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La terapia sistemica dei disturbi alimentari

Terapia sistemica dei disturbi alimentari: Nel modello sistemico le strategie terapeutiche vengono indirizzate contro le modalità di transazione. Il terapeuta ha il compito di riformulare il sistema familiare, ed è attivamente coinvolto come agente del rinnovamento mediante l’uso di tecniche atte a provocare crisi e tali da scuotere il sistema e costringerlo a cercare un nuovo equilibrio strutturale, più salutare.

 

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARILa terapia sistemica dei disturbi alimentari (Nr. 28)

Il programma della terapia sistemica dei disturbi alimentari

La terapia prevede un programma comportamentale con la paziente e, se necessario, una fase di ospedalizzazione e una cura pediatrica. Strategie usate sono l’iperfocalizzazione o la defocalizzazione del sintomo.

La terapia familiare inizia di solito con una seduta centrata sul sintomo e sui confini gerarchici della famiglia (tecnica la cui utilità nel tempo è oggi criticata da molti autori: Minuchin et al., 1980). Emerge la difficoltà di instaurare una terapia individuale con le pazienti più gravi che, a causa della loro incapacità di concepire un rapporto che non sia simbiotico e annullante, di fronte all’incombere del transfert finiscono col rifugiarsi nel sintomo, unica possibilità di indipendenza.

La gestione del contro transfert

Per quanto riguarda il contro-transfert, invece, si consiglia una continua analisi, perché le anoressiche sono abilissime a suscitare nel terapeuta un sentimento di totale impotenza atto a provocare in lui le reazioni più diverse (Selvini Palazzoli, 1981). Scopo finale della terapia individuale sarà il rafforzamento dell’Io dell’anoressica di fronte al suo sentimento d’inadeguatezza o d’impotenza e al terrore di essere sopraffatta e invasa dal superpotere altrui. In tale direzione, sarebbe opportuno essere umani e aperti e ascoltare le pazienti, stabilendo con loro un senso di intimità, piuttosto che assumere l’atteggiamento dello psichiatra onnipotente, immagine profonda del genitore onnipotente (Selvini Palazzoli, 1976).

La rinuncia all’allontanamento dell’anoressica dalla madre durante il trattamento

L’allontanamento dalla madre è un tipo di tecnica che non viene più usata in quanto, nel tempo, si è notato che i miglioramenti ottenuti dalla paziente erano ben presto destinati a svanire una volta che questa rientrava in famiglia. Se non vengono mutate le relazioni familiari, la paziente non ha la possibilità di mantenere i cambiamenti fatti e ricade nella malattia. È necessario un lavoro che agisca sull’intero sistema familiare, perché solo con un adeguato mutamento degli equilibri interni è possibile che i cambiamenti ottenuti dalla paziente divengano stabili (Selvini Palazzoli, 2006).

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

 

La fatica di diventare se stessi – fluIDsex

Ciao, mi chiamo Mariella e ho 22 anni. Il mio sesso biologico è femminile, ma fin da piccola mi sono sempre sentita un maschio. Per me la disforia di genere è fonte di grande malessere psicologico e sto pensando al cambio di sesso. Vorrei sapere quali sono i requisiti e le procedure per la transizione di genere. Grazie,

Mariella da Torino

 

Car* Mariella,

percepire un’incongruenza tra la propria identità ed il suo attuale involucro è un’esperienza dolorosa, che tende a spiazzare chiunque la sperimenti. Soprattutto se si vive all’interno di una società che ci propone esclusivamente due modelli standardizzati di maschile e di femminile, rischiando così di portarci ad annullare e svalutare le nostre particolarità. È importante specificare, inoltre, che il disturbo nasce dall’eventuale intenso disagio associato alla non conformità di genere e non dalla condizione stessa (APA, 2014).

A tal proposito, potrebbe esser necessario darsi il tempo ed il modo per soffermarsi sull’origine del disagio: la sofferenza, infatti, talvolta potrebbe non esser dovuta esclusivamente alla percezione di un corpo femminile che non rappresenta un’identità maschile, ma anche alla mancanza di uno spazio all’interno del quale poter esprimere liberamente la propria identità (Dèttore, 2005).

Detto questo, il percorso di transizione è un percorso lungo e difficilmente reversibile, che probabilmente porterà con sé anche dei momenti di sconforto. Tuttavia, è importante tenere a mente che questi verranno completamente ripagati da ogni singolo cambiamento che avvicinerà sempre più il tuo corpo a quello con cui vorresti presentarti (anche) agli altri.

Per quanto riguarda la diagnosi, invece, questa segue un iter specifico, che si basa su sintomi letti in relazione alla storia personale. Al fine di avere dei chiarimenti, ti suggerisco di contattare uno dei centri specializzati più vicini a te (come ad esempio il CI.D.I.GE.M A Torino), che saprà darti ulteriori informazioni ed eventualmente accompagnarti nel tuo cammino.

In bocca al lupo e buon percorso!

Irene Lisa Gargano

 

Altre curiosità sulla sessualità fluida

Qual è il valore aggiunto che la definizione di sessualità fluida porta alla società? In che modo avere una nuova definizione aiuta chi ancora non aveva trovato la propria categoria?

Gipsy

 

Buongiorno Gipsy,

inizio rispondendo alla tua prima domanda: l’idea di sessualità fluida che abbiamo presentato nell’articolo introduttivo vorrebbe evitare di essere un nuovo termine, con annessa definizione, per aiutare chi non ha ancora trovato una propria categoria, ma si propone piuttosto come concetto, per aiutare chiunque a trovare se stesso, senza necessariamente far riferimento ad una o più categorie già esistenti.

Il valore che tale concetto di sessualità fluida potrebbe portare si instaura più a livello personale, che sociale. Si può però osservare come questi due insiemi (individuo-società), essendo molto intrecciati, danno il via ad una ruota di reciproco influenzamento.

Se ogni persona si sentisse libera di poter trovare la propria identità, la società potrebbe diventare, da un certo punto di vista, uno spazio più sereno; allo stesso modo, se la società non suggerisse dall’infanzia alle persone di doversi identificare in categorie, le persone stesse saranno più serene, evitando così di rinunciare a parti di sé per rientrare in qualche classe esistente ed evitando anche di vivere la fatica di creare nuove classi di appartenenza, in cui sentirsi rappresentati adeguatamente.

In questo processo resta da comprendersi meglio l’azione di meccanismi quali il “definirsi”, lo “omologarsi” ed il “differenziarsi” e come questi influenzino la formazione dell’identità di ciascuno di noi.

Per qualsiasi altra curiosità, sai dove trovarci!

Greta Riboli

 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Hillary, Bill e Donald: archetipi psicostorici

Dopo Angelina e Brad, Hillary e Donald. Finita la tregua degli amori estivi, questo autunno sembra la stagione del confronto tra i sessi.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta

 

I maschi sembrano ricacciati nel ruolo riservato a una rudezza vieux style: Brad Pitt bello e stupido, propenso all’alcol e all’impulsività aggressiva, dapprima sopportato e improvvisamente scacciato dalla moglie incline alla beneficienza e alle gioie dell’intelletto. Donald da mesi verbalmente intemperante mentre Hillary ricopre il suo ruolo istituzionale con fredda compostezza.

 

Hillary e Donald: la battaglia tra i sessi nel passato

Nella storia e nel mito cerchiamo gli archetipi di questa eterna battaglia. Nel passato la lotta del potere avveniva all’interno del matrimonio, nel quale maschi e femmine erano immancabilmente avvinghiati. Oggi ci si confronta al di fuori, nell’arena politica o giudiziaria.

Qualche secolo dopo il racconto di Candaule e sua moglie incontriamo un episodio simile –raccontato da Socrate Scolastico, storico della tarda antichità- che ci racconta una fase successiva dei rapporti di potere tra i sessi. Questa volta il confronto non è sanguinoso, non muore nessuno. Siamo al tramonto dell’epoca classica, poco prima della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. L’imperatore romano Valentiniano, un prode guerriero che aveva appena provveduto a ricacciare tutti i barbari oltre il confine (sarà però l’ultimo che ci riesce) si riposava dalle fatiche della guerra in una delle sue capitali, Treviri o Milano.

Era sposato e la consorte imperatrice si chiamava Marina Severa. Matrimonio combinato tra quelle famiglie di etnia illirica che erano da tempo a capo dell’Impero. Il matrimonio era avvenuto in un momento in cui la carriera di Valentiniano si era fermata in un vicolo cieco. In disgrazia per una scaramuccia di confine con i barbari mal gestita, si era beccato tutta la colpa e lo sfavore dell’Imperatore, che era Giuliano, il famoso apostata. Congedato dall’esercito, si era ritirato nelle sue terre a Sirmio (oggi Sremska Mitrovica in Serbia) a fare il gentiluomo di campagna e ne aveva approfittato per sposarsi. La coppia aveva avuto un figlio, Graziano, nel maggio del 359.

Qualche anno dopo, morto Giuliano, il favore imperiale per un soldato così competente era tornato e Valentiniano fu richiamato a ricoprire cariche militari. Severa lo seguì nel crescere del suo potere, dapprima comandante della guardia imperiale a cavallo, poi accolto nel consiglio di guerra imperiale, e infine inaspettatamente imperatore.

Il proprietario terriero sposato sei anni prima era salito sul trono imperiale e aveva indossato la porpora. E con lui Severa. Chi lo sa come visse questa assunzione nel massimo cielo del potere. Forse male, se volessimo dare un significato all’incomprensibile suo comportamento successivo. Il matrimonio andò ancora avanti ancora alcuni anni, finché inaspettatamente terminò. E vedremo come, perché qui sta il bello.

Non sappiamo come fossero andati avanti gli anni del matrimonio. L’assenza di altri figli dopo Graziano lascia immaginare che i due coniugi abbiano smesso di conoscersi carnalmente dopo la prima gravidanza, che il loro consorzio abbia assunto i contorni di un’amichevole distanza. Supposizioni, però corroborate dalla storia della fine del matrimonio.

Marina Severa aveva, come imperatrice, dame di compagnia con le quali s’intratteneva e conduceva la sua vita di corte. Tra queste ve ne era una che era, a quanto pare, di particolare bellezza. Il suo nome era Giustina. Tra le due donne nacque una grande amicizia e confidenza, tanto da condividere l‘intimità del bagno. E fu proprio qui, nei bagni e nelle terme, che origina la stranezza di questa storia. Severa, alla vista del corpo nudo di Giustina, rimase colpita dalla sua bellezza e lo raccontò al marito.

Cosa passa per la testa di una donna che tesse le lodi al marito del corpo nudo di un’altra donna? Cosa era accaduto tra Valentiniano e Severa negli anni? La moglie manda un segnale al marito? Un segnale di cessato desiderio di intimità fisica, un invito a servirsi altrove?

Certo, non si trattava di un matrimonio borghese, nato nelle illusioni sentimentali dell’amore moderno. Gli antichi, quando non erano schiavi, erano tutti contadini e soldati, il loro mestiere era lavorare la terra e fare la guerra. Completamente presi dal servizio pubblico, questi uomini non concepivano sogni e illusioni romantiche. Meno liberi di noi, non erano capaci di concepire la vita come un percorso personale da inventare ogni giorno. Compresi nella loro funzione sociale, nel compito del loro ceto di appartenenza fin dalla nascita, non avevano vita privata e non si concedevano sogni, si sottomettevano a un destino premeditato, in cui i matrimoni erano combinati e così le altre scelte di vita.

Eppure, c’era anche una letteratura popolare che parlava di amore e di libertà. Circolavano romanzi sentimentali in cui, al posto delle tragedie piene di storie di vendetta e di sangue, si raccontava di amori giovanili e contrastati dalle famiglie in cui gli amanti percorrevano tutto il mondo conosciuto tra inseguimenti e rapimenti di pirati ma alla fine si ricongiungevano felicemente. Vi era poi il sentimentalismo delle nuove religioni orientali, prima tra tutte il cristianesimo, che insegnavano agli individui l’esistenza di un vita personale che non era soggiogata a un destino impersonale, ma era protetta da un Dio che aveva a cuore la felicità umana. E così via.

Tutto questo confluì nello strano episodio di Severa e Valentiniano. Vi era dunque una delusione tra loro? Il loro era un matrimonio combinato che aveva obbedito a ragionamenti di convenienza e che ormai si era esaurito, e che come passione non era mai nato? E soprattutto, improvvisamente tutto questo era diventato intollerabile nella mente di Marina Severa, tanto da indurla a sviare altrove i desideri fisici del marito?

Oggi il sesso pervade le nostre vite al punto tale da sembrare una pietra angolare della libertà. Eppure si tratta di un fenomeno tardo, legato alle moderne tecniche anticoncezionali. Prima il sesso, specialmente per la donna, era un attentato alla libertà. Ecco che allora il comportamento di Marina Severa cambia di segno. Marina Severa voleva forse una vita più libera e lontana dal marito? Una donna che parla al marito della bellezza di un’altra donna, e non di una bellezza misteriosa ma ignuda, lubrica, una bellezza contemplata nei bagni, sta emettendo un messaggio. Vi è una strana consonanza con il racconto di Candaule e di sua moglie che abbiamo già incontrato. Ancora una volta una nudità di donna penetra nella mente del maschio, lo affascina e lo incanta.

Fatto sta che Valentiniano rispose a quel messaggio e si comportò di conseguenza. Una sera Valentiniano decise di controllare di persona le strane chiacchiere della moglie. Non conosciamo i dettagli. Possiamo immaginare che, deciso a contemplare e a toccare quel corpo nudo di cui tanto parlava la moglie, cerco l’amore con Giustina e tanto lo gradì da ripudiare Marina Severa, con la sbrigativa cerimonia che regolava questa faccenda, e poi propose a Giustina di sposarlo.

Beninteso, il matrimonio fu una favola orientale ma anche un calcolo politico. Giustina era una nipote del grande imperatore Costantino e sposandola Valentiniano legittimava ulteriormente il suo potere imperiale. Tuttavia, accanto al calcolo politico, possiamo vedere anche la storia di una donna che può vivere una vita più libera e indipendente. E altresì possiamo vedere un imperatore che indulge a un tipico secondo amore maschile della tarda maturità con una donna più giovane, dopo aver goduto del racconto lesbo-chic servitogli dalla prima moglie: donne nude al bagno.

Tutto questo c’entra qualcosa con Hillary e Donald o con Angelina e Brad? Forse poco. Però nel racconto ci sono strane assonanze tra Hillary e Bill, l’Imperatrice e l’Imperatore. Speriamo che anche Hillary, come Marina Severa, sappia conquistarsi la sua autonomia e la sua libertà menando per il naso i maschietti che la circondano.

Disoccupazione e disagio psichico: i primi risultati dallo Standupificio

All’interno di questo drammatico scenario di disoccupazione, nel 2015 nasce Standupificio, un progetto ideato e realizzato dall’Associazione Dentro un quadro. La radice del termine è tratta dal verbo inglese “to stand up” che significa “alzarsi” e che intende rimandare alla capacità delle persone di rimettersi in piedi. Il ripartire da sé e dalle proprie risorse si ritiene, infatti, essere la precondizione necessaria per cercare di vincere forme inevitabili di scoraggiamento che spesso sconfinano in sintomatologie d’ansia e depressione invalidanti, quando non in sintomatologie da traumatizzazione vera e propria.

[blockquote style=”1″]La disoccupazione è una cosa per il disoccupato e un’altra per l’occupato. Per il disoccupato è come una malattia da cui deve guarire al più presto, se no muore; per l’occupato è una malattia che gira e lui deve stare attento a non prenderla se non vuole ammalarsi anche lui.[/blockquote], Alberto Moravia, Nuovi racconti romani, 1959.

Il fenomeno della disoccupazione si configura oggi come una delle problematiche maggiormente caratterizzanti il nostro Paese. Dopo il calo dello 0,8% registrato a maggio 2016, a giugno la stima dei disoccupati torna a salire dello 0,9% assestandosi su un tasso di disoccupazione pari all’11,6% (dati provvisori Istat) (1). Parallelamente, aumenta la stima degli occupati dello 0,3%, una crescita che riguarda però gli indipendenti (+78mila), mentre restano invariati i dipendenti (2).

In questo contesto, Milano si configura come città metropolitana con un tasso di disoccupazione che aumenta dello 0,6% (+18000 disoccupati) rispetto a dicembre scorso, con particolare riferimento alle persone tra 25 e 49 anni (stima Istat) (3).
La letteratura scientifica evidenzia l’alta incidenza della disoccupazione sul livello di stress fisico e psichico e sul senso di autoefficacia delle persone, con ricadute negative sulla capacità di ritrovare un secondo lavoro dopo un periodo di minimo sei mesi di inattività, con fenomeni di ritiro sociale e con peggioramento dei livelli d’ansia, depressione, irritabilità e disturbi psicosomatici (4). La perdita di lavoro è, inoltre, annoverata dal National Institute of Mental Health (5) fra i fattori di rischio più comuni per lo sviluppo di un Disturbo Post traumatico da Stress (PTSD).

Standupificio: un progetto per ridurre il disagio psichico derivante dalla disoccupazione

All’interno di questo drammatico scenario, nel 2015 nasce Standupificio, un progetto ideato e realizzato dall’Associazione Dentro un quadro. La radice del termine è tratta dal verbo inglese “to stand up” che significa “alzarsi” e che intende rimandare alla capacità delle persone di rimettersi in piedi. Il ripartire da sé e dalle proprie risorse si ritiene, infatti, essere la precondizione necessaria per cercare di vincere forme inevitabili di scoraggiamento che spesso sconfinano in sintomatologie d’ansia e depressione invalidanti, quando non in sintomatologie da traumatizzazione vera e propria.

Standupificio è stato lanciato in via sperimentale il 30 novembre 2015 con un evento scientifico dal carattere non convenzionale che ha previsto due momenti: un momento pomeridiano, presso la Casa dei Diritti concessa gratuitamente dal Comune di Milano che ha anche patrocinato l’iniziativa, in cui si è sperimentata una modalità laboratoriale in piccolo gruppo; e un momento serale presso un ristopub milanese allestito ad hoc, in cui si sono, invece, sperimentati percorsi psicoeducativi individuali, prevedendo anche un momento psicoeducativo gruppale attraverso un gioco a quiz ideato per l’occasione, Chi vuol essere meno precario.

Oggi Standupificio è parte del progetto Artepassante (associazione capofila: Le Belle Arti), un progetto finanziato da Fondazione Cariplo che ha lo scopo di diffondere cultura in tutte le sue forme, adesso anche cultura psicologica. Si rivolge ai cittadini disoccupati o che vivono una situazione di precarietà, offrendo percorsi psicoeducativi gratuiti e non convenzionali fondati sui saperi della psicoterapia cognitivista e cognitivo-comportamentale.

Gli incontri mensili di Standupificio

Gli appuntamenti mensili di Standupificio si svolgono presso la stazione Vittoria del passante ferroviario di Milano. Nell’arco di ciascuna giornata, con le risorse logistiche attuali riusciamo a offrire mediamente i percorsi a 7-9 persone.

Il percorso psicoeducativo è individuale ed è finalizzato a trasferire strumenti di autoaiuto attraverso la focalizzazione degli aspetti cognitivi, emotivi e sensoriali dell’esperienza della perdita del lavoro, permettendo così ai partecipanti di sviluppare maggiore consapevolezza sulle modalità soggettive e diversificate con cui concepiscono il proprio disagio. Ciascun partecipante è seguito da uno psicoterapeuta.

Prima dell’inizio del percorso le persone compilano una breve batteria di test clinici volti a indagare alcuni aspetti emotivi della situazione attuale. Successivamente, il partecipante viene assegnato ad un terapeuta che lo accompagna durante un percorso di 50’ suddiviso in tre fasi, denominate rispettivamente “muro di rabbia”, “change!” e “perle a catena”:
1. “Muro di rabbia”: le persone hanno a disposizione vari materiali per manifestare la rabbia conseguente alla perdita del lavoro, un termometro di cartone per indicarne l’intensità percepita e un manichino per localizzare nel corpo le sensazioni.
2. “Change!”: si ispira alla tecnica cognitivo comportamentale “ABC”, ideata nel 1957 dallo psicologo Albert Ellis che l’ha poi formalizzata con la cosiddetta Terapia Razionale-Emotiva (Rational-Emotive Behaviour Therapy) (7). Change! prevede la messa a fuoco dell’evento della perdita del lavoro, nonché i pensieri e le emozioni corrispondenti, così da riflettere su come intervenire sul disagio che ne consegue. La messa a fuoco avviene in tre momenti distinti: “evento”, “emozioni”, “cognizioni”.
3. “Perle a catena”: si basa sul principio secondo cui modificando il pensiero è possibile incidere sul vissuto emotivo della persona (8). L’attenzione viene focalizzata su due pensieri che denominiamo “perle”: una “perla nera” individuata all’inizio del percorso e contenente un pensiero che innesca emozioni dolorose con riferimento alla difficoltà lavorativa e, al termine del percorso, una “perla bianca” che offre un pensiero alternativo che aiuta a vedere la difficoltà lavorativa in modo diverso.

La ricerca

In questo articolo vengono riportati alcuni dei risultati più significativi emersi dai tre incontri di Standupificio successivi all’evento lancio del 30 novembre 2015, ovvero il 29 gennaio 2015 nuovamente in Casa dei Diritti del Comune di Milano, il 13 maggio e il 10 giugno 2016 presso l’Atelier della parola nel mezzanino del Passante Ferroviario Stazione Vittoria di Milano.

Date le indicazioni presenti in letteratura secondo cui la disoccupazione con un periodo di inattività superiore ai 6 mesi (3) produce conseguenze emotive clinicamente significative, abbiamo voluto verificare nel nostro campione l’eventuale presenza di forme di disregolazione emotiva e di problemi nella sfera della depressione.

I partecipanti dei tre appuntamenti hanno compilato una scheda anamnestica, due test clinici – Beck Depression Inventory (BDI) (9) e il Difficulties in Emotion Regulation Scale (DERS) (10) – e un questionario finale di valutazione. Il BDI rileva un problema nel campo della depressione, mentre la DERS misura la difficoltà nella regolazione delle emozioni individuando, nel campo della gestione emotiva, la mancanza di accettazione, la difficoltà nel distrarsi, la mancanza di fiducia e di controllo e la difficoltà nel riconoscerle.

La numerosità oggi ancora esigua del campione (N = 20) non impedisce di condividere le evidenze più significative, come intuibile, senza alcuna pretesa di generalizzazione nè di validità finale.

Il campione

Il campione è costituito da 20 soggetti, tutti di cittadinanza italiana, 60% donne e 40% uomini.
Il 55% del campione ha un’età compresa tra i 40 e 60 anni, il 30% dei soggetti si distribuisce equamente (il 15%) nelle fasce di età “minore di 30 anni” e “oltre 60 anni”, mentre il 15% si colloca nella fascia tra i 30 e 40 anni.
Il 35% del campione è coniugato e/o convivente, il 25% separato e/o vedovo e il 40% è di stato civile libero. Fra le persone che hanno avuto e/o hanno una relazione in essere la metà hanno anche figli, con una presenza maggiore nel gruppo dei separati/vedovi.
Solo una persona dichiara di avere ancora un lavoro: i restanti sono tutti disoccupati. Il 47% lo sono da meno di un anno, il 20% da 1 a 2 anni, il 27% da 2 a 3 anni e nella stessa percentuale (27%) da 3 a 4 anni.
Il livello di scolarità è medio-alto: il 50% dei soggetti ha conseguito la laurea, il 45% il diploma di maturità e il 5% possiede un altro titolo diverso dalla laurea e dal diploma di maturità.

Alcune delle evidenze più significative

Dai dati raccolti, emerge con chiarezza come la motivazione sottesa alla partecipazione a Standupificio si divida prevalentemente tra la richiesta di aiuto (50%) e la curiosità (40%), con una minoranza (10%) che dichiara di essere stata mossa dall’esigenza di avere un confronto con persone che vivono la stessa condizione.

Dal punto di vista clinico, osserviamo come il campione che afferisce al servizio non sembri corrispondere ai criteri per una depressione clinica, ma presenti nel 70% dei casi un problema inerente l’umore depresso. Se andiamo a guardare i valori complessivi di riferimento, solo il 25% delle persone ha difficoltà nella regolazione emotiva, ma ad uno sguardo più approfondito emerge poi che la maggioranza esprime mancanza di fiducia e ritiene di avere difficoltà nel distrarsi volontariamente dalle emozioni.

Sembrerebbe esista quindi una relazione tra il funzionamento depressivo subclinico dei partecipanti e la loro capacità di regolare gli stati emotivi: persone con umore maggiormente depresso hanno minori capacità di gestire i vissuti emotivi (0,523; Sig. 0,018) e si rileva un rapporto interessante tra il funzionamento depressivo e la mancanza di accettazione (0,531; Sig. 0,016), la difficoltà nella distrazione (0,584; sig. 0,007) e la mancanza di fiducia (0,662; sig. 0,001). Punteggi elevati nell’umore depresso sembrerebbero corrispondere dunque a vissuti di inadeguatezza in specifiche abilità della gestione emotiva.

Le tematiche affrontate risultano percepite come sufficientemente approfondite per la totalità del campione ad eccezione che per un partecipante, con un buon grado di utilità riconosciuta al percorso per aiutare a fronteggiare in modo preponderante il senso di frustrazione (45%), l’ansia (30%), la rabbia e il senso di colpa (15%) e, in ultimo, la vergogna e il senso di responsabilità (10%).

Un aspetto a noi caro investe la metodologia utilizzata: Standupificio nasce volutamente come format innovativo e originale, così come di natura non convenzionale è il percorso psicoeducativo che proponiamo, data l’ipotesi che la creatività possa aiutare noi professionisti della salute mentale ad avvicinare le persone che versano in una condizione di disagio psichico – di qualunque tipo di disagio si tratti – alla psicologia e alla psicoterapia.
Il campione sembrerebbe dare ragione alla nostra caparbietà, definendo quasi all’unanimità (88,2%) – l’11,8% ha espresso un non gradimento senza però motivare la risposta – come adeguata la metodologia proposta.
Fra le ragioni dell’apprezzamento sono da annoverarsi la possibilità di avvicinare le persone al tema della disoccupazione (29,4%) e di affrontarlo con leggerezza (17,6%), essendo il tema riconosciuto come difficile e, al contempo, offrendo una prospettiva diversa della psicologia (17,6%).
Ugualmente apprezzate risultano essere le diverse fasi del percorso psicoeducativo (80%), che sembrerebbero permettere di esprimere con maggiore facilità le emozioni (31,25%) e di entrarvi facilmente in contatto (12,5%) ma anche “una metodologia di questo tipo facilita la relazione con lo psicologo” (6,25%) e “contribuisce a dare un’idea diversa della psicologia” (6,25%).

Il grado di soddisfazione risulta essere, infine, complessivamente molto alto, assestandosi per la maggioranza del campione (85%) “fra il 70 e il 100%”. Per il 10% l’apprezzamento è medio (= 50%) e per il 5% è invece molto basso (= 10% di apprezzamento).

Conclusioni

Coerentemente con quanto riportato in letteratura, i dati raccolti finora nel corso dei tre appuntamenti di Standupificio, nonostante l’esiguità del campione e, conseguentemente, la sua non rappresentatività, sembrerebbero confermare che persone disoccupate da almeno 6 mesi abbiano difficoltà collegate all’umore depresso, un senso interno di scarsa fiducia, difficoltà legate all’accettazione di quanto accade e difficoltà nel distrarsi dalle emozioni dolorose.

Questi risultati sembrerebbero suggerire che, oltre a un sostegno finalizzato alla gestione del problema di trovare un nuovo lavoro, queste persone abbiano anche bisogno di un sostegno nella gestione dei vissuti emotivi che, ci sembra, non sia sufficiente siano solamente riconosciuti ed espressi, ma che debbano essere anche elaborati e riorganizzati con modalità di pensiero più sane ed efficaci, pena il rischio che i pensieri tornino inevitabilmente al punto doloroso ritenuto ingestibile, impedendo alle persone di rimettersi in piedi.
Alla luce di queste primissime evidenze, il completamento del percorso di Standupificio con la messa a fuoco da parte del partecipante di una “perla bianca”, ovvero di un pensiero alternativo che aiuta a vedere la difficoltà lavorativa in modo diverso, risulterebbe essere ben funzionale e rispondente al quadro clinico. L’alto grado di soddisfazione, l’utilità percepita, nonché gli apprezzamenti espressi rispetto alla metodologia originale e innovativa adottata con Standupificio incoraggiano ad andare avanti.

 

Pet therapy: che cos’è e gli studi sull’efficacia

La pet therapy si sta espandendo molto anche in Italia, con metodi ed applicazioni a tipologie di pazienti molto diverse tra loro. Crescono anche gli studi scientifici internazionali sull’efficacia di questi interventi.

Chiara Daldosso, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Pet therapy: che cos’è

Cani, cavalli, delfini e gatti possono aiutare molti pazienti a migliorare nelle aree emotive, sociali e comportamentali.

La comunicazione verbale tra terapeuta – di qualsiasi orientamento egli sia – e paziente, è il veicolo principale attraverso cui pensieri, emozioni e sofferenza trovano una forma condivisibile tra i 2. La pet therapy è una forma di terapia in cui il canale comunicativo più usato e sollecitato è quello dell’immediata espressione delle emozioni, in cui si attiva il sistema rettiliano, nel paziente come nell’animale.

La pet therapy in Italia viene riconosciuta come utilizzabile per la cura di anziani e bambini nel decreto ministeriale del 2003. Nel 2005 anche il comitato nazionale bioetico la riconosce.
Nel frattempo, nel 2004, nasce la ESAAT (European Society for Animal Assisted Therapy) che certifica la formazione degli operatori e definisce le linee guida del trattamento degli animali impegnati in tutte le attività di terapia, di assistenza e di educazione, affinchè venga sempre preservato il loro benessere.
In realtà gli animali sono impiegati nella cura di diverse patologie da molto più tempo ed oggi esistono molti tipi di quella che viene comunemente conosciuta come “pet therapy”.

Le origini della pet therapy

Da quando gli animali sono stati coinvolti nella cura di alcune patologie psicologiche e fisiche dell’uomo?
L’addomesticamento degli animali da parte dell’uomo ha origini molto antiche, ma solo all’inizio del XX secolo si capisce quanto la vicinanza degli animali possa sortire effetti positivi e terapeutici nella psiche umana ed in alcune patologie fisiche. Negli anni ’60 lo psichiatra infantile Boris Levinson nota gli effetti positivi della presenza del suo volpino nelle sedute con i suoi piccoli pazienti. Per primo conia il termine “pet therapy” e gli attribuisce valore scientifico attraverso i suoi studi.
Sulla scìa delle ipotesi di Levinson, negli USA si susseguono altre applicazioni: nella cura dei disturbi mentali e come “facilitatori di relazioni” per gli anziani.

Negli anni ’80, Erica Friedmann, osservando per un anno pazienti dimessi dall’ospedale a seguito di problemi cardiaci, rileva una correlazione tra la sopravvivenza dei pazienti ed il loro possesso di animali domestici. In ricerche successive, la Friedmann scopre che non è necessario il contatto tra paziente ed animale, ma che basta l’osservazione dell’animale per indurre nel paziente cardiopatico la diminuzione della pressione, la regolarizzazione del battito cardiaco e della respirazione, il rilassamento del tono muscolare e delle espressioni del viso.
Nel 1992, mentre la pet therapy inizia a diffondersi anche in italia, Holcomb mette a punto un protocollo terapeutico per pazienti anziani: ne risulta che il livello di depressione cala con l’esposizione dei pazienti a uccellini e conigli.

Oggi la pet therapy si sta espandendo molto anche in Italia, con metodi ed applicazioni a tipologie di pazienti molto diverse tra loro. Crescono anche gli studi scientifici internazionali sull’efficacia di questi interventi. Prima di addentrarci nel merito è bene fare un po’ di chiarezza terminologica.

La prima importante distinzione da farsi è tra le Animal Assisted Activities (AAA), ovvero tutte quelle attività che migliorano la qualità della vita delle persone con handicap fisici o psico-fisici, e le Animal Assisted Therapies (AAT), veri e propri percorsi di terapia, che affiancati ad altri più tradizionali, hanno l’obiettivo di migliorare lo stato fisico, sociale, emotivo e cognitivo dei pazienti.
Le AAT possono essere usate, ad esempio, in carcere, a scuola, con pazienti psichiatrici, con anziani, con pazienti affetti da disturbi dello spettro autistico, con pazienti oncologici. Le sedute hanno fin dall’inizio un obiettivo terapeutico preciso e possono essere svolte in gruppo o individualmente. Dietro le quinte della progettazione di tali interventi vi sono quasi sempre equipe multidisciplinari composte da operatori specializzati, educatori, psicomotricisti, psicologi, medici, veterinari.

Le esperienze di pet therapy in Italia

In italia, onlus come Frida’s Friends dal 2012 si occupano di portare le AAA e le AAT in diversi contesti, con diversi pazienti e diversi obiettivi. Dalle scuole primarie, in cui attraverso i cani si riescono a creare contesti di maggiore inclusione tra i pari per i bimbi con difficoltà, alla Casa Pediatrica dell’ Ospedale Fatebenefratelli di Milano. In questo contesto, per i bimbi con disabilità gravi viene svolto un lavoro di riabilitazione sensoriale, in cui l’obiettivo può essere che il bimbo percepisca il contatto del muso del cane su un arto, o riesca a muovere un piedino e sorridere grazie alla presenza del cane.
In questa come in altre situazioni meno gravi (le ospedalizzazioni, i deficit cognitivi, i prelievi ematici), i cani che intervengono sono selezionati e monitorati dagli operatori, ma mai addestrati a fare qualcosa di specifico. Ogni cane (ed ogni altro animale impiegato nelle pet therapy) ha un temperamento specifico ed un suo modo di entrare in relazione con le persone, e viene lasciato libero di agirlo in quel dato momento.
L’impiego dei cani in contesti terapeutici ed educativi è stato dimostrato essere un fattore facilitante il raggiungimento degli obiettivi proprio perchè l’animale viene percepito dai bambini come un operatore non giucante e non portatore delle aspettative che invece caratterizzano spesso gli adulti umani (Friesen, 2010).

Questi setting dalle dinamiche libere e non del tutto prevedibili hanno come risvolto della medaglia una grande difficoltà di standardizzazione. Mettere a punto dei protocolli può significare, per alcuni operatori, snaturare il tipo di attività.

Gli studi sull’efficacia della pet therapy

La conseguenza più immmediata è che sebbene la pet therapy nei reparti pediatrici degli ospedali sia sempre più diffusa, ci sono ancora relativamente pochi studi scientifici che ne dimostrano l’efficacia. Nella Casa Pediatrica del Fatebenefratelli si stanno iniziando a raccogliere dati.
Lo racconta la Dott.ssa Beatrice Garzotto, responsabile e coordinatrice dell’attività: le prime rilevazioni fatte con il saturimetro rivelano che quando i bambini affrontano il prelievo ematico con il cane accanto, si regolarizza il battito cardiaco, la pressione arteriosa si abbassa e c’è una maggior ossigenazione del sangue rispetto a quando i prelievi vengono affrontati in condizioni classiche, senza il cane. Sono tutti indicatori fisiologici associati al livello di ansia.

Buoni risultati in questa direzione sono già stati riportati da Kaminski, Pellino e Wish, che nel 2002 hanno osservato un campione di 70 bambini e hanno usato come dato anche il livello dell’umore osservato dai genitori nei figli ospedalizzati.
A fronte di valori fisiologici immutati come la pressione sanguigna o il ritmo respiratorio, la presenza del cane può però far diminuire significativamente il livello del dolore percepito da bambini tra i 3 ed i 17 anni, in contesti ospedalieri e in alcuni momenti in cui il dolore è particolarmente forte (Braun, Stangler, Narveson, Pettingell, 2009).

Più nello specifico, secondo Sobo, Eng e Kassity-Krich, il fattore cognitivo sarebbe quello maggiormente influenzato: i pensieri negativi relativi al dolore percepito verrebbero affiancati e sostituiti da pensieri confortanti relativi all’essere in piacevole compagnia ed al sentirsi in un contesto più vicino a casa.

I pazienti ospedalizzati che ricevono pet-therapy avvertono anche un maggior livello di energia ed un abbassamento del livello di fatica, secondo lo studio di Bulette Coakley e Mahoney (2009).
Oltre ai cani, anche i cavalli, anch’essi animali che in natura vivono in branco e che quindi sono particolarmente abituati a relazionarsi con gli altri, sono sempre più spesso protagonisti di interventi a scopi terapeutici o educativi.

All’Ospedale Niguarda di Milano è attivo da anni il centro di riabilitazione equestre per persone con disabilità. Altri progetti, più propriamente ascrivibili nell’ambito AAT, partiranno al Fatebenefratelli con un pony che visiterà i bambini nel cortile ed in corsia.
Altri ancora, rivolti a pazienti psichiatrici e a donne con cancro al seno sono portati avanti dal Fienile Animato, un centro in provincia di Milano, in cui vengono impiegati cavalli e cani, talvolta insieme.

Alcune peculiarità metodologiche dell’approccio, che prevede setting in piccolo gruppo o individuali, sono che contrariamente a quanto avviene con i cani ad esempio, non vi è quasi mai contatto fisico tra paziente e cavallo. Inoltre il paziente entra in un’area erbosa in cui il cavallo (al massimo con capezza e longe) viene lasciato libero di pascolare ed, eventualmente, di cibarsi. Quest’ultimo aspetto in particolare è rilevante perchè consente al cavallo di “cedere” alla distrazione del cibo: un elemento molto significativo rispetto a quanto può rimandare l’animale in termini di dinamica relazionale, così come l’eventuale forte attivazione (corsa, imbizzarimento, ..).

Nel momento in cui il paziente entra nel perimetro del cavallo, dopo essere stato opportunamente preparato dal professionista, entra in relazione in maniera diretta e non mediata con il grande animale erbivoro. Entrambi possono provare le somatic experiencies della fuga, dell’attacco o del congelamento. Il terapeuta, al termine della seduta, aiuta il paziente a decifrare l’esperienza vissuta, accoglie le emozioni riportate e lo supporta nell’attribuzione di significato relativamente agli obiettivi terapeutici.

La presenza di un cane nei percorsi di supporto psicologico a donne con diagnosi di cancro al seno si è dimostrata favorire la comunicazione con i professionisti e quindi la partecipazione ed il coinvolgimento nella terapia, nello studio di White, Quinn, Garland, Dirkse, Wiebe, Hermann e Carlson (2015).

Le ultime tendenze in ambito di AAT ci dicono che da qualche tempo si sta facendo strada negli USA come in Europa, la Green Care: fattorie e contesti agricoli e rurali vengono usati nei programmi di promozione della salute fisica e mentale. In quest’ottica sono compresi non solo gli animali che abitualmente popolano le fattorie, ma anche la vegetazione ed il paesaggio stesso.
In tal senso uno studio fatto da Berget, Ekeberg e Braastad (2008) su un campione di 90 pazienti psichiatrici (schizofrenici, disordini affettivi, ansia e disturbi di personalità) usando la pet therapy con animali da fattoria, ha dimostrato un buon risultato in termini di aumento dell’auto-efficacia percepita e delle abilità di coping.

Conclusioni

In conclusione, in Italia non si è ancora giunti ad una regolamentazione chiara e unica per tutte le regioni. Di fatto queste attività non vengono riconosciute come terapie e quindi nella maggior parte dei casi non godono di finanziamenti degli enti sanitari pubblici, ma vengono portate avanti dalle onlus e da associazioni di volontariato.
Anche in merito alla dimostrabilità scientifica dell’efficacia ci sono ancora molti passi avanti da fare, ma meta-studi come quello di Nimer e Lundahl del 2007, che hanno considerato 250 ricerche, hanno rilevato che le AAT influenzano significativamente i risultati in 4 aree: le sindromi dello spettro autistico, le difficoltà fisiche, i problemi di comportamento ed il benessere emotivo. Le caratteristiche specifiche dei partecipanti e degli studi invece non si sono dimostrate significative.

I motivi per scegliere di studiare psicologia – Introduzione alla psicologia

Gli studi di psicologia permettono di acquisire una serie di competenze diverse che variano dal comportamento osservato alla fisiologia del cervello. Lo scopo è comprendere come la mente umana funzioni e in che modo consenta la messa in atto di comportamenti diversi in situazioni diverse.

Introduzione

Ogni anno in molti, dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore, devono scegliere quale percorso di studi intraprendere. Tante sono le offerte formative proposte dagli atenei e tanti sono i dubbi che possono sopraggiungere. Decidere cosa studiare spesso è un processo lungo e difficile, visto che si tratta di una scelta che andrà a incidere sul proprio futuro.
Tra i molti percorsi di studio possibili troviamo quello in Psicologia.

Storia della psicologia

La psicologia nacque nell’antica Grecia nel momento in cui iniziarono le prime trattazioni sistematiche sulla mente umana, argomento trattato da molti filosofi. Successivamente, la psicologia acquistò una sua autonomia e diventò una disciplina autonoma, ma solo nel XIX secolo si crearono le condizioni che permisero di rendere la psicologia una scienza vera e propria. Nell’800 si ottenne un repentino sviluppo negli studi anatomici e fisiopatologici del sistema nervoso, che permisero di identificare le leggi che regolano l’attività nervosa. Si evidenziò, in questo modo, la relazione esistente tra funzionamento di una serie di aree del cervello, le attività dell’organismo sottese da queste aree e, di conseguenza, i processi psichici a esse legate (Ellemberger, 1976).

Definizione di psicologia

Il termine “psicologia” è stato utilizzato per la prima volta da Wundt, psicologo- filosofo tedesco, alla fine dell’800, per individuare un’area di studio riguardante il comportamento umano. Per questo, fondò nel 1879 il primo Laboratorio di Psicologia a Lipsia.

Proprio il 1879 è considerato l’anno di nascita della psicologia moderna e sperimentale. Solo col passare del tempo e grazie al lavoro di molti studiosi psicologi è stato possibile attribuire al termine psicologia una definizione precisa (Ferraris, 2006).

Per psicologia si è soliti intendere la scienza che indaga l’attività psichica e il comportamento umano. La psicologia è una scienza che studia le mille sfaccettature della mente: come funziona, come si sviluppa e come si traduce in comportamenti (Legrenzi, 2012).
Indubbiamente, la psicologia investe un ambito molto ampio, che varia dalla psicologia dello sviluppo, alla psicologia sociale, alla psicologia del lavoro, etc.
Molte, dunque, potrebbero essere le aree che possono muovere interesse, incuriosire e, per questo, potrebbero influenzare il percorso di studi da intraprendere.

Perché studiare psicologia

Gli studi di psicologia permettono di acquisire una serie di competenze diverse che variano dal comportamento osservato alla fisiologia del cervello. Lo scopo è comprendere come la mente umana funzioni e in che modo consenta la messa in atto di comportamenti diversi in situazioni diverse.

Quali potrebbero essere, quindi, le motivazioni che spingono a scegliere la facoltà di psicologia?

Ci sono diversi motivi per studiare psicologia, primo tra tutti capire come funziona la mente umana. Comprendere il funzionamento della mente umana, aiuta a definire il motivo di molti comportamenti normali o patologici. Quotidianamente siamo tempestati da un gran numero di emozioni e pensieri, che possono aiutarci ad affrontare le situazioni o renderle più difficili. Quindi, capire come reagiamo, per esempio, a un lutto o a una perdita, o perchè effettuiamo scelte relazionali sempre uguali, o individuare i motivi dell’ansia pre-esame, può aiutare a gestire meglio gli eventi quotidiani o imprevisti, attribuendo dei significati a degli stati d’animo o emozioni. Tutto questo aiuta a comprendere meglio cosa avviene nella nostra mente, soprattutto se supportato da una serie di spiegazioni su cosa avviene fisiologicamente nel cervello, sia a livello di neurotrasmettitori, sia a livello di aree che si attivano in maniera selettiva per comportamenti specifici. Di conseguenza, le neuroscienze svolgono un ruolo fondamentale, poiché forniscono le risposte in relazione ai diversi comportamenti attuati. Per esempio, si parte dalla percezione, conoscenza diretta del mondo esterno, per capire come funziona normalmente e quando è alterata: illusioni ottiche, dispercezioni di alcune parti del corpo e allucinazioni. Cosa fondamentale è comprendere i meccanismi che utilizza la mente, ovvero come funzionano le diverse aree cerebrali, le cellule di cui sono composte e come interagiscono tra loro, o perchè non lo fanno e a quali conseguenze, emotive e comportamentali, può portare questa non interazione.

Conoscere come si sviluppa nel corso del tempo la mente umana può essere un altro motivo che induce a scegliere di studiare psicologia. La psicologia evolutiva aiuta a comprendere come avviene lo sviluppo cognitivo dai primi giorni di vita all’età adulta. Lo sviluppo è un processo di evoluzione e di cambiamento incrementale. Si parte dallo studio dello sviluppo cognitivo nei bambini, che si conclude entro l’adolescenza, per poi passare al cambiamento decrementale cognitivo, come il deterioramento cognitivo e il declino di una serie di processi mentali. Il tutto è coadiuvato dallo studio delle relazioni, soprattutto quella madre- bambino, che non solo è alla base di un adeguato sviluppo cognitivo, ma può anche influenzare le possibili scelte relazionali future.

La qualità della relazione madre-bambino determina infatti il tipo di legame di attaccamento che si sviluppa e quindi il modello di relazione che ciascuno andrà ad interiorizzare e sulla base del quale plasmerà scelte ed aspettative relazionali successive. L’attaccamento, che è un sistema dinamico di atteggiamenti e comportamenti volti alla ricerca di cura e protezione da parte dell’altro, può generare sicurezza – il cosiddetto “attaccamento sicuro” – e farci sentire protetti, amati e accolti, o insicurezza – i cosiddetti attaccamenti evitanti o ambivalenti – e indurre a una serie di emozioni e comportamenti caratterizzati dall’incertezza rispetto al legame con l’altro, come dipendenza, paura del rifiuto, ansia e irritabilità. Ne consegue che la strutturazione di un attaccamento insicuro può presiedere allo sviluppo di una serie di disagi con se stessi, relazionali e sociali.

Un’altra motivazione per scegliere psicologia è che tale percorso di studi fornisce una conoscenza di base dei metodi di ricerca. Apprendere come sviluppare una ricerca facilita la messa in atto del pensiero deduttivo, pratico, volto al raggiungimento dello scopo. In questo ambito si facilita l’applicazione del pensiero critico, che consiste nell’analizzare con cura l’argomento oggetto di studio, valutarne le possibili implicazioni e giungere a conclusioni che si suppone possano essere corrette il più possibile. Il pensiero critico aiuta e agevola in molti ambiti, facilita a non giungere a conclusioni affrettate né a procrastinare nel conseguire la scelta. Il pensiero critico porta a non formulare ipotesi aggiuntive rispetto a quelle strettamente necessarie, procedendo per tentativi di errore. Questa modalità di pensiero aiuta nella vita quotidiana ad affrontare le situazioni, eliminando atteggiamenti o comportamenti superflui.

Potrebbe essere motivante anche capire come relazionarsi in situazioni di gruppo e duali. La psicologia sociale studia gli effetti dei processi sociali, identificando il modo in cui gli individui interagiscono tra loro attraverso dei processi sociali, ovvero i modi in cui i pensieri, le emozioni e le azioni sono influenzate dalle persone che ci circondano, dai gruppi a cui si appartiene, dai rapporti individuali, dalla famiglia e dalla cultura di origine. Questi meccanismi condizionano i comportamenti messi in atto in una relazione di coppia o amicale, nel gruppo dei pari e nell’ambiente lavorativo. In quest’ultimo caso si studiano i comportamenti delle persone nel contesto lavorativo e nello svolgimento della loro attività professionale. In altre parole, si applicano i modelli e le teorie della psicologia all’ambiente di lavoro per favorire il benessere non solo individuale, ma anche lavorativo facilitando una possibile progressione di carriera.

Ultima motivazione che potrebbe influire sulla scelta di intraprendere gli studi in psicologia è conoscere la psicopatologia dal punto di vista più propriamente clinico. Si parte dal padre fondatore, Sigmund Freud, secondo cui i processi psichici inconsci condizionano il pensiero, il comportamento e le interazioni tra le persone. Da qui si articola tutta la sua teoria che si basa, in estrema sintesi, sull’interpretazione dei sogni e l’applicazione del metodo ipnotico mentre il paziente è adagiato su un lettino. Dopo Freud, tanti altri si sono occupati di malattia mentale, ricordiamo Jung, Melanie Klein, Bion, e altri fino ad arrivare al giorno d’oggi. Attualmente, la malattia mentale è accuratamente classificata e incasellata nel manuale diagnostico e statistico della malattia mentale (DSM 5), dove criterio dopo criterio si definiscono le diverse patologie riconosciute sul piano clinico.

È possibile, inoltre, diagnosticare la malattia mentale attraverso una serie di test standardizzati e tarati che permettono di giungere a una diagnosi accurata e oggettiva. I test riguardano nello specifico il campo della psicodiagnostica, in cui ogni comportamento osservabile è misurabile e oggettivabile. I test permettono di inquadrare adeguatamente la patologia del paziente, sia per quanto riguarda i disturbi d’ansia, sia per i disturbi di personalità. I test sono usati in molti ambiti, non solo per effettuare diagnosi psicologiche, ma anche in ambito giuridico, oltre a soddisfare, ovviamente, la pura e semplice curiosità personale.

Concludendo, tante sono le aree che possono incuriosire e stimolare interesse. La psicologia è una scienza che investe diversi ambiti, che variano dall’individuale al collettivo, passando, ovviamente, lungo un continuum che va dalla normalità alla patologia. Sicuramente, studiare psicologia anche per pura cultura personale potrebbe aiutare a individuare modelli o teorie che possano facilitare la quotidianità.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La somministrazione di EPO per il trattamento dei deficit cognitivi nei pazienti depressi o con disturbo bipolare

Un nuovo studio ha dimostrato che l’eritropoietina (EPO), un ormone la cui funzione principale è regolare la produzione dei globuli rossi e meglio conosciuto per il suo impiego negli sport come doping per incrementare la propria performance, può migliorare le capacità cognitive in pazienti con disturbo bipolare o con depressione.

 

Questi disturbi, sebbene noti principalmente per gli effetti sortiti sull’umore dell’individuo, si accompagnano a dei deficit cognitivi significativi (Arts, Jabben, Krabbendam & Van Os, 2008; Bortolato et al., 2016) e i risultati dello studio in questione, pubblicato su European Neuropsychopharmacology, darebbero speranza agli scienziati riguardo la possibilità di trattarli.

Infatti, tra i pazienti depressi e bipolari si rilevano deficit per lo più a carico delle funzioni esecutive e della memoria verbale; i depressi, in aggiunta, evidenzierebbero anche una compromissione parziale delle proprie capacità attentive. Inoltre, più del 70% dei pazienti in remissione dal disturbo bipolare e più del 40% in remissione dalla depressione continuano a mostrare questo genere di compromissioni cognitive.

Per ciò che riguarda l’EPO, essa è per lo più secreta dai reni ed è appunto essenziale alla produzione di globuli rossi. In sostanza, ad una più alta concentrazione di EPO corrisponde una maggiore capacità del sangue di trasportare ossigeno. Per questo motivo è impiegata per il trattamento dell’anemia e in ambito sportivo per incrementare le performance fisiche.

In questo articolo vengono illustrati due RCT (randomized controlled trials) dove i ricercatori hanno valutato le funzioni cognitive di 79 pazienti depressi o con disturbo bipolare: a 40 di questi fu somministrata l’EPO per nove settimane, i rimanenti 39 invece assunsero un placebo.

Al termine degli studi si è osservato un significativo miglioramento nei test cognitivi (ad es., di memoria verbale, attenzione, abilità di planning) dei pazienti che avevano assunto l’EPO. Inoltre questo miglioramento permaneva anche dopo il follow-up di 6 settimane dal termine del trattamento. Secondo la dott.ssa Kamilla Miskowiak, autrice e lead researcher dello studio:

I pazienti trattati con EPO hanno mostrato un miglioramento delle loro funzioni cognitive fino a cinque volte superiore rispetto ai loro livelli di baseline rispetto ai pazienti trattati con placebo, che miglioravano solo del 2%.

Si è osservato anche che i pazienti che ottenevano bassi punteggi nei test neuropsicologici erano gli stessi che beneficiano di più dell’assunzione di EPO, caratteristica che permetterebbe ai clinici di meglio identificare i pazienti che trarrebbero maggior beneficio dal trattamento.

Gli autori hanno concluso affermando che sono necessari ulteriori studi che replichino questi risultati e che diano maggiori informazioni relative al dosaggio e alla frequenza di assunzione di EPO; invece, essendo già prescritta per il trattamento dell’anemia, la sicurezza dell’ormone è ormai conclamata. Infatti, la eritropoietina è generalmente sicura, a patto che i livelli dei globuli rossi del paziente siano controllati regolarmente; gli unici pazienti che dovrebbero evitare tale ormone sarebbero, ad esempio, i fumatori o coloro che in passato hanno avuto importanti coaguli.

Stile di camminata e personalità aggressiva: trovate nuove correlazioni

Un nuovo studio ha mostrato come una persona aggressiva possa essere identificata dal suo modo di camminare. Questa ricerca potrebbe risultare utile nella prevenzione della criminalità, al fine di riconoscere una persona con intenti aggressivi prima dell’agito criminoso.

 

Lo studio

Lo studio, condotto presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Portsmouth, è stato pubblicato sulla rivista Journal of Nonverbal Behavior, con l’obiettivo di utilizzare le tecniche di analisi della camminata, per dimostrare la relazione esistente tra andatura e personalità.

Liam Satchell e colleghi, si sono concentrati sulle cinque grandi dimensioni di personalità, sulla base della teoria del Big Five (McCrae e Costa): estroversione-introversione, gradevolezza-sgradevolezza, coscienziosità-negligenza, nevroticismo-stabilità emotiva, apertura mentale-chiusura mentale. Insieme questi cinque tratti possono aiutarci a determinare il modo in cui l’individuo pensa, sente e si comporta. Questi aspetti sono stati indagati in relazione all’andatura.

Un totale di 29 partecipanti hanno preso parte all’esperimento. Inizialmente è stata effettuata una valutazione di personalità basata sul modello del Big Five, e in seguito è stata registrata la camminata di ciascuno (attraverso la tecnologia Motion Capture), mentre camminava sopra un tapis roulant a velocità normale.

vLa tecnologia Motion Capture, registra i movimenti umani e utilizza le informazioni restituendo un modello animato in 3-D. Sono stati presi in considerazione i movimenti del torace e del bacino, insieme alla velocità del passo.

I risultati hanno mostrato come un movimento particolarmente marcato del corpo, sia nella parte alta come nella parte bassa, siano indicatori di aggressività. E’ stata inoltre osservata una moderata correlazione tra la velocità del passo e aggressività nei maschi, mentre tale correlazione non è stata rilevata tra le femmine, e nel campione intero.

I risultati dello studio

I partecipanti su cui è stata rilevata una predisposizione all’aggressione fisica più alta hanno mostrato dei movimenti maggiori sia nella parte superiore del corpo sia in quella inferiore. [blockquote style=”1″]Le persone sono generalmente consapevoli che c’è una relazione tra spavalderia e psicologia. La nostra ricerca fornisce una prova empirica che conferma come la personalità si manifesti anche nel nostro modo di camminare[/blockquote] dice Satchell.

Questo tipo di rilevazioni potrebbero essere utilizzate per aiutare nella prevenzione del crimine. [blockquote style=”1″]Se gli osservatori a circuito chiuso potessero essere addestrati a riconoscere una “camminata aggressiva”, come dimostrato nella presente ricerca, il loro riconoscimento preventivo di un crimine potrebbe esserne migliorato[/blockquote] aggiunge Satchell.

Ulteriori ricerche sono comunque necessarie per stabilire la tipologia di correlazione e i rapporti di causalità tra andatura e personalità.
[blockquote style=”1″]L’esistenza di queste correlazioni mostra il potenziale di ricerca nelle relazioni tra differenze psicologiche individuali e differenze nei movimenti. [/blockquote]

Il colloquio in emergenza: intervento psicologico in situazioni traumatiche

A volte è lo psicologo a dover raggiungere il paziente, il quale necessita di essere sostenuto a seguito di una situazione a lui imprevista e a cui non riesce a reagire adeguatamente: si tratta del colloquio in emergenza, lo psicologo si ritrova ad assumere le vesti di vero e proprio soccorritore, che giunge in aiuto di quel paziente che ha subito un trauma.

 

Il colloquio psicologico in emergenza

Per colloquio psicologico solitamente si intende una seduta tra paziente e psicologo all’interno di uno studio, dove il paziente vi si presenta di sua volontà, fissando un appuntamento col professionista, al fine di parlare di un suo personale disagio.

Perché infatti il colloquio psicologico prevede un setting strutturato: una stanza formale e attrezzata al dialogo, nella quale ci si reca con un appuntamento programmato.

Non sempre però è così. A volte è lo psicologo a dover raggiungere il paziente, il quale necessita di essere sostenuto a seguito di una situazione a lui imprevista e a cui non riesce a reagire adeguatamente.

Si tratta del colloquio in emergenza.

Sono quei casi in cui lo psicologo si ritrova ad assumere le vesti di vero e proprio soccorritore, che giunge in aiuto di quel paziente che ha subito un trauma.

Il DSM IV definisce il Trauma come:

Un fattore traumatico estremo che implica l’esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte, lesioni gravi o altre minacce all’integrità fisica (American Psychiatric Association, 1994).

Nelle situazioni traumatiche il Pronto Soccorso Psicologico assume notevole rilevanza, non solo in quanto migliorerebbe il grado di benessere della persona colpita, ma potrebbe inoltre aumentare la percentuale di remissioni spontanee post trauma.

 

 

Le fasi del colloquio in emergenza

Il colloquio in emergenza, così come il colloquio tradizionale, si divide in fasi (Iacolino, 2016):

  • Accoglienza, con creazione del setting e dell’alleanza terapeutica;
  • Intervento breve in acuto;
  • Valutazione psichica a seguito dell’intervento traumatico;
  • Inserimento della vittima nella rete di assistenza sociosanitaria di emergenza.

Alla base vi è un obiettivo: stabilizzare, prevenire altri traumi che possono avvenire a ridosso dell’evento, e ristabilire un corretto equilibrio da parte del soggetto affinché possa reagire e far fronte adeguatamente all’evento traumatico, perché infatti la persona colpita da un trauma è bloccata in emozioni e  stati d’animo negativi, che sovente impediscono alla persona di andare avanti.

Affinché possa crearsi una buona alleanza terapeutica è opportuno che il primo approccio psicologico alla vittima sia preceduto da una autopresentazione da parte dello psicologo sul mandato a lui affidato.

Nel caso in cui vi siano altri soccorritori ad accompagnare la persona soccorsa al colloquio bisognerà incoraggiarli alla presentazione della vittima, in quanto l’approccio dovrà includere fin dall’inizio tutte le risorse umane che sono state attivate nella situazione di emergenza.

Soprattutto in quei contesti di catastrofi naturali (terremoto, alluvione, ecc) potrebbe accadere che le vittime siano tante, ma sarà opportuno riconoscere l’individualità di ciascun soggetto per poter fornire una corretta assistenza che parta dai bisogni espressi.

L’accoglienza va curata adeguatamente, ascoltando le richieste, sostenendo le persone nell’espressione dei bisogni, valutando a modo le condizioni psichiche del soggetto e le sue dinamiche relazionali.

Lo psicologo in emergenza dovrà sempre ricordare che il paziente ha subito uno stress acuto, e sarà per cui provato da uno stato d’ansia, di angoscia o di rabbia, e ciò potrebbe far sì che i suoi racconti manchino di elementi spazio temporali coerenti; sarà quindi importante fare attenzione alle espressioni emotive ed affettive. Questo perché la congruenza tra l’espressione emotiva e la vicenda narrata è un buon indicatore della capacità integrativa del soggetto (Iacolino, 2016).

La persona vittima di un trauma necessita di essere accolta, validata, rassicurata e informata. La narrazione dell’evento va valutata adeguatamente e mai forzata; ricordando che le manifestazioni di dissociazione e depersonalizzazione sono una difesa contro l’angoscia e consentono un avvicinamento graduale ai contenuti traumatici (Steinberg, Schnall, 2001).

Vanno rinforzate tutte le sensazioni positive che il soggetto nel corso dell’intervento potrebbe aver recuperato, al fine di ripristinare la calma e il controllo del proprio stato vitale.

Tutto ciò consentirà di accompagnare la vittima verso una stabilizzazione emotiva che gli permetterà di utilizzare adeguatamente le proprie risorse personali per superare l’evento.

Non bisogna mai dimenticare che alla base dell’intero intervento psicologico in emergenza dovrà esservi un’adeguata formazione da parte dello psicologo ad operare in questo campo.

Nelle situazioni traumatiche verrà ad attivarsi una intera rete di sostegno offerta dalle istituzioni, e fondamentale sarà la fiducia che lo psicologo ripone nei confronti del sistema di soccorsi, affinché sarà possibile operare secondo un’ottica di squadra, dove un gran numero di risorse umane sono pronte a sostenersi a vicenda al fine di riportare le vittime verso il corretto equilibrio psicologico.

Attaccamento traumatico: il ritorno alla sicurezza (2016) – Recensione

Attaccamento traumatico: il ritorno alla sicurezza. Un titolo denso di speranza e di fiducia quello scelto dall’autrice, che descrive percorsi clinici possibili, basati su solide basi teoriche, per i bambini e gli adulti che non hanno potuto avere benefici da una base sicura (J.Bowlby, 1980). Dal trauma che rompe la possibilità di sicurezza alla terapia che genera possibilità di sperimentare il senso di sicurezza.

L’attaccamento traumatico e gli effetti delle traumatizzazioni infantili

Anna Rita Verardo è psicologa e psicoterapeuta, con specializzazione in terapia cognitiva comportamentale e sistemica relazionale, è docente e supervisore per l’associazione EMDR e vanta numerosi studi circa gli effetti delle traumatizzazioni infantili e dell’ attaccamento traumatico.

Nella prima parte del testo l’autrice ripercorre il processo di costruzione del legame d’attaccamento tra genitore e bambino, illustrando i fondamentali presupposti teorici: i sistemi motivazionali; i modelli operativi interni; il concetto di base sicura.
Molto interessante l’approfondimento circa la depressione post-partum; gli stati intersoggettivi nella diade mamma-bambino e i processi di rottura e di riparazione nella relazione tra caregiver e bambino.

Che cosa accade a un bambino quando nella sua primissima infanzia vive e subisce un’esperienza traumatica? Un abbandono, un maltrattamento, un abuso o l’assistere a una violenza intra-familiare? Dove vanno queste immagini, questi ricordi nella sua mente?
Gli eventi traumatici nella prima infanzia, ormai da anni la ricerca l’ha dimostrato, non si dissolvono nel cervello di un bambino seppure molto piccolo….. costruiscono una traccia mnestica precisa nelle reti neurali; una traccia in parte accessibile a livello della coscienza ma una traccia capace di interrompere lo stato di sicurezza e di ostacolare il sano e armonico sviluppo psicologico del bambino.

Le teorie che spiegano l’attaccamento traumatico

La dottoressa Verardo spiega gli effetti delle traumatizzazioni infantili alla luce della teoria Polivagale di Porges (2011) e del concetto di “finestra di tolleranza” di Siegel (1999). Per finestra di tolleranza s’intende il grado di arousal che garantisce al soggetto, sia esso adulto o bambino, le condizioni ottimali per un buon funzionamento.

Il grado ottimale di attivazione varia da persona a persona e si modifica in relazione alle esperienze precedenti, esso si colloca tra gli estremi scarsa attivazione (sotto la finestra di tolleranza) ed eccessiva attivazione (sopra la finestra). Molto spesso le storie di traumi infantili, a causa dello stress prolungato, riducono l’ampiezza della finestra di tolleranza e il soggetto tende a emettere risposte di disregolazione emotiva e comportamentale anche se si trova in situazioni di sicurezza.

Nel testo si descrivono specifiche situazioni traumatiche in età evolutiva quali il lutto, l’abbandono da parte del genitore biologico e l’adozione. Alla luce della teoria di Siegel e di Porges l’autrice ne illustra gli esiti possibili sullo sviluppo emotivo e relazionale del bambino e fornisce indicazioni circa il trattamento psicoterapico.

Teoria dell’attaccamento e Teoria Polivagale non solo forniscono una base esplicativa ma importanti indicazioni che il clinico potrà utilizzare per favorire “il ritorno alla sicurezza”.

EMDR: possibile trattamento dell’attaccamento traumatico

Inoltre lo psicoterapeuta troverà nel testo importanti contributi provenienti dall’approccio EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). Il National Institute of Mental Health ha approvato l’utilizzo dell’EMDR come metodo elettivo per la rielaborazione dei traumi. Emdr si basa sulla teoria dell’elaborazione adattiva dell’informazione (Shapiro, 1995): sembra esserci nell’uomo un’innata capacità di autoguarigione delle ferite emotive favorendo un’elaborazione adattiva dei ricordi delle ferite stesse. A volte accadono esperienze così traumatizzanti da mandare in corto circuito questo sistema bloccandolo e mantenendo le informazioni riguardanti il trauma (immagini, suoni, parole, pensieri ecc.) congelate in uno stato disturbante.
L’Emdr si focalizza sul ricordo dell’esperienza traumatica e mediante un protocollo specifico di otto fasi, permette il riequilibrarsi dell’elaborazione dell’informazione traumatica.

Le otto fasi comprendono:
1. Anamnesi
2. Preparazione del bambino: spiegazione del metodo; esercizio del posto al sicuro e installazione di risorse.
3. Assessment
4. Desensibilizzazione
5. Installazione
6. Scansione corporea
7. Chiusura
8. Rivalutazione.

Il protocollo standard in otto fasi è declinato in diversi adattamenti in base al tipo di esperienza traumatica vissuta e all’età del cliente/paziente. Nel testo, Verardo descrive l’adattamento del protocollo EMDR per l’età evolutiva con gli opportuni accorgimenti e semplificazioni che un bambino necessita, secondo la specifica età e delle competenze emotive e cognitive.

Inoltre ampio spazio è dedicato al lavoro con i bambini adottati e i loro genitori adottivi, e al protocollo per l’elaborazione del lutto.

Verardo descrive il programma Feel Safe, ideato da lei e suoi collaboratori: si tratta di un intervento di sostegno psicologico rivolto ai bambini che hanno subito esperienze avverse e ai loro genitori. Il programma Feel Safe si avvale dell’EMDR per prevenire e risolvere quadri psicopatologici, e/o difficoltà relazionali ed emotive derivanti da traumi infantili; traumi dei genitori o traumi dei figli.

Il testo è arricchito da numerose esemplificazioni cliniche e da materiali in grado di agevolare il lavoro del clinico, ad esempio il questionario ACE (Adverse Childhood Experience) che quantifica il numero delle esperienze negative occorse entro i diciotto anni. Il lettore troverà questionari di assessment sia per i genitori sia per i bambini, inoltre scale di autovalutazione dei bisogni del genitore, utile punto di partenza per un lavoro educativo e di sostegno psicologico con i caregiver.
L’autrice generosamente descrive le attività che propone ai bambini durante la terapia: il gioco degli sguardi, la scatola dei ricordi positivi e il gioco del volume. Si tratta di attività pensate e sperimentate per facilitare la relazione terapeutica con il piccolo paziente e facilitare la connessione tra parti traumatizzate e nuove parti, l’integrazione tra presente, passato e futuro; lo scopo è che queste parti possano dialogare in modo adattivo generando la possibilità di pensare a un futuro positivo.

Il lavoro d’integrazione delle parti fatto con l’Emdr aiuta il bambino a comprendere che gli elementi delle esperienze traumatiche del passato (pensieri, emozioni, sensazioni del corpo) possono essere elaborati e non incastrati causando continuamente sofferenza. [blockquote style=”1″]Se correttamente integrati all’interno della propria storia, lo lasceranno libero di fare esperienze positive nel presente e di poter avere fiducia nel futuro.[/blockquote]
Questa frase dell’autrice racchiude il senso e lo scopo del lavoro dello psicoterapeuta con i bambini traumatizzati.

Credo nelle capacità riparative dei genitori e degli operatori (psicoterapeuti e educatori) e penso che questo testo possa essere un valido supporto ai colleghi che si occupano di questo delicato lavoro e auguro a questi bambini di poter sperimentare la sicurezza.

Significato e implicazioni psicologiche del breast ironing nelle comunità camerunesi

Il breast ironing, noto anche come appiattimento del seno, è una procedura utilizzata in Camerun e riguarda le bambine dagli 8 ai 12 anni, periodo in cui comincia a svilupparsi il seno. A differenza delle procedure di mutilazione genitale femminile, tale pratica non è ancora molto conosciuta a livello internazionale.

Antonietta Mastrandrea – OPEN SCHOOL, Bolzano

 

Che cos’è il Breast Ironing

Il breast ironing, noto anche come appiattimento del seno, è una procedura utilizzata in Camerun e riguarda le bambine dagli 8 ai 12 anni, periodo in cui comincia a svilupparsi il seno.

A differenza delle procedure di mutilazione genitale femminile, tale pratica non è ancora molto conosciuta a livello internazionale, ma se ne è iniziato a parlare nel 2005 a seguito di uno studio nazionale condotto da una associazione camerunese, ‘La Rete Nazionale delle Ziette (RENATA)’ e delle ricerche sul campo del dottor Flavien Ndonko e della dottoressa Germaine Ngo’o che collaborano con la ‘Società tedesca per la cooperazione internazionale’.

Dalla ricerca, condotta sotto forma di intervista, è emerso che gli strumenti utilizzati per attuare il breast ironing possono essere i più vari e il loro utilizzo è dovuto a numerose tradizioni e superstizioni: si passa dall’applicazione di specifiche foglie medicinali riscaldate, gusci di noce di cocco, ghiaccio, fino all’utilizzo di stracci caldi, noccioli di frutti, pietre per macinare e pestelli di legno. L’oggetto in questione viene di solito riscaldato e applicato sul seno attraverso un movimento di massaggio o di vera e propria pressione. Il metodo più utilizzato nella pratica di breast ironing è quello di riscaldare un pestello a una estremità e poi schiacciare i seni immaturi per qualche minuto; di solito le ragazze sottoposte a tale pratica vengono sorprese nel sonno e immobilizzate per evitare la fuga. Ma sono documentate anche pratiche in cui si fa abbracciare alla bambina a petto nudo un tronco di banano e poi la si fa sfregare vigorosamente intorno ad esso.

Secondo le donne intervistate, la durata delle sessioni di breast ironing varia dai 10 ai 15 minuti e la frequenza del trattamento può variare da due volte al giorno, per settimane o anche mesi, fino a che il seno non sparisce.

L’appiattimento del seno viene praticato dalle donne della famiglia: mamme, nonne, zie, cugine, sorelle, bambinaie, a prescindere dal livello socio-economico,  istruzione, cultura di appartenenza e credo religioso. I padri spesso non sono a conoscenza dell’accaduto, è una pratica tutta al femminile. La motivazione spesso addotta a giustificare la pratica è l’intenzione delle donne di famiglia di preservare la fanciullezza delle figlie che iniziano a svilupparsi precocemente, per dissuadere le attenzioni di carattere sessuale da parte degli uomini e l’inizio di un’attività sessuale che potrebbe portare a una gravidanza non desiderata. Tuttavia è emerso che le donne che praticano l’appiattimento di solito non spiegano le motivazioni del gesto alle bambine.

 

Effetti del Breast Ironing

Come ben si può immaginare, la pratica del breast ironing può avere delle conseguenze non solo sulla salute fisica della bambina, ma anche su quella mentale.

Sebbene non siano stati condotti studi medici sugli effetti collaterali dell’appiattimento del seno, dalle interviste condotte emerge che gli effetti fisici maggiormente riscontrati sono il ritardo o interruzione della crescita del seno, ascessi con febbre, ferite, bruciature e cicatrici e in ultimo anche cancro al seno. Tuttavia non possono essere confermate o negate conseguenze a lungo termine.

Molte ragazze che hanno subito il breast ironing, soffrono anche a livello psicologico: esse riportano di soffrire molto per le cicatrici emotive che derivano dall’appiattimento del seno, poiché il messaggio che arriva loro dalle donne della famiglia è che avere il seno è sbagliato e vergognoso. In particolare si osservano fenomeni di interiorizzazione della colpa dovuta all’interpretazione di subire la pratica come punizione per aver causato dispiacere ai propri genitori; sensazione costante di paura; quando poi il seno si sviluppa in seguito, emerge uno stato di vergogna, in quanto nella mente della ragazza si fa largo l’idea che non dovrebbe avere il seno; depressione e ritiro in se stessa; esclusione ed emarginazione sociale, qualora la pratica dell’appiattimento arrivi a distruggere il seno della ragazza; non per ultimo diminuzione dell’autostima e della motivazione, sensazione di depersonalizzazione, non sentirsi più donna.

Le suddette implicazioni psicologiche del breast ironing derivano dal fatto che le ragazze che subiscono l’appiattimento, non ne conoscono i motivi e vivono l’evento come doloroso e inspiegabile; dalle interviste emerge che poi le ragazze reprimono il ricordo e non associano l’appiattimento del seno con i disturbi psicologici che sviluppano, oppure arrivano a negare di avere dei sintomi, riferendo quello che accade loro come normale.

Dall’altra parte ci sono le implicazioni psicologiche di chi effettua l’appiattimento del seno: come può una madre provocare questa immensa sofferenza alla propria figlia? Sebbene sappiano quanto dolore fisico causino alle proprie ragazze, queste donne non lo fanno con l’intento di mutilarle, ma per la loro protezione e per garantire loro il massimo interesse, ovvero poter preservare la fanciullezza per evitare gli stupri, non rimanere precocemente incinta, mantenere intatta la loro reputazione, proseguire il più possibile gli studi per guadagnare l’indipendenza e per contrarre un buon matrimonio in un’età più adeguata.

 

Considerazioni

In un’ottica interpretativa occidentale, il breast ironing può essere visto come una procedura brutale equiparabile alle pratiche tradizionali dannose come  la mutilazione genitale femminile, il matrimonio in età infantile o la dote della sposa. Può essere considerata una discriminazione silenziosa perché nessuno ne parla e paradossale perché avviene tra simili, appartenenti alla stessa cultura e addirittura alla stessa comunità. In realtà è plausibile dover interpretare i fenomeni tenendo sempre presente la cultura di riferimento.

Nel nostro caso, l’appiattimento del seno viene vissuto come uno strumento di protezione e di controllo del proprio corpo da parte della donna, in una cultura in cui tutto il potere viene esercitato dagli uomini e dove le donne non sono libere di essere consapevoli delle loro scelte. Anche se i cambiamenti socio-culturali dovuti alla maggiore istruzione e alle varie campagne di sensibilizzazione stanno includendo sempre più la donna all’interno della società, le decisioni maggiori nei vari ambiti della vita rimangono in mano agli uomini: si veda ad esempio le pratiche matrimoniali che rimangono bene o male quelle tradizionali, che includono il matrimonio a un’età della donna precoce, la poligamia e disparità di diritti in caso di divorzio.

Un’altra interpretazione plausibile è il controllo della famiglia sulla propria figlia: uno sviluppo precoce dei seni, indica maturità sessuale; se una ragazza giovane accetta le avance sessuali degli uomini, può rimanere incinta al di fuori del matrimonio, guadagnandosi una cattiva reputazione e rovinando anche quella dell’intera famiglia. Anche qui siamo nella situazione in cui la singola donna non può essere padrona del proprio corpo.

Infine l’appiattimento del seno può essere interpretato come speranza per una vita più indipendente a livello economico e sociale e meno dipendente dal potere maschile: con il seno piatto diminuiscono le possibilità di matrimonio precoce, aumentano la possibilità per le donne di aumentare la propria istruzione e di arrivare a fare carriera in ambito lavorativo, facendo sì che autonomia e autosufficienza diventino sempre più la realtà in un contesto sociale ancora troppo maschilista.

 

Conclusioni

Anche se la pratica del breast ironing è una componente della cultura all’interno delle comunità camerunesi, ciò non significa che non costituisca uno strumento di sofferenza psichica e fisica delle giovani ragazze e questo non solo va contro la convenzione sui diritti dell’infanzia (articolo 19) ma è stato inserito tra i crimini contro le donne dalle Nazioni Unite, e perciò si auspica che venga abbandonata. A tal proposito gli interventi da mettere in atto sono le campagne di sensibilizzazione sulla salute e la biologia umana, l’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole, favorire una migliore educazione e comunicazione tra genitori e figli, ma anche la diffusione dell’esistenza di tale pratica a livello nazionale e internazionale.

Inoltre lo Stato del Camerun negli ultimi anni si è impegnato a tutelare i diritti umani, quelli delle donne e dei bambini attraverso la ratifica di numerosi atti internazionali quali la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) e la Carta di Ottawa per la Promozione della Salute dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità (1986). Tuttavia per quanto riguarda il breast ironing nello specifico, non sono state ancora emesse leggi che rendano la pratica illegale.

Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, sai che ci sono

A conti fatti, la terza volta che mi trovo in una chiesa dopo la prima comunione. Un paio di matrimoni da cui è stato impossibile sottrarsi. Ai funerali, mai andato. C’è gente che ha rotto con me per questo. Ma non posso farci niente. Non reggo il mio imbarazzo, l’inadeguatezza fisica – anche il semplice fatto di avere due braccia e due gambe – di fronte al dolore altrui.

Questa volta, la terza, la messa per mia madre.

Poca gente. Se muori dopo aver attraversato quasi tutti gli stadi della demenza, per la maggior parte delle persone sei morto molto prima. Solo che fare le condoglianze ai parenti in quel momento sarebbe indelicato. Ora, non lo ammettono, non è morto nessuno. È solo arrivato il momento di disfarsi di un oggetto inservibile.

Sto seduto in prima fila accanto a mio padre, lui stesso sgomento, sorpreso per quanto stia soffrendo. Anche se fa in modo che il suo dolore occupi meno spazio possibile. La sua tendenza a mantenere un basso profilo, rendersi poco evidente. La sua specialità, passare inosservato, eppure essere capace di guizzi improvvisi che lasciano l’interlocutore e gli eventuali altri presenti disorientati. Mi ricordo una cena sociale con un gruppo di suoi colleghi (mio padre fa il cardiologo). Mi aveva portato con sé ad un congresso a Vienna sponsorizzato da una casa farmaceutica. Avevo diciassette anni. Portarmi con sé era uno dei suoi modi per dirmi che mi vedeva già medico come lui. E a me stava benissimo, perché in quella fase della mia vita questo era un modo efficace per dargli una prova di quanto potessi diventare un’estensione di lui. A quella cena c’erano alcuni colleghi che lui non conosceva. Lo osservavo con un’inquietudine la cui natura non comprendevo pienamente in quel momento. Ora so che intravedevo il suo senso di estraneità. Quando rideva per una battuta di un suo collega, il suo imbarazzo si scioglieva momentaneamente, sembrava meno oppresso da un peso invisibile, e allora anche io mi lasciavo alleggerire da una risata piena, anche perché il suo collega faceva veramente pisciare sotto quando faceva finta di parlare in tedesco con l’accento viennese (del tutto inventato).

Fino a un secondo prima tutte quelle persone non lo avevano visto.

Il loro sguardo era passato rapidamente su quell’ometto brizzolato e grintoso alla Dustin Hoffmann nella riduzione cinematografica de La versione di Barney. Poi quello sguardo aveva archiviato immediatamente l’informazione come non rilevante. Era in situazioni come queste che mio padre poteva uscirsene all’improvviso con una risposta o una battuta che lo rendeva improvvisamente visibile. La sua presenza diventava palpabile. Discreta ma imprescindibile. Da quel momento iniziavi a scorgere nell’espressione di alcuni dei presenti una specie di diffidenza assorta. Come se per loro non fosse stato lì fin dall’inizio.

Come se fosse comparso all’improvviso seduto al suo posto.

Il prete, don Carlo, a mia madre voleva bene. Almeno così dice. Il fatto è che nelle fasi intermedie del suo lento deterioramento, mia madre faceva continuamente donazioni alla parrocchia, quindi è difficile che don Carlo la vedesse come una nemica della fede.

Mi conosce di vista. Non so se lo fa perché quel giorno è a corto di personale o per una forma molto religiosa di presa per il culo, ma mi chiama a declamare la lettura e quel richiamo ipnotico dei fedeli alla sintonizzazione forzata che chiamano Salmo Responsoriale.

Mi tocco un paio di volte il petto con l’indice per mimare a don Carlo ‘chi, io? Ma è sicuro?’, poi mi avvio verso l’ambone scambiandomi solo uno sguardo rapido con Cristo, che se ne sta lì, in alto, troneggiante, moribondo, inchiodato a una croce di legno spesso. Messo lì al centro preciso di ogni cosa.

Quello che deve essere il sagrestano mi mostra le due pagine che dovrò leggere, contando molto sul mio intuito. E sbagliando, perché inverto la sequenza delle declamazioni. Inizio col Salmo. E leggo:

– Il Signore è il mio past..

Il sagrestano, che si è messo alla destra dell’ambone, si precipita felinamente sul microfono per coprirlo con la mano. Mi guarda come se mi avesse sorpreso mentre profano la tomba del papa, poi forse si ricorda che sono il figlio della defunta e si addolcisce, indicandomi dove iniziare a leggere.

I pochi grumi di platea fanno finta di non aver rilevato la cosa. Mio padre mi guarda con un’espressione assente.

Riprendo, imponendomi di dominare il rossore prendendo la cosa sportivamente. In fondo, mi immaginano confuso dal dolore:

– Dal libro del profeta Isaia…

E faccio una pausa perché il ricordo infantile riemerso all’occorrenza mi dice che si fa così. Poi vado in modalità congresso di psichiatria, e recito con distacco professionale:

– In quel giorno, preparerà il Signore dell’universo per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi é il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza».

Sollevo un momento lo sguardo sull’uditorio. Rilevo che non ha un’espressione molto diversa da quella che aveva prima che io iniziassi a leggere.

– Parola di Dio.

E loro, in coro:

– Parola di Dio.

Freno la tentazione di ripetere due o tre volte Parola di Dio per verificare che mi vengano dietro. Poi guardo il sagrestano per chiedergli l’ok. Lui me lo dà con un cenno del capo. Sento che tra me è lui c’è già un’intesa speciale. Mi gaso un po’ quando declamo:

– Ripetete con me: “Il Signore é il mio pastore: con lui non manco di nulla.”

E loro ripetono.

E io:

– Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.

Li guardo e loro, puntuali:

– Il Signore è il mio pastore: con lui non manco di nulla.

Prendo il ritmo.

– Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Incespico sulla parola “vincastro” perché non so assolutamente che significhi.

– Il Signore è il mio pastore: con lui non manco di nulla.

– Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca.

– Il Signore è il mio pastore: con lui non manco di nulla.

– Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni.

Sull’ultimo ‘Il Signore è il mio pastore: con lui non manco di nulla’, guardo il sagrestano, che mi telecomanda al mio posto.

Mi sento strano.

Don Carlo mi ringrazia con un cenno della testa. Con molto più mestiere di me inizia a leggere il passo del Vangelo che ha scelto per mia madre, discostandosi un po’ dal rito funebre classico. Un prete flessibile. La sua voce é suadente, sincopata.

“Un uomo chiese a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n`ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».”

Il buon samaritano. Trattare il prossimo tuo come vorresti che il prossimo tuo trattasse te.  La compassione.

Senza soluzione di continuità si mette a parlare di mia madre. Mentre dice le cose di routine sulla vita eterna mi guardo le nocche della mano destra. Non ho mai capito perché nelle situazioni in cui c’è solo da aspettare che passi il tempo mi guardo le nocche delle mani, e soprattutto perché mi guardo proprio le nocche della mano destra.

Poi però don Carlo dice una cosa su mia madre, paragonandola al buon samaritano. Qualcosa che ha a che fare con la generosità, ma di cui la mia mente non riesce a registrare testualmente. Una cosa che in quel momento mi sembra nuova. E che può sapere solo chi l’ha conosciuta veramente. Non chi, come me, l’ha conosciuta e basta. Non capisco bene il concetto, perché raggiunge solo la metà del mio cervello non impegnata a fissare le mie nocche. Tanto che non ricordo nemmeno le parole esatte che don Carlo usa per esprimerlo. Qualcosa dentro di me fa più presto della comprensione semantica. Il senso di una corrispondenza sperata. Quella cosa che mia madre aveva è la stessa cosa che io ho sempre desiderato avere. Come se mi arrivasse all’improvviso la consapevolezza che questa cosa che ha a che vedere con la generosità, lei ha provato ad insegnarmela per tutta la vita, ma non c’è riuscita perché io non sono stato in grado di capire in tempo.

Faccio a piedi la strada che separa la chiesa dal mio studio. Ho deciso che oggi è meglio lavorare.

Il cellulare non la smette di vibrare. Tanto che lo tengo in mano. Gli sms fioccano. Recitano tutti diverse variazioni sul tema di quella frase. La solita. “Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, non esitare a chiamarmi”. Molti degli sms provengono da persone che ho salutato poco fa. Al funerale, c’erano. Al termine della funzione si sono messi in fila, composti. Un gregge affranto. Ciascuno di loro, quando è arrivato il suo turno, mi ha abbracciato tenendo lo sguardo basso e scuotendo la testa. Alcuni hanno solo scambiato con me uno sfioramento di guance, prima una poi l’altra. Di altri, ho sentito l’umido delle labbra sulla pelle del viso.

Ma sentono che non basta. Che ti devono qualcosa di più. E allora ti fanno arrivare questo sms nel momento, loro immaginano, che sarai rimasto solo. Se lo immaginano come il momento più difficile, quello in cui la messa finisce e tu rimani senza di loro.

Nei giorni successivi ne riceverò tanti altri, di sms. Sarà il turno di quelli che al funerale non ci sono venuti. Tra l’altro, ci farò caso solo in quel momento che al funerale non c’erano. Perché, anche se il tema e il tono non variano (“Se posso fare qualcosa per te ti prego dimmelo”, “Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, sai che ci sono”, “Sono con te, e per qualunque cosa fai affidamento su di me”, ecc.), gli sms di questa seconda serie sono preceduti da bugie sociali che hanno la forma di acrobazie del luogo comune del tipo “Mi è stato impossibile esserci fisicamente ma ero lì con te nello spirito”.

Fatto sta che quello che più o meno tutti mi dicono è che il mio lutto mi abilità a disporre di loro.

Possibile che chi dice o scrive questa frase pensi veramente che lo chiameremo alle tre del mattino, in preda all’angoscia, solo per dirgli che siamo in preda all’angoscia? E che, attanagliati dall’angoscia per tutta la giornata, ci siamo dimenticati di andare a comprare il pane, e se per cortesia può alzarsi, vestirsi, uscire e trovare un forno, tanto nel giro di un’ora apriranno (che gli costa aspettare una mezz’ora in macchina davanti alla saracinesca chiusa?) e portarci uno sfilatino caldo. Quello sì, che attenuerebbe l’angoscia. Possibile, poi, che se quella frase te la dice un’amica bona che hai sempre desirato scoparti senza riuscirci, questo possa voler dire che stavolta lei non potrà sottrarsi?

Insomma, quando le persone pronunciano quella frase o te la scrivono via sms, che sembra quasi che dal telefonino esca pure la loro faccia costernata, accudente, fanno veramente? Ma sul serio la morte di qualcuno con cui avevi un legame sufficientemente stretto genera il diritto temporaneo a disporre del prossimo? Riproducendo (anche se per un tempo limitato, perché poi il lutto ci mette poco, soprattutto per gli altri, ad andare in prescrizione, anche il più atroce) l’onnipotenza dell’infanzia.

 

 

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Le bugie: quali motivazioni le sostengono, l’influenza del testosterone e gli effetti sul benessere psicologico

La menzogna è una riproduzione verbale di un’ immagine della realtà, volutamente alterata con lo scopo di condizionare la reazione cognitiva, emotiva e comportamentale dell’altro.

Irene Desimoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Menzogna, finzione, errore e segreto: le differenze

Ammettiamolo, a chi non è mai capitato di dire una bugia? Quella volta che mamma ci ha chiesto se avevamo finito i compiti e noi abbiamo volutamente mentito perché avevamo fretta di uscire in bicicletta con gli amici; oppure tutte quelle volte che ci diciamo “domani incomincio la dieta”, ma in fondo sappiamo che stiamo mentendo a noi stessi, o ancora, quando qualcuno ci chiede se stiamo bene e noi puntualmente rispondiamo “bene, grazie”, ma in realtà non siamo poi così in forma.

Queste ipotetiche situazioni sono esempi di alterazioni della verità. Ma come mai ci capita? Quali motivazioni ci spingono a dire una bugia? Prima di rispondere a questa domanda, è bene comprendere che cosa sono le “bugie” e da quali altri comportamenti simili si differenziano.
Innanzitutto differenziamo tra menzogna e finzione. Già etimologicamente queste due parole sottolineano una diversità, infatti mentre la menzogna fa riferimento al mentire e al falso, la finzione fa invece riferimento al fingere e al finto.

Fare finta richiama inevitabilmente gli studi dello psicologo Jean Piaget sul gioco simbolico, definito come un’ attività caratteristica di una fase evolutiva del bambino (che inizia dai 18 ai 24 mesi) dove qualcosa viene utilizzato per rappresentare qualcos’altro (Piaget, 1970). Oggetti, azioni, identità, situazioni, vengono utilizzati per rappresentare oggetti, azioni, identità e situazioni diverse e soltanto immaginate (ad esempio un tavolo coperto da una tovaglia diventa una casa, un lenzuolo blu diventa il mare). Quindi, la finzione è trasporre un qualcosa con un determinato significato a qualcos’altro, che però in un altro contesto assume un significato diverso.

Un’altra importante distinzione è quella tra menzogna ed errore. Affermare il falso per ignoranza del vero è molto diverso dall’affermare il falso pur essendo al corrente di come stanno realmente le cose. La differenza dunque sta nel fatto che nella bugia si è a conoscenza della verità e intenzionalmente si dichiara il falso; l’errore invece non è una bugia, chi dice il falso per ignoranza lo fa in buona fede, non ha l’intenzionalità di non dire il vero, anche perché crede nella verità di quello che sta affermando.

In ultimo, bisogna differenziare la menzogna dal segreto. In entrambi si ha l’intenzione di nascondere e non rivelare conoscenze, ma nel caso del segreto si pensa di avere il diritto di non riferire ad altri specifiche informazioni.

La definizione di menzogna

Detto questo, non volendo di proposito badare alle varie sfumature che assume la definizione di menzogna a seconda dell’autore che l’ha studiata, possiamo comunque darne una definizione esaustiva citando le parole di Paul Ekman (1989) il quale definisce la bugia come [blockquote style=”1″]atto comunicativo consapevole e deliberato di trasmettere una conoscenza non vera ad un altro in modo che quest’ultimo assuma credenze false sulla realtà dei fatti.[/blockquote]

Luigi Anolli (2003) successivamente ha integrato tale definizione specificando come la bugia sia [blockquote style=”1″]un atto comunicativo consapevole e deliberato di ingannare un altro che non è consapevole e che non desidera essere ingannato.[/blockquote]

La menzogna è una riproduzione verbale di un’ immagine della realtà, volutamente alterata con lo scopo di condizionare la reazione cognitiva, emotiva e comportamentale dell’altro. Con questa definizione si presuppone che il mentire avvenga all’interno di una interazione sociale fra una o più persone, in cui si ha uno scambio comunicativo del tipo:
X mente a Y affermando P se, e solo se, sa che P è falso (e che quindi non-P è vero) e conduce Y a credere che P è vero.

La bugia inconsapevole quindi non esiste, in quanto nessuno può dire menzogne senza intenzionalità e consapevolezza di farlo e questo può verificarsi in due maniere: colui che mente può cercare di far credere il falso, oppure chi mente può tentare di non far credere il vero.
Volendo riassumere i contenuti sopra riportati, la menzogna è caratterizzata da tre elementi essenziali:
1. La falsità del contenuto di colui che comunica in modo linguistico o paralinguistico
2. La consapevolezza del contenuto falso
3. L’intenzionalità di ingannare l’interlocutore

Anolli (2003) aggiunge che[blockquote style=”1″] mentire è sempre una interazione sociale e un atto comunicativo rivolto a un destinatario che può assumere o la funzione di “vittima” – quando crede nella menzogna del mentitore – o la funzione di “smascheratore” – quando scopre la menzogna.[/blockquote] Nel primo caso si parla di “successo” della menzogna; nel secondo caso di “insuccesso”.

Infine, bisogna sottolineare che la menzogna si sviluppa su due canali comunicativi: il primo è il canale verbale che prende in riferimento la successione logica delle parole, il secondo è il canale non verbale il quale si compone di abilità paralinguistiche come la voce, la mimica facciale, i gesti e la prossemica (Keltner & Ekman, 2003).

Perchè si mente?

Veniamo dunque alla domanda centrale: “Perché mentiamo?”.
“L’arte dell’inganno” è presente non solo nel comportamento dell’essere umano, ma in quasi tutti gli esseri viventi, dal grande mammifero, ai volatili, agli anfibi, ai vegetali e persino nei batteri. In particolare, sono interessanti gli studi del biologo Robert Trivers (2011), il quale sostiene come la concorrenza tra ingannatori e ingannati sia una parte saliente del processo evolutivo derivante dalla lotta fra i geni per la sopravvivenza della propria specie. Per fare un esempio, la tartaruga alligatore presenta sulla sua lingua due lembi rosa molto simili a lombrichi, i pesci vengono così ingannati e attirati nella trappola. Le farfalle invece scoraggiano i predatori colorandosi in modo da ricordare i colori di specie velenose, i cuculi si evitano il fastidio di allevare i figli deponendo le loro uova nei nidi di altri volatili.

In generale dunque, anche alla base dell’intelligenza umana vi sarebbe l’inganno che, a certi livelli e non prendendo in considerazione morale ed etica, ricopre una funzione importante consentendo di ingannare le altre persone e garantire, in termini evolutivi, la sopravvivenza della specie umana (Trivers, 2011).

A livello più psicologico, ricercatori nel campo della psicologia, hanno più volte tentato di categorizzare le menzogne, esse possono essere distinte in base al grado di malignità, grado di patologia e a seconda della motivazione che spinge l’individuo a mentire (Anolli, 2003; Mayer, 2008; Neuburger, 2008).

In questo articolo prenderemo in riferimento la classificazione delle menzogne in base alla motivazione che le sostiene.
Le menzogne si distinguono principalmente in bugie transitorie (di evitamento, di difesa, di acquisizione e bugie di autoinganno) legate all’appartenenza a specifiche età, ruoli e situazioni di vita, e le bugie caratteriali (pseudologie, di timidezza, di discolpa e bugie gratuite) riferite alla storia di vita del mentitore e alla sua personalità, dunque tendono ad essere più stabili, ricorrenti e pervasive (Lewiss, & Saarni, 1993).

Vediamole insieme:
Bugie di evitamento: muovono dalla motivazione di evitare una punizione, un conflitto, un rifiuto o per difendere la propria privacy. Le menzogne per evitare una punizione si ritrovano nelle persone adulte, ma soprattutto nei bambini, i quali imparano già verso i 2-3 anni a mentire quando si rendono conto di aver commesso una trasgressione punibile. Le menzogne per evitare un conflitto e/o un rifiuto si ritrovano spesso nell’adulto e vengono utilizzate nella sfera lavorativa, sociale o familiare per evitare di entrare in conflitti senza fine dannosi per qualsiasi tipo di relazione interpersonale. Infine, le bugie per difendere il proprio privato, riguardano prevalentemente adolescenti ed adulti, nascono dal bisogno di preservare un senso di indipendenza, di autonomia e di libertà personale, sono comportamenti protettivi che restituiscono al mentitore una percezione di controllo relazionale sull’altro preservando la propria autonomia e il proprio vissuto.

Bugie di difesa o innocenti: partono dalla motivazione di una persona di proteggere il proprio sé o i sentimenti di persone amate. Pensiamo ai complimenti che i bambini ricevono di fronte ai loro primi scarabocchi, oppure, se a Natale riceviamo un regalo che non ci piace, difficilmente lo comunicheremo alla persona che ce l’ha regalato; è più verosimile che dissimulando la delusione, ci mostreremo contenti. Soprattutto gli adulti mentono per cortesia, ma i bambini imparano questa regola sociale precocemente tramite un’istruzione diretta o per osservazione dei comportamenti dei genitori.

Bugie di acquisizione: muovono dal bisogno di sentirsi approvati, la motivazione sottostante è quella di migliorare e/o aumentare l’immagine della persona che la racconta, di accedere a un’immagine di sé perduta o inaccessibile, il tutto per ottenere un vantaggio personale. La persona potrebbe inventarsi di appartenere a una famiglia molto benestante, di avere conoscenze importanti, oppure potrebbe attribuirsi maggiori meriti scolastici o lavorativi per accaparrarsi un posto di lavoro. E’ un tipo di menzogna considerata normale nell’infanzia e fino a quando occupa un posto ragionevole nell’immaginazione del bambino. Tale comportamento viene considerato comprensibile fino ai 6 anni, la sua continuità oltre tale età potrebbe invece evidenziare psicopatologie, come ad esempio il disturbo narcisistico di personalità.

Bugie di autoinganno: partono dalla motivazione di proteggere il proprio sé, hanno l’effetto di un “anestetico psicologico” ossia hanno lo scopo di non prendere una totale consapevolezza di parti del proprio funzionamento mentale e comportamentale, o di non prendere coscienza di certi aspetti o situazioni della nostra vita per le quali, si potrebbe provare disagio. Secondo De Cataldo e Gullotta (2009) [blockquote style=”1″]L’autoinganno è in primo luogo uno stato nel quale si determina una divergenza tra ciò che il soggetto che mente sa, sia pure a livello inconsapevole, e ciò che egli riconosce. Tale meccanismo impone di accettare il fatto che una persona creda allo stesso tempo ad una proposizione e alla proposizione che la nega. [/blockquote]Chi pratica l’autoinganno non da rilievo alle motivazioni più valide a livello razionale, ma quelle maggiormente funzionali per il raggiungimento del proprio benessere e dei propri desideri.

– Pseudologie fantastiche: meglio conosciute come “bugie patologiche”, muovono dalla motivazione di auto accrescimento della propria autostima o per proteggersi dal giudizio altrui. Diversi studi (Colombo, 1996; Treanor, 2012) definiscono tali menzogne come abituali, intenzionali e facilmente mascherabili in quanto poggiate su costruzioni di natura complessa e fantasiosa, che vengono vissute dal soggetto come reali. Sono dunque bugie a cui lo stesso autore crede, possono riguardare i più svariati eventi o argomenti e, a differenza delle bugie di acquisizione, non vengono dette per ottenere un vantaggio sociale. E’ una bugia caratteristica delle personalità istrioniche, che si ritrova anche nei bugiardi patologici e nella sindrome di Mùnchausen.

Bugie di timidezza: una motivazione che può spingere una persona a raccontare bugie è la timidezza. Le persone timide solitamente sono caratterizzate da una concezione di base di sé negativa, possono affrontare le situazioni sociali con la sensazione di essere inferiori rispetto alla maggior parte delle altre persone. Questa lettura della realtà può portarli a raccontare bugie per apparire migliori agli occhi degli altri, per evitare situazioni sociali o attività considerate imbarazzanti e dove potrebbero sentirsi al centro dell’attenzione e inadeguati.

Bugie di discolpa: muovono dal bisogno di discolparsi da insinuazioni più o meno fondate. Sono una tipologia di bugie diffusa nei bambini, ma si riscontra anche negli adulti solitamente caratterizzati da un’idea di sé come inferiori e incapaci di gestire le proprie responsabilità di azione.

Bugie gratuite: sono bugie che apparentemente non hanno una motivazione che le sostiene, vengono dette con lo scopo di divertire, per allegria o per dare sfogo alla fantasia. Potrebbero sottolineare il bisogno di attenzione o il bisogno di sentirsi capaci e ben visti agli occhi degli altri.

La menzogna e il legame con il testosterone

Sulla menzogna esistono una mole ampia di scritti e ricerche scientifiche; interessanti sono i dati “controtendenza” ottenuti da uno studio condotto dal Dipartimento di Scienze Neuro – Cognitive dell’Università di Bonn (2012).
Un gruppo di studiosi con a capo il neuro scienziato Weber Bernd, ha scoperto che onestà e sincerità hanno una connessione diretta con i livelli di testosterone, l’ormone steroideo prodotto principalmente dalle gonadi maschili e in minor quantità, dalle gonadi femminili.
Questo ormone conosciuto come “l’ormone dell’aggressività” sembra in realtà, non avere solo una connessione con comportamenti antisociali ed aggressivi, ma anche un’influenza sui comportamenti pro sociali.

Il gruppo di ricerca ha infatti dimostrato una correlazione positiva tra sincerità e testosterone, ossia, all’aumentare del testosterone aumentano i livelli di onestà e sincerità. Maggiore è il testosterone e minore è la possibilità di ricorrere alle bugie.

Lo studio ha interessato 91 uomini adulti, giovani e senza problemi clinici significativi che sono stati preparati e sottoposti a diversi test comportamentali.
Metà del campione è stato sottoposto a un trattamento gel a base di testosterone, l’altra metà ha ricevuto un gel placebo senza alcun effetto ormonale.
A seguito delle prove comportamentali è emerso che gli uomini a cui è stato dato il trattamento gel con testosterone dimostravano una maggiore predisposizione a dichiarare il vero rispetto agli uomini che avevano assunto il gel senza testosterone.
Sembra dunque che la propensione a dire bugie sia influenzata anche dai livelli di testosterone presenti nell’individuo.

Menzogna e benessere psicologico

Un’altra ricerca interessante proviene dall’università di Notre Dame (Indiana, Usa), dove attraverso uno studio preliminare, si è tentato di capire se esiste una connessione tra le menzogne e il benessere psicologico delle persone (Kelly & Wang, 2012).

Lo studio, diretto dalla professoressa Anita Kelly, ha coinvolto 110 persone (34% adulti e 66% studenti universitari) di età compresa tra i 18 e i 71 anni, con livelli di reddito differenti. Il campione è stato poi suddiviso in due gruppi: il primo è stato istruito a evitare di mentire e quindi a dire la verità, mentre al secondo, utilizzato come gruppo di controllo, non si era data alcuna istruzione. L’esperimento, della durata di 10 settimane prevedeva che, in questo lasso di tempo, i partecipanti riportassero ai ricercatori il numero di menzogne eventualmente raccontate e fossero relazionate sul loro stato di benessere mentale e fisico.

Dai dati raccolti è emerso che, al diminuire delle menzogne, diminuivano il numero e la gravità dei disagi psicologici, tra cui malinconia e tensione, e fisici, in particolare mal di testa e mal di gola; di contro, un maggior uso delle bugie comportava un’accentuazione di disagi psicologici e fisici.
Infine, dalla ricerca è emerso che le persone che erano state istruite a non mentire, riportavano un miglioramento nei loro rapporti interpersonali e, complessivamente, le interazioni sociali erano migliori.
Ciò fa pensare che a un numero inferiore di bugie dette corrisponde un migliore stato di benessere fisico e psicologico.

Mark Rothko: il senso tragico dell’esistenza nelle sue tele

Markus Rotkowičs, noto come Mark Rothko (1903-1970), pressoché sconosciuto sino all’inizio degli anni Sessanta, è oggi uno degli artisti più quotati sul mercato dell’arte; nel 2012 il suo “Orange, Red, Yellow” del 1961 fu venduto all’asta per quasi 87 milioni di dollari (circa 67 milioni di euro) dalla casa d’aste newyorkese Christie’s, battendo ogni record nel settore dell’arte contemporanea.

Il senso tragico dell’esistenza nell’arte di Mark Rothko

Storicamente appartenente al movimento artistico del cosiddetto Espressionismo astratto, Mark Rothko scelse come mezzo espressivo fondamentale il colore, attraverso il quale voleva che i suoi quadri “parlassero”. Sempre molto restio a dare spiegazione dei propri dipinti, l’artista, ad un certo punto, smise persino di dare un titolo alle sue opere, scrisse solo numeri e date, mentre saranno alcuni mercanti d’arte, più tardi, a scegliere un titolo, utilizzando i nomi dei colori caratteristici dei dipinti.

Mark Rothko, ripudiando l’etichetta di “astrattista”, dichiarò che gli interessava solo [blockquote style=”1″]esprimere le emozioni fondamentali dell’uomo e comunicarle agli altri. [/blockquote]

L’artista sentiva di dover comunicare, attraverso la sua arte, fatta di forme semplici e di colori assoluti, il senso tragico dell’esistenza.
Nei suoi Scritti leggiamo: [blockquote style=”1″]La violenza è l’humus dei miei quadri e l’unico equilibrio possibile è quello precario che precede l’istante del disastro. Rimango sempre sorpreso nel sentire che i miei dipinti comunicano un’impressione di pace. In realtà sono una lacerazione. Nascono dalla violenza.[/blockquote]

Rothko era un uomo molto inquieto e spesso depresso, gli amici lo descrivono come una persona difficile e solitaria ed i suoi quadri altro non sono che una rappresentazione della tragedia esistenziale del loro autore.

Breve biografia e la morte di Mark Rothko

Di origini ebree, la famiglia di Mark Rothko, che si era trasferita da Dvinsk (oggi in Lettonia) negli Stati Uniti, non comprese mai appieno la vocazione artistica di Mark Rothko al quale veniva spesso rimproverato di non sostenere economicamente la madre, soprattutto dopo la morte del padre. Dopo un primo matrimonio costellato da una serie infinita di litigi, nel 1945 Rothko contrasse un secondo matrimonio che, nel 1968, andò definitivamente in crisi, mentre un aneurisma lo condannò all’inattività, portandolo ad una profonda depressione. La sua disperazione andò via via aumentando, si chiuse nella più struggente solitudine, finchè, logorato nel corpo e nell’anima da anni di profonda depressione, una mattina di febbraio del 1970 Rothko si tolse la vita, scegliendo un sistema crudissimo: si tagliò le vene dopo aver ingerito due flaconi di sonnifero. Una lama di rasoio a doppio taglio, una pozza di sangue di fronte al lavandino.

Quanti brutti pensieri dovettero attraversargli la mente in quelle prime buie ore del mattino in una New York d’inverno, quante intense emozioni dovettero turbargli l’anima e quali tremendi ricordi dovettero attraversargli la memoria in quelle ultime ore è un mistero per noi insondabile.

La conclusione tragica della vita di Rothko non deve però far pensare ad un’aridità spirituale, quanto piuttosto ad una drammatica crisi. Ne sono testimonianza alcune sue opere dell’ultimo periodo, tutte giocate su toni scuri. Mentre all’inizio degli anni Cinquanta le sue tele erano pervase da tonalità cangianti, espressione di emozioni forti e piene di vita, nell’ultima fase della sua carriera i suoi quadri si fecero molto cupi, denotando una condizione esistenziale disturbata ed un periodo particolarmente difficile per l’artista. Ancora una volta e fino alla fine, Rothko si affidò unicamente al colore, anche se non più al giallo, all’arancio o al rosso; le sue ultime opere sono tutte giocate su toni scuri e profondi, prevalgono i neri e i grigi, che indicano l’assenza di speranza.

Appartiene infatti all’ultimo periodo della vita di Rothko una serie di “Untitled” (i “Black on Grey”), dove le pennellate, alternativamente nere e grigie, diventano la metafora del vuoto, della solitudine, dell’inquietudine, del dolore dell’artista, del suo stato d’animo al culmine della disperazione, che lo porterà poi al suicidio. Gli ultimi lavori di Rothko risultano molto diversi rispetto alle opere precedenti: le caratteristiche della sua pittura erano cambiate, così come era cambiata la sua visione del mondo: a prevalere sono, alla fine, i temi della sofferenza e della disperazione che vengono portati alle estreme conseguenze.

 

Orange Red Yellow - Mark Rothko - 1961

Orange Red Yellow – Mark Rothko – 1961

Psiche: dialoghi sulle zone di confine (2014) di L. Aversa, un omaggio a Mario Trevi – Recensione

Un meritato omaggio a Mario Trevi e al suo gruppo: un’antologia di scritti apparsi sulla rivista Metaxú (1986-1993).

Che un libro si proponga come omaggio a Mario Trevi, compianto analista junghiano scomparso pochi anni fa, costituisce già un grande titolo di merito. L’opera di Trevi, infatti, pur essendo egli considerato in vita un punto di riferimento fondamentale, teorico e clinico, da parte degli psicologi analisti, non ha ricevuto negli ultimi anni l’attenzione che meritava. Mario Trevi fu tra i fondatori dell’Associazione Italiana per lo studio della Psicologia Analitica e poi del Centro Italiano di Psicologia Analitica (le due associazioni junghiane storiche in Italia). Si tenne invece lontano dal mondo accademico, malgrado fosse stato da giovane assistente di Giovanni Bollea. Fu invece prolifico autore di saggi e libri, tutti incentrati su una possibile riforma della psicologia analitica alla quale dette il nome di junghismo critico (Trevi, 1987; 1988).

 

Mario Trevi e Jung

Trevi era convinto infatti che il più importante contributo di Jung alla psicologia del profondo non fosse costituito dalla concezione dell’inconscio collettivo, alla quale il nome dello psicologo svizzero viene usualmente accostato. Ad avviso di Mario Trevi era piuttosto l’apertura ermeneutica, riconducibile a Tipi psicologici (Jung, 1921), ciò che costituiva il motivo di vera originalità dello psicologo svizzero. Jung (1913) fu il primo ad osare affermare che tanto il modello di Freud, quanto il modello di Adler potessero essere ambedue validi, ognuno in un proprio spazio di applicazione. La spiegazione di questo paradosso era che ogni psicologo teorizza solo la propria personale psicologia, o al massimo quella del proprio tipo.

Nel primo, appena abbozzato, schema di Jung, la psicologia adleriana si riferiva al tipo introverso e quella freudiana al tipo estroverso. Nell’opera successiva, moltiplicandosi il numero dei tipi psicologici possibili, aumentava esponenzialmente anche il numero delle possibili psicologie. Onde Jung poté prevedere (correttamente) il moltiplicarsi delle teorie in ambito psicologico.

Secondo Mario Trevi, l’idea che ogni teoria costituisse nulla più che un modello probabile fondava un atteggiamento nuovo in campo psicoterapeutico e contrastava profondamente con l’aspirazione di Jung a individuare negli archetipi dell’inconscio collettivo una base comune per tutti gli esseri umani. Secondo Trevi, anzi, l’idea di una radice inconscia unica costituiva un elemento di contraddizione rispetto all’istanza tipologica e a un (cauto) relativismo.

Jung aveva costruito una psicologia sostanzialmente contraddittoria e si trattava di scegliere a cosa rinunciare. Era perfettamente legittimo costruire, come Hillman, una psicologia archetipica; ma era altrettanto legittimo proporre uno junghismo che si ispirasse piuttosto all’atteggiamento ermeneuticista. In questo senso, Mario Trevi (1986) proponeva anche la valorizzazione della teoria junghiana del simbolo, che veniva visto come elemento psicologico inesauribile e motore del processo di individuazione umano; dove Freud si limita a interpretazioni obiettivizzanti.

 

Mario Trevi e la rivista Metaxù

L’attività di Mario Trevi si è anche dispiegata nella collaborazione con importanti figure della cultura italiana (era uno degli animatori del Circolo Fenomenologico) e nella formazione di altri analisti. Verso la metà degli anni ottanta del Novecento, proprio un gruppo di analisti junghiani legati a Mario Trevi dette vita sotto la sua guida a un’iniziativa editoriale di durata relativamente breve, ma che ha lasciato una traccia importante nella cultura filosofica e psicologica italiana di fine secolo: la rivista Metaxú.

Si trattava di un tentativo di offrire proprio un contributo allo studio del simbolo, in quanto oggetto sfuggente al confine tra varie discipline, partendo dalla comune matrice junghiana dei redattori ma aprendosi al dialogo con studiosi riferentisi a paradigmi molto diversi. La redazione comprendeva nomi già noti nell’ambiente junghiano o destinati a diventarlo, quali Umberto Galimberti, Luigi Aversa, Enzo Vittorio Trapanese, Paolo Francesco Pieri, Angiola Iapoce, Amedeo Ruberto, Paulo Barone, Mauro La Forgia, Maria Ilena Marozza (oltre naturalmente allo stesso Mario Trevi). Nei primi numeri, nel novero dei redattori era anche Alberto Gaston; negli ultimi anche Vincenzo Caretti. Tutti sono stati autori di contributi importanti alla psicologia analitica e non solo. Alcuni di loro, sotto la direzione di Pieri, hanno contribuito in seguito alla nascita di Atque, altra rivista storica in posizione di dialogo tra filosofia e psicologia.

Molti numeri di Metaxú proponevano, oltre a contributi di membri del gruppo redazionale, dei dialoghi tra il gruppo stesso e un ospite non-junghiano, scelto tra studiosi spesso esterni al campo psicologico ma interessati nella propria disciplina alla tematica del simbolo. I dialoghi hanno avuto, si potrebbe dire ex post, esiti anche molto differenti.

Ad avviso di chi scrive, i due estremi potrebbero essere rappresentati da Paul Ricoeur e Giovanni Jervis. Il primo ha sicuramente manifestato negli scritti successivi all’incontro con il gruppo di Metaxú un interesse del tutto inedito in precedenza per Jung (Innamorati e Pastore, 2015), proprio per la scoperta di quell’elemento ermeneutico che in realtà è assai più coerente con l’opera junghiana (Trevi e Innamorati, 2000) che con quella di Freud (pur essendo stato Ricoeur uno dei più affermati sostenitori di una lettura ermeneutica della psicoanalisi classica). Jervis è invece rimasto completamente disinteressato alla psicologia analitica anche negli ultimi anni di attività, conservandone l’immagine di una disciplina esoterica e non scientifica.

Psiche: dialoghi sulle zone di confine costituisce un’antologia di Metaxú basata in modo pressoché esclusivo su dialoghi della redazione con gli ospiti (contiene però anche un’intervista di Aversa a Trevi apparsa invece su Atque). Da un lato l’operazione è giustificata dalla notorietà dei nomi coinvolti (oltre ai due citati, sono presenti Carlo Sini, Virgilio Melchiorre, Franco Crespi, Carlo Tullio Altan, Pier Aldo Rovatti, Pietro Prini, Renato Tagliacozzo). D’altra parte è abbastanza incomprensibile come si sia scelto di omettere del tutto i contributi di un gruppo culturalmente importante e coeso, la cui originalità non potrà essere certo compresa a partire dalle domande rivolte ai pur illustri personaggi coinvolti.

Il proverbiale bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto può essere un’immagine banale quanto rispondente all’esito di questa selezione: un’iniziativa editoriale meritoria, della quale la casa editrice Fattore Umano va calorosamente ringraziata; iniziativa che però poteva essere sfruttata meglio. A meno che non si pensi di proporre un volume secondo che colmi le lacune del primo.

Gli ictus si possono prevenire? La risposta è affermativa

La presente ricerca si basa sui risultati di una parte dello studio INTERSTROKE che ha individuato dieci fattori di rischio modificabili per l’ictus in 6000 partecipanti provenienti da 22 diversi paesi.

Dieci sono i fattori di rischio che possono essere modificati e che sono responsabili di nove su dieci ictus in tutto il mondo, ma la classifica di questi fattori varia a livello regionale. La prevenzione degli ictus è una delle principali priorità per la salute pubblica, ma la presenza di diversità tra le regioni dovrebbe stimolare a sviluppare strategie ad hoc per ridurre il rischio di ictus.
L’ictus è una delle principali cause di morte e disabilità, in particolare nei paesi a basso e medio reddito. I due principali tipi di ictus sono l’ictus ischemico, che rappresenta l’85% degli ictus e l’ictus emorragico, che rappresenta il 15% degli ictus.

La ricerca

La presente ricerca si basa sui risultati di una parte dello studio INTERSTROKE che ha individuato dieci fattori di rischio modificabili per l’ictus in 6000 partecipanti provenienti da 22 diversi paesi. Sono stati successivamente aggiunti nello studio 20.000 persone provenienti da 32 paesi dell’Europa, Asia, America, Africa e Australia per cercare di individuare le principali cause dell’ictus nelle diverse popolazioni (giovani e anziani, uomini e donne).

Questo studio ha l’obiettivo di esplorare i fattori di rischio di ictus in tutte le principali regioni del mondo e all’interno delle diverse popolazioni.
Sono stati confermati i dieci fattori di rischio modificabili associati con il 90% dei casi di ictus in tutte le regioni, sia nei giovani che negli anziani, sia uomini che donne.

I risultati

Lo studio conferma anche che l’ipertensione arteriosa è il più importante fattore di rischio modificabile ed il fattore chiave per ridurre l’incidenza di ictus.
I ricercatori hanno determinato la percentuale di ictus che si potrebbero evitare intervenendo preventivamente sui fattori di rischio.

L’incidenza di ictus verrebbe praticamente dimezzata (48%) in assenza di ipertensione , ridotta di più di un terzo (36%) nelle persone fisicamente attive e diminuita di quasi un quinto (19%) nei soggetti con uno stile alimentare corretto. Inoltre, questa percentuale si ridurrebbe ulteriormente del 12% nei casi di astensione dal fumo. Le principali cause di ictus sono il 9% per disturbi cardiaci, il 4% per diabete, il 6% per consumo di alcool, il 6% per stress e il 27% per la presenza elevata di lipidi nel sangue.
Molti di questi fattori di rischio sono noti per essere associati tra loro (come l’obesità e il diabete) e quando sono presenti in concomitanza, il fattore di rischio saliva al 91% e tale fattore non si differenziava per età, genere e regione.

L’importanza della provenienza culturale

Tuttavia, l’importanza di alcuni fattori di rischio sembrava variare in base alla regione. Ad esempio, l’importanza dell’ipertensione variava dal 40% in Europa occidentale, Nord America e Australia al 60% nel Sud-Est asiatico. Il rischio di alcol era più basso in Europa occidentale, Nord America e Australia, ma più alto in Africa e Asia meridionale, mentre l’impatto potenziale dell’inattività fisica era più alto in Cina.
Un ritmo cardiaco irregolare era significativamente associato con l’ictus ischemico in tutte le regioni, ma aveva un maggiore impatto in Europa occidentale, Nord America e Australia rispetto alla Cina o all’Asia meridionale.
Tuttavia, quando tutti i 10 fattori di rischio venivano considerati insieme, la loro importanza era simile in tutte le regioni.

Conclusioni

Sarà fondamentale sviluppare interventi globali nella popolazione per ridurre l’incidenza di ictus ed impostare programmi su misura per singola regione: creare una migliore educazione alimentare e sanitaria, favorire l’astensione dal fumo e utilizzare farmaci efficaci per l’ipertensione e la dislipidemia.

In conclusione, l’ictus è una malattia altamente prevenibile grazie alla modificabilità dei fattori di rischio. Nel futuro sarà fondamentale sviluppare programmi di prevenzione per gli ictus ed impostare ulteriori ricerche sui fattori di rischio: i governi di tutti i paesi dovrebbero sviluppare e implementare un piano d’azione di emergenza per la prevenzione primaria degli ictus.

Festival della Psicologia di Bollate 2016 – Dalla pax mafiosa alla pace comunitaria

Festival della Psicologia di Bollate
8 Ottobre 2016
Biblioteca Comunale di Bollate
Palazzo Seccoborella (Piazza Carlo Alberto Dalla Chiesa, 30)
(15 ottobre, 22 ottobre, 29 ottobre, 3 novembre, 5 novembre, 17 novembre)

 

Come funziona la mente di un mafioso?

Per rispondere a questa ambiziosa domanda, il Festival della Psicologia di Bollate ha scelto di dedicare l’inaugurazione della IV edizione al tema Pace e mafia, nella splendida cornice della Sala Conferenze della Biblioteca comunale di Bollate (Palazzo Seccoborella).

A dare il via ai lavori, sabato 8 ottobre 2016, accanto ai saluti istituzionali delle Autorità cittadine e dell’Ordine Psicologi Lombardia nella persona del Presidente Dr. Riccardo Bettiga, ci penseranno il Prof. Antonino Giorgi, Docente dell’Università Cattolica di Brescia e il dr. Gian Antonio Girelli, Presidente della Commissione speciale antimafia della Lombardia.

Il prof. Giorgi, con il suo intervento “Dalla pax mafiosa alla PACE comunitaria. Come la mafia inter-agisce dentro la mente e nella comunità” ci accompagnerà in un affascinante viaggio alla scoperta della Psicologia mafiosa: come vengono sostenute le vittime? Quali le dinamiche psicologiche che hanno a che fare con il fenomeno mafioso?

Dopo aver esaminato temi come la coppia e le relazioni, le famiglie e i minori, l’adolescenza, il nutrimento della mente e dei legami, si parlerà quest’anno di pace. Un concetto universale che verrà affrontato attraverso un programma eclettico per la prima volta articolato su più giornate, e sedi, per offrire alla cittadinanza sempre più opportunità.

Se il programma dell’intero Festival della Psicologia di Bollate 2016 si conferma essere ricco e articolato, ecco che la vera novità di quest’anno, come anticipato, è che non si esaurirà in un solo weekend.
Tanti saranno i temi trattati negli interventi in calendario, 7 per la precisione, fissati lungo tutto il mese di ottobre, fino alla prima metà di novembre.
Dalla crescita dell’autostima nei piccoli e piccolissimi alla gestione della rabbia passando per i disturbi narcisistici alla prevenzione del declino cognitivo negli anziani e molto altro ancora.
Una serie di incontri ospitati in diverse sedi volti a rispondere alla domanda che sta alla base di questa 4° edizione della kermesse dedicata a mente e anima di Bollate: cosa può dirci la cultura psicologica rispetto alla ricerca della pace dentro e fuori la famiglia, la mente e la comunità?

Ideato e organizzato dalle dottoresse Lara Franzoni (www.psicologiadicoppia.com) e Guendalina Losi (www.sessuologia-milano-brianz a.it), il Festival conferma il suo obiettivo ovvero diffondere la cultura psicologica, la conoscenza e la promozione della professionalità di psicologo, a sostegno del benessere degli individui attraverso incontri culturali gratuiti e ad accesso libero.

Rinnovato il team di lavoro. A curare gli interventi saranno come sempre Psicologi del territorio bollatese, specializzati in diverse aree, che si sono messi a per incontrare i cittadini per parlare di famiglia, anziani, minori e molto altro ancora. I relatori coinvolti per questa quarta edizione del Festival della Psicologia di Bollate sono Lara Franzoni, Guendalina Losi, Laura Galbiati, Valeria Manstretta, Federica Lollo, Eleonora Martin, Barbara Perfetti e Annalisa Soresini.

Il Festival della Psicologia di Bollate 2016 ha ricevuto il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Città di Bollate e dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

La quarta edizione del Festival della Psicologia di Bollate si conferma essere un appuntamento da non perdere.

Vi aspettiamo!

 

Per informazioni:
D.ssa Lara Franzoni tel. 340.12.29.738
D.ssa Guendalina Losi tel. 347.85.42.151
[email protected]
festivaldellapsicologia.blogsp ot.it

 

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Programma Festival della Psicologia di Bollate 2016 – 4° Edizione

Sabato 8 ottobre Ore 16.00 Biblioteca Centrale di Bollate:
Inaugurazione della manifestazione e saluto delle Autorità cittadine e Ordine Psicologi Lombardia

Interverrà il Presidente dell’Ordine degli Psicologi Dr. Riccardo Bettiga

Interverrà dr. Gian Antonio Girelli, Presidente della Presidente della Commissione speciale antimafia della Lombardia
Intervento del Prof. Antonino Giorgi Docente dell’Università Cattolica di Brescia, Psicologo, Psicoterapeuta
“Dalla pax mafiosa alla PACE comunitaria. Come la mafia inter-agisce dentro la mente e nella comunità.”

  • Sabato 15 ottobre Ore 15 Associazione Uniter Arese via Varzi 13
    “L’autismo non è contagioso! Miti e leggende da sfatare sul disturbo dello spettro autistico” Dr.ssa Laura Galbiati e dr.ssa Valeria Manstretta
  • Sabato 22 ottobre Ore 15 Associazione Uniter Arese via Varzi 13
    “Strategie per la gestione della rabbia e dei conflitti interpersonali” Dr.ssa Federica Lollo e dr.ssa Eleonora Martin
  • Sabato 29 ottobre Ore 14.30 Via magenta 33 Bollate
    “Narcisi dalla famiglia alla coppia: come gestire la relazione con un narcisista” Dr.ssa Barbara Perfetti
  • Giovedì 3 novembre Ore 18 Istituto Comprensivo Brianza
    “Le regole dell’Autostima. Come aiutare i figli a rispettare le regole, promuovendo la loro autostima” Dr.ssa Lara Franzoni
  • Sabato 5 novembre Via Magenta 33 Bollate Ore 15.00
    “Regole d’oro per prevenire il declino cognitivo negli anziani” Dr.ssa Annalisa Soresini
  • Giovedì 17 novembre Ore 18 Istituto Comprensivo Brianza
    “Piccoli naviganti. Manuale di istruzioni per genitori di giovani nativi digitali” Dr.ssa Guendalina Losi

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L’evoluzione della terapia cognitiva – Report dal congresso SITCC 2016 di Reggio Calabria

XVIII Congresso della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC)

Si è svolto a Reggio Calabria, dal 15 al 18 settembre 2016, il diciottesimo congresso della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC). L’organizzazione è stata curata dai colleghi calabresi capitanati da Giuseppe Nicolò con il supporto dell’associazione Ecopoiesis di Reggio Calabria, che diffonde la formazione e la pratica clinica cognitivo-comportamentale in quelle zone.

Il congresso è stato ricco di contributi e di stimoli. Fin dalla plenaria iniziale, con Bruno Bara e Francesco Mancini, ci si è confrontati con le nuove tendenze del movimento cognitivista clinico. Mancini ha raccomandato la necessità di studiare i processi psicopatologici in maniera più vicina alla psicologia di base. Il contributo delle ricerche cliniche basate sui contenuti cognitivi –le cosiddette credenze – è stato utilissimo per delineare protocolli di intervento efficaci ma sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva.

Per trovare interventi più efficaci occorre riesaminare i processi e i meccanismi psicopatologici con una terminologia e una metodologia più rigorosa e vicina alla psicologia di base. Forse così si potrà coprire la distanza che ancora divide ricerca e clinica. Il parere di Bara era sostanzialmente analogo, ed era prevedibile considerando la lunga esperienza di Bara nello studio sperimentale dei mental modes. L’unica differenza tra Mancini e Bara stava nella preferenza verso differenti meccanismi. Mancini sembra più interessato ai meccanismi cognitivi di tipo scopistico e motivazionale, nonché alle strategie e stili di pensiero. La strategia controfattuale dei pazienti ossessivi, ad esempio, è da anni oggetto delle sue ricerche e riflessioni. Bara invece preferisce indagare i processi relazionali ed emotivi di conoscenza incarnata.

Non è stato possibile seguire tutte le relazioni, naturalmente. Ne segnalo alcune sparse. Carcione, Nicolò e Semerari proseguono a sviluppare il modello di Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) in un modello integrato di terapia che va al di là delle diagnosi categoriali e punta al trattamento dei fattori generali della patologia della personalità. Il parallelo lavoro di Dimaggio e Popolo sulla TMI sembra privilegiare gli interventi di immaginazione guidata, ed è forse il modo più coerente di intervenire cognitivamente sui processi bottom up.

Fenelli impiega profittevolmente la teoria dell’attaccamento per indagare le relazioni di coppia. Stoppa Beretta e Bara esplorano l’uso del corpo in psicoterapia, fedeli al modello della conoscenza incarnata. Mancini e il suo gruppo presentano i dati definitivi del loro pluriennale lavoro sul disturbo ossessivo-compulsivo. Tullio Scrimali continua a far evolvere il suo modello di bio-feedback avanzato per la psicosi. Cesare Maffei, Livia Colle, Donatella Fiore e Fabio Monticelli si confrontano sul disturbo borderline di personalità e sulle applicazione della terapia dialettico-comportamentale. Gabriele Caselli ha esplorato le applicazioni della terapia metacognitiva alle dipendenze, mentre Sandra Sassaroli ha indagato il valore dei temi dolorosi e dei piani disfunzionali nei processi psicopatologici. Stefano Lucarelli ha presentato un’originale applicazione della terapia dialettico-comportamentale ai disturbi alimentari. Antonio Pinto e Roberto Framba hanno riflettuto sulla mindfulness nella formazione degli allievi. E così via.

Il momento migliore del congresso è stato probabilmente la simulazione di seduta effettuata domenica mattina, nel giorno di chiusura del congresso. Sandra Sassaroli, Giovanni Liotti, Antonio Semerari e Juan Balbi hanno affrontato una collega terapista che simulava una paziente con aspetti di diffidenza paranoica nella relazione terapeutica. Ogni terapista ha mostrato in vivo aspetti del proprio operare. Un’esperienza istruttiva e accattivante, che merita un articolo a parte.

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