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Edward R. Watkins e La terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulla ruminazione per la depressione (2018) – Recensione del libro

La ruminazione come forma di evitamento. Presupposto essenziale alla Rumination-Focused Cognitive-Behavioral Therapy (RFCBT) descritta nel volume di E.R. Watkins, La terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulla ruminazione per la depressione. Ma cosa evitiamo?

 

La terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulla ruminazione per la depressione: la ruminazione come processo disfunzionale

Dario, 28 anni, studia ingegneria. Ha dato tutti gli esami, è un ragazzo brillante. Sono due anni che non riesce a laurearsi perché la tesi è ancora soltanto nella sua testa. Procrastina e procrastina. Ha paura di crescere, di “fare il salto”. Teme di non farcela ad assumersi le responsabilità di una vita adulta. “E se poi non trovo lavoro? E se sarò soltanto un fallito con una laurea?”.

Micaela, 34 anni, in crisi con il marito da circa un anno. Non parlano. Nessuno dei due chiede cosa stia accadendo. Le sue giornate sono grigie perché pensa e ripensa a quanto si sente sola e non amata. “Se dovessi parlarne temo di scoprire che lui abbia un amante e non potrei sopportarlo, ne sarei devastata”.

O ruminiamo o agiamo. La ruminazione ostacola l’azione, ma limita i rischi. Il rischio di fallire, di sentirci umiliati, di sentirci persone che non vorremmo essere.

Un altro elemento essenziale per la Rumination-Focused Cognitive-Behavioral Therapy (RFCBT) è appunto considerare la ruminazione una modalità di pensiero astratto, in opposizione a forme concrete di problem solving. Il malessere deriva da pensieri ripetitivi che non hanno risposta. La terapia cambia le domande. Dal “perché non sono stato preso per quel lavoro? Sono un idiota” al “Come posso incrementare le mie possibilità di inserimento lavorativo? Dove posso fare domanda di lavoro? Questa volta non ce l’ho fatta ma non sarà sempre così”. Dal “perché mi ha lasciato? Nessuno mi amerà mai” al “cosa posso fare per stare meglio? Dove posso incontrare persone nuove? Questa relazione è andata male ma niente mi vieta di incontrare qualcuno più adatto a me”. Insomma il domandarsi “perché” rispecchia un tentativo di capire le situazioni e darne un senso, lavoro il più delle volte impossibile. Il “come” ci pone invece verso la risoluzione del problema.

Andare nel concreto, evitando l’astratto, la generalizzazione, è un punto importante che ormai diversi filoni terapeutici stanno affrontando. Nella mia formazione ritrovo questa modalità negli insegnamenti della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI, Dimaggio et al., 2013). “Dove stava? Con chi? Ah quindi era sabato? Mi può descrivere il posto? E lei come si sentiva fisicamente? Ha notato a cosa stava pensando? E che emozioni provava?”. Domande di questo tipo mi riportano nella scena momento per momento e mi aiutano a ricostruire gli schemi interpersonali patologici. Spesso mi aiuto con le tecniche di imagery come suggerisce anche il testo di Watkins.

La terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulla ruminazione per la depressione: i contributi di mindfulness e Compassion Focus Therapy

Nella RFCBT domande simili sono essenziali per l’Analisi Funzionale attraverso la quale si identificano contesti e situazioni in cui si attivano comportamenti più o meno desiderati. Questo lavoro permette di capire cosa innesca la ruminazione e cosa può aiutare a bloccarla in modo da creare nuove associazioni contesto-risposta. Il trattamento lavora alla ricerca di azioni alternative alla ruminazione che coinvolgono molto il paziente in modo da portare tutta la sua attenzione sull’attività che sta svolgendo. Un ritornare al momento presente in accordo con i principi della Mindfulness (Kabat-Zinn, 1990). Il paziente non riflette più in termini di valutazione su di sé, ma vive l’esperienza corporea e sensoriale nella quale è inserito. La terapia intende trasferire quell’essere assorti nei pensieri (ruminazione) nell’essere coinvolti in un’attività in linea con i propri desideri e/o valori.

Un altro elemento presente nella RFCBT è la compassione, caratterizzata da assenza di giudizio, e per questo in totale contrapposizione alla ruminazione. Svilupparla verso se stessi è spesso un’impresa ardua. A differenza della Compassion Focus Therapy (CFT, Gilbert, 2010), precisa l’autore, nella RFCBT ci si focalizza sulle esperienze passate di compassione. Da lì si parte con gli esercizi immaginativi e la messa in atto di comportamenti compassionevoli (rispondendo a domande del tipo: “se mi prendessi più cura di me, quali attività incrementerei?”; “se mi prendessi più cura di me, quali attività ridurrei?”).

A mio avviso il testo è interessante anche perché trasversale. La ruminazione è un processo molto simile al rimuginio ed entrambe le modalità sono frequenti in diversi disturbi, da quelli d’ansia a quelli di personalità.

La RFCBT ha uno stampo decisamente pratico, strutturato e il testo descrive nel dettaglio tutte le fasi del trattamento. I numerosi casi clinici e la trascrizione dei dialoghi sono utilissimi a comprendere i diversi passaggi; le dispense a fine libro sono materiale prezioso che il clinico può utilizzare nel suo lavoro.

Un testo insomma molto concreto in linea con il trattamento suggerito!

Efficacia delle terapie orientate metacognitivamente nel disturbo schizotipico di personalità

L’attenzione degli psicoterapeuti non è mai andata davvero al cosiddetto Cluster A dei disturbi di personalità (DP). In particolare il disturbo schizotipico di personalità (DSP), nonostante tassi di prevalenza che oscillano tra il 3.9% ed il 4.6% (APA, 2014), appare un DP a cui prestare ben poca attenzione.

 

Eppure nel modello alternativo dei Disturbi di Personalità (AMPD; First, Skodol, Bender & Oldham, 2018) il Disturbo Schizotipico di personalità (DPS) è tra i sei disturbi rimasti.

In parallelo cresce l’interesse per la schizotipia, ovvero un’organizzazione di personalità (definita appunto organizzazione schizotipica di personalità – OSP) connessa a fattori di rischio genetici per l’insorgenza dei disturbi dello spettro schizofrenico e che quindi spazierebbe lungo un continuum tra normalità e manifestazioni psicopatologiche diverse (Lenzenweger, 2010). A fronte della prevalenza del Disturbo Schizotipico di personalità, del fatto che sia stato mantenuto nel modello alternativo dei Disturbi di Personalità del DSM-5 e della ricerca sui processi psicopatologici che ne sono alla base, cosa troviamo nel mondo della psicoterapia? Pochissimo. Una review sistematica pubblicata lo scorso anno riporta soli tre studi con poche e deboli evidenze: uno studio randomizzato, uno studio clinico con valutazione pre-post, uno studio su caso singolo (Kirchner, Roeh, Nolden & Hasan, 2018).

Lo studio randomizzato (Nordentoft et al., 2006) confrontava una psicoterapia multifamiliare integrata (prettamente un intervento psico-educativo) rispetto ad un trattamento standard (ovvero consulenze psichiatriche e terapia farmacologica). Lo studio non randomizzato testava l’efficacia di un intervento psicodinamico assieme ad uno psicoeducativo (Karterud et al. 1992). Lo studio su caso singolo valutava un intervento psicoeducativo su un paziente con disturbo ossessivo-compulsivo ed in comorbilità un Disturbo Schizotipico di personalità (McKay & Neziroglu, 1996). In tutti e tre i casi vi era una limitata riduzione dei sintomi psicopatologici, ma soprattutto alla fine dell’intervento la diagnosi di Disturbo Schizotipico di personalità sussisteva. Relativamente al trattamento nessuno degli studi riportati descriveva un’operazionalizzazione dello stesso specifica per il Disturbo Schizotipico di personalità, riportando interventi o esclusivamente psico-educativi (e quindi non psicoterapeutici) o integrazioni di diverse componenti difficili da distinguere nella valutazione dell’efficacia.

Metacognizione e Disturbo Schizotipico di Personalità

Il Disturbo Schizotipico di personalità (DSP) viene alternativamente riferito allo spettro schizofrenico o ai Disturbi di Personalità (DP). Caso unico all’interno del DSM-5 (APA, 2014), il DSP compare infatti sia come specifier dello spettro schizofrenico e di altri disturbi psicotici sia come DP specifico nella sezione II. Possiamo facilmente comprendere come rappresenti un’organizzazione di personalità che causa una compromissione personale, sociale e lavorativa rilevante e, in generale, un’alterazione del funzionamento metacognitivo. Numerosi studi riportano infatti come la metacognizione sia fortemente compromessa tanto nello spettro schizofrenico quanto nei PD (Dimaggio & Lysaker, 2011). E come interventi focalizzati sulle funzioni metacognitive siano efficaci sia nei disturbi psicotici (Lysaker & Klion, 2019) che nei DP (Dimaggio, Ottavi, Popolo, & Salvatore, 2019).

Dati Preliminari di Efficacia

Viste le evidenze raccolte nel corso degli anni sulla Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio et al., 2019) e sulla Metacognitive Reflection and Insight Therapy (MERIT; Lysaker & Klion, 2019), abbiamo condotto una cases series sull’efficacia di questi due trattamenti. I pazienti elegibili che afferivano a Tages Onlus venivano sistemicamente valutati in base ai criteri di inclusione ed esclusione. Il progetto prevedeva che ai pazienti con diagnosi di Disturbo Schizotipico di personalità sarebbe stato offerto un trattamento di 6 mesi e sarebbero stati assegnati in modo random o a TMI o a MERIT. I primi due pazienti che hanno rispettato i criteri di inclusione ed hanno accettato di partecipare allo studio sono stati dunque randomizzati. Entrambi i pazienti sono stati trattati presso il Centro di Psicologia e Psicoterapia di Tages Onlus e la terapia è stata condotta dallo stesso terapeuta (Simone Cheli), a sua volta formato e supervisionato da Giancarlo Dimaggio e Paul Lysaker per gli interventi rispettivamente basati su TMI e MERIT. Il protocollo di ricerca prevedeva una valutazione di ingresso, una terapia di 6 mesi, una valutazione al termine dell’intervento e ad un mese di follow-up. Entrambi i pazienti hanno mostrato una riduzione significativa della sintomatologia generale, con un Reliable Change Index tra 10.10 e 5.85. Soprattutto hanno evidenziato come i criteri per la diagnosi di Disturbo Schizotipico di personalità non sussistessero più. Permanevano solo alcuni aspetti psicopatologici nella valutazione dimensionale alla SCID-5-PD (First, Williams, Benjamin & Spitzer, 2017). Inoltre, l’intervento ha mostrato elevatissimi tassi di aderenza (nessuna seduta è stata annullata, solo alcune sono state spostate nella stessa settimana) ed un miglioramento significativo della metacognizione. L’articolo è stato recentemente accettato da Personality and Mental Health (Cheli, Lysaker & Dimaggio, 2019).

Pur riconoscendo tutti i limiti inerenti al disegno di ricerca (una case series con solo 2 pazienti e quindi un campione limitatissimo e senza gruppo di controllo), si tratta del primo studio di psicoterapia disegnato specificamente per il Disturbo Schizotipico di personalità e che ha riportato successi significativi sui problemi centrali di tale disturbo.

Prospettive Future

Se consideriamo come le stime di prevalenza per quel variegato insieme di genotipi, fenotipi ed endofenotipi che corrispondono al costrutto di schizotipia si attestano attorno al 10%, forse la comprensione dell’organizzazione schizotipica di personalità – OSP ed i suoi sviluppi psicopatologici (Lenzenweger, 2006) dovrebbe ricevere maggiori attenzioni da parte dei clinici. Sino all’ormai prossima pubblicazione del nostro studio sull’uso della TMI e della MERIT (Cheli et al., 2019) esistevano solo 3 articoli su trattamenti rivolti a pazienti con Disturbo Schizotipico di personalità (Kirchner et al., 2018). Abbiamo pertanto avviato tre studi finalizzati ad estendere i dati preliminari raccolti fino ad oggi sull’efficacia di approcci basati sulla metacognizione per l’OSP:

  • Uno studio correlazionale finalizzato a testare un modello di funzionamento psicopatologico sull’insorgenza dell’OSP (Cheli, 2019) in giovani adulti sani. Un’estesa batteria di test psicometrici è in corso di somministrazione al fine di analizzare gli effetti di mediazione e moderazione tra le variabili indagate.
  • Una cases series rivolta a pazienti con DSP diagnosticato secondo il modello dell’AMPD (First et al., 2018). I pazienti (ad oggi 3 già reclutati) sono trattati con TMI nella versione manualizzata in Dimaggio et al., 2019, con specifici interventi rivolti ai sintomi psicotici come definiti in Salvatore et al. 2017.
  • Una cases series rivolta a due pazienti con recente esordio psicotico (Disturbo Psicotico Breve), uno dei quali è stato assegnato in maniera random ad un trattamento tramite TMI (Dimaggio et al., 2019), uno tramite MERIT (Lysaker & Klion, 2019).

Per la case series, oltre agli usuali indici sintomatologici verranno condotte specifiche interviste finalizzate alla diagnosi del funzionamento di personalità secondo il modello AMPD (First et al., 2018), del funzionamento metacognitivo (Lysaker et al., 2010) e del rischio di insorgenza di un disturbo psicotico (Schultze-Lutter, Addington & Rurhmann, 2016). Inoltre in un sottogruppo di soggetti dello studio correlazionale condurremo un’intervista sulla metacognizione per meglio indagare questo cruciale fattore. Quel che ci aspettiamo è di ampliare la nostra conoscenza dei meccanismi di insorgenza e mantenimento delle manifestazioni psicopatologiche dell’OSP. To be continued…

Bere durante la gravidanza è sicuro per il bambino?

La sindrome alcolica fetale (Fetal Alcohol Spectrum Disorder FADS) è stata riconosciuta come una delle principali cause di disabilità intellettiva, con conseguente deficit cognitivo significativo, nel 2-5% dei bambini.

 

Uno studio recente, condotto in USA, ha rilevato che il 10.2% delle donne in gravidanza consuma alcol.

Tipicamente, la maggioranza delle donne continua a bere ed espone il proprio feto all’alcol almeno nelle prime fasi della gravidanza, di solito durante le prime 4 settimane.

Gravidanza e alcool: le associazioni con le abilità cognitive del bambino

Nonostante recenti affermazioni suggeriscano che i rischi legati al consumo di alcol, durante la gravidanza, siano ritenuti esagerati, un recente studio di meta-analisi dimostra un’associazione dannosa tra l’esposizione all’alcol prenatale e le abilità cognitive del bambino.

Lo studio, pubblicato su Chaos: An Interdisciplinary Journal of Nonlinear Science, è stato condotto dalla University of New Mexico Health Sciences Center di Albuquerque, e ha cercato di indagare se gli adolescenti, esposti all’alcol nell’utero della madre, mostrassero alterazioni delle connessioni cerebrali, cui sono collegate prestazioni cognitive compromesse.

I partecipanti allo studio, tutti adolescenti, sono stati suddivisi in due gruppi: il primo comprendente 21 soggetti sani, mentre il secondo era composto da 19 soggetti esposti all’alcol in età prenatale.

Per misurare le connessioni cerebrali si è utilizzata una tecnica di imaging cerebrale, la magnetoencefalografia (MEG) in associazione a una tecnica computerizzata sofisticata, la Cortical Start Spatio-Temporal multidipole analysis.

Gravidanza e alcool: i risultati dello studio

I risultati dello studio evidenziano una compromissione dei circuiti cerebrali dei soggetti con sindrome alcolica fetale, nello specifico, nelle connessioni del corpo calloso, la parte del cervello che interconnette i due emisferi cerebrali.

Di solito, questo tipo di alterazioni nel corpo calloso si evidenziano nei soggetti con schizofrenia, sclerosi multipla, anomalie dell’elaborazione sensoriale come l’autismo, depressione e Alzheimer.

Per concludere, il consiglio di non bere durante la gravidanza è tuttora applicabile, infatti, come dimostrato dalla ricerca, l’esposizione prenatale all’alcool può portare sia ad alterazioni delle connessioni del corpo calloso sia ad un decadimento cognitivo, derivante dal consumo di alcool occasionale o costante.

Inoltre, lo studio rivela una forte correlazione tra connettività funzionale interemisferica e le prestazioni cognitive sia per i soggetti sani che quelli con sindrome alcolica fetale.

Per tanto è difficile stabilire una quantità “sicura” di consumo di alcool da parte delle madri in gravidanza.

Economia, etica e psicologia: comportamento economico e motivazionale delle scelte del consumatore

Se il rapporto tra Psicologia ed Economia è da sempre risultato difficile, in realtà sono stati svariati i tentativi di avvicinamento. L’ approccio comportamentale all’ Economia rappresenta oggi un ambito di notevole interesse e sviluppo, che potrebbe rappresentare il punto di contatto tra Economia, Etica e Psicologia.

Armando Biamonte

 

Il rapporto tra Economia e Psicologia è da sempre risultato difficile.

In realtà possiamo evidenziare svariati tentativi di contatto tra due le discipline.

Lo studio del comportamento offre la possibilità di fuggire dalla trappola dell’interpretazione: l’approccio comportamentale all’ Economia rappresenta oggi un ambito di notevole interesse e sviluppo, che potrebbe rappresentare il punto di contatto tra Economia, Etica e Psicologia.

La teoria della scelta razionale

La teoria della scelta razionale rappresenta, il primo passo verso l’approccio comportamentale all’ Economia, dove sarà l’essere umano a scegliere attraverso la propria razionalità.

Per rispondere a qualsiasi domanda sul processo decisionale di un individuo si è passati da un punto di vista in cui la razionalità la faceva da padrone, attraversando anche un punto di vista in cui l’utilità raccoglieva al suo interno preferenze e gusti del consumatore, fino a giungere alla necessità di un terreno d’unione tra diverse discipline, in grado di creare nuovi rapporti proprio tra Psicologia ed Economia.

Dietro al comportamento di scelta del consumatore si nascondono bisogni e motivazioni che nulla hanno a che fare con il prodotto ma con il bisogno emotivo che desidera essere soddisfatto.

La teoria della scelta razionale ha dimostrato i suoi punti di forza nell’analisi del comportamento dei piccoli gruppi fino ad assumere sempre maggiore consistenza nell’analisi del comportamento individuale delle persone all’interno di un panorama istituzionale. Sostiene Collins:

bisogna considerare il termine scelta razionale come essenzialmente una metafora e non come una descrizione dei processi mentali consci.

L’approccio dell’ Economia Comportamentale

L’ Economia Comportamentale ha il merito di partire dalle teorie classiche, accettandone la validità, ma, allo stesso tempo, le mette in discussione.

Il 1979 con la pubblicazione del lavoro di Daniel Kahneman, Psicologo (1934), premio Nobel per l’ Economia nel 2002  e di Amos Tversky, Psicologo (1937-1996), The Prospect Theory, rappresenta il momento storico fondamentale dell’ Economia Comportamentale.

La teoria del consumatore razionale tende a concentrarsi sulle situazioni nelle quali è possibile confrontare i diversi vantaggi determinati dalle alternative a disposizione.

Se gli approcci economici tradizionali hanno il merito di aver affrontato per primi l’analisi del comportamento del consumatore, gli approcci più moderni cercano di affrontare i temi tradizionali dell’ Economia attraverso le prospettive teoriche che appartengono ad altre discipline scientifiche.

L’approccio comportamentale all’ economia si muove su un doppio filone: da una parte ci si focalizza sui processi cognitivi legati al processo di scelta con un approccio che prende il nome di Economia Cognitiva, e dall’altro si muove su un percorso caratterizzato dalle scelte che per loro natura sono condizionate dall’ambiente sociale.

Per poter effettuare un’analisi del comportamento del consumatore e un’analisi su come le decisioni vengono prese dagli individui, sono state analizzate la teoria definita “discovered preference hypothesis” (inteso come ipotesi di costruzione delle preferenze) di Smith, Plott e Binmore, l’esperimento noto come il “dilemma della malattia asiatica” di Kahneman e Tversky, nonché i classici giochi del Dilemma del Prigioniero e del Bene Pubblico utilizzati come modelli di riferimento proprio nell’approccio allo studio comportamentale.

Il rapporto tra Economia e Psicologia è da sempre risultato difficile

Andando a curiosare nella storia delle due discipline emergono delle analogie e dei rapporti.

È interessante notare come lo sviluppo storico delle due discipline prosegue quasi su un binario parallelo: se la corrente classica dell’ Economia inizia attorno alla prima rivoluzione industriale del ‘700 e alla seconda rivoluzione industriale del 1870, anche la moderna Psicologia Scientifica nasce e si sviluppa tra il 1850 e il 1870.

L’economia ha da sempre dato importanza ai fenomeni sociali, spostandosi da una analisi economica “micro” ad una “macro”, muovendosi cioè dal comportamento individuale per arrivare ai fenomeni sociali.

Lo studio delle norme e delle convenzioni sociali costituisce quindi un ambito di studio dell’aspetto comportamentale dell’ economia che, sempre attraverso l’applicazione di disegni sperimentali, indaga la cooperazione, l’altruismo, l’equità sociale ed il rispetto di norme sociali: comportamenti che pervadono le attività umane e che si apre in questo modo all’interdisciplinarietà, trovando punti di contatto e di dialogo tra l’ economia e le altre scienze comportamentali.

Le norme sociali, così come sono definite dalla teoria economica, sono standard di comportamento taciti, non sanciti necessariamente da norme giuridiche, ma condivise nella società.

Se il rapporto tra Psicologia ed Economia è da sempre risultato difficile, in realtà svariati sono i tentativi di avvicinamento.

Nel 1902 lo psicologo Tarde scrive un libro dal titolo “Psicologia Economica” dove si occupa soprattutto del concetto di scelta razionale.

Successivamente al secondo conflitto mondiale, la Psicologia Economica riscuote notevoli interessi soprattutto grazie allo psicologo Katona che nel 1975 scrive il testo “Psychological Economics”.

J. M. Keynes sosteneva l’importanza di riportare l’ economia verso valori più giusti, diventando scienza morale. Secondo l’autore:

i governi di oggi devono operare per incentivare la circolazione delle informazioni e devono anche dare maggiore importanza all’incertezza dei mercati. Infatti l’incertezza è presente in tutti quei mercati che influenzano maggiormente la stabilità e la crescita di una economia. È proprio l’incertezza che causa stati di boom e di recessione. La conclusione di quest’opera rappresenta un augurio ed una raccomandazione dell’autore agli economisti futuri. Questi dovrebbero essere uomini di cultura generale, più attenti allo studio delle materie sociali che a quelle scientifiche.

La resurrezione cerebrale: il ripristino della circolazione cerebrale e delle funzioni cellulari ore dopo la morte; esperimento su 32 teste di maiale.

Il sottile confine tra vita e morte affascina da secoli l’uomo e le scienze. Le innovazioni in tema di rianimazione hanno consentito che condizioni estremamente critiche divenissero trattabili e reversibili rendendo ancora più labile la separazione tra il concetto di vita e morte (Gottardello A, Tanini M.2019).

Marco Tanini, Ilaria Bagnulo, Emanuele Ginori, Vittoria Falchini, Alessandro Pacini

 

Resurrezione cerebrale: il confine tra vita e morte

La morte è stata sempre identificata con la cessazione di funzioni quali il respiro e il battito del cuore, solo recentemente è stato introdotto il concetto di morte cerebrale.

La definizione “legale” di morte è data dalla L. 578/1993 che, all’art. 1, specifica che “La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”.

A livello biochimico è noto che i mitocondri dei neuroni restano funzionali fino a 10 ore dal decesso, questo ha fatto ipotizzare che una adeguata riperfusione del cervello, dopo la morte, potesse riattivare il metabolismo cellulare (Tatarkova Z 2016).

Resurrezione cerebrale: lo studio

Un recentissimo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature del 17/4/19: Restoration of brain circulation and cellular functions hours post-mortem (tradotto: Ripristino della circolazione cerebrale e delle funzioni cellulari ore dopo la morte). In questa ricerca alcuni scienziati della Yale School of Medicine, nel quadro della NIH Brain Initiative, hanno connesso i cervelli prelevati a dei maiali in un mattatoio, ad un sistema di perfusione esterna in grado di sostituire la circolazione sanguigna. Questa tecnica ha permesso di ripristinare alcune funzioni fondamentali delle cellule cerebrali, come la capacità di produrre energia consumando zuccheri e producendo anidride carbonica.

Nello specifico sono state prelevate da un mattatoio le teste di 32 maiali, da queste è stato estratto il cervello e sottoposto a perfusione artificiale connettendo i principali rami arteriosi ad una macchina chiamata BrainEx. È opportuno ricordare che tale connessione è avvenuta a ore di distanza dalla morte.

Con questo sistema, i ricercatori sono riusciti a ripristinare ex-vivo la circolazione sanguigna e mantenere in vita i neuroni del cervello di maiale, parecchie ore dopo la morte dell’animale.

Resurrezione cerebrale: il sistema BrainEX

Con un sistema di pompe viene artificialmente irrorato con sangue artificiale a 37°C l’intero cervello isolato di maiale. Il sangue artificiale – costituito da una soluzione acellulare a base di emoglobina – apporta ossigeno e nutrienti al parenchima cerebrale, sostenendo il metabolismo e le funzioni cellulari. Insieme all’ emoglobina vengono somministrati anche sostanze protettive, stabilizzanti e agenti di contrasto. Tale soluzione viene chiamata BEx perfusato.

Resurrezione cerebrale: i risultati

Il sistema BrainEx in 6 ore ha ripristinato la perfusione nei principali vasi arteriosi riducendo la morte cellulare e ripristinando alcune funzioni cellulari, compresa la formazione di connessioni tra i neuroni (sinapsi). L’esperimento non ha risvegliato l’attività elettrica dei neuroni, ma solo un attivo metabolismo cerebrale.

Sebbene i neuroni si siano dimostrati in grado di condurre uno stimolo elettrico trasmesso dall’esterno, il team di ricercatori non ha rilevato una coordinazione nella scarica dei potenziali d’azione: il tipo di attività elettrica organizzata associata a percezione e consapevolezza. I neuroni non hanno dunque mostrato nessun segno di coscienza.

I ricercatori hanno scelto di non utilizzare la perfusione artificiale per lunghi periodi e non hanno usato strumenti per cercare di ottenere una coordinazione degli impulsi elettrici per la scarica dei potenziali d’ azione come ad esempio l’ elettroshock.

Resurrezione cerebrale il primo esperimento su cervelli di maiale img

IMM. 1 – Immunofluorescenza di una sezione di cervello di maiale a 10 ore dalla morte in condizioni naturali (a sinistra) e in caso di perfusione con BrainEx (a destra) iniziata quattro ore dopo il decesso. I neuroni sono in verde, gli astrociti in rosso; i nuclei cellulari in blu. (Cortesia Stefano G. Daniele & Zvonimir Vrselja; Sestan Laboratory; Yale School of Medicine)

Resurrezione cerebrale: utilizzo clinico

Il lavoro dimostra che il cervello, in condizioni opportune, ha capacità di recupero metabolico e neurofisiologico dal danno ischemico e anossico maggiori di quanto comunemente supposto. Offre l’indubbio vantaggio di consentire lo studio di un cervello di grandi dimensioni in uno stato di minima funzionalità per valutare l’ efficacia di terapie per combattere il danno ipossico ischemico. In condizioni normali, lo studio di un cervello post mortem è ostacolato da processi coagulativi nel microcircolo, dalla morte cellulare e dalla liberazione di sostanze tossiche date dalla lisi cellulare. Per eliminare tali inconvenienti si utilizza il congelamento che consente esclusivamente analisi di tipo microscopico.

Questo tipo di perfusione offre, al contrario, la possibilità di studiare un cervello senza gli artefatti legati alla morte e con un metabolismo cellulare in atto; è bene specificare che non si tratta di un un cervello vivente, ma è un cervello attivo a livello cellulare.

Resurrezione cerebrale: problemi bioetici

È bene ricordare che questa metodica ha consentito un ripristino della funzionalità cellulare ma non dell’ attività cerebrale. Avere delle cellule vitali non corrisponde al recupero di una, anche minima, funzione cerebrale.

La metodica descritta prevede l’ estrazione del cervello e la connessione al sistema di perfusione, pertanto, se anche fosse ipotizzabile un trattamento terapeutico, ci dobbiamo chiedere se sarebbe giusto tentare di ripristinare la coscienza in un organo espiantato dal proprio corpo.

Molto utile, al contrario, è l’ utilizzo di tale metodica per lo studio del danno ipossico-ischemico a livello neuronale.

Amare uno stalker (2015): vittime e stalker manipolatori, prede e predatori – Recensione del libro

Ruben De Luca, con la collaborazione di Alisa Mari, nel libro Amare uno stalker, spiega come i manipolatori strutturano la loro realtà con l’obiettivo di sedurre e possedere la persona amata.

 

I personaggi del libro Amare uno stalker sono le vittime, o prede, e gli stalker manipolatori, o predatori. In genere le prime appartengono al genere femminile, i secondi sono uomini. La voce narrante ci accompagna nel viaggio della scoperta delle regole sottostanti tale predazione, delle fragilità, utilizzando un linguaggio semplice e contenuti di qualità, sviluppati con l’osservazione pluriennale dei casi, e che potremmo in parte riassumere così:

Credo che questo sia il nucleo del problema: amare troppo 

La psicologia del predatore

Il primo capitolo di Amare uno stalker illustra il funzionamento mentale del predatore, la sua psicologia, come essa viene influenzata fortemente dal condizionamento culturale attraverso i racconti e le storie condivise, ad esempio le favole.

Il femminicidio appare un fenomeno presente nei mass media; i giornalisti, riportando fatti di cronaca, tendono a fornire una sorta di giustificazione alla violenza perpetrata sulle donne per mano degli uomini, spesso ex-partner. L’utilizzo di parole come “perdita di controllo”, riferita all’assalitore, oppure facendo riferimento alla possibile distorsione della realtà, potrebbe formare l’idea scorretta che l’assassino possa non scegliere di agire.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito alle battaglie per l’emancipazione femminile; l’acquisizione della parità uomo-donna ha prodotto, e produce, forti cambiamenti sul senso e significato della convivenza nella coppia, nonché sulla ripartizione di diritti e doveri. Emergono nuove possibilità per le donne che le rendono meno deboli, acquisendo così forza nella società; la conseguenza diretta vede l’uomo diventare a sua volta meno forte, fino a perdere i privilegi sociali.

Agli uomini non piace la sensazione di perdere il controllo dopo la fine della relazione sentimentale; come tuttavia sottolinea l’autore, “fortunatamente la maggior parte degli uomini non diventa violenta […]”. I nemici sono il manipolatore, lo psicopatico e l’uomo violento.

Nel testo Amare uno stalker sono elencate le modalità comportamentali e comunicative (frasi tipiche) utilizzate dai predatori durante sia il corteggiamento e sia la relazione successiva.

Ma come fare per difendersi dal pericolo?

Con la fuga! La vittima potenziale è corteggiata amabilmente, vive emozioni definite romantiche, quasi uniche. Ci si sente veramente amate, senza accorgersi di entrare in dinamiche relazionali pericolose nel medio e lungo periodo. Scappare subito è difficile, ciò nonostante permette di evitare il dolore quando il partner ideale mostrerà il “lato oscuro”.

Di seguito sono elencati i mutamenti responsabili della crisi del maschio contemporaneo:

  • Costante processo di liberalizzazione nella sfera sessuale
  • Introduzione del divorzio e aumento della lunghezza della vita media
  • Tendenza a ruoli coniugali paritari all’interno della famiglia
  • Diffusione della contraccezione femminile e pratiche per il contenimento volontario contenimento della natalità
  • Sostituzione della famiglia
  • Scomparsa delle famiglie che seguono il modello patriarcale

L’uomo manipolatore

La mancanza di senso di colpa, di rimorso e di empatia sono caratteristiche dei partner psicopatici, soggetti oltremodo abili nel rintracciare nella folla persone fragili:

se lui non prova emozioni verso il prossimo e non gli importa del genere umano, siete sicure che proverà emozioni per voi e gli importerà qualcosa vedendovi soffrire?

Le persone non psicopatiche hanno paura di fronte al pensiero di subire dolore o punizione, meccanismo che le tutela dal compiere atti criminali; nello psicopatico tale emozione è superficiale, cognitiva e non rappresenta un freno inibitore funzionale.

Perchè “la donna non smette di essere vittima”

Come sostiene l’autore, per iniziare il cammino verso la libertà dalla relazione inappropriata e patologica la vittima necessita della presa di coscienza delle emozioni, della consapevolezza di come ama, i punti deboli e gli schemi mentali utilizzati in determinate situazioni.

In un’ottica dualista, vengono proposti i concetti base dell’amore femminile, confrontandoli successivamente con quelli tipici maschili. Spesso le paure che ostacolano la fuga dalla relazione tossica nascono da concetti culturali, i quali inducono modalità di pensiero programmate e finalizzate a resistere nella relazione stessa; non solo, ma ad esse si aggiungono e si intrecciano anche aspetti legati alla propria storia di vita personale.

Il complesso di Cenerentola e la ricerca del Principe Azzurro ne rappresentano due esempi, ben sviluppati nel testo.

[…] proprio perché si tratta di concetti che si annidano nell’inconscio e lavorano in modo silenzioso, la loro influenza è davvero potente nel condizionarvi a pensare che non potrete mai sentirvi veramente complete se non sarete dentro una relazione amorosa.

Analizzando la favola del Principe azzurro, i lettori sono condotti a riflettere su come “finalmente inizia a diffondersi il messaggio che anche un uomo con dei difetti può essere perfetto per una donna, in quanto autentico”.

La Sindrome della Crocerossina impedisce alle donne di emanciparsi dalla ricerca del “lato buono” nel partner manipolatore. Tale ricerca è il meccanismo di difesa dalle proprie fragilità ed insicurezze, rappresenta la trappola che agevola la prigionia all’interno della relazione tossica. La decisione di perseguire nella sofferenza potrebbe essere espressione del proprio fallimento; l’errore della valutazione del partner è un processo difficile da realizzare, la sensazione esperibile potrebbe essere molto negativa, forse insopportabile. Tuttavia è meno distruttiva dell’accettazione autolesionistica di abusi e violenze all’interno della coppia.

Quali sono le trappole che conducono a persistere in una relazione dove la manipolazione è il meccanismo principe?

L’autore di Amare uno stalker elenca le trappole sostenendo che molte possiedono similitudini e spesso ne entrano in gioco più di una contemporaneamente. Nel dettaglio, codeste sono la Paura e il Senso di colpa, Vivere la Fantasia e non la Realtà, la perdita del Punto di vista, l’Ambiguità, Spostare il limite del possibile e il Pensiero magico.

Nel testo si sottolinea che il femminicidio non è quasi mai un reato generato da un raptus improvviso, bensì comportamento violento di cui sono elencate le fasi specifiche. Insieme formano il modello generale di violenza maschile nei rapporti di coppia.
La seduzione come primo approccio e madre di tutti i dolori relazionali conduce alle problematiche discusse attraverso l’isolamento della preda, la tensione, l’attacco del predatore, le scuse e la riconciliazione. Ogni fase è ben descritta e accompagnata dalle affermazioni tipiche che il manipolatore propone per portare a fine il suo scopo.

Quando una persona ama troppo significa che ama non abbastanza se stessa, di conseguenza l’amore dell’altro deve essere meritato. Il bisogno di essere amati, il senso di inadeguatezza, il timore dell’abbandono, in concerto conducono all’annullamento di sé, la sensazione di morire che segue il rifiuto o la violenza pongono le basi per l’identificazione del rapporto, luogo in cui la necessità di contare qualcosa, nonostante il dolore, riduce l’angoscia.

Per concludere

Come sottolineato, non tutti gli uomini sono manipolatori e violenti, sebbene le donne che “amano troppo” abbiano maggiori probabilità di incontrarli.

In ultima analisi e come considerazione personale, non limiterei il problema e il dramma che ne può seguire, solo alle donne vittime di uomini, ma amplierei i concetti anche nei confronti di uomini che incontrano donne manipolatrici e alle coppie omosessuali.

Amare uno stalker è un bel libro, scritto con ardente volontà di aiutare, sostenuto da un’ottima preparazione ed esperienza dell’autore, la cui lettura credo possa essere di notevole aiuto alle vittime di tali dinamiche. Nell’accezione preventiva, inoltre potrebbe costituire la conoscenza necessaria a riconoscere il fenomeno, evitarlo e/o aiutare sia coloro maggiormente esposti e vulnerabili sia chi subisce violenza all’interno della trappola amorosa patologica.

Avere memoria di un’esperienza mai vissuta

Veniamo al mondo con una cassetta degli attrezzi tale che, dalla nascita, per tutta la nostra esistenza, possiamo apprendere e rispondere prontamente ed efficacemente agli stimoli ambientali esterni..

In stretta associazione all’apprendimento vi è un altro “attrezzo” che ci consente di sopravvivere: la memoria ovvero la capacità di codificare, immagazzinare e recuperare associazioni, precedentemente apprese, tra stimoli esterni ed eventi emotivamente salienti sia di natura appetitiva che avversiva.

Memoria: ci consente di sopravvivere

Per poter sopravvivere nell’ambiente infatti qualsiasi animale ed essere umano ha necessità di ricordare, cioè di recuperare informazioni preziose sulle esperienze passate simili o riconducibile a quella attuale e qual è stata la risposta adattiva e funzionale in quella circostanza; queste informazioni sono fondamentali a rispondere all’ambiente in modo adeguato (Josselyn, Köhler & Frankland, 2015).

In questa prospettiva, l’esperienza che facciamo del mondo esterno e che poi viene immagazzinata sembrerebbe essere costituita, nelle forme più semplici, da associazioni stimolo-risposta contigue temporalmente, nelle quali è presente uno stimolo condizionato (CS) legato ad uno stimolo incondizionato (US) che danno origine ad una “traccia”, conservata in memoria, che guida scelte e comportamenti futuri promuovendo rispettivamente evitamenti o ricerca degli stimoli (Johansen, Cain, LeDoux et al., 2011).

Gli studi sui processi mnestici, tramite innovative e recentissime metodologie di imaging, elettrofisiologia e optogenetica, hanno nel corso del tempo identificato con una sempre maggior precisione sia le componenti chiave delle tracce di memoria, i circuiti e le aree cerebrali sottostanti, sia quei pattern di attività neuronale che corrispondono e realizzano nel cervello una determinata esperienza (Tonegawa, Liu, Ramirez et al., 2015).

Pertanto, dato il livello attuale e dettagliato di comprensione circa la localizzazione, la formazione, la codifica delle memorie, potrebbe essere di conseguenza possibile modulare i processi mnestici e impiantare, ad esempio, in modo artificiale la memoria di un evento di cui non si è mai avuta esperienza diretta.

Memoria: è possibile crearne una su eventi mai successi?

Utilizzando il paradigma classico di condizionamento in associazione a tecniche di stimolazione elettrica intracranica e di optogenetica, Vetere, Josselyn, Frankland e colleghi del Program in Neurosciences and Mental Health all’Hospital Sick for Children e del dipartimento di fisiologia, psicologia e scienze mediche dell’Università di Toronto, nella loro ricerca recentemente apparsa su Nature Neuroscience, hanno stimolato precise zone del sistema olfattivo dei topi innestando un condizionamento artificiale a seguito del quale gli animali hanno messo in atto rispettivamente comportamenti di ricerca e di evitamento nei confronti di un odore neutro mai realmente annusato.

Al fine di innestare la memoria di un odore, è stato necessario adottare due criteri: il primo ha previsto che l’apprendimento dell’associazione tra odore (CS) e il rinforzo o la punizione (US) avvenisse interamente a livello intracranico, tramite cioè diretta stimolazione elettrica cerebrale; il secondo che fosse dimostrata la presenza della memoria innestata attraverso la successiva presentazione di un cue esterno “reale” legato all’associazione appresa artificialmente, in modo tale da osservare nel comportamento del topo il contenuto dell’informazione immagazzinata costituita dall’associazione stimolo risposta “appresa”.

La scelta di utilizzare come cue reale un odore è giustificata dal fatto che l’organizzazione anatomica del sistema olfattivo dei topi è stereotipata e semplice, tale da facilitare la somministrazione di stimolazioni elettriche in specifiche popolazioni di neuroni olfattivi.

Inoltre, nel sistema olfattivo dei topi esistono popolazioni di neuroni che sono selettivamente preposte alla codifica di odori neutri precisi come l’acetofene e il carvone.

Memoria: i risultati della ricerca

Innanzitutto i ricercatori hanno condizionato i topi per la formazione di una reale memoria olfattiva associando l’acetofene ad un moderato shock elettrico tramite addestramento: come atteso, durante la fase di test, i topi realmente condizionati hanno evitato la porzione della gabbia intrisa di acetofene e tendevano a spostarsi verso l’angolo in cui era presente l’altro odore neutro.

A questo punto, per investigare se fosse possibile sostituire la presentazione reale dell’acetofene con una diretta stimolazione elettrica, i ricercatori l’hanno somministrata nell’area neuronale olfattiva disposta nell’epitelio nasale, composta da popolazioni di neuroni che si attivano specificatamente per l’acetofene, trovando che, nonostante questi topi non fossero stati realmente condizionati ed esposti all’acetofene, hanno mostrato i medesimi comportamenti di evitamento nei confronti di quest’odore come osservato nel gruppo di topi precedente.

Per quanto riguarda l’innesto di una memoria appetitiva e la determinazione nei topi di un comportamento di approccio nei confronti dell’acetofene, è stata somministrata la medesima procedura sperimentale di condizionamento classico, nella quale però è stata modificata l’associazione tra odore e stimolo avversivo sostituito ora con una ricompensa di cibo.

Gli effetti della procedura si sono rivelati i medesimi: nel gruppo di topi che non aveva avuto esperienza reale dell’odore ma solo la stimolazione, si sono osservati comportamenti di approccio e di ricerca dell’acetofene.

Memoria: in futuro avremo quella artificiale?

Questo straordinario studio (Vetere, Josselyn, Frankland et al., 2019) ha evidenziato come sia possibile bypassare interamente l’esperienza sensoriale reale e impiantare nei topi una memoria artificiale attraverso una diretta stimolazione e modulazione elettriche di specifiche aree e circuiti cerebrali, in parte sovrapposti e che possono quindi produrre segnali neurali associati sia all’evitamento che alla ricerca, che controllano riflessi motori condizionati in popolazioni di roditori coscienti e attivi.

Tuttavia persistono delle questioni ancora aperte in particolare sulla natura stessa dell’ “esperienza” che costituisce la traccia di memoria: può infatti una mera stimolazione di neuroni olfattivi indurre una sensazione olfattiva per come la conosciamo, sia piacevole che spiacevole?

E ancora: se fosse possibile riproporre anche negli umani le medesime procedure, potremmo considerare la mera attivazione neurale come un’esperienza tout court in assenza della percezione consapevole di uno stimolo fisico esterno?

E se anche riuscissimo a fare questo, quali potrebbero essere le implicazioni del poter scegliere semplicemente di dimenticare ciò che è stato troppo doloroso e sostituirlo con qualcosa di più piacevole?

Nuove frontiere nella cura del trauma 2019. L’elaborazione dei ricordi traumatici nei disturbi dissociativi e traumatici complessi – Report dal convegno di Venezia

Non tradisce le aspettative dei suoi ormai affezionati partecipanti l’ VIII edizione del Corso Internazionale Nuove Frontiere nelle Cura del Trauma, svoltosi a Venezia dal 26 al 28 aprile 2019, anche quest’anno dedicato alla fase di elaborazione.

 

D’altra parte, con il contributo di ospiti come Dolores Mosquera e Kathy Steele, ormai “storiche” protagoniste di questo corso, era una scommessa destinata al successo.

Trauma complesso e dissocazione: i focus del convegno

Dal 2012, infatti, questo corso di alta formazione rappresenta un appuntamento prezioso e arricchente nel panorama della dissociazione e del trauma complesso, riunendo ogni anno terapeuti che lavorano con il trauma provenienti da tutta Italia (e non solo) sotto la guida di esperti di fama internazionale.

Seguito e completamento della scorsa edizione, il lavoro si è dunque concentrato sulla fase 2 del trattamento, dedicata all’elaborazione delle memorie traumatiche, secondo il Modello Trifasico già proposto da Janet (Janet, 1898) e poi sviluppato dalla recente psicotraumatologia, all’interno della cornice teorica della Dissociazione Strutturale (van der Hart et al., 2006).

Il valore aggiunto di questa edizione è stato l’intervento congiunto delle due relatrici principali, che hanno accompagnato i partecipanti attraverso le sfide del lavoro clinico dando un efficace esempio di integrazione di alto livello, mescolando con sensibilità, in uno splendido coro a due voci, l’energia di Dolores Mosquera e l’ironica delicatezza di Kathy Steele.

Il lavoro con i ricordi traumatici

Attingendo con generosità alla loro esperienza clinica, portando esempi e registrazioni video di sedute con i loro pazienti, Mosquera e Steele, hanno mostrato come condurre il delicato e importantissimo lavoro di elaborazione delle memorie traumatiche fino all’integrazione, in una continua co-costruzione con il paziente, sempre attente a valutare momento per momento “cosa funziona per questa persona in questo momento qui davanti a me” calibrando interventi tecnici all’interno di una cornice relazionale solida ma in continua evoluzione.

Iniziare il lavoro con i ricordi traumatici pone subito una questione delicata e fondamentale: quando deve essere affrontato? La grande (e assolutamente doverosa) attenzione alla necessità di stabilizzare il paziente prima di iniziare il lavoro sulle memorie traumatiche porta spesso i clinici ad un atteggiamento eccessivamente prudente, per cui possono passare molti anni prima che si decida di iniziare la fase 2. Tuttavia, sottolinea Mosquera, per alcuni pazienti non lavorare fin da subito su alcuni aspetti del trauma rappresenta un pericolo, a causa delle intrusioni che interferiscono pesantemente con la vita quotidiana.

Parlare dell’esperienza traumatica è importante perché creare una narrazione autobiografica aiuta a creare significato e a smettere di rivivere l’esperienza, ma l’intensità del richiamare il ricordo deve essere attentamente valutata rispetto ai punti di forza e ai limiti dei singoli pazienti. Punto di fondamentale importanza è mantenere sempre l’attenzione duale presente/passato, la connessione con il terapeuta, la connessione con il sé, rimanendo nella zona di resilienza, controllando sempre che tutto il sistema, tutte le parti, siano radicate nel presente e attivamente entro la “finestra di tolleranza” (Siegel, 1999).

In questo lavoro la relazione terapeutica è di primaria importanza e il terapeuta deve fare molta attenzione ai rischi controtransferali del lavoro con questo tipo di pazienti: evitamento/invischiamento, troppo/troppo poco, esperienza che rispecchia la dualità dell’esperienza dei pazienti stessi.

Il lavoro con i Disturbi Dissociativi e il PTSD complesso porta con sé delle sfide davvero impegnative e per procedere con l’elaborazione dei ricordi traumatici occorre avere un’idea abbastanza chiara del sistema interno del paziente, delle sue risorse, delle sua capacità integrative, di quanto siano intense la fobia per l’esperienza interna, la fobia per i ricordi traumatici, la fobia per l’attaccamento e la perdita dell’attaccamento, di quale sia e quanto sia forte il conflitto fra le parti.

Il lavoro con la resistenza è il lavoro con il trauma

 Mosquera e Steele insistono molto sull’importanza dell’incoraggiare i pazienti sempre rispettando i tempi di tutte le parti, senza forzare l’elaborazione, facendo frequenti verifiche su come il sistema interno stia reagendo al lavoro in quel momento, chiedendo il consenso e ponendo sempre molta attenzione all’equilibrio fra elaborazione e stabilizzazione.

Il lavoro sulle memorie traumatiche pone il clinico di fronte a resistenze e blocchi. Come sottolinea Kathy Steele, il lavoro con la resistenza è IL lavoro con il trauma, non qualcosa che intralcia il lavoro. La resistenza è, infatti, una protezione contro un’integrazione che il sistema del paziente, o una parte di esso, vive come pericolosa. Questi pazienti hanno sperimentato l’impotenza, temono la perdita di controllo e la violazione dei loro confini: per questo quanto più la resistenza è severa ed egosintonica, quanto più occorre dar loro controllo e potere nel processo terapeutico, procedendo sempre per piccoli passi, con estremo rispetto.

L’elaborazione dei ricordi traumatici con questi pazienti non è un processo “tutto o nulla”, ma un delicato svolgimento in cui il pacing, il ritmo, e il timing vanno attentamente calibrati sul singolo paziente, dosando attentamente quanta parte dell’esperienza traumatica possa tollerare quello specifico paziente in quello specifico momento. In caso di dissociazione strutturale è necessario adottare un approccio graduale a piccoli passi, utilizzando tecniche che aiutino i pazienti a rimanere nella finestra di tolleranza, come la titolazione (elaborare piccoli momenti di esperienza, una “goccia” alla volta), la gradualità (incrementare lentamente la quota di esperienza con cui lavorare) e il pendolamento (muoversi avanti e indietro tra un’esperienza positiva e una negativa allo scopo di allargare la finestra di tolleranza e favorire l’elaborazione) (Steele et al., 2018).

Mosquera parla dell’approccio progressivo con l’EMDR (Gonzalez e Mosquera, 2015), mentre Kathy Steele offre l’esempio di tecniche mutuate dalla tradizione ipnotica, ma, al di là della specifica tecnica, entrambe mostrano come lavorare in modo efficace con i Disturbi Dissociativi e il PTSD complesso sia un’arte delicata di continua sintonizzazione e cooperazione con il paziente, che poggia però le sue fondamenta su una solida base teorica che aiuta il clinico ad orientarsi e a scegliere il passo successivo.

A conclusione della fase di elaborazione, prendendo nettamente posizione rispetto al dibattito attuale su quanto sia davvero necessaria l’integrazione come obiettivo finale della terapia, Kathy Steele ha sostenuto con forza l’utilità di portare i pazienti all’integrazione: la dissociazione rappresenta sempre un elemento di fragilità, e quindi di rischio, per la persona. E’ dunque obiettivo della terapia quello di integrare tutte le parti portando verso un’organizzazione continuativa della personalità.

Il Maladaptive Daydreaming

Contributo innovativo di questa edizione è stato quello di Eli Somer, professore di Psicologia Clinica presso l’Università di Haifa (Israele) ed ex presidente della ISSTD (Società Internazionale per lo Studio del Trauma e della Dissociazione) e della ESTD (Società Europea per lo Studio del Trauma e della Dissociazione).

Somer ha presentato il suo nuovo costrutto diagnostico di Maladaptive Daydreaming (MD), ovvero un’attività fantastica, estensiva, elaborata ed intenzionale, accompagnata da movimenti ripetitivi, che viene messa in atto come una sorta di fuga dalla realtà e assorbe moltissimo tempo, interferendo nella vita quotidiana della persona e portando ad un disagio significativo, tanto che viene spesso vissuta come una compulsione o una dipendenza.

Il MD è un assorbimento dissociativo che sembra basato su di un tratto che queste persone si riconoscono fin dall’infanzia, ovvero la capacità di sognare ad occhi aperti, come una forma internalizzata di gioco molto gratificante. Ciò che distingue il MD da una non patologica tendenza a fantasticare è proprio il disagio che provoca e l’interferenza con le normali attività della vita quotidiana.

Lo stato della ricerca lascia ancora molte domande aperte ed il costrutto è ancora in fase di studio, ma dai primi risultati sembra avere una propria identità distinta, misurata e diagnosticata in maniera affidabile attraverso specifici strumenti. Emerge inoltre un’alta comorbilità con diversi disturbi psichiatrici e una certa correlazione con esperienze traumatiche infantili. Senz’altro interessanti saranno gli sviluppi futuri della ricerca, che andranno rivolti anche a chiarire il tipo di relazione con i Disturbi Dissociativi.

Ancora una volta l’appuntamento annuale in laguna si è rivelato ricco di spunti clinici e occasione di confronto preziosa con chi da anni si occupa ad altissimi livelli di dissociazione e sviluppo traumatico. Questa edizione, forse più di altre, ha accompagnato i partecipanti in direzione di una sempre maggiore integrazione: non solo nei contenuti, proseguendo verso la conclusione della fase 2 del trattamento, ma anche nella forma, grazie al continuo scambio fra le due relatrici principali, che, pur partendo da metodi e stili diversi, hanno saputo operare una sintesi organica e chiara, fondamentale per orientarsi nel complesso lavoro con questi disturbi.

Stop all’ansia sociale. Strategie per affrontare e gestire la timidezza (2018) di N. Marsigli – Recensione del libro

Provare ansia in situazioni sociali è normale, il libro Stop all’ansia sociale ci insegna però che non possiamo evitare il giudizio degli altri in quanto giudicare e avere opinioni sulle altre persone fa parte della natura umana.

 

Il disturbo d’ansia sociale è comune e diffuso: sembra infatti che ne soffra almeno il 6% della popolazione generale. Il disturbo affligge sia uomini che donne e tende a svilupparsi dalla prima adolescenza. Chi ne soffre teme il giudizio degli altri sia durante la messa in atto di una performance, come ad esempio parlare in pubblico, sia durante le normali azioni della quotidianità, come entrare in un negozio per fare acquisti. Una persona con un disturbo d’ansia sociale tende ad affrontare le situazioni temute con un carico di tensione molto elevato e arriva addirittura a evitarle completamente. Inoltre, non è raro che chi soffre di ansia sociale usi l’alcool o altre sostanze allo scopo di moderare l’ansia e diminuire la sofferenza.

Come è possibile spiegare tale disturbo? Per ragioni evoluzionistiche, il cervello identifica il rifiuto sociale come una grave minaccia: infatti all’epoca dei nostri antenati vivere in gruppo era essenziale per aiutarsi reciprocamente a cacciare, a procurarsi il cibo, a crescere i figli e a difendersi dai pericoli, ma al giorno d’oggi di solito il rifiuto è un normale evento sociale che non implica gravi conseguenze.

Il libro Stop all’ansia sociale. Strategie per affrontare e gestire la timidezza spiega che è normale continuare a provare ansia e non possiamo evitare il giudizio degli altri in quanto giudicare e avere opinioni sulle altre persone fa parte della natura umana.

I contenuti del libro

Chi soffre di ansia sociale tende a percepire e immaginare di essere costantemente al centro dell’attenzione nelle situazioni sociali e teme di essere giudicato negativamente. L’ansia non compare solo durante l’evento, ma è anche anticipatoria e relativa al post-evento, ossia una persona continua a provare sofferenza anche dopo aver affrontato la situazione temuta. Questo comporta una diminuzione della qualità di vita per queste persone, dato che si è portati a privarsi di varie attività piacevoli e/o importanti come, ad esempio, mangiare al bar con gli amici, andare a una cena e perseguire altri obiettivi che implicano l’esposizione in pubblico nonché la possibilità di essere giudicati.

Il libro Stop all’ansia sociale, oltre a fornire una descrizione esaustiva del funzionamento di una persona con il disturbo d’ansia sociale, spiega le tipiche distorsioni cognitive e i vari fattori di mantenimento del disturbo, espone inoltre diversi esercizi sia per il trattamento, sia per affrontare le ricadute.

L’utilizzo degli interventi sul corpo nella formulazione del caso in TMI

Gli interventi sul corpo in Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) rendono possibile una formulazione del funzionamento precisa, ricca di dettagli e condivisa con il paziente, presupposto basilare per iniziare un buon lavoro sul cambiamento.

Vittoria Galasso e Luisa Buonocore

 

La Terapia Metacognitiva Interpersonale assegna, come primo compito al terapeuta, la ricostruzione del funzionamento del paziente a partire dalla raccolta di episodi precisi, concreti, tangibili in cui emerga chiaramente il modo in cui egli si muove nell’ambito delle dinamiche relazionali.

Tuttavia, spesso ci troviamo davanti a pazienti che hanno difficoltà a raccontare la loro esperienza. Sono pazienti con bassa autoriflessività, incapaci di recuperare episodi narrativi o di descrivere con chiarezza l’esperienza interna che li accompagna. Con questi pazienti è facile che la seduta diventi improvvisamente ricca di silenzi.

È stato così con Elena, una ragazza di 21 anni, minuta e taciturna, molto taciturna. Faceva fatica a sostenere lo sguardo, sedeva sulla punta della sedia, con i polpacci tesi, come se fosse pronta a scappare. Le spalle erano chiuse e basse, le braccia rigide e tese. Vani sono stati gli sforzi di evocare episodi specifici o di riflettere su come si stava sentendo in seduta, sempre un’unica risposta: “non lo so, non so rispondere”.

Restava in seduta tanto tempo per osservare la ragazza. Il suo corpo mostrava la sua storia: Elena ha vissuto episodi ripetuti e molto gravi di umiliazione e presa in giro da parte di alcuni coetanei, durante gli anni delle scuola primaria e secondaria. Ha sviluppato un’aspettativa di umiliazione da parte degli altri e un’immagine di sé inadeguata in risposta al proprio desiderio di accettazione. Sul piano corporeo si notava un assetto motorio che rinforzava in modo implicito e procedurale l’idea di sé inadeguata.

Le esperienze relazionali problematiche condizionano in modo significativo il mondo interno del paziente e lasciano traccia nella mente e nel corpo. Sappiamo che la sofferenza dei pazienti è spiegata in gran parte da schemi maladattivi, rigidi e disfunzionali, attraverso cui il paziente interpreta le dinamiche interpersonali. Questi schemi rappresentano un sistema di previsione di aspettative, riguardano il modo in cui ci si aspetta che gli altri reagiranno ai nostri desideri e bisogni, e si sviluppano a partire dalle esperienze relazionali precoci. Gli schemi sono, quindi, copioni relazionali in cui sedimenta l’esperienza che un individuo ha avuto con figure significative nell’arco della propria vita. Tali schemi hanno una natura implicita e procedurale: sono fatti di pensieri, convinzioni, comportamenti interpersonali ma anche di abitudini corporee che si esplicitano in specifici profili di attivazione neurovegetativa, movimenti, tensioni muscolari, posture ed espressioni facciali. Le esperienze interpersonali vissute lasciano traccia anche nel modo in cui il corpo ha vissuto gli eventi.

L’essere stato esposto ripetutamente ad esperienze relazionali traumatiche impatta fortemente sulla costruzione di tali schemi: la sofferenza vissuta in tali esperienze lascia traccia nella mente, in termini di aspettative cognitive ed emotive su come le cose andranno, ma anche nel corpo (Ogden, Fisher, 2015; La Rosa, Onofri 2017; Liotti, Farina 2011; Porges, 2014; Van der Kolk, 2014). Si creano dei meccanismi procedurali automatici che si esprimono sia sotto forma di pensieri e comportamenti che attraverso abitudini corporee stabili. Queste manifestazioni corporee rivelano il processo di adattamento che la persona ha messo in atto per rispondere alle circostanze traumatiche. I contenuti cognitivi degli schemi ed i correlati somatici degli stessi, sono in relazione tra loro e si condizionano a vicenda. Attuare un intervento sul piano somatico equivale ad introdurre una variazione sull’assetto cognitivo che a sua volta inciderà su quello somatico, in un processo di reciproco condizionamento.

Terapia Metacognitiva Interpersonale: il corpo al centro dell’agire terapeutico

Alla luce di tale concettualizzazione, la Terapia Metacognitiva Interpersonale prevede uno specifico protocollo di lavoro, nel quale il corpo assume centralità rispetto all’agire terapeutico, come via di accesso al mondo interno del paziente e al tempo stesso risorsa per il lavoro sugli esiti maladattivi (Dimaggio et al., 2019). Le componenti fortemente dissociative e le difficoltà metacognitive associate che accompagnano i quadri clinici dei pazienti con storie relazionali problematiche portano ad avere scarsi livelli di consapevolezza e ciò contribuisce a rendere il corpo estremamente rilevante nel trattamento.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale trae ispirazione nella definizione degli interventi basati sul corpo da orientamenti teorici diversi, in particolare dalle tecniche bioenergetiche, dalla terapia sensomotoria, dalla tradizione Yoga e dalle arti marziali. Attraverso tali interventi, il paziente viene reso gradualmente consapevole del modo in cui il corpo manifesta i propri vissuti in modo da favorire una migliore consapevolezza che il soggetto ha di sé e degli altri alla luce delle esperienze fatte, favorendo l’autoriflessività. Pertanto, in fase di formulazione del funzionamento, in seduta si chiederà al paziente di porre attenzione allo stato corporeo osservato dal terapeuta, promuovendo una descrizione più dettagliata possibile di tali stati e chiedendogli se abbia sperimentato in altri momenti sensazioni analoghe.

In seduta con Elena, ad esempio, portare l’attenzione sulla postura attraverso interventi di mindfulness integrata relazionalmente (Ogden, Fisher, 2015) ha permesso di lasciar emergere la narrazione degli episodi in cui è stata vittima di bullismo permettendo la ricostruzione dello schema disfunzionale e alle memorie relazionali ad esso associate. Osservando e ricalcando con interventi di tracking la sua postura chiusa, difesa, ma allo stesso tempo tesa, pronta a scappare, Elena stessa ha notato come tale postura era tipica dei momenti successivi alle prese in giro dei suoi compagni di classe, momenti in cui si rifugiava nei corridoi della scuola, pronta a difendersi qualora fosse stato necessario. Tale intervento, ha quindi permesso di accedere a una serie di memorie associate attinenti agli episodi passati e a uno schema disfunzionale in cui il desiderio di accettazione aveva avuto continue risposte di umiliazione. Elena aveva imparato a contrastare la percezione di inadeguatezza che ne derivava con l’inibizione di tale desiderio e l’evitamento delle situazioni sociali. L’intervento sul corpo ha reso possibile una formulazione del funzionamento precisa, ricca di dettagli e condivisa con la paziente, presupposto basilare per iniziare un buon lavoro sul cambiamento.

Ketamina e Depressione: sperimentazione sui topi di laboratorio

La capacità della ketamina di diminuire i sintomi collegati alla depressione in modo rapido la rendono un importante oggetto di sperimentazione scientifica. Per questo motivo è importante capirne appieno gli effetti e le potenzialità per sviluppare nuovi e migliori trattamenti per la prevenzione, la diagnosi e la cura di questo disturbo.

 

Negli ultimi anni si è sentito parlare molto dei rapidi effetti antidepressivi della ketamina a basso dosaggio, che si possono apprezzare nel giro di ore anche nei casi più gravi e che in alcuni casi possono mantenersi per settimane. La capacità unica di questo anestetico di diminuire rapidamente la gravità dei sintomi permette di studiare il substrato cerebrale in modo approfondito durante la transizione fra depressione e remissione, cosa succeda però a livello circuitale non è del tutto chiaro.

Un recente studio sul modello animale (Moda-Sava, et al., 2019) potrebbe aver scoperto come questo farmaco influisca sulle dinamiche cerebrali coinvolte nella depressione.

Lo studio

Usando microscopia a due fotoni e recenti tecniche di optogenetica, i ricercatori hanno dimostrato come lo stress cronico associato a comportamenti depressivi possa causare una riduzione delle spine di specifici alberi dendritici dei neuroni piramidali nella corteccia prefrontale e che, mentre nei controlli molte funzioni coinvolgono diverse cellule attive simultaneamente, nei topi sottoposti a stress cronico la formazione di questi assemblamenti sincroni è meno probabile, e ciò si traduce in una minore connettività funzionale.

La somministrazione di ketamina nei topi ha ribaltato tali effetti, aumentando le spine dendritiche di determinati neuroni, generando nuove sinapsi e ripristinando l’attività coordinata dei cluster cellulari. I risultati mostrano come la riduzione dei sintomi comportamentali e l’aumento della sincronicità neuronale precedano la formazione delle spine, indicando come questa non sia necessaria per indurre gli effetti antidepressivi, sebbene sia cruciale per il mantenimento a lungo termine della remissione.

Comunque, la spinogenesi indotta dalla ketamina nella corteccia prefrontale non ripristina la stessa configurazione connettiva precedente all’induzione di stress cronico e, inoltre, circa il 55% delle sinapsi neoformate viene rapidamente perso. Queste dinamiche sembrano sottendere la spontanea ricorrenza degli episodi depressivi nel tempo, quindi per una riduzione duratura e mantenuta del disturbo potrebbero essere utili interventi farmacologici o neurostimolatori atti a recuperare e preservare le sinapsi eliminate.

In conclusione

La capacità della ketamina di diminuire i sintomi depressivi in modo rapido la rendono un importante oggetto di sperimentazione scientifica. Capirne appieno gli effetti e le potenzialità è un obiettivo fondamentale per sviluppare nuovi e migliori trattamenti per la prevenzione, la diagnosi e la cura dei disturbi dell’umore.

L’utilizzo della LIBET nello sviluppo personale degli allievi. Lectio Magistralis di Sandra Sassaroli al Forum di Riccione

Chiude il Forum di Psicoterapia di Riccione, la fondatrice del gruppo, Sandra Sassaroli. La sala è gremita di allievi, didatti e collaboratori: c’è chi forse assiste per la prima volta a una presentazione di Sassaroli, chi invece ascolta i suoi interventi da una vita. Tutti catturati dalle sue parole.

 

Già il titolo colpisce: “La LIBET nello sviluppo personale degli allievi”. Sandra Sassaroli usa il modello di formulazione del caso Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment (LIBET) per concettualizzare le eventuali difficoltà emotive degli allievi, difficoltà di cui essere consapevoli nel momento in cui si affronta questo difficile mestiere. Si cambia prospettiva, non sono più i futuri terapeuti a esporre i dati raccolti sul loro campione, adesso sono loro il campione.

La LIBET e i limiti della CBT

Si parte dai limiti della cognitive behavioral therapy (CBT), limiti nel delineare le modalità di funzionamento personologico che operano anche in condizioni di bassa minaccia e in modo pervasivo in diverse aree di vita, indipendentemente quindi dal verificarsi di situazioni attivanti. Come spiegare quindi l’interazione tra un livello di vulnerabilità personologica e un cambiamento che determina l’esordio di un sintomo?

La LIBET ci consente di integrare gli aspetti di ricostruzione evolutiva con un approccio CBT a partire da alcune premesse: molti pazienti con disturbi sintomatici mostrano tratti di vulnerabilità significativi nell’area della personalità. La LIBET, continua Sassaroli, permette di conoscere tali tratti di vulnerabilità riuscendo a giustificare l’interazione tra un livello di personalità (funzionamento a bassa minaccia) e un livello sintomatico acuto (funzionamento in situazioni di alta minaccia). Questo consente di muoversi nel corso di tutta la terapia con una concettualizzazione flessibile, costante e fondamentalmente transdiagnostica, e non attraverso una concettualizzazione differente per ogni sintomo. Il sintomo è visto come la rottura di un piano, prima funzionale a evitare la sofferenza.

Piani e temi nella LIBET

Piani e temi sono i due concetti cardine della LIBET. Il tema è una sensibilità che può essere appresa o condizionata evolutivamente in una condizione di frustrazione di bisogni. È un’esperienza con una componente cognitiva, fatta di pensieri automatici su di sé (autovalutativi) e sensazioni corporee. I piani invece sono strategie abituali per mantenere condizioni di sicurezza e prevenire minacce alle vulnerabilità apprese. Essi sono generalizzati, pervasivi e indipendenti dalle circostanze. Vengono attivati con scarsa consapevolezza e con aspetti di ego sintonia che li rendono focali nell’area patologica della personalità. Avendo uno scopo preventivo sono attivi anche in condizioni di bassa minaccia e indipendentemente dalle esigenze delle circostanze. I temi sono essenzialmente tre (minaccia, disamore e indegnità) così come i piani (prudenziale, prescrittivo e immunizzante).

L’intervento LIBET

La LIBET quindi ci aiuta a formulare ipotesi sul funzionamento dei nostri pazienti a condividere queste ipotesi con loro e a utilizzare questa condivisione nella progettazione e nella gestione della terapia. L’intervento LIBET ci aiuta a scegliere un progetto clinico, a costruire una relazione col paziente e a scegliere quali tra le tante tecniche siano quelle giuste per quel determinato paziente, nonché a monitorare l’andamento della terapia passo dopo passo.

La LIBET nello sviluppo personale degli allievi

Dopo l’indispensabile introduzione sulla LIBET ecco che Sassaroli torna agli allievi: cosa dirà di loro la LIBET? Con gli allievi sono stati condotti dei colloqui di sviluppo personale nati dalla necessità di una formazione individuale volta ad approfondire con un esperto il proprio funzionamento in seduta. Questo permette di verificare il benessere degli allievi nei gruppi formativi e con i formatori, di aumentare la consapevolezza del proprio funzionamento come futuri terapeuti e di individuare aree di vulnerabilità o risorse da sviluppare o limitare nel corso della formazione.

Gli allievi, nel corso dei colloqui, riportano a volte storie difficili. Il futuro terapeuta sta acquisendo consapevolezza di queste difficoltà o sta consolidando le intuizioni sulla propria storia evolutiva. Emergono temi dolorosi di cui si era scarsamente consapevoli. Come e quanto le sensibilità dolorose e i piani impattano sul lavoro di psicoterapia?

Risaltano alcuni temi dominanti e più frequenti: molte allieve ad esempio sono state spinte (ai limiti della critica) verso prestazioni eccellenti, queste ragazze accennano a storie di solitudine, di vicinanza legata al dover essere brave a tutti i costi. Il criticismo subìto porta spesso un senso malinconico della propria impossibilità a funzionare in modo da rendere soddisfatti gli altri del proprio lavoro.

Il condizionamento alla minaccia di deludere si sposta così sul timore di deludere i pazienti. Il piano dominante è il prescrittivo: si rimugina, si cerca di non sbagliare, si passano le sedute a controllare di fare bene. Questi ragazzi vivono la terapia (e la vita) come una dura prova di resistenza alle voci interne ed esterne di critica.

I risultati mostrano come per gli allievi questi colloqui siano stati un’esperienza altamente formativa. Molti di loro vorrebbero poter affrontare ancora individualmente i temi trattati durante l’incontro e altri ancora, dopo il colloquio di sviluppo personale, si dicono più attenti ai propri piani e all’influenza di questi sul proprio lavoro e sulle proprie vite.

Anche Sassaroli parla della sua esperienza da conduttrice di questi colloqui: “sono stati un’avventura esistenziale, a volte faticosa, frustrante, fulminante ma anche illuminante e commovente”. Come faticoso ma anche tanto illuminante e commovente è il percorso di specializzazione vissuto dagli allievi (e dai didatti) presenti lì nella platea.

Anche quest’anno il Forum di Ricerca in Psicoterapia del circuito Studi Cognitivi è riuscito pienamente nel suo intento di creare condivisione, non solamente formativa.


Lezione Magistrale – Dott.ssa Sandra Sassaroli LIBET nello sviluppo personale degli allievi – Le slides del convegno

La violenza: un trofeo da esibire su telefonini e social network?

Online e attraverso i social network è ormai possibile condividere praticamente qualsiasi tipo di contenuto e sono soprattutto gli adolescenti a fare uso di questa modalità di comunicazione attraverso l’esibizione del proprio corpo o di attività quotidiane, a volte però la rete viene usata anche per divulgare registrazioni di contenuti di violenza (sessuale o fisica), noncuranti delle possibili ripercussioni a livello legale e dei danni inflitti alla vittima.

Manuela Scarpantoni

 

Ostentare e farsi vedere… Ciò che non si vede non esiste…
(Baltasar Graciàn)

Attualmente, in una società dominata da incertezza, disoccupazione, precarietà economica, i media comunicano notizie (in numero crescente) su fenomeni di violenza (sessuale, fisica, psicologica) esercitata in particolare da gruppi di minori, adolescenti o “giovani adulti”. Quest’ultimi non si limitano a manifestare condotte aggressive o violente ma mostrano e diffondono tali comportamenti, come fossero trofei, mediante video o immagini sui telefonini o sui social network.

I video delle aggressioni e delle torture hanno consentito di attribuire responsabilità precise agli otto giovani sottoposti a fermo dalla Polizia (…) I giovani si sarebbero ripresi con i telefonini mentre sottoponevano la vittima a violenze e torture… per poi diffondere i video nelle chat di Whatsapp (Quotidiano.net; 30 aprile 2019).

I due, dice ancora il giudice, hanno commesso “reiterati abusi” sulla donna… Sono diversi gli spezzoni video ripresi con i cellulari, uno dei quali dura circa sette minuti, e iniziano con la ragazza ancora a terra… (Quotidiano.net; 30 aprile 2019).

La violenza è un’azione o un comportamento inflitto alla persona contro la sua volontà e che reca dei gravi danni (fisici e psicologici). Essa può essere definita come una tendenza all’uso della forza e aggressività.

Alcune condotte violente vengono tollerate in alcune società mentre in altre vengono disapprovate (Masala, Preti, Petretto, 2002).

Diversi autori hanno attribuito significati positivi e negativi all’aggressività. Galimberti (1994), ad esempio, la definisce come una propensione che può essere presente in una fantasia o un comportamento con l’obiettivo di auto o eterodistruzione oppure di autoaffermazione. L’approccio psicoanalitico ha definito l’aggressività sia come una pulsione legata all’istinto di morte (Freud, 1977) o come un elemento importante nel percorso evolutivo dell’individuo (Erikson, 1950; Fenichel, 1945; Klein, 1921).

L’approccio cognitivo-comportamentale ipotizza un collegamento tra cognizione (pensieri, giudizi e teorie) e aggressività (emozione, comportamento), quest’ultima intesa come elemento causato o generante i processi cognitivi. Le situazioni di conflitto con altre persone, ingiustizie ipotizzate o subite, competizione per una quantità di risorse limitata possono generare pensieri, emozioni e comportamenti legati all’aggressività. La Rabbia, più facilmente delle altre emozioni, può creare situazioni di allontanamento, irritazione o critica negli altri (Baldini, 2004).

Disturbi psicologici e aggressività

Secondo il DSM 5, il disturbo esplosivo intermittente e il disturbo della condotta (disturbi diagnosticati nell’infanzia, nella fanciullezza e nell’adolescenza) sono caratterizzati dalla presenza di rabbia e di comportamenti aggressivi impulsivi sproporzionati verso persone e cose (Reichenberg, 2014).

Ostilità e aggressività appartengono ad altre problematiche come il Disturbo Borderline di Personalità dove la disregolazione emotiva e l’impulsività determinano rabbia e comportamenti auto (abuso di sostanze, autolesionismo, suicidio …) ed eterodiretti (abusi, risse…) o il Disturbo Antisociale di Personalità dove la scarsa osservanza delle regole della società porta la persona a manifestare comportamenti violenti (Baldini, 2004). Anche la persona con Disturbo Narcisistico di Personalità, in particolare il narcisista maligno e manipolatore, può sperimentare sadismo ed eccessi di rabbia che in casi estremi possono sfociare in violenza fisica o omicidio. Oltre il Sé grandioso, la persona sperimenta una dimensione di onnipotenza dove le regole non contano, perdono valore. (Kernberg 1975, 1987).

Violenza di gruppo

Molti adolescenti replicano condotte aggressive che vivono costantemente nella loro vita quotidiana: in particolare, riproducono in un altro contesto le regole della vita sociale che sono state trasmesse con modalità dirette o indirette. Alcuni comportamenti violenti possono scaturire da uno stato di mancanza affettiva derivante da un disagio sperimentato in famiglia o nella società in cui il giovane si sente privo di un percorso gratificante di accompagnamento alla crescita e all’autonomia (Bourcet, Tyrode; 2002).

Quando viene emesso un comportamento violento è importante comprendere il collegamento tra la personalità dell’individuo, il tipo di condotta e l’ambiente circostante. Bandura (1986) sostiene che in questa relazione detta “determinismo reciproco e triadico”, ogni elemento influenza e viene condizionato dagli altri fattori della triade. Un ruolo fondamentale viene attribuito alla personalità del soggetto e all’ambiente, ma sono da considerare anche i meccanismi cognitivi impiegati per giustificare la violenza. La giustificazione morale, ad esempio, è un processo attraverso il quale i comportamenti violenti vengono tollerati personalmente e socialmente mediante una ristrutturazione cognitiva (Bandura, 1996). Nelle situazioni di vita quotidiana, tanti atti aggressivi vengono giustificati con l’obiettivo di mantenere l’onore e la nomea (Cohen, Nisbett, 1994). Un altro meccanismo usato può essere quello della diffusione della responsabilità, il quale permette di distribuire fra diversi individui la responsabilità derivante dall’attività violenta e illegale e di comportarsi in maniera crudele. Infine, la disumanizzazione della vittima consente di rappresentare la vittima con caratteristiche indegne e spregevoli, in modo da infliggere azioni spietate ed evitare l’insorgere di emozioni negative come l’angoscia alla vista della sofferenza impartita.

In gruppo, le persone agiscono in modo più disumano rispetto a quando si ritengono individualmente responsabili dei loro comportamenti (Zimbardo, 1969, 1995). Alcuni studi dimostrano che i membri di un gruppo compiono azioni aggressive quando quest’ultime sono interpretate come “ciò che è giusto fare” in una data situazione (Moghaddam, 2002).

Lo stupro compiuto dai giovani in gruppo permette di consolidare l’unione e le regole del gruppo e di svolgere un ruolo importante nella violenza esercitata (Wright e West, 1981). I componenti del branco impiegano maggiormente azioni “affettuose” come baciare o accarezzare la vittima (Holmstrom, Burgess, 1980; Amir, 1971) con lo scopo di motivare quest’ultima a “collaborare” e facilitare lo stupro.

Per un membro di un gruppo, esercitare una violenza significa da una parte favorire la perdita d’identità e di responsabilità personale, dall’altra valorizzare il senso d’identità sociale e l’anonimato (Goldstein, 2002; Krahe, 2001).

Il desiderio di esibirsi mediante cellulari o social network

Attualmente, nella nostra società si assiste ad un comportamento costante, quello di “mostrarsi” non solo in televisione ma anche su Facebook, su Youtube o sui telefonini. L’esibizione è in aumento perché un messaggio da comunicare al mondo è che “ciò che è davvero importante per me” viene trasmesso mediante lo schermo, il telefonino o i social network. Ciò potrebbe essere una strategia per definire il proprio Sé (Avenia, Pistuddi, 2012) e acquisire autostima.

Nel mondo digitale, le immagini trasmesse hanno il potere di comunicare pensieri ed emozioni e di sottolineare la presenza del Sé (Marinelli, 2005). L’identità può essere molteplice e il virtuale diventa uno spazio dove poter aumentare la disinibizione o emancipazione (Pravettoni, 2002).

Mediante l’esibizione di filmati o video, la persona oltre definire il proprio Sé, può soddisfare due bisogni: il bisogno di ammirazione e quello di appartenenza. Le immagini, i progetti e gli obiettivi raggiunti possono essere condivisi con un vasto pubblico in modo tale da ricevere “ammirazione”; in secondo luogo, il rapporto con conoscenti ed estranei attraverso messaggi o video permette di formare e consolidare interazioni sociali (Katz, Blumler, Gurevitch, 1974; Papacharissi, Mendelson, 2011).

Il bisogno di ammirazione e di appartenenza possono essere soddisfatti dalla dimensione dell’“amplificazione”. Sui social network o sul web, un messaggio aggressivo può essere letto da moltissime persone in tutto il mondo e dunque avere un impatto molto differente da quello ipotizzato (Wallace, 2015). Lo stesso si potrebbe dire della diffusione di video mediante cellulari.

Attualmente, l’esibizione non si limita al mostrare ad esempio il proprio corpo o attività quotidiane mediante immagini o video sui telefonini o sui social network, ma riguarda anche il divulgare registrazioni di azioni violente (sessuali o fisiche) essendo noncuranti delle possibili ripercussioni a livello legale e dei danni inflitti alla vittima.

È interessante approfondire se in una persona il desiderio di esibire comportamenti violenti mediante video sui cellulari o social network sia il fattore determinante o la conseguenza di una scarsa osservanza delle regole morali e indifferenza alle conseguenze legali.

Contro il lifelong working: quando la pensione diventa realtà

Nell’attuale scenario lavorativo caratterizzato da flessibilità e precarietà, l’entrata nel mondo del lavoro è sempre più ritardata e, di conseguenza, anche l’uscita.

 

L’aumento dell’età pensionabile fa in modo che, da un lato l’uscita dal mondo del lavoro sia una meta, nella maggior parte dei casi ambita, dall’altro, però, si preannunciano condizioni di lavoro continuo, un lifelong working.

Il pensionamento è quel provvedimento che autorizza o impone la cessazione dell’attività di un lavoratore e il suo inserimento nello status di “pensionato”.

Pensione: una fase di vita

In condizioni legislative favorevoli, il lavoratore riceve l’autorizzazione alla pensione e può decidere di continuare il rapporto di lavoro o terminarlo, andando, appunto, in pensione. Ma cosa implica la scelta di andare in pensione? Innanzitutto, “andare in pensione non vuol dire non lavorare” (Malpede & Villosio, 2009).

Il pensionamento è un cambiamento e, come tale, comporta la costruzione di nuovi equilibri. Nello specifico, la scelta di uscire dal contesto di lavoro è spesso vissuta come una vera e propria liberazione: una liberazione da eventuali costrizioni, come turni di lavoro sacrificanti.

In realtà, con il passare del tempo quel senso di libertà si trasforma in un senso di vuoto esistenziale. Questo aspetto dipende dal fatto che il contesto di lavoro è un ambito di significazione dell’esperienza umana che aiuta a definirsi e ad attribuirsi socialmente un ruolo e uno status. La rottura del contatto con questo livello di significati, soprattutto se brusca e improvvisa, può condurre ad una perdita di senso interpersonale e socialmente costruito. In più, questa scelta non coinvolge esclusivamente il lavoratore, ma tutte le persone che lo circondano, tra cui un ruolo fondamentale è svolto dalla famiglia. Anche in questo contesto, il pensionamento implica un cambiamento, una inversione di ruoli e azioni che, quindi, devono portare a nuovi equilibri e nuovi significati.

Pensione: una fase emotivamente delicata

La condizione più traumatica, invece, si verifica quando la pensione non è una scelta del lavoratore ed è imposta da particolari condizioni fisiche, contrattuali o da altre situazioni. In questo caso, il lavoratore potrebbe reagire con rabbia e depressione, generando anche conflitti e disequilibri familiari. Cosa si può fare allora?

Innanzitutto è necessario essere consapevoli del fatto che le reazioni a questo cambiamento sono soggettive, quindi non esiste una modalità di intervento universale. Bisogna, quindi, iniziare ad indagare il sistema di significati che questo evento impattante ha avuto per la persona in pensione e poi rendere le aspettative sul pensionamento più realistiche e concrete, senza fermarsi a pensare a stereotipi o aspetti oggettivi del vissuto pensionistico. Diventa, così, importante la progettazione, soprattutto di attività che si desiderano fare da tempo e che prevedono l’instaurarsi di rapporti sociali (ad esempio, iscriversi a corsi, fare volontariato, viaggiare). Oltre la progettazione, diventa importante anche l’attuazione delle attività pianificate.

In questi particolari casi, l’intervento dello psicologo e dello psicoterapeuta diventano fondamentali, al fine di restituire una progettualità presente all’ex lavoratore, soprattutto se queste opportunità non sono “visibili” alla persona. La progettualità e la richiesta di aiuto diventano momenti fondamentali durante questo passaggio, poiché “la migliore pensione è il possesso di un cervello in piena attività” (Rita Levi Montalcini).

Internet addiction: la rassegna teatrale Corti da Legare racconta la dipendenza da Internet

L’ultimo incontro, per la stagione 2018-2019 del Nuovo Teatro Orione di Roma, della rassegna Corti da legare, ideata dall’omonima associazione con lo scopo di promuovere conoscenza e informazione in merito a temi di natura psicologica grazie all’utilizzo del teatro, si è incentrato sulla dipendenza da Internet. 

 

Dopo avere analizzato, negli incontri precedenti, le dinamiche psichiche che caratterizzano la dipendenza sessuale, l’ansia e il panico, la psicologia oncologica e il disturbo dissociativo dell’identità, l’evento conclusivo dello scorso 18 aprile ha focalizzato l’attenzione su un malessere quanto mai attuale, profondamente calato nel contesto socio-culturale odierno: la dipendenza da Internet.

Seguendo il consolidato format dello spettacolo accompagnato da uno spazio di confronto tra esperti e pubblico, è andato in scena il corto teatrale “Il cavaliere alla terra inesplorata”, scritto da Claudio Romano Politi e diretto da Igor Petrotto.

Dipendenza da internet: il racconto teatrale dei Corti da LegareImm. 1 – Immagine dallo spettacolo “Il cavaliere alla terra inesplorata”

La dipendenza da Internet raccontata nello spettacolo dei Corti da legare

Sul palco gli attori Igor Petrotto, nella duplice veste di regista ed interprete, e Roberta Azzarone hanno messo in scena la vicenda di una studentessa, alle prese con la stesura della propria tesi di laurea incentrata proprio sul tema della dipendenza da Internet, la quale conosce in chat un ragazzo che ha reso il gioco di ruolo on line l’occupazione principale delle proprie giornate.

La ragazza, dapprima animata da un interesse puramente “accademico” finisce per maturare, rispetto al proprio “oggetto di studio”, un reale coinvolgimento; ciò la porta a cercare il modo di portare il ragazzo fuori dallo spazio virtuale, proponendogli un incontro di persona, non più mediato dalla chat.

Il dibattito successivo, moderato dalla dottoressa Federica Sorino e dall’autore Claudio Romano Politi, ha rappresentato uno spazio di confronto con il pubblico ricco di spunti; la proiezione di un breve video esplicativo che sintetizzava alcune delle modalità attraverso cui la dipendenza da internet può manifestarsi ha offerto al pubblico una cornice teorica di riferimento, per meglio comprendere il fenomeno in esame.

Lo spettacolo ha rappresentato, inoltre, occasione di dibattito rispetto a quanto la dimensione del virtuale sia protagonista attiva delle nostre vite, facendo da contraltare alla vita “reale”.

La rassegna Corti da Legare ricomincerà in autunno con nuovi incontri.

Quanto è veloce il tempo?

Usando variabili sufficientemente sincronizzate fra loro, come il passare dei giorni o i meccanismi degli orologi, è possibile concepire il concetto di quando. Il fisico Carlo Rovelli (2017) interpreta questo fatto spiegando che possiamo integrare alcune informazioni dentro di noi come tracce del passato o come indizi premonitori del futuro, ma che la consapevolezza dello scorrere del tempo è una produzione interna mentale.

 

Anche se la differenza è esigua, con orologi molto precisi è possibile verificare che il tempo scorre più velocemente in montagna che in pianura. Il fenomeno non è dovuto ad un rallentamento dell’orologio e nei laboratori, può essere misurato anche con pochi centimetri di dislivello. Si dice, in questi casi, che ogni orologio ha un tempo proprio. Le scoperte della fisica moderna non descrivono come le cose evolvono nel tempo, bensì come interagiscono nei loro tempi. Alcune interazioni le vediamo cambiare con regolarità, le une rispetto alle altre. Usando variabili sufficientemente sincronizzate fra loro, come il passare dei giorni o i meccanismi degli orologi, è possibile concepire il concetto di quando. Il fisico Carlo Rovelli (2017) interpreta questo fatto spiegando che possiamo integrare alcune informazioni dentro di noi come tracce del passato o come indizi premonitori del futuro, ma che la consapevolezza dello scorrere del tempo è una produzione interna mentale.

La rappresentazione cognitiva del tempo

Attualmente non esiste un unico modello teorico che spieghi come il cervello possa creare la rappresentazione cognitiva del tempo. Marc Wittmann è uno psicologo tedesco con anni di esperienza in questo settore. Nelle sue pubblicazioni descrive il fenomeno come inestricabilmente legato alle fluttuazioni dello stato della coscienza (Wittmann, Giersch, & Berkovich-Ohana, 2019). Il focus della nostra attenzione può influire sulla percezione del tempo, che, a differenza degli altri sensi, non è legata ad un oggetto nel mondo esterno. Gli intervalli temporali vengono infatti considerati più lunghi quando poniamo la nostra attenzione sullo scorrere del tempo e quando la variabilità delle esperienze immagazzinate nella memoria di lavoro è maggiore. Inoltre, diversi meccanismi nel nostro sistema percettivo funzionano su diverse scale temporali, questo può essere spiegato con il fatto che differenti aree cerebrali entrano in gioco in base alle caratteristiche del tempo considerato, nonostante non facciano propriamente parte del sistema percettivo temporale. La valutazione di quanto tempo è passato coinvolge aree diverse in base alla durata del processo in esame.

Tempo ed emozioni

Anche le emozioni giocano un ruolo importante, in quanto un maggiore arousal fisiologico è legato a una sovrastima della durata di un evento. Nei lavori di Wittmann si evince come l’insula anteriore, che integra le rappresentazioni corporee con lo stato cognitivo, creerebbe una serie di momenti emotivi, che rappresentano l’esperienza di un dato momento. L’integrazione in serie di questi momenti si traduce in un’attivazione crescente della corteccia insulare posteriore. L’attività così accumulata sottende la percezione della durata temporale, una continua collezione di evidenze corporee. Il limite naturale della frequenza di scarica dei neuroni spiega la necessità di imporre un tetto alla rappresentazione della durata, e quindi all’integrazione temporale, la quale sembra avvenire attraverso unità stocastiche di 2-3 secondi. Più varie saranno le esperienze accumulate durante un certo span di tempo, maggiore sarà la durata percepita di quel periodo e viceversa. La salienza di queste deriverebbe dal nostro stato fisiologico-emotivo, da quello della memoria e da quello cognitivo.

Spesso sentiamo le persone lamentarsi del fatto di come il tempo passi più velocemente ora rispetto a quanto non succedesse in gioventù. I bias nell’identificare la durata degli eventi derivano dalle funzioni mnestiche, per cui è importante il concetto di metaplasticità, e della velocità di processamento delle informazioni, quindi dalla memoria di lavoro, che diminuiscono con l’invecchiamento. Inoltre, vari fattori, quali stress, eventi di vita e avanzamento tecnologico e sociale, possono influenzare la velocità percepita dello scorrere del tempo. Gli studi di Wittmann ci ricordano ancora una volta come interazioni non cognitive provenienti dall’intero organismo, come la registrazione cumulativa insulare del nostro stato psicofisiologico, siano essenziali per il funzionamento del nostro sistema percettivo e quindi per la nostra capacità di interfacciarci con l’ambiente che ci circonda.

Terapia metacognitiva per il Disturbo da Uso di Alcool: una serie di casi – Lectio Magistralis del Dott. Gabriele Caselli

Prosegue il Forum di Psicoterapia di Riccione, la seconda giornata inizia con la Lectio Magistralis di Gabriele Caselli, altro importante pilastro di Studi Cognitivi, dal titolo Terapia metacognitiva per il Disturbo da Uso di Alcool: una serie di casi.

 

A presentare il relatore è il Dott. Framba, responsabile della sede Studi Cognitivi di Bolzano, che non esita a fare di Caselli un modello da seguire per i numerosi partecipanti al forum, in quanto giovane terapeuta che ha ricercato “la perfetta sintesi tra attività clinica e ricerca ad alto profilo scientifico”. E le parole del Dott. Framba si fanno sempre più inconfutabili mentre Gabriele Caselli espone il suo lavoro.

Prima di dare avvio alla sua presentazione, il Dott. Caselli chiede agli uditori di osservare in ogni slide il numero riportato nell’angolo in basso a destra e di fare un cenno quando la somma dei numeri osservati arriva a 20. Il pubblico, incuriosito, accetta.

Disturbo da uso di alcol: tra problemi e limiti

L’ uso eccessivo di alcool rappresenta ormai un problema non solo di natura medica, ma anche psicologica e sociale che ha allertato diverse istituzioni cliniche e la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità.

Nel trattamento del disturbo da uso di alcool, la CBT si è mostrata moderatamente efficace e con alti tassi di ricadute. Ma le carenze non sono solo di natura pratica, anche a livello teorico vi sono dei limiti riguardanti l’uso problematico di alcool: perché solo una parte di coloro che usa alcolici sviluppa un problema? Le convinzioni disfunzionali sono causa o epifenomeno della dipendeza?

Disregolazione, craving e credenze metacognitive

E’ da qui che la ricerca di Caselli parte e lo studio oggi presentato è un primo punto d’arrivo. Dall’analisi della bibliografia due aspetti hanno catturato l’attenzione del ricercatore: se le convinzioni positive sull’uso di alcool non sono solo diffuse nella popolazione clinica, cosa determina la disregolazione e cosa sostiene il craving?

Ma ecco che la somma dei numeri delle slide finora proiettate arriva a 20! Alcuni partecipanti alzano la mano: ecco la prova del fatto che possiamo regolare il nostro comportamento.

L’essere impegnati in alcuni compiti (come sommare i numeri riportati sulle slides) infatti non ci vieta di proseguire parallelemente in altre attività (ascoltare la presentazione e leggere il testo delle diapositive presentate), stopparle quando necessario e riprenderle nuovamente. Tutti gli individui, pazienti compresi, sono in grado di poter regolare il proprio comportamento in diversi modi.

A questo punto è necessario parlare di automonitoraggio maladattivo, primo sintomo di chi ha un disturbo da uso di alcool, che si manifesta quando c’è una ridotta attenzione a quelle informazioni, provenienti dell’ambiente, rilevanti per raggiungere i propri scopi; quando non si presta attenzione, mentre si beve, ai segnali di “obiettivo raggiunto” e quando le informazioni sul cambiamento cognitivo-affettivo non sono elaborate.

Il secondo sintomo è la propensione al rimuginio desiderante. Quando il desiderio viene avvertito sottoforma di impulsi, sensazioni corporee o immagini mentali, gli individui con disturbo da dipendenza psicologica si ingaggiano in un’attività mentale volontaria focalizzata sul desiderio, che alimenta stress e craving.

Questo si lega a un terzo elemento problematico, le cinque credenze metacognitive tipiche di coloro che presentano un Disturbo da uso di alcool: quando inizio non smetto; quando ho voglia non riesco a smettere; i pensieri mi portano lì; il mio cervello è danneggiato; l’alcool unica strategia per controllare la mia mente.

Il protocollo MCT per il Disturbo da uso di alcool

Sulla base di queste premesse, il lavoro di ricerca di Caselli ha consentito di creare un modello metacognitivo trifasico del disturbo da uso di alcool, che ha reso a sua volta possibile la creazione del protocollo metacognitivo per il trattamento del disturbo.

Il protocollo prevede 12 sessioni di un’ora ciascuna, i cui obiettivi sono: ridurre l’attivazione di strategie disfunzionali; modificare le credenze metacognitive; sviluppare nuove modalità di elaborazione.

Importante è sottolineare come il protocollo miri al consumo moderato di alcool e non all’astinenza: il consumo moderato aumenta la motivazione al trattamento, riducendo la frustrazione nel paziente che di fatto riesce difficilmente a raggiungere l’astinenza. Ancora, l’astinenza resta comunque un processo di evitamento, poco funzionale per il paziente.

Col protocollo si lavora su quattro aree: concettualizzazione e familiarizzazione del problema del paziente; modifica credenze metacognitive negative; modifica credenze metacognitive positive; prevenzione delle ricadute.

Protocollo MCT e disturbo da uso di alcool: lo studio

Lo studio presentato oggi da Caselli ha avuto l’obiettivo di testare l’applicabilità e la replicabiltà del protocollo MCT per il disturbo da uso di alcool in diversi pazienti e dunque l’efficacia in generela della Terapia Metacognitiva nel suo trattamento. Rigorosi criteri di inclusione hanno portato al reclutamento di cinque partecipanti a cui è stato applicato il protocollo e a cui sono stati sottoposti diversi questionari per monitorare i risultati ottenuti.

I dati mostrano una riduzione delle unità alcoliche settimanali consumate dai pazienti e del grado di convinzione nelle metacredenze disfunzionali. Con i pazienti del campione, il trattamento si è dimostrato efficace e stabile nella riduzione del consumo di alcool e nella modifica delle credenze metacognitive e con essa si è assistito anche al diminuire della sintomatologia riportata. Non solo una migliore autoregolazione nel consumo di alcool dunque..

Lo studio presenta comunque dei limiti, a partire dal numero esiguo dei partecipanti. I risultati tuttavia sono incoraggianti. Il pubblico ascolta, pone domande e conclude con un fragoroso applauso, consapevole che la ricerca in questa direzione continuerà ad arricchire il panorama della futura psicoterapia.

 

TERAPIA METACOGNITIVA PER IL DISTURBO DA USO DI ALCOOL: UNA SERIE DI CASI
LE SLIDES DAL CONVEGNO

 

Processi e relazioni in terapia cognitiva: sviluppo storico e scenari futuri – Lectio Magistralis di Giovanni Maria Ruggiero

Ha avuto inizio stamattina il tanto atteso Forum di Studi Cognitivi a Riccione. Perché tanto atteso? Perché come ogni due anni gli studenti di tutte le sedi del circuito Studi Cognitivi si incontrano per presentare le loro ricerche e discuterne i risultati con i colleghi. E cosa c’è di meglio di formarsi e aggiornarsi in un clima di vivace convivialità?

 

Ad aprire le danze non poteva non essere uno dei pilastri del mondo di Studi Cognitivi, il dott. Giovanni Maria Ruggiero, che conduce la sua lectio magistralis dal titolo Processi e relazioni in terapia cognitiva: sviluppo storico e scenari futuri.

Le primissime battute in realtà sono quelle di Sandra Sassaroli, direttrice di Studi Cognitivi, che, al grido di “E che i giochi comincino” ha ringraziato i partecipanti e ha presentato Giovanni Maria Ruggiero, suo collaboratore da anni, definito dalla stessa “la persona con più sapienza che conosco”.

La Lectio Magistralis di Ruggiero è un entrare nel vivo di un percorso bibliografico e interpretativo dei mutamenti della psicoterapia, in modo particolare della Terapia Cognitiva.

Terapia cognitiva: un quadro frammentato

Perché se parlando di Terapia Cognitiva si crede di parlare di un ambito terapeutico unanime, ci si sbaglia e non poco. Il quadro è frammentato più di quel che si pensi: fin dai primi anni ’90 erano già evidenti i primi disaccordi. Anche i contributi degli stessi pionieri della terapia cognitiva ci mostrano un quadro variegato: Albert Ellis con la Rebt, Aaron Beck con la terapia cognitiva standard e infine George Kelly col costruttivismo.

Comprendere la frammentazione è l’unica strada per trovare una soluzione condivisa. E così, sulla scia di tanto cognitivismo, il Dott. Ruggiero si pone e pone una domanda: cosa si pensava di sapere sulla terapia cognitiva? Si può distinguere ciò che pensavamo di sapere ma non avevamo capito (the unknown known) e ciò che si pensa di aver capito ma non sapevamo (the known unknown). L’effetto dell’ unknown known è stato quello di evidenziare tante correnti ma compatibili; il risultato del known unknown invece è l’accorgersi, dopo aver a lungo studiato, che le differenze all’interno della terapia cognitiva diventano troppe, come ad esempio la stessa discontinuità clinica e teorica tra psicoterapia cognitiva e comportamentismo o tra le diverse procedure (differenti e non compatibili) delle varie terapie cognitive.

CBT, Hogwarts e Grifondoro

Chi conosce Giovanni Maria Ruggiero sa che le sue presentazioni hanno sempre un tocco di ironia e anche oggi non si è smentisce con il suo rimando a Harry Potter (con tanto di immagini della sala grande di Hogwarts sulla slide proiettata) fatto per illustrare come una certa posizione di riguardo, la “grifondoro” della terapia cognitiva, inizialmente è spettata alla CBT standard di Beck che, insieme a Clark, Fairburn e Salkoviskis è stata considerata, con ottime ragioni, uno strumento più efficiente di altre terapie per trattare almeno alcuni disturbi. Quasi una bacchetta magica. Una bacchetta che era magica davvero, sia chiaro, anche se però qualche dubbio si nutriva sui limiti di applicabilità clinica in pazienti non selezionati per la ricerca.

Diversi ricercatori e clinici sono ripartiti da qui e i loro contributi sono diventati storia. Buona parte di questa storia è merito di clinici italiani, tra cui Guidano, Liotti, Sassaroli, Lorenzini e Semerari che con i loro contributi hanno avuto un impatto sul pensiero di Judith Beck e sullo stesso Salkovskis.

La terapia cognitiva e quella tentazione neoromantica

Per aggirare tale difficoltà ci si è lasciati trasportare da una tentazione neoromantica secondo cui tale terapia non potesse sottoporsi a prova scientifica. Una successiva corrente aggira questa tentazione tentando di concettualizzare aree della mente non razionalizzabili e l’incontrollabilità degli stati emotivi “caldi” non padroneggiabili attraverso un approccio pragmatico e razionale. Questa operazione fu effettuata riscoprendo un concetto ambiguo, naif e poco scientifico: l’esperienza emozionale correttiva (già evidenziato da Alexander nel 1946) che può avvenire in seduta. Uno degli argomenti di questa visione era la supposta esistenza di pazienti gravi o difficili, su cui la CBT standard è stata definita come non efficace. Ci si è quindi posti l’obiettivo di affrontare questo nodo cercando di integrare nella terapia cognitiva le storie di vita e gli interventi non razionalistici di tipo relazionale ed esperienziale.

Relazione e verdetto del Dodo

Giustificando la vicinanza agli interventi relazionali, continua Giovanni Maria Ruggiero, ci siamo fatti influenzare dalla teoria dei fattori comuni che sostiene come tutte le psicoterapie funzionano sulla base di fattori comuni di tipo tendenzialmente relazionale. Una sorta di verdetto del Dodo: hanno vinto tutti. La vittima di tale verdetto? La CBT!

Si è assistito dunque a un iniziale periodo in cui la CBT si mostra “vincente” per proseguire con la parità sancita dal verdetto del Dodo, il quale però sposta la CBT alla posizione di perdente. E come è possibile perdere se si pareggia?

Sebbene il verdetto del Dodo abbia negato la superiorità della CBT, non ne ha mai dimostrato l’inefficacia con i pazienti difficili. Eppure la visione della CBT come terapia inefficace per i disturbi più gravi si diffonde e non tramite riviste scientifiche di un certo spessore. E, il dott. Ruggiero ci avverte, sappiamo benissimo quali possono essere (e sono state) le conseguenze delle “chiacchiere da bar”

CBT e relazione

Si dice che la CBT sia meno efficace perché trascura relazione. Ciò che però si ignora è il fatto che la CBT prende in considerazione la relazione nei termini di formulazione condivisa del caso e socializzazione. Anche nella procedura REBT ci sono aspetti relazionali da non trascurare, in due fasi ben precise: nella connessione tra B e C e nella negoziazione della F. Quindi, sebbene l’enfasi alla relazione sia minore, non possiamo scambiare la minore quantità con la trascuratezza: la relazione in CBT ha un senso strategico e scientifico. E’ anenfatica, è signiticativa ma non risolutiva. Al contrario il rischio sarebbe quello di un eclettismo che causa confusione teorica e procedurale.

Verso nuovi sviluppi

Cosa proporre dunque? Innanzi tutto bisogna dare centralità alla formulazione del caso come tratto principale delle psicoterapie cognitive. Le psicoterapie cognitive, in particolare la CBT classica, hanno denominato e trattato gli aspetti relazionali secondo terminologie, procedure e concettualizzazioni peculiari che è bene studiare nella loro specificità intrinseca e coerente con la concezione cognitiva: formulazione condivisa del caso e del razionale degli interventi, socializzazione e apprendimento biografico del problema. La LIBET ha come obiettivo proprio questo: formalizzare e protocollare questi interventi secondo procedure replicabili. Dare centralità alla formulazione del caso evita inoltre di farci scivolare in un eclettismo teorico che ci fa dimenticare le peculiarità strategiche del paradigma clinico cognitivo e in un eclettismo clinico che assembla tecniche estranee e incompatibili tra loro, rinunciando così alla sfida dell’incremento dell’efficacia.

Ed è in questo modo che la lezione di Giovanni Maria Ruggiero si conclude: con questi suggerimenti per la ricerca e la pratica clinica future rivolte a una platea di ricercatori e clinici futuri. “E che i giochi abbiano inizio”… a Riccione, tra gli allievi di Studi Cognitivi e negli sviluppi della psicoterapia che verrano..

 

PROCESSI E RELAZIONI IN TERAPIA COGNITIVA: SVILUPPO STORICO E SCENARI FUTURI
LE SLIDES DAL CONVEGNO

 

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