expand_lessAPRI WIDGET

PTSD e Bambini: la ruminazione come fattore di vulnerabilità

Alcuni bambini riescono più facilmente di altri a riprendersi dopo un evento traumatico, mentre altri sviluppano un Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) che potrebbe durare mesi, anni o addirittura accompagnarli fino all’età adulta. 

 

Una recente ricerca della University of East Anglia ha messo in evidenza come la possibilità che un bambino sviluppi o meno un Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) a seguito di un evento traumatico possa dipendere dal modo in cui il bambino pensa e giudica la sua reazione all’evento traumatico. In altre parole, sembra che ci siano maggiori rischi di sviluppare un PTSD nel momento in cui si pensa di avere difficoltà nel processare il trauma e si percepiscono i sintomi come segno di qualcosa di assolutamente sbagliato.

I sintomi tipici del PTSD possono rappresentare una reazione comune al trauma nei bambini e negli adolescenti: memorie intrusive, incubi e flashbacks. Proprio perché considerati come una reazione normale al trauma, i professionisti della salute mentale non forniscono una diagnosi di PTSD se tali sintomi perdurano nel primo mese dopo il trauma.

I ricercatori della University of East Anglia hanno dunque voluto indagare perché, in alcuni bambini, i sintomi conseguenti ad un trauma svaniscono anche senza trattamento mentre altri bambini continuano a sperimentare problemi persistenti.

Lo studio

Il campione dello studio era composto da 200 bambini di età compresa tra gli 8 e i 17 anni, ognuno dei quali aveva vissuto un’esperienza in pronto soccorso a seguito di un incidente traumatico (incidenti stradali, aggressioni, attacchi da parte di cani e altre emergenze mediche).

I soggetti dello studio sono stati intervistati e valutati per il PTSD in due tempi: tra le due e quattro settimane in seguito al trauma e, ancora, dopo due mesi. Il team di ricerca ha suddiviso le reazioni dei bambini in tre gruppi: un gruppo “resiliente” che non ha sviluppato sintomi traumatici clinicamente significativi in entrambi i momenti di misurazione; un gruppo “recovery” che ha mostrato i sintomi inizialmente, ma che al follow up due mesi dopo non erano più presenti; un gruppo “persistente” caratterizzato da sintomi di PTSD in entrambi i tempi della ricerca. Il team ha anche esaminato la presenza di un supporto sociale per valutare se aver discusso il trauma con amici e parenti potesse essere stato un fattore protettivo contro i problemi persistenti dopo i due mesi. Inoltre, i ricercatori hanno tenuto conto di altri fattori quali gli eventi di vita stressanti e se il bambino stesse provando dolore in quel momento.

I risultati dello studio hanno dimostrato che i sintomi di PTSD sono abbastanza comuni nelle prime fasi, tra due e quattro settimane, dopo un trauma. Queste prime reazioni sono indotte da alti livelli di paura e confusione vissuti durante il trauma. Nonostante ciò, la maggioranza dei bambini e degli adolescenti sembra superare in maniera naturale questi vissuti senza alcun intervento.

È molto interessante notare come la gravità dei danni fisici non abbia predetto il PTSD, come neanche gli eventi di vita stressanti, la quantità del supporto sociale su cui contare o l’auto-colpevolizzazione. Al contrario, ciò che è emerso è che, i soggetti che hanno mantenuto i sintomi del PTSD fino ai due mesi a seguito del trauma, sono stati quelli più inclini a pensare in maniera negativa al trauma e alle loro reazioni ad esso. La ruminazione è risultata essere determinante: essi, infatti, percepivano i sintomi come se ci fosse qualcosa di serio, permanente e sbagliato in loro, erano meno fiduciosi verso le altre persone e pensavano di non essere in grado di reagire.

Nel caso di molti soggetti dello studio, i tentativi deliberati di processare il trauma (per esempio: provare a rifletterci o parlarne con amici e famiglia) erano in realtà associati ad un peggior decorso del PTSD. Infatti, i bambini che hanno mantenuto i sintomi sono proprio quelli che hanno riportato di aver trascorso molto tempo nel ricercare un senso al loro trauma. Mentre per alcuni il cercare di dare un senso al trauma può essere funzionale, sembra che per alcuni bambini vi sia il rischio di rimanere bloccati in un processo ruminativo.

In conclusione

Il presente studio evidenzia come la ruminazione, il focalizzarsi sul trauma e il prestare attenzione alle proprie reazioni e ai propri sintomi siano fattori di vulnerabilità per il PTSD.

L’attenzione come antidoto alle Fake News

Le fake news, più comunemente chiamate bufale, sono notizie volutamente inventate il cui intento è quello di danneggiare e/o screditare un individuo (o gruppi di individui) per fini molto spesso di natura politica, ma non solo. 

 

Oggi stiamo assistendo a una crescita esponenziale di queste notizie false, la cui paternità si deve per la maggior parte a profili anonimi anch’essi fasulli (i cosiddetti troll) che proliferano in rete indisturbati, causando accese discussioni sui social network e manipolando le opinioni degli altri utenti. È il web infatti il luogo di elezione in cui le fake news trovano il canale più semplice e veloce tramite cui diffondersi a macchia d’olio.

Tale è la portata del fenomeno in questione che molti studiosi hanno ormai da tempo sentito la necessità di comprendere le dinamiche con cui si generano e diffondono le notizie false, facendo luce sui meccanismi della rete (e in particolare delle piattaforme social) che veicolano questi processi di mantenimento e condivisione di materiale non veritiero.

Uno dei massimi esperiti italiani in materia è il professor Giuseppe Riva il quale in uno dei suoi recenti libri (Riva, 2018) descrive le principali proprietà delle fake news, ovvero le caratteristiche delle bufale online che permettono uno spargimento di disinformazione mai visto prima, aumentando quindi la probabilità che altri utenti non solo le prendano per notizie autentiche ma vengano spinti a condividerle a loro volta sui propri profili social, convinti della veridicità dei contenuti.

Caratteristiche delle Fake News

Tra le peculiarità di una fake news c’è la capacità di innescare una forte risposta emotiva nel lettore, in particolare sdegno e rabbia che possono offuscare la riflessione e motivare il soggetto (in balia della forte emotività) a partecipare attivamente alla loro diffusione attraverso la condivisione. Non a caso esse vengono create ad hoc per specifici gruppi di utenti in modo da far leva su sentimenti negativi verso tematiche per loro significative, spesso introducendo contenuti falsi a fatti realmente accaduti per rendere attendibile l’informazione (quindi non inventando di sana pianta notizie strambe che farebbero fatica a sembrare credibili, ma introducendo contenuti francamente distorti).

Le fake news inoltre vengono rese virali attraverso l’uso di programmi informatici (i bot) che hanno il compito di condividerle in automatico al fine di attribuire loro più popolarità e farle quindi apparire nelle bacheche di un numero cospicuo di persone. Altra caratteristiche distintiva è quella di essere create in un formato multimediale, in particolare immagini visive e testi sovrapposti, che permettono una visualizzazione rapida senza la necessità di prestare molta attenzione; a renderle ulteriormente credibili è la formattazione del testo o il plagio di indirizzi di siti di notizie, ovvero vengono scritte con una grafia simile a quella utilizzata da giornali online accreditati, sostituendo dettagli impercettibili per il lettore disattento.

Fake News: Emozione e Attenzione

Da questa breve sintesi si delineano due concetti cari alle neuroscienze: emozione e attenzione.

Per quanto riguarda il primo concetto, l’emozione, oltre ad essere una reazione fisiologica a un evento (che può essere interno come ad esempio un pensiero o un ricordo, o esterno ovvero ciò che accade al soggetto, un fatto verso cui ha una reazione emotiva), ha un’importante funzione adattiva e rappresenta una fonte essenziale di informazione su di sé e sugli altri, sui significati che attribuiamo agli eventi (ripeto: interni o esterni) e sulle motivazioni sottostanti i nostri comportamenti. Il sistema limbico, deputato all’elaborazione dell’informazione emotiva, e le aree corticali superiori ad esso collegate permettono un’attribuzione di significato all’emozione esperita, la quale guida il soggetto verso comportamenti orientati a uno scopo. Ecco perché l’emozione diventa bersaglio e allo stesso tempo mezzo attraverso cui diffondere fake news: “colpire” l’emotività del soggetto-utente, evocando rabbia e disprezzo verso un fatto o individui/gruppi, aumenta la probabilità di motivarlo alla condivisione della notizia causa di sdegno, creando le condizioni ideali per il propagarsi nella rete dell’informazione distorta che acquisterà popolarità e quindi più visualizzazioni (e ri-condivisioni da parte di altri utenti, in un processo inarrestabile).

Il secondo concetto, l’attenzione, rappresenta la vittima prediletta dalle fake news. Innanzitutto, come spiega Riva, negli ultimi anni si è assistito a un calo disastroso dell’attenzione per i contenuti digitali, passando da una media di 12 secondi a quella di 8, per cui i creatori di bufale trovano condizioni eccellenti per il loro lavoro: gli utenti passano in rassegna una quantità enorme di informazioni (post, foto, video, notizie), scorrendo velocemente pagine e pagine senza prestare la dovuta attenzione ai contenuti, guidati più dall’impatto visivo ed emotivo che dalla sostanza del materiale online. Insomma, tanta emotività, tanti automatismi e poca attenzione e quindi scarsissima riflessione. Come osserva Matteo Grandi (2017) “La velocità sottrae tempo alla riflessione”, riflessione intesa come prodotto di processi di elaborazione lenti che consentono un’analisi più accurata e meno istintiva: si può raggiungere così una conoscenza approfondita e di conseguenza una capacità di scelta nettamente più consapevole. L’attenzione infatti è una funzione imprescindibile per la coordinazione di tutta una serie di attività del nostro cervello, in particolare le funzioni esecutive (con sede nei lobi frontali) tra cui processo decisionale, controllo dell’impulsività, memoria di lavoro, più in generale strategie di problem solving. L’importanza dell’attenzione è dunque facilmente intuibile ed è per questo che chi crea fake news, con l’intento di disinformare e confondere gli utenti, approfitta del calo attentivo riscontrabile oggi nella popolazione generale per promuovere la menzogna.

In conclusione, sebbene il fenomeno delle fake news sia di difficilissima gestione, per la velocità e l’incontrollabilità con cui le bufale prosperano per mezzo dei canale digitali, un primo passo per difenderci dalla disinformazione è quello di recuperare la nostra attenzione affievolita, allenandola e rafforzandola attraverso un sano esercizio di riflessione, consapevolezza e pensiero critico.

Una buona relazione! Un “antidoto” alla demotivazione scolastica

Da una recente ricerca condotta dal GDL Nazionale di Psicologia Scolastica (2018) emerge tra le maggiori difficoltà con cui gli insegnanti si confrontano, la gestione degli alunni che presentano bisogni educativi speciali o disturbi dell’apprendimento (13,6%).

Francesca Rendine

 

Una difficoltà scolastica, un bisogno educativo speciale non accolto o un disturbo dell’apprendimento non rilevato, comporta per il bambino lo sperimentare continui “fallimenti scolastici” che inducono un’esperienza generale di demotivazione. Un processo di apprendimento per esser definito “buono” non può dunque guardare esclusivamente al voto finale, poiché legato, oltre che a fattori cognitivi, anche a fattori emotivi e motivazionali, dipendenti tanto dal risultato della prestazione quanto dalla relazione che si instaura fra l’insegnante e gli alunni.

Cosa succede dunque a questi processi e alle variabili coinvolte, quando un alunno sperimenta difficoltà o incapacità di raggiungere un obiettivo didattico?

Apprendimento e motivazione

Sebbene l’elemento “visibile” resti il calo della prestazione e dunque un voto insufficiente, sperimentare un fallimento in maniera prolungata e ripetuta nel tempo, può portare a maturare un’idea negativa di sé in ambito scolastico.

L’esistenza di più modalità di apprendimento ed il coinvolgimento di fattori emotivo – motivazionali, ci spiegano quanto possano esser diversificate le strategie che possiamo utilizzare per apprendere. La ricerca che ha portato alla concettualizzazione del modello di Borkowsky e colleghi (1990) ci spiega l’esistenza di un legame fra strategie di apprendimento, stati personali motivazionali e conoscenza di sé. La combinazione di uno stato personale motivazionale ed il grado di conoscenza di sé generano un modo specifico di effettuare una prestazione, ovvero un percorso unico di selezione, uso e monitoraggio di una strategia. La motivazione che accompagna questo percorso fa riferimento ad una duplice dimensione: intrinseca ed estrinseca.

La prima dimensione è spiegata dal legame fra il feedback ottenuto dalla performance (sia esso positivo o negativo) ed il conseguente modellamento degli stati di motivazione, che determinano una variazione del livello di competenza nel saper riconoscere e scegliere una strategia adeguata al compito.

La seconda dimensione, ovvero quella estrinseca, colloca nei processi di apprendimento, come “antidoto” alla demotivazione scolastica, una buona relazione insegnante-alunno.

Si potrebbe dire che una relazione è buona quando si desidera arricchirsi di essa, e si è motivati a realizzarne e viverne sempre di più, e quando, attraverso di essa, si riescono a costruire livelli di sviluppo più alti e desiderabili, in noi e negli altri. (Le Guide Erickson)

La relazione insegnante-alunno con DSA

Com’è possibile costruire una buona relazione fra l’insegnate e l’alunno che presenta delle difficoltà nell’apprendimento?

  • Attribuendo un valore positivo all’alunno e riconoscendone il suo valore a prescindere dal suo livello di apprendimento. E’ implicito in questo aspetto un riconoscimento della persona ancor prima del ruolo di alunno;
  • Offrendo ascolto attivo e dunque prestando profonda attenzione al suo funzionamento specifico, in particolar modo in presenza di bisogni educativi speciali. Questa possibilità permette all’insegnante di non “colpevolizzare” le difficoltà relative all’apprendimento, ma di poterle osservarle in termini di bisogni specifici;
  • Ponendosi in maniera proattiva, ovvero come guida che ha un piano di azione, con obiettivi specifici, pensato per e con l’alunno e che dunque porta in sé delle aspettative positive di realizzazione.

L’attribuzione di valore alla persona, la possibilità di ricevere un ascolto attivo e la proattività generano una buona relazione, in cui reciprocamente, l’alunno e l’insegnante si sentono percepiti rispettivamente nei loro bisogni e nelle loro capacità di coglierli. Poter curare gli aspetti relazionali in ambito scolastico, ci permette di costruire un fattore protettivo, per gli studenti con ogni tipo di difficoltà legata all’apprendimento ed al contempo per l’insegnante, che potrà riconoscere nella diversità dei modi di apprendere dei suoi studenti un’occasione sempre nuova di “sperimentarsi” e “sperimentare”. E’ in questa “occasione” che l’apprendimento si fa strada a dispetto della demotivazione scolastica.

Nell’azione proattiva si cerca di migliorare l’autostima dell’alunno e anche quella dell’insegnante. Se l’azione sta andando bene, l’autostima aumenta, e con essa l’autoefficacia, la motivazione intrinseca, la curiosità e gli interessi, la ricerca di nuovi obiettivi sempre più avanzati (Le Guide Erickson)

La terapia Cognitivo-Comportamentale focalizzata sulla ruminazione per la depressione (2018) di E. Watkins – Recensione del libro

Secondo Edward Watkins, agire sulla ruminazione permetterebbe di curare la depressione a vari livelli e da diversi punti di vista: questo processo sembra, infatti, ricoprire più di un ruolo nella manifestazione depressiva.

 

La ruminazione è definibile come un pensiero negativo, ripetitivo e ricorrente, riguardante la propria sofferenza, su sintomi, emozioni, eventi e aspetti del sé, con particolare attenzione alle cause, ai significati e alle implicazioni. Il pensiero ruminativo è l’obiettivo attorno al quale Watkins ha strutturato la sua Rumination-Focused Cognitive-Behavioral Therapy (RFCBT), illustrata in modo chiaro e pratico nel suo manuale Terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulla ruminazione per la depressione (Watkins, 2018).

Il testo offre, in modo ben comprensibile e dettagliato, indicazioni teoriche e applicative e si presenta quindi come un’utile guida per il terapeuta.

Il ruolo della ruminazione nella depressione

Come spiega l’autore, la World Health Organization considera la depressione la seconda causa di malattia nel mondo e la principale causa di disabilità. La vasta diffusione del fenomeno e la forte incidenza sul funzionamento quotidiano, hanno posto l’attenzione sulla discussione dei trattamenti esistenti, contesto in cui si inserisce il lavoro di Watkins, che lo ha portato a concettualizzare un modello terapeutico basato primariamente sulla gestione della ruminazione.

Secondo l’autore, agire sul meccanismo ruminativo permetterebbe di curare la depressione a vari livelli e da diversi punti di vista: esso sembra, infatti, ricoprire più di un ruolo nella manifestazione depressiva. La ruminazione, innanzitutto, è stata riconosciuta già da tempo come un elemento chiave della fenomenologia depressiva, che si esplicita principalmente in riflessioni sul “perché” del proprio stato. In aggiunta a ciò, la ruminazione risulta anche coinvolta nella genesi e nel mantenimento della depressione, ad esempio contribuendo all’esacerbazione del tono dell’umore negativo e all’amplificazione del pensiero negativo. Essendo inoltre una categoria transdiagnostica, intervenire sulla ruminazione permetterebbe di far fronte anche al problema delle patologie in comorbilità alla depressione.

Da queste premesse nasce l’ipotesi che l’intervento sulla ruminazione possa essere centrale nel trattamento dei disturbi depressivi.

Struttura e contenuti del libro

La suddivisione in tre sezioni fornisce un’agevole illustrazione delle componenti della terapia e rende il manuale facile da consultare.

Nella prima parte viene illustrato il razionale teorico del trattamento. Il processo ruminativo è presentato come un’abitudine acquisita nel corso della vita. Tale concezione ha diverse implicazioni a livello terapeutico, tra cui il fatto, di grande impatto per il paziente, che possa essere disinnescata e sostituita da un’altra abitudine più funzionale. Va precisato che l’autore differenzia tra due stili diversi di ruminazione: uno stile utile, con una modalità di pensiero concreta, specifica e focalizzata sui problemi, e uno stile disfunzionale, caratterizzato da un pensiero astratto e valutativo. Uno degli obiettivi auspicabili della terapia sarebbe proprio il passare da un pensiero povero e inadoperabile a un ragionamento pratico e funzionale.

La seconda parte è dedicata alle fasi della terapia e alle tecniche previste. Un punto cruciale del trattamento è l’utilizzo dell’analisi funzionale della ruminazione, ovvero la comprensione dei suoi antecedenti e conseguenze. Watkins spiega infatti come, in quanto comportamento abitudinario, il pensiero ruminativo possa essere interrotto sia modificando le contingenze ambientali che lo stimolano, sia sostituendolo con una reazione comportamentale più funzionale. Proprio per questo motivo, altro aspetto fondamentale della terapia sono gli esperimenti comportamentali, in e fuori seduta.

Al fine di massimizzare la comprensione, sono frequentemente riportati spezzoni di dialoghi reali tra paziente e terapeuta, ottimi esempi concreti di come i procedimenti descritti possano essere applicati. Attraverso i brani si conoscono persone reali e se ne seguono i reali percorsi psicologici, raggiungendo insieme a loro le diverse tappe della terapia.

È apprezzabile lo sforzo che l’autore fa per favorire al meglio la familiarizzazione del terapeuta con il modello, intento perseguito con la proposta di esempi concreti di come poter spiegare al paziente le diverse pratiche terapeutiche. Ciò risulta particolarmente utile nella presentazione di alcuni training specifici che hanno lo scopo di contrastare la ruminazione: il training alla concretezza, quello alla concentrazione e quello alla compassione. L’illustrazione chiara e dettagliata, permette di assimilare facilmente i concetti alla base di tali processi e di comprenderne la metodologia di insegnamento. L’autore ne mette ben in risalto i punti principali, ad esempio sottolineando l’importanza delle tecniche di imagery per la sperimentazione in vivo e reale di uno stato alternativo a quello ruminativo.

La terza parte, infine, riporta un caso completo di trattamento, una preziosa unione di tutti i concetti esposti, visti in ottica dinamica e processuale, quale natura intrinseca del percorso terapeutico.

Watkins non si è risparmiato nemmeno dal fornire materiale da utilizzare in seduta, inserendo in appendice schede e dispense. Il manuale, che ricordiamo essere rivolto al professionista, si configura, in conclusione, come un’interessante proposta terapeutica e come un ottimo supporto all’effettiva messa in atto del modello.

L’insorgenza di psicosi nei pazienti con ADHD a seguito dell’assunzione di anfetamine e metilfenidato

Il trattamento indicato per la cura del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) è l’uso di farmaci psicostimolanti, la cui prescrizione è notevolmente aumentata negli ultimi anni, insieme tuttavia anche ai casi di psicosi e sintomi psicotici.

 

L’ ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) rientra nella categoria dei disturbi del neurosviluppo, gruppo di condizioni che esordiscono nel periodo dello sviluppo e si caratterizzano per un deficit che causa una compromissione nel funzionamento personale, sociale, scolastico o lavorativo.

L’ ADHD è caratterizzato da livelli invalidanti di disattenzione, disorganizzazione e/o iperattività-impulsività. Nella fascia della fanciullezza l’ ADHD causa una compromissione del funzionamento in ambito sociale, scolastico e lavorativo, tali difficoltà permangono in età adulta. La presenza di ADHD è stimata in circa il 5% dei bambini ed il 2,5% degli adulti.

Oggi, il trattamento indicato per la cura del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività è la somministrazione di farmaci psicostimolanti, che agiscono stimolando il sistema nervoso centrale; tra questi farmaci rientrano le anfetamine (l’Adderal o il Vyvanse,) e il metilfenidato (il Ritalin o il Concerta); negli ultimi anni si è registrato un forte aumento in merito alle prescrizioni di tali farmaci e in alcuni casi la comparsa di sintomi psicotici. Proprio per questo, nel 2007, la Food and Drug Administration ha imposto modifiche alle etichette dei farmaci psicostimolanti. Non è ancora stato studiato approfonditamente se il rischio di psicosi negli adolescenti e nei giovani adulti con ADHD differisca a seconda del tipo di psicostimolanti assunti. Inoltre, non vi sono molte ricerche che mettono a confronto i profili di sicurezza legati all’assunzione di anfetamine e di metilfenidato, nonostante il loro uso crescente.

Per questo motivo, un recente studio condotto da alcuni ricercatori del McLean Hospital e della Harvard Medical School, e pubblicato sul New England Journal of Medicine, ha cercato di comprendere meglio il profilo di sicurezza dei farmaci psicostimolanti prescritti per il trattamento dell’ADHD per consentire ai medici di valutare meglio rischi e benefici della loro prescrizione.

Lo studio

Per quanto riguarda il campione dello studio, i ricercatori hanno utilizzato due database riguardanti le richieste di risarcimento assicurativo. I ricercatori hanno deciso di servirsi di questo database per far sì che i dati fossero più attinenti possibili alla realtà. I partecipanti allo studio avevano un’età compresa tra i 13 e i 25 anni, avevano ricevuto una diagnosi di ADHD e avevano iniziato ad assumere psicostimolanti (metilfenidato o anfetamine) tra il 1° gennaio 2004 e il 30 settembre 2015.

In totale sono stati valutati 337.919 soggetti, sia adolescenti che giovani adulti, ma sono poi stati inclusi nello studio solo 221.846 pazienti in quanto rispettavano i criteri di selezione di cui sopra. Dei soggetti che hanno preso parte alla ricerca, metà di loro aveva assunto metilfenidato mentre l’altra metà anfetamine. Durante i follow up sono stati registrati 343 episodi di psicosi (2.4 per 1000 persone l’anno), di cui 106 episodi nei soggetti che assumevano metilfenidato (0.10%), mentre 237 episodi in quelli che assumevano anfetamine (0.21%).

Riassumendo circa 1 su 660 pazienti diagnosticati ADHD e trattati con farmaci (metilfenidato o anfetamine) può andare incontro a sintomi psicotici. Inoltre, dai risultati si evince che l’uso di anfetamine è associato ad un rischio maggiore di psicosi rispetto al metilfenidato. Ai soggetti, a cui veniva diagnosticata la psicosi, è stato prescritto un farmaco antipsicotico durante i primi 60 giorni dopo la data di insorgenza della psicosi.

Perché proprio quel prodotto e non un altro?

Per meglio comprendere il perché le persone sono spinte a un acquisto piuttosto che a un altro, è importante spiegare le modalità con cui l’uomo compie una decisione, azione insita nel processo di acquisto dei consumatori.

 

Si sceglie impulsivamente “di pancia” o razionalmente “di testa”?

Shopping: come prendiamo decisioni?

In generale, una decisione può essere definita come una risposta a una situazione nella quale sono presenti comportamenti alternativi che, conducendo a esiti diversi, determinano conseguenze differenti.

Molti studiosi si sono interrogati sulle modalità con cui l’uomo prende una decisione e dunque sceglie tra possibili corsi di azione. Inizialmente, i ricercatori hanno proposto un modello teorico secondo cui l’essere umano è razionale: in base a tale ipotesi il processo decisionale si conclude nell’opzione che reca un maggior guadagno al decisore, in base al valore attribuito da quest’ultimo alle conseguenze degli esiti dei corsi di azione valutati (utilità attesa) (Von Neumann, J., & Morgenstern, O., 2007). Tuttavia, dati empirici hanno messo in discussione tale assunto di base, evidenziando come gran parte delle scelte non vengono compiute mediante criteri razionali. Herbert Simon, economista, psicologo e informatico statunitense – focalizzando l’attenzione oltre che sugli esiti anche sulle procedure con cui le persone prendono le decisioni – ha introdotto il concetto di razionalità limitata che evidenzia i limiti della mente umana, i quali non rendono il processo decisionale razionale: le persone non dispongono di informazioni complete o di un sistema di preferenze stabile (Simon, H. A., 1978).

Studi successivi hanno messo in luce come alla base dei processi decisionali e valutatavi vi siano bias cognitivi, frutto dalle limitate risorse cognitive possedute dalle persone e dalle emozioni vissute da quest’ultime (Shefrin, H., & Statman, M., 2003; Zajonc, R.B., 1998; Tversky, A., & Kahneman, D., 1992).

Shopping: in quale modo le emozioni influenzano le nostre scelte?

Antonio Damasio – neurologo, neuroscienziato, psicologo e saggista portoghese – ha formulato l’esistenza dei marcatori somatici, ossia sensazioni piacevoli o spiacevoli – associate a segnali corporei più o meno intensi – che permettono di anticipare le emozioni che si provano in seguito a una scelta, influenzando quest’ultima (Bechara, A., & Damasio, A. R., 2005).

Egli ritiene che le esperienze emozionali siano radicate nel corpo umano e che vengano coinvolte in maniera decisiva durante le fasi decisionali. A sostegno di tale ipotesi, evidenze scientifiche hanno messo in luce come le persone con danni celebrali nelle aree prefrontali ventromediali, pur presentando un’intelligenza e una capacità sociale a livello normale, hanno difficoltà nei processi decisionali a causa di una mancata attivazione dei segnali corporei associati alle emozioni (marcatori somatici).

Secondo tale teoria, i suddetti marcatori gestiscono i comportamenti di evitamento e di avvicinamento: quando in una determinata situazione nell’organismo si presenta un segnale corporeo positivo – associato ad esempio alla gioia – esso viene espresso con un comportamento inconscio di avvicinamento, mentre quando si verificano segnali corporei negativi, associati ad esempio alla paura o alla vergogna, questi determinano di solito l’evitamento di situazioni analoghe.

In altre parole, i segnali corporei (marcatori somatici) sono lo step precedente al processo decisionale razionale, rappresentando una sorta di “pre-decisione” e collegano reazioni emozionali con i ricordi di determinati avvenimenti, creando una sorta di memoria emozionale: se si è nuovamente esposti a uno stimolo che precedentemente ha suscitato una determinata emozione, quest’ultima viene rivissuta – in quanto associata al segnale corporeo (positivo o negativo) precedentemente attivato – e determina una scelta anziché un’altra.

Le emozioni, infatti, agiscono come una sorta di sistema di guida che orienta in una determinata direzione gli esseri umani quando sono in procinto di compiere una scelta. (Damasio. A., 1995)

Shopping: perché compriamo proprio un prodotto e non un altro

Ogni comunicazione pubblicitaria e ogni strategia di marketing stimola un’emozione positiva che determina inequivocabilmente un marcatore somatico, il quale viene attivato ogni volta che il consumatore entra in contatto con il prodotto o con la marca sponsorizzata, finendo inevitabilmente per influenzare le decisioni d’acquisto: tale processo avviene associando al prodotto in vendita una rappresentazione mentale e stimoli fisici gradevoli o valorizzando il consumatore.

Ad esempio, se ad un determinato capo di abbigliamento viene associato un profumo piacevole, in quanto caratterizzante il punto vendita, il marcatore somatico elicitato dalla gradevolezza del profumo si attiverà anche semplicemente al contatto con il capo di abbigliamento stesso favorendo l’acquisto del capo stesso.

In altre parole, tendiamo ad acquistare i prodotti che riescono ad attivare con più frequenza e intensità sensazioni corporee piacevoli.

L’importanza delle emozioni positive. Il contributo di Barbara Fredrickson

Secondo la teoria dell’ampliamento e della costruzione delle emozioni positive elaborata da Barbara Fredrickson (1998), le emozioni positive, alla pari di quelle negative, svolgono una funzione adattativa in quanto motivano l’uomo a svolgere delle attività che sono evolutivamente adattative.

 

Barbara Fredrickson (1998) fu la prima a studiare e ad enfatizzare l’importanza delle emozioni positive, individuandone quattro tipologie, che sono: gioia, contentezza, interesse e amore. Le emozioni che sono state annoverate sono universali, quindi individuabili tra le diverse culture, nonostante su questo ultimo punto ci siano scarse prove empiriche (Fredrickson, 1998).

Anche le emozioni positive, come quelle negative, possono variare in termini di intensità ed una volta vissute dal soggetto producono delle variazioni nel pensiero e nel comportamento (Fredrickson, 1998). A ciascun tipo di emozione corrispondono:

  • delle circostanze in cui può nascere
  • specifici cambiamenti nel comportamento e nel pensiero
  • le conseguenze o gli esiti associati a questi cambiamenti

Le funzioni delle emozioni positive

Secondo la teoria dell’ampliamento e della costruzione delle emozioni positive, elaborata da Barbara Fredrickson (1998), le emozioni positive, alla pari di quelle negative, svolgono una funzione adattativa in quanto motivano l’uomo a svolgere delle attività che sono evolutivamente adattative (Keyes & Lopez, 2002). Esse, infatti, possono ampliare e migliorare le abilità sociali, cognitive e comportamentali (Ruini, 2017). Le abilità che l’individuo acquisisce sono durature rispetto agli stati emotivi transitori che hanno portato alla loro acquisizione; per cui il risultato di provare un’ emozione positiva, corrisponde ad un incremento delle risorse personali durature che possono essere utilizzate in seguito in altri contesti e in altri stati emotivi (Fredrickson, 1998).

Un’altra importante funzione delle emozioni positive è quella di ampliare il repertorio momentaneo di azione-pensiero della persona mentre sta vivendo l’ emozione e, a sua volta, costruiscono le risorse personali durature dell’individuo; per cui, la gioia e l’interesse innescano nell’immediato l’urgenza di giocare ed esplorare; la contentezza innesca l’urgenza di assaporare ed amare (Ruini, 2017). Invece, per quanto riguarda le abilità che vengono apprese e che sono più stabili nel tempo, le emozioni positive hanno effetti benefici sulla memoria, sulla creatività, sulle abilità di problem solving, sull’apprendimento (se quest’ultimo è associato da motivazioni intrinseche e ricompense estrinseche piacevoli) e sulle relazioni sociali, quelle tra caregiver e figlio proprio perchè all’inizio gli scambi reciproci di sorrisi motivano il caregiver ad accudire il bambino e soprattutto quelle relative i rapporti di amicizia, in quanto una persona che ha vissuto emozioni piacevoli nelle interazioni sociali è maggiormente predisposta a fornire aiuto (Fredrickson, 1998). L’aiuto che viene fornito alla persona che ne aveva bisogno produce gratitudine e quindi permette di far instaurare delle relazioni di amicizia che potranno servire da supporto in caso di bisogno (Fredrickson, 1998). Chi vive emozioni positive è motivato a mettere in atto o a mantenere determinate azioni o comportamenti, a differenza di chi non le vive in quanto è privo di motivazione per interagire con l’ambiente (Keyes & Lopez, 2002).

Secondo Barbara Fredrickson, un’altra importante funzione delle emozioni positive è quella di “antidoto” in risposta alle emozioni negative (Keyes & Lopez, 2002), infatti possono correggere o annullare gli effetti negativi delle emozioni negative (Fredrickson, 1998). La presenza di emozioni negative produce una riduzione dell’attenzione, in quanto l’attenzione viene rivolta allo stimolo che provoca ansia o paura, invece la presenza di emozioni positive produce un aumento dell’attenzione in generale (Fredrickson, 1998).

La quarta funzione delle emozioni positive è quella di migliorare la salute fisica e mentale e di motivare gli individui lavorare per il loro benessere (Fredrickson, 1998).

Infine, un’altra importante funzione delle emozioni positive è quella di migliorare la resilienza, ovvero la capacità degli individui di rispondere flessibilmente ai cambiamenti dell’ambiente e all’abilità di allontanare gli stati emotivi negativi (Fredrickson, 1998).

In generale, secondo Barbara Fredrickson, per comprendere la funzione adattativa delle emozioni è stato proposto un modello di ipotesi chiamato approccio-ritiro, il quale ritiene che le emozioni sono associate al comportamento dell’individuo nel suo ambiente (Demaree et al.,2005). Secondo questa ipotesi, emozioni quali: felicità, rabbia e sorpresa, sono considerate delle emozioni di approccio, in quanto indicano un’attivazione dell’individuo verso gli stimoli ambientali; invece, la tristezza, la paura e il disgusto sono associati a comportamenti di ritiro, in quanto tendono ad allontanare l’individuo dall’ambiente (Demaree et al.,2005).

Seligman e la ricerca di felicità

Le ricerche in ambito psicologico si sono concentrate sull’alterazione del processamento delle emozioni negative (Ryff & Singer, 1996), tuttavia Barbara Fredrickson (1998) è stata una delle prime che ha studiato ed analizzato la letteratura in quest’ambito.

Un concetto che potrebbe essere legato alle emozioni positive sono le esperienze di piacere, le quali a livello neurobiologico sono associate al rilascio di dopamina ed anche ad un miglioramento del benessere edonico (Ruini, 2017). A tal proposito, nella teoria della psicologia positiva, Seligman (2002) ritiene che la ricerca della felicità può essere di tre forme: la vita piacevole (per il piacere edonistico), la vita impegnata (per il piacere di partecipare a attività mirate e coinvolgenti) e il significato di vita (riguarda il senso di scopo e il significato). Secondo Seligman (2002) “la vita piacevole” è quello che si avvicina di più allo stato maniacale.

Eccesso di emozioni positive nella psicopatologia

Un altro argomento che ha suscitato interesse da parte degli studiosi è stato il rapporto tra il processamento alterato delle emozioni positive e i disturbi mentali (Ruini, 2017). Sono state individuate delle differenze nella regolazione delle emozioni positive nei soggetti con disturbo depressivo maggiore e con disturbo bipolare (Ruini, 2017).

Nei soggetti con disturbo depressivo maggiore si osserva un’incapacità di mantenere o di sovraregolare le emozioni positive (Ruini, 2017), invece nei soggetti con disturbo bipolare, si assiste ad un fenomeno inverso, infatti, tendono a sovraregolarle in modo eccessivo, quindi ad amplificarle, producendo dei problemi clinicamente significativi (Ruini, 2017). Nei soggetti con disturbo bipolare, l’incapacità di gestire le emozioni produce una conseguente incapacità di diminuirne l’intensità delle stesse (Gruber, 2011b).

Facendo riferimento a quest’ultimo aspetto, secondo Gruber (2011b), i problemi relativi alla persistenza delle emozioni positive sono dovuti alla presenza di una caratteristica che è simile ad un tratto presente anche nei pazienti maniaci in remissione; questa caratteristica viene definita Persistenza Emotiva Positiva (PEP). L’eccessiva presenza di emozioni positive, come nel caso della mania, produce un aumento eccessivo ed alterato dell’attenzione focalizzata, quindi un aumento della distraibilità (Fredrickson, 1998). Il disturbo bipolare è associato a maggiori risposte emotive positive, attivate a loro volta in risposta a degli eventi che avvengono nei contesti in cui l’individuo si trova ad interagire, questa condizione implica delle conseguenze che potrebbero essere negative (Ruini, 2017). Le emozioni legate alla persistenza emotiva positiva riguardano quelle inerenti alla ricompensa e il rendimento (Gruber, 2011b). Una caratteristica intrinseca alla persistenza emotiva è l’inflessibilità psicologica, ovvero, l’incapacità di esprimere le proprie emozioni (sia positive che negative) in contesti appropriati; quest’incapacità implica l’espressione delle stesse o l’esacerbazione (nel caso delle emozioni positive) in contesti neutri o inappropriati (Gruber, 2011b).

Quindi, se da un lato le emozioni positive forniscono dei benefici a livello del benessere e della salute (Ruini, 2017) e sono anche importanti per la sopravvivenza dell’individuo (Fredrickson, 1998), dall’altro, l’incompetenza nella loro gestione porterebbe a degli effetti indesiderati, tra cui il peggioramento del disturbo (Gruber, 2011a).

Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondo (2018) di David Le Breton – Recensione del libro

La quotidianità nell’epoca contemporanea è fortemente “rumorosa”: assuefatti al chiacchiericcio costante della TV e della radio in diretta 24h, accerchiati dai sottofondi indistinti della filodiffusione negli ascensori, nelle sale d’attesa, nei ristoranti, spersi nel fracasso dei motori, delle sirene, dei clacson..

 

Basta chiudere gli occhi in un centro città per rendersi conto di essere prigionieri del fragore della modernità. Il nostro tempo sembra ammalato di una “fobia del silenzio”, si è costantemente in fuga da quello, lo si evita ad ogni costo. Eppure la dimensione del silenzio ci appartiene inesorabilmente, si configura come il principio e la fine di ogni parola, ciò che connette e ad un tempo separa, come le pause per le note.

Sul silenzio…che veicola messaggi nelle relazioni

David Le Breton, nel suo libro Sul silenzio, ci invita ad addentrarci nella polisemia dell’esperienza del silenzio, esaminandone con sguardo antropologico i significati culturali che lo connotano. Con la propensione a trattare l’argomento in modo enciclopedico, David Le Breton adopera uno stile che oscilla tra il didascalico ed il poetico, ci accompagna tra i temi del suono e del rumore, della parola e del gesto, del sacro e del profano. È impossibile giungere ad una definizione univoca del silenzio, il suo significato cambia a seconda del legame sociale nel quale siamo coinvolti; può generare disagio e imbarazzo oppure complicità ed intimità, riflettendo sempre la qualità della relazione in corso tra gli interlocutori. Il silenzio non è da intendere come mera “privazione del suono”, è ben lontano dal configurarsi come assenza. Esso piuttosto, come la pagina bianca, è denso di ogni suono o parola pronunciabile in potenza. La parola è amica del silenzio e quest’ultimo è la condizione stessa che rende possibile il linguaggio: è “respiro tra le parole”. Il suono ha origine dal silenzio ed in esso va a morire, trovando senso proprio in quella sospensione. Neanche l’immobilità è in grado di azzerare il suono, persino il nostro corpo fermo sussulta ai battiti del cuore, si muove con il respiro.

È invece la comunicazione fatica fine a se stessa, che mira solo a mantenere un contatto superficiale con l’altro, ad essere indifferente al significato delle parole, lontana quindi dal silenzio e più simile ad un rumorio sterile e vuoto.

[…] L’ideologia della comunicazione assimila il silenzio al vuoto, alla rovina, non riconoscendo che, talvolta, proprio la parola è la lacuna del silenzio (p. 16).

La capacità di gestire con maestria il saper parlare si accompagna al saper tacere, abilità necessarie per l’amministrazione del potere. Ogni dittatura riduce al silenzio la parola in grado di ostacolarne il predominio. C’è anche un silenzio che indica il limite del linguaggio, quando si incontra l’ineffabilità del sacro. La connessione tra il silenzio, il tempo della notte e quello della morte permea anche la nostra cultura, il nostro immaginario, sino a celebrare la memoria con il “minuto di silenzio” per sospendere gli accadimenti del mondo e generare un’esperienza collettiva, ma al contempo personale, di contatto con il defunto.

Sul silenzio.. in psicoterapia

La riflessione su questa singolare natura del suono e della parola, che hanno per compagno il silenzio, diventa particolarmente interessante se calata nella stanza di analisi. Ogni terapeuta conosce l’importanza ed anche, talvolta, la difficoltà del rimanere in silenzio con il paziente, rompendo con la convenzione sociale che spinge a mantenere il contatto in modo esclusivo con la parola. Il silenzio del terapeuta agevola l’attenzione del paziente a rivolgersi esclusivamente su di sé, a contattare il proprio mondo. Per questo il terapeuta è muto rispetto alla propria storia, ad eccezione degli autosvelamenti orientati però sempre secondo il criterio dell’utile per il paziente. Il segreto professionale esprime già la presenza del silenzio, vincolando immediatamente l’alleanza tra terapeuta e paziente in una vicinanza asimmetrica tra i due. Sa bene, il terapeuta, quanto la gestione delle pause sia necessaria a conferire valore e peso ai propri interventi.

Quanto più una parola desidera toccare l’altro, raggiungerlo in profondità, al punto di modificare il suo pensiero o il suo rapporto con il mondo, affinché la sua libertà ne risulti accresciuta, tanto più quella parola deve essere carica di silenzio. Una simile parola respinge la chiacchiera e, più ancora, l’insignificanza (p. 201).

La pausa indica il tempo in cui avviene l’elaborazione del messaggio, l’interiorizzazione forse di un discorso che dallo spazio esterno del ‘noi’ si sposta in quello privato del ‘me’. Il rapporto che il terapeuta intrattiene con il silenzio è centrale per orientare la sua qualità di presenza che si manifesta nella relazione terapeutica modulando gli aspetti taciti del dialogo. Come quando David Le Breton, riferendosi alle tradizioni legate al culto del sacro, parla del “maestro di senso” così il terapeuta deve poter essere strumento per l’altro, consentendogli di scovare in autonomia la propria verità personale, sorretto e contenuto da una presenza silente in grado di orientare senza dirigere.

Il maestro di senso è compagno di viaggio nella conduzione di una ricerca personale, mentre il maestro di verità insegna un cammino unico di cui il discepolo intende appropriarsi. […] Assumendo una posizione di ritiro attivo, il maestro di senso lascia al proprio allievo un margine di manovra, aprendogli così la via alla curiosità nei confronti del mondo (p. 203 – 204).

Il “ritiro attivo” ricorda il “silenzio attivo” a cui ricorre Le Breton per descrivere il tacere dell’analista, dando forma ad un silenzio gravido di tensione che sostiene la vigilanza del paziente. Si pone attenzione ad una dimensione del sentire che va oltre l’ascolto, che lo contempla soltanto come una parte e che pone in primo piano la comunicazione meno controllabile (come il silenzio) del corpo, quella che si esprime attraverso la mimica, la postura, la gestualità, la gestione dello spazio.

Sul silenzio nel dolore e nella patologia

Disporsi al silenzio significa mutare la velocità dello scorrere del tempo, rallentare il processo, favorire una messa a fuoco in grado di sostare sulle immagini addentrandosi in esse. Anche il malessere può esprimersi attraverso la forma del silenzio, basti pensare al mutismo selettivo o al bambino psicotico mutacico che nel silenzio delinea il ritiro simbolico dal legame sociale. Oppure il silenzio, nella forma del segreto familiare taciuto, può costituire l’origine del disturbo, quando il non-detto continua a perturbare chi sa e non può parlare, con ripercussioni su chi è all’oscuro e cerca, attraverso un sintomo, di colmare un vuoto di senso, una lacuna nella storia che non consente di procedere oltre.

Interagire con il silenzio, esplorare il rapporto privato che si ha con quello, notare la nostra tendenza alla fuga o alla ricerca di quel suono senza parole, diventa centrale per includere nello spazio della consapevolezza una dimensione dell’esperienza intima, privata, fucina della propria identità. David Le Breton è riuscito nell’intento di parlare del silenzio, un proposito che rasenta l’ossimoro, sostando abilmente nei contrasti e nell’ambiguità del tacere.

Il silenzio non è mai una realtà in sé, ma è una relazione, donandosi all’interno di un rapporto con il mondo (p. 240)

Lentamente si scorgono segni che annunciano una riscoperta del valore del silenzio, una rivalsa della lentezza, del gusto pieno dell’esperienza sensoriale, in aperto contrasto con l’imperativo della connessione a tutti i costi, della velocità, del multitasking (la grande illusione del nostro tempo). Le Breton invita a coltivare un silenzio che conferisce senso alle cose, che non ha un luogo d’elezione per essere coltivato. Sembra trattarsi, piuttosto, di un habitus da indossare, di una disposizione dello spirito. Per questo è possibile stare in silenzio anche in mezzo al frastuono della mondanità, senza l’obbligo di evadere dalla contemporaneità.

Cos’è la diattenuation imaging e quali sono i vantaggi di questa nuova tecnica di neuroimaging?

La diattenuation imaging è una tecnica di imaging che consente di raggiungere una risoluzione micrometrica (0,0001 cm) nello studio della struttura cerebrale e delle fibre nervose.

 

Una conoscenza dettagliata dell’architettura delle fibre nervose è essenziale per comprendere la struttura e le funzioni del cervello. Sono passati più di 150 anni da quando Camillo Golgi è riuscito per la prima volta a visualizzare le cellule nervose. Da allora sono stati fatti molti passi avanti nello sviluppo di immagini sempre più precise ed accurate della struttura cerebrale, grazie anche alle numerose tecniche di imaging a disposizione di clinici e studiosi, in grado di offrire prospettive anche molto differenti tra loro.

L’evoluzione in termini di imaging è costante, così Menzel e colleghi (2019) negli ultimi anni si sono impegnati nello sviluppo di una nuova tecnica, chiamata diattenuation imaging: una procedura in grado di raggiungere una risoluzione micrometrica (0,0001cm).

Diattenuation imaging

Il diattenuation imaging è un metodo che prevede l’illuminazione di sezioni istologiche di materia cerebrale con una luce polarizzata tridimensionale. In base a come la luce tocca le fibre nervose viene riflessa a diverse angolazioni, che permettono di identificare l’orientamento delle fibre. Contemporaneamente, viene misurata la “diattenuazione”, identificando la direzione della polarizzazione per la quale passa il massimo della luce attraverso il campione. Questo è possibile poiché la guaina mielinica è birifrangente, ovvero presenta indici di rifrazione che dipendono dalla propagazione e dalla polarizzazione della luce.

Nello sviluppo di questa tecnica, sono emerse due diverse tipologie di diattenuazione. Quando la luce è polarizzata in parallelo agli assoni in alcune regioni cerebrali l’intensità della luce è massimale, mentre in altre è minima. Questa differenza dipende dal tempo di embedding, dall’orientamento e dalla composizione delle fibre. Ciò permette di misurare lo spessore della guaina mielinica. Gli stessi effetti possono essere ottenuti su diverse specie animali e a diversi gradi di risoluzione.

Vantaggi della diattenuation imaging

I metodi di neuroimaging attualmente utilizzati faticano a distinguere fasci formati da molte fibre sottili e da poche fibre spesse. La diattenuation imaging permette invece questa differenziazione, dimostrando dunque una potenziale applicabilità agli studi di quelle malattie neurodegenerative relative all’alterazione della guaina mielinica e, più in generale, alle ricerche sulla ricostruzione anatomofunzionale del cervello.

In conclusione, potremmo pertanto affermare che nonostante siamo ancora lontani dalla conoscenza definitiva del nostro sistema nervoso, l’avanzamento scientifico delle tecniche di neuroimaging, tra cui la diattenuation imaging, contribuisce in modo esponenziale alla comprensione della mente umana.

Accettare per andare avanti – Riorganizzare i nostri scopi e le nostre energie grazie all’accettazione

Accettazione significa saper prendere quello che la vita ci pone dinnanzi anche quando questo è doloroso e sembra scombinare tutti i piani e gli schemi che fino a quel momento hanno guidato la nostra mente.

 

Definiamo l’ accettazione come “l’assunzione di consapevolezza che un certo scopo sia definitivamente compromesso”. L’ accettazione serve a far sì che non si sperperino risorse in uno scopo irraggiungibile ed è direttamente al servizio dello pseudo scopo “dell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”.

Le tre emozioni spesso prevalentemente presenti in una condizione di frustrazione definitiva e irrevocabile di uno scopo importante sono la tristezza, l’ansia e la rabbia. Tutte e tre sono generatrici di uno stato d’animo sgradevole ma non non per questo inutili e disadattive, sostiene Lorenzini.

La tristezza favorisce il ritiro dell’investimento dallo scopo perduto per sempre e il reinvestimento su scopi sostitutivi o del tutto diversi. Permette di abbandonare le strategie impercorribili e di trovarne altre sostitutive. È un’emozione che, comportando la sospensione di molte attività e un disinteresse verso l’esterno, consente un ritiro in se stessi da cui si esce rinnovati. Nuovi interessi sostituiscono i vecchi.

L’ansia è comprensibile e persino utile perché il soggetto si trova improvvisamente ad operare in un contesto radicalmente mutato e quindi molto meno conosciuto e prevedibile del precedente. Un sovrappiù di allerta può rappresentare un utile investimento per scongiurare i pericoli di una situazione nuova e ignota.

Infine la rabbia che è rivolta verso chi si ritiene responsabile del danno subito (gli altri, il destino, Dio o se stessi). La rabbia verso i responsabili del danno costituisce un fattore protettivo verso il ripetersi della situazione dannosa. È una sorta di minaccia a non riprovarci più. Anche quella verso se stessi, la più apparentemente disfunzionale, protegge da comportamenti imprudenti o autolesivi che possono essere stati causa del danno.

L’ accettazione dunque serve a sospendere investimenti inutili e le emozioni negative associate, a ricreare un nuovo equilibrio e a prevenire il ripetersi del danno. Riepilogando l’ accettazione è un meccanismo utile per un razionale utilizzo delle risorse. Essa è costituita da un atteggiamento comportamentale consistente nella sospensione di attività inutili. Non significa però che non ci siano emozioni negative di tristezza, ansia e rabbia che sono invece utili.

L’ accettazione come processo finale del lutto

Il lutto è definibile come uno:

… stato psicologico conseguente alla perdita di un oggetto significativo, che ha fatto parte integrante dell’esistenza. La perdita può essere di un oggetto esterno, come la morte di una persona, la separazione geografica, l’abbandono di un luogo, o interno, come il chiudersi di una prospettiva, la perdita della propria immagine sociale, un fallimento personale e simili
 (Galimberti, 1999, 617).

Facendo riferimento alla teoria a cinque fasi di Kübler Ross (1990; 2002) – possiamo definire l’elaborazione del lutto come un processo che si sviluppa attraverso questi momenti:

  1. Fase della negazione o del rifiuto: costituita da una negazione psicotica dell’esame di realtà;
  2. Fase della rabbia: costituita da ritiro sociale, sensazione di solitudine e necessità di direzionare il dolore e la sofferenza esternamente (forza superiore, dottori, società…) o internamente (non essere stati presenti, non aver fatto di tutto…);
  3. Fase della contrattazione o del patteggiamento: costituita dalla rivalutazione delle proprie risorse e da un riacquisto dell’esame di realtà;
  4. Fase della depressione: costituita dalla consapevolezza che non si è gli unici ad avere quel dolore e che la morte è inevitabile;
  5. Fase dell’ accettazione del lutto: costituita dalla totale elaborazione della perdita e dall’ accettazione della differente condizione di vita.

Solitamente, infatti, al lutto seguono fasi caratterizzate da specifici aspetti cognitivi ed emotivi, che vanno da una iniziale negazione dell’evento, con profonda angoscia, tristezza e ansia associate alla mancanza di motivazione, fino alla sua progressiva accettazione, che porta al recupero di un buon funzionamento alla luce della rielaborazione, sul piano affettivo e cognitivo, della relazione con il defunto e all’acquisizione della capacità di stare nel mondo anche senza di lui. Solo dopo aver attraversato tali fasi ed il dolore associato ad esse è possibile accedere alla fase della riorganizzazione e accettazione, la sofferenza comincia ad attenuarsi, la ricerca della solitudine e l’evitamento si riducono e pian piano si ricomincia a coltivare interessi e a fare progetti per il futuro.

Il lutto patologico: quando l’accettazione è impossibile

Quando affrontiamo un lutto, normalmente siamo capaci di entrare in uno stato di accettazione entro circa 18 mesi. Tendenzialmente l’essere umano ha la capacità di accettare e superare la morte di una persona cara. Il lutto può diventare patologico quando è presente una difficoltà ad accettare la sua ineluttabilità. Per Perdighe e Mancini (2010), il lutto è un evento che compromette o minaccia scopi personali; gli scopi minacciati o compromessi possono riguardare sia la perdita in sé sia domini connessi.

I fattori legati alla struttura di personalità che possono contribuire ad allungare i tempi e limitare l’elaborazione del lutto, sono la presenza di basse capacità di coping e la tendenza a reagire negativamente a situazioni che prevedono la necessità di tollerare gli imprevisti e il distress emozionale, quale quello conseguente alla perdita. Gli individui che hanno sperimentato una perdita significativa, infatti, non possono continuare a sostenere le loro vecchie assunzioni su sé, mondo e futuro, ma allo stesso tempo faticano ad accettare le nuove, che implicano una visione di questi aspetti negativi e priva di significato. È necessario, quindi, che gli assunti vengano modificati e resi nuovamente adattivi, ristabilendo un’interpretazione degli eventi focalizzata su aspetti positivi grazie ad un drastico cambio di prospettiva.

Pertanto, avvenuta la perdita, per giungere alla fase di accettazione anche in questo caso l’obiettivo dovrà orientarsi verso il disinvestimento e l’abbandono degli scopi che sono stati compromessi e lo sviluppo di nuovi comportamenti direzionati al raggiungimento degli scopi ancora perseguibili.

Accettazione della malattia

Anche le persone affette da malattie terminali o i pazienti con patologie croniche e/o degenerative si trovano a dover fare i conti con una realtà difficile da accettare: oltre ai fattori fisici determinati dalla malattia, vi sono anche fattori psico-sociali che impattano sulla salute e sulla qualità di vita di queste persone.
 L’ accettazione della malattia implica “la resa nella futile lotta per fermare i pensieri automatici e intrusivi sulla malattia” (Hayes e Wilson, 1994) e “la sosta nella ricerca di una soluzione definitiva per i sintomi fisici”. Questo non significa arrendersi; piuttosto, significa reindirizzare le energie ai propri valori personali, che vanno oltre la semplice gestione della malattia (Risdon, Eccleston et al., 2003).

In altre parole, accettazione della malattia significa “un ri-orientamento dell’attenzione verso altri aspetti della vita” (McCracken ed Eccleston, 2003). Un’ulteriore componente dell’ accettazione della malattia è la volontà di affrontare i vissuti difficili, come paura, imbarazzo, dolore e affaticamento, quando ciò consente di prendere parte ad attività gratificanti (McCracken ed Eccleston, 2003).
 Lo svolgimento di attività piacevoli, permesso dalla capacità di accettare esperienze interiori come il dolore, l’ansia e l’imbarazzo, aiuta anche a mantenere alta la qualità di vita. Ci si aspetta che l’approccio alla malattia in cui è presente una certa accettazione dia luogo a una migliore qualità di vita rispetto all’approccio indirizzato all’evitamento di sentimenti comprensibili di perdita, turbamento o persino imbarazzo, che induce al disimpegno da qualsiasi attività.



Accettazione: altri ostacoli

In primo luogo accettare una nuova condizione è difficile per una sorta di inerzia cognitiva. Per la fatica che il sistema deve sobbarcarsi per ricostruire una mappa di sé e del mondo diversa dalla precedente. Due esempi banali. Chi ha subito un lutto grave e inaspettato si abitua progressivamente e dolorosamente all’idea. Al risveglio, dopo ogni sonno, sperimenta di nuovo il senso di sgomento e di spaesamento. Ci vogliono mesi prima che la nuova mappa della realtà in cui la persona scomparsa è assente si stabilizzi e non vada aggiornata daccapo ogni volta. Altrettanto esplicativa è la sindrome dell’arto fantasma. Il braccio amputato non c’è più ma il cervello non ne prende atto stabilmente. Ogni volta è una sgradevole sorpresa a cui riabituarsi.

Un secondo ostacolo all’ accettazione viene dal fatto che in previsione di un evento negativo gli interventi degli altri e del soggetto stesso hanno carattere rassicurativo e quindi allontanano la effettiva rappresentazione e costruzione dell’evento temuto. Si tende a dire e a dirsi: “stai tranquillo ciò che temi non accadrà, è estremamente improbabile” piuttosto che “prova ad immaginarti la nuova condizione e vedrai che non è così terribile come credi”.

In terzo luogo molti credono che gli esseri umani siano e debbano essere completamente plastici e in grado di adattarsi ad ogni situazione. Non si accettano i vincoli dovuti alla nostra stessa struttura e dunque, paradossalmente, non si accetta il fatto che certe condizioni siano inaccettabili. Bisogna invece accettare che certe condizioni siano inaccettabili.

Il delta aggiuntivo di sofferenza, che Lorenzini chiama “tribolazione”, si produce quando si ritiene da un lato che le emozioni negative, connesse all’ accettazione dell’impossibilità del raggiungimento di uno scopo, sarebbe possibile e opportuno che non ci fossero, e, dall’altro, che si dovrebbe essere in grado di adattarsi ad ogni situazione. La tribolazione cesserebbe se si accettasse l’idea che accettare una situazione significhi non sforzarsi di modificare l’immodificabile consentendosi però di provare emozioni negative (lo storico “diritto al mugugno”). Questa tribolazione si innesca perchè nella nostra cultura è spesso esaltata l’ accettazione, il riuscire a fare buon viso a cattivo gioco. A volte, poi, viene scambiata per straordinaria accettazione qualcosa di diverso che somiglia piuttosto alla dissociazione. Alcuni hanno una grande capacità di incassare senza turbarsi. Nei momenti peggiori si assentano e ritornano quando tutto è finito. L’assenza dissociativa è una sorta di stato mistico. Il corpo non sente più niente e la mente dorme. Sa che prima o poi la nottata dovrà finire e resiste senza nulla sentire.

L’ accettazione secondo l’ACT

Secondo il modello Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ciò che promuove il cambiamento e il benessere psicologico è un insieme di competenze di accettazione e impegno (commitment). Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica, e quindi a stare meglio. Di fatto l’Acceptance and Commitment Therapy non utilizza come strumento principale gli interventi diretti su contenuti di pensiero, come ad esempio il disputing. Tale terapia, invece, cerca di favorire l’ accettazione dei pensieri e delle emozioni per quella che è la loro natura (cioè “solo” pensieri e emozioni) e di stimolare la messa in atto di azioni che contribuiscano a vivere una vita appagante e soddisfacente.

Il fine ultimo dell’Acceptance and Commitment Therapy è promuovere la flessibilità psicologica dell’individuo. Secondo il modello, la flessibilità psicologica si può raggiungere (o almeno promuovere) attraverso interventi su ciò che vengono considerati i sei pilastri del modello ACT. I sei processi chiave, sottendono due macro-aree che, in sostanza, rappresentano la A e la C dell’ACT. Al posto della A possiamo leggere “processi di mindfulness e accettazione, che includono accettazione, defusione, contatto con il momento presente e sé come contesto. Al posto della C possiamo, invece, leggere “processi di modificazione comportamentale e azione impegnata secondo i valori”, che includono i valori, l’impegno nell’azione, il sé come contesto e il contatto con il momento presente.

L’ACT prende in considerazione i seguenti concetti:

  • La sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona. Ne consegue che la felicità può essere vista nell’accezione di vivere una vita ricca, piena e significativa; non è dunque una sensazione fugace, bensì un senso profondo di una vita ben vissuta nella quale esperiamo l’intera gamma delle emozioni umane.
  • Non è possibile sbarazzarsi volontariamente della propria sofferenza psicologica, anche se si possono prendere provvedimenti per evitare d’incrementarla artificialmente.
  • I processi psicologici normali sono connotati dalla realtà del dolore e della sofferenza, che si configura pertanto come stato dell’essere. Combattere contro pensieri ed emozioni negative significa ingaggiarsi in una battaglia persa in partenza, dato che il controllo che abbiamo in situazioni simili è in realtà infinitamente meno di quanto la nostra cultura voglia farci credere.
  • Non bisogna identificarsi con la propria sofferenza. La vita comprende anche il dolore e non c’è modo di evitarlo. In quanto esseri umani dobbiamo tutti prendere atto che presto o tardi diventeremo deboli, ci ammaleremo e moriremo. Presto o tardi tutti perderemo relazioni importanti a causa di rifiuti, separazioni, lutti. Presto o tardi tutti dovremo affrontare crisi, delusioni e insuccessi. Questo significa che, in un modo o nell’altro, tutti avremo pensieri e sentimenti dolorosi. Non possiamo evitare questo dolore ma possiamo imparare ad affrontarlo molto meglio, a fargli spazio, a ridurre i suoi effetti e a crearci una vita che valga ugualmente la pena di essere vissuta.
  • Si può vivere un’esistenza basata su propri valori. Spesso i pazienti poiché incastrati nelle maglie della psicopatologia li perdono di vista, senza saper più riconoscere cosa sia davvero significativo per la propria vita e senza riuscire più a scegliere e ad agire come ritengono sia meglio per se stessi.

L’ accettazione si basa sulla nozione che, spesso, tentando di sbarazzarsi del proprio dolore si arriva solamente ad amplificarlo, intrappolandosi ancora di più in esso e trasformando l’esperienza in qualcosa di traumatico. Accettare non significa essere rassegnati, passivi né tollerare o sopportare, bensì abbandonare tutti i tentativi di soluzione inutile e accogliere ciò che la vita comporta se riconosciamo che stiamo andando nella direzione di ciò che vogliamo dalla nostra esistenza.

L’evitamento esperienziale è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Quale alternativa, quindi, all’ evitamento esperienziale? Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienziale nell’ ACT viene chiamato “Accettazione”. Essendo un termine che talvolta viene confuso e malintepretato, in psicoterapia si possono usare altri termini simili come “lasciare spazio” o “aprirsi all’esperienza”. Verso cosa dovremmo, quindi, lasciare spazio? Alle emozioni dolorose, ai pensieri dannosi che ogni giorno la nostra mente ci propone, agli impulsi e ai ricordi dolorosi.
 Smettendo di muoverci con tutte le nostre forze sulle sabbie mobili dell’evitamento esperienziale (metafora frequente nell’Acceptance and Commitment Therapy) potremmo provare una strategia alternativa e aprirci alle esperienze della nostra vita, guardandole per quello che sono.

In questo modo, potremmo imparare: a) a non giudicare le nostre esperienze interne (ed esterne) con uno sguardo malevolo dell’inquisitore di noi stessi e b) accogliere gli stati emotivi e dar loro l’importanza “informativa” che meritano e c) indebolire il potere dei pensieri sul nostro comportamento e sulla nostra esperienza quotidiana.

RO DBT: Radically Open Dialectical Behaviour Therapy

Il target della Radically Open Dialectical Behavior Therapy (RO DBT) non è una singola categoria diagnostica, bensì un insieme di condizioni che hanno a che fare con una forma di disregolazione emotiva talvolta trascurata: l’ ipercontrollo.

 

Alla base di ogni nuovo protocollo proposto in psicoterapia, vi è la definizione delle manifestazioni psicopatologiche che s’intende curare e del razionale dell’intervento, fondato sulla conoscenza dei processi psicologici che costituiscono i determinanti prossimi e i fattori di mantenimento dei fenomeni sui quali interviene il trattamento. Il target della Radically Open Dialectical Behavior Therapy (RO DBT; Lynch, 2018) non è una singola categoria diagnostica, bensì un insieme di condizioni che hanno a che fare con una forma di disregolazione emotiva talvolta trascurata: l’ ipercontrollo. L’approccio è dunque transdiagnostico, pensato per condizioni quali le depressioni resistenti, l’anoressia nervosa ed il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità.

Che cos’è la RO DBT

La RO DBT è un trattamento evidence-based sviluppato specificamente per i problemi di ipercontrollo. Alla base di questo approccio vi è l’idea di apertura radicale (Radical Openness) che ne rappresenta sia il principio filosofico fondante che la principale abilità il cui sviluppo viene perseguito attraverso questo trattamento. Secondo l’autore infatti il benessere psicologico deriverebbe dalla confluenza di tre fattori inerenti l’apertura radicale: la Openess (ricettività ed apertura), la Flexibility (controllo flessibile) e la Social Connectedness (connessione sociale ed intimità). Per raggiungere ciò, la RO DBT si focalizza primariamente sull’implementazione delle abilità di espressione sociale delle emozioni (Social-signaling). La RO DBT infatti si basa sulla teoria neuroregolatoria delle emozioni e sulle funzioni comunicative inerenti la loro espressione, proponendo una specifica tesi sul meccanismo mediante cui l’ ipercontrollo condurrebbe al disagio psicologico.

Perché trattare l’ ipercontrollo

L’autocontrollo, e cioè la capacità di inibire impulsi, desideri e comportamenti, e di posticipare la gratificazione per perseguire obiettivi a lungo termine, viene considerato una caratteristica positiva, ed è spesso associato al successo e alla felicità. Ma un eccessivo autocontrollo può essere in realtà problematico tanto quanto lo è un controllo scarso, conducendo a svariate difficoltà interpersonali e psicologiche, come peggior funzionamento sociale, isolamento, scarsa espressività emotiva, perfezionismo e rigidità.

L’ ipercontrollo è un costrutto complesso, che evolve attraverso le interazioni tra temperamento e ambiente. Secondo l’autore, i bambini maggiormente a rischio per l’isolamento sociale e per lo sviluppo di stili di coping basati sull’ ipercontrollo, sarebbero quelli caratterizzati da alta sensibilità alla minaccia, bassa sensibilità alla ricompensa, focus sui dettagli nel processamento delle informazioni, alte capacità di auto-regolazione, inibizione comportamentale, timidezza, tendenza all’evitamento del rischio, coartazione emotiva e un certo grado di tendenza al distacco sociale. Nell’incontro con l’ambiente, tali caratteristiche non sono sempre considerate problematiche, anzi, possono andare incontro ad un rinforzo poiché considerate socialmente apprezzabili. Ma tali “qualità” tendono a divenire ben presto il punto debole delle persone che le possiedono: un eccessivo controllo finisce per esaurire se stesso, all’interno di un circolo vizioso in cui tutte le risorse sono impiegate per ‘controllare’ l’autocontrollo, rendendo sempre più difficile utilizzare strategie di coping alternative, come ad esempio chiedere aiuto agli altri, e, nel contempo, la tendenza ad inibire l’espressione emotiva può precludere la possibilità che gli altri offrano il loro aiuto spontaneamente. La soppressione inappropriata dell’espressione emotiva o l’espressione emotiva incongruente (cioè la mancata corrispondenza tra l’esperienza esteriore e quella interiore) renderebbe inoltre più probabile per gli altri percepire la persona come inaffidabile o inautentica, con conseguente riduzione della connessione sociale: dunque determinate caratteristiche biotemperamentali combinate con la tendenza eccessiva a mascherare i propri stati interni, porterebbero ad ostracismo sociale e solitudine, esacerbando ulteriormente il malessere.

In questo modo, si andrebbero a costituire quattro principali deficit connessi all’ ipercontrollo:

  • Scarsa ricettività ed apertura (evitamento di rischi e incertezze, sospettosità, ipervigilanza verso la minaccia, scarsa apertura nei confronti di feedback inaspettati o disconfermanti);
  • Scarso controllo flessibile (bisogno compulsivo di ordine e strutturazione, perfezionismo, ossequiosità e senso del dovere, bisogno di prove, pianificazione, comportamento governato da regole e rigide convinzioni morali);
  • Espressione emotiva inibita e bassa consapevolezza emozionale (manifestazione delle emozioni inappropriatamente inibita o incongruente, minimizzazione del distress e scarsa consapevolezza delle sensazioni corporee);
  • Scarsa connessione sociale ed intimità con gli altri (relazioni distaccate, sensazione di essere diversi dagli altri, frequente confronto sociale e invidia, ridotta empatia);

La struttura del trattamento

Il protocollo della RO DBT prevede lo svolgimento sia di sessioni individuali della durata di un’ora ciascuna, a cadenza settimanale, che di trenta incontri dedicati allo skills training della durata di due ore e mezzo ciascuno, anch’essi da svolgersi settimanalmente.

Il punto di partenza è un accurato assessment; il protocollo diagnostico volto ad inquadrare l’ ipercontrollo viene proposto dall’autore come una combinazione tra modelli dimensionali e categoriali, organizzato secondo tre steps sequenziali:

  1. Insieme alla raccolta di informazioni generali (come dati demografici e anamnestici) vengono somministrati tre strumenti self-report:
    – Nell’ASC-WP (Assessing Styles of Coping: Word-Pair Checklist) il soggetto è invitato a scegliere una sola parola all’interno di una coppia di termini caratterizzanti stili di coping opposti;
    – Il PNS (Personal Need for Structure) Measure è un breve questionario volto a determinare il desiderio di strutturazione e la risposta del soggetto all’assenza di essa;
    – L’AAQ-II (Acceptance and Action Questionnaire-II), infine, viene somministrato per misurare la flessibilità psicologica.
  2. In seguito viene svolta un’intervista diagnostica che può essere semi-strutturata (in questo caso vengono fornite nel protocollo delle domande da utilizzare come guida) o strutturata (ad esempio utilizzando la SCID-5-PD). Questo step dell’assessment è considerato facoltativo, ma viene consigliato poiché è parte integrante dell’inquadramento globale del soggetto. Viene anche fornito un elenco di disturbi, sia di stato che di tratto, inerenti le problematiche di ipercontrollo per agevolare l’intervistatore.
  3. L’ultimo step prevede la compilazione, da parte del clinico, di due brevi strumenti: l’OC-TS (The Clinicians-Rated OC Trait Rating Scale) e l’OC-PRS (The Overcontrolled Global Prototype Rating Scale). Nel primo viene richiesto un giudizio quantitativo (su scala Likert) rispetto alla presenza di otto tratti considerati caratterizzanti l’ ipercontrollo, mentre nel secondo viene chiesto di esprimere un giudizio di somiglianza rispetto ad alcune descrizioni prototipiche inerenti i quattro deficit di base dell’ ipercontrollo (ricettività ed apertura, risposta flessibile, espressione emotiva e consapevolezza, connessione sociale e intimità).

Al termine dell’assessment, nel caso in cui il soggetto incontri i criteri dell’ ipercontrollo maladattivo, il trattamento può iniziare.

Il percorso individuale si focalizza gerarchicamente su tre macro target: come prima cosa vengono individuati e trattati i comportamenti che mettono a rischio la vita del paziente, poi le rotture dell’alleanza terapeutica ed infine i segnali sociali attraverso cui si manifesta l’ ipercontrollo maladattivo, che rappresentano il focus dell’intervento (espressione emotiva inibita o falsata, comportamento iperfocalizzato sui dettagli ed eccessivamente cauto, comportamento rigido e governato da regole, stile relazionale distaccato, elevata comparazione sociale, invidia e rancore). Le prime sedute (circa quattro) rappresentano lo stadio di orientamento e di impegno, e si focalizzano sul riconoscimento dell’ ipercontrollo come problema e sulla psicoeducazione in merito ad esso, sulla spiegazione dei meccanismi chiave del cambiamento e sull’impegno da parte del paziente a discutere con il terapeuta qualunque eventuale desiderio di abbandonare il percorso. A partire dalla quinta seduta e fino al termine del trattamento, la struttura di ciascuna sessione prevede al suo interno specifiche fasi volte al lavoro sui target del trattamento ed alla revisione dei compiti e del lavoro svolto nel corso dello skills training.

Per quanto riguarda quest’ultimo, esso segue una gerarchia di scopi al cui vertice troviamo l’insegnamento delle “Radical Openness Skills” (e cioè l’espressione sociale, l’apertura, la risposta flessibile, e la connessione sociale), e secondariamente si collocano i segnali sociali maladattivi che possono emergere durante il training, alcuni dei quali dovranno essere affrontati direttamente nel corso dell’incontro, altri nei colloqui privati ed altri ancora invece saranno ignorati. Lo skills training, a cui generalmente il paziente inizia a prendere parte dalla terza settimana di terapia individuale, si compone di trenta incontri nei quali vengono insegnate ai pazienti venti nuove skills. Ogni incontro è strutturato in cinque parti (apertura, breve esercizio di mindfulness, revisione degli homework, pausa, insegnamento delle nuove skills, assegnazione dei nuovi homework) e prevede specifiche dispense, fogli di lavoro e schede per gli homework.

Differenze e somiglianze tra DBT e RO DBT

La decisione di mantenere l’acronimo DBT (Dialectical Behavior Therapy) all’interno del nome di un nuovo protocollo, risiede nelle somiglianze di quest’ultimo con il lavoro di Marsha Linehan (1993). I principi dialettici sono infatti utilizzati nella RO DBT per aiutare i clienti con ipercontrollo a sviluppare modalità più flessibili sia a livello cognitivo che comportamentale; ne è un esempio il self-inquiry, una skill che richiede un miglior bilanciamento tra fiducia e diffidenza verso se stessi, per far sì che la persona sia in grado di accogliere critiche e feedback anziché reagire con un immediato diniego, ma al contempo senza perdere di vista i propri valori. Anche i principi comportamentali sono parte integrante dell’approccio RO DBT, ad esempio essi rappresentano la base nella spiegazione del processo attraverso cui certe modalità sovra-controllate di espressione sociale vengono rinforzate e mantenute nel tempo.

Per sintetizzare, è possibile identificare alcune differenze sostanziali tra DBT e RO DBT. La DBT ha come popolazione target persone con problematiche inerenti lo scarso controllo, e cioè soggetti le cui emozioni appaiono dirompenti e spesso difficili da gestire, come i pazienti con disturbo borderline di personalità, abuso di sostanze o con disturbo bipolare; al contrario la RO DBT è stata sviluppata per pazienti caratterizzati da ipercontrollo, e cioè persone in cui le emozioni sono spesso rivolte verso l’interno, coartate o mascherate. Nella RO DBT il focus primario dell’intervento non sono gli aspetti intrapersonali (come ad esempio le skills inerenti la tolleranza e la regolazione delle emozioni) ma piuttosto lo sono quelli interpersonali (come le skills inerenti la connessione sociale). La RO DBT, infine, persegue lo sviluppo della Radical Openness e cioè della capacità di cimentarsi attivamente nell’esperienza per sfidare le proprie percezioni, accrescere l’umiltà e la volontà di apprendere, mentre nella DBT si persegue la Radical Acceptance, e cioè la sospensione della battaglia contro la realtà, per trasformare la sofferenza intollerabile in un dolore che può essere accettato.

Che cosa dice la ricerca

La RO DBT è supportata da ricerche, sia longitudinali che correlazionali, svolte nell’ambito di diverse problematiche, come l’anoressia nervosa, le condizioni depressive croniche e i disturbi di personalità appartenenti sia al cluster A che al cluster C (Chen et al., 2015; Keogh, Booth, Baird, Gibson & Davenport, 2016; Lynch et al., 2013; Lynch, Morse, Mendelson, & Robins, 2003; Lynch et al., 2015). Ad oggi in particolare, tre trials randomizzati controllati hanno indagato fattibilità, accettabilità ed efficacia della RO DBT e delle sue versioni precedenti, portando allo sviluppo del protocollo attuale. I primi due RCT sono studi pilota (Lynch, Morse, Mendelson & Robins, 2003; Lynch & Cheavens, 2007) nei quali è stata utilizzata una versione della DBT (Linehan, 1993) adattata per l’ ipercontrollo; il terzo, e più recente, RCT è invece un ampio studio multicentrico volto ad indagare la generalizzabilità dell’intervento a campioni diversi e più estesi rispetto ai precedenti (Lynch et al., 2018).

Formarsi nella RO DBT

Conoscere la RO DBT e saperla utilizzare con i propri pazienti richiede un’adeguata formazione; attualmente sono previsti tre livelli di preparazione:

  • Il Training Introduttivo, della durata di un giorno, è un workshop che ha lo scopo di far conoscere gli aspetti teorici e pratici che stanno alla base della RO DBT;
  • Il Training Intensivo dura invece dieci giorni, suddivisi in due blocchi da cinque ciascuno, durante i quali il protocollo viene approfondito ed insegnato nel dettaglio, creando le condizioni idonee per svolgere il trattamento con i propri pazienti;
  • Le Supervisioni, infine, rappresentano il completamento della formazione in RO DBT e sono consigliate sebbene non obbligatorie.

Mammamia! Il metodo italiano per crescere bambini felici ed essere genitori sereni (2018) di P. Maraone e A. Di Pietro – Recensione del libro

Un libro di due mamme per tutte le mamme. Mammamia! È un libro di storie per parlare alle mamme di tutto il mondo. Le autrici lo definiscono “un metodo giocoso di 88 storie” in cui, pagina dopo pagina, si condividono esperienze, strategie educative, riflessioni, spaccati di vita quotidiana di due normali, e simpaticissime, famiglie italiane.

 

Le narratrici sono due donne e mamme, Paola e Alessandra, una di Milano e l’altra di Roma. Cinque figli (tra i 4 e i 15 anni) e tre mariti, due dei quali ex, con i quali sono in buoni rapporti. Donne diverse e simili allo stesso tempo, che condividono tra loro il senso dell’umorismo, un’ottima capacità riflessiva e il desiderio di raccontare la propria sfera familiare in modo intimo e divertente.

Leggendo i racconti, si ha la sensazione di entrare all’interno di un salotto di casa, come se le autrici ti tenessero per mano e ti portassero a conoscere la loro realtà, a spulciare tra i cassetti dell’armadio, a rovistare nella libreria del salotto. Una sensazione, insomma, di intimità e di genuina condivisione.

Mammamia!: cosa significa essere una mamma polpetta

Il libro è suddiviso in 88 storie, preceduto da un capitolo che rimanda alle istruzioni per l’uso: il consiglio è di leggere le storie tutto d’un fiato, una dopo l’altra, oppure cercando i temi nell’indice. Insomma fate come vi pare, affidatevi al vostro istinto e lasciatevi trasportare dalle loro parole.

Il metodo italiano che offrono Paola e Alessandra in Mammamia! è un metodo educativo che parte dalle loro esperienze di mamme e donne e diventa fonte di insegnamento. Il succo di questo metodo si chiama ACE, un acronimo che racchiude in sé le parole chiave che ispirano questo testo: autonomia, condivisione, empatia. A condire il tutto un po’ di improvvisazione e il gioco è fatto. È questa la chiave per crescere ed educare figli felici. Come fare?

Dopo aver catalogato madri di tutti i tipi, come la mamma tigre (autoritaria e rigida), la mamma elicottero (quella iperprotettiva) e la madre coccodrillo (troppo devota da diventare rivendicativa) emerge l’urgenza delle autrici di introdurne una nuova: la mamma polpetta, che rappresenta proprio come si sentono loro.

La mamma polpetta nasce dal presupposto di abbandonare ogni preconcetto basato sul come devo essere per accogliere a braccia aperte una nuova idea di maternità, autentica e sincera. La mamma polpetta condensa in sé creatività, buon senso ed improvvisazione. Ma, proprio come le polpette, ognuna è diversa dall’altra: le madri polpette sono mamme che cercano di fare il meglio per la propria famiglia, attingendo alle risorse che ogni nucleo familiare ha e che deve imparare a sentire, a riconoscere. È per questo motivo che ogni madre è diversa dall’altra, proprio come le polpette. Per essere dei genitori felici occorre abbandonare rigidi schemi educativi imposti dall’alto e ascoltare il proprio istinto. La mamma polpetta si districa nel pianeta genitoriale con curiosità e passione e cerca di trovare il giusto equilibrio tra una severa imposizione di regole e trasgressione delle stesse, con ironia e tenacia. E con assoluta bontà.

Nel libro Mammamia! si parla di un po’ di tutto: di maternità e paternità, di nanne e di pannolini, di smartphone, di bambole, di rapporti tra fratelli (e di litigi), di amicizia e di amore, di scuola, di bullismo. Ogni storia racconta un’esperienza personale, fatta di errori, urla, tentativi ed anche successi per regalare preziosi insegnamenti. Ma il presupposto è proprio questo: per raggiungere i successi sono necessari i fallimenti e la capacità di imparare qualcosa a partire dai propri errori.

Dovendo scegliere, meglio essere rilassate che troppo puntigliose

così le autrici spiegano al meglio il succo del metodo italiano, nel quale l’amore, l’accettazione e la simpatia trionfano sulla rigidità di un’educazione ormai superata, sull’imposizione di regole prescritte e sui falsi moralismi. Meglio essere imperfette ma felici.

Un aspetto che mi ha molto colpito del libro Mammamia! è il modo in cui la paternità viene raccontata nel corso delle pagine. Questi padri, non più mariti, sono delle figure centrali nelle vite di queste famiglie e il loro ruolo è raccontato con grande sensibilità e delicatezza. Attraversando stereotipi e luoghi comuni, secondo cui spetta al padre tranquillizzare le ansie immotivate delle mamme (ma è proprio così?), si racconta di uomini che sono invece molto sensibili all’emotività dei loro figli, che si preoccupano ma che sanno trovare sempre una soluzione in modo fermo e costruttivo. Sono padri autoritari e affettuosi al tempo stesso, in grado di condividere e di dividersi le responsabilità dell’educazione dei figli. Il quadro che viene fuori è quello di una squadra che sa fare bene insieme, che è capace di chiedere aiuto quando necessario, che sa capire e sa agire ascoltando se stesso ma anche, e soprattutto, gli altri. Si parla della necessità di coltivare una genitorialità positiva in cui ogni situazione di stress (e ce ne sono tante!) può diventare un’opportunità per dare il buon esempio.

Mammamia!: genitorialità è il giusto mix di accettazione e cambiamento

Un libro che fa luce sull’importanza di sapere equilibrare accettazione e cambiamento rispetto alle richieste che ogni genitore ha. E così diventa chiaro, pagina dopo pagina, che occorre saper amare i figli (anche quando lanciano lo slime sulla parete, sì) per quello che sono, con la consapevolezza che alcuni comportamenti si possono aggiustare, migliorare, ma loro no, vanno bene esattamente come sono. Come fare? Ad esempio utilizzando la strategia dell’estinzione dei comportamenti disfunzionali per cui se togliamo l’attenzione a certi fastidiosi comportamenti questi, non rafforzati, cesseranno in modo naturale. Con il Pupo (e con i suoi ritmici pigolii a 120 decibel in un sereno venerdì sera) ha decisamente funzionato. Provare per credere.

Mammamia! è un manuale indispensabile che vi farà sorridere ed emozionare, attraverso un linguaggio spontaneo e divertente. Un libro spiritoso, intelligente e concreto che racconta spaccati di vita familiare con assoluta sincerità e con la voglia di alleggerire tutte le mamme (e i papà) dalle fatiche della genitorialità, attraverso consigli personali e opinioni degli esperti, intervistati nel corso della loro ventennale esperienza di giornaliste. Ma non si parla solo di mamme e papà, perché per essere genitori felici occorre essere persone felici.

Non potevo prendermi cura della sua vita se non mi fossi prima presa cura della mia

è questa la regola aurea della loro esistenza in cui si condensano tutti i valori in cui credono. È per questo che i momenti di libertà quotidiana diventano spiragli di ossigeno in grado di ricaricare dell’energia e della positività, necessaria per superare le sfide, bellissime, dell’essere genitori. E non si tratta di egoismo, ma di sopravvivenza. Perché prendersi cura di se stessi, in fondo, è il primo passo per amare gli altri.

I giovani adulti con disturbi infiammatori potrebbero essere più sensibili ai disturbi d’ansia e depressivi

Non sempre è chiaro se ansia e depressione siano una conseguenza allo stress psicologico dato dal vivere con disturbi infiammatori cronici oppure una reazione derivante da un’alterazione funzionale e/o strutturale del cervello. Alcuni ricercatori hanno cercato di rispondere a questo dubbio arrivando ad alcuni risultati molto interessanti.

 

Sentiamo parlare spesso della correlazione fra disturbi infiammatori cronici e disturbi mentali, ma le evidenze in merito a questa associazione sono ancora inconsistenti. Il dubbio che accomuna i ricercatori è se disturbi mentali, quali in particolare disturbi dansia o depressione, possano essere una conseguenza allo stress psicologico dato dal vivere con un’infiammazione cronica, piuttosto che una reazione derivante da un’alterazione funzionale e/o strutturale del cervello.

In letteratura vi sono vari esempi di come una disregolazione della risposta infiammatoria si traduca in un cambiamento a livello neuroendocrino, legato a disturbi psichiatrici. Alexandru Dregan e colleghi (2019) hanno contribuito a rispondere a questa annosa questione analizzando come ansia e depressione si manifestino, nell’ambito di sette diversi disturbi infiammatori (artrite reumatoide, psoriasi, spondilite anchilosante, colite ulcerosa, morbo di Crohn, vasculite sistematica e lupus eritematoso sistemico), in un ampio campione di persone 538,707 fra pazienti e controlli.

Risultati dello studio e prospettive future

I risultati mostrano un aumento generale del rischio di soffrire di ansia e depressione del 16% nei pazienti che soffrono di disturbi infiammatori cronici rispetto ai controlli ma, quando l’onset del disturbo infiammatorio è collocabile prima dei 40 anni, il tasso di comorbilità sale al 71%. Vi sarebbe quindi una stretta relazione fra l’età in cui si è contratta l’infezione e l’incidenza di ansia e depressione.

Questi risultati, benché non dimostrino definitivamente una relazione causale fra queste due classi di disturbi, suggeriscono sicuramente la necessità di porre un’attenzione particolare a queste categorie diagnostiche. L’incidenza maggiore è stata osservata nei casi più gravi di psoriasi, seguiti dal morbo di Crohn e poi dalla spondilite anchilosante.

Questa ricerca potrebbe dunque porre le basi per l’inserimento di nuovi approcci preventivi e terapeutici mirati a quei pazienti che, in particolare, abbiano avuto una storia di malattie infettive con insorgenza precoce, ponendo l’accento ancora una volta sull’importanza di una presa in carico multidisciplinare del paziente.

Somatic Experiencing: il contributo di Peter Levine

Quando parliamo di trauma, dobbiamo immaginare un forte evento che irrompe nella vita dell’individuo facendogli sperimentare un senso di impotenza e minaccia devastanti

 

Premessa: il trauma di cui si parla in questo articolo, andrebbe inteso in senso più naturale, e “animale”, possibile. Quando parliamo di trauma, dobbiamo immaginare un forte evento che irrompe nella vita dell’individuo facendogli sperimentare un senso di impotenza e minaccia devastanti, che permangono anche quando questo sia finito, divenendo quello che appunto venne chiamato (in seguito all’osservazione dei reduci del Vietnam negli Stati Uniti), PTSD, ovvero disturbo da stress post traumatico. Il PTSD è stato osservato, e viene osservato, negli animali: sia in animali più evoluzionisticamente vicini a noi (come gli scimpanzè), sia in animali con una struttura cerebrale più semplice, che tuttavia risponde ai medesimi meccanismi, naturali, dell’essere umano.

Lo studio di questi fenomeni si pone in modo esterno alla psicologia dinamica, agli studi promossi dalla psicoterapia sistemica, e in generale rappresenta un filone specifico del macro-ambito chiamato psicotraumatologia.

Somatic Experiencing: il corpo dissipa il trauma

Il corpo dissipa il trauma: questa felice espressione mutuata dal lavoro di uno dei riferimenti mondiali di approccio somatico al trauma, Peter Levine, esprime il senso di lasciare andare via il vissuto traumatico per via corporea. E’ noto il lavoro di Pat Ogden relativo allo sviluppo e alla realizzazione delle “tendenze all’azione” bloccate nel corso e in seguito al trauma. Levine si pone sulla stessa linea, arrivando da un lungo studio del trauma in senso neurobiologico ed etologico, attraverso l’osservazione degli animali. Gli animali, quando non provenienti da storie di sviluppo traumatico, rispondono al singolo trauma in modo estremamente efficace, “scrollandolo” via dal corpo e ripristinando per via corporea lo stato -neurofisiologico- antecedente il trauma stesso. L’uomo non sempre è in grado di fare questo: nonostante la sostanziale sovrapponibilità interspecifica delle parti più antiche del cervello osservabile negli animali vertebrati, il sistema nervoso umano è dotato di alcuni potenti strumenti di memorizzazione e problematizzazione della realtà esperita, che paradossalmente conducono a una memorizzazione eccessiva e distorta del trauma stesso.

Levine in questo senso parla di un eccesso di “energia” fisica che, non potendo svilupparsi in senso biologico a causa dello stato di profonda impotenza sperimentato durante il trauma, rimane nel corpo e lo perturba (stress post-traumatico): questo aspetto della teoria di Levine è assimilabile all’idea, come si citava, di “tendenza all’azione” usata da Pat Odgen, tendenza all’azione che, come si diceva, dovrebbe essere idealmente “scaricata”, dissipata attraverso il corpo (primo veicolo e naturale sede dei movimenti di fuga/attacco elicitati dalla minaccia). Lo sport, in questo caso, può essere pensato come veicolo di scarico di tendenze all’azione maturate durante il trauma. Sempre Levine descrive come uno degli effetti somatici del PTSD siano tremori, eccessiva sudorazione, mani fredde: dal suo punto di vista segni medici di questo tipo ci racconterebbero di una risposta autonoma del Sistema Nervoso Centrale bloccato in una anormale, protratta modalità di “difesa”, in previsione di un ipotetico, futuro nuovo momento traumatico.

Da un lato potremmo pensare questi comportamenti autonomi (tremori, agitazione) come figli di un’operazione implicita di apprendimento della paura, espressa per via somatica (il corpo rimarrebbe in questo caso congelato in uno schema rigido); Levine, tuttavia, e con lui altri studiosi dell’ambito, interpreta questi segni e sintomi come “spie” corporee di qualcosa che necessita di essere evacuato o appunto dissipato (per esempio una forte rabbia che non è riuscita a esprimersi, una fuga impossibile rimasta intrappolata nel corpo).

Somatic Experiencing: le conseguenze del trauma per gli animali come per noi

Se osserviamo (come nel video sotto riportato, di cui consiglio la visione integrale) per esempio un animale bloccato in una condizione di freezing, e lo osserviamo fuoriuscirne, vedremo che l’animale scarica attraverso il tremore lo stato di freezing stesso: alcuni animali -come gli orsi- tremano tendenzialmente di più (sono sconquassati da forti tremori che poi si placano), altri meno. Il tremore rappresenta una risposta naturale funzionale a dissipare il terrore e l’ansia: alcune scuole di psicoterapia (afferenti, anche se non direttamente, alla scuola di pensiero della psicoterapia sensomotoria) addirittura ne prescrivono l’autoinduzione in modo volontario come strumento per scaricare il corpo.

Quello che sembra essere necessario, in effetti, in natura, è che il processo di scarico della paura a seguito di un forte shock o trauma, avvenga in modo completo, fino in fondo.

Sappiamo che il comportamento animale ricapitola, semplificato, o meglio rispecchia, il nostro stesso comportamento e che a volte dall’osservazione degli animali possiamo imparare ciò che difficilmente riusciamo a vedere in noi. Il lavoro fatto da Peter Levine, vero luminare nell’ambito, ci insegna che il corpo, a seguito di una forte attivazione, deve scaricarsi: lo sport, in questo senso, fornirebbe un contenitore ideale e modulato/modulabile, di esprimere con successo queste tendenze bloccate.

Il lavoro di Peter Levine è interamente focalizzato sul riportare alla coscienza dell’uomo occidentale, il ricordo dei bisogni che, in quanto “scimmie iper-evolute”, ci portiamo dentro dal nostro passato primordiale. Levine ci ricorda la nostra natura primariamente animale: il suo è dunque un tentativo di portare un’integrazione tra gli aspetti più cognitivi, oggi apparentemente dominanti, e gli aspetti più primitivo-istintuali e naturali del nostro essere umani. Come giustamente ci ricorda l’autore, acuto osservatore del comportamento umano, ciò che non viene risolto in termini istintuali (che sia paura, aggressività, rabbia, ma anche attaccamento), rimane nel corpo pervertendosi in forma patologica, divenendo ossessione, post-trauma, somatizzazione, implosione depressiva: in una parola, ciò che classicamente si sarebbe definitivo “nevrosi”.

 

 PETER LEVINE, SOMATIC EXPERIENCING – GUARDA IL VIDEO:

 

Quando si dice “stare in un bell’ambiente”: la nuova promessa delle Neuroscienze

Le neuroscienze ambientali aspirano a costruire più recenti e comprensivi modelli teorici in grado di descrivere le relazioni tra fattori ambientali e aspetti psicologici cognitivi (memoria, attenzione, funzioni esecutive), con dati provenienti da neuroimaging, dall’epigenetica, dalle neuroscienze molecolari-cellulari e dai sistemi genetici.

 

Gli ambienti fisici e i contesti sociali nei quali siamo immersi hanno un profondo impatto sul nostro cervello e di conseguenza sul nostro comportamento.

Il recente commento, pubblicato su Nature Human Behaviour, di Berman, Kardan, Nusbaum e colleghi del dipartimento di Psicologia dell’Università di Chicago e del Grossman Institute for Neuroscience, Quantitative Biology and Human Behavior di Chicago, offre una particolareggiata panoramica dei promettenti e moderni tentativi offerti dalle neuroscienze ambientali nella combinazione di neurobiologia, psicologia, comportamento e ambiente.

Ambiente e cervello: una relazione bidirezionale

Una quantità sempre maggiore di conoscenze ed evidenze si stanno accumulando e integrando tra loro nell’ampio territorio riguardante la relazione bidirezionale tra ambiente e cervello: come il primo interagisce con il secondo, come quest’interazione è in grado di influenzare il nostro comportamento e come i contesti sociali e fisici possono pertanto essere manipolati al fine di modificare gli stati psicofisiologici?

A tal proposito, alcuni esempi possono essere ritrovati nel lavoro di Kempermann (2019) che sottolinea l’importanza delle ricerche attualmente presenti all’interno del panorama internazionale sui benefici a livello di neurogenesi e plasticità cerebrale negli animali e negli esseri umani, che hanno avuto modo di crescere ed essere stimolati dai cosiddetti “ambienti arricchiti” rispetto ad altri allevati in ambienti standard. O ancora, nello studio di Berman, Jonides e Kaplan (2008) sull’associazione tra l’esperienza di un ambiente fisico naturale, all’aria aperta, anziché urbano, e un miglioramento nelle funzioni cognitive quali memoria e attenzione in un gruppo di studenti.

Da qui l’idea che alcuni specifici fattori ambientali come la qualità dell’aria che si respira, l’inquinamento luminoso, acustico e atmosferico, siano in grado di provocare a diversi livelli dei cambiamenti da un punto di vista quantitativo e qualitativo (Berman, Kardan, Nusbaum et al., 2019).

Le neuroscienze ambientali

La specificazione di quali siano gli effetti e i diversi livelli sui quali agisce l’interazione tra ambiente e comportamento è data dalla nuova e promettente branca delle neuroscienze ambientali che nasce dal tentativo di combinare insieme evidenze prodotte dalla psicologia ambientale, sociale e cognitiva, la neurobiologia e le neuroscienze comportamentali con il fine di comprendere, influenzare e predire il comportamento umano.

Partendo dal modello proposto da Lewin intorno agli anni 30’ del 900’ per il quale il comportamento altro non è che funzione della genetica, della neurobiologia, della psicologia e dell’ambiente (Lewin, 1936), le neuroscienze ambientali aspirerebbero a costruire più recenti e comprensivi modelli teorici in grado di descrivere le relazioni e connettere tra loro fattori ambientali sia interni che esterni con aspetti psicologici cognitivi (memoria, attenzione, funzioni esecutive), dati provenienti da neuroimaging sia funzionale che strutturale, dall’epigenetica, dalle neuroscienze molecolari-cellulari e i sistemi genetici per delineare, testare e manipolare i diversi aspetti degli ambienti esterni, fisici e sociali agendo in questo modo sul comportamento e viceversa (Berman, Kardan, Nusbaum et al., 2019).

Gli aspetti legati all’ambiente fisico esterno presi in considerazione non si limitano soltanto alla qualità e quantità di spazi verdi, grado di sviluppo urbano, inquinamento acustico, luminoso e atmosferico nei quali ci troviamo a vivere ma si estendono anche agli elementi architettonici e percettivi che influiscono sulla psicologia umana quali colori, forme, conformazione e organizzazione degli spazi urbani.

Il primo obiettivo che le neuroscienze ambientali si propongono riguarda il mettere in prima linea la ricerca sulla psicologia ambientale con l’epigenetica e i sistemi genetici in una modalità che sia concettualmente ed empiricamente più robusta colmando così il divario attualmente presente tra i due campi e specificando in secondo luogo, in modo più deterministico-meccanicista, gli effetti dell’ambiente sul comportamento e viceversa, dato che meccanismi epigenetici sono in grado di evidenziare in che modo le esperienze ambientali, soprattutto se precoci, influenzano in modo persistente i network cerebrali, le funzioni psicologiche e il comportamento (Essex, Boyce, Hertzman et al., 2013). Può l’esperienza e la percezione prolungati in un ambiente organizzato prevalentemente e visivamente in linee curve o dritte influenzare le proprie abilità di auto-controllo e quali potrebbero essere i mediatori di questa interazione (Kotabe, Kardan et al., 2016)? Può un ambiente disorganizzato a livello percettivo produrre un affaticamento cognitivo?

Queste sono solo alcuni esempi di domande alle quale Zenon e colleghi (2019) hanno provato recentemente a rispondere tramite l’utilizzo di una metodologia innovativa di tipo bayesiano, che equipara i costi cognitivi al costo delle risorse che sono necessarie per convertire stimoli esterni in rappresentazioni mentali e utilizzare queste stesse per selezionare e implementare un’azione.

Secondo questo modello, che funge da esemplificazione di questo innovativo modo di collegare differenti livelli di analisi, questi “costi” sono sostenuti quando c’è una grande divergenza tra una credenza iniziale o precedente rispetto ad una più aggiornata o probabile a seguito di un input ambientale: in un ambiente urbano, potrebbero infatti esserci delle stimolazioni inaspettate con oggetti che si muovono rapidamente come delle autovetture o persone frenetiche che possono produrre una grande divergenza tra la credenza iniziale della persona e la nuova rappresentazione interna ma aggiornata dell’ambiente circostante e questa nuova riformulazione ovviamente ha un “costo”.

I dati che si stanno ottenendo in maniera promettente dalle neuroscienze ambientali, a parere di Berman, Kardan, Nusbaum e colleghi (2019) potrebbero essere sfruttati per comprendere come potenziare e perfezionare su larga scala il funzionamento e le capacità cognitive degli esseri umani a partire dall’ambiente e dalla sua organizzazione percettiva, architettonica e sociale partendo da teorie diverse unificate sotto un unico modello, anche se è bene riconoscere che per il momento è alquanto complicato realizzare un ambiente che sia “universalmente” buono per tutti date le differenze suscettibilità e caratteristiche degli individui.

Il Valore del Dono. Il Dono come trascendenza

L’atto del donare, del ricevere e del ricambiare, utili a mantenere questo sistema d’interdipendenza, sono intenzionali e, in quanto tali, sono orientate e, quindi, sono portatori di senso.

 

Come abbiamo appreso dalla psicoanalisi tutte le azioni sono prodotte da motivazioni intrinseche ed estrinseche che trovano la loro rispondenza all’interno dell’inconscio e che fanno dire a A. Mellucci e A. Fabbrini in “Creatività: miti, discorsi, processi” (1994)

…. L’esperienza umana in cui il soggetto è appagato solo dalla sua opera, non si misura con niente al di fuori di ciò che fa, se non con il modo stesso in cui guarda quello che ha prodotto e con il senso di appagamento e di pacificazione che gli procura.

Dono come trascendenza: il riconoscimento come atto trascendentale

Se l’azione umana, comunque, ha un senso ed è dotata d’intenzionalità, non vi è dubbio che produca qualcosa di nuovo nello scorrere degli eventi e quindi, non solo cambia questi ultimi ma diventa narrazione. Arendt (op. cit) sostiene che l’azione umana, che spezza la catena deterministica delle cause e degli effetti introducendo nel mondo sempre qualcosa di nuovo, l’identità del soggetto diviene, da identità fisica che era, un’identità narrativa, dotata di una storia singolare e irripetibile.

Per tale motivo, Caillè mette sullo stesso piano azione e dono poiché entrambi sono dotati di senso, del possibile, del nuovo rispetto all’ordine stabilito e ai significati socialmente e culturalmente consacrati. Egli nell’introduzione a “De la reconnaissance. Don, identité et estime de soi” (2004) scrive:

Il valore del soggetto è proporzionale a ciò che egli “dona” o, ciò che è la stessa cosa, alla trama delle sue azioni, se poniamo mente al fatto che esiste una molteplicità di manifestazioni dell’agire: dalla gratuità della donazione (riscontrabile nella bellezza o nell’ispirazione) alla fatica e alla pena che in termini di lavoro costa la produzione di un oggetto; dall’amore, la carità e la compassione verso altri all’innovazione e alla creatività di un’opera d’arte.

Il problema è apparire, inserirsi all’interno del sistema simbolico, farsi riconoscere dalla comunità.

Honneth, a cui Caillè si rifà, sostiene, in “Riconoscimento e disprezzo” (1993) e in “Lotta per il riconoscimento” (2002), che il riconoscimento è

un interesse quasi-trascendentale della razza umana.

E. Piromalli a tal proposito afferma che

in totale assenza di qualsivoglia pratica riconoscitiva la riproduzione delle società sarebbe impossibile, come lo sarebbe per il singolo individuo la conduzione di una vita propriamente umana, in quanto caratterizzata da una seppur elementare fiducia in sé e nel proprio ambiente relazionale. Al venir misconosciuti si associano sentimenti di reazione negativa come il risentimento, l’ira o la vergogna: essi fanno percepire al soggetto la lesione infertagli con la privazione del riconoscimento e possono fornire a esso la spinta psichica per azioni volte a recuperare quest’ultimo (2012).

Essendo il riconoscimento un atto trascendentale presuppone che vi sia una “dipendenza, propriamente umana, dal riconoscimento intersoggettivo”. E’ questo l’elemento antropologico ed anche simbolico che può dare origine al dono. Se, come sostiene Caillè, l’atto del donare è volto al riconoscimento e se, come sostiene Honneth, l’uomo ha bisogno di farsi riconoscere attraverso le relazioni interpersonali, non vi è dubbio che il riconoscimento reciproco può avvenire attraverso il rituale del donare descritto da Mauss. Ecco allora che il rituale del donare costituisce un’azione di senso compiuto inserita all’interno del paradigma sacro del farsi riconoscere e, quindi, di sviluppare relazioni interpersonali.

Per Honneth il riconoscimento avviene in tre sfere delle relazioni interpersonali:

nel rapporto di riconoscimento affettivo della famiglia l’individuo umano è riconosciuto come un essere concreto e bisognoso; nel rapporto di riconoscimento cognitivo-formale del diritto lo è invece come astratta persona giuridica; infine, nel rapporto di riconoscimento statale … esso viene riconosciuto come universale concreto, vale a dire come soggetto socializzato nella sua unicità.

Accanto al riconoscimento, quasi a fare da contraltare, vi è il non riconoscimento, che provoca reazioni negative che gli uomini vivono come un’offesa morale poiché non viene valutato il loro proprio valore.

Dono come trascendenza: riconoscimento e valore

Ricoeur (1913 – 2005), in una relazione tenuta nel corso del convegno «Che cos’è l’uomo. L’antropologia a molti volti di Paul Ricoeur», organizzato dalla Katholische Akademie di Mainz il 23-24 maggio 2003 dal titolo “Il riconoscimento, il dono: Identità, relazione e agape nel percorso di Paul Ricoeur”, facendo una nuova sul dono a partire dalla lotta per il riconoscimento si chiede

chi può dire di essere stato riconosciuto? Quando sappiamo e quando crediamo di essere stati riconosciuti? E ugualmente, noi possiamo essere riconosciuti?.

Nel rispondere a queste domande si rifà al dono introducendo il concetto di “Mutualitè” ovvero di reciprocità la quale se viene agita dagli uomini “il dono” diventa

il pegno e il sostituto di un riconoscimento reciproco che non si riconosce affatto; dunque il riconoscimento non può attestarsi che nel pegno del regalo.

Nel fare questa affermazione egli si rifà al vero enigma del dono nella concezione di Mauss ovvero l’essere costretti a ricambiare. Tale concezione è stata fortemente criticata da Levy Strauss che, in Introduction a l’oeuvre de Mauss (1957), rimprovera l’autore di essersi fatto ammaliare da una teoria indigena che attribuisce al dono un spirito magico che fa si che il ricevente debba necessariamente ricambiare. Nella stessa opera egli sostiene che

la società altro non sia che una combinazione di forme di scambio, che poggiano sulle strutture inconsce dello spirito, strutture che possono essere comprese solo partendo dal primato del simbolico sull’immaginario e sul reale.

Ricoeur, rifacendosi ad Henaff che in “Il Prezzo della Verità” (2006) afferma che nel regalo si dona simbolicamente il riconoscimento reciproco non riconoscendosi, sostiene che il regalo senza prezzo, che non ha valore commerciale, può essere preso a pegno del riconoscimento reciproco. In questo modo egli risolve l’enigma del dono ovvero il contraccambiare. Donare crea un debito, anche se non voluto nel ricevente ed “allora l’atto importante non è affatto donare-contraccambiare, bensì ricevere. Perché è nella maniera di ricevere che il donatore è riconosciuto, ed è nella generosità del ricevere che colui che contraccambia si trova preso nella dinamica di generosità del donatore, e nella recezione è coinvolto nel cerchio della reciprocità. Ritroviamo l’agape, come nel donare senza contropartita: contraccambiare è, in una certa maniera, essere nella ripetizione del donare senza contropartita”.

Dono come trascendenza: dare in cambio

Il contracambiare è così inserito all’interno di un contesto simbolico il cui unico scopo è quello, attraverso l’atto reciproco del riconoscimento e del riconoscersi, di creare legami sociali.

Godelier, in “Enigma del Dono” (1996), a proposito del contracambiare, analizza le cose vendute o donate partendo da quelle che non possono essere né vendute e nemmeno donate e che sono indispensabili al fine della vendita o della donazione. Ciò che non può essere né donato né venduto è il sacro tant’è che gli oggetti che lo rappresentano non vengono scambiati. Godelier sostiene che nell’atto del donare vi è una evidente ambivalenza che si sviluppa seppure in un quadro di solidarietà. Il dono anche il dono di sé, da un lato, avvicina l’altro e, dall’altro, lo allontana perché crea un debito che prima o poi deve essere ricompensato. Il dono crea gerarchie: chi dona, infatti, condivide ciò che ha o ciò che è con chi riceve creando un rapporto di superiorità poiché il ricevente si trova con un debito che dovrà saldare.

E’ questo ciò che Mazzoni, in “Il dono è un dramma” (2016), definisce un dramma. Non sempre il dono serve a creare legami sociali, ma spesso è un veicolo di prepotenza con cui dimostrare la propria superiorità e il proprio status sociale.

Derrida, in “La moneta falsa. Donare il tempo”(1991), prendendo spunto da un racconto di Baudelaire e rompendo con quanto sostenuto da Mauss e dai suoi seguaci, nel tentativo di associare il dono e il tempo afferma che come quest’ultimo non è visibile all’occhio umano anche il primo deve essere invisibile. Nel momento in cui diventa visibile non è un dono ma un mercimonio: un do ut des. Per Derrida è la coscienza il limite del dono: per essere tale dovrebbe essere dimentico di sé, dovrebbe avere la memoria corta, dovrebbe essere colto da amnesia nel momento stesso in cui si dona. Se la coscienza è ciò che rende impossibile il dono, allora bisogna chiedersi se l’uomo può mai avere esperienza del dono? Derrida risponde a questa domanda oltrepassando la legge dell’immanenza, dello spiegabile attraverso la scienza, affermando che solo l’uomo ha la facoltà di sperimentare attraverso l’esperienza della differenza, il simbolico inteso come ciò che sta ai limiti delle possibilità della ragione. Egli proietta il dono nella legge della metafisica ed inserendolo nella simbologia del rapporto tra il sé e l’altro, lo rimanda ad una esperienza trascendentale.

Benedetto XVI coglie questa trascendenza all’interno dell’enciclica “Caritas in Veritate” ( 29 giugno 2009) nel momento in cui afferma

Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che da senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l’intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione.

Dono come trascendenza..o perdita?

J. L. Marion (1946 – ) situa il dono in uno spazio metastorico da cui lo storico ha origine che è di esclusiva competenza della teologia. E’ solo all’interno di questo spazio che diviene visibile la verità rivelata per cui l’invisibile diventa visibile e, in senso ricoeriano, è possibile avere l’esperienza del riconoscimento. Marion, infatti, considera il dono come fondamento relazionale e l’archetipo della fenomenologia intesa come modalità di spiegazione dei fenomeni non accessibili.

Allo stesso modo Guidieri, criticando in maniera aspra gli studi sul dono di Mauss, afferma che il vero dono è una “perdita secca”, “giuridicamente un’assurdità” nella quale “l’atto si compie senza tornaconto” e l’essenziale è la rinuncia, che significa “alienare definitivamente qualcosa senza altro contraccambio che l’effetto procurato”, dato che la riconoscenza non si può ancora considerare debito. Gli esempi che riporta Guidieri per dare senso al dono è quello dei Santi che si spogliano dei loro averi senza aspettarsi nessun tornaconto o quelli che donano la loro vita per un ideale. L’assurdità dei loro gesti sta nel sacrificio e

non in uno scambio reciproco, ma in un orientamento, in un arcaismo tetico che avvicina per eccessi l’indeterminato, e la domanda di colui che accetta di perdere apre all’indeterminato: la vicinanza, o solo la volontà di avvicinare l’indeterminato comporta l’eccesso.

Benedetto XVI, nella già citata enciclica Caritas in Veritate, mette in luce l’aspetto della trascendenza affermando

La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza. L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società.

L’enciclica in questione si inserisce a ragione nel dibattito sul dono cercando di superare ciò che Vattimo ha definito “pensiero debole” ovvero di un pensiero che non è in grado di conoscere l’essere e, quindi, non può individuare valori oggettivi e validi per tutti gli uomini. La trascendenza, o di carattere religioso o mitico-culturale (come vedremo in seguito) o tutte e due insieme, da valore all’azione umana e la inquadra all’interno di un vissuto antropologico in grado di dare giustificazione e significato ai singoli comportamenti. L’enciclica di Ratzinger si inserisce a pieno titolo all’interno di un percorso culturale e di riflessione sul valore del dono così come portato avanti dagli anti-utilitaristici. Ciò vuol dire che esiste un pensiero forte che accomuna esperienze diverse che vanno dal religioso alla scienza, anche basandosi su paradigmi a volte uguali e a volte diversi.

Nell’enciclica, ad esempio, vi è una particolare similitudine tra il pensiero del Papa e quanto affermato sopra da Guidieri. Benedetto XVI scrive la carità nella verita

….. essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia. Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l’eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti.

Ed ancora, sembra prendere spunto dalle teorie del dono di Mauss come produttori del legame sociale nel momento in cui afferma:

Perché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini.

Mauss aveva definito il potere di produttore di legami del dono mana o tau, per la Chiesa cattolica è dono di Dio che ha stabilito un legame privilegiato con gli uomini ed essendo quest’ultimi a sua immagine somiglianza non possono non riprodurre lo stesso tipo di legame. Ciò che c’è in gioco è la trascendenza, ovvero qualcosa che precede, in ambedue i casi. Sempre nell’enciclica vien individuato un sistema in cui è possibile esperire la forza del dono: la famiglia per poi essere trasferita negli altri ambiti comunitari nazionali e internazionali.

 

Il contesto nel quale cresciamo è fondamentale per determinare la nostra attitudine verso i rischi

Messi di fronte a un rischio non tutte le persone finiscono con l’agire allo stesso modo: ci saranno sicuramente persone più pronte ad accettare dei rischi nella propria vita ed altre invece che ne staranno il più lontani possibile.

 

I fattori che influenzano il grado con il quale siamo pronti ad accettare o meno dei rischi sono numerosi e molto vari. I giovani ad esempio sono molto più pronti a prendersi dei rischi rispetto agli anziani. Un’altra variabile che influenza tale grado è senz’altro il sesso, sembra infatti che le donne tendano a tenersi più lontane dai rischi rispetto agli uomini: ad esempio preferiscono optare per una ricompensa piccola e sicura piuttosto che per una più grande che comporterebbe però una maggiore espozione a dei rischi.

Una recente ricerca dell’Università texana di Houston (Liu & Zuo, 2019) pare suggerire che queste differenze per quanto riguarda la propensione a prendere dei rischi siano modellate dalla cultura e dal contesto nel quale gli individui vengono cresciuti, pertanto potrebbe essere possibile modificare tali differenze, quantomeno nei bambini. Secondo gli autori di questa ricerca, se insegnassimo alle bambine ad essere più “amanti” del rischio fin dalla primissima infanzia, potremmo effettivamente modificare i loro processi decisionali e diminuire la differenza di genere menzionata poco sopra.

Lo studio

Per testare se effettivamente il contesto di crescita ha una qualche influenza sulla predisposizione al rischio, gli autori dello studio hanno osservato il comportamento di bambini frequentanti la medesima scuola elementare di due distinte culture (una matriarcale e una patriarcale) cinesi. Immediatamente i ricercatori hanno notato come le bambine provenienti dal gruppo culturale matriarcale fossero più pronte delle coetanee del gruppo patriarcale ad assumersi dei rischi.

Gli autori dello studio hanno notato inoltre che, dopo essere state esposte a coetanee del gruppo culturale opposto, la propensione al rischio delle bambine di entrambi i gruppi si modificava: le bambine del gruppo patriarcale diventavano più propense al rischio e quelle del gruppo matriarcale lo diventavano meno. Ovviamente i ricercatori non sono riusciti a stabilire se il cambiamento permanesse anche al di fuori del contesto di misurazione, ovvero quello scolastico. Servirebbe uno studio più complesso e completo per riuscire a determinare se questo cambiamento nella propensione al rischio sia permanente o al contrario contingente alla situazione.

In conclusione

Le implicazioni pratiche di questo studio sono enormi: attraverso l’eposizione a norme di genere differenti è possibile cambiare il comportamento degli individui. Questo potrebbe portare, nel caso in cui uno studio futuro confermi che il cambiamento è permanente e indipendente dalla situazione, a modificazioni socio-economiche sul lungo periodo. Una delle due autrici ipotizza perfino che questo studio potrebbe arrivare a diminuire le differenze nelle buste paga tra uomini e donne, dato che si potrebbero portare le donne, rendendole più propense al rischio, a scegliere delle carriere più rischiose, ma anche più remunerative.

Abitudini di gioco d’azzardo in studenti di 5 Istituti Scolastici Superiori della Provincia Ravenna

Molti giovani giocano d’azzardo ancora prima di compiere la maggiore età, con l’idea di guadagnare denaro, passare il tempo, stare in compagnia, provare emozioni, per estraniarsi dalla realtà e dai problemi della vita.

Gianni Savron, Valentina Ceccarelli, Ganna Ukrayinets, Silvana Maria Tammaro, Daniela Capitanucci, Laura Casanova, Anna Marcon

 

I dati della letteratura indicano che nei minorenni le problematiche di gioco d’azzardo si collocano fra il 3,2% e l’8,4% e oltre, e che un avvicinamento precoce alle esperienze di gambling espongono al rischio di sviluppare nel tempo un Disturbo da Gioco Azzardo. Inoltre, la partecipazione a giochi non attivi e non strategici come gratta e vinci, lotterie, bingo, rappresenta un fattore favorente allo sviluppo di problematiche d’azzardo (Rahman et al., 2012).

Le caratteristiche psicologiche (impulsività, ricerca di sensazioni e/o di novità, scarse capacità di coping, basso conformismo, minore autodisciplina, l’influenza del gruppo dei pari) tendono a favorire vari comportamenti a rischio come bere alcolici, fumare, usare sostanze illegali, giocare d’azzardo, avere difficoltà relazionali, uno scarso rendimento scolastico ed episodi di piccola criminalità. Anche la famiglia può svolgere sia una funzione disregolativa attraverso difficoltà familiari, scarsa attenzione ai figli e basso controllo parentale, conflitti intrafamiliari, maltrattamenti, traumi, modelli inadeguati di comportamento verso il gioco d’azzardo; che protettiva attraverso il dialogo, il supporto, il rispetto intrafamiliare, l’elasticità di fronte ai cambiamenti, la tolleranza alle frustrazioni, le corrette informazioni e adeguati comportamenti verso il gioco d’azzardo.

Gioco d’azzardo tra gli studenti: numeri e diffusione in Italia

Limitandoci ai dati italiani più recenti, lo studio ESPAD (2017) (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs), condotto dall’istituto di fisiologia clinica del CNR di Pisa riporta che dal 2009 al 2017, la tendenza del gioco d’azzardo nel corso della vita tra gli studenti di 15-19 anni ha subito una riduzione passando dal 51,6% al 44,2%, e per quanto riguarda il gioco praticato nell’ultimo anno dal 47,1% al 36,9%.

I maschi sono più attratti dal gioco d’azzardo (47,3%) rispetto alle femmine (26,3%) e la percentuale di studenti minorenni che ha giocato d’azzardo nell’ultimo anno è stato del 33,6%, con una prevalenza maggiore al sud, a esclusione del Trentino Alto-Adige e del Veneto che hanno registrato un aumento del 1,1% e dello 0,8%.

Il Gratta e Vinci (64,7%) è stato il gioco d’azzardo più popolare, e in merito alla frequenza il 63,9% degli studenti ha giocato non più di una volta al mese e nello stesso periodo il 75,1% degli studenti ha speso più di 10 euro. Il Gioco d’azzardo Online ha coinvolto il 18,1% dei giovani.

Utilizzando il SOGS-RA (Winters et al., 1993; Poulin, 2002; Colasante et al., 2014) (ESPAD®Italia 2017 ) è emerso che il 13,5% dei giovani è definibile a rischio e il 7,1% problematico. Nell’intervallo 2016-2017 si è osservato una tendenza alla riduzione dei giocatori problematici e un aumento dei giocatori a rischio. I giochi indicati come i più pericolosi sono stati le Videolottery/Slot-Machine (56,8%) e il poker texano (52,6%), mentre il rischio minore viene percepito con il Gratta e Vinci (23,7%); inoltre, per il 39% degli studenti la bravura di gioco può far arricchire giocando.

Nell’ultima rilevazione IPSAD®2017-2018 (Italian Population Survey on Alcohol and Other Drugs) emerge che il 42,8% della popolazione italiana tra i 15 e i 64 anni (17 milioni) ha giocato d’azzardo almeno una volta negli ultimi 12 mesi, percentuale che raggiunge il 45% (6 milioni di persone) nei i giovani adulti di 15-34 anni, ed è del 32,8% (poco più di 2 milioni di persone) nella popolazione tra i 65 e i 74 anni.

La percentuale di coloro che hanno giocato d’azzardo nel corso della vita risulta del 51,7% (15-64 anni), di cui il 51,1% giovani/adulti (15-34 anni) e il 41,5% 65-74enni.

Nell’ultimo anno hanno giocato il 51,1% dei maschi e il 34,4% delle femmine, e nei giovani adulti il 53,6% dei maschi e il 36% delle femmine. I giochi più praticati nel 2017 sono stati: Gratta e Vinci (74%), Superenalotto (42,5%), lotto (28,3%) e le scommesse sportive (28%). Le femmine preferiscono i Gratta e Vinci rispetto ai maschi (82,8% vs 68,1%), lotto (33,5% vs 24,8%) e altri giochi con le carte (17% vs 14,5%); i maschi le scommesse sportive (40,7% vs 8,6%), poker texano (11,1% vs 2,5%) e scommesse su altri eventi (6,2% vs 0,9%). Nel gioco online (circa un quinto delle giocate totali) le preferenze sono state le scommesse sportive (65,8%) e il poker e giochi con le carte (20,4%). In aumento la modalità di gioco con lo Smartphone passata dal 16,4% al 50%, e tra i giovani adulti dal 20,3% al 58%.

Utilizzando il CPGI (Canadian Problem Gambling Index) (Ferris, Wynne, 2001; Colasante et al., 2012), si evidenzia che il gioco problematico è minimo per il 15,2%, moderato per il 5,9% e il severo per il 2,4%, quest’ultima percentuale in aumento rispetto al passato. I Gratta e Vinci sono a maggior diffusione su tutti i profili di gioco, e i giocatori a rischio moderato/severo sono attratti da scommesse sportive (72,8%), Gratta e Vinci (67,5%) e Superenalotto (43,6%). Si osserva che il rischio associato al comportamento di gioco aumenta all’aumentare della spesa sostenuta nell’ultimo mese e il 39,1% degli intervistati ritiene che sia possibile arricchirsi giocando d’azzardo in base alle proprie abilità, con una percentuale maggiore (48,3%) fra i giocatori problematici. Altresì esiste una elevata associazione (25% – 63%) nei soggetti dipendenti da gioco d’azzardo con l’utilizzo di sostanze psicotrope.

Da ultima l’indagine nazionale ISS 2018 (Istituto Superiore di Sanità), dedicata ai giovani studenti tra i 14 e i 17 anni, dove è emerso che circa un terzo (29,2%) dei minorenni ha avuto accesso al gioco d’azzardo e il 24% dei quattordicenni ha giocato almeno una volta nell’ultimo anno; percentuale che sale al 35% tra i diciassettenni. Giocano più i maschi (41,1%) delle femmine (16,8%), più al sud (36,3%) che nelle isole (29,9%); a seguire il centro (27,3%), nord-ovest (25,8%9, e nord-est (20,2%) e maggiormente negli istituti tecnici (37,5%) e professionali (28,2%). Giocando in maggioranza alle lotterie istantanee o in tempo reale (21,1%), scommesse sportive (17,1%) e virtuali (8,1%), alle slot-machine (6,8%); soprattutto dai tabaccai (46,7%), sale scommesse (41,1%) e bar (28,8%).

I giocatori a rischio sono 3,5% mentre quelli problematici il 3%. La prevalenza dei giocatori problematici è al sud, a cui seguono le Isole, il Centro, il Nord Ovest e il Nord Est. Si riscontra una associazione tra gioco e abitudini come fumo, alcool e altre sostanze. Gli studenti con gioco d’azzardo problematico praticano principalmente le scommesse sportive (79,6% ) e quelle virtuali (54,8%), altri giochi a base sportiva (50,8%), slot machine (42,5% ), lotto e lotterie a esito differito (41,7% ) e le VLT (25,6%), presso i bar (29,2%) e le ricevitorie (11,1%).

Il 10,8% degli intervistati ha scelto di giocare a seguito delle pubblicità vista o sentita, e nei problematici la percentuale è pressoché analoga a quella degli adulti giocatori problematici (33,9%), mentre nei giocatori sociali lo è il 6,4%. I maschi diciassettenni hanno 3 volte in più il rischio di sviluppare comportamenti d’azzardo rispetto alle femmine, così nelle isole o nel nord est, mentre le probabilità si riducono se si hanno 14 anni e si vive nel nord ovest frequentando scuole paragonabili ai licei. Gli studenti che giocano più di un’ora al giorno, anche online, con disponibilità economica, e amici che giocano o hanno avuto difficoltà con il gioco hanno maggiori probabilità di sviluppare un comportamento di gioco problematico.

Gioco d’azzardo nelle scuole secondarie: lo studio

Lo scopo dello studio è stato quello di estendere i dati di una precedente indagine (Savron et al., 2017) valutando abitudini, atteggiamenti e comportamenti di gioco d’azzardo in 5 scuole secondarie superiori della Provincia di Ravenna. E’ stata condotta su un campione di 1266 studenti tramite la somministrazione di un questionario anonimo che ha indagato sugli aspetti socio-demografici, disponibilità economica di gioco, abitudini di gioco d’azzardo, giochi praticati, ore giocate, somme vinte e perse, la presenza di distorsioni cognitive, pensieri erronei, giocare e giocatori in famiglia, utilizzo sostanze, e 3 test differenti: il Lie/Bet (Johnson et al., 1997), il SOGS-RA (Lesieur, Blume, 1987; Winters et al., 1993; Bourean, Poulin, 2007)) e lo SLUGS (Blaszczynski, Ladouceur, 2004; Capitanucci e Carlevaro, 2004; Blaszczynski, Ladouceur, Moodie, 2008). Per la valutazione statistica è stato impiegato il programma Statistical Package for Social Science (SPSS) e i punteggi sono stati espressi in medie e deviazioni, standard. E’ stata effettuata l’analisi della regressione multipla stepwise per definire le variabili che influenzano i comportamento di gioco.

Gioco d’azzardo negli studenti: i risultati

Nella Tab. I vengono riportate le scuole e il numero di studenti che hanno accettato di compilare il questionario.

Gioco d'azzardo in studenti adolescenti uno studio in 5 Istituti Superiori tab 1

Tab.1

Dall’indagine sociodemografica i padri avevano un’età media di 48,56 (± 5,56) anni, range 34-74, e le madri di 45,23 (± 5,40) anni, range 31-61; 928 genitori erano sposati o conviventi, 281 divorziati o separati e 37 vedove/i o di seconde nozze, e nella Tab. II vengono riportate le professioni di coloro che hanno risposto.

 

Tab. 2  – La professione dei genitori

Dei 1266 studenti, 371 (29,3%) erano maschi e 895 (70,7%) femmine, di età compresa tra i 14 e i 22 anni, con una media di 17,01 (±1,63) anni, 402 studenti frequentavano il Liceo Artistico e 864 le 4 scuole a indirizzo tecnico.

Seicentosessantadue studenti (52,3%) hanno affermato di aver giocato almeno una volta nell’ultimo anno di cui 432 (65,26%) femmine, corrispondenti al 48,26% di tutto il campione femminile e 230 (34,74%) maschi relativi al 61,99% del campione maschile. Trecentosessantotto erano minorenni, pari al 55,6% del gruppo che gioca, 29,1% di tutto il campione, e di questi, 156 (42,39%) lo hanno fatto prima di compiere 14 anni. In merito al multigambling, i risultati hanno mostrato che 263 ragazzi (39,7%) hanno frequentato un solo gioco, 153 (23,1%) ne hanno praticato due, e 92 (13,8%) fino a tre, 49 ragazzi (7,4%) quattro, 36 studenti (5,43%) cinque, 27 sei giochi e 4 più di 7.

I giochi più frequentati e le rispettive percentuali vengono riportate in Tab. III; come si può osservare, sono dissimili fra maschi e femmine, e nell’insieme sono stati il Gratta e Vinci, abilità, carte, bingo, Superenalotto, giochi telefonici, lotto, scommesse sportive, totocalcio e così via.

Gioco d'azzardo in studenti adolescenti uno studio in 5 Istituti Superiori tab 3

Tab. 3  – Giochi praticati negli ultimi 12 mesi

La spesa media giornaliera di gioco è leggermente maggiore per i maschi (M=1,84 euro) rispetto alle femmine (M=1,49 euro); mentre la differenza tra la media globale risulta significativamente superiore nei maschi (M=6,52) che nelle femmine (M=4,77).

Trecentododici ragazzi (47,1%) dedicano giornalmente meno di un’ora al gioco, 30 (4,5%) da 1 a 3 ore, e 5 studenti (0,8%) lo praticano più di 3 ore; invece, in merito alle ore dedicate all’azzardo durante l’ultimo mese, 292 studenti (44,1%) ha dedicato meno di un’ora, 28 (4,2%) da 1 a 3 ore, e 18 ragazzi (2,7%) più di tre.

E’ stato anche chiesto di esprimere quanto loro sentissero di aver giocato nell’ultimo mese (inteso come percezione di intensità di gioco) e 51 (7,7%), hanno dichiarato di aver giocato abbastanza/ molto, mentre 293 (44,3%) ha dichiarato di aver giocato poco.

Indagando la presenza nel nucleo famigliare di un parente che giocava d’azzardo nel campione totale studenti, in 136 hanno dichiarato il padre (10,7%) e 65 la madre (5,1%); 25 (2,0%) entrambi i genitori; 72 (5,7%) i nonni; 38 (3%) una sorella o un fratello; 17 (1,3%) gli zii; e 13 (2,4%) altri parenti. In aggiunta 136 studenti dichiarano di praticare il gioco d’azzardo a soldi in famiglia.

Seicentotrentotto studenti (50,39%) del campione totale conosceva qualcuno che “aveva avuto problemi” di gioco d’azzardo, per 271 amici e conoscenti (21,4%), 222 (17,5%) il cugino, 51 (4%) il papà, 10 (0,8%) la madre, 17 (1,3%) fratello/sorella, 38 nonni (3,0%), 28 partner (2,2%), si trattava di un famigliare, e per 2 (0,2%) il compagno di classe.

I dati del Lie/Bet indicavano che 62 studenti (9,4% campione gioco) (4,9% del campione totale) presentavano un comportamento problematico.

Con il SOGS-RA, 42 (6,3% campione gioco) (3,3% del campione totale) avevano un rapporto problematico di gioco e 15 (2,3% giocatori) (1,2% del totale) un coinvolgimento problematico.

Con lo SLUGS, nella scala del controllo sul comportamento di gioco 44 ragazzi (6,6%) (3,5% del totale) hanno ottenuto un punteggio limite e 18 studenti (2.7%) (0,4% del totale) un punteggio a rischio; nella scala della percezione del rischio/pericolo, 15 soggetti (2,3%) (1,2% del totale) avevano un punteggio limite e 4 (0,6%) (0,3% del totale) un punteggio di rischio; e infine, nella scala necessità di trattamento 40 (6,0%) (3,2% del totale) avevano un punteggio limite e 3 soggetti (0.5%) (0,2% totale) erano positivi per un trattamento.

Nell’ambito delle distorsioni cognitive riguardanti il comportamento di gioco e le probabilità di vincita, 154 studenti (23,3%) hanno detto di avere numeri personali, 105 (10,9%) di usare oggetti porta-fortuna, 64 (9,7%) di ripetere rituali portafortuna associate alle vincite passate, 52 (7,9%) avere pensieri scaramantici, 46 (7,0%) di avere momenti specifici per giocare e 43 (6,5%) luoghi specifici.

In aggiunta, per 182 ragazzi (27,5%) influiva sulle possibilità di vincita il “conoscere qualcuno che aveva vinto”, mentre per 140 ragazzi (21,1%) agiva “l’aver vinto altre volte”, in 105 (15,9% “aver quasi vinto” altre volte, per 96 (14,6%) aver “giocato i numeri fortunati”, per78 (11,8%) aver “letto o sentito” delle vincite dai media, per 77 (11,8) dai “racconti di conoscenti, per 44 soggetti (6,6%) le “previsioni astrologiche”, 20 (3,3%) dalle “informazioni pubblicitarie”, per 4 altro (0,6%).

218 studenti (32,9%) pensavano di aver subito maggiori perdite nel corso dell’anno, mentre 155 (38,6%) erano convinti di aver ottenuto più vincite, il resto del campione non ha risposto a questa domanda.

Tra le motivazioni che hanno portato i ragazzi a giocare, 246 (37,2%) hanno riferito di averlo farlo per vincere denaro, 181 (27,2%) per passare il tempo, 156 ragazzi (23,6%) per stare in compagnia di amici, 134 (23,1%) per sfidare la sorte, 117 (17,5%) per misurare le proprie capacità, 45 (6,8%), per tirarsi su di morale, 40 (5,9%) vivere emozioni forti, 34 (5,1%) per evitare di pensare ai problemi.

I punteggi del SOGS-RA correlano positivamente in maniera altamente significativa con gli altri due questionari: Lie Bet (r=0,476; p=0,000); SLUG Controllo Inadeguato (r=0,535; p=0,000); la scala SLUG Rischio/Pericolo (r=0,489; p=0,000) la scala SLUG (Necessita di Trattamento (r=0,334; p=0,000). Il gioco correla con: le ore giocate in media al giorno (r=,601; p<0,001); la percezione del gioco (r=,204; p<0,001); l’abitudine di giocare in famiglia a soldi (r=,173; p<0,001); avere un famigliare che gioca (r=,153; p<0,001); il numero di giochi praticati (r=,597; p<0,001); ricevere una paghetta (r=,087; p=0,007).

All’analisi della regressione multipla step-wise utilizzando il SOGS-RA quale variabile dipendente, le variabili predittive sono state: le massime giocate giornaliere (β= 0,226 t= 2,837; sig. 0,005); soldi giocati nell’anno (β= 0,214 t= 2,687; sig. 0,008); giocare in momenti specifici (β= -0,199 t= -2,762; sig. 0,006); ripetere una azione per vincere (β= -0,158 t= -2,338; sig. 0,021); tirarsi su di morale (β= 0,155 t= 2,133; sig. 0,035); ore giocate nell’ultimo mese (β= 0,151, t= 2,061; sig. 0,041); utilizzo di sostanze (β= 0,149 t= 2,014; sig. 0,046).

Gioco d’azzardo tra gli studenti: alcune riflessioni

L’indagine effettuata ovviamente offre una immagine parziale degli Istituti Superiori di Ravenna, ma ha permesso di ottenere informazioni utili sulle abitudini, diffusione e il rischio del gioco d’azzardo nella popolazione di studenti esaminata.

I dati indicano che poco più della metà degli studenti (52,3%) ha giocato almeno una volta d’azzardo a soldi negli ultimi 12 mesi. Questa percentuale risulta leggermente superiore ai dati ESPAD 2017, IPSAD 2017-18 e ISS 2018, il 61,99% dei maschi e il 48,26% delle femmine, confermando anche altri sulla maggiore tendenza di gioco negli istituti tecnici.

Inoltre, il 55,6% di chi gioca risulta minorenne (21,1% del campione complessivo di studenti), e il 42,39% lo ha fatto prima dei 14 anni, confermando i dati sull’esordio precoce di gioco.

Anche in questo caso il Gratta e Vinci è risultato il gioco più praticato dagli studenti, seguito dai Giochi di Abilità (es. freccette, biliardo), dai giochi di carte (es. briscola, beccaccino, poker), dal bingo, dalle lotterie, dai giochi telefonici, dalle scommesse sportive, totocalcio, ecc. Dati sostanzialmente in accordo con quelli ESPAD 2017, IPSAD 2017-18 e ISS 2018.

Anche il numero dei giochi praticati sottolinea che il poligambling è un fattore critico del gioco problematico e i maschi presentano una frequenza maggiore di gioco spendono di più delle femmine.

Quasi la metà (47,1%) dedica al gioco meno di un’ora al giorno, e una minoranza (4,5%+0,8%) di più, e 293 (44,3%) studenti hanno affermato di sentire di aver giocato poco nell’ultimo mese e 51 (7,7%) di aver giocato molto. La sovrapposizione delle percentuali di questi ultimi dati evidenzierebbe una distorsione interpretativa legata al tempo utilizzato per il gioco e la percezione di aver giocato poco, invece la percentuale di chi dichiara di aver giocato molto è abbastanza in linea con il tempo di gioco. Il campione complessivo (n=1266) riporta una percentuale non trascurabile (30,2%) di familiari e parenti che giocano d’azzardo, e che giocano a soldi in famiglia (10,7%). In varie ricerche si è osservata una relazione tra problematiche di gioco in famiglie che giocano d’azzardo.

I punteggi ottenuti nei tre test presentano una elevata correlazione tra loro e sono sostanzialmente concordi sulla percentuale di soggetti a rischio: Lie/Bet = 4,9%; SOGS-RA = 3,3% + 1,2%; SLUGS, considerando solo la scala necessità di trattamento, = 3,2% + 0,2%. I tre test sono in linea con altre ricerche che collocano la percentuale di adolescenti a rischio tra 2% e 8%.

I dati hanno permesso inoltre di confermare la presenza di distorsioni cognitive nei ragazzi che giocano d’azzardo, identificando sia la sopravvalutazione delle proprie abilità nell’azzardo che la presenza di numeri e oggetti personali porta fortuna, di azioni scaramantiche, momenti e luoghi specifici per giocare, oltre che i ricordi selettivi legati al sapere della vincita qualcun altro, di vincite precedenti, la sensazione di quasi vincita, l’influenza dei media e della pubblicità. E’ risaputo che gli adolescenti e giovani adulti in genere iniziano a giocare d’azzardo tra pari, e quando diventa una abitudine questa viene percepita come una attività normale, desiderabile, sicura e non pericolosa, e per caratteristiche proprie essi sono più sensibili all’emotività e impulsività e quindi a essere influenzati dalle amicizie, dai media e dai messaggi pubblicitari.

Tra le motivazioni che spingono i ragazzi a giocare al primo posto troviamo la prospettiva di ottenere denaro, a cui seguono passare il tempo, stare in compagnia, sfidare la sorte, misurare le proprie capacità, tirarsi su di morale, vivere emozioni forti e non pensare ai problemi; in accordo con quanto riportato da altri autori.

Poiché le possibilità di vincita nell’azzardo dipendono dal tipo di gioco praticato, le percentuali riportate dai ragazzi confermerebbero la distorsione selettiva tipica dei giocatori d’azzardo, che ricordano preferenzialmente le vincite mentre a livello probabilistico sono maggiori le perdite.

Anche la relazione positiva tra la gravità del comportamento di gioco (numero di giochi praticati e risultati dei test), il tempo e la somma di denaro spesi giornalmente, la disponibilità economica, l’utilizzo di sostanze e la correlazione negativa con l’età in cui si effettua primo gioco, risultano concordi con i dati della letteratura sui fattori di rischio per l’azzardo patologico.

Non trascurabili i nuovi orientamenti e proposte, anche online, di gioco con (pseudo) vincite non in denaro ma in bonus gioco o tickets conquistabili attraverso le giocate, per ottenere possibilità di gioco, oggetti, gadget e altro, che espongono a un rischio diverso, rappresentato da un automatismo condizionato verso una percezione di vincita associata allo svago e al piacere insito nel giocare, con il risultato una affiliazione indiretta.

In sintesi, si può affermare che esiste un non trascurabile pericolo per l’insorgenza di un problema di gioco nella popolazioni di studenti, sia in relazione alla fase di crescita che all’esposizione precoce ai giochi d’azzardo e a quelli con caratteristiche d’azzardo dove il risultato è totalmente o parzialmente casuale, per cui, un intervento di prevenzione e formazione attiva nelle scuole primarie e secondarie rappresenterebbe lo strumento idoneo per ridurre i rischi di chi si trova ad essere esposto alle incognite dell’azzardo.

 

Si ringraziano gli studenti degli Istituti Scolastici: “Istituto Professionale E. Stoppa”, “Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri Compagnoni”, “Istituto Tecnico Statale Commerciale G. Ginanni”, “Istituto Professionale Statale Olivetti Callegari” e “Liceo Artistico Nervi”; i Dirigenti Scolastici e i docenti; l’Assessorato per le Politiche Sociali e Giovanili del Comune di Ravenna.

cancel