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Neurolatinorum e neurodotti: chi utilizza il linguaggio delle neuroscienze per ottenere autorità scientifica

Gli scienziati moderni per garantire autorità scientifica ai loro studi utilizzano spesso il linguaggio delle neuroscienze anche a volte in modo improprio.

Di Guest, Paolo Moderato

Pubblicato il 19 Dic. 2016

Aggiornato il 10 Ott. 2017 12:10

Da diverse decadi, un nuovo veicolo di persuasione si fa strada tra i progetti di ricerca e la comunicazione scientifica – un miscuglio curioso di fatti, fattoidi e termini scientifici utilizzati dalle neuroscienze. Molti si sono resi conto di quanto il gergo delle neuroscienze sia capace di conferire un’aura di autorevolezza e novità alle affermazioni più scontate, ai risultati più ovvi, agli esperimenti più banali: il neurolatinorum.

Riccardo Manzotti, Paolo Moderato
Università IULM

 

Il neurolatinorum e il neurodotto

Il vestito non fa il monaco, ma aiuta a farlo credere tale. E, spesso, l’abito è fatto di parole e non di idee; parole che, come nel caso del latinorum di Manzoniana memoria, se usate opportunisticamente conferiscono un’aura di immeritata autorità. Come diceva il Galileo di Brecht, la principale causa di ignoranza della scienza è la sua pretesa di essere sapiente.

Da diverse decadi, un nuovo veicolo di persuasione si fa strada tra i progetti di ricerca e la comunicazione scientifica – un miscuglio curioso di fatti, fattoidi e termini scientifici utilizzati dalle neuroscienze. Molti si sono resi conto di quanto il gergo delle neuroscienze sia capace di conferire un’aura di autorevolezza e novità alle affermazioni più scontate, ai risultati più ovvi, agli esperimenti più banali: il neurolatinorum.

Il bersaglio di questo articolo non sono le neuroscienze in quanto tali. Non vogliamo certo criticare le neuroscienze nel loro proprio dominio: negli ultimi cento anni i progressi di questa disciplina sono stati enormi e i risultati eccellenti. Quello che preoccupa è la tendenza a usare la terminologia delle neuroscienze come un vestito per acquisire una legittimazione scientifica. Non è il neuroscienziato che ci impensierisce, ma il neurodotto, che spesso non è neanche un neuroscienziato: colui che usa le parole e le nozioni prese dalle neuroscienze per avvallare punti di vista discutibili e per acquisire un’aura di autorità scientifica.

Il neurodotto non ha bisogno di costruire una completa catena di deduzioni che, a partire da alcune ipotesi e grazie ed evidenze sperimentali, sostengano una tesi precisa. Il neurodotto ottiene la sua forza di convinzione dal vestito linguistico e concettuale più che dalla forza dei propri ragionamenti. Il neurodotto non convince sul piano logico, ma per forza di autorità. In questo modo, parafrasando Longanesi, il neurodotto diventa bravissimo a spiegare agli altri quello che lui stesso non capisce.

Non è un fenomeno nuovo, anzi è una malattia ricorrente della cultura e della società in genere. Come il Galileo di Brecht, i dotti del seicento abusavano della terminologia sillogistica per fingere di conoscere quello che, in realtà, ignoravano. La risposta ai problemi si trova nelle parole invece che nei fatti o nei ragionamenti. Come nel caso della famosa virtus dormitiva di Moliere, il neurodotto segue una prassi non dissimile. Il neurolatinorum, arricchito da una costellazione di opportuni fatti e fattoidi, si trasforma così in un principio panesplicativo che non ammette di essere falsificato e che, quindi, più che una scienza è una specie di pseudometafisica mascherata.

L’uso di certi termini, quasi come per magia, fa sospendere la capacità critica del pubblico che diventa così pronto ad accettare qualsiasi pseudo-spiegazione. Le teorie panesplicative corrono il rischio di dare l’impressione di sapere tutto ma di non spiegare nulla. La dialettica hegeliana sembrava formidabile, eppure non ha spiegato nulla. Se sei un martello, il mondo è fatto di chiodi.

I fatti vengono sostituiti da fattoidi che, anche se nessuno poi li verifica, continuano a circolare nella nostra cultura e molti di questi sono conseguenza di teorie appena abbozzate nel mondo delle neuroscienze.

Facciamo un esempio abbastanza innocente ma significativo: alcuni giorni fa, in una trasmissione di divulgazione scientifica su Radio Tre, Marco Malvaldi dichiara che arte e letteratura sono costruzioni del cervello. E continua nella sua spiegazione del mondo di Dante in termini di attività cerebrale. In fondo, aggiunge, bisogna distinguere tra il mondo reale e la costruzione mentale che è fatta da, indovina un po’, il nostro cervello.

Malvaldi non è un neuroscienziato, è un chimico che scrive romanzi gialli, ma chiaramente avverte l’attrazione per la spiegazione neurocentrica del mondo. E il conduttore radiofonico, lo asseconda, lo appoggia a ogni riferimento al cervello. Il pubblico sente che il cervello è l’Aristotele dei giorni nostri; che è l’autorità che mette a tacere ogni critica. Il ragionamento è semplice, se il cervello costruisce la letteratura è lì che troveremo la risposta a ogni problema e poco importa se nessuno ha un’idea precisa di come i neuroni diventino romanzi e pensieri. L’utilizzo del neurolatinorum di Malvaldi e altri autori, neurodotti come lui, alimenta questo circolo vizioso per cui si continuano a ripetere formule stereotipate che, per il fatto stesso di essere frequentemente pronunciate, vengono percepite come convincenti.

Il neurodotto, bisogna riconoscergli, si muove in un vuoto epistemico di cui non ha colpa. Questo vuoto si è aperto perché le discipline che si occupavano della mente – filosofia, psicologia e psicoanalisi – non sono mai riuscite a definire fisicamente l’oggetto della loro ricerca. Alla fine dell’800, William James diceva di trattare la psicologia come se fosse una scienza nella speranza che lo diventasse. Un secolo dopo, questa speranza è rimasta tale.

 

Neuroscienze: cosa spiegano e cosa resta inspiegato

Le neuroscienze, al contrario, hanno promesso di trovare le basi fisiche della mente da qualche parte dentro i neuroni e, quindi, di trovare le leggi materiali della nostra esistenza. È una promessa legittima, per una disciplina delle scienze forti. Il problema è che, per quanto riguarda la mente e il suo funzionamento, le neuroscienze non propongono una spiegazione ma una promessa di spiegazione. Non spiegano come i neuroni diventino pensieri, emozioni e sensazioni, ma si limitano a indicare delle aree cerebrali che sarebbero coinvolte con tale funzione. Si confonde il dove con il come e, in molti casi, non si fa nemmeno quello ma si emette, per usare la metafora di Ryle, una cambiale epistemica. Invece di un “pagherò” si emette un “spiegherò”, ma tanto basta perché diventi, come la moneta cattiva, di uso comune nella vulgata scientifico-popolare. Il neurodotto, prende le cambiali e le scambia per moneta vero. Lo spiegherò delle neuroscienze, diventa una spiegazione – sia pure incomprensibile – del neurodotto. Un po’ di neurolatinorum copre i vuoti e le mancanze.

Prendiamo in esame la classica confusione tra localizzazione e spiegazione; la confusione tra dove e perché oggetto di una precisa critica di Legrenzi e Umiltà. Spesso un problema cognitivo viene tradotto nella ricerca del luogo neurale. È un passaggio discutibile per vari motivi. I principali sono: non sappiamo se i fatti cognitivi sono localizzabili in aree neurali, non abbiamo gli strumenti per controllare quello che avviene in termini di attività neurale, la complessità fine dei processi neurali è ancora molti ordini di grandezza superiore ai dati effettivamente misurati, anche se trovassimo dove si trova una certa attività, non sapremmo molto di più del fatto, in sé banale, che il cervello contribuisce a svolgere un’attività cognitiva. Eppure, siamo sommersi di risultati (a volte incerti) circa la localizzazione di svariate attività mentali. Si finisce così in una specie di neurofrenologia che, oltretutto, potrebbe rivelarsi infondata.

Complice un forte supporto mediatico e il vuoto citato sopra, il valore esplicativo dei dati delle neuroscienze si è esteso ben oltre i confini dei laboratori. Grazie a una serie di circostanze favorevoli – quali l’utilizzo di apparecchiature d’avanguardia molto costose, l’incrocio con la teoria dell’informazione, l’uso di termini mutuati dalla intelligenza artificiale e dalla computer science, oltre all’uso di immagini coloratissime del cervello – la loro terminologia è tracimata fuori dalle reti neuronali e si è diffusa negli ambiti più insospettabili. E così le discipline più deboli, vedi l’esempio della psicoanalisi, hanno sentito l’attrazione per questo abbraccio mortale con le promesse delle neuroscienze: una specie di biglietto magico per entrare nel mondo delle scienze forti. Estetica, economia, marketing, teologia, filosofia e molte altre si sono offerte con voluttà all’abbraccio con il prefisso neuro- visto come un’irresistibile promessa di un futuro glorioso. E poco importa se, per ora, è più un’operazione di maquillage accademico che qualcosa di concreto. Ma dove non arrivano le neuroscienze, arrivano i neurodotti.

Come diceva Macluahn, il medium è il messaggio. A causa dei limiti di tempo e di risorse nel quotidiano, la possibilità di comprendere quello che si legge e di valutarne l’effettivo peso scientifico è ridotta. Di conseguenza, il vestito e i termini usati devono dare l’impressione di trasmettere qualcosa di importante, significativo e autorevole – qualcosa che la comunità riconosce subito. La parola chiave, a questo proposito, è riconoscere, come si riconosce il generale dalle stelline, mentre si ignora se abbia effettivamente vinto qualche battaglia o se sia coraggioso e giusto con i suoi uomini; come si riconosce il vino dall’etichetta senza poterne distinguere sapore e struttura; come si riconosce l’opera d’arte dalla galleria che la espone e non dai meriti intrinseci. Nello stesso modo, il neurolatinorum abilmente usato dai neurodotti permette, da parte del pubblico e dei colleghi, questo immediato, agognato e vendibile, riconoscimento. Non ci si deve più sforzare per provare la correttezza dei metodi, l’acutezza dei ragionamenti, l’importanza dei risultati. L’utilizzo del gergo e del vestito delle neuroscienze è sufficiente, consente un immediato riconoscimento.

Il cervello è diventato il nuovo fantasma nella macchina. Sentire dichiarare che il “cervello” fa questo e quello, suona molto più convincente di uno psicologo o di un filosofo che dice che “un soggetto o una mente” fanno questo e quello. Ma le due frasi sono equivalenti. Almeno finché non esisteranno leggi psicofisiche che spiegano in modo intelligibile il passaggio dal fisico al mentale: queste leggi, va detto con forza, non sono neanche lontanamente alla portata delle neuroscienze. Non è altro che la fallacia mereologica denunciata da Bennet e Hacker. Il cervello è un fantasma, è un omuncolo. Chi è il nuovo omuncolo? Il cervello, e i sacerdoti di questa anima materiale che si annida dentro il cranio, i neuroscienziati, con le loro cattedrali, vescovi, e finanziamenti. Il cervello è un articolo di fede. È la promessa di una futura unificazione tra materia e spirito. Il neurodotto, chiaramente, si propone come monaco e officiante di questa, a volte lucrosa, religione laica. Il neurolatinorum – amalgama indistinto di termini, fatti e fattoidi – è la sua bibbia. Sarebbe bello se il pubblico esercitasse un minimo di scetticismo laico.

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Paolo Moderato
Paolo Moderato

Professore di Psicologia Generale, Università IULM, Milano. Il Prof. Moderato è Scientific Advisor per State of Mind sulle aree: Behavior Analysis e Applied Behavior Analysis.

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