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Relazione madre-figlio: l’interdipendenza nel legame d’attaccamento

Ricerche hanno dimostrato che i più piccoli hanno un ruolo attivo nella relazione madre-figlio grazie ad una dotazione genica, ovvero a schemi di comportamento innati, efficaci sin dalla nascita a promuovere vicinanza e contatto con la madre. Data questa osservazione, l’ attaccamento può essere considerato come una motivazione primaria del bambino.

Sara Bocazza – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Bolzano

 

Madre e bambino hanno entrambi un ruolo attivo nell’instaurare una relazione: essi sono alla costante ricerca di interazione, in particolar modo nelle prime fasi di sviluppo. Tale interazione è molto importante, in quanto influenza lo sviluppo emotivo, cognitivo e la personalità adulta dell’infante.

Come ogni altro tipo di interazione, le distinte attività dei partecipanti devono coordinarsi tra di loro, ed è quindi necessario il contributo di entrambi per la buona realizzazione della stessa. Contrariamente a quanto si potrebbe comunemente pensare, anche il neonato fin dalla nascita non dipende completamente dalla madre, ma ha un ruolo attivo nell’intraprendere e mantenere la relazione madre-figlio.

Vedremo in questo articolo come recenti studi abbiano dimostrato la presenza di meccanismi fisiologici innati, biologicamente basati e reciproci che si attivano in maniera automatica nella madre, che risponde ai segnali del piccolo ma anche nel bambino che richiama la sua attenzione e vicinanza.

In particolare, dopo una breve introduzione sul tema dell’attaccamento madre-bambino e le relative teorie si parlerà di allattamento, Transport Response e del pianto, in quanto essi mettono in evidenza il ruolo attivo di entrambe le parti della diade.

 

 

Introduzione: l’ attaccamento e le teorie dell’ attaccamento

Uno dei principali oggetti di studio della psicologia dello sviluppo è la capacità di creare relazioni e, il focus principale riguarda il primo legame affettivo del bambino ossia quello con la propria madre.

La relazione madre-figlio è essenziale dal punto di vista evolutivo in quanto salvaguarda la sopravvivenza del cucciolo e la conservazione della specie in generale per tutta la categoria dei mammiferi, ed è inoltre necessaria all’individuo umano, in quanto struttura un pattern di relazione sociale che potrà essere adattato nelle fasi successive dello sviluppo all’interazione con gli altri membri della stessa specie.

L’autore che maggiormente si è occupato della relazione madre-figlio è stato J. Bowlby (1969,1973,1980) nonché il padre fondatore della teoria dell’attaccamento, il quale definì scientificamente con il termine di attaccamento il legame, emotivamente significativo per entrambe le parti della diade e di lunga durata, che si instaura tra un bambino e la propria madre sulla base di scambi interattivi reciproci, costituito da un insieme di comportamenti mirati a mantenere la prossimità verso una persona specifica che viene riconosciuta in grado di gestire adeguatamente la situazione in atto.

L’attaccamento possiede la caratteristica di essere selettivo, implica la ricerca di vicinanza con l’oggetto di attaccamento, fornisce benessere e sicurezza come risultato della vicinanza con l’oggetto di attaccamento e quando il legame viene interrotto e la prossimità non può essere raggiunta, si produce uno stato di angoscia da separazione. Inoltre, fornisce una base sicura dalla quale il bambino può allontanarsi per esplorare il mondo e farvi ritorno.

Il termine attaccamento viene distinto da Bowlby (1988) da quello di comportamento di attaccamento: l’autore sosteneva che, l’avere un attaccamento significa essere fortemente portati a ricercare la vicinanza con qualcuno, soprattutto in situazioni specifiche e che tale disposizione è un attributo della persona, che cambia solo lentamente nel tempo e non è influenzato dalla situazione momentanea, mentre, con comportamento di attaccamento, si intendono tutte quelle forme di comportamento che una persona mette in atto per ottenere la prossimità che desidera.

Il comportamento di attaccamento è mediato, in base all’età, da diversi apparati: percettivo (orientamento visivo), efferente e di segnalazione (ad esempio il pianto).

Malgrado la formazione psicoanalitica di Bowlby, la sua teoria si discosta dalla psicoanalisi, la quale offriva due diverse descrizioni della relazione madre-figlio, ovvero il modello pulsionale di Freud e la teoria di M. Klein. Brevemente, secondo la teoria di Freud chiamata teoria dell’amore interessato, di tipo pulsionale, la relazione madre-figlio è vista come libido o energia fisica: il bambino si “attacca” alla madre in quanto essa, avendo la funzione di nutrice, gratifica i suoi bisogni orali. Se essa è assente, la tensione del bambino incrementa in quanto la libido non viene scaricata e il bambino la percepisce come angoscia (Freud, 1938).

Nella teoria Kleiniana, le pulsioni di cui Freud parlava, appaiono legate indissolubilmente a un oggetto: secondo l’autrice il primo oggetto con cui il bambino instaura una relazione è il seno materno, che il bambino può idealizzare attribuendo allo stesso piacere e amore (seno buono) oppure trasformarlo in un oggetto che porta dolore o angoscia (seno cattivo) in funzione del comportamento dell’oggetto verso il bambino.

In base a quanto vengono soddisfatti i suoi bisogni, il bambino potrà stabilire buoni rapporti con la madre mentre, la presenza di frustrazioni orali farà percepire il rapporto come negativo (M. Klein, 1932).

Ricerche successive hanno però dimostrato che il bambino ha un ruolo attivo nell’instaurare una relazione grazie ad una dotazione genica, ovvero a schemi di comportamento innati, efficaci sin dalla nascita a promuovere vicinanza e contatto con la madre. Data questa osservazione, l’attaccamento può essere considerato come una motivazione primaria del bambino, nonché un suo bisogno primario e non più una conseguenza del soddisfacimento di bisogni alimentari o fisici (Lis et al., 1999).

L’importanza di altre variabili quali la vicinanza e il contatto fisico con la madre, a scapito della soddisfazione dei bisogni primari come ad esempio la fame è stata proposta da Bowlby grazie agli studi di altri due importanti studiosi: l’etologo Konrad Lorenz e lo psicologo Harry Harlow. Lorenz (1935), con la scoperta del fenomeno dell’imprinting nei pulcini, ha dimostrato come i piccoli tendono a mantenere un contatto visivo e uditivo con il primo oggetto cospicuo con cui fanno esperienza subito dopo la schiusa dalle uova (solitamente la madre) a prescindere dal bisogno di nutrizione: ciò è dimostrato sia dal fatto che queste specie di animali sono in grado di cibarsi autonomamente sin dalla nascita sia perché il comportamento si manifesta indipendentemente anche da qualunque altro tipo di ricompensa convenzionale (Bowlby, 1989). Harlow (1958), grazie agli studi sulle scimmie Rhesus, ha dimostrato come i piccoli passassero più tempo in corrispondenza di una madre calda e morbida ma che non fornisce cibo, rispetto a una madre fredda e metallica che invece lo fornisce.

Sia dagli esperimenti di Lorenz che da quelli di Harlow, emerge quindi che, altre due necessità, anch’esse geneticamente programmate così come lo è il bisogno di nutrimento, spingono il cucciolo a ricercare ininterrottamente la vicinanza e il contatto fisico con la figura di attaccamento primario: il bisogno di protezione dai predatori e dai pericoli esterni con lo scopo di garantire il benessere e la sopravvivenza della specie e la sicurezza, rispettivamente funzione biologica e psicologica dell’attaccamento.

 

 

La relazione madre-figlio negli esseri umani

Nella specie umana, i bambini nascono in uno stadio di sviluppo meno avanzato rispetto ad altri animali, pertanto nei primissimi mesi, sono le madri a contribuire notevolmente a far sì che i piccoli rimangano vicini: siccome appunto il piccolo non è in grado di aggrapparsi, esse lo sorreggono offrendo in questo modo un contatto fisico, che fornisce a sua volta calore e affetto. Numerosi studi hanno evidenziato che questo contatto fisico (carezze, abbracci ect.) contribuisce, sin dalla nascita, allo sviluppo di attività come la respirazione, la vigilanza, le difese immunitarie, la socievolezza e il senso di sicurezza essenziali per un regolare sviluppo sessuale oltre che per la salute mentale del piccolo (Anzieu, 1985). Altro effetto sul funzionamento corporeo della relazione madre-figlio, dovuto al contatto fisico, è l’aspetto di termoregolazione: una madre riesce a mantenere la temperatura corporea del suo piccolo al pari di apparecchi da riscaldamento altamente tecnologici, nel momento in cui il figlio nudo ed asciutto viene posizionato pelle a pelle sul suo petto (Christensson, 1992).

Per quanto riguarda il bambino, seppur non abbia la capacità motoria di avvicinarsi alla madre o mantenersi presso di essa, viene al mondo dotato di numerosi strumenti che, fin dalla nascita, hanno la funzione di mostrare certi segnali differenziati che inducono in modo peculiare particolari tipi di risposta da parte di chi li cura: i più evidenti sono il pianto e il sorriso (Schaffer, 1998). Queste due forme di comportamento, che hanno l’effetto di far avvicinare la madre al bambino, vengono raggruppate da Bowlby, nella classe dei “comportamenti di segnalazione” in cui possiamo trovare anche altri comportamenti quali il richiamo e tutti i gesti classificabili come segnali sociali.

Tutti questi comportamenti vengono emessi dal bambino in circostanze diverse: il pianto può essere suscitato da svariate condizioni, quali ad esempio la fame, il dolore e la separazione dalla madre. Il sorriso, come anche la lallazione, si manifesta invece in situazioni diverse, ossia quando il bambino è contento, non ha fame né prova dolore. Nonostante il sorriso non susciti nella madre l’azione del proteggere, nutrire o confortare, esso fa comunque sì che ella risponda, parlando al bambino accarezzandolo o prendendolo in braccio, garantendo dunque stabilità alla relazione madre-figlio. Il sorriso funge anche da rinforzo per la madre in quanto tende a far aumentare la probabilità che in futuro ella risponda ai segnali del proprio bambino in modo pronto e tale da favorire la sua sopravvivenza. L’altra classe di comportamenti individuata da Bowlby è quella dei ‘comportamenti di accostamento’, in cui rientrano l’aggrapparsi, il seguire e il raggiungere il genitore che hanno la funzione di avvicinare il bambino alla madre. Tali comportamenti tuttavia possono essere effettuati dal bambino solamente una volta che egli ha raggiunto un certo livello di sviluppo motorio.

Come abbiamo appena potuto notare quindi, entrambe le parti della diade nella relazione madre-figlio svolgono ruoli attivi nell’ambito della loro relazione. Studi recenti, hanno dimostrato la presenza di determinati meccanismi fisiologici che permettono al bambino di richiamare, in maniera quasi automatica, l’attenzione della madre (o caregiver) che a sua volta ha meccanismi fisiologici per cui, sempre automaticamente, le consentono di rispondere ai richiami e ai segnali del bambino.

È molto interessante notare, che oltre a basarsi su meccanismi fisiologici attivi sia nella madre che nel bambino l’evoluzione ci ha modellato in maniera che tali meccanismi si reciprochino a vicenda e, esempi di ciò sono: l’allattamento, il Transport Response e il pianto.

 

Relazione madre-figlio nell’allattamento

Il bisogno di nutrizione è un bisogno primario per tutti gli esseri viventi. L’evoluzione dei mammiferi ha dotato le madri, e solo queste, del meccanismo fisiologico che permette loro di produrre il latte (il quale si adatta perfettamente alle esigenze nutritive del piccolo) e fornire le risorse necessarie al proprio bambino (Mogi, 2010).

Anche il bambino però viene al mondo dotato del meccanismo reciproco che gli consente di nutrirsi del latte materno, alimento specie-specifico (American Academy of Pediatrics, 2005) che soddisfa completamente i suoi bisogni nutrizionali nei primi sei mesi di vita, favorisce un corretto sviluppo delle strutture facciali e dei denti (Devis et al., 1991), lo protegge da infezioni e allergie (Garofalo, 1999) nutrendo, oltre al corpo, anche la psiche, facendo così nascere il bisogno di relazionarsi con la madre (Buchal, 2011) e permettendo l’instaurarsi di una profonda regolazione emotiva di soddisfazione tra madre e bambino (Casacchia, 2012).

L’allattamento si basa principalmente su due riflessi: uno del bambino, la suzione, e uno della madre, quello di produrre il latte; questi due riflessi, apparentemente semplici, messi assieme fanno un comportamento altamente specifico, altamente complesso ma soprattutto altamente funzionale al bisogno del bambino e alla relazione madre-figlio. Il seno della madre si modella già a partire dalla gravidanza e la produzione di latte comincia a partire dal parto.

Questo processo è regolato anche a livello ormonale: dopo il parto, c’è un’impennata dei livelli di prolattina (l’ormone che regola la produzione di latte), il cui rilascio, dalla parte anteriore dell’ipofisi è causato dalla suzione del bambino. L’emissione di latte è invece dovuta a un altro ormone, l’ossitocina, il cui rilascio, dalla parte posteriore dell’ipofisi (Mogi, 2011) può essere provocato sia dalla suzione del bambino che dalla semplice vista o pensiero del piccolo da parte della madre (Jerris, 1993). L’allattamento, offre molti vantaggi a entrambe le parti coinvolte: considerando solo quelli psicologici, possiamo notare che: riguardo al bambino, è stato dimostrato da studi recenti che esiste una correlazione positiva tra le variabili allattamento al seno e quoziente intellettivo (QI) del bambino mentre altri studi di tipo osservazionale, confermando tali risultati, mostrano come bambini allattati al seno rispetto bambini allattati artificialmente abbiano un miglior sviluppo neurocognitivo; riguardo alla madre il vantaggio è quello per cui l’allattamento le permette di aumentare l’ empowerment  e la fiducia in sé stesse oltre ad essere l’antagonista della depressione port-partum (Bisceglia et al., 2010); vantaggio per entrambi è il rinforzarsi del loro legame e lo stabilire un vincolo affettivo importante per tutta la vita.

 

 

Il Transport Response

Il Transport Response (TR), studiato attraverso tecniche comparative tra specie diverse, riguarda la capacità del bambino (o cucciolo animale) di adattarsi al trasporto materno. Questo fenomeno è stato osservato inizialmente da Eibl-Eibesfeldt nel 1951, quando notò che prendendo un topino con un dito nella parte dorso-laterale del corpo esso assumeva una specifica postura, caratterizzata da estensione e adduzione di entrambe le zampe anteriori verso il corpo e una flessione delle zampe posteriori e della coda verso il corpo. Il topo, durante la presa, rimaneva inoltre fermo e passivo. Questa regolazione posturale venne studiata sperimentalmente in laboratorio con il nome di Transport Response da Brewster e Leon (1980).

Questi autori confermarono che il topo assumeva la specifica posizione compatta sopra descritta e ne studiarono il valore ecologico. Il Transport Response si verifica in una precisa finestra temporale: finché il topino è piccolo, la madre lo può afferrare ovunque per spostarsi da un posto all’altro ed egli può permettersi di muoversi anche durante il trasporto. Tuttavia, dall’ottavo/nono giorno, il cucciolo inizia a divenire pesante e siccome ancora cieco, deve affidarsi completamente alla madre e facilitarla nel trasporto restando fermo. La sua risposta, automatica, è elicitata dalla madre, la quale lo afferra con i denti proprio nella zona dorso-laterale. Gli autori notarono infatti che, il gruppo di topini a cui era stata anestetizzata questa parte non erano in grado di esibire il Transport Response e ciò si rivelava pericoloso, in quanto se il cucciolo era abbastanza grande e pesante la madre si trovava in difficoltà, rallentando, inciampando spesso nel piccolo e rischiando di cadervici sopra o ferirlo.

Il Transport Response, diminuisce gradualmente per estinguersi poi del tutto al diciottesimo giorno, quando il cucciolo è indipendente. Tale risposta è quindi messa in atto dal cucciolo nel periodo in cui è abbastanza pesante ma non ha la motricità sufficiente per muoversi autonomamente. Il significato funzionale di questo comportamento è quello di facilitare la madre nel trasporto e garantirsi una maggior probabilità di sopravvivenza.

Anche nell’uomo è possibile trovare il Transport Response: allo stesso modo in cui il riflesso di suzione reciproca il riflesso della madre di produzione del latte nel corso dell’allattamento, nel Transport Response, il trasporto della madre (che può avvenire per esempio quando il bambino piange e la madre automaticamente lo prende in braccio e cammina), è reciprocato dalla risposta del bambino. Già a partire dalla presa in braccio, sia la madre che il bambino mettono appunto automaticamente una serie di aggiustamenti posturali che gli permettono maggiore confort: la madre solitamente poggia il bambino sull’anca, così che il peso di quest’ultimo viene distribuito su avambraccio e anca; il bambino a sua volta, quando viene sollevato flette e divarica le gambe (Kirkilionis,1992;1997). Tale posizione del piccolo sul fianco della madre è anche benefica per lo sviluppo dell’anca (Kirkilionis, 2001).

Altra risposta del bambino, che si verifica una volta che egli si trova in braccio alla madre che cammina, è quella di smettere di piangere, almeno nella maggior parte dei casi, riuscendo addirittura ad addormentarsi. Gli effetti calmanti sul bambino dovuti all’essere preso in braccio sono una questione nota agli adulti di tutte le culture, ma attualmente ne sono stati studiati anche i meccanismi fisiologici e neuronali che stanno alla base del fenomeno: nell’esperimento di Esposito et al. (2013) è stato dimostrato come il battito cardiaco del bambino che piangeva diminuiva improvvisamente nel momento in cui la madre si alzava tenendolo in braccio per cominciare a camminare. Quando la madre tornava a sedersi, il battito cardiaco tornava a crescere nuovamente e ricomparivano inoltre i movimenti volontari e il pianto. Questo pattern di comportamento è visibile fino ai sei/sette mesi, in quanto dopo tale periodo il bambino non ha più bisogno di una stimolazione motoria e vestibolare per calmarsi bensì di una stimolazione sociale.

Gli autori notarono inoltre che, nel caso il bambino in braccio durante il trasporto continuasse a piangere, il battito cardiaco diminuiva. Inoltre, analizzando le componenti acustiche del loro pianto si scoprì anche che la frequenza fondamentale del pianto diminuiva. La frequenza fondamentale è un indicatore che più è alto, più acuto e disagevole risulta essere il pianto. Questo studio è riuscito così a dimostrare, per la prima volta, che il tranquillizzarsi del bambino in risposta al trasporto materno è un set coordinato di regolazioni di tipo centrale, motorio e cardiaco ed è una componente che si è conservata nella relazione madre-figlio di tutti i mammiferi. Il significato funzionale di questa risposta cooperativa del piccolo umano (e non) è sempre quello di garantirsi maggior sopravvivenza.

Altro comportamento, che si reciproca nella relazione madre-figlio, anch’esso importante evolutivamente parlando, come lo sono gli altri due di cui abbiamo discusso sopra, necessario, a garantire protezione e benessere al bambino, è il pianto.

 

Relazione madre-figlio: il ruolo del pianto

Il pianto del bambino è il primo canale comunicativo che il bambino ha a disposizione alla nascita, per segnalare i propri bisogni e comunicare con l’ambiente esterno (Esposito e Venuti, 2009). Esso è un comportamento sociale con un importante ruolo nello sviluppo del bambino, guidato da fattori geneticamente predeterminati in grado di elicitare reazioni fisiologiche negli adulti quali ad esempio un incremento del battito cardiaco (Huffman et al., 1998) e risposte endocrine (Fleming et. al., 2005).

Un episodio di pianto è uno stimolo in grado di attivare il Sistema Nervoso Centrale sia del bambino che lo produce, sia dell’ascoltatore, creando uno stato di attenzione reciproca (Esposito e Venuti, 2009). Inoltre, rappresenta una ‘sirena biologica’ che, operando in larga misura come un rinforzo negativo (Barr et al.,2006; Soltis, 2004), riesce a modificare e attivare lo stato funzionale dei genitori, promuovendo prossimità e contatto con essi e in particolar modo con la madre, attivando il suo comportamento (Bell and Ainsworth, 1972) e motivandola a rispondere prontamente e in maniera adeguata nutrendo il piccolo, proteggendolo o confortandolo (Venuti e Esposito, 2007).

Il pianto si è evoluto per comunicare ai genitori un bisogno imminente e, per garantire che sia esattamente quel bisogno ad essere soddisfatto, a seconda della causa il bambino modula, in maniera istintiva, l’emissione di differenti tipologie di pianto. Ciò che cambia tra un tipo di pianto e l’altro è la frequenza fondamentale (vibrazione percepita come picco del pianto), il ritmo e la sua evoluzione temporale all’interno dello stesso episodio di pianto.

Alcuni esempi dei diversi tipi di pianto che sono stati individuati sono:

  • Il pianto di fame, caratterizzato da una frequenza fondamentale non molto alta, inizio lento e tono sommesso e aritmico ma che col passare del tempo diviene più intenso e ritmato;
  • Il pianto di dolore: caratterizzato da un andamento aritmico e da una forte intensità sin da subito; il bambino emette un vero e proprio grido iniziale improvviso, intenso e prolungato, che viene seguito da un periodo di silenzio dovuto all’apnea; successivamente a questa, brevi inspirazioni affannose, si alternano ad acuti singhiozzi espiratori;
  • Il pianto di sonno: caratterizzato da un iniziale piagnucolio lamentoso, piuttosto che un vero e proprio pianto, che si protrae, sempre più insistentemente, intensificando il timbro;
  • Il pianto di noia: caratterizzato da un piagnucolio iniziale intermittente che sembra non cessare.

Appena nato, tuttavia, un bambino non ha la consapevolezza che quando piange la madre accorre a lui ma col passare del tempo egli apprende questa causa-effetto e, in particolar modo tra gli otto e dodici mesi, diverrà abile e scoprirà quali sono le condizioni che pongono fine ai suoi disagi e che lo fanno sentire sicuro: egli inizierà quindi ad apprezzare il valore comunicativo del pianto e a utilizzarlo intenzionalmente, facendolo quindi diventare un pianto consapevole. Si verrà quindi ad aggiungere, con l’età, un’altra causa oltre a quelle sopra citate, in grado di scatenare il pianto: l’allontanamento o la separazione dalla madre. In questo contesto l’intensità del pianto, o meglio della protesta, può essere influenzata da come la madre si muove: se in modo lento e tranquillo sarà più lieve rispetto a quando si allontana improvvisamente e/o rumorosamente. Importante, inoltre, il grado di familiarità dell’ambiente in cui il bambino viene lasciato: se l’ambiente non è famigliare il bambino molto più probabilmente piangerà e se ne è in grado cercherà di seguire la madre.

Il pianto di un bambino è uno stimolo che solitamente non viene ben accolto dalle persone che lo odono; per tale ragione esse tendono a fare del loro meglio non solo per porvi fine, ma anche per diminuire la probabilità del suo manifestarsi.

La presa in braccio, che è la risposta iniziale più frequente al pianto, indipendentemente dalla cultura e anche dallo stato parentale, offre oltre alla stimolazione vestibolare, anche contatto fisico e calore ed è la più efficace per porre termine al pianto. Uno studio longitudinale di Bell e Ainsworth (1972) ha dimostrato che la prontezza di risposta del caregiver promuovono un comportamento desiderabile nel bambino alla fine del primo anno, dove frequenza e durata del pianto saranno inferiori. Una madre sensibile sarebbe in grado di ridurre temporaneamente il pianto in termini di durata fornendo anche le condizioni che tendono a prevenire l’attivazione o riattivazione del pianto, non solo nei primi mesi ma anche successivamente.

Le autrici affermano inoltre che la responsività materna promuove lo sviluppo della comunicazione: i bambini che piangono meno all’età di un anno, appunto grazie alla sensibilità delle loro madri, avevano maggiore probabilità di sviluppare altre strategie comunicative, quali ad esempio le espressioni facciali, gesti corporei e vocalizzazioni rispetto a quelli che piangevano di più. Anche altri autori, concordano con questo e aggiungono che la reattività di un caregiver, svolge un ruolo importante nello sviluppo della personalità, temperamento e capacità cognitive e linguistiche del bambino (Esposito e Venuti, 2009).

E’ stato dimostrato che la risposta materna si attiva in maniera automatica e, per tale ragione, è inoltre possibile ipotizzare che l’evoluzione abbia permesso di sviluppare nelle donne, in particolare quelle in età fertile, particolari meccanismi fisiologici per percepire e rispondere appropriatamente al pianto.

Studi recenti che utilizzano diverse tecniche di neuroimmagine quali MRI e fMRI, hanno infatti riscontrato cambiamenti neurobiologici dovuti allo stato parentale quali ad esempio un ingrossamento del volume della materia grigia regionale (Kim et al., 2011) e incrementi in altre regioni implicate nel comportamento parentale materno (es. corteccia cingolata anteriore, insula anteriore, corteccia frontale inferiore e parietale, implicate nell’empatia; ipotalamo e sostanza nigra, implicati nella motivazione e soddisfazione materna; amigdala, importante per la rilevazione degli elementi salienti e corteccia prefrontale, implicata nella regolazione delle emozioni e nella pianificazione).

Oltre a questi cambiamenti, vari studi hanno confermato la presenza di specifiche attivazioni cerebrali durante gli episodi di pianto: Seifritz et al.(2003) per esempio, confrontando la riposta di genitori e non al pianto e alla risata di un bambino, ha mostrato come le donne, a differenza degli uomini mostrino una maggiore deattivazione della corteccia cingolata anteriore durante l’ascolto di episodi di pianto e di riso. Sono state trovate inoltre differenze significative dovute allo stato parentale per le due diverse situazioni: sebbene le aree che si attivavano, ossia amigdala e regioni limbiche adiacenti ad essa, erano le stesse, i genitori mostravano maggiori attivazioni nella situazione di pianto, mentre i non genitori mostravano maggiori attivazioni nella situazione di riso. I genitori sono quindi più attenti agli stimoli, quali il pianto, che richiedono una risposta immediata. Questo risultato è spiegabile dal punto di vista evolutivo: essi devono essere pronti a intervenire nelle situazioni di allarme e disagio del proprio bambino, al fine di garantire protezione della prole e a sua volta la sopravvivenza della specie.

Guardando gli studi nell’insieme, sembra che il pianto attivi aree associate con la cura parentale, l’elaborazione di stimolazioni avversive e allarmanti e con l’empatia. Riguardo in particolare all’empatia materna, fondamentale per la cura parentale (Bowlby, 1969) e per la relazione madre-figlio, è stato suggerito che possa dipendere principalmente da quattro sistemi neurali differenti che vengono appunto tutti stimolati dall’ascolto del pianto o anche dalla visione di immagini del proprio figlio (Rilling, 2013). Tali sistemi sono:

  1. Il circuito cingolato del talamo, che può fungere da sistema neurale di allarme in risposta a una condizione di pericolo del bambino;
  2. L’ insula anteriore, che potrebbe aiutare la madre a simulare e capire gli stati interni del bambino;
  3. Il sistema dei neuroni specchio (composto da solco temporale superiore e corteccia parietale inferiore e frontale inferiore) che potrebbe aiutare la madre a interpretare e simulare le espressioni facciali del bambino e
  4. La corteccia prefrontale dorso mediale (DMPFC) e la giunzione temporo-parietale che permetterebbero alla madre di inferire ciò che il bambino conosce e crede.

Anche le neuroimmagini supportano quindi l’idea che il pianto sia una componete chiave del primo legame genitore-figlio e un segnale comunicativo essenziale del bambino in grado di attivare una varietà di risposte di cura negli adulti (Sroufe, 2000; Trevarthen, 2003; Tronick, 2005).

Oltre alle attivazioni cerebrali, il pianto risulta in grado di modificare il battito cardiaco come conferma ad esempio lo studio di Weisenfeld et al. (1981): l’ascolto del pianto del proprio bambino, registrato su un nastro, causa nelle madri una decelerazione cardiaca seguita da una rapida accelerazione: tale risposta è associata alla preparazione all’azione o ad intervenire.

Infine, il pianto è in grado di elicitare anche risposte endocrine: uno studio di Fleming et al.(2005), ad esempio, condotto su persone di sesso maschile ha mostrato che padri, che ascoltavano gli stimoli di pianto, mostravano un incremento percentuale maggiore nel testosterone rispetto ai padri che non ascoltavano tali stimoli. Inoltre, i padri con esperienza, ascoltando i pianti, mostravano un incremento percentuale maggiore nei livelli di prolattina rispetto ai neo-padri o a qualsiasi gruppo di padri che ascoltavano stimoli di controllo.

 

 

Conclusioni

Osservando fenomeni quali l’ allattamento, il Transport Response e il pianto, abbiamo notato come la relazione madre-figlio è interdipendente e biologicamente basata: la madre possiede meccanismi fisiologici che vengono attivati solo con il contributo del suo piccolo che, grazie ai propri meccanismi fisiologici innati agisce in maniera tale da richiamare la sua attenzione, assicurarsene la vicinanza, nonché far in modo che gli venga data una risposta pronta e adeguata alle sue esigenze garantendogli la sopravvivenza e il benessere fisico e psicologico.

Un ponte di carbonio fra tessuti nervosi – Una spugna hightech connette i neuroni in vitro (ed è biocompatibile in vivo)

Uno studio complesso, durato diversi anni e che ha visto collaborare gruppi con expertise diverse provenienti anche da campi molto lontani, ha dimostrato che un nuovo materiale (una spugna tridimensionale fatta di nanotubi di carbonio) riesce a fare da sostegno alla crescita di fibre nervose, collegando porzioni staccate di tessuto. La connessione osservata non è soltanto fisica ma anche funzionale.

 

La ricerca, coordinata dalla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste con la collaborazione dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Università di Trieste, ha inoltre verificato la biocompatibilità del materiale in vivo dimostrando che il suo impianto nel tessuto nervoso di roditori non provoca la formazione di cicatrici evidenti o l’emergere di una risposta immunitaria marcata. Lo studio pubblicato su Science Advances (una costola della prestigiosa rivista Science) dimostra che questo materiale è molto promettente nelle applicazioni biomediche e potrebbe essere valutato il suo utilizzo negli impianti nervosi permanenti.

Al microscopio ha l’aspetto di un groviglio di tubi. Pensate che inizialmente era stato studiato, dal gruppo di Maurizio De Crescenzi all’Università di Roma Tor Vergata, per ripulire il mare dagli idrocarburi sversati – spiega Laura Ballerini, professoressa della SISSA e coordinatrice dello studio appena pubblicato.

È stata l’intuizione di Maurizio Prato, spiega ancora Ballerini, a spingerli a indagare la possibilità di utilizzare questo materiale nei tessuti nervosi.

L’idea di sviluppare degli ibridi tra neuroni e nano-materiali nasce da un progetto di lunga data e dalla collaborazione tra i gruppi di Prato (Università di Trieste) e Ballerini alla SISSA.

Nella ricerca attuale Ballerini e il suo team, come prima cosa, hanno indagato la reazione del materiale con i tessuti nervosi in vitro.

 

Abbiamo usato due fettine di midollo spinale in coltura, separate da 300 micron di distanza – spiega Sadaf Usmani, studentessa di PhD della SISSA e prima autrice della ricerca – In queste condizioni, senza nulla che si frapponga fra i due campioni oltre alla soluzione di coltura, si osserva una crescita di fibre nervose che si estendono in linea retta in ogni direzione, non necessariamente verso l’altro tessuto. Se nello spazio fra i due inseriamo un pezzetto di questa spugna al carbonio invece vediamo una fittissima crescita di fibre nervose che vanno a riempire il supporto e si incontrano e intrecciano con quelle dell’altro campione.

Non basta però che ci sia un incontro fisico fra le fibre, puntualizza Denis Scaini, ricercatore dell’Università di Trieste, e fra gli autori della ricerca:

Bisogna dimostrare che esiste anche una connessione funzionale fra le due popolazioni di neuroni

In questa parte del lavoro è stato fondamentale l’apporto di Davide Zoccolan, professore della SISSA, e del suo gruppo:

Con tecniche di analisi del segnale da loro già sviluppate siamo riusciti a dimostrare due cose: che l’attività nervosa spontanea nei due campioni connessi era realmente correlata (mentre non lo era quando la spugna era assente), e che applicando un segnale elettrico a uno dei due campioni, solo quando erano presenti i nanotubi il segnale veniva registrato anche nell’altro campione.

 

 

Prove di biocompatibilità

Il risultato in vitro dunque è stato estremamente positivo. Ma a Ballerini e colleghi questo non bastava:

Per poter investire ulteriori energie e risorse su queste ricerche e le possibili applicazioni sull’essere umano è necessario testare se questo materiale viene accettato da un organismo vivente senza conseguenza negative – spiega Ballerini.

Per eseguire queste prove, il team di Ballerini ha lavorato in stretto contatto con Federica Rosselli, ricercatrice postdoc della SISSA nel gruppo di Zoccolan.

Abbiamo impiantato piccole porzioni del materiale nel tessuto nervoso di roditori sani. A distanza di 4 settimane le osservazioni mostravano che il materiale era ben tollerato, non si sono formate cicatrici evidenti, la risposta immunitaria è stata contenuta (e alcuni indicatori biologici mostrano che potrebbe avere risvolti di tipo positivo). C’è stata inoltre una progressiva invasione di neuroni all’interno della spugna e i ratti durante tutte le 4 settimane di test sono rimasti vitali e sani – racconta Usmani.

In conclusione – commenta Ballerini – gli ottimi risultati a livello strutturale e funzionale in vitro e le evidenti prove di biocompatibilità in vivo ci spingono a continuare su questa linea di ricerca. Questi materiali potrebbero essere molto utili per esempio per rivestire gli elettrodi che si usano nel trattamento di disordini motori, come tremore essenziale o Parkinson, perché ben accettati dai tessuti – gli impianti di oggi mostrano infatti un decadimento nella loro efficacia nel tempo per via della cicatrice che si forma. Speriamo inoltre di stimolare altri gruppi di ricerca, con competenze multidisciplinari, ad ampliare questo tipo di studi.

La stimolazione cerebrale: un possibile trattamento per l’anoressia

Questo studio ha l’obiettivo di determinare se la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva potrebbe essere una terapia utile per l’anoressia. Studi preliminari hanno dimostrato che la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva ha ridotto i sintomi di anoressia, sia dopo una singola sessione che dopo il trattamento ripetuto, in particolare riducendo ansia, senso di sazietà e la percezione corporea di sentirsi grassi.

L’anoressia nervosa

L’anoressia nervosa colpisce milioni di persone in tutto il mondo. Ha un alto tasso di mortalità e solo il 10-30% degli adulti con anoressia ne esce con la psicoterapia, inoltre i trattamenti farmacologici hanno una bassa efficacia. Da qui nasce l’urgenza di trattamenti più funzionali.

La ricerca ha dimostrato una serie di cambiamenti che si verificano nel cervello di pazienti con anoressia. Questi includono sia deficit strutturali che funzionali, come la perdita di materia grigia in aree che giocano un ruolo importante nella regolazione del comportamento alimentare, delle emozioni e della motivazione. Si ritiene che l’anoressia possa essere associata ad una disregolazione dei sistemi inibitori e di ricompensa che spiegherebbero i comportamenti compulsivi e ossessivi.

Una ridotta attività nella corteccia prefrontale è stata trovata in pazienti con anoressia nervosa. Questa riduzione si manifesta con scarso controllo inibitorio e spiega alcuni dei sintomi dell’anoressia, come il binge eating disorder.

La stimolazione magnetica transcranica

La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) è una tecnica di stimolazione cerebrale che utilizza impulsi magnetici per indurre correnti elettriche ed attivare zone specifiche del cervello. L’applicazione di rTMS su specifiche aree della corteccia prefrontale si è dimostrata efficace nel trattamento di alcuni disturbi psichiatrici. E’ stato anche dimostrato che la rTMS è in grado di ridurre efficacemente il desiderio di cibo e il binge eating nei pazienti con bulimia nervosa.

La stimolazione transcranica per il trattamento dell’anoressia

Dati questi presupposti, la rTMS potrebbe dimostrarsi efficace nel trattamento dell’anoressia. Questo studio ha l’obiettivo di determinare se la rTMS potrebbe essere una terapia utile per l’anoressia. Studi preliminari hanno dimostrato che la rTMS ha ridotto i sintomi di anoressia, sia dopo una singola sessione che dopo il trattamento ripetuto, in particolare riducendo ansia, senso di sazietà e la percezione corporea di sentirsi grassi.

Per testare l’efficacia della rTMS, 60 pazienti con anoressia sono stati sottoposti a una sessione di rTMS; il loro comportamento alimentare e decisionale è stato testato prima e dopo il trattamento. I partecipanti guardavano video di persone che mangiavano cibo invitante e allo stesso tempo tali cibi erano a loro disposizione; i pazienti dovevano poi votare la loro voglia di mangiare quei cibi. Per la valutazione decisionale, i partecipanti dovevano scegliere tra piccoli importi di denaro immediatamente disponibili e importi maggiori disponibili in momenti successivi.

I risultati sono stati promettenti: una sessione di rTMS ha ridotto il bisogno di evitare l’assunzione di cibo, il senso di sazietà, la percezione di sentirsi grasse e le decisioni impulsive. Questi risultati dimostrano che questa tecnica di stimolazione cerebrale potrebbe ridurre i sintomi dell’anoressia, migliorando il controllo cognitivo degli aspetti compulsivi.

Conclusioni

Ulteriori studi clinici sono ancora necessari prima che la rTMS possa essere applicata regolarmente ai pazienti anoressici, ma questa è un’indicazione importante delle potenzialità delle tecniche di neurostimolazione nella terapia psichiatrica. La rTMS è una metodologia terapeutica non invasiva, sicura e ben tollerata.

Anche se i cambiamenti indotti da TMS sono temporanei , essi sono importanti perché dimostrano che i sintomi e le capacità decisionali connessi con l’anoressia possono essere migliorati con una sola sessione di rTMS. E ‘possibile che più sessioni di rTMS diano risultati ancora migliori, rendendola una valida tecnica di trattamento per l’anoressia.

 

Jackson Pollock, il genio del dripping: tra eccessi e psicoanalisi

Jackson Pollock, che è stato uno dei maggiori esponenti della cosiddetta action painting (pittura d’azione), era solito lanciare i colori sulle tele, dipingeva, cioè, facendo colare dall’alto vernici e colori su superfici pittoriche di grandi dimensioni attraverso la tecnica del dripping. Artista geniale ed irrequieto.

 

In ambito artistico, con il termine dripping (che deriva dal verbo inglese to drip, cioè colare, sgocciolare) si indica una tecnica pittorica che consiste nel versare o gocciolare i colori direttamente dal tubo o dal barattolo su una tela disposta per terra.  Il primo ad aver sperimentato il dripping fu l’artista belga Max Ernst (1891-1976) anche se fu l’americano Jackson Pollock (1912-1956) a mettere a punto questa tecnica.

Jackson Pollock, che è stato uno dei maggiori esponenti della cosiddetta action painting (pittura d’azione), era solito lanciare i colori sulle tele, dipingeva, cioè, facendo colare dall’alto vernici e colori su superfici pittoriche di grandi dimensioni attraverso la tecnica del dripping. Artista geniale ed irrequieto, Pollock non riusciva a stare fermo davanti al cavalletto e con la tavolozza in mano:

Sul pavimento sono a mio agio – affermò l’artista americano mentre lavorava a ‘One: Number 21’ – così mi sento più vicino al dipinto, lo posso attraversare, mi ci posso avvicinare da tutti i lati ed entrarci dentro, letteralmente.

Pollock eseguiva la colatura del colore con gesti coreografici, a tratti violenti che gli valsero l’appellativo di Jack the Dripper, con chiaro riferimento al ben più violento Jack the Ripper (lo squartatore). I lavori di Pollock sono tracce istantanee delle azioni e dei movimenti che l’artista compiva mentre creava, della sua interiorità, della sua personalità tormentata.

La sua vita fu breve e segnata da eventi drammatici: partiamo dalla fine: era l’11 agosto 1956 quando Jackson Pollock moriva in un incidente stradale, ubriaco al volante della sua auto, in compagnia di due donne. Basta partire dalla fine per capire che l’artista americano aveva vissuto all’insegna di eccessi e sregolatezza, tra problemi psichici ed alcolismo. Aveva un carattere difficile, eredità di un’infanzia complessa: suo padre non aveva un impiego fisso e si spostava continuamente, così Jackson ed i suoi quattro fratelli crebbero sotto la guida della madre, una donna oppressiva ed estremamente protettiva nei confronti dei figli, in particolar modo nei confronti di Jackson, che era il più piccolo. Trascorse un’adolescenza difficile, caratterizzata da violenti attacchi di collera, a causa dei quali venne espulso varie volte da scuola.

Nel 1929 si trasferì a New York con il fratello Charles, dove entrambi diventarono allievi del pittore Thomas Hart Benton (1889-1975). Benton beveva molto e Pollock lo imitò: di lì a poco, per gravi problemi di alcolismo, l’artista si sottopose a diverse sedute psicoanalitiche, venendo così a conoscenza delle dimensioni dell’inconscio che determineranno la sua svolta decisiva verso l’arte informale. La terapia psicoanalitica non riuscì a curarlo dall’alcolismo, ma lo convinse ad esprimere le sue angosce e le sue paure inconsce con una lunga serie di disegni surrealisti. La psicoanalisi avvicinò Pollock alle teorie junghiane e durante il processo terapeutico l’artista arrivò all’elaborazione di un simbolismo inconscio mediato attraverso l’influenza stilistica di Picasso (1881-1973) e di Mirò (1893-1983).

Nel 1943 Pollock conobbe Peggy Guggenheim, erede di una delle famiglie più facoltose degli Stati Uniti e nota collezionista d’arte, che l’anno successivo finanziò la sua prima personale (a cui buona parte della critica reagì positivamente) e gli aprì le porte della celebrità.

Nel 1945 Jackson sposò la pittrice Lee Krasner (1908-1984) e con lei si trasferì a vivere in una fattoria nella campagna di Long Island: il sodalizio tra i due giocherà un ruolo importantissimo nel percorso artistico ed umano di Pollock; quelli passati accanto alla moglie, infatti, furono anni di grande creatività del pittore americano. Fu la Krasner a guidare Pollock sulla strada del successo e fu lei ad aiutarlo ad uscire, almeno per un periodo, dall’abisso dell’alcolismo e della depressione. Purtroppo la sua dedizione all’alcool, seppure con periodi di salutare astensione, non venne mai meno, così come non venne mai meno lo stato d’animo della depressione che lo perseguitò per tutta la vita.

Le sue opere sono lo specchio della sua vita tormentata ed infatti emanano un’energia selvaggia ed una carica drammatica ed angosciosa, in questo senso risultano essere interessanti anche da un punto di vista dell’indagine psichica. E a proposito dell’indagine psichica che i suoi quadri rappresentano, Pollock affermò:

Tutti noi siamo influenzati da Freud, mi pare. Io sono stato a lungo junghiano…La pittura è uno stato dell’essere…La pittura è una scoperta del sé. Ogni buon artista dipinge ciò che è.

In vita, la sua sofferenza psicologica non gli regalò né serenità, né appagamento: come è capitato anche ad altri artisti, gli omaggi a Jackson Pollock sono arrivati dopo la sua morte, in particolare durante quell’asta del 2006, quando il pittore statunitense strappò il primato (che oggi spetta a Paul Gauguin) di quadro più caro del mondo a Gustav Klimt. Fu un Pollock da record: il ‘N.5, 1948’ fu venduto da Sotheby’s New York per 140 milioni di dollari (109 milioni di euro), all’epoca la cifra più alta mai pagata per un dipinto.

Somministrare antidepressivi a chi vive matrimoni insoddisfacenti?

Un nuovo studio svolto sui dati del Midwestern Medical Center dal 1980 al 2000 ha rilevato come gli psichiatri tendano a prescrivere con estrema facilità antidepressivi ai soggetti coinvolti nei cosiddetti bad marriages, ovvero quelle relazioni matrimoniali dove i partner si trovano a dover fronteggiare contesti ed interazioni stressanti e poco piacevoli.

 

Curiosamente, l’ipotesi che vede gli attori di questo tipo di relazione soffrire di depressione sarebbe poco corretta; osservando infatti i criteri che definiscono la depressione è facile capire come il quadro sintomatologico sia ben più grave rispetto a quello rilevato tra i partner dei bad marriages. Sarebbe perciò esagerato e potenzialmente rischioso intraprendere una cura farmacologica per un disturbo clinicamente sotto soglia.

L’intervallo temporale dei dati di questo studio non a caso segue il 1973, data in cui l’omosessualità è stata rimossa dal novero dei disturbi mentali. A seguito di questa decisione, infatti, è seguìto un periodo di “depatologizzazione” dell’omosessualità, che si è concretizzato nella cancellazione delle associazioni tra disturbi mentali e identità sessuale del soggetto. Per tale motivo, il team di ricerca si è chiesto se questa implicazione potesse aver influenzato le modalità di diagnosi, le aspettative e, più in generale, la pratica clinica nei confronti delle coppie eterosessuali. Nel dettaglio, il pericolo di creare una norma di benessere psicologico all’interno della relazione, condurrebbe a trattare, anche a livello farmacologico, tutti i soggetti devianti da tale standard. Questa ipotesi spiegherebbe l’incremento delle prescrizioni di antidepressivi alle coppie in difficoltà.

A cosa è dovuta la maggiore prescrizione degli antidepressivi?

Secondo i ricercatori, la maggiore facilità con la quale gli antidepressivi sono prescritti alle coppie eterosessuali in difficoltà trae origine dall’avvento del Prozac e altri SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), concomitanti ad una politica pubblicitaria sempre più aggressiva delle case farmaceutiche.

Nel tentativo di chiarire la questione, i ricercatori hanno esaminato le cartelle cliniche dei pazienti per capire se e come in questi 20 anni fosse cambiata la modalità di osservare, descrivere, diagnosticare e trattare i disturbi dello spettro depressivo.
Una volta selezionato il campione, un gruppo di valutatori ha perciò esaminato le descrizioni dei clinici contenute nelle cartelle dei pazienti e, impiegando una strategia di codifica tematica, si sono focalizzati sulle tendenze con le quali i clinici associavano i sintomi psichiatrici a caratteristiche del matrimonio, alle relazioni, alle aspettative/ruoli di genere e ad altre variabili.

Tra le tendenze riscontrate dagli psichiatri un esempio potrebbe essere quella di richiedere alle donne di parlare della propria relazione, nel tentativo di spiegare i sintomi riportati, anche quando essa non era centrale per trattare la paziente. Diversamente per gli uomini, dove lo stress era principalmente correlato al lavoro, la centralità del rapporto coniugale perdeva importanza per gli psichiatri, che si focalizzavano su ciò che riportava il paziente. L’argomento fonte di stress che però i mariti riportavano più spesso delle mogli era il sesso; nel dettaglio l’ansia relativa alle loro performances con le partner, che correlava con sintomi depressivi e ansiosi.

Conclusioni

Concludendo si è osservato come le norme relative ai ruoli di genere influenzino significativamente le deliberazioni degli psichiatri nei confronti delle modalità di trattamento, in particolare quelle relative all’assunzione di psicofarmaci. In aggiunta, si è notato come le aspettative dei clinici nei confronti delle donne e degli uomini fossero diverse: per le donne, gli psichiatri ritenevano che la fonte del loro disagio risiedesse nella relazione con il partner, anche quando non percepita come problematica principale dal paziente, per gli uomini invece gli psichiatri ritenevano che la depressione originasse dai dubbi e le insicurezze relative a performance sessuali immaginarie e aspettative (ad es., relative al proprio ruolo lavorativo o come membro della famiglia) ideali e non sempre possibili da raggiungere.

Donne in carriera: perché sono così poche?

Le origini delle differenze di genere relative all’ambito lavorativo sono da ricercare nei primissimi messaggi con cui i bambini vengono bombardati fin dai primi anni di vita. Mentre l’educazione maschile, molto spesso, tende a stimolare comportamenti che, col senno di poi, si riveleranno vincenti in ambito lavorativo (come competitività e raggiungimento di elevati livelli di prestazione), l’educazione femminile privilegia, solitamente, soprattutto i rapporti ed i legami interpersonali e le donne vengono quasi “addestrate”, fin da piccole, al ruolo di madre e moglie.

 

Introduzione

In questi anni il ruolo lavorativo della donna, anche a causa della crisi economica che ha posto la necessità di incrementare le entrate mensili della famiglia, ha acquisito un’importanza fondamentale. Eppure, nonostante questo, permane ancora l’opinione che il lavoro femminile abbia un valore minore rispetto a quello maschile e questa premessa si esprime in modo sottile ma deciso mediante la convinzione che la donna possa essere più flessibile a livello lavorativo, meno ambiziosa e che possa svolgere solo determinate professioni. Eppure secondo i dati Almalaurea e Stella le donne si laureano in tempi più brevi, con voti più alti e continuano a studiare dopo la laurea con master e specializzazioni (57-71%) mostrando quindi altissime potenzialità che potrebbero essere ben sfruttate sul posto di lavoro.

Cosa induce la scelta di percorsi professionali differenziati tra uomini e donne?

Le origini delle differenze di genere relative all’ambito lavorativo sono da ricercare nei primissimi messaggi con cui i bambini vengono bombardati fin dai primi anni di vita. Mentre l’educazione maschile, molto spesso, tende a stimolare comportamenti che, col senno di poi, si riveleranno vincenti in ambito lavorativo (come competitività e raggiungimento di elevati livelli di prestazione), l’educazione femminile privilegia, solitamente, soprattutto i rapporti ed i legami interpersonali e le donne vengono quasi “addestrate”, fin da piccole, al ruolo di madre e moglie. È forse questo il motivo per cui le donne scelgono maggiormente professioni umanistiche? Probabilmente sì, ma ci sono anche altri elementi che concorrono alla scelta di tali percorsi professionali.

Ponendo che la bambina, dopo essere stata “travolta” da messaggi sull’importanza di essere sempre gentile ed amorevole, diventi un’ adolescente ambiziosa (dal punto di vista scolastico e professionale) e giunga al liceo forte delle sue idee e della consapevolezza delle sue risorse, è comunque possibile che tali ambizioni vengano distrutte dal cosiddetto “ambiente zero” (Freeman, 1989), ovvero quel clima di discriminazione passiva che non incoraggia né demolisce la persona, ma finisce semplicemente per ignorarla. Poniamo dunque che la nostra piccola donna ambiziosa alzi la mano per esprimere la sua idea, per dare la risposta ad un quesito, oppure semplicemente per chiedere un chiarimento e venga ignorata. Quanto tempo sarà necessario perché la studentessa non alzi più quella mano? Non molto. E, se il percorso scolastico non fosse stato sufficiente a demolire le speranze della studentessa, un duro colpo verrà certamente sferrato dagli stereotipi che spesso animano il luogo di lavoro in molti settori.

Gli stereotipi sulle donne e l’impatto sulle loro scelte accademiche e lavorative

Kanter, già nel 1977, osservò la presenza, in ambito lavorativo, di quattro stereotipi sulle donne lavoratrici:
La donna madre, ricca di qualità relazionali, capace di cure amorevoli ed interessata al prossimo la quale però, invece di essere apprezzata per tali qualità, viene ad essere intrappolata in ruoli poco ambiti e sottopagati;
La donna bambina, considerata immatura ed incompetente e, dunque, meritevole di ruoli costituiti da scarsa responsabilità e di salari minori rispetto agli uomini;
La vergine di ferro, giudicata come ambiziosa, competitiva e determinata e quindi, proprio per questo, poco rappresentativa del genere femminile, ovvero una sorta di eccezione che confermerebbe la regola;
La donna oggetto, che incarna il classico stereotipo della donna come oggetto sessuale.

Dunque la sopracitata donna ambiziosa che ha studiato, che si è fatta spazio sgomitando tra gli uomini per realizzare le sue aspirazioni, giunge finalmente sul posto di lavoro e non può né sfruttare la sensibilità e le competenze relazionali intrinseche del suo essere donna, né può cercare di somigliare agli uomini. Ancora una volta la donna si ritrova intrappolata tra una serie di ruoli che non ha scelto.

Ma tutto questo cosa produce a livello pratico? Una delle conseguenze più negative è, innanzitutto, l’evitamento della matematica e delle discipline scientifiche in seguito al fatto che le donne vengono solitamente spinte verso percorsi umanistici, e finiscono per applicarsi meno, in termini di tempo, in campo scientifico. L’evitamento della matematica, per quanto possa sembrare innocuo, produce l’esclusione di un gran numero di donne da professioni scientifiche e tecnologiche, che si da il caso siano anche quelle più remunerative e con maggiore offerta di posti di lavoro.

Uno studio di Chipman e Thomas (1985) ha rilevato come, a parità di ore di lezione, non vi sarebbero differenze relative alla competenza matematica tra uomini e donne e dunque, ancora una volta, le possibili risorse della donna verrebbero stroncate sul nascere. Analizzando qualche dato emerso da un’indagine del Ministero della Pubblica Istruzione sull’anno accademico 2014/2015 è evidente che, sebbene le studentesse rappresentino circa il 56% degli studenti universitari, è possibile sottolineare una forte presenza femminile in ambito umanistico (75%) e sociale (61%) contro un misero 31% nel settore “Ingegneria e Tecnologia”.

In secondo luogo la scarsa presenza di modelli di ruolo inerenti carriere non tradizionali (donne ingegneri, fisici, presidenti) produce una percezione di tali percorsi come ancor più “impossibili”.

In terzo luogo la costante sottovalutazione delle proprie competenze genera una scarsa autostima, ridotte aspettative di successo e, dunque, una minore determinazione nell’esecuzione delle attività, correlata ad un livello di performance più basso. Infine le donne sembrerebbero dare un maggior peso, nelle decisioni lavorative e accademiche, agli aspetti relazionali, cercando continuamente un compromesso che non danneggi in alcun modo le persone a loro vicine come il partner o i figli.

Dall’altra parte gli uomini, spesso, sembrano non essere nemmeno consapevoli dell’impatto che i cambiamenti potrebbero avere sulle loro famiglie (Henton, Russel e Koval, 1983), privilegiando l’indipendenza. In particolare ci sarebbe una tendenza femminile a porre una maggiore attenzione agli aspetti relazionali e alla necessità di offrire una risposta ai bisogni altrui, basata anche sulla maggiore capacità empatica delle donne. Al contrario, gli uomini, avrebbero strutturato modelli relazionali che andrebbero a privilegiare aspetti come la reciprocità e l’equità (Lyons, 1983). Di conseguenza l’enfasi posta dal mondo occidentale sull’importanza della separazione e della totale indipendenza potrebbe semplicemente non corrispondere alla natura dell sviluppo femminile. Inoltre molti studi hanno rilevato che le scelte maschili sulla carriera sarebbero correlate soprattutto ad aspetti riguardanti il guadagno ed il prestigio atteso mentre quelle femminili si baserebbero su altri aspetti, soprattutto relazionali, come ad esempio il rapporto con i colleghi (Neil e Snizek, 1987).

Conclusioni

In conclusione è possibile affermare che le carriere femminili verrebbero “sabotate” fin dalla nascita, quasi inconsapevolmente, e che anche laddove la donna riesca a ritagliarsi, con le unghie e con i denti, il suo spazio professionale, dovrà comunque fronteggiare forti stereotipi e potenti pregiudizi. Al giorno d’oggi, con l’importanza che il lavoro ha assunto per ogni cittadino, che sia maschio o femmina, tutti questi processi finiscono per produrre un grande ed inaccettabile spreco di potenziale che dovrebbe essere fronteggiato sì a livello economico, mediante riforme che incentivino il lavoro femminile, ma anche e soprattutto a livello psicologico attraverso una precisa ed approfondita elaborazione e modifica di tutti quegli stereotipi che costituiscono la gabbia dorata in cui la donna vive.

Il guanto di mio fratello: un libro per affrontare il tema della disabilità di un fratello

Le difficoltà quotidiane che le persone affette da disabilità devono affrontare sono notevoli; nondimeno, forse, non si parla abbastanza delle difficoltà dei familiari, dei genitori e dei fratelli. Questo libro illustrato, destinato ai bambini dai 6 anni in su, si rivolge a coloro i quali hanno un fratello disabile. Senz’altro una sfida ardua, specie per un bambino.

Trama

Hina e Tabi sono fratelli; giocano insieme, vanno d’accordo. Fin qui andrebbe tutto bene, se non fosse per un piccolo particolare: Tabi indossa sempre un guanto, un grande guanto rosso che lo rende diverso da tutti gli altri.
Hina comincia ad accorgersi che, quando sono in mezzo alla gente, il guanto attira l’attenzione: le persone lo notano, ne parlano e non in modo positivo: suo fratello non è come gli altri.

Questo non le piace affatto. Si potrà pur fare qualcosa. Hina non si perde d’animo e, insieme con Tabi, decide di partire per un viaggio: devono raggiungere la dimora di un mago, un mago che, si dice, sia dotato di grandi poteri. Hina è sicura che, grazie ai suoi poteri, il mago saprà liberare Tabi dal suo guanto, rendendolo come tutti gli altri.

Ma il viaggio si rivela difficile, pieno di imprevisti e di ostacoli. Hina è stanca, comincia ad abbattersi, se non fosse che, nonostante il fatto che il guanto di Tabi attira l’attenzione (e gli sguardi e le parole possono pesare), tutte le volte che i due fratelli si trovano in difficoltà è proprio il guanto che si rivela un’inaspettata risorsa, grazie alla quale i due piccoli viaggiatori fanno fronte al problema di turno. Come andrà a finire questo viaggio?

Le difficoltà e i vissuti dei bambini con fratelli disabili

Le difficoltà quotidiane che le persone affette da disabilità devono affrontare sono notevoli; nondimeno, forse, non si parla abbastanza delle difficoltà dei familiari, dei genitori e dei fratelli. Questo libro illustrato, destinato ai bambini dai 6 anni in su, si rivolge a coloro i quali hanno un fratello disabile. Senz’altro una sfida ardua, specie per un bambino.
A questo riguardo, mi sembrano molto significative le parole pronunciate da Luca, di quattordici anni -che un ha fratello, Giulio, di due anni più piccolo, affetto da autismo- in risposta ad un insegnante che gli domandava come mai avesse voluto dedicare la tesina di approfondimento per l’esame di terza media al tema dell’autismo:
[blockquote style=”1″]Perché ci sono dentro fino al collo! Sfruttiamo questa opportunità per parlarne.[/blockquote]

Ecco, in casi del genere ci si è dentro fino al collo. Sarebbe troppo facile (e inutile) nascondersi dietro affermazioni retoriche, che non rendono giustizia alle difficoltà, al dolore che si prova, ai momenti in cui ti domandi perché, tra tanti, sia capitato a te.

E’ solo quando si riesce a fare i conti con tutto questo che si trova il modo di trasformare la difficoltà in una risorsa. E’ quello che succede ad Hina, la protagonista del libro. Ed è anche quello che è successo a Giulia Franco, che il libro l’ha scritto prendendo spunto dalla propria personale esperienza di sorella di un ragazzo disabile, con l’obiettivo di aiutare a comprendere meglio questa condizione.

Considerazioni

Giulia, psicologa psicoterapeuta di professione, ha scelto di condividere il suo vissuto e di utilizzare le proprie competenze per aiutare coloro che vivono un’esperienza analoga alla sua. Grazie al suo libro impariamo -un po’ come in un altro bel libro che ho recensito, “Il tesoro di Risolina” di Alberto Pellai- che la diversità, declinata anche in forma di disabilità, può essere letta come una risorsa; il guanto diventa metafora di una condizione ingombrante e ineliminabile, che necessita di un delicato e paziente viaggio di accettazione.

Un viaggio che può essere compiuto fin da bambini. Perché anche ai bambini si può e si deve parlare di esperienze difficili, in modo particolare se queste esperienze li riguardano direttamente- cosa che scrivevo di recente nella recensione di un altro libro ancora, “Mamma uovo. La malattia spiegata a mio figlio”-, in modo da non lasciarli soli e senza supporto rispetto ad un vissuto che è già difficile da fronteggiare per un adulto.
Di certo bisogna trovare il modo giusto per affrontare determinati argomenti e questo libro, complice anche le belle illustrazioni, il modo lo trova, riuscendo ad essere d’aiuto non solo a chi vive la condizione di fratello di una persona disabile, ma di arricchimento per tutti. Perché la diversità è sempre una risorsa.

Personalità ed empatia: la gradevolezza come principale predittore dei comportamenti prosociali

Secondo numerose ricerche alcuni comportamenti prosociali, come ad esempio la volontà di aiutare gli altri, possono essere collegati a specifiche personalità. Sulla base di una nuova ricerca pubblicata dalla Society for Personality and Social Psychology, la gradevolezza risulta essere uno dei migliori predittori del comportamento prosociale.

 

 

Le motivazioni che stanno dietro il comportamento prosociale di una persona, come ad esempio aiutare un estraneo svenuto sulla strada o dedicare volontariamente del tempo a qualcuno che ha da poco perso i genitori, sono estremamente complesse. Le motivazioni che spingono le persone ad aiutare qualcuno solo in alcuni casi, o ad aiutare alcune persone escludendone altre, possono derivare da una miriade di ragioni.

Meara Habashi, l’autore principale dello studio discusso, spiega come per le persone sia comune sperimentare disagio nel vedere una vittima bisognosa di aiuto. Questo disagio può portare alcune persone a fuggire dal problema e ad evitare la vittima. L’angoscia che viene sperimentata dall’osservatore non sempre è causa di fuga e di blocco, spesso risulta essere un primo approccio empatico nei confronti della vittima, come poi la persona che la sperimenta deciderà di agire dipende dal tipo di personalità che la caratterizza.

Pertanto è possibile affermare che la correlazione tra empatia e personalità gioca un ruolo molto importante nella propensione ad aiutare altro.

Sulla base della precedente affermazione, Habashi e colleghi manipolando la variabile empatia hanno evidenziato che la gradevolezza è la dimensione della personalità che risulta essere maggiormente associata alla propensione ad aiutare in seguito a reazioni emotive scaturite da vittime bisognose di aiuto.

Lo studio si è ispirato al modello Big Five dei tratti di personalità. Come è già intuibile dal nome, il modello prevede 5 tratti di personalità: estroversione, gradevolezza, coscienziosità, nevrosi e apertura. Habashi e colleghi sulla base di questa teoria hanno sviluppato un modello con lo scopo di comprendere al meglio quali siano i legami tra i diversi tipi di personalità e i comportamenti prosociali.

Per giungere a questi risultati è stato necessario condurre diverse serie di esperimenti. Nella prima serie i partecipanti sono stati sottoposti all’esposizione di due racconti differenti. Il primo racconto è stato sottoposto per via radiofonica e raccontava di uno studente del college che aveva recentemente perso i genitori e che ora doveva prendersi cura dei suoi fratelli da solo. Il secondo racconto era stato direttamente comunicato dagli sperimentatori, i quali chiedevano ai partecipanti di immaginare di recarsi presso un amico, e durante il tragitto una persona si accascia a terra e non si muove più. Al termine di entrambi gli ascolti è stato chiesto ai partecipanti di valutare le loro emozioni prosociali, tra cui la preoccupazione empatica e l’angoscia, e di riferire come avrebbero o non avrebbero aiutato le vittime protagoniste dei racconti.

I risultati ottenuti hanno mostrato correlazioni tra l’empatia e i tratti di gradevolezza e nevrosi, tuttavia solo coloro che possedevano tratti elevati di gradevolezza avrebbero dedicato volontariamente del tempo alla vittima.

La seconda serie di esperimenti prevedeva uno studio in cui veniva indagata la volontà dei partecipanti di donare denaro ad una vittima.

Le analisi effettuate hanno riconfermato i risultati della serie precedente, aggiungendo però alcune informazioni per quanto concerne il tratto nevrosi. I partecipanti caratterizzati da questo tratto erano maggiormente concentrati su loro stessi, sia per quanto riguardava la possibilità di dedicare del tempo alla vittima, sia per quanto riguardava la possibilità di fare una piccola donazione.

Sulla base dei risultati ottenuti è possibile concludere che le persone che sono caratterizzate da un basso tratto di gradevolezza non sono necessariamente meno empatiche rispetto alle altre, ma semplicemente necessitano di maggiori stimoli prima di rispondere con preoccupazione empatica.

Per tanto Habashi conclude affermando che la propensione all’aiuto da parte di una persona è sia una questione di personalità, che una questione di contesto, in quanto la modalità con cui è strutturata la richiesta di aiuto gioca un ruolo molto importante.

È importante sottolineare che questo studio si è concentrato esclusivamente su un solo comportamento prosociale, ovvero aiutare uno sconosciuto. I comportamenti prosociali sono numerosi e possono ampiamente variare. Inoltre Habashi e colleghi sottolineano come questo esperimento sia stato svolto totalmente in un contesto di laboratorio, e che per tanto sarebbe necessario replicare lo studio in altri contesti. Inoltre la ricerca futura dovrebbe indagare la correlazione tra i tratti di personalità e tutti i comportamenti prosociali senza limitarsi esclusivamente ad uno di essi, come in questo caso.

 

 

La ruminazione associata a diverse forme di disturbi psicopatologici

Un recente studio pubblicato sul Clinical Psychological Science, attraverso l’utilizzo dell’approccio transdiagnostico, ha rivelato che la ruminazione è correlata ad una serie di condizioni psicologiche.

 

Lo studio sulla ruminazione: introduzione

I tradizionali approcci diagnostici si sono concentrati perlopiù sulle differenze esistenti tra patologie psichiatriche, al contrario, l’approccio transdiagnostico ha cercato di comprenderle andando oltre la struttura concettuale fornita dalla nozione di diagnosi, sottolineando i fattori comuni tra disturbi, con l’intento di sviluppare trattamenti utili ad un’ampia gamma di persone.

Un recente studio pubblicato sul Clinical Psychological Science, attraverso l’utilizzo dell’approccio transdiagnostico, ha rivelato che la ruminazione è correlata ad una serie di condizioni psicologiche (Disturbo Depressivo Maggiore, sintomi depressivi, Disturbo d’Ansia Generalizzato, Disturbi del Comportamento Alimentare e dipendenza da sostanze). In breve, la ruminazione consiste in un modello di pensiero ripetitivo, ossessivo e auto-diretto, difficile da interrompere, che non porta ad alcuna azione efficace o ad alcuna soluzione dei problemi, ma capace al contrario di aumentare l’angoscia e il pensiero negativo, perpetuare i sintomi, inibire il comportamento strumentale ed alterare la concentrazione e la cognizione.

Il metodo e il campione

La ricerca condotta da Daniel Johnson e colleghi ha utilizzato dati provenienti da 744 partecipanti (365 coppie di gemelli più alcuni soggetti singoli) che sono stati raccolti attraverso questionari self-report. I disegni di studio basati sui gemelli come questo hanno il grande vantaggio di fornire un modo per misurare l’influenza genetica. Sono state ottenute misure riguardanti la ruminazione, l’auto-riflessione, la presenza di sintomi depressivi, patologie alimentari e diagnosi psichiatriche. L’auto-riflessione è stata inclusa come misura di controllo e differenziazione dalla ruminazione.

I risultati

Una complessa serie di analisi statistiche ha dimostrato che la ruminazione è associata a tutte e tre le misure di psicopatologia incluse nello studio (sintomi depressivi, patologie alimentari e altre diagnosi psichiatriche) e che tale associazione non dipende dall’auto-riflessione, ma dalla ruminazione stessa. Le correlazioni tra gemelli hanno dimostrato che tutte queste associazioni hanno una significativa componente genetica, anche se nessuna di esse era così completa da escludere l’incidenza dei fattori ambientali. L’influenza genetica più significativa è emersa tra ruminazione e depressione, mentre l’associazione con le patologie alimentari è risultata moderatamente influenzata dalla genetica e il legame con la dipendenza da sostanze sembra per lo più di origine ambientale.

Discussione

[blockquote style=”1″]I nostri risultati supportano la concettualizzazione della ruminazione come un modello di pensiero ripetitivo e auto-diretto, che costituisce un fattore di rischio unico e specifico per diverse forme di patologia[/blockquote] hanno scritto Johnson e colleghi nel loro studio.

La ruminazione ha dimostrato di avere una significativa associazione con diverse caratteristiche lungo un’ampia gamma di psicopatologie. Includendo un elemento genetico nelle analisi, i ricercatori hanno potuto dimostrare che il rapporto tra i contributi forniti da fattori genetici e fattori ambientali a queste associazioni possono differire a seconda delle variabili misurate (ad esempio, attraverso i tipi di diagnosi).
[blockquote style=”1″]Come primo studio genetico sul comportamento volto a esaminare la ruminazione come un correlato transdiagnostico di psicopatologia, questo studio fornisce una solida base per esplorare nuove vie di ricerca che potrebbero guidare gli sforzi della prevenzione e del trattamento nei soggetti che soffrono di disturbi psichiatrici concomitanti[/blockquote] hanno concluso i ricercatori.

 

I cannabinoidi per rallentare il processo degenerativo nella malattia di Alzheimer

Gli scienziati del Salk Institute (California) hanno trovato prove preliminari riguardanti gli effetti del tetracannabinoide (THC) e di altri composti presenti nella marijuana, che sarebbero efficaci per la rimozione cellulare di beta-amiloide, una proteina tossica associata al morbo di Alzheimer.

 

La ricerca effettuata in laboratorio, può comunque aiutarci a comprendere meglio il ruolo infiammatorio attivo nel disturbo, e potrebbe fornire nuovi indizi nello sviluppo di nuove terapie.

Nello studio pubblicato sulla rivista Aging and Mechanisms of Disease, sono state analizzate le cellule nervose alterate con una sovrapproduzione di beta-amiloide, per simulare la situazione presente durante la malattia di Alzheimer.

Anche se altri studi hanno già offerto prove che i cannabinoidi potrebbero essere neuroprotettivi contro i sintomi del morbo di Alzheimer, riteniamo che il nostro studio sia il primo a dimostrare che i cannabinoidi possano influenzare i processi infiammatori e agire sull’accumulo di beta-amiloide delle cellule nervose – Spiega David Shubert, autore principale dello studio.

La malattia di Alzheimer è una malattia degenerativa progressiva del cervello, che porta alla perdita di memoria e compromette in modo ingravescente la vita quotidiana delle persone che ne sono affette.

Secondo il National Institutes Of Health, colpisce più di 5 milioni di americani, rappresenta la principale causa di demenza e si stima che la sua incidenza dovrebbe triplicare nei prossimi 50 anni.

Il team di Salk, nel loro studio, ha scoperto che l’esposizione neuronale ad alti livelli di beta-amiloide è associata ad una più alta risposta infiammatoria ed a un più elevato tasso di mortalità dei neuroni. Tuttavia, esponendo le cellule a THC, i livelli di beta-amiloide si abbassavano riducendo la risposta infiammatoria delle cellule nervose causata dalla proteina, permettendo così ai neuroni di sopravvivere.

L’infiammazione cerebrale rappresenta una componente importante dei disturbi associati al morbo di Alzheimer. Quando siamo stati in grado di identificare le basi molecolari della risposta infiammatoria a beta-amiloide, è diventato chiaro che i composti di THC possono essere coinvolti nel proteggere le cellule neuronali dalla morte – ha detto Antonio Currais, ricercatore che ha partecipato allo studio.

Shubert ha sottolineato che i risultati ottenuti attraverso modelli di laboratorio, dovranno poi essere replicati in studi clinici ulteriori per verificarne l’efficacia.

 

 

 

Gli spoiler non rovinano le storie (ma le amicizie sì!)

Oltre l’immagine. Inconscio e fotografia (2015) – Recensione

Psicologia e fotografia: “Oltre l’immagine”, uscito nel 2015 edito da Postcart è un libro scritto da un affiatato team di psicoterapeute (Maria Aliprandi, Francesca Belgioioso, Serena Calò, Agata D’Ercole, Chiara Gusmani e Gabriella Gilli) e da una photoeditor affermata, Sara Guerrini.

Psicologia e fotografia

Da questo particolare connubio, psicologia e fotografia, ecco nascere un libro diverso che attraverso l’analisi psicologica delle opere cerca e trova la chiave del movente inconscio, ma non troppo, dei meccanismi e sentimenti che hanno concepito e realizzato queste meravigliose opere.

Fotografia e psicologia non sono due mondi cosi estranei. Esiste una scuola precisa che da anni cura i pazienti attraverso i principi della fototerapia, ispirati dall’opera di Judy Weiser, affermata psicologa che da qualche decennio attraverso l’uso delle foto personali e familiari dei pazienti, ricrea sentimenti, memorie, pensieri e informazioni, e usandole come catalizzatori per la comunicazione terapeutica, attua il processo di cura. Non troppo distante è la fotografia concettuale, strumento che gli autori utilizzano per parlare di sé, della personale visione del mondo, di un loro stato traumatico, di alcuni pensieri e sentimenti personali o sociali che siano.

Partendo da artisti selezionati e tematiche ben suddivise troviamo Antoine D’Agata, Michelle Sank, Molly Landreth per il tema identità e corpo, Arno Rafael Minkkinen, Julia Kozerski, Liu Bolin per l’autoritratto, Elinor Carucci, Natasha Caruana, Diana Markosian per le relazioni, Phillip Toledano, Moira Ricci, Peter Van Agtmael per il tema Morte ed infine Guido Guidi, Paolo Ventura, Todd Hido per l’interpretazione dei luoghi.

Le immagini e le interviste

Solo lo sfogliare le immagini di questo libro ci mette già di fronte la diversa sensibilità artistica ed emotiva degli artisti, il confronto tra gli autori chiarifica il diverso modo di scattare, pensare e si può cogliere il vissuto attraverso delle immagini che vanno oltre la tecnica, immagini loquaci, immagini significanti. Leggendo poi le interviste abbiamo la conferma, che un occhio sensibile poteva aver già colto, che in quasi tutte le opere si celi o in alcuni casi si manifesti un nodo interiore enorme che alcuni autori attraverso la creazione di questi lavori hanno cercato o stanno cercando di sciogliere.

Conclusioni

Nel libro quindi sono stati individuati i temi più ricorrenti contenuti nelle opere, con il preciso intento, attraverso il dialogo tra psicologo e fotografo, di soffermarsi sugli aspetti più significativi delle opere stesse e sulle diverse implicazioni che le vite degli autori hanno determinato per la nascita di questi progetti. Tantissime interpretazioni diverse di uno stesso tema. L’uso dell’immagine quando le parole non bastano più.

L’inaspettata relazione tra il disturbo bipolare e il corpo striato

Il disturbo bipolare è una delle malattie psichiatriche più studiate, è però possibile che gli scienziati abbiano trascurato l’implicazione di una parte importante del cervello nello sviluppo di tale disturbo.

 

Gli scienziati hanno mostrato per la prima volta che le cellule all’interno del corpo striato, una parte del cervello che coordina molti aspetti primari del nostro comportamento, come la pianificazione motoria e delle azioni, la motivazione e la percezione delle ricompense, potrebbero essere profondamente coinvolti nel disturbo bipolare. La maggior parte degli studi moderni sul disturbo bipolare si sono concentrati sulla corteccia cerebrale, la più grande parte del cervello negli esseri umani, associata all’azione e al pensiero di livello superiore.

La presente ricerca è il primo vero studio che analizza l’espressione genetica nello striato in correlazione allo sviluppo del disturbo bipolare: un aspetto importantissimo per avere a disposizione una fotografia istantanea dei geni e delle proteine ​​espresse in quella regione. Tale studio fornisce anche indicazioni sui diversi percorsi possibili come potenziali trattamenti per tale disturbo.

Il disturbo bipolare è una malattia mentale che colpisce circa il 2,6 per cento della popolazione adulta degli Stati Uniti, circa 5,7 milioni di americani, con una maggioranza considerevole di questi casi classificati come gravi. La malattia ha una familiarità, infatti secondo l’Istituto Nazionale di Salute Mentale, più di due terzi delle persone con disturbo bipolare hanno almeno un parente stretto con la malattia o con depressione maggiore.

Nella presente ricerca, sono stati analizzati campioni di tessuto provenienti da 35 soggetti con disturbo bipolare e soggetti di controllo. Il numero di geni presenti nei campioni di tessuto dei due gruppi si è rivelato sorprendentemente piccolo, solo 14 in tutto. Tuttavia, l’analisi di alcuni network ha rivelato due moduli di geni interconnessi tra loro che erano particolarmente ricchi di varianti genetiche associate con il disturbo bipolare: tale dato è suggestivo di un ruolo causale di tali geni nella malattia. Uno di questi due moduli è stato particolarmente sorprendente perché sembrava essere altamente specifico all’interno del corpo striato.

La scoperta di un legame tra disturbo bipolare e corpo striato a livello molecolare completa gli studi che dimostrano, a livello anatomico, il coinvolgimento  della stessa area cerebrale nel disturbo bipolare, compresi gli studi di imaging funzionale che mostrano un’attività alterata nello striato in soggetti bipolari durante compiti che coinvolgono la valutazione del rischio e l’analisi della ricompensa. L’analisi delle reazioni al rischio era importante perché i pazienti bipolari possono agire impulsivamente e impegnarsi in attività ad alto rischio durante i periodi di mania.

L’analisi ha anche riscontrato modificazioni dei geni legati al sistema immunitario, della risposta infiammatoria del corpo e del metabolismo energetico delle cellule.

In conclusione, non è ancora chiaro se questi cambiamenti siano una causa della malattia o la manifestazione della malattia stessa, ma forniscono conoscenze molto importanti sui marcatori genetici del disturbo bipolare che potrebbero avere notevoli implicazioni a livello diagnostico e riabilitativo.

Il legame esistente tra cortisolo e obesità nei pazienti con disturbo bipolare

Un recente studio svolto presso l’Università di Umeå, in Svezia e pubblicato sul Journal of Affective Disorders ha dimostrato che bassi livelli di cortisolo (ormone dello stress) si associano ad obesità, alti livelli di grassi nel sangue e sindrome metabolica nei pazienti con depressione ricorrente cronica o disturbo bipolare.

 

 

I risultati ottenuti forniscono indizi per capire meglio la forte prevalenza di malattie cardiovascolari nelle persone che soffrono di depressioni ricorrenti o disturbo bipolare. Tali scoperte potranno in futuro fornire contributi efficaci nel trattamento di questi disturbi per una migliore prevenzione delle malattie cardiovascolari ad essi associate – ha detto Martin Maripuu, autore principale dello studio.

Il disturbo bipolare e la depressione ricorrente cronica sono malattie che si associano ad una riduzione di circa 10-15 anni nell’aspettativa media di vita. Uno dei fattori primari che contribuisce a questa condizione è la grande prevalenza di malattie cardiovascolari. Lo stress, la scarsa attività fisica e l’alto consumo energetico sono tutti elementi caratteristici di uno stile di vita che aumenta il rischio di malattie cardiovascolari.

Relativamente al fattore stress, uno dei sistemi più importanti che lo regola è denominato asse HPA (dall’inglese Hypothalamic-Pituitary-Adrenal axis, in italiano asse ipotalamo-ipofisi-surrene). Questo sistema regola la produzione e i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. L’esposizione a lungo termine allo stress potrebbe costituire uno dei principali fattori eziologici sia per i disturbi metabolici che per l’ipocortisolismo (ridotto livello di cortisolo).

Prima che quest’ultima condizione si sviluppi, l’attività dell’asse HPA e i livelli di cortisolo possono fluttuare dalla normalità all’eccesso. Lo stress normalmente determina un aumento dell’attività dell’asse HPA, che a sua volta determina un aumento dei livelli di cortisolo. Se lo stress aggiuntivo è però prolungato nel tempo e si cronicizza, l’attività del sistema paradossalmente si riduce, con conseguenti bassi livelli di cortisolo.

Per studiare il legame tra livelli di cortisolo e malattie metaboliche sono stati analizzati 245 pazienti con disturbo bipolare o depressioni ricorrenti e 258 persone del gruppo di controllo. I ricercatori hanno misurato i livelli di cortisolo dei soggetti dopo aver condotto il cosiddetto test di soppressione del desametasone (farmaco corticosteroide simile al cortisolo) che viene utilizzato per rilevare la presenza di una produzione anomala di cortisolo.

Quello che i ricercatori Umeå ora sono in grado di dimostrare è che i pazienti con disturbo bipolare o depressioni ricorrenti con bassi livelli di cortisolo soffrono in misura maggiore rispetto ad altri di:

  • Obesità (34% rispetto al 11% degli altri pazienti)
  • Dislipidemia -alti livelli di grassi nel sangue- (42% rispetto al 18%)
  • Sindrome metabolica (41% rispetto al 26%).

I risultati mostrano che la regolazione del cortisolo è legata al peggioramento della salute fisica nelle persone con disturbo bipolare o depressioni ricorrenti. Tuttavia, sono necessari ulteriori studi per comprendere meglio queste associazioni – afferma Martin Maripuu.

 

Dopo la caduta dei confini: l’illusione di un mondo in-finito

Il confine come concetto psicologico svolge una funzione fondamentale di costruzione e protezione dell’identità, spesso dimenticata da una società che non ha più il senso del limite. Un confronto tra due psicopatologie di ieri e di oggi può aiutarci a inquadrare com’è cambiata la sua funzione nel corso del tempo.

 

Nel 1989 cade il muro di Berlino. Con esso cadono molti dei pilastri che hanno puntellato, definito e oppresso, il secolo Novecento e la storia precedente. Cade perché le persone ne hanno abbastanza delle frontiere, e se ne liberano come di lacci fastidiosi. Esse si ritrovano improvvisamente a passeggiare tra i cocci dei confini di ieri, a contemplare al di là il ‘dolce naufragar nell’infinito‘. Ma è davvero così dolce?

 

 

Cos’è il confine

Il confine, in senso etimologico, indica il termine, il limite estremo che separa una proprietà di qualsiasi tipo, territoriale, linguistica, sociale, da un’altra.

In biologia esso diventa la membrana di passaggio tra interno ed esterno, regolatrice di omeostasi corporea. Tale funzione vitale viene mantenuta in ambito psicologico: lo psicoanalista Anzieu definisce tale membrana come ‘la prima invenzione della vita sia sul piano biologico che sul piano psichico‘. Per l’economia psichica, infatti, il confine è il concetto fondamentale che delimita il bordo della nostra identità, separando ‘ciò che è dentro‘ da ‘ciò che è fuori‘.

In senso speculare, ‘senza confini‘ significa, banalmente, illimitato. Ed è esattamente ciò a cui sembra aspirare l’umanità da un po’ di tempo in qua. L’insofferenza per le barriere di qualsivoglia genere è evidente nell’abbattimento reale delle frontiere geografiche e sociali, ma anche nelle tendenze di massa, negli slogan pubblicitari che incitano a sfidare i propri limiti, in sport estremi e pratiche giovanili all’insegna di un disprezzo euforico del rischio, o nelle pratiche mediche che sembrano spesso sottintendere una negazione dei limiti biologici della vita, della vecchiaia e della morte. Anche la storia della psicopatologia può fornire un’utile lettura del fenomeno: da sempre essendo plasmata da fattori sociali oltre che biologici, la sua evoluzione è il riflesso in negativo dell’evoluzione sociale contemporanea.

 

 

La psicopatologia di ieri: l’isteria come confine da spezzare

Ci sono differenze sostanziali tra la psicologia praticata da Freud e quella richiesta ai terapeuti contemporanei, e ciò dipende dalle diverse patologie portate dai pazienti di ieri e di oggi ai rispettivi lettini: in tale metamorfosi del disturbo mentale può giocare un ruolo esplicativo anche la diversa collocazione del confine psicologico, in un caso castrante, nell’altro troppo labile.

Il paziente di Freud si presentava alla sua porta oberato dal peso dei propri confini: si trattava perlopiù di donne dalla sessualità contratta e di uomini schiacciati dal peso di un padre dominante. Lo scrittore Kafka, impietoso illustratore del mal di vivere primo novecentesco, esprime attraverso i suoi personaggi un’autorità patriarcale capace di trasformare il figlio in uno scarafaggio; e poi ci furono le guerre, i totalitarismi, padri-padroni per eccellenza di una supremazia sconfinata e mortifera.

Il complesso di castrazione, grande explanans di Freud, rappresenta la metafora psichica di ciò che separa il possibile dal proibito, e che con ciò fa risolvere la fase edipica e nascere l’Inconscio rimosso; solo che se la rimozione è eccessiva, causa psicopatologia. La patologia con cui nasce la creatura psicoanalitica è l’isteria: essa rappresenta la ribellione del rimosso e la presenta nel corpo, nel quale ciò che è compresso dalla colpa preme contro i confini per uscirne, per espandersi ed assaporare la libertà. Ciò si traduce in sintomi corporei di conversione di stati emozionali intensi, che non trovano sfogo in un Io cosciente costretto alla passività e si rivolgono all’Io somatico investendolo di furia rivoluzionaria. Il corpo è per l’isterica il confine da spezzare.

 

La psicopatologia di oggi: l’anoressia come confine da costruire

Freud era impreparato alle psicopatologie postmoderne, con tale termine intendendo tutte quelle patologie mentali che rivendicano un’importanza epidemiologica dal secondo dopoguerra, e per curare le quali la psicoanalisi dovette piegare parzialmente i suoi paradigmi clinici.

Egli maneggiava con padronanza la depressione del malinconico, generata dalla colpa schiacciante di un Super-Io sadico, ma si disorientava davanti alla depressione del narcisista, indotta da un vuoto esistenziale senza colpa, senza senso e senza confini. Non è più l’oppressione di Kafka, è il relativismo di Pirandello, nato da un cielo svuotato di Dio, che vuoto rimane. Dal dopoguerra in poi, moti di liberazione politici e sociali accelerano in modo vertiginoso l’abbattimento dei dogmi iniziato tanto tempo prima dall’Illuminismo. ‘Cadono i tabù, cadono i totem’. Cade anche il muro di Berlino.

Sotto l’apparenza di un’euforica libertà, però, serpeggia l’allarme di un benessere psichico ancora palesemente assente. Una caratteristica definitoria delle psicopatologie postmoderne, quelle della dopo-modernità, del dopo-Freud, del dopo –  senza nemmeno più bisogno di un prima, è proprio l’assenza di confini.

Ciò si vede chiaramente nel disturbo borderline, dove gli stati emotivi entrano ed escono senza controllo. Una psicopatologia postmoderna per eccellenza è l’Anoressia Nervosa, il grande contraltare dell’isteria: in essa come nell’isteria, svolge un ruolo di primo piano il corpo come confine. In questa grave condizione psichiatrica però, il corpo non è più il confine da spezzare dell’isterica, bensì il confine da costruire. Non si tratta più della dialettica ribellione-schiavitù di un rimosso oppresso che si rivolge contro il limite: è un limite da erigere nell’assenza di dialettica, a costo di sforzi titanici.

Quello dell’anoressica è un corpo fatto di spigoli e ossa eretti a baluardo protettivo, l’unico possibile, poiché l’unico dotato del realismo della tangibilità, in un vuoto senza appigli. Non più un muro da abbattere per liberare il rimosso, bensì un muro da costruire per sorvegliarlo in modo estremamente rigoroso: è il Super-Io sadico dei totalitarismi, che grida alla disciplina in mezzo al dilagare di un’indifferenziazione inconsapevole.

Come l’esperienza dell’isterica denunciò a Freud il disagio della civiltà primo novecentesca, il prezzo da scontare per una ferrea disciplina, forse l’esperienza anoressica può aiutarci a demistificare il prezzo da pagare per la libertà da ogni disciplina, il disagio della post-modernità?

 

 

Confine come identità e protezione: cosa ci può insegnare l’anoressia

Il confine delimita, ma anche protegge. Esso è il muro che fa guardare all’esterno con bramosia, ma è anche la sentinella che ci cammina sopra, e che difende l’interno. Senza il muro, non ci sono più nemmeno le sentinelle, nessuno ad avvertirci se c’è pericolo o meno. In psicologia, l’accettazione del limite è il primo passo verso l’età adulta.

Secondo Freud, la frustrazione derivante dallo scoprire che il bambino ‘non può tutto’ era il primo blocco nella costruzione del senso di Sé. Il bambino immaturo infatti, sperimenta un’onnipotenza senza limiti né confini, un Sé Maestà che tutto può e in rapporto al quale tutto il resto del mondo è costituito da oggetti-sé creati per servirlo, come evidenziano gli studiosi dell’età evolutiva come Melanie Klein. L’esperienza del proibito, definisce per rapporto ‘ciò che si può’, la perdita definisce per rapporto ciò che si ha.

Secondo Margaret Mahler, nella psicosi, la relazione simbiotica con la madre impedisce al bambino di sperimentare sufficiente separazione per poter stabilire dei limiti solidi tra ciò che si è e ciò che non si è: egli avrà per sempre bisogno di oggetti-sé che gli ricordino il suo essere infinito a cui non sa rinunciare. Ma lo psicotico, ahimè, non è l’unico a credersi infinito di questi tempi.

Lo psichiatra Louis Sass introduce un inquietante parallelismo tra follia e modernità: se nella follia è il delirio di essere Napoleone, o di cader vittima di complotti organizzati dalla CIA, nella modernità è la mania ipertrofica del progresso di aver sconfitto Dio, l’allucinazione onnipotente della medicina di poter vivere per sempre, di un’umanità convinta di potere tutto e allergica al limite, persino a quello della morte.

In questo senso, l’euforia generata dal crollo dei confini potrebbe non essere altro che l’euforia megalomane dello schizofrenico, l’euforia di onnipotenza della non-separazione infantile, del tutt’uno che però non si individua mai, che non avrà mai un’identità. È esattamente contro la schizofrenia che l’anoressica si difende, per rivendicare a duro prezzo una propria identità, per definirsi, in mancanza di una divisione tra dentro e fuori, tra bene e male; l’anoressica forse riesce a intuire dietro all’abbattimento dei confini i rischi letali di un’indifferenziazione acefala e invasiva, ci vede l’ abbattimento della dialettica in nome di un’affermazione dionisiaca, vorace ed orale, bulimica. Il suo è il tentativo disperato di re-instaurare una dialettica, di erigere un tribunale dell’Inquisizione per discernere nell’epoca del non discernimento. Essa vuole un confine che la protegga, e per fare ciò delimita, costruisce con il corpo un padre persecutore e castrante. L’anoressica diventa confine, per non diventare schizofrenica, e sembra avvertire che un mondo senza limiti e senza confini è un mondo schizofrenico.

Leopardi naufragava nell’infinito, ma la dolcezza del suo naufragare non era già più la malinconia tragica della colpa di Edipo, era bensì il tedio della mancanza di senso, il vuoto esistenziale dell’anti-eroe moderno, che ha tutto, e non è niente, l’angoscia di fronte alla quale la siepe dell’ermo colle appare ben misera protezione. Siamo davvero sicuri di voler naufragare in questo infinito?

La cura di sé in contesti terapeutici non convenzionali (2016) – Recensione

Il volume affronta, in un’ottica squisitamente sistemica, i processi terapeutici che si innescano attraverso l’utilizzo di metodi e strumenti terapeutici non convenzionali e la funzione terapeutica del gruppo per lo psicoterapeuta in formazione.

 

Il volume curato da Baldascini L., Di Napoli I., Rinaldi L. e Troiano D. rappresenta una guida utile per gli operatori impegnati nella professione d’aiuto e per i terapeuti all’inizio della carriera. Esso affronta, in un’ottica squisitamente sistemica, i processi terapeutici che si innescano attraverso l’utilizzo di metodi e strumenti terapeutici non convenzionali e la funzione terapeutica del gruppo per lo psicoterapeuta in formazione.

La prima parte dello scritto, che raccoglie i contributi di Baldascini L., Cassaglia B., Salzano A., Giordano A., Esposito M., Di Nocera R., Lagnena M. A., Pecoraro N., Troiano D., Menna L. F. e Marino S., descrive le implicazioni, nell’ambito di prassi eterogenee, di uno dei principali cardini della cultura sistemico relazionale: la necessità di riconnettere in ogni fenomeno le parti al tutto, considerando quest’ultimo come diverso dalla somma delle parti stesse.

Così, nell’ambito della prassi medica, viene sottolineata l’esigenza di andare oltre una visione parcellizzata dell’ ‘organo malato’ per comprendere la mente sofferente e, con essa la soggettività e la storia della persona. Un tale atteggiamento epistemologico richiede, evidentemente, un’integrazione di mente e corpo intesi come vertici di osservazione del medesimo fenomeno invece che alla stregua di entità legate da un rapporto di causalità lineare: tra mente e corpo,  detto in altri termini, citando il titolo di un testo di Luigi Solano (2013), più che dalla mente al corpo come riterrebbe una concezione ormai obsoleta della psicosomatica.

I contributi del testo partono dalla premessa secondo la quale l’origine della patologia si situerebbe in un senso di disconnessione della persona nella relazione con gli spazi intrapsichici ed interpersonali. La meditazione, l’arteterapia, la zooterapia, il rito, il processo di fiabazione divengono strumenti che hanno la potenzialità di facilitare, tramite modalità diverse, il ripristino di legami tra il sé ed il mondo esterno, inteso come sistema di relazioni (famiglia, pari, adulti) ed altresì come ecosistema.

Il processo di consapevolezza di sé e dei propri posizionamenti viene assimilato nel testo, per alcuni aspetti, alla filosofia intesa da Simona Marino come pratica di cura di sé e della vita che implicherebbe, nella formazione del futuro psicoterapeuta, il liberarsi dai pregiudizi e dai modelli precostituiti.

L’articolo di Simona Marino introduce alla seconda parte del volume che raccoglie i contributi di Pannone F., Mastrangelo M. S., Campobasso M.,  Cortese R., Montella F., e che risulta particolarmente interessante per l’essersi concentrata sul dispositivo del gruppo di formazione dei futuri psicoterapeuti e sui processi trasformativi che esso comporta per gli allievi.

Gli articoli e le riflessioni discusse dagli autori in questa seconda parte del volume sono il frutto della pluriennale esperienza di formazione sistemica realizzata dall’Istituto di Psicoterapia Relazionale (IPR) di Napoli diretto da Luigi Baldascini e fanno riferimento anche alle acquisizioni tratte dalla ricerca realizzata presso l’ IPR relativa alle motivazioni degli allievi sottostanti la scelta di diventare psicologo e poi psicoterapeuta. La pluralità delle voci degli autori ritorna su un altro pilastro della teoria sistemica: il coinvolgimento dell’osservatore nella realtà osservata che implica un’attenzione alla soggettività degli operatori impegnati nelle professioni d’aiuto.

I guaritori da guarire, così definisce con un emblematico paradosso Maria Campobasso gli allievi del training in psicoterapia sistemico relazionale, ponendo enfasi sul percorso emotivo che conduce l’allievo ad un’evoluzione della sua domanda formativa, inizialmente per buona parte inconscia ed incentrata sulla richiesta di strumenti e tecniche per curare sé o la propria famiglia, ad un riconoscimento, e ad un graduale superamento, del vissuto di onnipotenza che sorregge un tale bisogno a favore della costruzione di una domanda formativa più consapevole.

L’utilizzo di tecniche quali la scultura nell’ambito del processo formativo e di supervisione è concepita come ottima occasione per l’allievo in formazione di poter riapprendere la propria esperienza personale attraverso uno sguardo distanziato che consenta di leggere e di rimettere in discussione i propri posizionamenti nel sistema di relazioni familiare, con evidenti risvolti anche sul piano dell’operatività clinica. Ciò è reso possibile proprio per mezzo e grazie al gruppo che, attraversando diverse fasi evolutive, diviene un contenitore relazionale e mentale in cui si possono realizzare trasformazioni emotive e cognitive.

Il training e la supervisione dei futuri psicoterapeuti, impostati secondo un’ottica sistemico relazionale, vengono presentati nel testo come principalmente finalizzati al raggiungimento, da parte degli allievi stessi, della capacità di costruire una relazione trasformativa con il paziente, come la definisce Luigi Baldascini. Un tale obiettivo può esser raggiunto, secondo gli autori, a patto che ci si discosti dall’inconscia tendenza a reagire in maniera reattiva a quanto il paziente porta in terapia sulla base di una dimensione di dipendenza emozionale dalla familiarità dei vissuti e delle esperienze proprie del terapeuta stesso. Seguendo questa linea, il cambiamento per il paziente e per il futuro psicoterapeuta viene definito in modo originale nell’articolo di Felice Pannone non già come un essere sé stessi bensì come uno scardinare l’abitudine ad essere sé stessi, che sembrerebbe porsi come un invito alla creatività intesa come possibilità di esplorazione e di costruzione di nuovi modi di sentire, pensare ed agire e come strumento per costruire la salute, sia del terapeuta che dei pazienti con i quali egli si confronta.

La terapia cognitivo comportamentale e il suo rapporto con la Politica e l’economia – EABCT 2016

La terza giornata del congresso EABCT – Stoccolma 2016

EABCT 2016

Anche nella terza giornata del 46esimo congresso della società europea delle terapie comportamentali e cognitive (EABCT, European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) ha fatto capolino l’argomento ricorrente di questo congresso, il rapporto tra terapia cognitivo-comportamentale (Cognitive Behavioural Therapy, CBT), economia e politica.

Il clou della giornata è stata una tavola rotonda a cui hanno partecipato Stephen Barton (Newcastle University, UK), Astrid Beskow (Centro CBT di Gothenburg, Svezia), Edward Watkins (Exeter University, UK) e Terence Wilson (Rutgers University, USA). Il tema era il rapporto tra competenza e uso dei manuali, ma ben presto questo argomento è sfociato in quello dell’economia e della politica. L’uso dei manuali, infatti, implica l’uso di procedure standardizzate e controllate che fanno sempre più a pugni con la tendenza naturale degli psicoterapeuti a esercitare la loro arte in maniera personalizzata e quasi privata, nell’isolamento della stanza di lavoro con il paziente. Tendenza comprensibile ma sempre più inaccettabile in un mondo dove la psicoterapia è una prestazione pagata dal paziente stesso o dallo Stato, prestazione la cui efficacia va provata. L’uso dei manuali è stato uno dei primi strumenti per diffondere questa tendenza e Wilson ne ha difeso il valore contro le consuete obiezioni di meccanicità ed eliminazione della creatività.

Tutto vero, ma c’è da dire che lo stesso Wilson, così come Clark il giorno prima, in fondo sono a loro volta a metà strada. Come aveva scoperto Clark nel 2004, i manuali non bastano.  Occorrono centri di addestramento che forniscano non solo controllo e supervisione dell’applicazione dei manuali, ma anche formazione continua, aggiornamento e soprattutto un senso di affiliazione e di fedeltà. Solo così si evita il rischio delle esecuzioni troppo personalizzate delle terapie. E, d’altro canto, è nel rapporto concreto con un Istituto garante che fornisce supervisione e formazione aggiornata che una terapia manualizzata sfugge al rischio della meccanizzazione incarnandosi in terapie concrete in cui i limiti dei manuali sono affrontati nel qui e ora in maniera condivisa e formalizzata e non autoreferenziale e autarchica.

La situazione paradossale della CBT standard, che a mio parere corrisponde più ai protocolli del gruppo di Oxford per i disturbi d’ansia che a quelli di Beck (senza negarne le forti somiglianze), è che essa difetta di un Istituto madre europeo che garantisca l’apprendimento fedele e al tempo stesso fornisca quel servizio di supervisione costante e formazione permanente che consentirebbe di superare le secche della meccanizzazione manualizzata. Clark e Wilson hanno citato –con la gioia degli esploratori che hanno scoperto un nuovo mondo- i motti economicisti dei coniugi Clinton: “It’s the economy, stupid!” e “Show me your money!”. Tanto realismo riformista è benvenuto, specie in tempi in cui ci si torna troppo spesso a bearsi di estremismi vari, ma non basta. Non basta avere demandato tutto al servizio sanitario pubblico britannico. La CBT come può diffondersi in maniera affidabile fuori dal Regno Unito? Le terapie post-CBT hanno proposto il modello degli Istituti privati che erogano supervisione e formazione permanente garantita da un Istituto madre. Certo, è una svolta privata, multinazionale, aziendalistica e –diciamolo- capitalista che può spaventare un professore universitario protetto e coccolato dall’ambiente accademico. La risposta però è semplice: “It’s the economy, stupid!” e “Show me your money!”

 

Le tecniche esperienziali per la CBT

Ora però basta con l’economia e la politica e torniamo alla cara vecchia CBT. Nella seconda giornata si è vista la forza della Schema Therapy. Nella terza ho assistito a un altro possibile sviluppo della CBT, la cosiddetta Cognitive Bias Modification o CBM, una serie di tecniche esperienziali ad elevata tecnologia, che utilizzando strumenti informatici che permettono ai pazienti di addestrare le funzioni cognitive distorte, a iniziare dall’attenzione, in maniera più funzionale. Se ne è parlato in una tavola rotonda in cui era ancora presente Edward Watkins. Di un argomento simile, l’uso delle tecniche di imagery, ha parlato in una plenaria Emily Holmes, ricercatrice svedese-britannica molto in vista in questo congresso. Ed è un po’ anche la risposta fornita dagli italiani presenti al congresso, come Antonio Pinto, Lucio Sibilia, Tullio Scrimali e Michele Procacci, che hanno aggiunto alle tecniche di imagery anche la consueta attenzione per il paziente psicotico, le disfunzioni transdiagnostiche, le tecnologie di biofeedback e la metacognizione.
L’uso della Cognitive Bias Modification, dell’imagery con o senza tecnologia e della metacognizione è una buona risposta della CBT alle critiche che sta ricevendo da alcuni anni a questa parte ed è anche la quadratura del cerchio ai rischi di snaturamento. Queste novità, infatti, sono innestate su concettualizzazioni del caso che rimangono ortodossamente CBT. Ecco quindi scampato il rischio della perdita d’identità. Al tempo stesso, però, queste novità consentono alla CBT di inglobare quelle tecniche esperienziali sempre più in voga. È un po’ la stessa forza della Schema Therapy di cui abbiamo parlato nella seconda giornata: rinsanguare la CBT con tecniche più intense di tipo esperienziale. C’è di buono che in tal modo la CBT evita le secche della relazione, secche in cui secondo me rischia di incagliarsi Judith Beck. E c’è di buono che tutto questo consente alla CBT di aggiornarsi. Per ora va bene così. Ci vediamo nel 2017 a Istanbul

E’ più facile diventare peccatori che santi: come la propria percezione morale si trasforma in reputazione altrui

Secondo il recente studio ‘The Tipping Point of Moral Change: When Do Good and Bad Acts Make Good and Bad Actors?‘ condotto da Nadav Klein e Ed O’Brien è molto più facile che un pettegolezzo si trasformi in reputazione anziché riuscire a liberarsi di esso.

In particolare nello studio viene mostrato come sia più difficile migliorare il proprio carattere agli occhi degli altri piuttosto che screditarlo. Difatti per portare ad un miglioramento della percezione morale sono necessarie numerose prove che lo dimostrino, mentre per ottenere un’opinione negativa sono sufficienti pochi eventi.

Klein e O’Brien hanno cercato di individuare quale sia il punto di svolta morale dal quale dipende la valutazione degli altri. Nello specifico si sono chiesti quante azioni una persona deve compiere o cessare per essere percepito come possedente di un carattere considerato morale.

Il tutto è stato indagato tramite una serie di esperimenti. I ricercatori hanno creato storie e personaggi che riflettessero azioni della vita quotidiana. All’interno di queste storie inventate i personaggi potevano comportarsi sia in un modo considerato morale che immorale. Ai partecipanti è stato chiesto di leggere questi racconti e di individuare quelle situazioni in cui vi era declino o miglioramento morale.

In un esperimento, è stata proposta la storia di una persona inventata chiamata Barbara la quale lavorava in un ufficio. La protagonista del racconto a volte si comportava bene, ad esempio tenendo la porta aperta ai suoi colleghi o facendo loro un complimento, altre volte invece manifestava comportamenti negativi come escludere i colleghi o raccontare pettegolezzi su di essi. Ai partecipati era stato poi chiesto di immaginare sia un cambiamento positivo che uno negativo nel comportamento di Barbara.

I ricercatori hanno così monitorato quanto tempo occorresse a Barbara per migliorare o peggiorare la percezione del proprio comportamento agli occhi dei partecipanti, e di quanto tempo essi avrebbero avuto bisogno per definirlo morale o immorale. Ciò che è stato osservato è che erano sufficienti un paio di comportamenti negativi per diagnosticare un peggioramento comportamentale, e che anche se Barbara smetteva di mettere in atto tali azioni non riusciva a ricevere alcun credito da parte dei partecipanti. Nel momento i cui Barbara ha iniziato a comportarsi correttamente, invece, ci sono volute numerose azioni considerate positive prima che i partecipanti le attribuissero un miglioramento morale.

Dai risultati ottenuti è emerso che da parte del campione vi era una maggior velocità nell’individuare e nell’attribuire un declino morale, è una lenta tendenza nell’attribuire un miglioramento. In altre parole, secondo quella che è l’opinione pubblica, è molto più facile diventare un peccatore che un santo.

La cosa interessante è che le implicazioni di questo studio vanno ben oltre le semplici impressioni dei colleghi di ufficio, portando alla luce le motivazioni che spingono la gente a non dare una doppia possibilità a coloro che godono di una reputazione negativa.

Si tratta di informazioni molto importanti e preziose, non solo per l’ambito della psicologia, ma anche a livello giuridico, in quanto potrebbe spiegare alcuni dei meccanismi sottostanti alle decisioni prese da giudici e politici nelle diverse situazioni.

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