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Olivia: tra il bisogno del controllo e il desiderio di abbandono – Ritratti

Olivia e le sue due parti in perenne disputa interna: il bisogno di programmazione contro il desiderio di abbandono a innocenti ambizioni, come una torta

Di Guest

Pubblicato il 22 Set. 2017

Un’ora e quattro minuti dall’alba. Una schiera di sveglie puntate in ordinata successione suonò per ricordare a Olivia di essere al mondo. In questo mondo. Una sequenza martellante di suoni contundenti quasi quanto la voce di sua madre, che per anni aveva svolto la stessa mansione con zelo.

Anna Rossi

 

A tutto ciò Olivia aveva imparato nel tempo a opporre una resistenza passiva più o meno efficace. Imbrigliava ogni millimetro del suo corpo, quello che a quell’ora del giorno non ricordava ancora di avere, in ogni corpuscolo di quel sogno in cui non servivano né regoli né squadre. Come sempre, una lotta estenuante, in cui servivano tenacia e ferma determinazione a non mollare la presa da quella condizione di sospensione rassicurante. Alla fine di ogni combattimento, quelle note di disappunto riuscivano ad avere la meglio e a trascinarla mani e piedi (stava finalmente cominciando a ricordare la loro fattezza e la loro funzione) al centro del letto in cui la sera prima, come ogni sera, aveva preso congedo dalle sue consuete operazioni. Lì capiva di non avere più scampo. Il senso di sovranità che fino a quel momento le aveva consentito di manifestare con fermezza il proprio rifiuto, stava lentamente e inesorabilmente abdicando.

Il passaggio definitivo da quello a questo mondo avveniva sempre secondo la stessa progressione di gesti. Tutti eseguiti intorno al tavolo apparecchiato per la colazione già dalla sera prima. Una piccola festa di benvenuto, da lei stessa organizzata per dare risposta a quel suo fondamentale bisogno di incoraggiamento prima di condurre il suo corpo, al contempo così inesperto e così vissuto, nel bel mezzo di una nuova giornata. Intorno a quel tavolo, che faceva da ponte tra i due mondi, Olivia vedeva ogni mattina sedere fianco a fianco quelle due parti di sé in perenne disputa tra loro. A sinistra, il bisogno di programmazione rigorosa, anche dei più piccoli dettagli, che si manifestava per esempio nella scrupolosità con cui poneva ogni arnese necessario alla colazione (tazze, scodelle, cucchiai) alla giusta distanza rispetto agli altri, in modo da rendere ogni manovra la più rapida, economica ed efficiente possibile. A destra, il desiderio di abbandono a innocenti ambizioni, come quando si concedeva di affondare selvaggiamente le dita dentro una torta ai mirtilli e di scavarci dentro con prepotenza, estraendo uno a uno quei piccoli bottoni violacei per poi portarli lentamente al palato. In quei casi si sorprendeva per la latitanza del senso di colpa. Quello che avrebbe dovuto provare per non aver mostrato adeguata sollecitudine nei confronti di quella massa ormai informe, simile alla superficie lunare, che giaceva al centro del tavolo, in stato di totale abbandono e trascuratezza.

Il fine di ogni rituale era in fondo generare un’atmosfera familiare dalla quale lasciarsi avvolgere e contenere. Una specie di casamobile invisibile. Con le sue regole. Con i suoi atti di ribellione. Nella quale cercare rifugio al primo accenno di stanchezza o tempesta. Una casa che, ogni giorno della sua vita, aveva edificato dandogli una forma diversa, e il giorno dopo smantellato, dopo accurate valutazioni tecniche che rivelavano la scarsa solidità dei punti di appoggio e i relativi rischi per la sicurezza. O in preda ai suoi tsunami emotivi, di quelli che radono tutto al suolo, anche l’illusione di rifugio. Ma su quello che le sarebbe piaciuto o servito davvero come luogo in cui dimorare regnava sovrana l’indecisione. Di solito, in fase di progettazione Olivia si affidava alle vite degli altri, puntandoci sopra un teleobiettivo (ne aveva una quindicina) che le consentiva di mantenere dal soggetto quella distanza necessaria a non risultare invadente. Scattava così istantanee di pochi centimetri di quotidiana normalità. Avesse usato un grandangolo, se lo diceva spesso, forse il risultato non sarebbe stato così ingenuo. Tutte le immagini ottenute in quel modo venivano poi sparpagliate su una grande scrivania e quindi assemblate in composizioni azzardate, precarie. Mai abbastanza convincenti. Mai fino in fondo sincere.

Erano ormai passati ventisette minuti e quarantatré secondi dalla consapevolezza di avere un corpo. La successiva conquista consisteva nel recuperare da qualche parte la capacità di farlo funzionare sotto la guida di comandi precisi. Dopo aver ritrovato in qualche file salvato in memoria il manuale di istruzioni e averlo sfogliato velocemente per un breve ripasso, Olivia cominciò a muovere i primi di una lunga sequenza di passi nella direzione dei chilometri delle cose da fare. Tutte cose di buon senso, di quelle che tutte le persone giudiziose normalmente fanno. Prima di uscire fece il solito appello a voce alta per controllare che nella borsa ci fosse tutto il necessario. Pettine, rossetto e profumo, semmai avesse avuto bisogno di ravvivare quell’aria di normalità che solitamente indossava fuori casa senza grande disinvoltura. Portafogli, con contanti e carte di credito a seguito, uno status al quale una persona della sua età non avrebbe dovuto rinunciare se davvero desiderava apparire socialmente adattata. Sigarette e accendino, efficace ma insano rimedio per quel senso di oppressione riportato come effetto collaterale sul bugiardino del Buonsenso. Chiavi, per poter rientrare, a fine giornata, nel suo appartamento di novanta metri quadri o, all’occorrenza e in qualsiasi momento, nella sua casamobile. Infine righello e squadra, nel caso in cui si fosse accorta di deviare dalla giusta traiettoria e si fosse pertanto reso necessario un aggiustamento delle geometrie relazionali in cui si era avventurata.

Ad avvisarla della necessità di operare delle correzioni (solitamente mentre si trovava già in corsa) era una serie di segnali di allarme provenienti dal corpo, che in quei casi funzionava in modo del tutto autonomo rispetto alle indicazioni che arrivavano dalla Sala di Comando. All’inizio Olivia provava a ignorarli. E solo quando quei richiami si facevano più insistenti, al punto che neanche più il rossetto bastava a farla sentire nell’assetto giusto, cominciava a prenderli seriamente in considerazione.

Con la meticolosità e la freddezza tipiche di un ingegnere – esattamente quelle competenze che sua madre si era impegnata a trasmetterle già durante l’imprinting – cominciava allora a eseguire una serie di rigorose operazioni. Calcolava la distanza tra sé e gli altri, il perimetro della loro relazione e la superficie delle emozioni coinvolte. Verificava la correttezza delle misure ottenute, essenziale per creare lo spazio ideale in cui ogni cosa sta nella posizione giusta rispetto alle altre. Cercava di capire se quella particolare configurazione di numeri e proporzioni avesse le carte in regola per rientrare nella categoria delle Perfette Geometrie, di quelle capaci di imprigionare lo sguardo in un senso di assoluta, gelida, infeconda simmetria. Se qualcosa non tornava nei conti, non nutriva alcun dubbio: era tutta colpa della sua approssimazione. Allora, invasa da un profondo senso di indegnità, si immaginava costituirsi di fronte ai suoi professori del liceo, supplicarli di farle ritentare l’esame di maturità. Perché, in fondo lo sapevano tutti, quel diploma non se lo era affatto meritato.

Per tentare di risolvere il problema Olivia operava diligentemente una serie di aggiustamenti, accorciando o allungando la distanza a seconda della condizione di partenza. Ma nessuna di queste operazioni la conduceva mai al risultato sperato, a quello stato di ordine ultimo in cui ogni cosa dava l’impressione di stare esattamente al posto assegnatole dal Creatore. Solitamente invece i suoi aggiustamenti producevano come effetto un aumento del disordine o un irrigidimento delle posizioni dentro e fuori di sé. Quando accorciava la distanza sentiva ogni molecola del suo corpo impazzire come fa l’acqua quando la si lascia per molto tempo sopra il fuoco. Quando invece l’aumentava, il suo stato ricordava quello del ghiaccio solido, in cui ogni libertà di movimento, pensiero o espressione veniva congelata all’interno di vincoli inflessibili. E così, in preda alla confusione più disperata, tornava a documentarsi, a leggere, a studiare, nella speranza sempre viva che qualcuno più sapiente e saggio di lei potesse una volta per tutte insegnarle a stare al mondo.

Salita in macchina accese la radio e cominciò a cantare senza ritegno il suo rock preferito, accompagnando ogni vocalizzo con una mimica indecorosa, cui tutto il suo corpo aveva deciso di dare un contributo. Erano le 8.25 del mattino e Olivia, sebbene si trovasse in questo mondo, si stava concedendo di abbandonare temporaneamente ogni imperativo di normalità. Era fiduciosa del fatto che nessuno dei tanti affaccendati, che con espressioni tutt’altro che entusiaste tentavano di raggiungere il posto di lavoro o di arrivare a scuola almeno all’inizio della seconda ora, avrebbe fatto caso a quello che accadeva dentro la sua auto. Sentiva che l’ordinario tran tran collettivo di inizio giornata non poteva che giocare in suo favore, consentendole con alta probabilità di scansare qualsiasi sguardo di sdegno. Mentre si lasciava andare a quegli atti di ribellione, la stessa dei brani che stava ascoltando a tutto volume, si rese conto di essere percorsa da emozioni dimenticate da qualche parte del passato.

Una serie di immagini, souvenir di qualche viaggio a occhi nudi e senza obiettivo, le passò davanti in disordinata sequenza per poi condensarsi in un reticolo di sensazioni dentro cui si rese conto di essere immersa. Un brivido di vitalità le salì su per la schiena e si propagò in ogni altra parte del suo corpo. Cominciò a sentirsi partecipe di tutto quello che le stava intorno, di tutto ciò che riusciva a scorgere sino all’orizzonte, ma anche di tutto quello che si trovava oltre questo e che i suoi occhi (ma non la sua anima) non arrivavano a cogliere. Si rese conto che quella musica, cui attribuiva l’effetto che stava sperimentando, non aveva in realtà creato nulla di nuovo ma semplicemente aperto un varco nella sua interiorità. Un’interiorità non euclidea, dove per ogni punto esterno a una retta possono passare infinite parallele oppure nessuna, dove l’importante non è tanto effettuare misurazioni quanto piuttosto saper navigare nel modo migliore possibile uno spazio disseminato di protuberanze, avvallamenti e ondulazioni.

Accostò la macchina al marciapiede, aprì lo sportellino del cruscotto e con un gesto quasi automatico tirò fuori l’itinerario del viaggio sino a quel momento effettuato. Nell’esaminarlo Olivia si rese conto di prestare per la prima volta attenzione non tanto alla linearità del percorso seguito, quanto piuttosto alla profondità delle impronte lasciate sul suo cuore dai passi di altri viaggiatori incrociati durante il cammino.

Si stupì del fatto che quella mappa, che lei aveva affidato a un pezzo di carta che ricordava integro e illeso, contenesse in realtà i segni di ogni incontro vissuto, degli anni passati, delle vittorie e delle sconfitte sperimentate, dei doni offerti e di quelli ricevuti.

Le venne in mente quell’abbraccio incompiuto, un semplice ‘se’, un condizionale senza implicazioni, eppure così reale e attuale come l’aria che anche in quel momento entrava e usciva dai suoi polmoni, come l’acqua che lava via ogni impurità.

Assaporò l’immanenza di quella distanza che, nonostante la sua invalicabilità, la faceva sentire così prossima e vista e accolta. Si promise di custodirla con cura in un angolo di sé di cui non era fondamentale conoscere l’ampiezza.

Gettò via righello e squadra, salutò con affetto e un pizzico di nostalgia quei due mondi nei quali si era per tanto tempo divisa, vendette a un prezzo stracciato la sua collezione di obiettivi e rinunciò (senza troppa fatica) a fare ulteriori progressi nel campo dell’edilizia.

Semplicemente, indossò un berretto da marinaio a strisce bianche e blu e si mise curiosa al timone della sua vita.

 

Ritratti – La narrativa incontra la psicologia

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