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Appuntamento all’ Ultimo Samurai – Un’anteprima dal libro di G. Salvatore: Lo Psicoterapeuta in Bilico

Il racconto dell'incontro in un ristorante giapponese tra due semi sconosciuti: nella conversazione tra i protagonisti spuntano giochi di dominio e imbarazzi da mascherare.

Di Giampaolo Salvatore

Pubblicato il 29 Giu. 2018

Per la rubrica Ritratti – La narrativa incontra la Psicologia, in anteprima per i lettori di State of Mind un brano tratto dal nuovo libro di Giampaolo Salvatore “Lo psicoterapeuta in bilico”

 

Arrivai dieci minuti prima dell’orario dell’appuntamento. Presi posto al tavolo più lontano dalla porta d’entrata. Lessi otto volte il menù, confezionando un’espressione rapita per chi occupava il tavolo accanto al mio, per distrarli da quello che immaginavo stessero pensando: che ero un uomo sposato di mezza età che nella pausa pranzo di una giornata qualunque aspettava una semi-sconosciuta in un ristorante giapponese

 

Il ristorante giapponese L’ultimo samurai era al pianterreno di un palazzo in stile fascista perennemente inghiottito da ponteggi edili. Si affacciava sul lungomare, da cui lo divideva l’arteria del centro cittadino e la fila immobile di auto che vi transitava.

Gli automobilisti, eternamente fermi nel traffico, non potevano fare a meno di gettare uno sguardo sulle due lanterne rosse poste ai lati della porta d’entrata e sull’insegna, su cui c’era una gigantografia stilizzata di Miyamoto Musashi (i fanatici del Bushido lo riconoscevano dal fatto che impugnava due spade). Era conforme al prototipo dei ristoranti giapponesi che spuntavano come funghi. Quelli che ti offrono al tavolo il Menù fisso Teriyaki a 14,90 euro, il Menù fisso Sushi a 16,90 euro, il Menù fisso Sashimi a 19,90 euro, ecc.

Al centro della sala c’era il serpentone acciambellato del tapis roulant, con la superficie metallica che faceva scorrere le mono-porzioni di sushi e altro che venisse in mente al cuoco giapponese, che in realtà era filippino, di spacciare per pietanza del Sol Levante. Tipo il riso alla cantonese o i ravioli al vapore farciti di carne di maiale, che sono piatti tipici della cucina cinese. Ammuina culinaria che si poggia sulla tendenza dell’italiano medio a sovrapporre le culture cinese e nipponica. La presenza sul tapis roulant delle cotolette tagliate in listarelle sottili, invece, non me l’ero mai spiegata. Era l’ora di punta. Tutte le sedie davanti al serpentone erano occupate dai clienti che vedevano scorrere i piattini colorati davanti al loro sguardo svuotato di capacità decisionale, reso infantile dall’imbarazzo della scelta. Intorno al serpentone, una ventina di tavoli stipati fottendosene dei canoni del feng shui, con la tovaglia arancione hare krishna e le sedie nere con gli schienali in simil-ebano intarsiati, il cui soggetto aveva qualcosa a che vedere con dei draghi un po’ troppo arravogliati su loro stessi.

Arrivai dieci minuti prima dell’orario dell’appuntamento. Aspettai su una panchina del lungomare, fissando gli autisti fermi nel traffico che fissavano le lanterne e Miyamoto Musashi. Entrai spaccando il secondo. Presi posto al tavolo più lontano dalla porta d’entrata. Lessi otto volte il menù, confezionando un’espressione rapita per i due amici – sicuramente avvocati, tutti Rolex, pancetta ed esuberanza da uso voluttuario di cocaina alternato a maschera distensiva antirughe – che occupavano il tavolo accanto al mio, per convincerli che il motivo sostanziale del mio essere lì fosse un’indomabile curiosità per la cucina orientale.

Questo per distrarli da quello che immaginavo stessero pensando. Che ero un uomo sposato di mezza età che nella pausa pranzo di una giornata qualunque aspettava una semi-sconosciuta bona in un ristorante giapponese con la speranza di scoparsela durante la pausa pranzo di una futura giornata qualunque.

Mentre tenevo lo sguardo fermo sul menù, Nikita comparve alla periferia del mio campo visivo. Feci finta di continuare a leggere, ma avevo già inquadrato il maxi-pullover viola a collo alto che un sottile cinturone nero di pelle faceva aderire pigramente ai fianchi. La figura piccola, snella, agile. Adesso mi sembrava solo un po’ più morbida di Anne Parillaud in Nikita. Fece tre passi sulla punta dei piedi, cercando di assottigliare ancora di più il suo corpo, per passare in uno spazio stretto tra le sedie di due tavoli troppo vicini. Uno di quei gesti che avvengono in una frazione di secondo, apparentemente insignificanti; eppure ti dicono qualcosa della sostanza caratteriale di una persona. In questo caso, l’attenzione estrema a non turbare lo stato delle cose, la tendenza a rendere silenziosissima la propria esistenza. E nello stesso tempo, che tutto questo in lei era al servizio di altro. Serviva a ottenere qualcosa. Appena fu abbastanza vicina, finsi di averla appena messa a fuoco. Si era data appena un filo di trucco. Era bella, purtroppo. In quel momento ebbi la sensazione netta che gli avvocati avessero notato la caricatura del mio trasalimento e avessero capito definitivamente la suonata. Mi costrinsi a sillabare col pensiero chi-sene-fot-te!

«Mi aspetti da molto?»

«Mannòòò, assolutamente.»

Lei, con la massima naturalezza, fece durare il suo sorriso, un po’ tenero un po’ sfottente, per la manciata di secondi che impiegò nel sedersi di fronte a me. Improvvisamente, desiderai di essere a casa. Cercai di distrarmi con i vari “visto che caldo?” e “mi è sempre piaciuta la cucina giapponese”. Questo mi fece tirare avanti per almeno cinque minuti assolutamente insignificanti. Poi mi prese una botta della ribalderia un po’ scanzonata che, dall’età di diciannove anni, aveva sempre funzionato alla grande come antidoto all’imbarazzo paralizzante da ex-chiattone. E cambiai marcia.

«Allora, posso chiederti cosa ti ha spinto a inviarmi quel messaggio?» dissi.

Percepii la vibrazione che le mie parole producevano nell’urtare contro lo spessore della comunicazione formale. Avevo appena fatto una di quelle domande che possono decidere la gerarchia di dominanza in un gioco come quello che stava iniziando.

Silenzio. Nikita guardava il suo menù e mi pareva che lo mettesse pure a fuoco e stesse lì lì per scegliere. Sembrava che la mia domanda così diretta e provocatoria, il mio viraggio brusco dai convenevoli al gioco della verità, non avesse prodotto la minima perturbazione nel suo organismo. Come se avesse cambiato marcia molto prima di me, fosse già avanti e mi stesse aspettando.

«Ti ho mandato quel messaggio parecchio tempo dopo la prima volta in cui ho desiderato mandartelo» mi disse tranquilla, ma con un’inflessione del tono di voce che aggiungeva è ovvio.

«Cosa ti ha… cioè… quando esattamente me l’av… resti voluto mandare?»

Con un incacagliamento come questo ci sarebbe stata benissimo un po’ di acne giovanile.

«Beh, questo non è molto importante. Voglio dire, stabilire con precisione il momento esatto. Non credi anche tu?»

«Assolutamente» dissi, sentendomi un fesso. E cercai di recuperare terreno: «Certo che tu sei proprio la conferma vivente di quanto aveva ragione Oscar Wilde quando diceva che le donne scelgono gli uomini che le sceglieranno.»

Lei abbassò lo sguardo sugli infradito da samurai laccati che di lì a poco avremmo usato come piatti, e sulle bacchette di legno che ogni volta che mangiavo cinese o giapponese mi ricordavano la scena di Karate Kid in cui il maestro Miyagi le usa per cercare di acchiapparci una mosca senza riuscirci. Inclinò un po’ la testa e sollevò impercettibilmente il mento; un’espressione che aveva due strati di significato. Il primo: “quello che dici mi lascia leggermente perplessa”. Il secondo: “il motivo per cui quello che dici mi lascia leggermente perplessa è che potrà anche averlo detto Oscar Wilde, ma a me pare una cazzata”.

Poi disse «mah, non so se sono d’accordo… Se proprio vuoi che parliamo dei meccanismi con cui gli uomini scelgono le donne, io sono disponibile, però bada che ogni riferimento a persone realmente esistenti è puramente voluto.»

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Salvatore, G. (2018). Lo psicoterapeuta in bilico. Edizioni Eretica
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