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Il ruolo delle emozioni negli autori di reati sessuali

Autori di reati sessuali: Il ruolo degli stati emotivi ed affettivi nelle cause e nelle conseguenze dell’agire criminale sessuale sta emergendo come fattore importante sia nella analisi teorica che nella ricerca empirica relative all’argomento. Gli studi evidenziano una relazione causale tra il ruolo delle emozioni ed i reati a sfondo sessuale, connessione che influenza direttamente anche i successivi e possibili interventi trattamentali.

Rachele Recanatini, OPEN SCHOOL SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Abusi sessuali e disturbi nella regolazione emotiva

Nella società in cui viviamo, numerosissime sono le violenze sessuali ad opera di sex offenders. Solo in Italia una donna su tre è stata vittima di un tentativo di stupro o di una violenza fisica, spesso ad opera del partner (dati Istat 2008). L’abuso sessuale è considerato uno dei problemi più preoccupanti della società occidentale contemporanea.

I “sex offenders”, o autori di reati sessuali, costituiscono una categoria eterogenea che può essere suddivisa in diverse tipologie, in base a caratteristiche e motivazioni (Zara, 2005); la distinzione più significativa si attua tra stupratori e pedofili (child molester), ma si distinguono anche violenze perpetrate da donne, da giovani adolescenti (jouvenile sex offenders) e molestatori telematici (Robertiello, Terry, 2007). Il DSM-IV-TR considera le parafilie all’interno dei “Disturbi Sessuali e dell’Identità di Genere” (American Psychiatric Association, 2005). In passato si ipotizzava un collegamento tra autori di reati sessuali e disturbi di personalità, in particolare una connessione tra gli abusi sessuali ed il Disturbo Narcisistico di Personalità, il Disturbo di Personalità Antisociale ed il Disturbo Borderline di Personalità.

Ad oggi sappiamo che anche le componenti affettiva ed emotiva svolgono un ruolo importante all’interno del funzionamento e della regolazione dei comportamenti sessualizzati devianti. Diagnosi psicopatologica e comportamento sessuale violento non sempre, infatti, sono co-presenti: un comportamento sessuale aggressivo e deviante può verificarsi anche quando manca una diagnosi psicopatologica. La ricerca evidenzia, ad esempio, come molti dei perpetratori di tali tipi di reati siano stati a loro volta vittime di abusi, creando una sorta di continuità violenta, anche se ciò non deve essere interpretato in maniera lineare come causa-effetto. I fattori predittivi più significativi di problematiche comportamentali precoci sono stati identificati in problemi della condotta, abuso di alcol e sostanze stupefacenti, vissuti di abusi fisici, sessuali e psicologici, esperienze di trascuratezza emotiva, famiglie multiproblematiche ed abusanti (Johnson, Knight, 2000).

A livello emozionale sembra che, pur avendo desiderio di condivisione emotiva e psicologica con gli altri, i sex offenders manchino di quella competenza sociale ed emotiva necessaria per entrare in una relazione costruttiva con altre persone. Attualmente, grazie a numerosi studi scientifici internazionali e nazionali, è stato sottolineato, ad esempio, come una ridotta capacità empatica sia presente nella maggior parte dei sex offenders: la comprensione profonda dei sentimenti e delle cognizioni dell’altro appare limitata in questi soggetti; la considerazione della vittima è assente o comunque diversa dalla propria e, di conseguenza, gli individui che commettono tali gesti spesso manifestano difficoltà nell’assumere il punto di vista e la prospettiva di chi hanno di fronte (Petruccelli, Pedata, 2008).

 

La mancanza di empatia negli autori di reati sessuali

Spesso si parla di empatia e del suo ruolo all’interno dell’offending sessuale; gli autori di reati sessuali, infatti, spesso soffrono di veri e propri deficit nella loro capacità di esperire sentimenti empatici, e questo viene considerato fondamentale nello sviluppo, ma soprattutto nel mantenimento, del loro comportamento deviante. È vero, però, che il concetto di “empatia” è spesso confuso, vago; alcuni ritengono inoltre che le difficoltà empatiche siano principalmente specifiche della persona e non generalizzabili, e che tale termine andrebbe analizzato attraverso un modello multifattoriale, che ne valuti tutti gli aspetti (Marshall et al., 1995).

 

Le distorsioni cognitive più frequenti negli autori di reati sessuali

Negli anni numerosi studi hanno indagato anche relativamente alle distorsioni cognitive, al disimpegno morale ed ai meccanismi di difesa che ricorrono maggiormente nei sex offenders; ciò che emerge è la loro tipicità di pensiero: meccanismi strutturati di distorsione cognitiva permettono loro di tollerare intra-psichicamente la condotta posta in essere. I meccanismi più utilizzati sono la negazione e la minimizzazione del danno arrecato.

Il disimpegno morale, di cui fa parte la giustificazione morale, unito alla de-umanizzazione della vittima e all’attribuzione della colpa, costituiscono modalità attraverso le quali il reo non si identifica con la vittima e non prova empatia. Inoltre, il background degli aggressori è solitamente caratterizzato da un’infanzia vissuta all’interno di famiglie abusanti, violente o gerarchizzate, in cui sono cresciuti frustrati e profondamente incapaci di gestire le reazioni emotive, fattori che spingono verso un desiderio di dominio e di ricerca di potere. Recenti studi hanno evidenziato come i pattern di risposta più ricorrenti negli autori di reati sessuali non fossero ansia, antisocialità o rabbia come in passato si era ipotizzato, ma piuttosto fattori legati ad ostilità ipercontrollata e discontrollo degli impulsi, come emerso dalla somministrazione di test di personalità (MMPI-II). Ciò sottolinea che le risposte violente dei sex offenders possono essere causate da qualsiasi provocazione, anche in assenza di reali azioni provocatorie o motivazioni (Fabrizi et al, 2007).

 

Il ruolo delle emozioni negli autori di reati sessuali

Il ruolo degli stati emotivi ed affettivi nelle cause e nelle conseguenze dell’agire criminale sessuale sta emergendo come fattore importante sia nella analisi teorica che nella ricerca empirica relative all’argomento. Gli studi evidenziano una relazione causale tra il ruolo delle emozioni ed i reati sessuali, connessione che influenza direttamente anche i successivi e possibili interventi trattamentali (Howells et al., 2004). La capacità di riconoscere le emozioni in modo accurato nell’individuo sex offender è deficitaria. Studi dimostrano che anche autori di reati di pedofilia, ad esempio, mostrano carenze del giudicare le emozioni provate dai bambini (Hudson et al., 1993). Relativamente all’empatia ed al riconoscimento delle espressioni emotive facciali, uno studio recente ha indagato le differenze tra sex offenders, individui che non hanno commesso reati sessuali e gruppo di controllo, controllando alcune variabili affettive e sociali, quali la depressione, l’ansia e la desiderabilità sociale, che potrebbero influenzare la valutazione sia delle emozioni che dell’empatia.

Detenuti sex offenders (child molester), detenuti che non hanno commesso reati a sfondo sessuale e gruppo di controllo, abbinati per età, genere e livello culturale, hanno eseguito un compito di riconoscimento delle espressioni facciali relative alle emozioni di base, che variavano per intensità, ed hanno completato alcune scale di auto-valutazione per distinguere le diverse componenti dell’empatia (l’assunzione delle diverse prospettive, l’empatia affettiva, la preoccupazione empatica ed il disagio personale), così come per la depressione, l’ansia e la desiderabilità sociale. Dalla ricerca emerge che i sex offenders sono meno accurati rispetto agli altri partecipanti nel riconoscimento delle espressioni facciali di rabbia, disgusto, sorpresa e paura, con delle notevoli difficoltà nel distinguere la paura dalla sorpresa, ed il disgusto con la rabbia. L’empatia affettiva è l’unica componente che discrimina i sex offenders dai non sex offenders ed è correlata con l’accuratezza nel riconoscimento delle espressioni emotive. Tali risultati confermano che gli autori di reati sessuali potrebbero avere delle difficoltà nella decodifica di alcuni stimoli emotivi, veicolate dalle espressioni del volto (Gery et al., 2009). I sex offenders dimostrano difficoltà in generale ad identificare i propri sentimenti, a gestire le proprie sensazioni negative, a prolungare nel tempo sentimenti positivi e sono certamente più aggressivi.

 

La violenza sessuale nell’età adolescenziale

L’età adolescenziale sembra essere quella che registra il più alto rischio di crimini sessuali. Le statistiche internazionali riportano un notevole aumento nel numero di abusi sessuali compiuti da minori al di sotto dei diciotto anni. Le manifestazioni di devianza sessuale nell’età adolescenziale potrebbero costituire i presupposti per la strutturazione di comportamenti sessuali disturbati, con una escalation in forme di perversione e violenza che rischiano di perdurare anche in età adulta (sexual criminal career) (Corrado et al., 2002). È ormai noto come le emozioni rivestano una componente importante nell’adolescenza. Sono emerse delle problematiche di intelligenza emotiva nei sex offenders adolescenti, riscontrando un differente livello sia di aggressività esperita che di attenzione verso i propri sentimenti, rispetto al gruppo di controllo; gli autori di reati sessuali in età adolescenziale apparivano ai test somministrati poco chiari rispetto alle proprie emozioni, meno in grado di far fronte a stati d’animo spiacevoli e di mantenere quelli positivi. Tali evidenze scientifiche costituiscono poi il focus del trattamento degli adolescenti devianti (Moriarty et al., 2001).

Diversi studi hanno evidenziato che gli adolescenti sex offenders sono caratterizzati da sentimenti di impotenza, aggressività, rabbia, impulsività, incapacità di capire le proprie ed altrui emozioni, con un’intelligenza emozionale rigida (Moriarty et al., 2001). Le abilità mentali che sottendono al modello di intelligenza emozionale sono strettamente connesse alle emozioni e alle interazioni con il pensiero. Secondo questo modello gli individui che sono emozionalmente intelligenti sono cresciuti con una famiglia “bio-socialmente adattiva”, ovvero con genitori attenti e sensibili; di conseguenza sono in grado di rielaborare efficacemente le proprie emozioni, scelgono più facilmente stabili modelli emozionali, sono capaci di comunicare e discutere sui propri sentimenti ed emozioni, sviluppano competenze nelle aree relative al mondo emozionale, come il problem-solving emozionale. I sex offenders adolescenti sono quindi particolarmente confusi a livello emotivo, per questo spendono molto tempo a valutare emozioni e sentimenti, spesso in un’analisi che impedisce loro di dislocarsi dai propri bisogni e trasferirsi in una dimensione relazionale. Nonostante la difficoltà a sperimentare ed esprimere le proprie emozioni sia una caratteristica tipica dell’adolescenza, questa è particolarmente pronunciata tra i sex offenders.

 

La psicoterapia per gli autori di reati sessuali

La questione sull’opportunità di trattare gli autori di reati sessuali è un argomento molto dibattuto nel nostro paese, che sollecita particolarmente l’opinione pubblica, ancora culturalmente orientata alla pena detentiva come unica punizione possibile. Sono molti gli studi che hanno ormai confermato l’effettivo beneficio di alcuni trattamenti in termini di riduzione della recidiva (Marschall et al., 1991); in particolare, il trattamento cognitivo-comportamentale e quello sistemico sembrano associati ad una diminuzione delle recidive sessuali (Hanson et al., 2002).

Vi è ormai una consolidata correlazione empirica tra i bisogni criminogenici identificati, come le distorsioni cognitive o la difficoltà nelle relazioni intime, e la recidiva (Rosso et al., 2010). I delinquenti sessuali hanno difficoltà che riguardano diverse sfere della vita, spesso in modo cronico, tra cui la comprensione e la gestione delle emozioni. Proprio come in altre patologie, come le dipendenze, non si ha una completa “guarigione”, ma comunque si può assistere a delle remissioni, che potrebbero diminuire le recidive, grande costante di tali reati. Il trattamento efficace è quello che si serve di un approccio multifattoriale, che comprende anche fattori affettivi ed emotivi, come l’analisi e l’approfondimento della sessualizzazione dei conflitti.

Sentimenti come la collera, la solitudine, l’umiliazione spesso agiscono come motore nel reato di abuso sessuale: il sesso viene utilizzato come forma di potere e controllo, viene spesso confuso con l’aggressività. Tra i fattori di rischio, infatti, troviamo alcune costanti cliniche: problematiche relazionali ed affettive, meccanismi di negazione utilizzati per evitare l’angoscia, deficitario controllo degli impulsi e delle modalità di coping, incapacità di reagire adattivamente alle frustrazioni. All’interno delle competenze da rafforzare troviamo sicuramente la capacità di riconoscere e gestire le emozioni. Gli autori di reati sessuali hanno spesso delle carenze specifiche, derivate dalla loro storia personale, che li portano a non saper regolare l’emotività e, di conseguenza, a non sopportare le emozioni negative, quali rabbia ma anche noia, vuoto e solitudine, ed a cercare subito uno sfogo per le emozioni positive, come l’eccitazione sessuale.

È necessaria quindi una presa di coscienza della dimensione emotiva insita nel conflitto, per elaborarla e gestirla; la centralità del lavoro sull’empatia con i sex offenders risiede nell’ “emotional recognition”, ovvero nella capacità di differenziare gli stati emotivi propri e altrui e nell’ “emotional replication”, vale a dire nella capacità di provare un’emozione simile, o quasi, a quella che prova l’altro (Giulini, Xella, 2011). Nei paesi esteri, diversamente da quanto accade in Italia, particolare rilievo è posto anche alla fase post-detentiva, in cui l’aggressore continua ad essere oggetto di programmi di riabilitazione, insieme alla propria famiglia. Tutto ciò è particolarmente importante in quanto uno dei primi fattori che riduce il rischio di recidiva è proprio il reinserimento sociale e l’integrazione, per diminuire la stigmatizzazione e la marginalizzazione dell’ex detenuto.

Di primaria importanza appare ad oggi, di fronte ad un aumento dei crimini sessuali, la questione del trattamento. Tra gli altri obiettivi, troviamo anche sviluppare una competenza emozionale e sentimentale, attivare un processo di empatia, comprensione e sentimenti di colpa. Questo perché tra le cause di un comportamento sessuale aggressivo e deviante potrebbe esserci una emozionalità negativa, con sentimenti di solitudine, rabbia o confusione, mancanza di empatia, senso di impotenza e disperazione, per cui l’atto criminale diventa modalità per ridurre tali stati emotivi negativi, creando un ciclo di aggressione sessuale. Sviluppare intelligenza emozionale significa incidere sulla mancanza di empatia, sulla scarsa competenza sociale e sul mancato riconoscimento dei bisogni emozionali delle altre persone, che spesso incoraggiano gli atti devianti.

Campanilisti in culla: i bambini piccoli danno più credito a chi parla la loro lingua

Ancora prima di iniziare a parlare i bambini, anche piccolissimi, danno maggiore attenzione alle informazioni offerte da coloro che parlano la loro stessa lingua rispetto a quelle degli ‘stranieri’. Un nuovo studio dimostra che questo comportamento, che si manifesta già a 5 mesi di età, medierebbe l’apprendimento del sapere condiviso della propria cultura.

 

La ricerca coordinata dalla SISSA è stata pubblicata sulla rivista Frontiers in Psychology

Siamo campanilisti fin dalla culla e tendiamo a privilegiare il sapere che ci viene insegnato da coloro che parlano la nostra stessa lingua, anche quando questo sapere non è trasmesso attraverso il linguaggio parlato. Hanna Marno, ricercatrice della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste ha condotto (insieme ad altri colleghi fra cui Jacques Mehler, e Marina Nespor, professori della SISSA, che hanno coordinato lo studio, e Yamir Vidal, studente di dottorato della SISSA) un esperimento in cui ha dimostrato che i bambini prelinguistici danno più attenzione alle indicazioni di persone che hanno sentito in precedenza parlare la loro lingua.

In una prima serie di esperimenti, dei bambini di 12 mesi venivano prima familiarizzati con degli individui che parlavano la loro stessa lingua madre e con altri che parlavano un’altra lingua diversa. In una sessione successiva, gli stessi bambini osservavano dei brevi filmati che mostravano le persone conosciute indicare con lo sguardo degli oggetti. L’analisi del comportamento dei piccoli ha mostrato che questi guardavano più spesso gli oggetti indicati dalla persona che parlava la loro lingua, rispetto a quelli indicati dagli stranieri. Esperimenti successivi hanno dimostrato che questo effetto è già presente in bambini di soli 5 mesi.

Il riconoscimento della lingua parlata dagli interlocutori stimola nei bambini, già molto precocemente, l’apprendimento sociale: tendono infatti ad assorbire preferibilmente le informazioni offerte dalle persone che vengono riconosciute come appartenere al loro stesso gruppo culturale. Il linguaggio è un indizio che indirizza l’apprendimento – spiega Marno, primo autore della ricerca – Può sembrare limitante, ma i bambini sono esposti a una mole enorme di stimoli, e per questo hanno bisogno di strategie per distribuire efficacemente il loro potenziale attentivo, massimizzando insieme l’apprendimento dell’informazione rilevante. Scegliere chi parla la nostra lingua è un buon modo per essere sicuri che ciò che si impara ci sarà poi utile nella vita.

Le ombre di principesse, eroi ed altri personaggi Disney: un passato oscuro di traumi, abbandoni e abusi

Molte delle principesse, degli eroi e dei personaggi Disney che hanno accompagnato la nostra infanzia, regalandoci spensieratezza e insegnamenti a suon di edificanti canzoncine, celano un passato oscuro di traumi, abusi sessuali, abbandoni e inganni.

 

Tali personaggi Disney – a volte tratti da persone reali, a volte puramente immaginari – hanno avuto una vita così tormentata che mai l’avremmo sospettato a partire da quei candidi cartoni che hanno allietato la nostra infanzia insegnandoci la bontà ad ogni costo, il potere salvifico dell’amore e della bellezza, tra questi:

  • Biancaneve
  • Peter Pan
  • Alice nel Paese delle meraviglie
  • La Bella Addormentata
  • La sirenetta

 

Biancaneve

Per quanto riguarda i personaggi reali che hanno ispirato le note fiabe, secondo il ricercatore Bartels la fiaba tedesca di Biancaneve – tramandata nella tradizione popolare e poi scritta nel 1812 dai fratelli Grimm – trae ispirazione dalla triste vicenda di una fanciulla realmente vissuta a Lohr nella prima metà del ‘700: Maria Sophia von Erthal.

Figlia di un importante magistrato, perse la madre in giovane età. Il padre sposò quindi una donna che, desiderosa di favorire i propri figli, maltrattava pesantemente la fanciulla fino a costringerla a lasciare per sempre il castello (oggi attrazione turistica in cui si può ammirare lo specchio parlante, giocattolo acustico in voga nel 1700 in grado di registrare delle frasi e riprodurle, che fu dono del padre di Maria Sophia alla seconda moglie). In quelle zone erano presenti numerose miniere in cui lavoravano persone molto basse, capaci di destreggiarsi nelle strettezze dei cunicoli, o addirittura bambini: ecco l’origine dei personaggi dei sette nani. Secondo gli storici, ella potrebbe essere morta per avvelenamento dovuto alla pianta Atropa Belladonna, oppure di vaiolo. In ogni caso, alla giovane toccò una misera fine: morì molto giovane, abbandonata a se stessa e ripudiata dal suo stesso padre, costretta a vivere da vagabonda dopo esser stata maltrattata. E, ovviamente, senza Principe Azzurro.

Questa tragica vicenda reale ha dunque dato origine a una favola originariamente piuttosto cruenta: nella prima versione dei fratelli Grimm (del 1812) a desiderare di uccidere e addirittura di cibarsi della fanciulla è la sua stessa madre. Le versioni successive scritte dai fratelli Grimm, che saranno più simili al classico Disney, sono invece edulcorate: sarà la matrigna a nutrire desideri infanticidi e cannibalici.

 

Peter Pan

Peter Pan è un altro, tra i personaggi Disney, che nasconde una storia dalle tinte drammatiche. Egli è il protagonista di due romanzi e un’opera teatrale scritti da James Matthew Barrie nella prima metà del 1900. L’autore, per la figura dell’eterno bambino, ha tratto ispirazione dai fanciulli George, Michael e Peter, figli della giovane vedova Sylvia Davies. Questi intratteneva con loro uno strettissimo rapporto, tanto da adottarli dopo la morte della madre. La relazione coi ragazzini era molto intensa, secondo alcuni morbosa: molte sono le odierne ipotesi di pedofilia.

Il destino di questi bambini è stato a dir poco crudele. George morì a soli 21 anni in guerra con un proiettile in testa. Michael si uccise, anche lui a soli 21 anni, gettandosi in un fiume con il suo amato: sembra che il motivo di questo tragico gesto fosse proprio la sua omosessualità. Anche Peter si uccise, all’età 63 anni, gettandosi sotto un treno. Si racconta che egli si suicidò dopo aver bruciato le lettere che Barrie scrisse ai ragazzi Davies.

Lo scrittore Dudgeon sostiene che l’autore di classici per ragazzi falsificò il testamento pur di ottenere la custodia dei ragazzi, e riporta che Peter disse al riguardo: “La faccenda è incredibilmente strana, patetica e ridicola e anche macabra in un certo modo”. Barrie usava scattare foto ai ragazzi, con costumi teatrali o nudi. Nel libro The little white bird (1902), egli racconta del proprio rapporto con David e George e, in alcuni passaggi che possono prestarsi a interpretazioni sinistre, racconta del suo forte trasporto per questi ragazzini, e descrive in modo molto appassionato alcuni momenti in cui li sveste o fa loro il bagno. Le accuse di pedofilia possono purtroppo sembrare verosimili, sia alla luce del suicidio di Peter (ma anche di Michael) che di alcuni scritti apparentemente sospetti, come il biglietto per l’ottavo compleanno di Michael in cui Barrie scrive: “Sono molto preso da te, ma non dirlo a nessuno”.

 

Alice nel Paese delle Meraviglie

Un altro autore controverso che ha dato origine a una delle favole più belle e visionarie della Disney è Lewis Carroll, autore dello splendido Alice nel Paese delle meraviglie (1865). Charles Dodgson (questo il suo vero nome), appassionato anche di fotografia, usava immortalare e disegnare ragazzine nude, cosa che ha contribuito alle accuse, anche nel suo caso, di pedofilia. Una delle sue modelle preferite era una bambina di nome Alice Liddel, con cui Carrol passava molto tempo, tra gite in barca e invenzioni di storie, e da cui si narra che trasse ispirazione per la protagonista del suo romanzo più noto.

È doveroso però notare, prima di giungere a conclusioni definitive, che in epoca vittoriana i ritratti di bambine e ragazzine nude erano un tipo di fotografia molto comune. Secondo il biografo Cohen, Carroll provava per Alice (e in generale per le numerose ragazzine che definiva sue amiche) più di quanto volesse ammettere, e per questo motivo chiedeva sempre alle famiglie di essere presenti durante gli scatti, per imporsi un’autodisciplina e un controllo.

 

La Bella Addormentata nel Bosco

Per quanto riguarda i personaggi letterari che hanno dato vita ai miti della nostra infanzia, è interessante e a tratti inquietante la storia della Bella Addormentata Nel Bosco. Si tratta di una fiaba europea dalla lunga tradizione: vi è una versione del 1300 ambientata all’epoca dei Greci e dei Troiani, la versione di Perrault del 1600, quella di Giambattista Basile della stessa epoca, quella dei fratelli Grimm del 1800 e, ovviamente, la versione Disney.

La prima versione narra di Zellandine, una principessa che cade in un sonno incantato durante il quale il suo principe azzurro, Troilo, decide di intrattenere un rapporto sessuale con il suo corpo inerte, mettendola incinta. Quello che potremmo definire uno stupro è un elemento cardine della storia, mantenuto anche nella versione del 1600 di Giambattista Basile. Tale versione, destinata a un pubblico di adulti aristocratici e dunque esplicita, fa chiari riferimenti alla deflorazione e alla violenza sessuale da parte del principe sull’inerme addormentata. La versione di Perrault è decisamente più politicamente corretta, priva di elementi perturbanti e anzi edificante e moraleggiante, così come la versione Disney, in cui il Principe combatte la perfida strega e risveglia la principessa col bacio del vero amore.

 

La Sirenetta

Un personaggio letterario il cui destino crudele è stato decisamente mitigato dalla multinazionale americana è Ariel, protagonista de La sirenetta di Andersen (1836). Il personaggio originario, senza nome, è un’eroina tragica al pari della Didone di Virgilio: entrambe morranno sole, dopo aver rinunciato a tutto per il grande amore da cui sono state rifiutate.

La protagonista è una creatura che si rifiutò di condurre una vita negli abissi lontano dall’uomo di cui era perdutamente innamorata. Ribellandosi al volere del padre, decise di stringere un patto con la strega del mare la quale, impadronendosi della sua voce e privandola della lingua, le conferì la possibilità di camminare su due piedi fuori dall’acqua. La trasformazione fu profondamente dolorosa: come se la coda le venisse tagliata in due da una lama affilata. Ad ogni passo, la sirenetta si sentiva trafitta da mille coltelli sul palmo dei piedi. Una volta compiuta la trasformazione, ella non sarebbe mai più tornata ad essere una sirena e, se il principe avesse sposato un’altra donna, ella sarebbe morta.

La protagonista non riuscì però a conquistare il suo amore, il quale sposò un’altra fanciulla. Le sorelle consegnarono quindi alla disgraziata un pugnale, col quale ella avrebbe dovuto uccidere la novella sposa di Eric. Con l’arma in pugno e di fronte al talamo nuziale in cui si era consumata la prima notte di nozze, la Sirenetta non riuscì ad affondare la lama nel corpo addormentato della sposa. E così, dilaniata dal dolore, profondamente sola e costretta a rinunciare al sogno nel cui nome aveva rinunciato a tutto, si gettò in acqua per trasformarsi in spuma del mare.

 

Le vere storie dei personaggi Disney: conclusioni

Insomma, molti dei personaggi eterei e dai sentimenti nobili protagonisti delle favole che tanto amiamo purtroppo hanno subìto un destino gramo e non sono stati riscattati dal potere dell’amore: anzi, hanno dovuto affrontare l’abbandono, la solitudine più atroce, la violazione della loro identità. Biancaneve è morta sola e agli albori della vita, Peter Pan si è ucciso, Alice potrebbe essere stata oggetto di attenzioni disturbanti, la Bella Addormentata ha subìto molestie mentre era incosciente, la Sirenetta si è trasformata in spuma del mare dopo immani sofferenze fisiche e dopo aver perso per sempre il suo unico grande amore.

Nel romanzo di Barrie, come nel film Disney, Peter Pan perde la sua ombra, e la cerca instancabilmente nella camera dei Darling. Alla luce della vera storia che si cela dietro il personaggio, non possiamo non immaginarlo come un tentativo di ritrovare la propria integrità e unità. Peter non abita questo mondo: vive nell’Isola Che Non C’è, e trovandosi a cavallo tra due dimensioni (l’Isola e l’appartamento di Wendy) non ne abita davvero nessuna. È solo. Benché affezionato a Wendy, non riesce a restare nel mondo di lei, a venire a patti con la cruda realtà. Pensiamo al vero Peter e alla sua eterna lotta per pacificarsi con la sua ombra, con il suo passato e le sue paure. Una lotta che non ha vinto e che lo ha condotto al suicidio, una battaglia che pensiamo accomuni tutti i nostri eroi ed eroine.

Come la Sirenetta, morta così come è nata: senza nome, senza identità, in bilico tra due mondi. Personaggi irrisolti, che hanno vissuto conflitti totalizzanti di cui l’amore non era lontanamente magico risolutore, bensì sorgente di sofferenza perché destinato a non essere mai ricambiato o addirittura invadente, insidiante e molesto. Principesse ed eroi soli, che non vissero né per sempre, né felici, né contenti.

La creatività come attività della mente umana

Creatività: creare è il modo naturale di funzionamento della mente. Una sorta di predisposizione a scomporsi e ricomporsi per affrontare i continui mutamenti dell’ambiente.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera il 17/07/2016

Introduzione: la creatività nei bambini

Creare è un atto gentilmente criminale. Guardatelo il bambino all’opera con la sua corte di pupazzetti: sta rubando alla realtà la sua sostanza. Prestate attenzione al piccolo alchimista. Dentro il suo cervello gli oggetti diventano immagini mentali che manipolerà, doserà, smonterà e ricomporrà in un atto interminabile di mancanza di rispetto alle cose. Osservatene i momenti di stizza: è la realtà che reclama il suo dazio e la mente, fiera, si oppone. Un soldatino, una bambola, una matita. A noi adulti ormai sembrano nient’altro che quello che sono. Il bambino da subito li fotografa, li respira, li ascolta, li sente con le manine e se ne forma un’immagine che incorpora e che vivrà di vita propria, con la quale parla, litiga, fa pace, sulla quale sale e vola. Inventa un sacco di animali fantastici.

Ha ragione l’adulto a considerare un trenino come un piccolo giocattolo che necessita di pile per girare sempre e solo sulla stessa pista? O il bambino, che ci sale e arriva fino in Africa, terra famosa per la presenza di leoni e unicorni? Ha ragione il bambino e l’adulto si inganna se crede che la sua mente funzioni in maniera troppo diversa. Se solo prestasse attenzione ai propri sogni scoprirebbe quello che la mente continuamente compie: ricombina informazione, mescola pozzi e montagne, ladri e maschere, vestali in uniforme e maree grigie che montano minacciose. Il terremoto che crepa il muro del castello nel quale è entrato è solo nella sua mente, eppure si spaventa e si sveglia preoccupato. La ragazza esile che lo invita a partire per la neve e poi lo lascia in una steppa arida non esiste, ma lui si sveglia triste e lo resta per buona parte della mattina. La mente indaffarata a inventare, lavorando con poche soste.

La creatività come attività della mente umana

“La creatività è la principale attività della mente umana” scrive Calamandrei e cerca di capirne il funzionamento e gli scopi. Il suo volume è molto ricco, ne distillo una serie di riflessioni.

Creare è il modo naturale di funzionamento della mente. Una sorta di predisposizione a scomporsi e ricomporsi per affrontare i continui mutamenti dell’ambiente. Il neuroscienziato Edelman identifica nel cervello un “generatore di diversità”. Come il DNA che si ricombina per favorire l’adattamento, come la cultura che attraverso il tabù dell’incesto comanda agli individui: mischiate i vostri geni e verrete su più sani e più forti. La mente filtra gli stimoli che percepisce e li organizza per dare loro senso e risolvere problemi: nel farlo, il “sistema sensoriale… è molto creativo e produce ipotesi differenti e continui raffronti per ogni stimolo ricevuto”. Un tavolo è un tavolo, ma la mente lo configura di volta in volta come qualcosa su cui si poggia il piatto di spaghetti (serve per mangiare), il laptop (serve per lavorare), su cui si sale per riparare il lampadario (serve per arrivare al soffitto), si balla (solo il venerdì sera, con gli amici e dopo due Moscow mule).

Creare ha dei vincoli. Le opere della nostra mente hanno un’utilità pragmatica. Le idee che generiamo, il modo in cui immaginiamo il reale, devono essere adatte ad affrontare problemi concreti. In alcuni momenti la mente mescola le carte come il più talentuoso degli illusionisti: nel sogno, durante quell’attività che gli psicologi cognitivi chiamano vagare con la mente (mind wandering), gli psicoanalisti attenzione fluttuante e gli scrittori, più onestamente, non far niente fingendo di lavorare. Se interessa, esistono aree cerebrali, nel loro insieme le chiamano Default Mode Network, che fervono mentre ci disinteressiamo del mondo.

In altri momenti la piena attenzione cosciente si volge a risolvere un problema imprevisto. In altri momenti ancora getta via il due di briscola e tiene solo le carte utili. Affronta la realtà, in particolare al fine di assolvere a scopi indispensabili per sopravvivenza e adattamento. Calamandrei riprende Jaak Panksepp che spiegava come la mente sia innanzitutto deputata a: esplorare l’ambiente, provare paura per evitare i pericoli, provare desiderio sessuale, arrabbiarsi per rimuovere gli ostacoli, curare i conspecifici, intristirsi quando mancano le cure, giocare e fantasticare. La creatività deve sottostare a questi vincoli: se il parto della mente non evita un pericolo, non rimuove un ostacolo, non provvede a curare un simile in difficoltà allora è bene che si dissecchi e cada.

La creatività è una risposta all’angoscia. Il percorso più vincolato, necessario, salvifico. Una strada gremita di viaggiatori: Frida Kahlo, Massimo Troisi, John Coltrane e mille e mille altri nomi. Quel cammino dall’angoscia alla creazione è iniziato molte epoche prima della comparsa della parola. Il via è il momento in cui in assenza dello sguardo attento e sorridente della madre, fronteggiando un viso immobile, il bambino si disorienta, si perde, si frammenta. Finché non tornano sguardo e sorriso. Poi arriva il giorno in cui quel sorriso e l’emozione che lo accompagna diventano immagine interna, simbolo, invenzione privata e consolatoria, si incidono nel corpo come “forme vitali”. Il bambino impara ad aspettare, a sentirsi vivo anche nell’assenza.

Quindi, creatività grazie all’altro e in risposta alla sua assenza. E infine: la creazione dedicata all’altro. Uno degli psicoanalisti più innovativi, Heinz Kohut, parlava di rispecchiamento narcisistico. Non si tratta di sentirsi dio, ma di quel semplice impulso infantile al trionfo imbevuto di uno sguardo ammirante. È un nutrimento indispensabile. Ci si pensi un istante: l’atto creativo avviene in un momento di solitudine, chi inventa sta ricostruendo un mondo nel segreto della sua mente. L’atto si compie, il soggetto si guarda intorno. Nel terrore capisce che nessuno sa cosa ha prodotto. Ha fatto un passo avanti e… chi lo accompagna? È in quella steppa arida dove la ragazza della neve lo aveva abbandonato. Lo sguardo ammirante è necessario, consolida, placa, spinge a continuare l’opera incessante di invenzione del mondo. Quello sguardo lo si chiama per convenzione “madre” e poi pubblico ed è al tempo stesso un collante e un lenitivo.

Alla fine torna l’illuminazione. Il rapporto tra la mente e il mondo: un faticoso tentativo di accordo che lascia sempre insoddisfatti entrambi. La realtà impone vincoli che la mente a riposo poi ignora. La mente si arrende alla realtà per donare all’organismo sopravvivenza e adattamento, la realtà cede terreno alla potenza ricombinante della mente in modo che generi forme nuove. La mente vuole autonomia e per ottenerla dipende dall’altro e poi se ne stacca e trema e lo cerca, e poi se ne libera ancora.

E in tutto questo a me sfugge sempre il ruolo nel creato degli animali immaginari e mi chiedo senza requie chi abbia rivelato a Borges che: “Sulla scala della Torre della Vittoria abita dal principio dei tempi l’A Bao A Qu, sensibile ai valori delle anime umane. Vive in stato letargico, sul primo gradino, e solo fruisce di vita cosciente quando qualcuno sale la scala”.
Un animale così Darwin alle Galapagos non l’ha visto di sicuro.

Follia (1996) di Patrick McGrath: riflessioni psicologiche sul romanzo

Il romanzo Follia (1996) di Patrick McGrath racconta la storia d’amore tra Edgar Sterk e Stella Raphael, soffermandosi sull’ossessione di Stella che, nonostante i lividi e le convinzioni deliranti con cui Edgar costruisce la realtà, difende con caparbietà l’immagine idealizzata del partner.

 

Follia: trama del romanzo

Ambientato nell’Inghilterra del 1959, Follia (1996) racconta la storia d’amore tra Edgar Stark, uno scultore irrequieto e morbosamente geloso, recluso in un manicomio criminale per un efferato uxoricidio, e Stella Raphael, una donna affascinante, insoddisfatta della vita famigliare ordinata e prevedibile che conduce con il marito Max, uno psichiatra brillante nel lavoro e distanziante nel privato, e Charlie, l’unico figlio nato dalla coppia.

La vicenda è narrata da Peter Cleave, il collega più anziano di Max, nonché terapeuta di Edgar, attratto dalle relazioni d’amore catastrofiche, perverse e ossessionate, che questa volta non vedono protagonisti due sconosciuti, bensì una cara amica e il suo paziente. L’interesse di Peter si sofferma, in particolare, sulla ossessione di Stella che, nonostante i lividi, le minacce, le convinzioni deliranti con cui Edgar costruisce la realtà, difende con caparbietà l’immagine idealizzata del partner, senza il quale l’esistenza perde irrimediabilmente il senso.

La narrazione pullula delle sfumature emotive dei personaggi, dello stesso Peter che, segretamente innamorato della protagonista, si lascia sopraffare dai desideri fino a trarre interpretazioni fuorvianti e ad assistere inerme alla tragedia finale della protagonista, ormai ricoverata, per ironia della sorte, nel medesimo ospedale psichiatrico dove un tempo lavorava suo marito, e nel quale si trova il suo amante.

La precisione con cui Patrick McGrath descrive il funzionamento mentale dei personaggi principali è stupefacente; Stella ed Edgar non sono gli unici a conservare tratti patologici importanti, ma anche lo stesso Max, incapace di esprimersi con assertività, provare compassione per la moglie, sperimentare una sana autocritica e riflettere sugli errori commessi. Non meno importante, il personaggio di Peter, immerso nella visione idealizzata di un amore platonico e non corrisposto, preservato con ostinazione fino alla drammaticità dei fatti.

Ognuno sembra gestire l’equilibrio della quotidianità fino alla catena di eventi che trascina Stella nelle braccia di Edgar, in un vortice senza ritorno nel quale cadono inesorabilmente anche Max, Charlie, trascurato da entrambi i genitori, e Peter.

Da un insieme di accadimenti che coinvolgono direttamente i due protagonisti ne deriva, così, un intreccio relazionale dove le esistenze si incontrano e si scontrano. A questo proposito, l’autore sottolinea l’inflessibilità dei significati personali attribuiti agli eventi, la rigidità del funzionamento mentale che ostacola la considerazione di altre prospettive, portando, in tal senso, a seguire a spada tratta la propria visione, come la migliore e unica via percorribile. Sarebbe questa la “follia” di cui parla Patrick McGrath, non solo la giostra con cui gli amanti alternano l’odio e l’amore, la passione e la distruzione, ma anche l’incapacità dei personaggi di riflettere su di sé e sugli altri, di elaborare e analizzare costruttivamente l’esperienza propria e altrui, e quindi di comprendere le ragioni inconsce che guidano verso determinate scelte.

 

Stella, Edgar, Max e Peter: le relazioni pericolose

Le informazioni a disposizione sul passato dei protagonisti del romanzo Follia permettono di fornire alcune considerazioni interessanti sul piano clinico. Stando alla descrizione del terapeuta, l’infanzia di Edgar è caratterizzata dall’abbandono, e in età adulta compaiono il timore di giudizio e l’isolamento sociale, correlati all’attività artistica, l’idealizzazione e gli schemi di delusione di sé e degli altri. I deliri di gelosia iniziano quando il rapporto con la figura di attaccamento inizia a manifestare le prime crepe, e culminano con le violenze e l’omicidio, quando la svalutazione della compagna attuale raggiunge l’apice.

La scelta del partner si rivela essenziale; Edgar sembra attratto, in un modo o nell’altro, da donne desiderate e ricercate dagli altri uomini. Ruth, la ex moglie brutalmente assassinata e mutilata, era una prostituta, lui ne era al corrente, e nonostante ciò l’ha sposata ugualmente, mentre Stella gode la fama della moglie bellissima dell’illustre psichiatra, la donna che attrae colleghi, superiori e pazienti. Edgar, però, non nota solo una donna bella e desiderabile, ma anche una persona depressa, annoiata della quotidianità che scorre sempre nello stesso verso; le giornate in giardino, l’attesa del ritorno del marito, la compagnia del figlio di 10 anni impegnato a giocare per conto suo, Stella è vittima di un matrimonio bianco dal quale non ha mai conosciuto la passione sessuale, bensì l’ordinata routine e la cornice dei convenevoli.

Nelle prime fasi del rapporto, quando gli incontri sono sporadici, Edgar non manifesta segnali di gelosia e aggressività, a tal punto da lasciare un dubbio atroce sulle azioni aberranti commesse in passato; Stella non intravede un pericoloso assassino pronto a colpire ancora, ma un uomo dannatamente interessante, un ribelle incompreso da compatire, che in preda alla passione ha commesso un errore clamoroso, non per questo, però, un malato di mente.

A parte il fatto che non era più così sicura che Edgar fosse davvero un malato di mente. Pensava che avesse commesso un delitto passionale; e la passione di per sé è una cosa positiva, no?

(McGrath, 1996, p. 25).

I crimini vengono minimizzati e giustificati, qualsiasi informazione aggiuntiva sulle tendenze dell’amante non servono ad avviare una riflessione sulle possibili conseguenze del legame. Per l’intera storia il bisogno impellente di Edgar si antepone agli altri; salvare il matrimonio, il rapporto con il figlio, le apparenze e la reputazione.

Contrariamente al parere di Peter, la relazione non si basa principalmente sull’interazione tra la manipolazione e la solitudine, e quindi sull’atteggiamento raggiratore di Edgar nei confronti della fragile e frustrata Stella, bensì nasconde meccanismi di mantenimento e rottura profondi e radicati.

Un tema importante, in particolar modo nel funzionamento di Stella, è la ricerca delle situazioni allarmanti; nei primi momenti gli amanti sono sottoposti al costante rischio di essere colti in flagrante, quando la relazione si consolida, e quindi nel momento in cui Stella decide di abbandonare Max, compare il rischio di scatenare la gelosia di Edgar. Da quando Stella si presenta con la valigia in mano, i deliri di gelosia, di veneficio e la violenza non si fanno attendere. Si potrebbe collocare questo periodo al passaggio dall’innamoramento all’amore, quando sorgono i primi ostacoli, le incomprensioni, e il rapporto è messo a dura prova; i corteggiamenti degli altri uomini, le difficoltà economiche e lavorative, gli allontanamenti fisici ed emotivi di Stella sono ottimi motivi per dubitare della sincerità dell’affetto e qualsiasi segnale diventa per Edgar l’ennesima conferma di un abbandono imminente.

Dietro questa morbosa gelosia, però, si nasconde il terrore di perdere la donna amata, di deluderla e di non essere in grado di offrirgli una vita agiata paragonabile alla precedente. È probabile che durante i primi incontri in casa Raphael e nel sottotetto di Londra, Stella non venga ancora considerata una figura significativa, ma un’amante che alla fine della giornata torna a casa dal marito. Può darsi che in questo momento di indecisione, nel quale il rapporto è ancora confuso e indefinito, Edgar abbia messo in conto l’eventualità di essere lasciato senza ricorrere a ritorsioni, probabilmente perché Stella non è rappresentata come una compagna stabile e quindi non abbastanza essenziale.

La percezione del legame sembra modificarsi a partire dall’ufficializzazione della coppia, e da amante occasionale, Stella assume il ruolo di convivente, diventando così una partner a tutti gli effetti. Da qui le prime incomprensioni, i momenti di distacco reciproco, la nostalgia di Charlie, gli episodi di violenza alternati a momenti di riflessione, tenerezza e passione sfrenata. In un istante di lucidità, Edgar intuisce la gravità delle sue azioni, ma basta una goccia a far traboccare nuovamente il vaso dell’ira a cui Stella tenta di porre un freno: l’autocontrollo accompagna le reazioni dissociative, nelle quali avverte le sensazioni di depersonalizzazione e derealizzazione.

Era come staccata da tutto. Le cose intorno a lei non erano più in scala. Lo specchietto che si teneva davanti alla faccia sembrava lontanissimo e piccolo come una moneta.

(McGrath, 1996, p. 159).

La violenza non è l’unico elemento a renderla vulnerabile, anche il distacco del partner nei momenti di lavoro o di riposo innescano le sensazioni di incertezza e insicurezza. Se, da un lato, vivere come fuggitivi, con una quota di rischio e pericolo è una componente essenziale per tenere vivo il rapporto, dall’altro il caos, la mancanza di punti fermi dettati dalla povertà, dal fallimento lavorativo e dal futuro che avanza nebuloso, mette in crisi il bisogno di ordine di Stella, che, in certi momenti, si rifugia nella nostalgia del figlio e della vita precedente. Più che il rapporto con le figure care, sembra mancarle la cornice di prevedibilità, quella stessa struttura che un tempo l’aveva portata gradualmente alla depressione, e in un momento di pausa dal solito turbinio emotivo diventa il tassello mancante della sospirata isola felice.

A volte ripensava alla sua vita di prima, al manicomio e a quello che adesso rappresentava per lei, una specie di luogo remoto e vagamente irreale dove risplendeva sempre il sole e l’ordine regnava sovrano, dove ognuno aveva un posto preciso, e nessun desiderio: un castello abbarbicato su uno sperone di roccia, e fra le sue mura di sicurezza e abbondanza. Era un’illusione, lo sapeva, ma abbastanza plausibile, e poter pensare a un luogo sicuro le dava sollievo; che poi esistesse nella sua mente aveva un’importanza relativa. Più tardi le sarebbe sembrato a dir poco curioso considerare un’isola felice proprio il posto da cui lei ed Edgar avevano scelto di fuggire, finendo per cercare sicurezza, calore e abbondanza in una strada di magazzini abbandonati.

(McGrath, 1996, pp. 140-141)

D’altra parte, le situazioni ricercate da Stella sono tutt’altro che sicure, ordinate e prive di emozioni; decide di convivere con Edgar, conoscendo la sua natura, si rifugia dall’amico Nick e asseconda le sue advances nonostante la morbosa gelosia del partner, e infine ritorna da Edgar mettendo in conto gli istinti omicidi verso di lei. Non esita a scappare quando si sente braccata, non pensa ad un ritorno a casa, bensì ad una sistemazione provvisoria in attesa che gli attacchi di gelosia svaniscano nel nulla. Stella è accudente nei confronti di Edgar, comprende e giustifica la sua ira, non lo abbandona nemmeno quando intuisce la pericolosità dei deliri.

È interessante, anche nel suo caso, la scelta del partner: Edgar è l’opposto di Max, e le sensazioni tanto temute, ma attivamente ricercate, di imprevedibilità e incertezza emergono solo nel rapporto con il primo. Per molti anni, Stella è stata abituata ad uno stile di vita ordinato, sicuro e qualche volta rimpianto, ma tremendamente piatto e complessivamente rigettato; un marito freddo e scostante, la cura della casa e del figlio, le feste dell’alta società, le visite saltuarie ai pazienti. Al contrario, Edgar le regala, seppur con costi molto alti, una vita burrascosa, ma appassionante e intensa: non a caso, la protagonista descrive l’ultimo come il periodo migliore della sua vita, l’esistenza che avrebbe rifatto comunque se avesse potuto scegliere un’altra alternativa.

Non mancano, e non vanno trascurati, i momenti di tenerezza, cura e protezione manifestati da Edgar: sono i lati positivi, amplificati e isolati, a convincere Stella dell’innocuità del partner e lasciarla riluttante di fronte ai trascorsi passati. In tal senso, l’idealizzazione consiste nell’amplificazione dei pregi del partner e del funzionamento di coppia, tralasciando gli altri lati del carattere e delle dinamiche relazionali, specialmente quelli che minacciano il benessere.

Stella non ha ripensamenti sul legame con Edgar, nonostante abbia ricevuto una dimostrazione della sua pericolosità, e l’allontanamento amplifica l’effetto dei ricordi a cui si aggrappa con disperazione. Il ritorno a casa diventa straziante e va di pari passo con le ricadute nella depressione, l’inizio della dipendenza alcolica e delle abbuffate, l’isolamento dagli affetti, dal figlio che continua a patire la freddezza materna e dal marito che evita di comprendere le ragioni, ma aspetta il momento opportuno per attivarla e ferirla psicologicamente.

Il peggioramento delle condizioni di Stella giunge contemporaneamente alla notizia della cattura del compagno: di lì a poco Charlie morirà annegato sotto gli occhi passivi della madre che, in preda allo scompenso dissociativo, intravede Edgar al suo posto. La visione dell’amante mentre annega può assumere vari significati, come il desiderio di punirlo per non averla salvata dall’ambiente famigliare che continuava ad opprimerla. Questa ipotesi spiegherebbe il motivo per cui Stella resta immobile fino alle ultime grida di allarme dell’insegnante: è in quell’istante che lo riconosce e comprende la gravità della situazione. In alternativa, ormai rassegnata di fronte alla cattura di Edgar, Stella desidera annegare il ricordo di lui, sperando così di sopprimere il desiderio di loro.

 

Il rapporto madre-figlio nel romanzo Follia

A proposito del rapporto madre-figlio, un elemento interessante è costituito dall’evitamento del senso di colpa relativo all’abbandono e successivamente all’omicidio. Stella è incapace di rimediare alla relazione con il figlio, finge che non sia successo nulla, non affronta l’argomento nemmeno quando l’insegnante denuncia la sofferenza del bambino a scuola. Non a caso, il clima famigliare gioca una parte fondamentale; la quotidianità è appesantita dagli attacchi di Max e della suocera Brenda che vedono solo una madre degenere, una moglie traditrice e meschina, e non una donna sofferente fin dal principio, incapace di accettare ed elaborare l’esperienza.

La tensione ostacola il ricongiungimento famigliare, rafforza il ricordo della vita precedente nel sottotetto, e neanche la morte di Charlie incentiva una profonda riflessione sugli sbagli commessi; Max sembra l’unico ad accusare la moglie, mentre Stella inizia ad affrontare il senso di colpa, ma resta prevalentemente concentrata su Edgar e l’idea di incontrarlo nell’ospedale dove entrambi sono ricoverati è l’unica speranza per cui vivere, forse perché, in fin dei conti, Edgar non è solo l’uomo che ama, ma l’ultimo affetto rimasto, la sola base sicura da cui tornare.

Il ballo diventa l’ultimo tentativo per ritrovarsi, fallito dall’ordine di Peter di tenere l’artista in cella per impedire un riavvicinamento e un probabile scompenso. La misura protettiva sortisce l’effetto contrario e diventa la spada di cui Stella perisce: di fronte all’idea di uscire dall’ospedale e di sposarsi con Peter, un uomo che non ha mai amato, ma semplicemente apprezzato come un amico di famiglia, e quindi di rivivere la stessa vita incolore e insapore trascorsa con Max, Stella preferisce il suicidio.

 

Sbagli e temi irrisolti del terapeuta

Peter commette un duplice sbaglio: il primo è prendere in cura una cara amica di cui è innamorato, il secondo, di conseguenza, è sottovalutare il legame tra Stella ed Edgar. L’incapacità di valutare la paziente con distacco professionale l’ha condotto a numerosi errori di valutazione; cominciando dall’inizio, ha creduto che la cotta per l’artista scellerato fosse frutto della rabbia serbata per Max e successivamente che la prima fuga da Nick significasse un desiderio di tornare a casa. Procedendo su questa lunghezza d’onda il Dr. Cleave ha continuato a banalizzare e a minimizzare il legame, avanzando, successivamente, l’ipotesi che Stella stesse dimenticando Edgar per concentrarsi sull’elaborazione del trauma del figlio annegato.

I sentimenti di Peter hanno impedito di analizzare con chiarezza il caso dei due amanti, vedendo in Edgar il manipolatore e in Stella la donna fragile e frustrata. Il bisogno di colmare la solitudine si rivela talmente potente da offuscare gli elementi preziosi: Peter non attribuisce una grande importanza ai segnali non verbali della donna quando sente nominare Edgar, ma si limita a prestare attenzione ai dati coscienti e verbali, quelli che vertono sulla morte di Charlie. Chiedendo a Stella la mano, e accantonando la possibilità di farle incontrare Edgar, il Dr. Cleave si lascia sopraffare dalla gelosia e dal possesso, mettendosi in competizione con un paziente le cui condizioni peggiorano quando apprende di non poter parlare con la sua amata.

Anche Edgar è consapevole che Stella, nonostante il tradimento con Nick e le varie incomprensioni, è l’unica base sicura di cui avrebbe bisogno; per quanto ci tenga a  mantenere una parvenza di sfacciataggine sprezzante, il desiderio di riaverla accanto fa emergere la fragilità e la dipendenza nascosta con cura. È chiaro che il divieto di confronto tra gli amanti non è dettato da un atto terapeutico, bensì da un’esigenza personale di Peter che, ossessionato dalla semisconosciuta moglie del collega, rifiuta l’eventualità di un altro allontanamento con l’amante.

 

La dipendenza affettiva, la violenza domestica e l’importanza dell’arte in Stella ed Edgar

Esistono numerosi spunti a proposito della dipendenza affettiva di Stella. Indubbiamente il legame si rivela tale da entrambe le parti, ma nella protagonista i dettagli sono esposti con maggiore chiarezza. Tra questi spiccano le continue giustificazioni, l’idealizzazione del partner e del legame di coppia, le ruminazioni e la persistente rievocazione degli episodi relativi alla storia passata, nonché l’incapacità di elaborare il distacco che contrassegnano l’esperienza per buona parte del racconto.

Dov’era, dov’era Edgar? Le bastava pensare a lui per vederlo come se lo avesse davanti agli occhi; non era né facile né indolore, ma per nulla al mondo lo avrebbe lasciato andare

(McGrath, 1996, p. 183).

L’immagine di Edgar, e del loro amore, diventa così l’ancora di salvezza che le permette di andare avanti; la dipendenza affettiva esercita una funzione importante, quella di mantenimento della struttura psichica fragile. Senza Edgar, e più precisamente, senza la vita frenetica nel sottotetto di Londra, in bilico tra l’amore e la violenza, Stella non è in grado di proseguire, così non esita a commettere gesti autolesivi quando le viene tolta, definitivamente, la possibilità di incontrare il grande amore.

L’incapacità di pensare a sé indipendentemente dal partner, l’illusione di poterne controllare e modificare i difetti e i tratti patologici, nel caso di Stella con l’autocontrollo emotivo, i brevi allontanamenti e l’esasperata pazienza, sono componenti ricorrenti nelle donne con dipendenza affettiva che rifiutano l’accettazione e perseverano nel rapporto, nella speranza che evolva in positivo.

La psicopatologia di Edgar non è considerata una parte integrante della persona, bensì una caratteristica fluttuante; in questo modo Stella si convince di poter prevedere, monitorare e fermare le minacce del compagno, senza valutare attentamente il pericolo in cui incorre. Alcuni degli amori tossici coinvolgono la relazione di donne dipendenti da uomini fisicamente violenti o ipercritici. Il primo episodio di violenza dovrebbe costituire un campanello d’allarme esaustivo per prendere in esame la situazione e pensare ad una soluzione costruttiva, tuttavia la protagonista resta ancorata alla visione dell’uomo innamorato incapace di arrivare a tanto con lei, la vittima abbandonata che porta con sé l’inguaribile ferita traumatica (Norwood, 1985).

L’amore e la violenza sono concetti mischiati fin dalle prime battute di conoscenza, dalle quali Stella trae la conclusione che la passione porterà all’omicidio, ma è pur sempre una componente positiva nell’essere umano. Gli allontanamenti e i riavvicinamenti sono altre peculiarità riscontrabili nella dipendenza affettiva; Stella non è sempre convinta di trovarsi al posto giusto con la persona giusta, gli attacchi d’ansia la colgono nei momenti di riposo nei quali il dubbio si posa sulle scelte intraprese. Nemmeno lei conosce il motivo per cui si ritrova a convivere con un brutale assassino finito in un manicomio criminale per aver ucciso la moglie, arriva a scappare quando le crisi deliranti di Edgar prendono il sopravvento, per poi ritornare nuovamente.

Per quanto possano essere ritenuti definitivi, i distacchi fisici non sono quasi mai tali; ipotizzando un finale diverso, con un riavvicinamento dei due protagonisti, sarebbe difficile immaginare una certa stabilità senza un lavoro terapeutico rivolto ad entrambi, pertanto Edgar e Stella continuerebbero, probabilmente, a danzare tra l’amore e l’aggressività, senza comprendere le motivazioni inconsce che legano le due dinamiche (Serra, 2015).

 

Follia: il legame tra arte e patologia

Per quanto riguarda il legame tra arte e patologia, Peter fornisce un elemento interessante che sembra collegare la scultura di Edgar alla malattia psichiatrica:

Succede abbastanza spesso agli artisti e credo che dipenda dalla natura del loro lavoro. Vivere per lunghi periodi in solitudine e poi esibirsi di fronte a un pubblico, col rischio di esserne respinti, porta a instaurare col partner una relazione di un’intensità abnorme. E quando, inevitabilmente, arriva la delusione, il senso di tradimento è talmente profondo che in alcuni può tradursi nella convinzione patologica della duplicità dell’altro.

(McGrath, 1996, p. 58)

Chiaramente questa ipotesi va contestualizzata, e non generalizzata; senz’altro l’isolamento sociale è un fattore di rischio per entrambi i protagonisti, che, esposti a poche occasioni di interazione sociale con altri individui, tendono a sovrastimare l’importanza di un rapporto, idealizzandolo.

D’altra parte, però, è necessario non dimenticare i fattori di rischio pregressi, relativi ai legami primari e secondari di attaccamento. La paura del giudizio del pubblico e l’aspettativa di rifiuto non sono da attribuire solo alla tendenza al ritiro sociale, ma anche alla complessità del funzionamento psicologico. Nell’arte, Edgar tenta di compiere un’operazione importante; isolare le emozioni per vedere le persone per quello che realmente sono e non per come appaiono ai suoi occhi. Il risultato è un ammasso di linee indefinite e frammentate nelle quali non è chiara l’identità del soggetto. La confusione potrebbe riflettere, in qualche modo, la frammentazione interiore, la scissione degli affetti che inquinano la ricerca della verità, le certezze ricercate ossessivamente.

A questo proposito la mutilazione di Ruth successiva all’omicidio nasconderebbe la ricerca della verità, o meglio la scoperta della realtà su di lei, che Edgar osserva come una traditrice seriale. Si direbbe che la scultura rappresenti la via per cercare di comprendere il soggetto, per capirne, in altre parole, la credibilità e l’affidabilità e, quindi, per tentare di conoscerlo a prescindere dai sentimenti.

Il crollo dell’idealizzazione nella relazione precedente segna l’avanzamento dei deliri di gelosia, in cui il tradimento viene identificato in maniera pervasiva; nelle convinzioni infondate, Edgar si illude di aver trovato le risposte che cercava, senza intuire di aver rafforzato le conferme attese e nascoste fino all’arrivo delle prime delusioni. Analogamente, le certezze di Stella trovano un terreno sempre più fertile nella vita con Edgar, tralasciando così i vari aspetti di sé e del suo passato che l’hanno portata gradualmente a sviluppare la dipendenza patologica da un soggetto ambivalente, la ricerca delle sensazioni forti e la depressione.

In sostanza, l’indagine sulla verità non è nient’altro che una dimostrazione della propria verità, e quindi del sistema di credenze con il quale i protagonisti e gli altri personaggi spiegano la realtà esperita. In tal senso, troveranno la copia della realtà filtrata dai significati personali radicati nel funzionamento psichico, ma non l’oggettività dei fatti che non può essere separata dalla storia individuale (Guidano, 1988).

La terapia psicodinamica dei disturbi alimentari – Magrezza non è bellezza Nr. 26

Nella terapia psicodinamica dei disturbi alimentari vengono analizzate le esperienze dolorose dell’infanzia e il terapeuta aiuta il paziente a interpretare le sue emozioni.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: La terapia psicodinamica dei disturbi alimentari (Nr. 26)

 

La terapia psicodinamica dei disturbi alimentari

Un problema che emerge quando si trattano pazienti che soffrono di disturbi alimentari è la tendenza ad essere molto influenzati dall’ambiente circostante a discapito di ciò che questi pazienti sentono. Essi tendono a fare ciò che il terapeuta desidera, possono persino accettare interpretazioni che non corrispondono veramente alla loro esperienza. C’è quindi il rischio che il paziente accolga le spiegazioni del terapeuta e che non entri in contatto con i suoi veri desideri, a causa di esperienze negative durante l’infanzia che non gli hanno permesso di sviluppare un contatto reale con la propria interiorità.

Il modello e la terapia dell’anoressia

L’anoressica, come accennato, è afflitta da un insieme di oggetti maternali introiettati, nel tentativo di separazione dalla madre (Masterson, 1976). Per arrestare questa fase di simbiosi e individuazione-separazione, le quali corrispondono alle parti negative del suo ego, l’obiettivo terapeutico è quello di integrare le rappresentazioni distorte di se stessa e dell’oggetto materno.

La terapia per questo disturbo consiste nello sviluppare un’alleanza terapeutica concentrandosi sulle cause delle fissazioni, dell’atipico sviluppo delle funzioni dell’ego, e delle proprie rappresentazioni. Le strategie per sviluppare l’alleanza e superare le barriere si basano sul confronto e sull’interpretazione.

La terapia della bulimia

La terapia per la bulimia consiste nel comunicare i propri desideri, bisogni e affetti in una forma simbolica, poiché il corpo della bulimica è il veicolo di divulgazione del proprio malessere, dei sintomi della malattia e dei conflitti irrisolti. Il proprio corpo non è integrato con la propria mente. La regolazione degli affetti è un meccanismo di difesa nei confronti della rappresentazione materna, non è integrata con la rappresentazione di se stessi.

Nel processo terapeutico occorre rendere i soggetti consapevoli dei propri impulsi, bisogni e sentimenti, cercando di porre riparo al senso di incapacità, alle distorsioni concettuali, all’isolamento e all’insoddisfazione che sottendono questi disturbi (Selvini Palazzoli, 1981).

L’approccio psicoanalitico di Bruch

Per Bruch (1989) la psicoanalisi tradizionale, con la sua enfasi sull’interpretazione dei processi inconsci, risulta piuttosto inefficace. Impiegando un approccio psicoanalitico meno ortodosso, che comprendeva un’attiva partecipazione da parte della paziente nella ricostruzione del suo passato, si ottenevano risultati decisamente migliori. Perché le pazienti sentivano di essere ascoltate per la prima volta nella loro vita, invece di dover subire un’interpretazione dei propri sentimenti e intenzioni. Una particolarità dei genitori delle anoressiche sembra, infatti, essere l’imposizione di decisioni e convinzioni, con scarsa attenzione verso le espressioni di bisogno e desiderio della bambina: sarebbe questa mancanza di conferme nelle prime interazioni madre-figlia a portare alle tipiche deficienze nel senso del Sé, di identità e di autonomia, oltre a una mancanza di coscienza del proprio corpo. Nella terapia dell’anoressia mentale si è riconosciuto, quindi, che l’interpretazione del contenuto è meno importante della ricostruzione dei modelli interazionali di sviluppo e della correzione delle idee sbagliate dell’infanzia.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

La colpa morale: la radice delle ossessioni

Alla radice del DOC c’è un particolare tipo di colpa, quella cosiddetta deontologica, la colpa morale. È legata alla trasgressione di una norma e alle conseguenze nocive che ne potrebbero germinare.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera il 7/08/2016

 

La colpa morale nei pazienti ossessivi

Battersi il petto finché non diventa blu di lividi. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. La colpa morale, la radice di tutte le ossessioni. La turbina che grava sulla coscienza e produce energia usata per ripetere allo stremo gesti inutili, finché non rimane tempo per guardare scogliere di granito rosa che si gettano nel mare, gatti che si stiracchiano, per bagnarsi mano nella mano con l’amata nelle pozze formate da un torrente che spacca una valle profonda.

Una vita ridotta a controllare tre volte, e poi tre e poi altre tre di avere chiuso il rubinetto del gas. Lavarsi le mani fino a consumare la pelle per azzerare il rischio di essersi contagiati. Lavarsi le mani, simbolo del pulirsi la coscienza, Lady Macbeth ne è il modello. Istiga il marito all’omicidio per diventare re di Scozia e non regge il peso della nefandezza. Sonnambula, si strofina le mani senza requie: ‘Via, maledetta macchia. Via!… Torneranno mai pulite queste mani?”. Lo Zingaro, il cattivo di Lo chiamavano Jeeg Robot ne è degno erede. È capace di uccidere per un minimo sgarbo a colpi di cellulare e poi disinfettarsi col sapone antibatterico, un oggetto che a vederlo sulla scrivania di un delinquente spietato e senza freni pare assurdo.

Ripensare all’infinito al giornale toccato ieri. C’era un primo piano di Freddie Mercury. Freddie Mercury è morto di AIDS. Il fotografo che lo ha ritratto gli era vicino. Può essersi contagiato. Il virus può essere passato attraverso le rotative vivo. È improbabile, ma chi mi dà la certezza assoluta che non sia successo? Avrei dovuto pensarci e non toccare il giornale senza sapere se le mie dita erano escoriate. Che scellerato che sono stato. Questi ragionamenti sfibranti si chiamano ossessioni. In ogni caso siatene certi: leggere La Lettura è esente da rischi!

Al contrario di Lady Macbeth e dello Zingaro, chi soffre di Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) i delitti non li ha commessi. Ma lo stesso vive una vita oppressa dal senso di colpa, nel timore della condanna di un tribunale mentale il cui giudice pone l’onere della prova a carico dell’imputato.

 

La colpa morale e la colpa altruistica

Presunto colpevole fino a prova contraria. È la tesi del preziosissimo libro “La mente ossessiva” (Cortina) di Francesco Mancini e il suo gruppo: alla radice del DOC c’è un particolare tipo di colpa, quella cosiddetta deontologica, la colpa morale. È legata alla trasgressione di una norma e alle conseguenze nocive che ne potrebbero germinare. L’altro tipo, non rilevante per il DOC, è la colpa altruistica, quella che ci porta a sacrificarci per il bene degli altri perché proviamo pena per le loro sfortune. È invece la colpa morale che ti domanda: hai chiuso il gas? Perché se non lo fai con sufficiente cura potresti causare danni atroci. Hai pensato per un attimo che volevi lanciare tuo figlio dalla finestra? Orrore. Chi ti dice che tu non possa farlo davvero? Chi ti assicura che tu sia un genitore retto e non un pazzo infanticida. Potranno mai i tuoi figli fidarsi di te? E allora, controlla se ti viene ancora quel pensiero. Focalizza su ogni momento in cui sei arrabbiato con lui: ieri lo hai sgridato aspramente, quindi fin dove potresti spingerti? Così facendo naturalmente il pensiero torna e ogni tentativo di sopprimerlo lo impone sempre più alla coscienza e lo rende più vivido, lo fa sembrare reale. È come se il bambino stesse volando davanti ai tuoi occhi. Una nota: non conosco genitore sano che non abbia almeno una volta desiderato di lanciare il figlio dalla finestra dopo la seconda ora di pianto ininterrotto! Come si chiama allora quel pensiero molesto? Esasperazione. Normalissima stanchezza e voglia di tornare a dormire. Quelli che li lanciano davvero non hanno lo scrupolo che avete voi.

Un paziente affetto da DOC non riesce a placarsi con una logica semplice. Ogni pensiero che gli sembra immorale, proibito lo tormenta. Mio marito mi ha fatto arrabbiare: sono una potenziale assassina? Quella bambina bionda sulla barca mi ha fatto una tenerezza enorme, avrei voluto prenderla in braccio: oddio, sono forse un pedofilo? A quel punto il malato di DOC ricerca la certezza assoluta che non si verificherà il danno da lui provocato. Così facendo condanna la sua mente ad un incessante rimuginio che lo priva del respiro dell’esistenza.

Non solo la colpa, nota Mancini giustamente, è alla radice di ossessioni e compulsioni, anche il disgusto. Il rifiuto delle sostanze sgradevoli esteso a ciò che riteniamo socialmente inferiore e si chiama disprezzo. Disprezzo di sé. È l’autoritratto di un pittore che ha deciso di mostrarsi sporco, indegno, immondo, dannoso e irresponsabile.

La forza del cognitivismo clinico è sempre racchiusa in una prassi semplice: hai una tesi? Formulala in modo che sia falsificabile. A me pare il massimo dell’onestà intellettuale. Mancini di esperimenti ne riporta tanti, con una chiarezza stilistica e una capacità narrativa che stimolano l’intelligenza del lettore. Le storie di vita ti portano nel cuore della scena, gli esperimenti ti ci fan ragionare su. Forte. Tra i tanti esperimenti cito il dilemma del trolley che serve a dimostrare la differenza tra colpa deontologica e altruistica. Immaginate un carrello ferroviario nella sua corsa impazzita su un binario. Cinque vittime ignare stanno per venire travolte e perdere la vita. Voi siete lì, allo scambio. Potete deviare la corsa del carrello su un altro binario, dove c’è una sola potenziale vittima. Che fate? Una norma deontologica vi dice: non prendere il posto di Dio. Non potete decidere chi vive o muore. Quindi, non attivate lo scambio. La norma altruistica vi fa pensare che una vittima è meno di cinque vittime e, con grande angoscia, attivate lo scambio e salvate quattro vite. Se ai soggetti dell’esperimento si induce colpa deontologica aumenta la tendenza a non agire, se gli si chiede di immaginarsi vicini alle vittime si attiva la colpa altruistica e tirano la leva. Chi soffre di DOC non tira la leva. Altri esperimenti mostrano come chi è sotto l’influenza della colpa morale incrementa comportamenti e pensieri ossessivi. La colpa altruistica non fa lo stesso effetto.

 

Conclusioni

Come aiutare le persone ad abbandonare l’idea che dentro di loro alberghi una Lady Macbeth, uno Zingaro, un timoniere malaccorto? Mancini descrive gli strumenti della terapia cognitiva, a tutt’oggi l’approccio che più di ogni altro si è mostrato utile per ridurre il DOC. Fai un’azione che credi dannosa ed evita di mettere in atto compulsioni, vedrai che tra un po’ l’ansia ti passa. Capisci che dietro il disgusto di te c’è la faccia sprezzante di tuo padre e rivolgi lo sguardo altrove, verso uno specchio più benevolo.

Syd Diamond, un genio chiamato Barrett di Mario Campanella (2016) – Recensione

Sebbene sia stato scritto da un giornalista e abbia come protagonista uno dei grandi geni maledetti della musica rock, “ Syd Diamond. Un genio chiamato Barrett ” è un libro molto psichiatrico, che è stato anche preceduto dalla pubblicazione da parte dell’autore di un articolo scientifico su una rivista prestigiosa (Campanella, 2015).

Syd Diamond e la sindrome di Asperger

Oltre all’accurato ed appassionato racconto della vicenda umana del grande chitarrista dei Pink Floyd (di cui quest’anno ricorre il decennale della morte), la nuova tesi che l’autore propone è che Syd fosse affetto dalla sindrome di Asperger, un disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento, che prende il nome dal pediatra austriaco che per primo descrisse questo quadro, di cui pare che pure lui stesso soffrisse in forma lieve.

Le persone affette da questo disturbo possono presentare stereotipie comportamentali, difficoltà nel provare empatia, sinestesie (la contaminazione tra diversi piani sensoriali), ecolalia (cioè il ripetere parole pronunciate da altri), una particolare andatura goffa, trasandatezza, tendenza al soliloquio e una certa predisposizione sul piano artistico (soprattutto nell’ambito delle arti visive). Alcuni di questi aspetti come la sinestesia, l’ecolalia, le stereotipie e la ricerca onomatopeica vengono riconosciuti dall’autore nelle particolari modalità compositive musicali di Syd Barrett e dei primi Pink Floyd ed emersero anche successivamente nel suo modo di dipingere.

Il caso di Syd Barrett

Questa tesi si contrappone a ipotesi precedenti di altri studiosi che avevano inquadrato il caso di Syd Barrett come schizofrenia. L’autore non nega che l’artista abbia avuto episodi psicotici, indotti però dal massiccio utilizzo di sostanze stupefacenti come l’LSD (vengono riportare assunzioni giornaliere fino a 50 trip al giorno) o il Mandrax (il potente barbiturico Metaqualone oggi fuori commercio). L’ipotesi di una psicosi esogena, rispetto a quella di una psicosi endogena può essere certamente accettabile. Dalle biografie risulta evidente come il funzionamento di Syd nella seconda parte della vita, da quando praticamente smise di fare il musicista, fu di tipo psicotico, con un importante ritiro sociale, un’assenza pressoché completa di relazioni, una regressione a un fortissimo legame con la figura materna, un’incapacità ad impegnarsi in altre attività se non la pittura di quadri che poi distruggeva.

L’autore sottolinea come Syd non venne praticamente mai ricoverato in ambito psichiatrico e anche l’assunzione di psicofarmaci fu ridotta, come a voler sottolineare che il quadro fu più di tipo psicorganico. Viene anche ipotizzato un possibile disturbo di personalità di tipo schizoide, sfociato in psicosi dall’uso imponente di sostanze stupefacenti. Oltre agli aspetti nosografici sicuramente puntuali ed interessanti, il libro contiene alcune interviste esclusive alle fidanzate e al nipote di Syd. La storia del musicista si intreccia nel libro con la storia della psichiatria degli anni settanta, che vide protagonisti rivoluzionari culturali e visionari come Gregory Bateson e Ronald Laing. Sicuramente interessante per gli appassionati del genere psicorock e dintorni.

Psicoanalisi e cinema: analisi del rapporto tra le due discipline

Psicoanalisi e cinema occupano ormai dall’inizio del XX secolo un posto centrale nella cultura contemporanea. Queste due discipline si può dire siano nate contemporaneamente ma entrate in contatto tardivamente. 

 

Psicoanalisi e cinema: la nascita del legame

Il primo tentativo narrativo cinematografico legato alla psicoanalisi è attribuibile al produttore Samuel Goldwin che per primo interpellò direttamente Freud per avere una sua approvazione in merito ad un progetto ambizioso (I misteri di un Anima 1926).

Ma il primo film in assoluto a parlare di psicoanalisi e ad avere la figura di uno psicoanalista fu “Carefree” del 1938  in cui niente meno che Fred Astaire ne vestiva appunto i panni e in cui cercava, tra una seduta e una ballata, di guarire la paziente Ginger Rogers, di cui però alla fine si innamorava perdutamente.

Un’ immagine caricata, una figura che nel tempo è comunque rimasta uno stereotipo costante e, se vogliamo, superficiale e denigrante.

 

L’analisi dei film secondo la psicoanalisi

Dal canto psicoanalitico invece l’analisi filmica persegue all’inizio due filoni fondamentali:

  1. Approccio contenutistico che aveva lo scopo di interpretare i film come prodotti dell’inconscio dell’autore, mettendo in rilievo temi e figure ricorrenti nell’opera di un regista e facendoli risalire a traumi e complessi dello stesso.
  2. Analisi della scrittura del film, che andava e va a sottolineare l’analogia tra il linguaggio cinematografico e il linguaggio dell’inconscio, per cui l’elemento più importante è il modo nel quale il testo è costruito, al di là dei significati che racchiude al suo interno.

Che dir si voglia, comunque il rapporto tra psicoanalisi e cinema è assolutamente bi-direzionale e complementare.

Un’ interessante riflessione, che coglie assolutamente il tema di questa analisi e la relazione che si può trovare tra queste due discipline è quella in cui viene posto il film come sogno, o meglio, posto come la funzione di un sogno (reso sogno quindi, da un analista e non solo bisognoso di immagini) prestandosi grazie proprio allo strumento scopico ai livelli di comunicazione iconica (polivalente a quella verbale e simbolica) da cui è possibile cogliere aspetti regrediti, sospesi. Svincolando i film che trattano di psicoanalisi ad esserne una documentazione, ogni film quindi può stimolare il campo evocativo nei diversi livelli.

 Esattamente come accade quando un analista viene a trovarsi di fronte al sogno di un suo paziente e si inaugura tra i due il complesso percorso teso a cogliere la funzione poietica e trasformatrice che la mente inscrive nelle pieghe del sogno

Il cinema di cui qui si vuol parlare non è rivolto, quindi, a quelle tematiche essenzialmente legate alla psicoanalisi.

Il cinema di cui qui si vuol parlare è quel tipo di cinema evocativo, un atto creativo prima che un oggetto nevrotico da analizzare, quel cinema che sfiori con delicatezza immagini che riescano a toccare aree sospese o bloccate del sé e che come le reverie dell’analista, gli enactment, le associazioni libere del paziente o l’attenzione fluttuante dell’analista, può creare un ulteriore dispositivo per portare icone al movimento del Processo Dissociativo, che non deve necessariamente essere accostato a necessità psicopatologiche ed essere cosi un cinema che ci faccia semplicemente entrare in contatto con noi stessi, che ci emozioni, che assolva quindi il concetto di opera d’arte, che assolva contemporaneamente l’essere caverna di immagini fatue e visitatore all’interno di essa, che ne ponga la propria e originale visione, sia per lo spettatore che per l’autore.

Metodi di ricerca qualitativa e quantitativa – Introduzione alla psicologia

Ricerca qualitativa e quantitativa: Per eseguire una ricerca solitamente si possono utilizzare due diversi metodi: quantitativi e qualitativi. Da sempre esiste un ampio dibattito riguardo ai metodi di ricerca qualitativa e quantitativa usati per realizzare sperimentazioni di diverso tipo e in diversi ambiti.

Metodi di ricerca qualitativa e quantitativa: Introduzione

La ricerca scientifica è un processo creativo di scoperta, sviluppato da un ricercatore, volto a produrre nuova conoscenza partendo dalla conoscenza esistente. Per questo, costituisce il processo migliore per produrre nuove informazioni e approfondimenti in maniera ciclica e costante.

Per eseguire una ricerca solitamente si possono utilizzare due diversi metodi: quantitativi e qualitativi. Da sempre esiste un ampio dibattito riguardo ai metodi di ricerca qualitativa e quantitativa usati per realizzare sperimentazioni di diverso tipo e in diversi ambiti. Chiaramente, esistono posizioni diverse: c’è chi sostiene si possa trattare di due strategie del tutto indipendenti e basate su visioni alternative del mondo in cui effettuare una ricerca, e chi, invece, mescola questi approcci per ottenere una maggiore variabilità di dati. Ad ogni modo si tratta di due diversi modi di svolgere una ricerca che portano a generalizzare i risultati in maniera dissimile. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta.

Metodi di ricerca qualitativa e quantitativa: la Storia

Dare scientificità alla psicologia è stato un processo molto lungo nato dalla insoddisfazione di alcuni psicologi comportamentisti che hanno cercato di studiare i comportamenti mettendo a punto dei veri esperimenti. Di conseguenza, era necessario utilizzare il rigore derivante dalle scienze matematiche per ottenere risultati assolutamente inconfutabili su comportamenti osservati. Da qui nasceva l’esigenza di usufruire di strumenti che andassero aldilà della soggettività e soprattutto che fossero riproducibili e riutilizzabili in futuro.
Naturalmente, è possibile studiare un fenomeno attraverso approcci diversi che richiedono l’applicazione di strumenti diversi: numerici o non numerici.

Metodi di ricerca qualitativa

La ricerca qualitativa porta alla raccolta delle informazioni osservabili non in forma numerica, ma attraverso una serie di etichette o di classificazioni. I dati solitamente sono acquisiti tramite l’utilizzo di un diario, di un questionario aperto, di interviste o di osservazioni non strutturate. Si tratta solo di alcuni degli strumenti più utilizzati in ambito qualitativo, naturalmente quelli elencati sono i più noti e usati. I dati qualitativi sono principalmente dei dati descrittivi il che rende più difficile il loro utilizzo e, di conseguenza, la loro elaborazione sarà più complessa. La ricerca qualitativa è utile negli studi su casi singoli e per descrivere un determinato evento o comportamento. In sostanza si tratta di esprimere delle qualità di un determinato oggetto d’indagine sotto forma di informazioni testuali attraverso, per lo più, strumenti di indagine non strutturati.

La ricerca qualitativa, insomma, si concentra sulla raccolta di dati soprattutto verbali, piuttosto che su misurazioni numeriche. Quindi, le informazioni raccolte sono poi analizzate in maniera interpretativa, soggettiva, anche se esistono strumenti statistici che permettono di giungere a risultati accurati e attendibili il più possibile.

Metodi di ricerca qualitativa: i vantaggi

In generale la ricerca qualitativa è meno strutturata di quella quantitativa, per questo permette di individuare una serie di sfumature di un determinato comportamento o evento che non potrebbero essere colte diversamente. In ambito psicologico osservare la variabilità individuale porta ad arricchire notevolmente il dato osservato, costruendo post hoc teorie molto ricche e dettagliate.

Metodi di ricerca qualitativa: gli svantaggi

I limiti di questa metodologia possono essere l’estrema individualità e soggettività con cui si raccoglie un dato. Per questo motivo, spesso, risulta difficile replicare il processo inferenziale che induce alla generalizzazione del dato alla popolazione generale. Malgrado ciò, la ricerca qualitativa è stata molto rivalutata recentemente grazie all’utilizzo di un maggiore rigore nell’applicazione delle procedure e dell’elaborazione dei dati.

Metodi di ricerca quantitativa

La ricerca quantitativa, come lascia intendere la parola usata, aiuta alla raccolta di informazioni che si presentano sotto forma numerica. I dati ottenuti, grazie all’utilizzo di strumenti strutturati e standardizzati (uguali per tutti, come test e questionari a risposta chiusa) possono essere categorizzati, ordinati e classificati, oltre a essere misurati su scale numeriche. Dai dati si possono costruire grafici e tabelle, per poi procedere con l’elaborazione statistica degli stessi grazie a una serie di procedure parametriche, inferenziali, estremamente accurate.

La ricerca quantitativa, dunque, si occupa di quantificare, misurare, calcolare, le informazioni ricavate attraverso l’applicazione di un approccio empirico, che consiste nel misurare con sufficiente precisione l’oggetto di studio per giungere a conclusioni molto precise e dettagliate. A causa della severità con cui si svolge una ricerca di questo tipo spesso è condotta in ambienti controllati, come i laboratori. Lo scopo è assicurarsi l’obiettività del dato ottenuto minimizzando al massimo le possibili influenze derivanti dalle situazioni esterne. Chiaramente una procedura così rigida aiuta e facilita la replicabilità dello studio, e assicura la generalizzazione del risultato ottenuto.

La ricerca quantitativa, grazie al suo estremo rigore, risulta essere predittiva di una serie di eventi, derivanti dalla verifica di ipotesi di ricerca, volte a conoscere esattamente come si sviluppa e si genera un determinato fenomeno. La ricerca quantitativa, inoltre, tende a utilizzare un gran numero di partecipanti, avvalendosi di veri esperimenti attuati attraverso l’utilizzo di questionari psicometrici molto strutturati e corredati da norme standardizzate, da cui si inferiscono dati inequivocabili.

Metodi di ricerca quantitativa: i vantaggi

I vantaggi derivanti dalla ricerca quantitativa riguardano la riproducibilità del dato e della procedura utilizzata nell’elaborazione dello studio. Ovviamente, il dato rappresenta un riscontro oggettivo del comportamento osservato, che dopo essere stato misurato diventa riproducibile e replicabile anche da chi non ha partecipato direttamente alla sperimentazione.

Metodi di ricerca quantitativa: gli svantaggi

In alcuni casi, però, i dati ottenuti attraverso il metodo quantitativo potrebbero essere sostanzialmente delle conferme di quanto il ricercatore vorrebbe ottenere attraverso la ricerca effettuata. Questo, è un bias molto evidente che in determinati ambiti rappresenta un rischio. Per questo, non bisogna mai procedere per confermare, ma sempre disconfermando le ipotesi sperimentali, procedendo per tentativi di errore.
I dati quantitativi non contengono le sfumature della variabilità umana, di conseguenza accomunano i soggetti in macro categorie. Tutto questo facilita e semplifica il processo di conoscenza, ma depaupera di molto la natura umana riducendola ai minimi termini.

Metodi di ricerca qualitativa e quantitativa: confronto

Entriamo nel dettaglio e confrontiamo le due metodologie secondo i diversi processi utilizzati nello svolgimento di una ricerca.

1. Obiettivo e scopo della ricerca
Lo scopo principale di una ricerca qualitativa è di fornire una descrizione completa e dettagliata dell’ipotesi della ricerca, che solitamente è più di natura esplorativa.
La ricerca quantitativa, d’altra parte, si concentra più nel conteggio e sulla classificazione e costruzione di modelli statistici utili a spiegare ciò che si osserva.

2. A cosa serve
La ricerca qualitativa è tipica per le fasi precedenti di progetti di ricerca, mentre per l’ultima parte del progetto di ricerca, la ricerca quantitativa è altamente raccomandata.
La ricerca quantitativa fornisce al ricercatore un quadro più chiaro di cosa aspettarsi nella sua ricerca rispetto al dato qualitativo.

3. Strumenti di raccolta dati
per la raccolta di dati qualitativi è possibile usufruire di strumenti differenti, specifici rispetto all’oggetto della misurazione, ma che in ogni caso sono tutti a basso controllo, ad esempio le singole interviste, i focus group, le narrative, etc.
Al contrario, la ricerca quantitativa si avvale di strumenti altamente controllati, univoci e quantitativamente riproducibili.

4. Tipo di dati
I dati in una ricerca qualitativa si esprimono attraverso le parole, etichette, o le immagini, video o foto. Quindi, molto probabilmente nella discussione dei dati si è soliti imbattersi in figure, in racconti, in grafici rappresentativi di quanto ottenuto. Invece, in una ricerca quantitativa, quello che molto probabilmente sarà visualizzato nella discussione saranno spesso tabelle, numeri anche molto complessi perché derivano da elaborazioni molto sofisticate atte a garantire l’indiscutibilità del dato ottenuto.

Metodi di ricerca qualitativa e quantitativa: conclusioni

Giunti a questo punto sarebbe lecito domandarsi che tipo di metodo di ricerca utilizzare e quando. Conforta sapere che in molti hanno cercato una risposta plausibile alla quale, chiaramente, non segue un esito univoco. In ogni caso, è possibile dire che se si volesse realizzare un esperimento in cui si volessero ottenere evidenze numeriche, allora si dovrebbe fare uso della ricerca quantitativa. In caso contrario, se si volesse spiegare ulteriormente il motivo per cui un particolare evento è accaduto, o quali sono le caratteristiche dell’oggetto di studio, allora si dovrebbe fare riferimento alla ricerca qualitativa.
Indubbiamente, non può mancare un ulteriore punto di vista, che consiste nell’unire le due metodologie, l’una a completamento dell’altra.
La tendenza a combinare i metodi qualitativi e quantitativi in maniera complementare è emerso negli ultimi anni, poiché applicando entrambi i metodi di ricerca, è possibile usufruire di un bagaglio di tecniche più ampio e complesso che portano ad arricchire di molto il dato ottenuto.

In ogni caso, i metodi qualitativi forniscono una comprensione maggiore e un ragionamento più approfondito dell’evento oggetto di studio e per questo sono considerati di particolare importanza in psicologia clinica. Mentre, in psicologia generale o sperimentale trovano maggiore applicabilità i metodi quantitativi.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Il ruolo della finzione narrativa e l’impatto sull’empatia

Secondo il pensiero comune è presumibile che la finzione narrativa abbia una buona influenza sulla salute mentale. A tal proposito in una recente review pubblicata sulla rivista Trends in Cognitive Sciences dallo psicologo e scrittore Oatley viene approfondita tale questione. 

La finzione narrativa incrementa l’empatia

Oatley sostiene che leggere o guardare racconti può incrementare l’empatia. Esplorare la vita interiore dei personaggi tramite le pagine di un libro, porta i lettori a formare idee sulle emozioni, motivazioni e idee altrui.

Questa interdisciplinarità tra letteratura e psicologia ha preso piede solo negli ultimi anni. Oatley sostiene che tale ritardo sia dovuto al fatto che solo ora i ricercatori dell’ambito psicologico stiano riconoscendo il ruolo fondamentale dell’immaginazione, e questo è dovuto soprattutto al grosso contributo delle recenti innovazioni nel campo degli studi di neuroimaging che hanno aperto il contesto accademico a queste idee.

Lo studio

All’interno della review Oatley si concentra in particolar modo su uno studio in cui ai partecipanti veniva chiesto di immaginare alcune cose sulla base di frasi che venivano fornite dagli sperimentatori (ad es. “un tappeto blu scuro”, “una matita arancione a strisce”) mentre si trovavano all’interno di una macchina fMRI. Ciò che è emerso è che erano sufficienti solo tre frasi ad attivare al massimo delle sue potenzialità l’ippocampo, ovvero quella regione di cervello associata prevalentemente all’apprendimento e alla memoria. Questo risultato sottolinea il potere della mente di ciascun lettore, in quanto la produzione di un’immaginazione esaustiva del lettore non è necessariamente dovuta dalla descrizione approfondita degli scenari, ma è sufficiente suggerire una scena per scaturire un buon prodotto di fantasia.

Sulla base di quanto emerso, Oatley, Mar e una serie di colleghi dell’Università di Toronto hanno condotto un ulteriore studio. Secondo gli autori la lettura narrativa e la finzione narrativa portano il lettore a simulare una sorta di mondo sociale, il quale consente di sperimentare comprensione e una forte empatia.

Per misurare questa risposta empatica da parte del lettore Oatley e colleghi hanno condotto un esperimento in cui per la prima volta è stato utilizzato il “Mind of the Eyes Test”, in cui i partecipanti sono sottoposti alla visione di 36 fotografie raffiguranti gli occhi di alcune persone, e per ciascuna di esse devono scegliere tra quattro termini per indicare ciò che la persona raffigurata sta pensando o provando in quel momento. I punteggi emersi hanno evidenziato come la lettura narrativa fantastica (ovvero relativa a storie inventate) abbia dato vita a punteggi più alti e significativi rispetto alla lettura narrativa non fantastica (relativa a storie di realtà). Si tratta di un risultato molto importante e valido in quanto questa associazione è rimasta significativa anche dopo aver controllato la personalità e le differenze individuali dei partecipanti.

Effetti simili riguardanti l’amplificazione dell’empatia sono stati riscontrati anche in altri studi, in cui ai soggetti veniva chiesto di guardare una serie televisiva inventata “The West Wing”, o di giocare a un videogioco con una trama narrativa. Ma qual è l’elemento in comune che unisce tutti questi mezzi di comunicazione così da poter ottenere gli stessi risultati? Secondo Oatley l’anello fondamentale della catena è l’impegno che il lettore applica nel tentativo di pensare al personaggio protagonista.

Conclusioni

[blockquote style=”1″]La caratteristica più importante dell’essere umano è possedere una vita sociale e il tratto distintivo è che all’interno di questa vita vengano fatti accordi sociali con altre persone, sia che questi siano amici, amanti o bambini. La finzione pertanto può aiutarci ad aumentare la comprensione delle nostre esperienze sociali[/blockquote], dichiara Oatley.

Questo nuovo campo della psicologia riguardante la finzione narrativa ha ancora un lungo percorso da intraprendere. Ad esempio sono numerose le domande che riguardano il ruolo della narrazione in quella che è l’evoluzione dell’uomo. Quasi tutte le culture umane creano storie, che fino ad ora, sono state definite in modo piuttosto sprezzante con il termine di intrattenimento, osserva Oatley, ma secondo l’autore il ruolo giocato dai racconti è molto più importante.

Oatley conclude dando un’ipotetica risposta al quesito precedente in un’ottica romantica: [blockquote style=”1″]Che cosa sono un pezzo di narrativa, un romanzo, un racconto, un gioco, un film o una serie televisiva? Sono pezzi di coscienza che vengono passati da una mente all’altra. Quando leggiamo o guardiamo un film, stiamo prendendo un pezzo di coscienza di qualcuno che facciamo nostro.[/blockquote]

Andiamo a comandare…e un panino al salame! Psycho-analisi dei tormentoni estivi del 2016

L’estate sta finendo e un anno se ne va, e con lui anche lo stormo dei mitologici tormentoni estivi, che quest’anno, oltre all’ immancabile perla latin (Sofia di Alvaro Solar), comprende anche due brani italiani, che contengono diversi riferimenti alla nostra salute psico-fisica e per questo degni di essere analizzati.

 

Tormentoni estivi: Andiamo a comandare e il fenomeno ‘balli di gruppo’

Il primo, che possiamo definire tormentonissimo è senza dubbio ‘Andiamo a comandare’ di Fabio Rovazzi, al momento attuale quasi sessanta milioni di visualizzazioni su youtube e soprattutto il raggiungimento dell’ambito riconoscimento di ‘tormentone con ballo di gruppo’ (cercare video di ferragosto sulle spiagge del Salento per rendersi conto del fenomeno).

Sul fenomeno del ballo di gruppo i colleghi antropologi hanno già speso fiumi di inchiostro dimostrando come sia reperibile praticamente in tutte le civiltà e risponda a una serie di bisogni umani. Può assumere il significato di rito propiziatorio (prima di una battaglia), di momento di corteggiamento (contribuendo al successo riproduttivo della specie), di momento catartico per aumentare il senso di appartenenza a un gruppo, ma anche più banalmente può essere un’occasione per migliorare la forma fisica, con benefici dimostrati anche a livello cardiovascolare da un recente studio sul Sirtaki (Vordos et al., 2016).

Oltre all’aspetto pro-motorio, ‘Andiamo a comandare‘ di Rovazzi è stato molto apprezzato a livello di contenuti dai genitori degli adolescenti perché forse per la prima volta un rapper (ma in realtà Rovazzi è un videomaker che si improvvisa rapper) non si schiera con il coro di cantanti osannatori della marjuana o più in generale del THC (canta infatti il Rovazzi: “Non mi fumo canne, sono anche astemio”), che trovano nella sostanza magica la panacea di tutti i mali dell’umanità e che vedono nella sua legalizzazione la più importante battaglia civile del ventunesimo secolo.

Il messaggio autoironico del tormentone estivo di Rovazzi risulta certamente più originale di quello di molti colleghi, senza essere bacchettone o proibizionista e si accompagna a una certa leggerezza di cui in questo momento evidentemente percepiamo il bisogno. Per certi versi sembra percorrere in maniera molto efficace quel filone di esaltazione del nerd che ha preso molto piede tra i personaggi delle serie tv (The Big Bang Theory, Ugly Betty).

 

Il tormentone estivo di Zucchero…e un panino al salame

L’altro tormento (lapsus!) prevalentemente radiofonico e di dimensioni comunque più ridotte  è ‘13 buone ragioni‘ di Zucchero, che arriva a stordirti con il suo hook (il riff o la frase che in una canzone vengono create per catturare l’attenzione dell’ascoltatore) che recita “e un panino al salame”, senza fare mistero di un mood, almeno gastronomico, decisamente emiliano. A differenza dell’altro tormentone estivo in questo caso Adelmo dichiara di preferire alla protagonista della canzone attività edonostiche quali bere birra e fumare canne.

Difficile non pensare che il panino al salame venga a soddisfare l’atavica fame chimica da cannabis, con buona pace dei vegani. Sarà per l’età o per la provenienza dalla provincia reggiana che conosco un poco, confesso che non ce lo vedo poi così tanto Zucchero con una canna in bocca, mentre riesco a associarlo maggiormente e liberamente con la birra (ma ancor di più il classicissimo bicchiere di lambrusco) e il salume (in tutte le sue varianti compresi ciccioli, ciccioli frolli, coppa di testa, etc.). Non so con quale livello di consapevolezza, ma con il suo panino al salame Zucchero pare schierarsi – e in maniera per nulla velata- contro i nuovi disturbi alimentari come l’ortoressia, l’ossessione psicologica per il mangiare sano, che può arrivare al fanatismo e al disadattamento sociale.

 

Tormentoni estivi: cosa li rende tali?

Che inneggi o no a comportamenti salutistici il fenomeno dei tormentoni estivi resta qualcosa di misterioso ma diffusissimo, che ha attirato anche l’attenzione dei ricercatori. Da un lato la ripetizione, la serialità dei suoni è ciò che da sempre tranquillizza gli animi e crea sicurezza; basti pensare alle ninne nanne o filastrocche di tutti i bambini del mondo, che ritrovano in quella cantilena la propria casa e le proprie certezze.

In termini tecnici quando il motivetto musicale ti entra in testa anche e si presenta all’improvviso si parla di Involuntary musical imagery (INMI) o più prosaicamente earworms (vermi dell’orecchio!). Il fenomeno è molto diffuso e pare che quasi il 90% delle persone lo sperimenti. Nella maggior parte dei casi si tratta di esperienze piacevoli o neutrali, mentre in circa un terzo dei casi tali stimoli sonori intrusivi possono risultare fastidiosi, portando alla tendenza alla distrazione e disturbi d’ansia (Williamson et al., 2014).

Le strategie comportamentali di risposta atte ad eliminare i vermi sonori possono essere attive, come distrarsi con altri stimoli (ad esempio pensare all’elefante rosa , il tormentone scaccia tormentone) o passive, come semplicemente aspettare che la musichina passi spontaneamente. La letteratura ha espresso pareri discordanti rispetto a quale possa essere la strategia più efficace.

Lo studio più stupefacente in questo senso rimane comunque quello dei ricercatori dell’Università di Reading (2015) che hanno mostrato come masticare chewing gum influisca sui sistemi di memoria e sul richiamo del tormentone. Nel loro esperimento chi masticava la gomma era meno propenso al ritorno ossessivo del brano, per via del fatto che l’attività del masticare coinvolge aree cerebrali associate alla produzione del linguaggio, che diventerebbero in questo caso meno disponibili per la produzione dei vermi sonori. La scoperta potrebbe avere anche delle ripercussioni sulla gestione dei pensieri ossessivi.

Masticate gente, masticate.

Il timore di colpa per irresponsabilità nel disturbo ossessivo compulsivo: studi clinici

Numerosi studi clinici hanno confermato il ruolo centrale assunto dalla caratteristica clinica di iper-responsabilità rispetto all’esordio ed al mantenimento del Disturbo Ossessivo Compulsivo (Mancini F., 2007). In tale direzione, varie ricerche condotte sulla popolazione generale hanno dimostrato che il timore di colpa e l’elevato senso di responsabilità predicono la tendenza ad avere ossessioni e compulsioni (Rachman et al., 1995; Rhéaume et al., 1995).

Il presente contributo si propone di esporre i risultati di alcune importanti recenti ricerche effettuate sul tema del timore di colpa per l’irresponsabilità nel Disturbo ossessivo compulsivo.

This article aims to present the results of some important recent research done on the subject of fear of guilt for irresponsibility in obsessive compulsive disorder.

 

Disturbo ossessivo compulsivo: sintomatologia e decorso

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) è un disturbo frequente e invalidante, la cui prima descrizione in termini scientifici risale ad Esquirol (1838).
La prevalenza puntuale del disturbo oscilla fra 1,5% e 0,65%, mentre la prevalenza lifetime si colloca intorno al 2-2,5% nella popolazione generale (Stein M, Forde D, Anderson G, Walzer J., 1997; Foa EB, Franklin ME, 2001).
L’esordio del disturbo si manifesta generalmente in adolescenza e in giovinezza (il massimo dell’incidenza si ha tra i 15 e 25 anni).
Generalmente alcuni aspetti del disturbo sono presenti già prima dell’esordio della sindrome, con sintomi che compaiono sporadicamente, di bassa intensità e non tali da provocare disagio al soggetto. Rispetto a ciò, si rileva che i sintomi prodromici spesso consistono in comportamenti tipici del Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità, quali perfezionismo, preoccupazioni per l’ordine e per il controllo.

Il decorso del Disturbo Ossessivo Compulsivo è raramente episodico, viceversa nella gran maggioranza dei soggetti il disturbo diventa cronico, anche se con fasi fluttuanti di miglioramento e di peggioramento; in una percentuale tra il 5 e il 10% il decorso è ingravescente (Andrews G, Creamer M, Crino R, Hunt C, Lampe L, Page A., 2003).
Nella maggior parte dei casi, la qualità di vita dei pazienti con DOC è gravemente compromessa in quanto varie ore della giornata sono occupate dall’esecuzione di azioni compulsive conseguenti alla presenza dei pensieri ossessivi; in alcuni casi la sintomatologia risulta incompatibile rispetto ad una normale vita sociale e lavorativa.

 

Il ruolo della colpa e dell’iper-responsabilità nel disturbo ossessivo compulsivo

Numerosi studi clinici hanno confermato il ruolo centrale assunto dalla caratteristica clinica di iper-responsabilità rispetto all’esordio ed al mantenimento del Disturbo Ossessivo Compulsivo (Mancini F., 2007).
In tale direzione, varie ricerche condotte sulla popolazione generale hanno dimostrato che il timore di colpa e l’elevato senso di responsabilità predicono la tendenza ad avere ossessioni e compulsioni (Rachman et al., 1995; Rhéaume et al., 1995).

Altri studi, condotti sia con soggetti affetti da DOC che con soggetti tratti dalla popolazione generale, hanno confermato la correlazione intercorrente tra responsabilità e comportamenti ossessivo compulsivi (Steketee et al., 1998; Bouchard et al., 1999; Wilson e Chambles, 1999; Menzies et al., 2000).

Nei pazienti ossessivi, tuttavia, è stata riscontrata una tendenza a provare senso di colpa e a sentirsi responsabili più elevata rispetto a quella osservata sia nella popolazione generale, sia in quella composta da pazienti con disturbi dell’umore e altri disturbi d’ ansia (Bouvard et al., 1997; Cartwright –Hutton e Wells, 1997).

Relativamente allo stato mentale di colpa per irresponsabilità, infatti, le ricerche hanno confermato che la convinzione di essere massimamente responsabili di ciò che potrebbe accadere è un criterio discriminante tra i pazienti affetti da Disturbo ossessivo compulsivo e soggetti normali o affetti da altri disturbi di ansia (Steketee, Frost e Cohen, 1998).

Parallelamente, vari studi sperimentali effettuati su pazienti ossessivi hanno dimostrato che la diminuzione della responsabilità genera una significativa diminuzione della preoccupazione e dell’urgenza di eseguire i rituali di controllo compulsivo (Lopatcka e Rachman, 1995).
Il timore di colpa per irresponsabilità è focalizzato su ciò che la persona crede che potrebbe e dovrebbe fare per prevedere e prevenire il danno di cui si ritiene responsabile.

La sua angoscia è generata dalla previsione di essere accusato di non aver fatto tutto ciò che costituisce suo dovere, di essere stato superficiale, disattento, di non aver agito nel momento in cui prevenire il danno sarebbe stato possibile e doveroso.
Spesso nel ragionamento ossessivo la preoccupazione riguarda l’essere colpevoli di errori di omissione, più che di errori di commissione.
Tale aspetto è stato indagato da alcuni studi condotti su soggetti non clinici, in cui è stato dimostrato che l’induzione di un forte timore di colpa influenza, in soggetti non affetti da DOC, le modalità di controllo delle ipotesi, in un modo peculiare, definito ‘prudenziale’ (Gangemi, Balbo, Bocchi, Carriero, Filippi, Lelli, Mansutti, Mariconti, Moscardini, Olivieri, Re, Setti, Soldani, & Mancini, 2003; Mancini & Gangemi, 2004a, 2004b).

Nel modo prudenziale i soggetti focalizzano l’ipotesi peggiore o di pericolo; ricercano la conferma dell’ipotesi peggiore e la disconferma dell’ipotesi più favorevole; in caso di disconferma dell’ipotesi peggiore continuano il processo di controllo, vale a dire che richiedono molte più prove per rigettare l’ipotesi peggiore che per mantenerla.
Secondo Salkovskis e Forrester (2002), l’iper-responsabilità tipica delle persone affette da Disturbo Ossessivo Compulsivo discende dalla convinzione di avere un potere cruciale (“pivotal power”) nel causare o prevenire esiti negativi soggettivamente molto importanti; [blockquote style=”1″]questi esiti sono rappresentati come essenziali da prevenire; essi potrebbero essere reali, ossia potrebbero avere conseguenze nel mondo reale e/o a livello morale[/blockquote] (Salkovskis, 1996).

Rispetto a ciò, sono stati realizzati numerosi studi sperimentali finalizzati ad indagare gli effetti dell’incremento della responsabilità e della colpa sulla stima di probabilità di accadimento e sull’attribuzione di gravità di un evento negativo.
Tali ricerche hanno dimostrato che, a fronte dell’induzione di un forte senso di responsabilità e di un forte timore di colpa per irresponsabilità, si verifica una modificazione della percezione di pericolo e delle aspettative di danno sia in pazienti DOC che soggetti non clinici.
In tal senso, in riferimento agli studi con soggetti non clinici, Menzies e colleghi (Jones e Menzies, 1997; Menzies et al., 2000) hanno dimostrato che l’attribuzione di gravità di un esito negativo aumenta se questi soggetti si ritengono i principali responsabili dell’esito stesso;
viceversa, la stima della gravità dell’esito diminuisce se ritengono qualcun altro colpevole.

Parallelamente, in merito agli studi compiuti su pazienti ossessivi, Lopatcka e Rachman (1995) e Shafran (1997) hanno rilevato che la diminuzione, indotta sperimentalmente, del senso di responsabilità per un determinato esito negativo genera nei soggetti DOC una diminuzione della stima di probabilità di accadimento dell’esito stesso.
Tali risultati sperimentali contribuiscono a spiegare l’errore cognitivo di sovrastima della minaccia (OCCWG, 1987), tipicamente presente nella sintomatologia ossessiva.

Conoscere la simulazione di patologia mentale: “la più fine simulazione è servirsi bene della verità”

Non è da tutti e per tutti la simulazione di patologia mentale. Facile sembrerebbe agli occhi di chi non conosce le sottigliezze della psicopatologia: entrare nel ruolo di paziente con malattia mentale presuppone una conoscenza totale di ciò che si vuol simulare.

Cinzia Borrello – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

 

È pressoché impossibile fingere d’amare se non si è già molto prossimi a essere innamorati, o almeno se non si ama in qualche modo; bisogna infatti aver lo spirito e i pensieri dell’amore per questa finzione, altrimenti come mai se ne potrebbe parlare?

Anonimo, Discorso sulle passioni d’amore, XVII sex. (attribuito a Blaise Pascal)

 

Presupposto indispensabile per un tentativo di simulazione è proprio ciò che l’autore citato mette in evidenza: saper fingere è una virtù. Non è da tutti e per tutti la simulazione di patologia mentale. Facile sembrerebbe agli occhi di chi non conosce le sottigliezze della psicopatologia. Simulare un mal di pancia potrebbe essere alla mercé di molti, ma entrare nel ruolo di paziente con malattia mentale presuppone una conoscenza totale di ciò che si vuol simulare.

In ambito clinico il tentativo di smascherare un simulatore potrebbe non essere di alcuna utilità; cardine dell’efficacia di una terapia dovrebbe essere infatti l’alleanza terapeutica, l’eliminazione di ogni forma di pregiudizio, l’essere acritici e l’aver un rapporto di fiducia con il paziente. Quando però si affaccia il dubbio di simulazione di patologia mentale, il clinico si deve dare la possibilità di riuscire a svelare l’inganno.

 

 

Perché smascherare una simulazione di patologia mentale?

A cosa serve riconoscere i meccanismi messi in atto dal simulatore? Chi è il simulatore? Da che motivazione è mosso? Quali atteggiamenti inducono il dubbio nel clinico? Come svelare una malattia simulata? Vi sono strumenti che possono aiutare il clinico ad identificare un simulatore?

Si cercherà qui di rispondere alle molteplici domande.

Nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders 5 (DSM5) così come nella passata edizione, la simulazione di patologia mentale viene inclusa fra le condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica. Non vi è quindi diagnosi di simulazione ma una definizione della condizione, al fine di poterne tener conto.

Il manuale definisce simulazione come

La presentazione o produzione volontaria di sintomi psichici o fisici esagerati. I sintomi sono prodotti per perseguire uno scopo che è riconoscibile attraverso la comprensione della situazione dell’individuo piuttosto che attraverso la sua psicologia.

La ‘produzione volontaria’ la si descrive in quanto il simulatore rende palesi sintomi che in realtà non vi sono o che vi sono in misura lieve; mostra ciò che in realtà non sente o tenta di far credere ad altri cose o fatti che in realtà non esistono. I sintomi sono, quindi, per lo più inesistenti o lievi e vengono proposti e/o esagerati.

Il concetto ‘per seguire uno scopo’ sta ad indicare che il simulatore segue incentivi esterni come ad esempio, evitare il servizio militare, il lavoro, ottenere risarcimenti finanziari, evitare procedimenti penali, oppure ottenere farmaci; in generale di trarre vantaggi sul piano giuridico-forense. Vi è quindi  da parte di chi è valutato un interesse ad ottenere un certo risultato (Fornari, 2008).

Molteplici sono i contesti in cui vengono rese probabili condotte di simulazione di patologia mentale: penale (valutazione della capacità di intendere e di volere); civile (valutazione sul danno della persona e/o valutazione sulle capacità di provvedere a se stesso); previdenziale (valutazione sulla capacità lavorativa, invalidità, accompagnamento); canonico (valutazione sulla maturità psicoaffettiva) (Stracciari, Bianchi, Sartori 2010).

Il meccanismo di simulazione di malattia viene molto spesso rilevato in ambito forense in quanto il periziato non ha vincoli dati dal contratto terapeutico. L’obiettivo della valutazione non si esaurisce con la promozione della salute, ma la condizione mentale e la situazione soggettiva vengono valutati in funzione all’atto rilevante dal punto di vista giuridico. Spesso accade infatti, che l’inviante è la figura dell’avvocato.

 

 

Quando sospettare una simulazione di patologia mentale

La simulazione dovrebbe esser sospettata quando vi è un contesto medico-legale di presentazione dei sintomi, quando ai reperti obiettivi non vi è corrispondenza con lo stress e/o la compromissione lamentata dal soggetto, quando manca la collaborazione alla valutazione diagnostica e nell’accettare il percorso terapeutico e, infine, quando vi è presenza di un disturbo Antisociale di Personalità. Ulteriori caratteristiche che porterebbero il clinico a mettere in dubbio la sintomatologia del paziente, potrebbero essere la presentazione idilliaca del funzionamento premorboso oppure l’incapacità selettiva delle sole attività lavorative (Ferracuti et al., 2007).

Constatato che la più fine simulazione è servirsi bene della verità, Fornari (2008) propone alcune sottigliezze che potrebbero mettere ulteriormente in allerta il clinico. Il simulatore di patologia potrebbe imitare solamente i singoli sintomi, non legati da una correlazione patologica, così come potrebbe esibire dei disturbi che solitamente il soggetto realmente malato tende a negare. Potrebbe proporre incoerenza e incostanza nella presentazione dei sintomi e/o descrivere in maniera scientificamente esatta deliri e allucinazioni. Il simulatore potrebbe presentare una refrattarietà ai trattamenti psico-farmacologici e psicoterapeutici, resistere così ad una terapia che generalmente attenua i sintomi in soggetti affetti da patologie reali. Inoltre sono possibili emissioni di comportamenti puerili, drammatizzazione, variazioni dell’umore di tipo infantile e ricerca della figura materna; simulando così regressioni o stati di ritardo mentale. Infine molto frequente è la prodigiosa guarigione correlata all’andamento del processo penale, questo però rischia di essere un indicazione post-processo, e probabilmente il simulatore avrà già raggiunto il suo obiettivo.

 

 

L’importanza della diagnosi differenziale

Non essendoci una diagnosi di simulazione di patologia mentale non esiste un comportamento che possa essere definito come tipico del simulatore; il soggetto va osservato attentamente per porre attenzione a tutti  gli aspetti sopra citati e quanti altri possano mettere in dubbio la veridicità del sintomo proposto.

Centrale nell’identificazione della condotta di simulazione risulta essere il lavoro sulla diagnosi differenziale. Per parlare di Simulazione di patologia mentale bisogna quindi escludere diverse condizioni, tra le quali vi sono il disturbo di conversione e disturbo somatoforme, il disturbo dissociativo, il disturbo fittizio, la sindrome di Münchhausen , la sindrome di Münchhausen per procura e la sindrome di Ganser.

La produzione intenzionale di una sintomatologia vi è sia nella Simulazione che nel Disturbo Fittizio. Ciò che li differenzia è lo scopo che muove le diverse condizioni: nel disturbo Fittizio vi è il bisogno intrapsichico di mantenere il ruolo di malato con il fine di ricevere la cura e l’attenzione da parte di una persona cara. Allo stesso modo, a differenza della sindrome di Münchhausen, disturbo psichiatrico in cui le persone colpite fingono la malattia o un trauma psicologico per attirare attenzione e simpatia verso di sé, la simulazione è mossa da incentivi esterni. Ciò che differenzia invece il disturbo Somatoforme e di Conversione dalla condotta simulativa è la produzione non intenzionale del ventaglio di sintomi fisici. Nella sindrome di Ganser infine, vi è una reazione isterica basata su una motivazione inconscia del soggetto ad evitare la responsabilità, sforzandosi di apparire infermo di mente; la componente intenzionale, determinante all’inizio, finisce con il lasciare il posto a confusione e/o ad uno stato crepuscolare.

Tra i criteri che possono essere seguiti per distinguere la simulazione di patologia mentale da forme psicopatologiche che condividono alcune caratteristiche con la simulazione stessa, vi sono la produzione intenzionale di contro alla produzione inconsapevole e il vantaggio esterno e/o materiale di contro al vantaggio intrapsichico puro. La condotta di simulazione si propone quindi in un quadrante dove il vantaggio esterno e/o materiale si interseca con la produzione intenzionale del ventaglio di sintomi.

Conoscere i segnali di simulazione di patologia mentale è utile per il clinico per porsi in una posizione tale da non suggerire esso stesso i sintomi che potrebbero essere poi simulati. Inoltre conoscerne le caratteristiche è utile ad evitare di essere coinvolti in meccanismi di manipolazione e a migliorare la valutazione clinica per il riconoscimento ed il trattamento della simulazione della malattia mentale.

Hurst (1940) indicava due sole condizioni che danno la certezza di una avvenuta simulazione. Una di queste due condizioni è il cogliere il simulatore durante l’atto di esercitare la funzione psichica che aveva dichiarato essere menomata. La seconda condizione è quella in cui il simulatore ammette esso stesso di star simulando una patologia ai fini di un incentivo esterno. Da questo si evince la rarità di detenzione di simulazione. Comunque sia, nonostante vi siano situazioni in cui alcuni esperti preparano i propri assistiti prima di una valutazione psicodiagnostica, suggerendo le risposte più adeguate al raggiungimento del beneficio atteso e rendendo così più ostica l’individuazione della simulazione, vi sono molteplici condizioni insite nella valutazione stessa che permettono al clinico la detenzione della simulazione.

 

 

Gli strumenti di valutazione della simulazione di patologia mentale

Tra i diversi strumenti a disposizione dei clinici vi sono alcuni strumenti psicodiagnostici e reattivi di personalità, comunemente utilizzati, che presentano caratteristiche peculiari tali da aiutare la detenzione della simulazione di patologia mentale. In questa sede ne prenderemo in considerazione alcuni tra cui il questionario di personalità multiscala MMPI-2, la SIRS (Structured Interview of Reported Symptoms), il test Rorschach, il Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS), e  un esempio di test inserito in batterie di test neuropsicologici, il Test of Memory Malingering (TOMM).

L’MMPI-2 fornisce indicazioni sulla personalità del soggetto e su quanto il suo profilo corrisponda con diversi quadri nosografici psichiatrici. Peculiari del questionario sono le scale di validità che verificano l’attendibilità nella compilazione dello stesso e la presenza di atteggiamenti di dissimulazione o di simulazione.  Ad esempio l’indice F-K ricavato dalla differenza fra il punteggio grezzo alla scala F e alla scala K ha una provata capacità di individuare la simulazione.

La SIRS è lo strumento di riferimento per la valutazione della simulazione a carattere psichiatrico. Viene composta in modo da poter rilevare molteplici stili di risposta associati alla simulazione e permettere di classificare un quadro come finzione o descrizione onesta, e verifica inoltre la presenza di altri stili problematici di risposta  (Stracciari, Bianchi, Sartori 2010).

Per quanto riguarda il test Rorschach, si è osservato che con un adeguato addestramento il soggetto è in grado di simulare una condizione non reale; basterebbe infatti affermare di vedere ciò che non si vede realmente per alterare la validità del test. I simulatori vengono comunque smascherati in base a punteggi quali il rifiuto di produzione della risposta alla presentazione di una tavola, fallimento nel riportare le risposte più frequenti, bassa percentuale di forme buone, numerose risposte bizzarre o strane, confabulazioni accuratamente costruite e forti incongruenze o dislivelli di rendimento (Netter,Viglione, 1994; Gacono, Barton Evans, 2008).

Nel test WAIS, attraverso l’analisi della dispersione, è possibile rilevare la simulazione di patologia. Ad esempio soggetti simulatori di depressione presentano solitamente un basso rendimento in tutte le prove, mentre i soggetti affetti realmente da tale sintomatologia presentano un rendimento alto nelle prove verbali, mostrando invece un cedimento nelle prove di performance (Pajardi, 2006). Rispetto al QI si potrebbe cadere in inganno pronunciando una facile deduzione secondo cui un soggetto che ottiene un QI basso non è in grado di simulare. E’ sì reale come deduzione, in quanto la simulazione presuppone un buon livello cognitivo, ma risulta necessario tenere in considerazione anche il fatto secondo cui il QI basso può essere simulato.

In generale ciò che desta maggior interesse ai fini della detenzione di simulazione sono gli elementi quali: il punteggio al subtest Memoria di cifre il quale risulta scadente sia in caso di simulazione che in caso di pazienti neurologici, punteggi nella norma potrebbero indurre al dubbio; il punteggio inferiore a 7 nell’indice Memoria di cifre affidabile; infine un punteggio in grado di distorcere il protocollo è quello della differenza tra il punteggio al subtest Vocabolario e quello di Memoria di cifre, quando il punteggio del primo risulta di gran lunga superiore evidenzia il rischio di simulazione (Ferracuti, 2008).

Tra i test neuropsicologici specifici per la simulazione dei disturbi di memoria vi è il TOMM. Il test è formato da principalmente 3 fasi: la prova 1 dove avviene una prima presentazione e rispettiva memorizzazione degli stimoli target, con successiva prova di rievocazione con un’immagine distrattore; la prova 2 che prevede la medesima presentazione degli stimoli target, ma nella prova di rievocazione vi sono molteplici stimoli distrattori; infine abbiamo la prova 3, della rievocazione differita dopo circa 15 minuti.  Le prestazioni significativamente al di sotto del livello di scelta casuale indicano l’intenzionalità di produzione del sintomo; è bene tener conto che un punteggio molto basso è necessario per una diagnosi di simulazione. Un decremento significativo tra seconda e terza prova può essere interpretato come ulteriore conferma di simulazione.

Vi sono poi modalità di correlazione anatomo-clinica che consentono di individuare una simulazione tramite metodi di neuro immagine, in particolar modo quando vi esiste già la possibilità di oggettivare il correlato neurale della sintomatologia. Questo metodo confronta la sede lesionata con i sintomi accusati dal paziente, permettendo l’individuazione sia delle contraddizioni qualitative, quindi della sintomatologia inattesa rispetto a tale lesione, sia delle contraddizioni quantitative, quando i sintomi lamentati non presentano la stessa corrispondenza con la gravità della lesione.

Vi sono inoltre tecniche molto specifiche dell’ambito neuropsicologico, tra cui il Symptom Validity Testing (SVT)  il quale si pone lo scopo di attestare la veridicità del sintomo. Basato su una trappola matematica secondo la quale una prestazione significativamente inferiore a quella attesa da una prestazione casuale si può ottenere solo conoscendo le risposte e dando intenzionalmente la risposta errata. In test così proposti minore sarà il punteggio ottenuto e maggiore potrà essere l’accuratezza della diagnosi di simulazione di patologia mentale (Stracciari, Bianchi, Sartori 2010).

Come metodo finale, ma non di minor importanza, vi sarà l’occhio clinico dell’esperto nonché la competenza dello stesso messa in atto in sede di colloquio, confrontando i sintomi riportati con la propria conoscenza potrà individuare discordanze e svelare così il tentativo di simulazione.

La bugia nei bambini: funzione e tappe della menzogna nell’età evolutiva

Secondo l’accezione comune, si parla di menzogna quando una persona intende trarre in inganno un’altra deliberatamente (Ekman, 2001). Come nasce la menzogna e che funzione assume la bugia nei bambini?

 

Tappe e motivazioni della menzogna

La prima bugia nei bambini è un monosillabo: un ‘no‘, quando dovrebbe essere pronunciato un si.

Il loro no nasconde delle esigenze fondamentali: evitare il castigo, cancellare la colpa, affermare la propria indipendenza. Nel primo caso la bugia è intesa come negazione di una cattiva intenzione e non come negazione di un fatto in sé, e viene utilizzata quando il bambino teme una punizione troppo severa, che ai suoi occhi appare come una vera ingiustizia. Nel secondo caso il bambino utilizza la bugia come fosse una bacchetta magica con cui cerca di far scomparire una cosa spiacevole; negando di aver commesso un errore, il bambino è come se negasse di esser stato goffo e incapace e quindi mette in atto un meccanismo riparatore per conservare la stima in se stesso. Inoltre un bambino dicendo ‘no’ scopre di avere una propria identità, una mente propria, scopre, avendo un segreto, di avere qualcosa di esclusivamente suo e giunge così alla percezione di sé come un individuo a tutto tondo (Laniado, 2001).

Trovandosi di fronte ad una realtà che non capiscono o che non accettano, i bambini reagiscono cercando di ridefinirla.

Il piccolo che racconta una storia, non narra mai un evento in sé ma l’impressione che ha avuto di quell’evento, immedesimandosi nei protagonisti della vicenda. I bambini piccoli non sanno distinguere tra reale e immaginario perché il reale è recentissimo, e l’immaginario è ancora presente. Inoltre il pensiero del bambino non è in grado di isolare i dettagli senza perdere di vista l’insieme del problema.

Nei primissimi anni il bambino vede le situazioni come un tutto indivisibile, non distingue la causa dall’effetto, né il passato dal presente e dal futuro. Fissa la sua attenzione sul dettaglio, sul particolare perdendo di vista il contorno. Nei primi anni di vita il bambino non è ancora in grado di distinguere la fantasia dalla realtà, e anima gli oggetti come fossero persone vere (Laniado, 2001).

I bambini sono in grado di dire bugie molto precocemente, molto prima di quanto supponga la maggior parte degli adulti. A 4 anni, ma spesso anche prima, alcuni bambini sanno già mentire e lo fanno: non si tratta di semplici errori ma di tentativi deliberati di ingannare.

Verso i 6 anni, il bambino comincia a capire che non sempre i punti di vista delle persone coincidono. Si rende conto che gli altri hanno un modo di guardare alle cose diverso dal suo, e si accorge che è possibile vedere il mondo con occhi diversi. Dalla bugia come fuga nell’immaginario o come negazione di un fatto, il bambino passa a un livello superiore. Egli è ora capace di mentire sui propri stati d’animo, di dissimulare le proprie intenzioni. Mentire presuppone competenze e capacità intellettive complesse. Secondo Piaget, uno dei padri della moderna psicologia, chi mente deve possedere competenze comunicative, abilità di immedesimazione nel punto di vista dell’altro e avere l’intenzione di ingannare.

Il concetto di verità cambia a seconda delle fasi di sviluppo. I bambini comprendono di poter ingannare un adulto solo dopo i 5 anni. Ma appena vengono istruiti sulla malvagità della menzogna diventano moralisti intransigenti, tutto ciò che non è aderente alla realtà diviene per loro totalmente falso, e quindi da condannare (Laniado, 2001).

Secondo Paul Ekman fin verso gli 8 anni i bambini considerano qualsiasi affermazione falsa una menzogna, a prescindere dal fatto che sia intenzionale o meno. Non conta l’intenzionalità, ma la veridicità dell’informazione. I bambini piccoli, anche se sanno che l’interlocutore non ha intenzione di ingannare nessuno, lo chiamano bugiardo in quanto fornisce un’informazione falsa. A otto anni, invece, la maggior parte dei bambini- così come gli adulti- non considera un bugiardo chi dà involontariamente informazioni false.

Intorno ai 10-11 anni quasi tutti i ragazzi sono in grado di simulare la verità; sanno dare al volto un’espressione credibile, una giusta intonazione in base alle circostanze e sono abbastanza disincantati per non cadere in grossolane contraddizioni. I ragazzi a questa età smettono di pensare che le bugie siano sempre qualcosa di male, diventano più flessibili. Se sia giusto mentire o no dipende dall’esito della situazione. Se è vero che nella preadolescenza e pubertà i ragazzi comprendono che mentire è sbagliato perché comporta la perdita della fiducia da parte degli altri, questo non è sempre in primo piano nella loro mente. Anche gli adulti nel momento in cui mentono perdono di vista la conseguenza che ciò avrà sulla fiducia reciproca (Ekman 2009).

Secondo gli studiosi della menzogna, il bravo mentitore tiene in considerazione il punto di vista della sua vittima. Mettersi nei panni dell’altro, capire come potrebbe reagire, cosa potrebbe apparirgli sospetto, permette al mentitore di prevedere la conseguenza del proprio comportamento sulla persona che intende ingannare. In età prescolare, la bugia nei bambini è priva di dimestichezza con tali operazioni, in quanto non si rendono ancora conto del fatto che possano esistere più punti di vista e credono che tutti vedano le cose come le vedono essi stessi. Ma crescendo, avvicinandosi all’adolescenza, i ragazzi riescono ad assumere il punto di vista dell’altro.

 

La bugia nei bambini: il ruolo dei genitori

È molto importante che il genitore non assuma dei comportamenti scorretti che potrebbero essere di cattivo esempio per i loro bambini, come ad esempio dare una risposta falsa, raccontare una falsa verità, o fare un promessa che poi non si avvera, fa sentire il bambino profondamente tradito e ferito, quindi in qualche modo autorizzato a mentire a sua volta.

Musicisti si nasce o si diventa? Il ruolo della pratica individuale nell’apprendimento musicale

Se si ritiene limitata la propria dotazione iniziale indispensabile per impegnarsi nell’apprendimento musicale, difficilmente si svilupperà una motivazione solida verso l’attività musicale e non si investiranno energie, tempo e risorse nello studio della musica. La questione diventa allora: musicisti si nasce o lo si diventa?

 

I pregiudizi che ostacolano l’apprendimento musicale

La pratica musicale rappresenta un’attività in grado di offrire numerosi benefici a livello psicologico, emotivo e sociale a tutte le età (Hallam, 2010). Purtroppo, l’interesse per lo studio della musica può essere stroncato sul nascere, spesso a causa di un pregiudizio da tempo radicato (e a volte ancora presente!) nell’educazione musicale e nella didattica della musica strumentale e vocale.

In base a questo, si ritiene che la performance musicale dipenda dal grado di talento musicale posseduto dall’individuo, che nasce già più o meno dotato di abilità sonore e musicali: un bagaglio giudicato difficilmente potenziabile in caso di scarse competenze.

La conseguenza è che molte persone, pur essendo incuriosite o affascinate dalla possibilità di fare musica, avendo vissuto esperienze di insuccessi musicali, sono state spinte a definirsi, in modo lapidario, stonate o non portate per la musica. Frasi quali ‘Non ho orecchio musicale’, ‘sono negato per la musica!’, o ‘la musica non fa proprio per me!’ si sentono ancora frequentemente utilizzate per chiudere discussioni legate alle prestazioni musicali individuali. Se si ritiene limitata la propria dotazione iniziale indispensabile per impegnarsi nell’apprendimento musicale, difficilmente si svilupperà una motivazione solida verso l’attività musicale e non si investiranno energie, tempo e risorse nello studio della musica. La questione diventa allora: musicisti si nasce o lo si diventa?

 

Apprendimento musicale: musicisti si nasce o lo si diventa?

La psicologia della musica ha cercato di comprendere se effettivamente i risultati nell’ambito della performance musicale dipendano dal grado di talento posseduto dal musicista, o vi siano altri fattori che influenzano il successo dell’apprendimento musicale. Uno degli aspetti più indagati è stata la pratica musicale individuale.

Una nota ricerca condotta da Ericsson, Krampe e Tesch-Römer (1993) ha esaminato gli elementi che influenzano il livello qualitativo dell’esecuzione musicale raggiunto da alcuni violinisti studenti di musica. I partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi, in base al giudizio loro assegnato dai propri docenti di strumento: i migliori violinisti, i buoni violinisti e gli insegnanti di musica (questi ultimi presentavano bassi punteggi nell’esecuzione strumentale e si avviavano ad una successiva carriera in ambito educativo). Sono state raccolte informazioni relative all’attività di studio e di pratica musicale dei musicisti con informazioni demografiche (età, genere, partecipazione a concerti e concorsi,etc.), interviste e diari. In base ai risultati è emerso il ruolo rilevante che la pratica musicale individuale ha nel contribuire al raggiungimento di uno specifico livello di performance: i gruppi dei migliori e dei buoni musicisti tendevano ad esercitarsi con il proprio strumento per una quantità di ore settimanali circa tre volte superiore a quella degli studenti che si preparavano a diventare insegnanti di musica.

Tuttavia successive ricerche hanno messo in evidenza come non sia la sola quantità nella pratica, in termine di ore di studio, a determinare in modo univoco il successo nella performance. È ciò che è stato rilevato, ad esempio, da Williamon e Valentine (2000), che hanno affidato un compito di apprendimento musicale a pianisti studenti di musica a livello avanzato. Le sessioni di pratica sono state analizzate considerando sia aspetti legati alla quantità (tempo impiegato in ogni sessione) sia alla qualità (strategie impiegate per imparare il nuovo brano); inoltre la performance finale è stata valutata da un gruppo di pianisti esperti. Si è visto che la quantità di ore di studio allo strumento non risulta correlata alla qualità della performance; sembrano invece avere un ruolo rilevante nella pratica aspetti qualitativi, di tipo metacognitivo e progettuale, come la definizione di obiettivi specifici di apprendimento per ogni sessione di studio, e il tipo di strategie di apprendimento impiegate. Sembra che in questo caso a contare non sia il “quanto”, ma piuttosto il “come”.

La pratica musicale rimane comunque uno degli aspetti di maggior peso nel determinare il successo dell’apprendimento musicale. Platz, Kopiez, Lehmann e Wolf (2014) nel loro lavoro di meta-analisi sulle ricerche che hanno considerato la pratica musicale deliberata, confermano tale affermazione, sottolineando che, in ogni caso, vi sono altri fattori rilevanti (legati al processo di insegnamento, alla relazione didattica studente-insegnante e di tipo sociale) che possono mediare l’effetto della pratica di studio sull’apprendimento musicale.

 

Apprendimento musicale: conclusioni

Gli esempi brevemente riportati offrono una conferma al fatto che musicisti non si nasce, lo si diventa, essendo il percorso di apprendimento musicale influenzato da diverse variabili, tra le quali emerge lo studio e pratica individuale dello strumento musicale o del canto. Più che un dono innato, il talento musicale sembra essere il frutto di uno sforzo specifico, consapevole, prolungato nel tempo e sostenuto da un supporto educativo efficace nella figura dell’insegnante. Maggiori indagini sono sicuramente necessarie per comprendere la complessità degli aspetti influenzanti l’apprendimento musicale, ma tale consapevolezza dovrebbe aprire le porte dell’esperienza musicale a tutti gli individui, in accordo con le loro potenzialità, interessi e esigenze.

Il disturbo dissociativo di identità: il trattamento cognitivo-comportamentale – Recensione

Il Disturbo Dissociativo di identità è un argomento notoriamente complesso, su cui è da tempo aperto un interessante dibattito scientifico. Questo libro si offre come valido contributo su tale tema, affrontandolo a partire dalle basi neurofisiologiche della coscienza fino ad arrivare alle metodologie diagnostiche e all’intervento clinico (psicofarmacologico, psicoterapeutico e riabilitativo).

 

Introduzione

L’approccio terapeutico cui gli autori dedicano lo spazio maggiore è la psicoterapia cognitivo-comportamentale, declinata nelle sue varie accezioni (CBT, EMDR, terapia dialettico-comportamentale, ACT e mindfulness), considerata in questo periodo la psicoterapia più efficace da un punto di vista scientifico (Layard e Clark, 2014), offrendo spunti interessanti sul ruolo della riabilitazione psichiatrica nei disturbi dissociativi.

Nella prima parte il testo offre spazio ai più recenti aspetti di neurofisiologia della coscienza, partendo dalle concettualizzazioni di Jaspers fino alle teorie di ordine superiore della coscienza e agli studi effettuati attraverso le tecniche di neuroimaging dei giorni nostri. Molto interessante ed esplicativo è il capitolo dedicato alle patologie della coscienza, che partendo dalla patologia estrema, il coma, descrive tutti gli stati intermedi di patologia di tipo quantitavo, qualitativo e quali-quantitativo.

Tra i disturbi qualitativi della coscienza vengono individuati i disturbi dissociativi, di cui il testo propone un approfondimento diagnostico secondo le caratterizzazioni del DSM-5 e dell’ICD-10, precisando che: [blockquote style=”1″]la dimensione “dissociatività” si colloca in un continuum psicopatologico che spazia da un livello “normale” ad uno “patologico”, questa va da un’attenzione divisa, focalizzata o totalmente concentrata su di uno stimolo come quello ipnotico a disturbi che causano un notevole disagio psicosociale (disturbi dissociativi).[/blockquote]

La teoria della dissociazione strutturale della personalità

Viene quindi spiegata la teoria della dissociazione strutturale della personalità, che, in seguito ad un evento traumatico, distingue due prototipi dissociativi dell’identità: la Parte Apparentemente Normale (PAN) e la Parte Emotiva (EP) (Schlumpf et al. 2014). I soggetti che manifestano la Parte Apparente Normale non riescono a personificare le esperienze traumatiche e i ricordi, in essi si riscontra un certo grado di amnesia retrograda, presentano sintomi di depersonalizzazione ed una sensazione di intorpidimento fisico. I soggetti con PAN mostrerebbero un basso coinvolgimento emotivo nei confronti del trauma subito.

Altri individui mostrano quella che è definita Parte Emotiva (EP), a sua volta suddivisa in due principali sottotipi:
– Difesa attiva: associata ad emozioni intense, come la paura (regolate dal sistema nervoso simpatico).
– Difesa passiva: che si manifesta con un intorpidimento emotivo, come se l’individuo fosse anestetizzato.

Le risposte al trauma degli individui che mostrano EP attive sono emotive e corporee (come riscontrato anche nei soggetti affetti da Disturbo Post Traumatico da Stress).

Gli autori distinguono tra 3 tipi di dissociazione strutturale della personalità: Primaria (con la presenza di una Parte Apparentemente Normale e una Parte Emozionale. Solitamente la PAN è quella che prevale con una sorta di autocontrollo che può sfociare nell’amnesia dell’accaduto. La Parte Emozionale è presente in maniera latente, causando disagi al soggetto, non essendo pienamente cosciente), Secondaria (sopravvento delle Parti Emozionali rispetto alla Parte Apparentemente Normale), Terziaria (caratterizza la maggior parte dei casi di disturbo dissociativo di identità e rappresenta la forma più grave di dissociazione. Sono presenti più Parti Emotive e più Parti Apparentemente Normali, che interagiscono fra loro, fino a essere indistinguibili.).

Gli autori affrontano quindi il tema del Disturbo Dissociativo di Identità, presentandone le differenze nosografiche tra la versione del DSM-IV e quelle del DSM-5, le caratteristiche cliniche, il corso del disturbo, gli aspetti epidemiologici ed etiologici (con attenzione orientata alle differenti forme di trauma e le risposte umane ad essi), la comorbidità con gli altri disturbi psichiatrici (ad es. epilessia del lobo temporale, sclerosi multipla, trauma cranici, emicrania, DPTS, disturbo Borderline di personalità, ecc.) ed infine la diagnosi differenziale.

Gli strumenti di valutazione del disturbo dissociativo di identità

Successivamente il testo presenta sommariamente gli strumenti di valutazione utilizzati per la diagnosi del disturbo dissociativo di identità: Dissociative Experiences Scale (DES); Dissociative Experiences Scale-II (DES-II); The Child Dissociative Checklist (CDC); Dissociative Disorders Interview Schedule (DDIS); Structured Clinical Interview for Dissociative Disorders (SCID-D); Questionnaire on Experiences of Dissociation (QED); Cambridge Depersonalization Scale (CDS); The Dissociative Experiences Scale Taxon (DES-T); The Multidimensional Inventory of Dissociation (MID); The Depersonalization Severity Scale (DSS); The Adolescent Dissociative Experiences Scale (A-DES); Fewtrell Depersonalisation Scale; Wessex Dissociation Scale.

Le terapie del disturbo dissociativo di identità

Gli autori affrontano in seguito le possibili terapie, partendo da quelle farmacologiche che sono legate ai mutevoli sintomi che il paziente può presentare, a quelle psicoterapiche che mirano all’integrazione delle diverse personalità presenti nel disturbo dissociativo.
Viene poi descritto l’intervento attraverso l’ipnosi, che permette di esplorare tematiche latenti nella coscienza dell’individuo. L’intervento con l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) invece prevede il riaffiorare dei ricordi relativi ad un evento traumatico da parte del paziente mentre fa con gli occhi dei movimenti, che seguono uno stimolo luminoso o sonoro.
Questi movimenti permetterebbero l’intensificazione delle connessioni fra l’emisfero destro e quello sinistro del cervello, migliorando la memoria del soggetto (Samara et al., 2011).

Particolare approfondimento è dato dagli autori alle Tecniche Cognitivo-Comportamentali (CBT), che tendono a promuovere con molta attenzione la trasformazione degli errori cognitivi (che nel disturbo dissociativo hanno anche un grande significato strategico e difensivo) con cognizioni più salutari, piuttosto che ad una loro semplice classica sostituzione; per questi motivi si preferisce promuovere l’apprendimento di un più ampio repertorio di strategie di coping.

Successivamente viene descritta anche la Terapia dialettica comportamentale (DBT), tesa fondamentalmente ad ottenere nei pazienti l’accettazione (volta a contrastare le sensazioni di impotenza del paziente) e il cambiamento (di quei pensieri disfunzionali, che causano una disregolazione delle emozioni). L’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è anche un intervento che può aiutare i pazienti con Disturbo dissociativo di identità, attraverso l’accettazione delle proprie emozioni legate ai traumi passati, che non consiste nell’acconsentire in ogni situazione (ad esempio, relazioni
violente), ma nell’accettare quelle che sono le circostanze legate al passato, con l’aspettativa di un eventuale cambiamento. Questo cambiamento deve avvenire nel presente (Mattaini, 1997). Uno degli scopi dell’ACT è quello di raggiungere una flessibilità psicologica, per stimolare il soggetto a vivere il presente, modulando i comportamenti secondo la situazione che si sta vivendo (Masuda e Tully, 2012).

Gli autori descrivono anche l’intervento Mindfulness, che attraverso un’apertura all’esperienza e al riconoscimento dei propri sentimenti, e una maggiore conoscenza dei contenuti a livello cognitivo che garantisca una possibilità di cambiamento delle cognizioni disfunzionali, mira a rendere i pazienti consapevoli e capaci di accettare la realtà, permettendo loro di tollerare meglio le situazioni stressanti.

Spunto originale è il capitolo dedicato al ruolo della riabilitazione psichiatrica (tuttora sperimentale), che si prospetta utile considerando che la terapia può durare molti anni (Braun, 1986; Cohen et al., 1991) e gli interventi effettuati possono essere necessari per mantenere o sviluppare competenze funzionali o per facilitare l’integrazione dei traumi passati con la vita presente. Gli interventi riabilitativi, affiancati alla psicoterapia, aumentano il senso di benessere del paziente, permettendo l’emergere spontaneo delle differenti identità.

E’ fondamentale però che tali interventi avvengano in equipe, in modo tale che il riabilitatore sui supervisionato da un possibile coinvolgimento eccessivo nei confronti di un paziente con una diagnosi così affascinante. Tra i possibili interventi del riabilitatore psichiatrico vengono descritte le attività espressive (disegno, produzione musicale, movimento), l’arteterapia (un buono strumento per promuovere la padronanza in esperienze di vita che impediscono l’indipendenza personale) e la tecnica del gioco con la sabbia. Quest’ultima è una tecnica che in origine era utilizzata solo da psicoterapeuti ad orientamento psicodinamico; oggi, invece, può essere utilizzata anche dai riabilitatori psichiatrici, con il supporto di un terapeuta.

Questa tecnica è riconducibile ai rituali primitivi, in cui erano disegnati nella sabbia dei cerchi a scopo protettivo ed apotropaico.
Sostanzialmente gli autori offrono un testo utile per gli addetti ai lavori, evidenziando nozioni e spunti applicativi interessanti sul Disturbo dissociativo di identità, disturbo molto complesso il cui trattamento risulta essere molto impegnativo: [blockquote style=”1″]Il paziente ha la necessità di vedersi come “intero” e non come uno specchio rotto, in cui la sua immagine riflessa risulta come sconnessa. Per farlo deve scoprire cosa è accaduto, chi e che cosa hanno ridotto quello specchio in più pezzi. Non è in grado di farlo da solo, a causa delle amnesie e deve essere aiutato da persone competenti, che riescono ad ottenere la sua fiducia.[/blockquote]

 

Il modello psicodinamico della bulimia – Magrezza non è bellezza Nr. 25

Modello psicodinamico della bulimia: E’ possibile concepire il disturbo alimentare come un implacabile attacco sadico verso il proprio corpo. Per i soggetti affetti da questo disturbo il corpo rappresenta il conflitto con la madre, con la propria femminilità, e con la sessualità (Kernberg, 1994).

 

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Il modello psicodinamico della bulimia (Nr. 25)

Il modello psicodinamico della bulimia

Il modello psicodinamico della bulimia concepisce il disturbo come la rimozione di un disturbo narcisistico di personalità. Le grandiosità narcisistiche infantili derivano da una serie di delusioni vissute come traumatiche, celate dietro l’idealizzazione di altri oggetti e persone. Questa condizione fa sì che si proiettino su altri le proprie paure, le quali riflettono parti temute di se stessi (Masterson, 1976). Sugarman e Kurash (1982) individuano nelle pazienti anoressiche un distanziamento tra le funzioni dell’ego e la costanza dell’oggetto: se separate dal rapporto simbiotico con la madre, sono incapaci di evocare automaticamente una rappresentazione della madre integra e diventare indipendenti. Il corpo della bulimica è il veicolo per comunicare con il resto del mondo, e i sintomi bulimici sono l’espressione di conflitti inconsci. Il corpo di queste pazienti non è integrato nel proprio essere.

In generale, è possibile concepire il disturbo alimentare come un implacabile attacco sadico verso il proprio corpo. Per i soggetti affetti da questo disturbo il corpo rappresenta il conflitto con la madre, con la propria femminilità, e con la sessualità (Kernberg, 1994).

Gli aspetti caratteristici dei pazienti bulimici

Tre sono gli aspetti fondamentali osservabili nei soggetti bulimici:

1) Una struttura psicopatologica specifica, derivante dalla scissione psichica disuguale, per cui buona parte della personalità cresce e si sviluppa adeguatamente, mentre l’altra parte funziona manipolando il cibo e danneggiando il corpo, a volte anche fino alla morte, e la realtà che riguarda la funzione alimentare e la propria immagine corporea è spesso negata.

2) Un particolare insieme di fantasie inconsce focalizzate sul cibo, con il quale il soggetto ha un rapporto ambivalente (lo ama e lo odia, considerandolo simbolo della parte buona e cattiva della madre) che rappresenta il legame tra sé e la figura materna interiorizzata, non ancora distinta da quella paterna e caricata di tutte le proiezioni dei propri impulsi voraci, angoscianti e invidiosi. Il processo di separazione-individuazione dalla madre è rimasto incompleto tanto che queste persone, coi loro sintomi, manifestano la difficoltà e l’ambivalenza tra il voler diventare “adulte”, superando la dipendenza, e il voler restare nell’illusoria protezione della relazione primaria onnipotente. L’angoscia fisiologica scatenata dalla crescita si rifugia nella regressione all’oralità (cristallizzazione alla fase orale). Così il cibo, desiderato, rifiutato, vomitato, idealizzato, diviene il segno del conflitto tra l’illusione di essere padroni di se stessi e la dipendenza patologica.

3) Una storia familiare patogena. La madre in particolare, anch’essa intrappolata nella relazione simbiotica con la figlia, risponde sin dai primissimi momenti di vita di quest’ultima ad ogni tipo di bisogno e di domanda con il cibo. Il padre, invece, è generalmente una figura assente e periferica.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

 

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