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Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey (Romanzo del 1962) – Recensione

Qualcuno volò sul nido del cuculo - Kesey descrive la dignità dei malati, il loro diritto a vivere emozioni, non diverse da quelle degli individui sani.

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 13 Set. 2013

 

Recensione del Libro:

Qualcuno volò sul nido del cuculo

di Ken Kesey

(1962)

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Qualcuno volò sul nido del cuculo.

Kesey descrive con stile asciutto e precisione narrativa la dignità umana dei malati, il loro diritto a vivere emozioni che non sono intrinsecamente diverse da quelle degli individui giudicati sani, bensì seguono percorsi esistenziali differenti.

“Qualcuno volò sul nido del cuculo”, romanzo pubblicato nel 1962 dallo scrittore americano Ken Kesey, è noto soprattutto per la trasposizione cinematografica di Milos Forman esaltata da un sontuoso Jack Nicholson, ma merita di essere rivisitato anche per il suo valore letterario.

La storia è ambientata in un ospedale psichiatrico i cui pazienti, suddivisi fra acuti e cronici, vengono tenuti sotto una rigida disciplina dagli operatori della struttura e dai metodi di cura allora utilizzati dalla scienza medica.

I personaggi principali sono il Grande Capo indiano Chief Bromden, l’io narrante, Miss Ratched, infermiera dura e maligna nonché esecutrice spietata delle direttive dell’amministrazione, e McMurphy, giocatore d’azzardo di sangue irlandese dal temperamento rissoso e istrionico, sopravvissuto a un’esistenza caotica e violenta.

La rivolta dei pazienti, condotta da McMurphy, è un crescendo di episodi memorabili. Dal punto di vista psicologico il valore dell’opera, pensata in un periodo in cui il tema delle condizioni dei soggetti psichiatrici si affacciava con sempre maggiore urgenza sulla scena sociale, è ancora oggi immutato; Kesey descrive con stile asciutto e precisione narrativa la dignità umana dei malati, il loro diritto a vivere emozioni che non sono intrinsecamente diverse da quelle degli individui giudicati sani, bensì seguono percorsi esistenziali differenti.

Kesey sta dalla loro parte, sente la loro sofferenza e la fa toccare al lettore insieme alla trasformazione dello sguardo narrante che progressivamente si accorge di una realtà prima trascurata, di una verità insopprimibile tenuta lontana dalle coscienze della società contemporanea e dalla loro possibilità di provare disagio.

La malattia mentale è sì un sentiero alternativo concesso alla fantasia e da essa alimentato, ma anche dolore, esclusione; il libro non fornisce un’immagine edulcorata della patologia psichica, non la tratta come una condizione che in quanto oggetto di pregiudizio sociale deve essere riconsiderata attraverso una sterile lotta ideologica, bensì la avvicina alle passioni e ai tormenti, agli slanci dignitosi, insieme disperati che le più comuni esistenze conosciute sperimentano senza essere classificate dalla scienza medica.

I dialoghi del libro sono rapidi, efficaci, la prospettiva si delinea formandosi nei gesti dei personaggi, nella loro storia che a poco a poco ritrova la dimensione dell’impegno a vivere, la consistenza del bisogno e del desiderio, l’epica quotidiana del sentimento. “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è un’opera di denuncia, d’amore, di rispetto per l’umanità e la fragilità delle sue espressioni; quando il colonnello Matterson, uno dei cronici, solleva la lunga mano gialla scolpita di rughe, la osserva tornando con la vita al ricordo dei campi militari solcati per quarant’anni, quando la sua voce, profonda come la materia che non riesce a raccontare a chi non la comprende, fissa davanti agli occhi il Messico e la noce, così gli appare pensando alla sua forma e risentendo la durezza di quella terra assolata, l’io narrante si sorprende di riuscire per la prima volta a dare un significato a quelle parole, fino a quel momento udite e mai ascoltate, per anni, sempre uguali, come non ci fosse bisogno di penetrare nel loro contenuto visionario eppure reale, irreversibilmente reale.

Molte scene come questa raccontano la sensibilità di Kesey nell’accostarsi a un mondo che va recuperato alla dignità di ogni essere vivente e pulsante, ma che per troppo tempo è stato emarginato nel tentativo di proteggere un’umanità spaventata dalla percezione della propria potenziale debolezza, dalla certezza della propria inevitabile imperfezione.

Qualcuno volò sul nido del cuculo” è ancora oggi una lezione di impegno individuale e civile, di apertura verso una sostanza uguale alla nostra di lettori e osservatori, solo più ferita.

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