri studi condotti in passato avevano già confermato le alterazioni strutturali e funzionali a livello cerebrale, in particolare le regioni frontali e prefrontali tra i consumatori di droghe stimolanti.

La ricerca

I ricercatori hanno registrato la storia di vita di 131 consumatori di cocaina e metanfetamine e 80 non consumatori, incarcerati nelle prigioni del New Mexico e Wisconsin. L’attività cerebrale dei detenuti è stata scansionata durante la somministrazione di un compito decisionale in cui dovevano essere valutate delle asserzioni, giudicandole moralmente giuste o moralmente sbagliate.

L’indagine ha rivelato che, gli abituali consumatori di droghe manifestavano un’attività neurale alterata nei lobi frontali e regioni limbiche del cervello durante l’esecuzione del compito. Nello specifico i consumatori abituali, hanno mostrato una ridotta attività dell’amigdala, regione cerebrale che aiuta a regolare e comprendere l’emotività: più alto era il consumo di droghe, minore è risultata l’attività dell’amigdala. Inoltre anche l’attività della corteccia cingolata anteriore è risultata compromessa.

[blockquote style=”1″]Questo è il primo studio a suggerire che consumatori abituali di cocaina e metanfetamine sviluppano alterazioni nei sistemi neurali coinvolti nel processamento dei giudizi morali. Questi primi risultati, che dovranno essere confermati da ulteriori indagini, rappresentano una prima promettente evidenza, utile alla comprensione del deficit frontale e limbico tra i consumatori di droghe stimolanti[/blockquote] dice Samantha Fede.

Il team di ricerca riconosce comunque, che le persone che sono inclini ad un uso regolare di stimolanti potrebbero già avere problemi con l’elaborazione morale ancor prima di iniziare a usare droghe, come la cocaina.
Tuttavia gli effetti dell’uso prolungato sulla corteccia cingolata anteriore e la corteccia prefrontale ventromediale, un’altra regione implicata nel processo decisionale morale, indicano che la metanfetamina e cocaina possono avere un gravissimo impatto sul cervello.

La falsa credenza della relazione tra stagione di nascita e disturbi del comportamento alimentare

Benedetta Frascaroli, Maddalena De Matteis OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Non si può generalizzare affermando che la stagione di nascita sia correlata e tanto meno predittiva di un disturbo alimentare.
Alla luce di questi studi, è pertanto, possibile affermare che le conclusioni a cui giungono sono contrastanti e non permettono di approdare ad un risultato generale e univoco.

C’è chi progetta nei minimi dettagli la nascita del proprio bebè, calcolando perfino quando rimanere incinta, e chi, invece, affronta il parto con più fatalismo. Meglio nascere in primavera oppure durante la stagione autunnale? O ancora, meglio il tepore estivo o il fresco invernale per far venire al mondo il pargolo? Se è vero che la data di nascita non determina il destino degli individui, sembra, però, che possa avere un’influenza sulle malattie che li colpiranno.

Un vasto studio della Columbia University di New York (M. R. Boland, Z. Shahn , D. Madigan, G. Hripcsak, N. P. Tatonetti, 2005) ha identificato notevoli coincidenze tra il mese dell’anno in cui si nasce e la predisposizione a una serie di malattie. Pubblicato sul Journal of American Medical Informatics Association, lo studio ha usato un algoritmo che ha calcolato le coincidenze tra le nascite di 1.7 milioni di persone in un arco di 28 anni e la presenza di quasi 1.700 malattie.

Nicholas Tatonetti, ricercatore presso il Columbia University Medical Center, afferma che non si tratta di astrologia: [blockquote style=”1″]la stagionalità veicola i fattori ambientali variabili presenti al momento della nascita.[/blockquote]
Dai risultati dello studio, le notizie più confortanti vengono appunto per i nati nei mesi da maggio ad agosto: costoro avrebbero la più bassa tendenza ad ogni tipo di patologia. Mentre ben meno fortunati sono coloro i quali hanno compleanni ottobrini: i nati in ottobre soffrirebbero la salute più fragile di tutto il calendario, con una marcata tendenza a patologie mentali come la sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Per i nati a marzo invece i rischi appaiono legati soprattutto a malattie cardiovascolari, mentre chi ha il compleanno a dicembre sarebbe colpito da disturbi respiratori con più frequenza.

Certo, i meccanismi alla base di questo fenomeno sono poco conosciuti. Cambiamenti nella dieta e ondate annuali di infezioni potrebbero influenzare la crescita dello sviluppo del bambino, con un effetto persistente sulla sua salute lungo i decenni successivi. Inoltre, c’è la vitamina D, che viene prodotta quando la pelle è esposta al sole. In particolare, sembra che giochi un ruolo importante quanto sole la mamma prenda durante la gravidanza. Il sole innesca la produzione di vitamina D, e se preso nei primi mesi di gravidanza, avrebbe effetti positivi sulla salute fisica e mentale del nascituro.

Ma queste ipotesi valgono anche per i disturbi alimentari? In realtà, per quanto banale possa essere la correlazione, molti ricercatori, fin dagli anni ’90 hanno cercato di trovare una spiegazione a questa curiosa correlazione.
Esistono, però, pochi studi che si sono occupati dell’argomento, utilizzando metodi e strumenti differenti, che hanno portato a diverse e, talvolta contrastanti, conclusioni. Alcuni sostengono l’ipotesi che le persone che nascono nei primi sei mesi dell’anno siano più soggette a sviluppare un disturbo del comportamento alimentare. Vediamo quali.

Uno studio condotto in Inghilterra (Rezaul et al., 1996) ha preso in esame la data di nascita di un campione di 1939 pazienti affetti da disturbi del comportamento alimentare, ottenuto dall’archivio dell’unità DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) del Maudsley Hospital, a Londra, dei precedenti 14 anni, senza distinguere le categorie diagnostiche in cui si suddividono i disturbi alimentari. Il campione clinico è stato analizzato insieme ad un gruppo di controllo, appartenente alla popolazione generale, ed ottenuto attraverso l’ufficio anagrafe del Regno Unito. L’analisi dei dati è stata condotta tramite il software statistico SPSS ed il test per la stagionalità di Edwards (Edwards, 1961). I risultati hanno evidenziato una variazione statisticamente significativa della stagione di nascita, con un picco in maggio, all’interno del campione clinico. Tuttavia non si sono evidenziate differenze statisticamente significative nella stagione di nascita tra i soggetti affetti da disturbi alimentari e la popolazione generale. Unica eccezione va fatta per i soggetti più giovani (nati dopo il 1963) che hanno un andamento opposto e con differenze significative tra i diversi gruppi: il campione clinico ha un picco di nascite in marzo ed un ciclo stagionale di nascite maggiore nei primi 4 mesi dell’anno, mentre nel gruppo di controllo avviene l’opposto, con picco di nascite raggiunto in luglio.

Uno studio, condotto sempre in Inghilterra nel 2000 (Morgan et al.), è arrivato ad una conclusione in parte contrastante a quella precedente. In questo caso il campione clinico (935 soggetti), con diagnosi di bulimia nervosa effettuata seguendo i criteri del DSM-IV, è stato ottenuto dall’archivio dell’unità per il trattamento della bulimia nervosa del St. George’s Hospital, a Londra. I soggetti sono stati suddivisi tra quelli nati prima del 1963 (389) e quelli nati successivamente (546), con l’intento di comparare lo studio a quello precedente. Sono stati inoltre individuati i soggetti con una precedente storia di anoressia nervosa, distinguendoli in uno nuovo gruppo ed assegnando loro il nominativo di bulimia di II tipo (227). Il gruppo di controllo è stato ottenuto grazie ai dati presenti nell’ufficio anagrafe del Regno Unito. L’analisi statistica è stata effettuata tramite il software statistico SPSS ed il test per la stagionalità di Edwards (Edwards, 1961). I risultati hanno evidenziato un andamento statisticamente significativo delle nascite nel secondo semestre dell’anno, all’interno del gruppo di pazienti più vecchi, nati prima del 1963, e del gruppo di controllo, con un picco in luglio. All’interno del gruppo bulimia di tipo II, invece, si rileva l’andamento opposto, simile a quello evidenziato dallo studio precedente, con picco di nascite a marzo. Non si sono, invece, evidenziate differenze statisticamente significative tra i pazienti più giovani e la popolazione generale.

Possiamo quindi ancora affermare che esiste una correlazione tra la stagione di nascita e la presenza di disturbi del comportamento alimentare? E se si, in che misura? Quali sono le cause? Le ipotesi sono molteplici e ancora in fase di osservazione.
Sempre negli stessi anni, un altro studio inglese (Waller et al., 2001) si è posto come obiettivo quello di indagare la relazione esistente, all’interno di una popolazione non clinica, tra le modalità alimentari restrittive e la nascita nei mesi più caldi dell’anno, ipotizzando che un possibile fattore co-occorrente potesse essere proprio la temperatura elevata.

Il campione è composto da 117 adolescenti di genere femminile, volontarie, nate e concepite nelle aree metropolitane del Regno Unito in cui erano disponibili i dati meteorologici. Le ragazzine sono state reclutate in occasione di una visita scolastica alla facoltà di psicologia. Le partecipanti hanno compilato il test per i disturbi alimentari, EDI (Eating Disorder Inventory), e fornito i dati di nascita, peso e altezza per stilare l’indice di massa corporea (IMC). I risultati hanno confermato una maggior prevalenza di comportamenti alimentari restrittivi in donne che sono nate nei mesi più caldi dell’anno (maggio-agosto) e, parallelamente, un collegamento tra tali comportamenti e la temperatura ambientale alla nascita, ottenuta grazie alle registrazioni meteorologiche nazionali.

Con l’intento di replicare questo studio, un gruppo di ricercatori americani (Munn M. A., Klump K. L., 2003), hanno analizzato l’esistenza di una correlazione tra la stagione di nascita e la presenza di un qualsiasi disturbo alimentare, all’interno di un campione femminile di un college del Michigan.
I risultati, tuttavia, non dimostrano variazioni significative in tal senso. Secondo questo studio dunque, non esiste alcuna relazione tra la stagione di nascita e la presenza o meno di un disturbo alimentare, all’interno di una popolazione non clinica. Questi risultati, sono pertanto contrastanti con quelli di Rezaul (1996).

Questo indica che non si può generalizzare affermando che la stagione di nascita sia correlata e tanto meno predittiva di un disturbo alimentare.
Alla luce di questi studi, è pertanto, possibile affermare che le conclusioni a cui giungono sono contrastanti e non permettono di approdare ad un risultato generale e univoco.
Nel corso degli anni, però, le ricerche su questo fronte sono continuate.

Brewerton et al. nel 2012 hanno ipotizzato che le persone che manifestano sintomi di tipo bulimico possano essere nate prevalentemente in autunno, mentre quelle che presentano sintomi di tipo anoressico (restrittivi) possano seguire un andamento opposto. Il campione è composto da 3006 donne adulte che hanno risposto ad un’intervista telefonica strutturata in cui si richiedevano i dati di nascita e si effettuava uno screening per la diagnosi di bulimia nervosa ed altri disturbi psichiatrici. Le analisi statistiche sono state condotte tramite il software SPSS. I risultati hanno evidenziato un andamento significativo di prevalenza di nascite nei mesi più caldi dell’anno, estate e autunno, nelle donne che manifestano sintomi bulimici, con picco massimo in autunno ed il picco minimo (minor nascite) in primavera, evidenziando una relazione significativa tra la stagione di nascita e la presenza di sintomi alimentari di tipo bulimico (all’interno delle categorie diagnostiche della Bulimia Nervosa, Binge Eating e Purging).

A questo punto c’è da chiedersi cosa succede invece in quei paesi, come l’ Australia, dove le stagioni sono completamente invertite?
Una collaborazione inglese ed australiana ha provato a mettere a confronto i due Paesi: i risultati hanno rilevato come la presenza di disturbi alimentari sia correlata con la temperatura ambientale nel momento del concepimento piuttosto che con una differenza stagionale alla nascita (Willoughby K., Watkins B., Beumont P., Maguire S., Lask B., Waller G., 2002).

Pertanto, questo studio non fornisce supporto a quelli che affermano che i comportamenti restrittivi siano tipici di individui nati tra maggio ed agosto e quelli bulimici tra l’estate e l’autunno, anzi, evidenzia un possibile coinvolgimento della temperatura ambientale al momento del concepimento.
Soffermiamoci, ora, a riflettere sulle metodologie utilizzate dalle ricerche condotte finora.
Molti di questi studi presentano carenze metodologiche che dovrebbero essere colmate e superate (Lask B., Willoughby K., 2008). Sebbene vengano analizzati campioni piuttosto ampi, come nello studio di Rezaul et al. del 1996, i soggetti (1939) non sono stati distinti in classi diagnostiche, ed i dati utilizzati non sono rappresentativi della popolazione attuale, in quanto ricavati da un database di 14 anni prima. Inoltre, come anche per lo studio di Morgan et al. (2000), i risultati ottenuti non permettono di confrontare i soggetti clinici con la popolazione generale. Non è possibile, quindi, estendere i dati ad un campione più generale.

Molti di questi studi rimangono delle mosche bianche, in quanto i loro dati non sono stati replicati, e quindi confermati. Lo studio di Waller et al. (2001) ne è l’esempio. I ricercatori hanno affermato l’esistenza di una maggior prevalenza di comportamenti alimentari restrittivi in donne che sono nate nei mesi più caldi dell’anno (maggio-agosto) e, quindi, un collegamento tra tali comportamenti e la temperatura ambientale alla nascita. Tali dati sono stati messi in dubbio da Munn et al. (2003) secondo il quale non esiste alcuna relazione tra la stagione di nascita e la presenza o meno di un disturbo alimentare.

In conclusione, possiamo affermare che il mese di nascita o di concepimento influenzi lo sviluppo di un disturbo alimentare? Nonostante le ricerche condotte nel corso degli anni, i dati presentati non sono replicabili ed il numero di studi effettuati in questo ambito rimane tutt’ora esiguo.
Pertanto, possiamo affermare che la stagione di nascita non sia assolutamente predittiva dello sviluppo di un disturbo alimentare. In particolare, se la questione rimane controversa nel campo dell’anoressia nervosa, lo è ancora di più per quanto riguarda la bulimia nervosa, dove gli studi sono scarsi e contrastanti tra di loro.
Possiamo, quindi, solo ipotizzare che il mese di nascita, insieme a numerosi altri fattori, come quelli ambientali e genetici, possa veicolare la predisposizione a sviluppare determinate malattie, ma il come ciò avvenga, non è del tutto chiaro e lascia spazio a nuovi approfondimenti e ipotesi.

“Sons of Anarchy “ di Kurt Sutter (2008-2014) – Psicologia & TV Series

In Sons of Anarchy c’è tutto quello che rende una serie televisiva indimenticabile: dalla colonna sonora, agli intrighi famigliari e amorosi; le morti, le nascite, le lacrime(tante forse troppe), le risate.

Sette anni e sette stagioni; sarebbe assurdo cercare di riassumere in poche righe questa appassionante quanto straziante serie televisiva. Riassumerla, sarebbe dannoso per chi, ancora, non avesse avuto modo di vederla, dati gli innumerevoli personaggi e colpi di scena che la caratterizzano. Per chi invece si ritiene sensibile, moralista o facilmente impressionabile, è sconsigliata vivamente.

Ovviamente, come ogni telefilm di successo, le argomentazioni psicologiche e le riflessioni sulle personalità dei personaggi principali sono sorprendenti; regna fra tutte il conflitto tra il bene e il male, quel labile confine, a volte sottile, a volte fortemente marcato, dove si trova imprigionato il protagonista indiscusso della serie, Jax Teller, e che lo accompagnerà per tutte le stagioni della serie.

Jax Teller nasce “cattivo”, da una famiglia criminale, e per quanto provi a rendersi una persona migliore, ormai sono così profondamente radicati in lui quegli ideali di famiglia, violenza, anarchia e prevaricazione, che fanno apparire la mossa giusta da fare sempre come quella sbagliata, e viceversa; ogni qualvolta arriva un punto di svolta, torna sempre indietro e non riesce mai ad andare avanti.

Un’eterna lotta tra amori presenti e passati, genitori e figli, morti e nascituri; temi filosofici non poco complessi, semplificati dall’ambientazione. Il punto di ritrovo del club malavitoso è un’officina specializzata nella riparazione di motociclette, all’occorrenza luogo di festa e bordello, in cui spesso avvengono scontri verbali e fisici tra i personaggi. Il tutto contornato da una colonna sonora veramente d’eccezione, che fa da perfetta cornice alla solennità dei momenti più felici e più tragici della storia.

Figure fondamentali sono i ruoli genitoriali. Mi piacerebbe parlarvi della follia della madre di Jax, in realtà considerata madre di tutti i componenti del club, Gemma Morrow Teller, personaggio totalmente fuori controllo, che amerete ed odierete, cosi da rispettare la coerenza della continua ambivalenza bene-male; mi piacerebbe anche parlarvi del rapporto padre figlio, un argomento che continuamente viene rievocato, da diversi punti di vista. Se il tema filosofico principe è l’ambivalenza amore-odio, il tema psicologico fondamentale qui, è sicuramente l’influenza genitoriale e dei suoi modelli, che si insinuano all’interno del bambino e costituiranno l’adulto e il genitore che diverrà in futuro; mi piacerebbe raccontarvi tantissimo altro, ma non voglio rovinarvi nulla. Buona visione!

The walk: da Philippe Petit ai moderni Urban Skywalkers, tutta questione di novelty seeking

Nel 2015 esce nelle sale ‘The walk‘, film ispirato alla storia di Philippe Petit, il cui messaggio è abbastanza chiaro e diretto: perseguire un sogno senza mai mollare la presa anche quando questo ci mette in pericolo, merito del fenomeno Novelty Seeking.

Guglielmo D’Allocco

 

Era il 1974 quando , funambolo francese trapiantato negli States, realizzò non solo il suo sogno ma anche un’impresa mai tentata prima di allora: attraversare su un filo la distanza tra le due estremità delle Twin Towers a circa 450 metri dal suolo e senza alcuna protezione. Il tutto, ovviamente, fu realizzato nel pieno dell’illegalità, tanto che al termine dell’esibizione Petit fu tratto in arresto per poi essere rilasciato il giorno dopo, non potendo le autorità fare a meno di constatare l’impatto del fenomeno sui media e le pressioni dell’opinione pubblica.

Una pena la scontò però Philippe: esibirsi a scopo di beneficenza per i bambini newyorkesi al Central Park. Nel 2015 esce nelle sale ‘The walk‘, film ispirato alla storia di Philippe Petit, diretto da Robert Zemeckis e magistralmente interpretato dall’attore Joseph Gordon-Levitt e dal premio oscar Ben Kingsley. La trama ripercorre, sostanzialmente, le principali tappe della vita di Petit: il colpo di fulmine che lo porterà ad amare quello che diventerà molto più di un lavoro, l’incontro con Papa Rudy, mentore che gli insegnerà tutti i trucchi del mestiere, con la fidanzata Annie Allix e con i complici che lo aiuteranno a realizzare quella che fino all’ultimo momento sembra avere tutti i connotati di una vera e propria pazzia: camminare su un filo di acciaio sospeso tra i due tetti delle Torri Gemelle di New York.

 

The Walk: da Petit ai moderni skywalkers urbani

L’obiettivo di Philippe diventa quello di ognuno di questi personaggi che, consci dell’altissimo rischio al quale il funambolo espone la sua vita, decidono di andare ben oltre questa scontata e forse banale possibilità: portare a compimento l’impresa significherà essersi spinti oltre e aver realizzato davvero qualcosa di impossibile. Il messaggio del film è abbastanza chiaro e diretto: perseguire un sogno senza mai mollare la presa anche quando tutto sembra convincerci del fatto che siamo destinati a fallire.

Per quanto romanzata, non ho potuto fare a meno di accostare l’esperienza di Petit a quella dei più moderni skywalkers urbani: giovani che sfidano la morte arrampicandosi, senza alcuna protezione, sulle più alte vette dell’architettura urbana (grattacieli, antenne, gru, impalcature) al fine di realizzare video e immagini da diffondere poi sul web. Una moda che nasce qualche anno fa in Russia e che, grazie alla diffusione capillare su internet, si estende velocemente e a macchia d’olio facendo proseliti in tutto il mondo. Basta connettersi a Youtube e digitare tags come ‘urban climbing’ per ritrovarsi dinnanzi ad un repertorio video tanto attraente quanto spaventoso.

 

philippe petit - The walk da Philippe Petit ai moderni Urban Skywalkers, tutta questione di novelty seeking
Philippe Petit

 

Sul filo del Novelty seeking

L’effetto provato guardando alcuni di questi video non è stato molto diverso da quello avvertito guardando le immagini originali relative all’impresa di Petit sospeso tra le torri gemelle. Mi sono chiesto se i due fenomeni possano essere accomunati da una stessa matrice, e in effetti l’unica risposta che sono riuscito a darmi non può che essere questa: novelty seeking.

Per gli addetti ai lavori si tratta di un concetto molto noto, coniato da Roberto Cloninger che, nel 1987, elaborò una teoria che descriveva la personalità come risultante dell’interazione tra carattere e temperamento e includendo quella del novelty seeking tra i tipici tratti temperamentali. Con il suddetto termine si fa riferimento ad una particolare inclinazione dell’individuo a reagire con eccessiva eccitazione a stimoli e situazioni che comportano novità e con tendenza alla continua esplorazione con riduzione nel controllo degli impulsi.

Subito dopo l’arresto, ai microfoni dei giornalisti che chiesero il perché di quella impresa così spericolata Petit rispose:

Non so dirvi il perché…so solo che quando vedo due punti tra i quali tendere il mio cavo devo farlo…è più forte di me.

Questa risposta, in effetti, è un esempio calzante della descrizione di novelty seeking coniata da Cloninger. Non è escluso che sia proprio questa la caratteristica che fa da starter alle centinaia di esperienze rischiose (per quanto affascinanti per chi le guarda comodamente da casa) realizzate da giovanissimi ragazzi in ogni parte del mondo.

Tante sono le domande, al di là della descrizione scientifica del fenomeno, relative a cosa spinga adolescenti o poco più a cercare uno stimolo forte addirittura sulle vette più alte, giocando secondo dopo secondo una delicatissima partita con la morte. Mi chiedo se il brivido più forte sia quello (fisiologico) suscitato dall’aver raggiunto la vetta o quello (razionale) scaturito dal numero crescente di visualizzazioni e commenti all’impresa.

Difficile dirlo, soprattutto quando l’effetto scenico prende il sopravvento sulla domanda relativa al perché, come quella fatta con faccia basita al funambolo francese appena ammanettato. Questi filmati vengono dati in pasto a tutti noi come film, come serie televisive giornaliere e la nostra attenzione, talvolta, non riesce ad andare oltre la straordinaria qualità delle immagini e il brivido provato guardando attraverso una telecamera testimone non solo di un’impresa eccezionale, ma anche di un sempre più labile e ricercato confine tra la vita e la morte.

 

GUARDA IL TRAILER UFFICIALE DI THE WALK:

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