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La valutazione del rischio: una strategia preventiva fondamentale per gestire i casi di femminicidio

Reiterazione, frequenza e escalation della violenza che portano al femminicidio hanno aperto alla riflessione circa i fattori di rischio e di vulnerabilità

Di Moira Fusco

Pubblicato il 18 Dic. 2019

Un anello primario, in ottica preventiva, nella gestione dei casi di femminicidio risiede nella tempestività della valutazione del rischio di recidiva e reiterazione della violenza a danno della donna, al fine di scongiurare epiloghi tragici.

 

I reati di maltrattamento in famiglia sono complessi, difficili da dimostrare in virtù della loro natura: avvengono nella sfera dell’intimità e delle relazioni affettive e spesso sono caratterizzati da un’iniziale mancanza di disponibilità da parte della donna di procedere contro il partner o l’ex partner, per una serie di dinamiche proprie del ciclo della violenza in cui la donna è confusivamente inglobata, come la dispercezione del sé per effetto dell’effrazione psichica del maltrattante. Nella aule dei tribunali, dove in più occasioni mi sono ritrovata a testimoniare in loro favore, inizialmente mi stupiva l’atteggiamento di moltissime donne che non erano animate da sentimenti di rancore o vendetta nei confronti del partner maltrattante, quanto piuttosto da un ardente desiderio di riscatto e possibilità di ricostruirsi un’esistenza serena, e finalmente libera.

Un anello primario, in ottica preventiva, nella gestione dei casi di femminicidio risiede nella tempestività della valutazione del rischio di recidiva e reiterazione della violenza a danno della donna, al fine di scongiurare epiloghi tragici.

Il principio cardine su cui si basa la valutazione del rischio è che la violenza è una scelta, influenzata da tutta una serie di fattori sociali, biologici, neurologici, individuali di colui che maltratta:

si può così ipotizzare, prevedere, valutare quali fattori hanno portato la persona a decidere di agire violenza e intervenire cercando di modificarli, ridurli o ancora meglio farli scomparire o neutralizzarli, riducendo così il rischio di recidiva (Baldry, 2016).

Nonostante i corposi istituti giuridici preposti al contrasto della violenza domestica, troppe volte nei casi di cronaca si legge di donne che avevano già presentato delle denunce per maltrattamenti o segnalato situazioni di violenza reiterate, a cui però non hanno fatto seguito interventi efficaci a garantire la tutela della loro incolumità e di quella dei loro figli.

Questo accade principalmente per due ragioni: da un lato si tende a sottovalutare il bisogno di protezione delle donne con la complicità di una lettura errata di quanto sta accadendo nella loro vita – scambiando ancora una volta la violenza con le dinamiche conflittuali – e dall’altro si tende a ritenere che una denuncia sia un’azione già sufficientemente esaustiva. E’ accertato, invece, come il momento della denuncia o la volontà palesata al partner di interrompere la relazione costituiscano il momento di pericolosità maggiore per la vita della donna, con rischi che vanno dall’escalation della violenza a esiti letali quali, il femminicidio.

La denuncia in se stessa si rivela insufficiente, se non opportunamente supportata da una puntuale valutazione del rischio da effettuare con la donna, tale da consentire l’assunzione di maggiore consapevolezza e autodeterminazione, e la messa a punto di un piano di sicurezza ad hoc che assicuri la sua salvaguardia in toto.

Si tratta, pertanto, di porre a sistema e in rete tutti gli attori – centri antiviolenza, forze dell’ordine, servizi territoriali, tribunali, case rifugio, presidi ospedalieri, rete familiare e amicale dove presenti – coinvolgendoli nel processo di presa in carico e gestione di quello specifico caso, ricordando che ogni storia di violenza è una storia a sé, con caratteristiche per certi versi simili, ma che comunque variano da una all’altra, tra cui ad esempio, il grado di consapevolezza della violenza subita, il livello di resilienza, la fase del ciclo della violenza, le strategie di coping già attuate per fronteggiare la violenza, gli aiuti esterni che la donna può aver richiesto.

Il Piano Strategico Nazionale Contro la Violenza Maschile sulle Donne 2017 – 2020, all’asse 4.3 ‘Perseguire e punire’, recependo il contenuto dell’art.51 della Convenzione di Istanbul, recita chiaramente che

Le donne che subiscono violenza hanno diritto a sentirsi tutelate e a ottenere giustizia dai tribunali il prima possibile, le situazioni di violenza vissute devono essere opportunamente investigate al fine di evitare il protrarsi di ulteriori violenze (…) garantire la tutela delle donne vittime di violenza attraverso un’efficace e rapida valutazione e gestione del rischio di letalità della vittima, gravità, reiterazione e recidiva del reato, attraverso procedure omogenee ed efficienti su tutto il territorio nazionale.

La reiterazione, la frequenza e l’escalation della violenza che connotano tale tipologia di reato hanno aperto la strada alla riflessione circa i cosiddetti ‘fattori di rischio’ e di ‘vulnerabilità’ presenti all’interno delle relazioni violente.

Ma come si definisce un fattore di rischio o di vulnerabilità, ed esiste una metodologia per individuarli?

Un fattore di rischio è una caratteristica del maltrattante, una circostanza della relazione la cui presenza aumenta la probabilità che si verifichi quel determinato comportamento. Individuare i fattori di rischio aiuta a leggere i campanelli d’allarme e a far sì che le donne – che forse non li hanno saputi attenzionare perché normalizzati – possano rileggerli nella narrazione del loro vissuto e della loro storia. Nel valutare il rischio occorre che tali fattori vengano sempre contestualizzati e distinti tra dinamici, sui quali è possibile intervenire (attuale pericolosità del reo, condizioni di scarsa autonomia della vittima, abuso di sostanze, ecc.), e statici, che comunque permangono in termini di impatto (ad esempio, una condanna avuta nel passato dal reo per maltrattamenti o altra tipologia di reato, minimizzazione della violenza, ecc.).

I fattori di vulnerabilità sono invece quelle caratteristiche delle vittime la cui presenza aumenta la difficoltà per la donna di sottrarsi alla violenza e quindi il rischio di recidiva.

Tra i metodi più conosciuti e maggiormente usati negli Stati Uniti e in Europa (Svezia, Scozia, Repubblica Ceca, Grecia e in Italia ormai da oltre 10 anni) vi è il metodo SARA (Spousal Assault Risk Assessment, Valutazione del rischio di recidiva nei casi di violenza e nelle relazioni intime), messo a punto in Canada nel 1996, ad opera di P. Randall Kropp e Stephen D. Hart, ampiamente sviluppato e attuato in Italia, a partire dal 2006, con specifici protocolli con le Forze dell’Ordine da A.C. Baldry, e diffuso a centri antiviolenza e servizi territoriali attraverso specifica formazione.

In Italia, il progetto SARA per la valutazione del rischio di recidiva della violenza interpersonale all’interno di una relazione intima attuale o pregressa è il primo esperimento attivato e coordinato da Anna Costanza Baldry e realizzato all’interno dei programmi Daphne e Marie Curie Fellowship Reintegration Grants della Commissione Europea. La metodologia per la valutazione del rischio è iniziata in via di sperimentazione in Italia dapprima nel Lazio, e adesso è conosciuta e utilizzata a livello di tutte le 103 Questure che sono state formate a livello centrale del Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine o a livello locale nelle singole Questure che ne hanno fatto richiesta. Lo stesso dicasi per l’Arma dei Carabinieri presso cui il metodo è stato illustrato all’interno di alcuni progetti.

Per valutazione del rischio si intende

quel complesso di azioni e valutazioni che tendono a fornire un quadro prognostico – quindi di previsione – circa la probabilità (rischio) di verificarsi di eventi o circostanze, in base a parametri che sono noti, e che possono mettere a repentaglio l’incolumità o la sicurezza di una persona (Baldry, 2016).

Lo scopo della valutazione del rischio di recidiva non è tanto quello di predire chi è a maggior rischio di reiterare la violenza o quale donna è a rischio di essere ri-vittimizzata dal suo partner o ex partner, ma di poter prevenire tale recidiva e l’escalation della violenza nelle relazioni intime, attraverso l’attuazione di strategie di intervento efficaci a tutela della vittima e strategie nei confronti del reo per scongiurare tale rischio, limitandone la libertà con misure cautelari (ordine di allontanamento dalla casa familiare, divieto di dimora o la custodia cautelare in carcere) o precautelari o di prevenzione adeguate, e/o attraverso risposte trattamentali adeguate (Baldry, 2016).

Affrontare i casi di maltrattamento in famiglia e all’interno della coppia utilizzando tale metodologia rappresenta un’occasione importante per mettere a fuoco quei fattori la cui presenza aumenta la probabilità che la violenza si reiteri nel tempo, pianificando con la donna un percorso di messa in sicurezza se il rischio risulterà molto elevato. Ciò non toglie che l’assenza di fattori di rischio non escluda la possibilità di presentarsi della condotta violenta essendo il comportamento umano imprevedibile, così come la loro presenza non indica necessariamente che quell’autore della violenza persevererà nella sua condotta o ucciderà la sua partner.

Entrando nel dettaglio, i fattori di rischio possono essere divisi in sezioni separate, violenza da parte del partner o ex partner e adattamento psico-sociale includendo:

  • Gravi violenze fisiche/sessuali
  • Gravi minacce di violenza, ideazione o intenzione di agire violenza
  • Escalation (sia della violenza fisica/sessuale vera e propria sia delle minacce/ideazioni o intenzioni di agire tali violenze)
  • Violazione delle misure cautelari o interdittive
  • Atteggiamenti negativi nei confronti delle violenze interpersonali e intrafamiliari
  • Precedenti penali/condotte antisociali
  • Problemi relazionali
  • Problemi di lavoro o problemi finanziari
  • Abuso di sostanze
  • Disturbi mentali

Riguardo invece ai fattori di vulnerabilità della vittima il SARA – S annovera:

  • Condotta e atteggiamento incoerente nei confronti del reo
  • Estrema paura nei confronti del reo
  • Sostegno inadeguato alla vittima
  • Scarsa sicurezza di vita
  • Problemi di salute psicofisica, dipendenza

A tali fattori il SARA-S aggiunge anche la rilevazione della presenza di armi, bambini testimoni (violenza assistita) e child abuse.

Il S.A.R.A., nella versione originaria costituito da 20 items, poi snellito nella versione screening S.A.R.A.-S, è stato costruito sulla base di dieci fattori di rischio che riflettono vari aspetti relativi alla storia di violenza, ai procedimenti penali, al funzionamento e adattamento sociale e alla salute mentale dell’autore della violenza, ed è utile per avere un quadro esaustivo della sua pericolosità. L’operatrice o l’operatore che effettua la valutazione del rischio con la donna, con il metodo S.A.R.A.- S, procede nello stabilire il livello di presenza o meno di ognuno dei dieci fattori allo stato attuale (ultime quattro settimane) e nel passato (prima di un mese). Questo significa che quando una donna riporta le violenze subite, analizzando i dieci fattori di rischio proposti dallo strumento, sarà compito della valutatrice o del valutatore identificare se la presenza del rischio sia bassa, media o elevata, e se sia riferibile come lasso di tempo nell’immediato (entro 2 mesi), o più a lungo termine (dopo i due mesi) anche in termini di escalation e gravità.

Un punto di forza dello strumento consiste nell’integrare la valutazione dell’operatrice con quella della donna, che in prima persona fornirà la propria percezione rispetto alla violenza subìta e i rischi a essa connessi, elementi sui quali dovrà essere impostato con lei il lavoro di fuoriuscita dalla violenza e le eventuali strade percorribili. Così facendo la donna ha l’opportunità di essere al centro e protagonista del percorso da intraprendere, grazie alla restituzione del potere di scelta anche in condizione di elevato rischio di recidiva della violenza nella relazione.

Mi preme precisare che la valutazione del rischio è un processo dinamico, si parla infatti di Active Risk Assessment (ARA), e pertanto dovrà essere eseguita più volte nel corso del tempo per monitorare l’evoluzione del livello di rischio, senza tralasciare l’importanza di condividerla con le figure professionali (servizi territoriali, forze dell’ordine, tribunali, Presidi Ospedalieri, ecc.), che entreranno in contatto con lei in momenti diversi della sua storia.

Essendo la valutazione del rischio un processo dinamico, il livello del rischio può fluttuare nel tempo, ed è quindi opportuno eseguire il follow-up a intervalli di almeno 2-3 mesi. Vi sono, inoltre, alcune circostanze considerate critiche per quel che concerne il rischio di recidiva, che comportano la necessità di un’immediata ri-somministrazione, e tra queste:

  • la donna ha mostrato/riferito la sua intenzione di interrompere la relazione o di separarsi (preceduti da episodi di violenza o minacce di violenza all’interno della coppia);
  • la nascita di una nuova relazione, contrariamente alla volontà dell’ex partner (il concetto di vittima si estende anche al nuovo compagno, in questi casi, e a chiunque cerchi di fornire aiuto alla donna per uscire dal circolo della violenza);
  • presenza di dispute relative all’affidamento dei figli e al regime di visita;
  • il maltrattante viene scarcerato dopo un periodo di custodia cautelare o dopo la condanna per reato di maltrattamenti (o per tentato omicidio o per altri reati gravi).

Riassumendo, la compilazione della scheda di valutazione del rischio e la sua metodologia si rivela funzionale per attivare un virtuoso feedback bidirezionale tra la donna e l’operatrice al fine di:

  • monitorare in un lasso di tempo più circoscritto l’evolversi della violenza e ridefinirne il rischio di reiterazione nel breve e medio termine;
  • far emergere – e far acquisire – il livello di percezione/consapevolezza del rischio di reiterazione della violenza da parte della donna;
  • rimandare il rischio emerso attraverso un’adeguata restituzione, rileggendo con la donna le strategie adottate per ‘controllare’ le tipologie di violenza subita, divenuti veri e proprio habitus e rinforzo delle dinamiche proprie del circolo della violenza;
  • agire efficacemente sullo spostamento dell’attribuzione di responsabilità della violenza e sull’investimento di energia dall’esterno verso l’interno (centratura e focus sulla donna, e lavoro sul sé);
  • individuare e rileggere insieme, in ottica di genere, gli stereotipi culturali presenti, gli ostacoli (materiali, culturali, ecc.) che impediscono la fuoriuscita dal circolo della violenza scongiurando pericolose minimizzazioni;
  • definire e programmare le necessarie azioni progettuali tra i soggetti coinvolti, partendo dalla disamina di quegli indicatori che segnano un’apripista non trascurabile di possibili escalation della violenza;
  • offrire anche in una possibile sede di testimonianza processuale una chiave di lettura più nitida sul funzionamento delle dinamiche della violenza, al fine di orientare gli interventi futuri considerando gli indicatori di rischio emersi, e scongiurando processi di rivittimizzazione per la donna;
  • creare una robusta rete supportiva che offra un intervento multidisciplinare e che trasmetta finalmente alla donna il messaggio di non essere sola nel vissuto violento.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Baldry A. C. (2016). Dai maltrattamenti all’omicidio. La valutazione del rischio di recidiva e dell’uxoricidio. Franco Angeli, Milano.
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