Nel mese di settembre il cognitivismo clinico ha fatto un po’ i conti con se stesso, la provata efficacia del modello cognitivo per alcuni disturbi è un successo che ormai comincia a avere i suoi anni e non può essere sempre presentato come l’ultimo grido.
Editoriale di Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero
Nel mese di settembre il cognitivismo clinico ha fatto un po’ i conti con se stesso, sia nella sede del congresso europeo organizzato dall’EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) che del congresso italiano promosso dalla SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva). La provata efficacia del modello cognitivo per alcuni disturbi è un successo che ormai comincia a avere i suoi anni e non può essere sempre presentato come l’ultimo grido. Dubbi emergono non certo sull’efficacia, ma su quale sia il reale meccanismo di funzionamento. Domanda cruciale, per capire come progredire.
Cognitivismo clinico: il meccanismo di funzionamento del modello cognitivo
Come si sa, la giustificazione teorica del funzionamento del modello cognitivo non è del tutto soddisfacente: esso ipotizza che la cura dipenda dall’esplorazione e dalla modificazione degli schemi e dei contenuti cognitivi ovvero da cosiddetti “first-order change” e la ricerca empirica non è riuscita a dimostrare conclusivamente che l’efficacia del modello cognitivo dipenda da questo tipo di modificazioni.
Sono mancate le evidenze definitive della relazione diretta tra rappresentazioni mentali della conoscenza di sé (self-knowledge e self-beliefs) e architettura dei processi disfunzionali emotivi e comportamentali (process architecture) (Mathews e Wells, 1999, p. 180).
All’EABCT però questa riflessione è stata nascosta dietro un tono celebrativo dei passati successi che lasciava perplessi. Più pensosi alla SITCC, in linea con l’atteggiamento critico degli italiani verso il modello standard, ma non più convincenti nel momento in cui occorreva dare delle risposte allo stallo. Entrambi i congressi sembravano intenzionati a reagire incrementando il livello di coinvolgimento esperienziale e corporeo, e in qualche modo neo-comportamentale, degli interventi cognitivi.
Cognitivismo clinico e approcci bottom-up
È il cosiddetto approccio bottom-up, che propone che la regolazione dei processi emotivi e cognitivi sia riattivata attraverso interventi di esposizione, o meglio di rieducazione esperienziale, come guided-imagery, role playing, esposizione esperienziale e interventi narrativi e cognitivi di ricostruzione del processo di apprendimento e di cronicizzazione delle distorsioni (biases) nel corso della storia evolutiva e personale del cliente e nell’evolversi delle relazioni con altri significativi. In questa area possono rientrare modelli anche molto disomogenei tra loro come la Schema Therapy (ST, Arntz e van Genderen, 2009; Young, Klosko e Weishaar, 2003) e la Metacognitive and Intepersonal Therapy (MIT, Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2015; Carcione, Nicolò e Semerari, 2016).
Questa svolta è indubbiamente interessante. Una perplessità, tuttavia, è che questa svolta esperienziale sia un’annessione superficiale, fatta in nome di una definizione di cognitivismo troppo elastica: in fondo ogni esperienza è anche uno stato mentale e quindi una cognizione. Il rischio è di fare male cose che forse altri orientamenti, come la Sensorimotor Psychotherapy (Odgen & Fisher, 2015) o l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing; Shapiro, 2001), sanno fare meglio. E poco importa se poi il cognitivismo clinico è più solido dal punto di vista teorico. L’esperienza (appunto) conta, e i concorrenti hanno iniziato prima di noi a impegnarsi nel campo degli interventi esperienziali e corporei.
Gli interventi Top Down
Inoltre l’insistenza sull’idea che l’intervento esperienziale, corporeo e –in alcuni casi- relazionale- preceda la regolazione emotiva esplicita e consapevole, che arriva solo in un secondo momento a fissare in routine cognitive le nuove abilità apprese, rischia di sottovalutare l’importanza degli interventi top down, che sono storicamente il punto di forza del cognitivismo clinico.
La terapia diventa un viaggio emotivo e un’esperienza relazionale in cui le nuove capacità regolative sboccerebbero sempre spontaneamente senza mai essere apprese esplicitamente, se non alla fine.
La fiducia nella capacità di padroneggiamento consapevole degli stati emotivi è scarsissima, tutto pare debba avvenire attraverso esperienze emotive correttive che non passano attraverso alcuna scelta e decisione volontaria. È conveniente seguire solo questo percorso e non nutrire più nessuna fiducia nelle capacità consapevoli (non razionali, ma consapevoli) del paziente? Colpisce anche che questa tendenza sia presente a livello europeo e non solo italiano.
La relazione tra esperienziale e cognitivo
Un’altra obiezione riguarda la separazione troppo netta tra esperienziale e cognitivo. In realtà ogni esperienza non è mai semplicemente sentita ed esperita ma anche elaborata a livello superiore e consapevole. I due livelli si intersecano costantemente. Forse in passato si è sottovalutata la componente esperienziale, per dare importanza solo alla riflessione consapevole. Oggi si corre il rischio opposto, finendo per ridurre la psicoterapia a un’esperienza guidata e a un incontro relazionale. L’informazione recepita per via esperienziale e relazionale deve poi trasformarsi in rappresentazione consapevole nella sede della coscienza per poi essere gestita in termini di scopi personali che non possono essere che espliciti, scelte di vita pensate e non solo sentite e su cui il soggetto ha riflettuto consapevolmente. Altrimenti l’intera vita individuale si riduce a una serie di risposte a stimoli esperienziali mai davvero decise ma sempre e solo subite.
Senza contare poi che l’intervento consapevole e riflessivo top down rimane la specializzazione più caratteristica del terapista cognitivo-comportamentale. È stato merito precipuo di questo orientamento terapeutico aver fatto riscoprire alla pratica clinica l’importanza del pensiero consapevole, precedentemente ridotto a un pallido riflesso di forze oscure e ingovernabili. La riflessione esplicita sui propri scopi, la capacità di riconoscere che un atteggiamento evitante corrisponde a una scelta di vita penalizzante e sterile non possono ridursi alla semplice esperienza. Senza contare che di esperienza il paziente comunque ne fa molta al di fuori della terapia. Sicuramente i pazienti traggono giovamento da una esposizione esperienziale che rende il tutto più “sentito”, ma ciò che cambia nella terapia è più l’osservazione consapevole delle esperienze che l’esperienza in sé.