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Giulia e le altre: una riflessione su alcune cause dei femminicidi

Ennesima uccisione di una giovane ragazza per mano del suo ex. Molto si può dire guardando le concause che portano a questi femminicidi

Di Sandra Sassaroli

Pubblicato il 20 Nov. 2023

Assisto a una reazione acuta e giusta all’ennesima uccisione di una giovane ragazza dal suo ex fidanzato, non si sa ancora se in un impulso momentaneo o con premeditazione. Le riflessioni che leggo sono relative all’autoeducazione necessaria agli uomini per non aggredire le donne che oggi spesso scelgono l’indipendenza o hanno il desiderio di autonomia che essi non condividono. Oppure, come dice il ministro Nordio, la necessità di dare il giusto rilievo a segnali di violenza che accadono prima del disastro finale. Molto si può dire, guardando le concause che portano a questi femminicidi, e vorrei riepilogarne alcune.

I cambiamenti sociali richiedono tempi più lunghi dei cambiamenti del diritto

Innanzitutto l’indipendenza e la ricerca di autonomia delle donne è storicamente recente, possiamo pensare (escludendo alcune eccezioni) ai primi del ‘900 in Inghilterra e al femminismo degli anni ’70. Quel periodo segna una cesura e un inizio. Ricordo ancora quando nel mio liceo del centro di Roma, i ragazzi, scherzando, ragionavano sulle maggiori dimensioni del cervello maschile (da dove in modo riduzionistico deducevano una maggiore intelligenza maschile) o quando -e parlo di 50 anni fa- ci si chiedeva ancora del perché gli artisti fossero in massima parte uomini e si contassero così poche donne. 

Quel periodo, nel mondo occidentale, è passato ma al cambiamento sociale non bastano 50 anni: ci sono i modi, i miti, le arretratezze che chiedono molto più tempo. 

E questo è sicuramente uno spunto di riflessione.  

Mai dimenticare la differenza muscolare tra uomini e donne

Le donne, da quando hanno avuto accesso a uguali possibilità, semplicemente sono partite e non hanno intenzione di fermarsi. Tendendo a volte a sottovalutare la differenza muscolare con gli uomini, che invece dovrebbe sempre restare una consapevolezza da non dimenticare. 

È importante che le donne diano il giusto valore a segnali di esagerato controllo, di aggressione minore, di stalking, di rabbia espressa in modo esagerato, di desiderio di possesso; perché in caso di escalation, la lotta è sempre impari. 

L’incapacità di accettare la frustrazione e il rifiuto è tipica dei nostri giovani e va affrontata adesso

Ma, da vecchia clinica, volevo notare un altro elemento. Questo giovane uomo come tutti i giovani uomini che uccidono, lo fa quando incontra un blocco, un ostacolo alla sua volontà. Giulia è intelligente, e si è stufata, gli vuole bene ma vuole andare altrove, è più brava negli studi. 

Ecco, guardando questi uomini che uccidono le donne, vediamo delle persone incapaci di sostenere e accettare limitazioni ai loro desideri e alla loro volontà. Dovrebbero accettare il dolore straziante di una perdita, piangere, disperarsi e poi lentamente rialzarsi, ma non ne sono capaci. Non hanno imparato a gestire le sensibilità dolorose, sentirsi non amati, sentirsi sciocchi, lasciati indietro, umiliati, vergognosi. Vedere e accettare i propri limiti, anche dal punto di vista della costruzione del futuro. 

Lì avviene la scelta di uccidere, eliminare l’altro che mi ha messo davanti alla mia incompetenza a soffrire. Che mi ricorda che ho dei limiti che non posso accettare, e non è possibile che io riconosca. 

La rabbia e gli atti di aggressione consentono per un secondo, per un breve momento, di sentirmi di nuovo forte. Di mettere l’altro nel bagagliaio, di non vedere in lui i miei limiti, i miei problemi. 

E poi ci si uccide o si fugge. 

Il costo gigantesco di questi eventi è evidente: una giovane ragazza che muore e a cui viene negato un futuro e un ragazzo che sarà in prigione giustamente nei prossimi vent’anni e la cui vita è irreparabilmente rovinata, se non altro per il ricordo di quelle scene che non si possono cancellare.

Educare i figli a non essere perfetti

Ci chiediamo allora come fare ad abituare ed educare i figli a non essere i “figli perfetti” ma figli che sanno soffrire accettando le tragedie personali che ogni vita presenta e che si devono affrontare con tutte le emozioni di strazio che sono fatte per noi, che ci consentono di morire di dolore e piano piano di ripartire. Senza trasformare il proprio dolore inaffrontabile in rabbia verso l’altro.

Questa riflessione riguarda alcuni aspetti clinicamente rilevanti: da un certo punto di vista le troppo alte aspettative con cui a volte i genitori (ormai di pochissimi figli) spingono i figli a dover diventare tutti bravissimi ed eccellenti (ricordo ancora una ragazza con una sofferenza emotiva enorme e un lieve ritardo mentale i cui genitori si aspettavano un brillante futuro in una importante università europea).

Dobbiamo guardarli bene i nostri figli che spesso non sono perfetti e non sono i geni che noi vorremmo, e sui quali le nostre aspettative non fanno altro che aggravare la tendenza a ignorare i segnali della realtà.

Dall’altro l’incompetenza appresa a accettare sentimenti di umiliazione e sconfitta, il terrore di vedersi come si teme di essere, non quegli esempi di forza e perfezione ma delle persone vulnerabili e con immense fragilità. E la necessità di ripartire sempre con i vecchi comportamenti di ostinazione, insistenza e controllo sull’altro.

Insegniamo ai figli a essere consapevoli e fiduciosi delle proprie risorse emotive da mettere in atto nei momenti di difficoltà acuta. Guardiamoli per ciò che sono non per come li desideriamo.

Un omicidio è innanzitutto un atto tremendamente stupido, non è mai il segnale di una visione sensata del proprio progetto esistenziale, è sempre una scorciatoia che porta ad un vicolo cieco.

Ma i genitori, che ovviamente non hanno colpe dirette o almeno non sempre, insegnano a questi giovani maschi che le donne non sono oggetti predatori e proprietà degli uomini ma essere indipendenti e non appartenenti? E lo fanno dimostrando fattualmente il rispetto che si deve a una madre, a una nonna, di una ragazza che poi sarà in pericolo? Questo è imperativo di civiltà (vorrei ritenerlo scontato ma temo non lo sia): deve essere una priorità assoluta per le famiglie, per la scuola, per le istituzioni.

L’ultima concausa, ma non per questo la meno importante, è che il femminicidio è “omicidio di stato” (cit. Corriere del Veneto – La lettera di Elena Cecchettin: «I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato») in quanto nella stragrande maggioranza dei casi le vittime si erano ripetutamente rivolte alle autorità per denunciare: spesso inascoltate o subendo contromisure inefficaci. Insomma qualcosa si muove nella direzione dell’ascolto delle donne in pericolo ma molto c’è ancora da fare.

Per concludere, non penso che un unico elemento spieghi proprio tutto e sempre dei femminicidi (che – lo ripeto – sono tanti, ma in Italia non sono in aumento), perché esistono patologie personali, scelte, viltà, smarrimenti e desideri di punire come elementi individuali e imprevedibili.

Ma guardare questi femminicidi è angoscioso per la loro ripetitività, sono sempre uguali, con differenze nell’impulsività, nella premeditazione ma con narrazioni tutte simili: la minaccia di un abbandono, la decisione della separazione, il desiderio di andare altrove da parte di una donna, il desiderio di possesso e controllo da parte dell’uomo, una difficoltà a decodificare con chiarezza come realmente stanno andando le cose da parte delle famiglie, degli amici, della società, dei rischi che la ragazza sta correndo, mentre decide di rimanere amica di un uomo che non vuole più. Improvvisamente un uomo che sceglie di uccidere invece di divenire un essere umano completo, capace di accettare la vita per come essa è.

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Sandra Sassaroli
Sandra Sassaroli

Presidente Gruppo Studi Cognitivi, Direttore del Dipartimento di Psicologia e Professore Onorario presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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