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Vigoressia: la storia di Alessandro – Psicologia & Immagine Corporea

Durante queste abbuffate si sente in colpa e in seguito si allena ancora più duramente. Alessandro soffre di Vigoressia.

Alessandro ha 27 anni. Il suo comportamento patologico è iniziato quando ne aveva 15. Pensa di essere troppo magro e vuole essere più muscoloso. Allora inizia il sollevamento pesi. Scolpendo il suo corpo ottiene l’attenzione e il riconoscimento che ha sempre desiderato dai suoi compagni.

All’università, Alessandro mette su peso perché non si allena più regolarmente e vive a pizza e patatine. Quando qualcuno lo descrive come “paffuto” Alessandro viene colpito duramente e inizia a allenarsi di nuovo, quattro ore al giorno.

In quell’istante Alessandro sviluppa un disturbo alimentare. Si abbuffa di cioccolata, hamburger e altre cose e poi spesso una mezz’oretta dopo averle mangiate si rimette sugli attrezzi della palestra. Durante queste abbuffate si sente in colpa e in seguito si allena ancora più duramente. Alessandro soffre di Vigoressia.

Tuttavia, a un certo punto scatta in Alessandro l’idea di dover fare qualcosa per combattere la sua malattia. Per prima cosa trova una clinica e si affida agli esperti che lavorano lì.

Nel frattempo Alessandro trova una fidanzata fissa – è felice che lei gli stia vicino. Dopo la terapia Alessandro può vivere di nuovo normalmente.

 

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Intervista con Stephen Porges: La Teoria Polivagale e le basi fisiologiche delle nostre intuizioni

La Teoria Polivagale non è una teoria sulla salute mentale, ma è un modello che può essere applicato alla salute in generale, all’oncologia alle malattia autoimmuni, alla fibromialgia e naturalmente a disturbi psicologici. Si tratta in sintesi di una teoria su legame mente-corpo, che si propone di spiegare i meccanismi neurofisiologici sottostanti questa interazione.

A seguito del convegno tenutosi a Milano lo scorso ottobre, il Dr. Porges ha accettato di rilasciarci un’intervista per approfondire alcuni temi chiave affrontati nel suo libro di recente uscita in italiano “La Teoria Polivagale: fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione”. Con un ringraziamento particolare al suo immenso lavoro scientifico, alla grande disponibilità al confronto e al suo profondo rispetto per la conoscenza, a tutti i livelli. Buona lettura!

Buongiorno Dr. Porges, la prima cosa che vorrei chiederle è come è nata l’idea della traduzione italiana del suo volume “La Teoria Polivagale”, già presente in inglese e tedesco da qualche anno?

La traduzione italiana è stata curata da Vittoria Ardino, attuale presidente della Società Italiana per lo Studio dello Stress Traumatico (SISST), che è di Milano ma vive e lavora a Londra presso la London Metropolitan University. Il nostro primo incontro è avvenuto a Bologna, dove mi ha invitato lo scorso Giugno per presentare il libro, ma la nostra collaborazione è iniziata circa un anno prima, periodo in cui ha portato avanti il lavoro di traduzione. La Dott.ssa Ardino inoltre ha fondato una rivista italiana specializzata sul trauma – l’International Journal of Multidisciplinary Trauma Studies – e il mio contatto con lei è nato dall’avvio di questo progetto e dal suo interesse per i temi di cui mi occupo.

Nella prima parte del suo libro racconta la nascita della Teoria Polivagale attraverso i 40 anni di studi e ricerche, grazie ai quali oggi possiamo avvalerci di informazioni importantissime sul funzionamento del nostro sistema nervoso autonomo. Una prima domanda è dunque sulla differenza tra la teoria “classica” del sistema nervoso autonomo, basata sull’idea del dualismo antagonista, e la sua Teoria Polivagale. Quali le principali differenze?

Il paradigma classico e più diffuso vede il sistema nervoso come un’alternanza tra due sistemi principali tra loro in competizione, il sistema simpatico e il sistema parasimpatico. In questo approccio il sistema simpatico è responsabile della nostra reattività (attacco/fuga) e dunque della nostra sopravvivenza, mentre il parasimpatico (vagale) ha un ruolo protettivo di riduzione dell’arousal e recupero dell’omeostasi. Questo è come è stato pensato e studiato negli anni, determinando una maggiore attenzione ed enfasi sul ruolo del simpatico nell’attivare le nostre risposte allo stress e una minor attenzione nel comprendere le funzioni specifiche del sistema parasimpatico. Anche se il dualismo antagonista della visione “simpato-centrica” spiega bene il funzionamento di alcuni organi specifici a livello locale, non costituisce un modello esaustivo per spiegare come noi esseri umani reagiamo alle sfide del mondo.

Il problema vero è: l’iper-reattività è davvero l’unico modo di cui disponiamo per difenderci? Nello studio di come il nostro sistema nervoso reagisce è importante considerare prima di tutto che il modo in cui rispondiamo alle sfide ambientali ci viene dalla nostra evoluzione come specie e questa cornice è la prima differenza tra “dualismo antagonista” e Teoria Polivagale. La cornice filogenetica permette di considerare le risposte del sistema nervoso come un’organizzazione per livelli gerarchici seguendo il concetto di dissoluzione che Jackson (1958) ha utilizzato per le malattie del sistema nervoso derivanti da danno cerebrale. Secondo questo principio i circuiti più evoluti del sistema nervoso inibiscono quelli più primitivi e solo quando i circuiti più nuovi falliscono, allora intervengono i più antichi.

Il sistema nervoso autonomo dell’uomo lavora nello stesso modo: utilizza dapprima le risposte adattive che vengono dai gradini più recenti della nostra evoluzione, ma quando queste non servono più a metterci al sicuro, utilizza via via le risposte più primitive, seguendo a ritroso la storia evolutiva della nostra specie. Perciò quello che diventa davvero importante nella Teoria Polivagale è la nozione stessa di “nuovo circuito” in senso filogenetico, perché riguarda proprio il modello di funzionamento e la struttura stessa del sistema vagale.

Esistono due principali branche del sistema parasimpatico appartenenti a periodi diversi della nostra storia filogenetica: un circuito vagale più nuovo e mielinizzato (ventrovagale) che ha fibre afferenti agli organi sopra-diaframmatici e che guida i muscoli del volto, della faringe, dei polmoni, del cuore e determina la nostra capacità di esprimere le emozioni con il volto, la voce, la prosodia e il respiro; poi c’è un circuito vagale più antico (dorsovagale) che ha fibre afferenti agli organi sotto-diaframmatici e che ha un ruolo importante del mantenere l’omeostasi e il controllo delle funzioni viscerali di base (stomaco, intestino tenue, colon e vescica).

In condizioni di pericolo il circuito ventrovagale ha un effetto calmante sul cuore, riduce la reattività simpatica e promuove comportamenti di ingaggio sociale, mentre al contrario questo secondo circuito più antico in condizioni di pericolo ha un’unica risposta difensiva da mettere in campo: il collasso (shut down), risposta che abbiamo ereditato dai rettili ma che può essere potenzialmente letale oggi nell’uomo. Dunque la Teoria Polivagale pone l’enfasi sull’esistenza di due circuiti vagali, anziché uno unico, sull’importanza della relazione gerarchica tra loro e sull’importanza di considerare tutte le risposte difensive come adattive di fronte alle sfide ambientali: esiste dunque una reazione simpato-adrenergica, responsabile delle nostre risposte di mobilizzazione (attacco/fuga), ma c’è anche una rezione dorsovagale che quando è attiva in condizioni di sicurezza ha il ruolo fondamentale di mantenere l’omeostasi, consentendo ad esempio i comportamenti riproduttivi, ma che può diventare pericolosa se usata come reazioni di difesa primaria.

Quello che la Teoria Polivagale vuole sottolineare in sintesi è che quando il nostro sistema nervoso autonomo è continuamente impegnato in attività difensive, come può accadere in situazioni traumatiche o di stress prolungato, queste stesse possono diventare potenzialmente dannose per la nostra salute fisica e mentale poiché viene a mancare in modo cronico l’equilibrio tra le diverse branche del sistema nervoso autonomo.

Può spiegarci il “paradosso del vago” come stimolo intellettuale allo sviluppo della sua teoria?

Il paradosso del vago è stato un grande spunto per me per provare a risolvere la questione di come il vago potesse avere la meravigliosa funzione di favorire comportamenti “vitali” di affiliazione, socialità e protezione per l’uomo e contemporaneamente quella di determinare lo svenimento o in certi casi addirittura la morte. Dalla lettera di un neonatologo ricevuta nel 1992, in cui mi poneva questa domanda venutagli dall’osservazione dei neonati prematuri in cui si è trovato di fronte a questo paradosso, ho iniziato quindi a studiare l’impatto dell’attività vagale sul cuore, cercando di approfondire quando questa potesse proteggerlo e quando divenire potenzialmente letale: era giusto pensare che “una certa quantità di attività vagale fosse buona per l’uomo, ma che troppa diventasse letale”, o c’erano diversi circuiti coinvolti?

L’unica risposta possibile è stata quella di studiare per moltissimi mesi in biblioteca, cercando di ricostruire i cambiamenti evolutivi avvenuti nel sistema nervoso autonomo nel corso dell’intera catena evolutiva, dai rettili ai noi. Da questo approfondimento è emersa la conferma dell’esistenza di due branche del vago, provenienti da due periodi diversi di evoluzione ma entrambi presenti nei mammiferi.

L’altra considerazione, venuta più tardi, è stata che se è vero che la parte più nuova del nostro sistema nervoso autonomo funziona ad un livello gerarchico superiore, consentendoci di mettere in atto comportamenti positivi e pro sociali in condizioni di sicurezza, è vero anche che esiste un sistema di sopravvivenza più antico che lavora “sotto” in equilibrio con il sistema simpatico. Non è mai stata mia intenzione minimizzare l’importanza del sistema difensivo simpatico rispetto a quello vagale, le risposte simpatiche non sono “il nemico”, ma credo sia importante considerarle in una relazione di omeostasi e di equilibrio con l’attività del vago dorsale più antico per capire a fondo la complessità delle nostre risposte alle sfide ambientali.

Nella lettura del suo libro i primi capitoli sono fondamentali per entrare nella cornice teorica che viene presentata e molto ben dettagliata, ma ho trovato molto interessante la terza parte in cui approfondisce alcuni aspetti clinici. In che modo conoscere e approfondire la prospettiva polivagale può essere utile a noi terapeuti?

Quello che dico di solito a chi compra il mio libro è proprio di iniziare dalla terza parte e poi tornare via via indietro  a cercare i fondamenti teorici delle osservazioni e delle ricerche condotte sui pazienti.Innanzitutto c’è da dire che la prospettiva polivagale non nasce come una teoria focalizzata e pensata su categorie diagnostiche, ma è piuttosto focalizzata sul riconoscere l’espressione comportamentale di caratteristiche fisiologiche, che hanno alcuni punti centrali in comune – tra tantissime differenze – con molti disturbi psicopatologici.

Il primo punto centrale è il concetto di regolazione fisiologica, che come clinici siete abituati a chiamare comportamenti di regolazione o disregolazione emotiva. L’osservazione clinica in psicoterapia permette di notare cambiamenti repentini nell’espressione delle emozioni, ad esempio il passaggio da un’espressione neutra ad una arrabbiata, e di osservare in vivo i comportamenti di autoregolazione che vengono messi in atto per ritornare ad una condizione di equilibrio.

Un aspetto su cui può essere utile focalizzarsi come terapeuti è l’intonazione della voce nel dialogo clinico, poiché sappiamo dalla neurofisiologia che la nostra attenzione come esseri umani è più focalizzata sulla prosodia che sulle parole utilizzate. All’interno di un dialogo riusciamo a cogliere intuitivamente che le frequenze più alte sono associate alla presenza di ansia e paura e che la presenza di toni bassi e volume alto sono associati solitamente a rabbia e aggressività. Anche i pazienti dunque sono portati a giudicare costantemente lo stato emotivo del terapeuta ascoltando innanzitutto l’intonazione della sua voce, come espressione della sua regolazione interna (neurocezione).

Potrebbe essere utile sapere che quello che davvero guida l’interazione è questo rapporto diadico tra la propria neurocezione (vedi articolo) e quella dell’altro, in un costante rimando di feedback che regolano l’affettività e promuovono sensazioni di sicurezza e fiducia. Da questo deriva un terzo aspetto importante legato al ruolo possibile del terapeuta come co-regolatore della stato emotivo e mentale del paziente; quando questo scambio avviene in modo positivo e adattivo, la co-regolazione degli stati emotivi favorisce l’emergere di nuove e incredibili capacità prima inesplorate e credo che gran parte del processo terapeutico abbia molto a che fare con questo.

Cosa intende quando parla di “Sindrome polivagale”?

Ho cercato di decostruire la Teoria Polivagale e di individuare 4 differenti cluster che possano definire una progressione di sintomi in relazione alle risposte fisiologiche interne. Il dato da osservare è quando il sistema ventrovagale mielinizzato tende a spegnersi e accendersi durante un’interazione e lasciare spazio a momentanee risposte più o meno intense, per poi tornare ad una condizione di equilibrio. Questo andamento “on/off” del sistema vagale ventrale è molto frequente anche in una popolazione sana.

Un primo cluster patologico si può osservare quindi quando c’è un’attenuazione del sistema di coinvolgimento sociale, e dunque una riduzione dell’attività vagale ventrale, che si manifesta con un’espressione del volto piatta, in particolare nella parte superiore dei muscoli orbicolari, bassa reattività e un’elevata sensibilità ai suoni. Il secondo cluster è caratterizzato invece da elevata reattività e mobilitazione direttamente correlate all’attività del sistema simpatico: qui si osservano una regolazione atipica dello stato emotivo con rapidi shift tra calma e reattività e uno stato di ipervigilanza tipico dei disturbi d’ansia e dei comportamenti impulsivi.

Il terzo cluster è caratterizzato dall’alternanza tra sistema simpatico e dorsovagale e si manifesta con una vulnerabilità al collassamento e alla dissociazione. Si manifesta con episodi di ipotensione, assenze o restringimenti dello stato di coscienza, fibromialgie, problemi intestinali e comportamenti di ridotta mobilizzazione. L’ultimo cluster è quello della dissociazione vera e propria che si manifesta con il collassamento cronico (shut down) determinato dall’attivazione del sistema dorsovagale, come risposta difensiva generalizzata a diverse situazioni di stress o di pericolo percepito. Questo ultimo cluster è molto frequente in persone vittime di abuso o di violenze e si tratta di una risposta estrema di difesa ad una minaccia potenzialmente letale.

Quando il trauma è relazionale, ogni essere umano può essere percepito come fonte di estremo pericolo. Capire cosa nell’ambiente stimola questa reazione è una chiave importante nella relazione con questi pazienti e rende possibile il lavoro terapeutico per evitare a tutti i costi che questa reazione molto dannosa si inneschi, a favore di un maggior coinvolgimento del sistema ventrovagale.

Una delle parti più interessanti nel suo recente convegno tenutosi a Milano, e molto ben descritta anche nel libro, è quella in cui ha raccontato la capacità di alcuni muscoli dell’orecchio nel regolare le risposte fisiologiche ed emotive. Può spendere qualche parola su questo?

L’evoluzione del nostro sistema nervoso ha portato alla formazione di circuiti neurali presenti nell’orecchio medio, deputati a riconoscere in modo preferenziale le frequenze associate alla voce umana e a distinguerle tra frequenze positive e calmanti e frequenze ansiogene e/o minacciose; la percezione delle differenti frequenze è in grado di attivare in modo diretto il sistema nervoso e di produrre comportamenti di risposta correlati alla frequenza percepita. Le frequenze più vantaggiose favoriscono la contrazione dell’orecchio medio che attiva il sistema ventrovagale, favorendo un’esperienza di calma e sicurezza nella relazione con l’altro; al contrario frequenze molto alte che non attivano l’orecchio medio sono identificate come dolore o pericolo imminente, mentre quelle troppo basse sono identificate come “presenza di predatore” e attivano risposte di fuga.

All’inizio della nostra storia evolutiva noi esseri umani eravamo molto piccoli rispetto ai grandi predatori e avevamo bisogno di difenderci riuscendo a intercettarli velocemente nell’ambiente, ma nel corso dell’evoluzione abbiamo imparato che oltre alla fuga poteva esserci d’aiuto la protezione degli altri esseri umani e questo ha portato a raffinare le nostre capacità di vocalizzare a frequenze più alte e di percepirle negli altri. Da qui viene l’importanze della prosodia e della melodia della voce nelle interazioni umane.

A questo si lega tutto il filone di ricerche che sta conducendo sull’autismo. Quali risultati recenti avete ottenuto?

Sì, nell’autismo più che in molte altre patologie psichiatriche l’iperacusia è molto presente e causa spesso di comportamento impulsivi, di difficoltà nel mantenere una comunicazione efficace e di percepire l’ambiente circostante come sicuro. Il nostro lavoro di ricerca ha l’obiettivo di approfondire il legame tra esperienze sensoriali atipiche in soggetti autistici e comportamenti reattivi inadeguati che possono compromettere la normale relazione con l’ambiente, oltre che la capacità di autoregolazione emotiva e le difficoltà nell’apprendimento. Il progetto si chiama Listening Project Protocol (LPP) e si basa sulla somministrazione di alcuni tracciati audio modificati per determinate bande di frequenza, in grado di stimolare in modo ottimale l’orecchio medio e di produrre un miglioramento nella percezione della voce umana e nella comunicazione.

Il protocollo è ancora in fase di definizione e sperimentazione, ma abbiamo ottenuto dei risultati preliminari importanti che sembrano confermare la possibilità di poter ridurre l’ipersensibilità acustica in questi pazienti e migliorare la capacità di esprimere le proprie emozioni e di percepire correttamente quelle degli altri.

Quale impatto scientifico immagina per la pubblicazione del suo volume?

Un aspetto importante della Teoria Polivagale è che questa teoria nasce dall’integrazione di informazioni provenienti da diverse branche scientifiche, si è strutturata così com’è nel tempo e resta una teoria in continua evoluzione, aperta all’integrazione di sempre nuove informazioni e scoperte.

Quello che vorrei sottolineare è che la Teoria Polivagale non è una teoria sulla salute mentale, ma è un modello che può essere applicato alla salute in generale, all’oncologia alle malattia autoimmuni, alla fibromialgia e naturalmente a disturbi psicologici. Si tratta in sintesi di una teoria su legame mente-corpo, che si propone si spiegare i meccanismi neurofisiologici sottostanti questa interazione.

All’inizio del mio lavoro non avevo né l’idea né l’obiettivo che il mio lavoro potesse aiutare a capire problemi psicologici o che potesse servire nel lavoro sul trauma, stavo solo studiando l’impatto delle cure intensive su neonati prematuri in un reparto di neonatologia. Non avevo idea che le reazioni di bradicardia, di collassamento o di “morte in culla” potessero in qualche modo avere un terreno comune con le reazioni dissociative legate a traumi, ma entrare in contatto con questo mondo ha arricchito le mie conoscenze e stimolato interessanti possibilità di confronto.

Alla fine dei miei seminari e lezioni sono stato spesso informato da clinici e terapeuti di quanto avessero imparato dalla presentazione del mio lavoro e di quanto avessero più chiara l’importanza del contatto oculare, non per tutti concessa dalla formazione. Ma quello che soprattutto è emerso dal confronto con loro è stato quanto fossero felici di capire che le loro intuizioni come clinici potevano avere un fondamento scientifico, che erano insomma corrette!

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Se chi siamo lo dobbiamo (anche) ai nostri gatti…

“Il cane vuole essere il migliore amico dell’uomo, il gatto non proprio”.

Chiunque abbia una miagolante palla di pelo per casa sa benissimo che questa è una sacrosanta verità. Ci ostiniamo a vedere i gatti come i nostri pelosetti carini e coccolosi e a considerarli animali domestici, ma la realtà è che i gatti sono animali semi-addomesticati.

Provate a confrontare un gatto con il suo parente selvatico (Felis silvestris): il volatile che vi ritrovate ogni tanto agonizzante sul balcone di casa è la prova che il gatto, come il suo cugino selvaggio, possiede ancora grandi abilità di cacciatore (a differenza del placido cocker spaparanzato sul divano che con il suo parente lupo sembra quasi non avere più nulla in comune).

Ciononostante i gatti presentano anche le caratteristiche tipiche degli animali addomesticati, come per esempio il cranio più piccolo rispetto ai loro parenti selvatici (perché fauci enormi per mangiare cibo in scatoletta non servono più a nulla) e un cervello di minor dimensione (perché la necessità aguzza l’ingegno e l’intelligenza al servizio della sopravvivenza diventa inutile quando si vive al sicuro fra quattro mura domestiche), che derivano da una pressione selettiva genetica del processo di domesticazione. Questo processo ha investito nel corso dell’evoluzione anche l’Uomo; non stupisce infatti che la massa corporea e le dimensioni del nostro cervello abbiano raggiunto un picco durante il termine dell’era glaciale per poi diminuire con il diffondersi dell’agricoltura.

Nel momento in cui l’Uomo ha abbracciato la vita sedentaria, costituito ampi gruppi sociali, modificato le proprie abitudini alimentari (più porridge, meno carne cruda), è andato incontro a mutamenti importanti che hanno interessato, per esempio, la conformazione del cranio e dei denti, e il colore della pelle; ma fatto ancora più interessante, probabilmente la necessità di difendere i propri granai da parassiti come i roditori, ha spinto l’Uomo ad addomesticare i gatti selvatici, col risultato che vivere insieme ai gatti tra le tante cose ha significato condividerne le malattie, il che ha comportato un rimodellamento del nostro sistema immunitario.

Razib Khan, dottorando in genomica presso la University of California, Davis, nel suo articolo “Our Cats, Ourselves” pubblicato sul NewYork Times, illustra in maniera affascinante come ambiente e genoma interagiscano tra di loro influenzandosi a vicenda nel corso dell’evoluzione, sottolineando come sia fondamentale, per capire chi siamo veramente e dove stiamo andando, riconoscere quanto noi rimodelliamo chi ci sta intorno, e viceversa. Queste osservazioni ci lasciano curiosi del futuro, da un lato ma ci lasciano anche un dubbio tremendo su di noi, fosse che con tutti i tool per facilitarci la vita, stiamo iniziando a perdere testa?

 

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Terapia di Efficacia Sociale (SET): utile per superare l’ansia sociale

FLASH NEWS

La terapia SET ha prodotto risultati migliori per quanto riguarda le competenze sociali  e lo stato clinico generale dei partecipanti.

Ad un certo punto della nostra vita, tutti viviamo alcuni sintomi tipici dell’ansia. Parlare in pubblico o in situazioni non familiari può provocare naturali sentimenti di ansia. Quando questi sintomi naturali si trasformano in ansia eccessiva e preoccupazione, essi potrebbero essere classificati come disturbo d’ansia.

Nel DSM-5, il disturbo d’ansia sociale, conosciuto anche come fobia sociale, è definito come una paura persistente e pervasiva di giudizio in situazioni sociali o in situazioni in cui è richiesta una prestazione. Esso può coinvolgere il 70% dei pazienti e ha il suo esordio in adolescenza coinvolgendo circa il 2% della popolazione generale. Il disturbo di fobia sociale influenza diversi aspetti delle vite dei pazienti quali l’ambito sociale, scolastico e professionale.

Uno studio controllato randomizzato, condotto da Deborah Beidel e colleghi, mostra che la Terapia di Efficacia Sociale (SET) può essere utile per ridurre i sintomi di ansia sociale. Gli autori hanno confrontato l’efficacia della Terapia di esposizione con la terapia SET. Gli strumenti utilizzati nella ricerca erano questionari self-report, valutazioni cliniche in cieco, e valutazione del comportamento sociale in cieco.

A differenza della terapia di esposizione, la terapia di efficacia sociale  è un approccio di trattamento multicomponenziale. Essa consta di un trattamento psicoeducativo, social skill training, esposizione in vivo e/o immaginativa e infine la pratica programmata.

 

Il campione della ricerca era composto da 106 soggetti con Disturbo d’Ansia Sociale (SAD) randomizzati per la terapia di esposizione, SET e  un gruppo di controllo in attesa. Dai risultati emerge che entrambi gli interventi hanno ridotto significativamente lo stato di ansia dei pazienti rispetto ai controlli e alla fase post-trattamento. Il 67% dei pazienti trattati con SET e il 54% dei pazienti trattati con la sola terapia di esposizione non soddisfano infatti,  a lungo termine, i criteri diagnostici per il SAD.

Rispetto al trattamento con la sola terapia di esposizione, la terapia SET ha prodotto risultati migliori per quanto riguarda le competenze sociali  e lo stato clinico generale dei partecipanti. I pazienti trattati con la terapia SET o con la terapia di esposizione hanno riportato una significativa diminuzione delle due misure di ansia sociale autoriportate e sulle diverse misure di comportamento sociale osservate.

Gli autori hanno aggiunto che, a differenza della letteratura precedente, il vantaggio della ricerca era aver previsto l’osservazione diretta e la misurazione di  competenze sociali e aver valutato il significato clinico e la significatività statistica usando un gruppo di controllo normativo.

In conclusione si può sostenere che sia la terapia di esposizione che la SET sono efficaci per il trattamento dell’ansia sociale, ma la terapia SET produce maggiori effetti.

L’esposizione è una componente essenziale nel trattamento dell’ansia e la ricerca mostra che il social skill training non è efficace da solo nel migliorare le abilità sociali, ma associato ad altre tecniche o interventi. Quindi, combinando i due approcci si possono avere risultati migliori.

 

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Il mondo degli adolescenti: la transizione dall’infanzia all’età adulta – Psicologia

Abstract

L’adolescenza è connotata da innumerevoli cambiamenti fisici, psicologici, emotivi e sociali. Frequentemente gli adulti (genitori ed insegnanti) non sono preparati emotivamente ad affrontare queste metamorfosi, vivendole come “stravaganze” o “capricci”. Per questa ragione, talvolta, non utilizzano le strategie adatte a consentire ai propri figli o alunni di transitare agevolmente verso l’adultità.

 

Le caratteristiche generali adolescenziali

Nell’adolescenza si notano quattro tipi di cambiamenti.

• La completa maturazione fisica.

• Il raggiungimento della maturità sessuale.

• L’acquisizione dello stato di adulto.

• Il conseguimento del pieno sviluppo cognitivo (Berti e Bombi, 2005, pag. 328).

Nel corso di questo periodo si completa lo sviluppo fisico, anche se i soggetti di sesso maschile, spesso, portano a compimento l’accrescimento somatico nelle epoche successive della vita.

Le notevoli modificazioni che avvengono a livello corporeo perturbano la cenestesi, tanto da aversi, in alcuni casi, la dismorfofobia, ovvero la sensazione che il proprio corpo presenti delle anomalie (Stevani, 2011, pag. 250). Tale fenomeno si estrinseca nella dismetria di valutazione, cioè la sensazione soggettiva di sentire i propri organi in maniera difforme da quello che realmente sono (Mastrangelo, 1986, pag. 25). Questo, talvolta, può determinare un cattivo rapporto con la propria corporeità.Compaiono dei timori legati all’adeguatezza del proprio corpo.

In pratica, l’adolescente, confrontandosi con i coetanei, ha paura che la sua fisicità non sia appropriata. Oggetto di recriminazione divengono, ad esempio, l’altezza, le dimensione del seno. D’altra parte, il confronto con i modelli proposti dai mass – media conduce la ragazza o il ragazzo ad una cronica inadeguatezza. L’eccessiva magrezza che i personaggi della moda e dello spettacolo esibiscono, sovente, induce la ragazza a non accettare le proprie rotondità, frutto dello sviluppo puberale. Anche per il ragazzo, il prototipo mediatico è un giovane dalle larghe spalle, che presenta un notevole sviluppo della muscolatura. Ciò, spinto alle estreme conseguenze, determina la bigoressia, ovvero un’ossessività che si palesa in esercizi fisici fatti fino allo stremo delle forze (Stevani, op. cit., pag. 252).

L’inizio dell’adolescenza corrisponde alla fase della pubertà, ovvero alla maturazione dell’apparato riproduttivo e alla comparsa dei caratteri sessuali secondari. La maturità sessuale si completa nel giro di due, tre anni per le ragazze, a partire dai dieci anni di età. Per i ragazzi essa si compie nell’arco temporale di quattro, cinque anni, a partire dagli undici anni (Berti e Bombi, op. cit., pag. 329).

 

Lo sviluppo psicologico, cognitivo e morale

In questo lungo ciclo di transizione dall’infanzia all’età adulta entrambi i sessi provano un vissuto di disagio legato essenzialmente a due fattori:

• l’immagine corporea;

• il ruolo sociale (Berti e Bombi, op. cit., pag. 330).

L’immagine corporea non è più quella dell’infanzia, ma nemmeno quella dell’età adulta, così come il ruolo sociale. Antonelli, riportato in Mastrangelo (op. cit., pag. 26), sostiene che l’adolescente vive tre lutti.

• Il primo è caratterizzato dalla perdita del corpo infantile;

• il secondo è contraddistinto dalla perdita del ruolo infantile;

• il terzo è rappresentato dalla perdita dei genitori dell’infanzia.

Il lutto più grave è senza dubbio simboleggiato dalla perdita del ruolo infantile. La nostra società non ha un ruolo sociale ben preciso da dare a questi soggetti, che non sono più bambini, ma nemmeno adulti, e li condanna ad una marginalità sociale. Questa esclusione conduce, sovente, l’adolescente ad una forma di compenso, che è rappresentata dalla ipervalutazione di sé, che può palesarsi, talvolta, in comportamenti spavaldi e aggressivi. L’emarginazione sfocia in uno stato di opposizione sociale, che può esprimersi in comportamenti falsamente trasgressivi, quali fughe da casa, furti negli esercizi commerciali, abuso di sostanze (alcol e droghe), sesso non protetto (Mastrangelo, op. cit., pag. 26). Altre volte il disagio derivante da tale condizione si estrinseca in disturbi psicologici (anoressia-bulimia, distimia, ciclotimia, stati depressivi) (Mastrangelo, op. cit., pag. 28).

Nell’ambito dello sviluppo cognitivo, secondo Piaget, il minore, intorno ai dodici anni, transita dal periodo delle operazioni concrete a quello delle operazioni formali. Tale fase è caratterizzata dall’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo e dal primato del possibile sul reale (Berti e Bombi, op. cit., pag. 338). L’acquisizione di tali costrutti incanala il ragazzo verso alcune conquiste cognitive.In virtù di ciò, l’adolescente è in grado di:

• costruire delle teorie nei vari ambiti del sapere;

• elaborare delle ideologie relativa alla realtà empirica e alla vita, nel suo svolgersi;

• sviluppare una spiccata analisi dell’incoerenza fra idee e comportamenti, che si osserva negli esseri umani.

Altre caratteristiche del pensiero ipotetico – deduttivo sono rappresentate dai seguenti parametri.

• L’ indecisione: l’adolescente di fronte ad una scelta spesso non decide, in considerazione delle diverse variabili insite nelle opzioni considerate, che appaiono tutte egualmente intriganti.

• L’egocentrismo che è responsabile dell’edificazione di un proprio mondo al di fuori della realtà (Berti e Bombi, op. cit., pag. 345 – 346).

• La costruzione di un pubblico immaginario e la strutturazione di una fiaba o leggenda personale, come messo in evidenza da Elkind, citato in Stevani (op. cit., pag. 262). L’adolescente, infatti, ritiene che le sue azioni siano osservate e commentate da un pubblico immaginario, spettatore della sua grandezza. Inoltre, egli pensa di essere il destinatario di una sorte speciale, frutto di una fiaba o leggenda personale, diversa da quella di tutti gli altri, che lo porterà a compiere delle imprese memorabili.

Le differenti percezioni di sé: è come se il ragazzo vivesse e percepisse diversi fenotipi di sé, tutti possibili nel momento in cui sono vissuti, anche se in forte contraddizione uno con l’altro. In alcuni momenti immagina di essere il miglior figlio che i genitori possano desiderare, subito dopo si percepisce come il peggiore (Berti e Bombi, op. cit., pag. 348).

Riguardo al periodo precedente dello sviluppo cognitivo, ovvero il periodo delle operazioni concrete, si palesano delle differenze, come Keating, citato in Stevani (op. cit., pag. 253), osserva.

• Nel periodo antecedente il bambino vive come tempo prevalente il presente, durante l’adolescenza la dimensione temporale privilegiata è il futuro.

• Nel periodo della scuola primaria i ragionamenti sono basati sui dati concreti, nell’adolescenza si sviluppa invece la riflessione metacognitiva, che trascende la concretezza. L’acquisizione del pensiero formale ha il suo riverbero anche nella strutturazione del giudizio morale.

Kohlberg, citato in Berti e Bombi (op. cit., pag. 350 – 351), distingue tre fasi nello sviluppo del giudizio morale.

• Fase preconvenzionale, tipica dei bambini fino a nove anni, caratterizzata dall’attenersi a regole morali e sociali, che si sentono estranee al proprio sé, con lo scopo di evitare di incorrere in punizioni.

• Fase convenzionale, che contraddistingue gli adolescenti e gli adulti, ovvero i dettami morali e sociali sono interiorizzati a tal punto che diviene spontaneo comportarsi in un certo modo nelle varie circostanze.

• Fase postconvenzionale, che è peculiare di alcuni adulti che aderiscono a norme morali e sociali, interiorizzandole indipendentemente dalle leggi vigenti nel proprio contesto sociale. È quello che accade agli individui che sono contrari alla militarizzazione, anche se nella nazione in cui vivono è obbligatorio il servizio militare di leva. Essi, pur di difendere le proprie idee, subiscono la reclusione.

 

L’adolescente, la famiglia e i coetanei

Il rapporto fra adolescenti e genitori è animato da due necessità contrastanti:

• l’esigenza di autonomia;

• il bisogno di dipendenza.

“…Questa situazione caratterizzata da un ripetuto allontanarsi e riavvicinarsi viene chiamata marginalità psicologica…” (Berti e Bombi, op. cit., pag. 357).

Il ragazzo spesso riesce ad emanciparsi da questa dialettica antitetica attraverso l’identificazione con figure genitoriali positive. Per agevolare ciò i genitori devono essere presenti in maniera non opprimente nella sua vita, lasciandogli ampi spazi di autonomia. La presenza di figure adulte solide e autorevoli aiuta, quindi, l’adolescente a non smarrire la bussola nei momenti di forte contraddizione che egli sperimenta (Mastrangelo, op. cit., pag. 28).

La marginalità sociale, che gli adolescenti vivono, li spinge a ricercare fortemente la compagnia di altri marginali sociali, cioè i propri coetanei. Nell’ambito del gruppo dei pari si possono avere diverse aggregazioni, come Brown, citato in Berti e Bombi (op. cit., pag. 359), fa notare.

• Il gruppo allargato è costituito dagli adolescenti che condividono la stessa reputazione sociale. Tale gruppo può essere definito, utilizzando la definizione di Saottini, riportato in Stevani (op. cit., pag. 258), evasivo – trasgressivo ed è caratterizzato dalla ricerca del divertimento a tutti i costi, dall’opposizione verso gli adulti. Di questa aggregazione sociale, di solito, fanno parte i soggetti che hanno un’autostima deficitaria e un rapporto conflittuale con i “grandi”, dai quali si sentono poco considerati.

• Il piccolo gruppo è formato dagli adolescenti che si riconoscono simili perché condividono delle attività. Esso può essere formale, cioè basato su regole rigide, oppure informale, come quello costituito da ragazzi che condividono gli stessi interessi e trascorrono insieme il loro tempo libero. Spesso i gruppi formali sono promossi dagli adulti. I giovani che fanno parte di questi gruppi formali hanno un’ideologia della vita che si basa sul sistema valoriale tradizionale, hanno un buon rapporto con la propria famiglia e con la propria corporeità, che si estrinseca in una partecipazione alle attività sportive (Stevani, op. cit., pag. 258).

• Un microgruppo sociale importante nell’adolescenza è rappresentato dalla diade amicale. Nell’adolescenza l’amicizia assume una grande importanza: infatti, l’amico diventa uno specchio in cui riflettersi. Il concetto di amicizia assume delle connotazioni diverse a seconda del sesso: per i ragazzi essa è una relazione fianco a fianco, cioè un luogo dove si condividono delle attività; per le ragazze è una relazione faccia a faccia, ovvero un luogo dove si spartiscono delle confidenze, dei vissuti emotivi (Berti e Bombi, op. cit., pag. 365).

L’adesione ad un gruppo esercita una forte attrattiva sui giovani. Spesso, però, entrarne a far parte non è facile. I gruppi sono caratterizzati dal conformismo dei suoi membri. Infatti, gli appartenenti alla stessa aggregazione hanno in comune il modo di pensare, il vestiario, le abitudini, i luoghi da frequentare. In altre parole, attraverso questa comunanza, ritrovano un’identità collettiva.

Altra peculiarità è il favoritismo, ovvero i singoli membri ritengono che il proprio gruppo sia migliore rispetto agli altri (Berti e Bombi, op. cit., pag. 363). Con il passare del tempo il gruppo perde d’importanza agli occhi dell’adolescente. Questo avviene per due fattori:

• la riscoperta della propria famiglia di origine;

• la formazioni delle diadi affettive.

Le relazioni amorose rappresentano un momento importante di crescita per l’adolescente. Attraverso esse, il ragazzo o la ragazza cementano la propria identità, sviluppano le abilità sociali, fugano il senso di solitudine (Stevani, op. cit., pag. 257).

 

Adolescenza, delinquenza, devianza e identità

Nella sua fase iniziale l’adolescenza diventa il picco dei comportamenti antisociali, che tendono a scomparire intorno ai diciotto – venti anni. Solo una piccola parte passa dalla devianza alla criminalità: sono quei soggetti che hanno avuto dei comportamenti antisociali precoci (Berti e Bombi, op. cit., pag. 368). Questi soggetti, inoltre, sono contraddistinti dall’avere una famiglia incoerente e, durante il periodo della scuola primaria, dall’essere stati rifiutati dai coetanei. Nella loro vita è frequente l’esperienza dell’insuccesso scolastico, con anni scolastici ripetuti più volte (Berti e Bombi, op. cit., pag. 369) .

L’aggregazione in gruppi delinquenziali diventa una maniera per superare l’esclusione sociale. In questo caso, l’identità delinquenziale esercita un certo fascino e regala il sospirato senso di appartenenza (Berti e Bombi, op. cit., pag. 369). Secondo De Leo, citato in Stevani (op. cit., pag. 264), la devianza minorile ha una valenza comunicativa, ovvero l’adolescente attraverso essa invia dei messaggi relativi al suo sistema di attribuzioni e di significati. Questi producono due risultati:

• strumentali, relativi alla dimensione pratica del comportamento deviante;

• espressivi, riguardanti la propria identità, il rapporto con l’alterità, il rapporto con i valori del mondo degli adulti.
Gli adolescenti sono, come si diceva, alla ricerca della propria identità. Perché ci sia la conquista dell’identità, il ragazzo deve compiere due azioni:

• l’esplorazione di diverse alternative esistenziali;

• il successivo impegno in una di esse (Marcia, citato in Berti e Bombi, op. cit., pag. 376).

In sintonia con l’identità è la costruzione del proprio futuro, ovvero della prospettiva temporale. Con tale termine si intende il finalizzare le attività del presente ad eventuali sbocchi lavorativi futuri. Di solito gli adolescenti che hanno maggiore successo scolastico sono quelli che hanno una prospettiva temporale più positiva (Berti e Bombi, op. cit., pag. 381).

In conclusione, come osserva la Oliverio Ferraris, citata in Stevani (op. cit., pag. 246), l’età adolescenziale ha degli archetipi evolutivi a cui deve ottemperare, che sono:

• il reperire una nuova fenomenologia nei rapporti con l’alterità;

• il costruirsi l’identità di adulto;

• il percepirsi come un’individualità ben separata da quella genitoriale;

• l’organizzare la mappa cognitiva della propria adultità, fatta di variabili valoriali, attribuzioni di significati, interpretazioni della realtà.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  •  Berti, A. E., & Bombi, A. S. (2005). Corso di psicologia dello sviluppo. Bologna: Il Mulino.
  • Costabile, A., Bellacicco, D., Bellagamba, F. e Stevani, J. (2011). Fondamenti di psicologia dello sviluppo. Roma – Bari: Laterza.
  •  Mastrangelo, G. (1986). Manuale di neuropsichiatria infantile. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore.

La Sindrome degli Hikikomori: Il signor Cravatta di Milena Michiko Flasar – Recensione

Caterina Laria

Un romanzo malinconico, che si conclude con una luce di speranza. Ci ricorda che dietro una diagnosi esiste una persona, con le sue peculiarità che la rendono unica.

In questo suo primo romanzo Milena Michiko Flasar affronta il fenomeno degli hikikomori giapponesi: adolescenti che, pressati dalle elevate richieste del mondo esterno (scuola, genitori, società), si ritirano in un isolamento pressoché completo nella loro camera.

Due solitudini si incontrano al parco. Due malinconie si osservano con reciproca diffidenza, sino a diventare insostituibili l’una per l’altra. È la storia narrata da Taguchi Hiro, giovane hikikomori giapponese che dopo due anni di reclusione nella sua camera per la prima volta esce di casa e cammina per la strada. Inquietato dal quel mondo che aveva lasciato fuori dalla porta, trova sollievo sulla panchina di un parco. Qui incontra il salaryman Ohara Tetsu, un tipico impiegato in giacca e cravatta intento a consumare il pranzo nel caratteristico bentō. Il tempo passa e il “Signor Cravatta” rimane sulla panchina, anziché rientrare nell’ufficio dove si suppone debba tornare.

Il ragazzo inizia a osservarlo con cauta curiosità, comprendendo che le loro presenze sono entrambi fuori posto: cosa ci fa un impiegato al parco, durante quello che dovrebbe essere il suo orario di lavoro? E poi, cosa ci fa nel “mondo esterno” lui stesso, che in quanto hikikomori dovrebbe starsene rintanato in camera sua?

«Nel parco lui era l’unico salaryman. Nel parco io ero l’unico hikikomori. C’era qualcosa che non quadrava in noi due. Lui avrebbe dovuto essere nel suo grattacielo, io avrei dovuto starmene nella mia stanza, fra quattro mura.»

Ad avvicinare i due protagonisti è il filo di fumo di una sigaretta. Iniziano a scoprirsi a vicenda e a diventare l’uno il confidente dell’altro. Così diversi fuori, così simili nel loro vivere su uno sfondo di incomunicabilità: Taguchi racconta cosa lo ha portato all’isolamento e raccoglierà la confessione di Ohara che non ha il coraggio di dire alla moglie di essere stato licenziato. La panchina è ormai solo un pretesto, nei giorni di pioggia si daranno appuntamento in una caffetteria con sottofondo di musica jazz, arrivando carichi di aspettative e voglia di raccontarsi.

Taguchi ci rivela di essere un hikikomori un po’ diverso dagli altri: «Non leggo manga, non passo la giornata davanti al televisore o la notte al computer. Non costruisco modellini di aeroplani. I videogiochi mi fanno stare male. Niente deve distogliermi dal tentativo di proteggermi da me stesso.» E se fosse un hikikomori anche il Signor Cravatta, che ha rifuggito la vita isolandosi nel suo lavoro?

Il libro inizia in maniera molto lenta e accidentata; verrebbe quasi voglia di lasciar perdere. Ma oltrepassata questa fase, ci si rende conto che è la stessa difficoltà che hanno i protagonisti. L’incomunicabilità, la paura di tradire i nostri cari mettendoli al corrente di un fallimento, la vergogna di vergognarsi, la sofferenza.

Le vicende dei protagonisti si snodano poco a poco, come matassine troppo delicate per poter essere srotolate i colpo. Durante la lettura si vive quella sensazione dolceamara di essere testimoni di un’interazione osservata da lontano, come se si fosse seduti su un’altra panchina del parco. C’è un senso di lieve malinconia, voglia di sapere come andrà a finire desiderando allo stesso tempo che la storia non finisca così in fretta.

Un romanzo malinconico, che si conclude con una luce di speranza. Ci ricorda che dietro una diagnosi esiste una persona, con le sue peculiarità che la rendono unica.

 

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Abuso verbale sul posto di lavoro: esistono differenze di genere?

FLASH NEWS

Gli studi hanno rilevato una differenza di genere tra le vittime di abusi verbali sul posto di lavoro e, nello specifico, suggeriscono che gli uomini sarebbero più a rischio rispetto alle donne.

I ricercatori dell’Institut Universitaire de Santé Mentale de Montréal e dell’University of Montreal erano interessati ad indagare se esista una prevalenza di genere tra le vittime di abusi verbali sul posto di lavoro. E’ molto importante soffermarsi sul tema degli abusi in contesto lavorativo, dal momento che essi hanno gravi conseguenze a livello psicologico. In effetti, esistono già numerose ricerche su tale tema, alcune delle quali sottolineano anche l’importanza di prendere in considerazione le variabili sociodemografiche come, ad esempio, il genere. Ad ogni modo i risultati sono spesso confusi e contraddittori e non si è ancora riuscito a definire con chiarezza se gli uomini o le donne siano soggetti maggiormente a rischio.

Per questa ragione Stephane Guay, direttore del Trauma Studies Center dell’Institut Universitaire de Santé Mentale de Montréal, nonché principale autore della ricerca di seguito presentata, ha pensato di identificare e riassumere tutti gli studi precedenti che indagavano la tematica degli abusi verbali sul luogo di lavoro, tenendo in conto nelle loro analisi del genere delle vittime.

Dopo un raffinato processo di selezione, l’autore ha deciso di prendere in considerazione 29 dei 90 studi tra quelli identificati; tra quelli prescelti, la maggior parte (24) erano stati condotti nell’ ambito del settore sanitario.

Dalle analisi di tali ricerche emerge che in circa il 50% dei casi (15 studi su 29) non viene rilevata una differenza di genere significativa, ovvero non sarebbe dimostrata una prevalenza di abusi verbali rivolti alle donne oppure agli uomini. Questa omogeneità potrebbe essere spiegata dal fatto che gli studi sono stati perlopiù condotti in ambito sanitario: gli uomini si sarebbero adattati ad un contesto prevalentemente gestito da donne adottando comportamenti che, stereotipicamente, sono considerati appartenere al genere femminile. Per esempio, userebbero più spesso comunicazioni di tipo tecnico e un approccio meno aggressivo rispetto a uomini che lavorano in altri settori.

Sorprendentemente, invece, gli studi che rilevano una differenza di genere tra le vittime di abusi verbali sul posto di lavoro suggeriscono che gli uomini sarebbero più a rischio rispetto alle donne. Infatti, 11 studi rilevano la prevalenza di tali comportamenti rivolti a personale di sesso maschile, mentre solo 4 studi rilevano la presenza di tali atteggiamenti come maggiormente rivolti a personale di genere femminile.

Sorpreso da tali risultati, Sthephane Guay cerca alcune spiegazioni a questo fenomeno. Ipotizza innanzitutto che in un posto di lavoro a maggioranza femminile ci si aspetti che gli uomini assumano un atteggiamento più protettivo, e questo li renderebbe più vulnerabili. Un’altra spiegazione potrebbe essere legata al fatto che è socialmente più accettato aggredire verbalmente un membro del “sesso forte”, considerato in grado di difendersi, piuttosto che una donna, la quale è considerata comunemente più vulnerabile. Questa ipotesi sarebbe resa ancora più plausibile dal fatto che la maggior parte dei colpevoli di abusi verbali sul lavoro sono persone di sesso maschile. Infine, la terza spiegazione proposta dall’autore sarebbe quella secondo cui gli uomini tenderebbero ad essere più arroganti se provocati, andando in questo modo a peggiorare la situazione. Le donne, invece, avrebbero maggiori capacità di negoziazione.

Ad ogni modo, alcune delle limitazioni metodologiche di tale studio ci impediscono di tirare conclusioni definitive. Il fatto che i soggetti provenissero prevalentemente da categorie sanitarie e negli studi venissero prese in considerazione poche altre categorie professionali è un limite importante. Altri fattori limitanti i risultati di questa ricerca sono, ad esempio, la mancanza di chiarezza su ciò che si intende per “abuso verbale”, o il fatto che la tolleranza della violenza verbale sulle donne sia legata soprattutto a certi contesti culturali.

Rimane comunque importante approfondire queste tematiche e continuare a lavorare in questa direzione. Infatti, molte persone passano la maggior parte del loro tempo sul posto di lavoro, e il tipo di ambiente in cui questo si svolge va in questo modo ad incidere sulla qualità della vita delle persone. Lavorare in un ambiente dignitoso, rispettoso e piacevole significa, in sostanza, migliorare la qualità del nostro umore, diminuire lo stress percepito e, in generale, vivere meglio anche fuori dal contesto strettamente lavorativo.

 

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Binge Eating Disorder: tra Farmaci e Psicoterapia

Un articolo di Cristina Da Rold, pubblicato su Oggiscienza il 26 novembre 2014. Riprodotto su licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.

 

SALUTE – Parlare di disturbi del comportamento alimentare non significa solo anoressia o bulimia. Sempre più spesso significa parlare anche di Binge Eating Disorder (BED), un disturbo che provoca in chi ne è colpito episodi di abbuffate compulsive a qualsiasi ora del giorno o della notte. Secondo la SIMA (Società italiana di Medicina dell’Adolescenza) sarebbero due milioni i giovani a soffrirne in Italia, il 40% di essi tra i 15 e i 19 anni, anche se i primi sintomi possono presentarsi anche già tra gli 8 e i 12 anni.

A differenza di altri disturbi legati al comportamento, che possono venir curati anche senza alcun intervento farmacologico, nel caso dei disturbi alimentari oggi qualsiasi percorso terapeutico prevede nella sua interezza la possibile somministrazione di farmaci, almeno in alcune fasi della terapia.
“I disturbi del comportamento alimentare sono disturbi psichiatrici con importanti manifestazioni psicopatologiche in cui sono spesso presenti complicanze mediche; è quindi necessaria la stretta collaborazione tra figure specialistiche diverse che si occupino, in modo integrato, della mente e del corpo: lo psichiatra, il dietologo, l’internista e lo psicoterapeuta lavorano all’interno di un programma terapeutico condiviso per ogni specifico paziente”.

A parlare è Loriana Murciano, psichiatra della Federazione Italiana Disturbi Alimentari della sede a Torino.

“Il trattamento farmacologico nei disturbi alimentari nasce dall’osservazione della frequente associazione ad altre psicopatologie quali disturbi depressivi, sintomi ossessivi o multi-impulsività; la farmacoterapia non rappresenta mai un trattamento d’elezione ma deve essere considerata di supporto alla psicoterapia e non è indicata in tutti i pazienti con disturbo alimentare. I farmaci attualmente più utilizzati sono gli antidepressivi ad azione prevalentemente serotoninergica, gli stabilizzatori dell’umore ed alcuni antipsicotici atipici. Gli studi in letteratura che valutano l’efficacia a lungo termine della terapia farmacologica nei disturbi alimentari sono ancora pochi.”

E siccome negli ultimi anni sempre più persone, specie i giovanissimi e le giovanissime, sono risultati affetti da patologie di questo tipo, la messa a punto di nuovi farmaci, oltre quelli già utilizzati, in grado di risolvere per lo meno i sintomi di queste dipendenze, è una linea di ricerca assai fertile.

A questo proposito è notizia di qualche giorno fa che due ricercatori italiani di stanza alla Boston University, Pietro Cottone e Valentina Sabino, avrebbero scoperto gli effetti positivi della memantina, un farmaco normalmente usato su pazienti affetti da morbo di Alzheimer, su chi soffre di disturbi alimentari come bulimia e abbuffate compulsive. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Neuropsychopharmacology in collaborazione con l’Università di Cambridge. A oggi i risultati riguardano la fase pre-clinica, che non coinvolge cioè ancora a livello sperimentale l’essere umano, ma sui topi l’effetto osservato è stato netto. In una prima fase i ricercatori offrivano ai topi cibi molto dolci in modo da stimolarne i sensi, e poi somministravano loro il farmaco, notando come dopo la dose sia l’attrazione esercitata dal cibo sull’animale, che le abbuffate si bloccassero. Il farmaco infatti agisce sul cosiddettonucleus accumbens, un’area del cervello che era già associata in precedenza alle forme di dipendenza da cibo.

“Il punto cruciale per una terapia farmacologica efficace è formulare, per ogni singolo paziente, una corretta diagnosi che tenga conto di eventuali altri disturbi psichiatrici in associazione.” A questo proposito i criteri diagnostici li fissa ancora una volta il DSM, giunto alla sua quinta edizione. “Nel 2013 il Binge Eating Disorder è stato inserito come categoria autonoma nel capitolo dei disturbi alimentari alla pari dell’anoressia e della bulimia nervosa” spiega la Murciano. “Con il grosso limite del DSM-V per il quale il Binge Eating viene riconosciuto come disturbo psichiatrico solo se vengono soddisfatti tutti i criteri che il manuale stesso richiede lasciando aperto il problema della valutazione della grande categoria del sottosoglia.

@CristinaDaRold

 

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Senza figli nel mezzo: una metodologia d’intervento di gruppo con coppie di genitori in conflitto – Report dal Convegno SIRTS, 22 Novembre 2014

Giorgia Vacchini

REPORT DAL CONGRESSO:  “Né con te né senza di te” – La sorte dei legami familiari nel conflitto coniugale e nelle relazioni con i figli

 

La Prof. Van Lawick ha sottolineato come un lavoro multifamiliare, ovvero che vede la presenza di più famiglie contemporaneamente accomunate dallo stesso problema, funzioni bene per le situazioni di violenza domestica e di separazioni con alto tasso di conflittualità.

Justine Van Lawick è Psicologa Clinica e Psicoterapeuta di formazione sistemica, ha lavorato con adulti e bambini psichiatrici e ha fondato, nel 1984, il Lorentzhuis Centre (Haarlem, in Olanda) dove si occupa di famiglie, in particolare di famiglie difficili dove sono frequenti i conflitti e le violenze.

Il 22 Novembre ha presentato al convegno SIRTS, “Né con te né senza di te” la sorte dei legami familiari nel conflitto coniugale e nelle relazioni con i figli, il suo prezioso contributo “No Kids in the Middle, Senza figli nel mezzo: una metodologia d’ intervento di gruppo con coppie di genitori in conflitto”.

La Prof. Van Lawick ha sottolineato come un lavoro multifamiliare, ovvero che vede la presenza di più famiglie contemporaneamente accomunate dallo stesso problema, funzioni bene per le situazioni di violenza domestica e di separazioni con alto tasso di conflittualità.

Spesso i genitori dicono che i figli non sono presenti durante i loro litigi e che non sanno della situazione in casa, in realtà non è così: i figli percepiscono tutto, sanno cosa sta succedendo anche quando non vedono direttamente i genitori perché si trovano in un’altra stanza, sanno cosa si dicono mamma e papà anche quando sono con la musica alta e fingono di non sentire. Nei casi di separazione conflittuale è difficile convincere gli ex partner a venire insieme a colloquio da un terapeuta, accettano subito invece quando sono invitati singolarmente: in questo modo hanno la possibilità di parlare male l’uno dell’altra sperando di trovare nella figura del professionista l’ennesimo alleato da scatenare contro l’ex.

Le separazioni non coinvolgono mai solo gli ex partner e i figli, sottolinea Justine Van Lawick, ci sono con loro due reti ben distinte: ognuno ha il suo avvocato, il suo psicologo, i suoi amici che pensano che l’ex sia il carnefice, le famiglie d’origine e spesso i nuovi compagni o compagne che fanno la guerra insieme a loro. Ci troviamo così davanti a due mondi in conflitto, a due sistemi contrapposti. Numerosissimi sono i casi in cui i genitori, ormai ex coniugi, portano i figli dallo psicologo perché a causa della loro separazione soffrono, ma questo non serve se poi i genitori a casa continuano a urlare e a usare violenza, se i nonni o i nuovi compagni di mamma e papà fomentano la rabbia e il rancore nei confronti dell’altro partner. “Chi lavora con i bambini non può non lavorare con i genitori, è necessario lavorare sul contesto”, di questo è convinta Van Lawick.

Ecco che nasce l’idea di un progetto innovativo, un progetto rivolto alle famiglie separate con minori dove il conflitto e la violenza sono ancora una costante, dove ci sono difficoltà di comunicazione e dove due mondi un tempo vicini, quello della mamma e quello del papà, si fanno la guerra.

Il lavoro è senza dubbio innovativo perché mette i figli al centro e fa lavorare i genitori affinchè rimangano tali anche dopo la difficile separazione e facciano il bene della propria prole. La professoressa e la sua equipe hanno così pensato di formare dei gruppi di famiglie. In media si lavora con 6 famiglie separate con minori, il percorso si svolge in parallelo con i genitori e i figli per 8 sessioni di 2 ore ciascuna.

Al primo incontro sono invitati i genitori senza i figli. Durante questo iniziale contatto si spiegano gli obiettivi del progetto e dell’importanza del lavoro di gruppo: imparare a gestire il conflitto e la violenza, imparare a rimanere genitori anche dopo una separazione difficile, provare a confrontarsi con chi si trova in una situazione simile. Si chiede poi loro di interrompere ogni procedura legale e di adottare un atteggiamento nuovo che lasci spazio alle emozioni e alla vulnerabilità, di abbassare le armi della battaglia contro l’ex. Questo atteggiamento è opposto a quello che si assume in ambito legale.

Al secondo incontro sono invitati i genitori con la loro rete, ovvero i nuovi compagni, gli avvocati, le famiglie d’origine, gli amici e i vicini di casa. Chiunque abbia contatto con uno degli ex coniugi e sia interessato può partecipare in forma anonima a una sessione informativa sul lavoro che i genitori separati svolgeranno per il benessere loro e dei loro bambini. Spesso la rete si chiede: “Ma quindi torneranno insieme alla fine del percorso con voi?”, Van Lawick sottolinea più volte che l’obiettivo non è riunire la coppia ma imparare a essere ancora genitori, questo deve essere chiaro a tutti.

E’ fondamentale coinvolgere la rete, sostiene la fondatrice del Lorentzhuis Centre, essa rappresenta la risorsa a cui i genitori possono attingere nei momenti di difficoltà. Tra una sessione e l’altra vengono dati dei compiti che spesso coinvolgono anche le rispettive reti, ad esempio alcune attività vedono la presenza dei nonni che sono tra gli attori fondamentali delle famiglie separati con minori.

Le attività e il programma degli incontri non sono mai standard, molto dipende dal gruppo con cui si lavora. Il lavoro multifamiliare ha molti risvolti positivi:

– Permette uscire dall’isolamento e dall’idea di essere gli unici ad aver vissuto una separazione così violenta e complessa, il confronto con il gruppo aiuta a superare lo stigma di essere una famiglia problematica.

– Incrementa un senso di solidarietà e facilita l’aiuto reciproco. Le persone che si vedono nella stessa situazione sono più motivate ad aiutarsi vicendevolmente; Van Lawick ha raccontato come spesso dopo il lavoro in gruppo tra le famiglie o tra alcuni componenti delle reti nascano frequentazioni che proseguono anche al di fuori del lavoro con i terapeuti.

– Spesso le famiglie fanno fatica a guardare e a comprendere le dinamiche che accadono all’interno del proprio nucleo, nel lavoro di gruppo questo è facilitato dalla presenza degli altri. Osservando le altre famiglie, simili alla mia perché anch’essa caratterizzata da violenza e conflitto, comprendo molte dinamiche che caratterizzano il mio nucleo di appartenenza. L’obiettivo del lavoro è anche quello di stimolare nuove prospettive e punti di vista.

– Aiuta le famiglie a sentirsi capaci e attive, non si percepiscono più come bisognose di aiuto ma comprendono che al loro interno hanno le risorse per fronteggiare le difficoltà.

In questo lavoro il terapeuta e gli operatori che sono con lui non si pongono come esperti (“So che cosa ha la tua famiglia che non va”), né come insegnanti (“Ti dico io cosa devi fare e tu esegui”), nemmeno come giudici (“Questo è giusto mentre questo è sbagliato”). L’equipe ha il compito di facilitare l’emergere delle risorse che ogni famiglia possiede e di aumentare la consapevolezza di alcune dinamiche disfunzionali; inoltre aiuta la connessione e l’interazione tra famiglie fungendo da catalizzatore.

Il lavoro dei bambini si svolge in parallelo ed è guidato da un’equipe formata. L’obiettivo degli incontri è quello di fare qualcosa di concreto da mostrare poi ai genitori. In molti casi viene prodotto un video nel quale i minori esprimono cosa significa per loro essere figli di genitori in conflitto, oppure vengono ripresi degli sketch in cui i bambini giocano il ruolo della coppia che litiga; con i più piccoli potrebbe essere interessante allestire una mostra fotografica o di quadri da loro prodotti sul tema della separazione e del conflitto. Questi lavori vengono poi mostrati agli adulti: è un momento molto delicato perché i genitori hanno la possibilità di sentire e vedere la sofferenza dei figli, di mettersi nei loro panni. “Spesso provano vergogna, ma è positiva, aiuta a capire tanti errori passati e a non ripeterli”, dice Van Lawick.

L’intervento si è concluso con un gioco di ruolo che spesso utilizzano lei e i suoi collaboratori nel lavoro con le famiglie e che ha visto coinvolti in prima linea alcuni partecipanti al convegno. A due persone è stato chiesto di vestire i panni di una coppia mentre litiga, ad altri due di mettersi nel ruolo dei figli che ascoltano. Durante il litigio i bambini, seduti su due sedie, dovevano avvicinarsi o allontanarsi fisicamente dai genitori a seconda se quello che dicevano gli piaceva o meno. L’esercizio è stato molto forte e di grande effetto: ha permesso in primo luogo di rilevare la grande sofferenza dei figli quando sentivano certe frasi degli adulti; in un secondo momento di quanto spesso i genitori si dimenticassero della loro presenza dei bambini perché troppo presi dalla loro discussione.

 

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Smith & Wesson (2014) di Alessandro Baricco – Recensione

L’accoppiata Smith e Wesson non è piu sinonimo di fucili ma ora grazie ad Alessandro Baricco diventa una coinvolgente e assurda storia di coraggio, di vita e di ribellione a tre voci.

La giovane Rachel non ci sta, non è pronta ad arrendersi, non scende a compromessi che, calati nei primi decenni del secolo scorso, hanno tutta l’aria di essere compromessi odierni. Vuole essere una giornalista e per farlo è pronta a diventare notizia in prima persona. Accanto a lei nell’impresa: Wesson, il Pescatore, raccatta cadaveri nelle cascate piu famose del mondo, le leggendarie Niagara Falls, all’ombra del ricordo del padre; Smith, a suo modo affascinante anticonformista metereologo fai da te che compila tabelle statistiche metereologiche ascoltando i racconti della gente. 

Già dal loro primo incontro si sorride all’accoppiata dei loro cognomi, e per uscire dall’imbarazzante circostanza Baricco alza il tiro, Tom e Gerry i loro primi nomi. Il tono è ilare e grottesco nella caratterizzazione di questi due personaggi e delle loro vicende forse a bilanciare il tragico esistenziale di cui Rachel, la giovane folle, è portatrice.

Wesson, depresso, poca fiducia in sé stesso, forzatamente dissuaso nelle sue credenze disfunzionali da Rachel, dai suoi potenti narcisisti ventitre anni.

Rachel: No, mi deve dire: D’accordo, sarò bellissimo.
Wesson: Perchè?
Rachel: Me lo dica.
Wesson: D’accordo, sarò….
Rachel: Bellissimo
Wesson: Più bello che posso.
Rachel: bellissimo
Wesson: Bellissimo.
Rachel: E’ così. Siamo bellissimi.

Smith, grande ingegno, inventiva e intelletto -lui si che sa tutto, anche che Rachel a un certo punto ha paura- è controllato nelle sue emozioni ma fino a un certo punto, cede a scatti di ira che prontamente riconosce e rimanda alla sua storia d’infanzia

Smith: La prego di scusarmi, ho avuto un padre molto severo.
Wesson: Fantastico, non recitava vero? Cioè non l’ha fatto per me?
Smith: No, assolutamente. Non sopporto di essere rimproverato.
Wesson: Sorprendente.
Smith: Col tempo ci si abitua.

Sullo sfondo la signora Higgins, inizialmente anonima speculatrice proprietaria del Great Falls, assume personalità nel corso della vicenda dando vita a riflessioni di una matura saggezza di sapore femminile. Rachel è follemente fantasiosa e coraggiosa, non teme l’oscura botte delle sue paure, da riconoscere però a Smith e Wesson grande flessibilità nel riadattare inaspettatamente il loro disegno di vita. Nel momento di affiancare Rachel e non solo.

Il racconto, nella forma di piece teatrale -proprio come l’intramontabile Novecento pubblicato per la prima volta venti anni fa- è appagante, coinvolgente, in un crescendo che non lascia tregua e non trascura i dettagli, perche per usare le parole di Smith

Guardi che le parole sono piccole macchine molto esatte […] e si giri da solo il suo rivoltante passato di fave che solo l’odore fa vomitare […].

 

 

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La mia Londra di Simonetta Agnello Hornby (2014). Recensione – Letteratura & Psicologia

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Baricco, A. (2014). Smith & Wesson. La Feltrinelli. 

E’ possibile imparare ad avere esperienze sinestetiche?

FLASH NEWS

Un recente studio condotto da alcuni ricercatori del Sackler Centre for Consciousness Science dell’Università di Sussex ha messo in evidenza, per la prima volta, come sia possibile insegnare a soggetti adulti ad associare lettere dell’alfabeto a colori, ricreando un’esperienza simile a quella vissuta da soggetti sinestetici.

L’etimologia del termine sinestesia proviene dal greco syn-aisthanèstahai che significa “percepire insieme, sentire insieme” ed indica letteralmente un’esperienza di percezione simultanea. Si tratta di un processo percettivo (non cognitivo) inconsueto durante il quale accade che una stimolazione sensoriale generi in maniera automatica la percezione di due eventi sensoriali distinti e concorrenti, uno dei quali costituisce un’esperienza addizionale che non risulta essere collegata ad alcuna caratteristica fisica dello stimolo. Tale condizione interessa 1 persona su 23 e può presentarsi in differenti forme. Alcuni soggetti, per esempio, “vedono” lettere associate a specifici colori, altri “assaporano” alcune parole, altri ancora percepiscono determinati suoni in associazione a particolari colori.

Per quanto affascinante, si tratta, tuttavia, di una condizione ancora poco compresa. Uno tra i maggiori elementi di dibattito riguarda i fattori implicati nella sua origine. Alcuni autori sostengono il coinvolgimento di fattori genetici, secondo altri, invece, tale condizione emergerebbe come conseguenza di particolari esperienze ambientali. L’associazione grafema-colore costituisce un importante elemento a sostegno di questa seconda ipotesi in quanto tale forma di sinestesia tende a comparire nel corso dei primi anni scolastici, quando il bambino entra in contatto per la prima volta con i grafemi.

Ritenendo che nello sviluppo della sinestesia risultino coinvolti entrambi questi fattori, Daniel Bor e Nicolas Rothen, dell’Università di Sussex, hanno sviluppato un programma di training della durata di nove settimane volto a verificare se adulti non sinestetici fossero in grado di avere esperienze di tipo sinestetico. I risultati di questo studio, che ha coinvolto un campione di 14 soggetti, hanno messo in evidenza come, in seguito alla partecipazione a tale programma, soggetti che non avevano mai avuto esperienze sinestetiche non solo avessero sviluppato una forte associazione grafema-colore, ma avessero avuto vere e proprie esperienze di tipo sinestetico, percependo alcune lettere associate a particolari colori o a peculiari sensazioni (per esempio “la lettera x è noiosa”, “la w è calma”).

Uno dei risultati più sorprendenti è stato un incremento, in media di 12 punti, nella valutazione del QI di questi soggetti rispetto al gruppo di controllo, che non era stato sottoposto ad alcun training.

Le capacità acquisite dai soggetti nel corso del programma sono risultate essere, tuttavia, soltanto provvisorie in quanto, a tre mesi dalla sua conclusione, nessun soggetto era in grado di avere ancora esperienze di tipo sinestetico.

Secondo gli autori, i risultati ottenuti confermerebbero innanzitutto il coinvolgimento di fattori ambientali nello sviluppo di esperienze sinestetiche; inoltre, sembrerebbero suggerire come esercizi in grado di ampliare la propria esperienza percettiva possano promuovere lo sviluppo di “nuovi modi di avere esperienza del mondo”. L’incremento cognitivo osservato in associazione a queste esperienze, sebbene provvisorio, da un punto di vista clinico, potrebbe costituire, infine, un interessante punto di partenza per lo sviluppo di programmi di training cognitivo a supporto delle funzioni mentali deficitarie in alcuni gruppi vulnerabili di pazienti, quali bambini con Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) o adulti affetti da demenza.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Esperienza di sinestesia: a quale livello avviene l’elaborazione dei colori?

BIBLIOGRAFIA:

  • Bor, D., Rothen, N., Schwartzman, D.J., Clayton, S. & Seth, A.K. Adults Can Be Trained to Acquire Synesthetic Experiences. Scientific Reports, 2014; 4: 7089 DOI: 10.1038/srep07089.  DOWNLOAD

Femminicidio: i pericolosi effetti del programma “Amore Criminale” di RAI 3

Domenica scorsa abbiamo ricevuto in Redazione questa lettera aperta che (condividendone i contenuti) volentieri pubblichiamo qui oggi:

 

Lettera aperta della Dr. Piera Serra – Psychology and Psychotherapy Research Society –

Alla Presidente RAI Radiotelevisione Italiana S. p. A.

Dr. Anna Maria Tarantola

Viale Mazzini 14

00195 Roma

 

Oggetto: Primi esiti di uno studio relativo ad alcuni possibili effetti sul pubblico di Amore Criminale, RAI 3.

Io sottoscritta Piera Serra mi permetto di segnalare alla S.V. i primi esiti di uno studio relativo alla trasmissione in oggetto, che stiamo conducendo nell’ambito dell’associazione per le ricerche psicologiche che rappresento (una piccola organizzazione non governativa).

Amore Criminale, trasmissione rivolta a prevenire le violenze sulle donne attraverso la documentazione della sofferenza delle vittime e delle loro famiglie, nonché attraverso la condanna morale del comportamento degli aggressori e la cronaca delle condanne inflitte, potrebbe contenere elementi atti non solo a neutralizzare l’effetto benefico desiderato, ma addirittura, qualora lo spettatore sia un uomo che desidera uccidere la partner o l’ex-partner, esitare in effetti in qualche modo controproducenti.

Di seguito esponiamo una sintesi di alcuni riscontri che potrebbero suggerire tale ipotesi, riscontri che rappresentano i primi esiti di uno studio sui filmati delle puntate del 03.11.2014, del 10.11.2014 e del 17.11.2014. L’indagine è stata svolta su registrazioni effettuate al momento in cui la trasmissione andava in onda (non quindi sulle registrazioni dell’archivio messo a disposizione del pubblico nel sito della RAI). Sulle vicende narrate non abbiamo voluto acquisire altre informazioni oltre a quelle contenute nei filmati stessi, non essendo oggetto del nostro studio la completezza delle informazioni.

L’esame è stato svolto tenendo conto dei comportamenti tipicamente manifestati dagli autori di violenze su partner o ex-partner e segnatamente delle tre ben note autogiustificazioni delle violenze commesse:

  1. La pretesa che esse furono dettate dalla passione amorosa;
  2. La loro spiegazione come esito di un momento di discontrollo o follia;
  3. L’interpretazione di tali discontrollo o follia come innescati da qualche comportamento della vittima. Nei filmati troviamo ripetutamente condannata la violenza ed espressa solidarietà alle vittime. Tuttavia, intercalati a questi contenuti e senza soluzione di continuità con essi, troviamo purtroppo anche parole e immagini che veicolano l’adesione a stereotipi culturali atti a validare le tre autogiustificazioni di cui sopra:

 

  1. Attribuzione all’autore di femmicidio di sentimenti di amore per la donna che uccide (autogiustificazione n. 1). Si tratta di un’attribuzione arbitraria; infatti non solo è evidentemente da escludersi l’amore per la donna in chi la sta uccidendo, ma, anche per quanto riguarda la fase iniziali della relazione, gli autori della trasmissione non possono sapere se un autore di femmicidio abbia provato amore per la vittima o se invece il suo comportamento, anche quando è stato tipico dell’innamoramento, sia stato in realtà dettato dalla tendenza a sedurre la donna per soddisfare un desiderio di controllo.

A1. Anche se il concetto che quando c’è violenza non c’è amore è spesso ribadito, amore e violenza sono associati nel titolo (Amore Criminale) e in diverse affermazioni della conduttrice (ad esempio nella puntata del 03.11.2014 la conduttrice così commenta un delitto: “Capire il momento esatto in cui un amore diventa amore criminale non è facile”;

A2. Amore e delitto sono associati nella canzone scelta come sigla “Each man kills the thing he loves” [“Ogni uomo uccide la cosa che ama”] di Jeanne Moreau;

A3. Amore e delitto sono associati nell’immagine che si ripete in sovraimpressione molto frequentemente: un cuore rosso che si trasforma in un revolver e in un coltello;

A4. Anche se spesso le motivazioni degli aggressori vengono definite come volontà di possesso, viene regolarmente attribuita loro anche la gelosia (questo ricorre ripetutamente in tutte le trasmissioni esaminate). Ora, il significato di “gelosia” nella lingua italiana implica che chi la prova ami la persona di cui è geloso (si vedano per esempio i dizionari Garzanti e Zingarelli). Poiché i due termini “volontà di possesso” e “gelosia” coprono un campo semantico sovrapponibile, ci si può ragionevolmente aspettare che lo spettatore che desideri uccidere la partner o l’ex-partner si riconosca nella gelosia, che, implicando l’amore, purtroppo sostiene l’autogiustificazione n. 1, anziché nella volontà di possesso;

A5. Nelle scene che rappresentano il femmicidio, l’espressione sul volto dell’aggressore (o, meglio dell’attore che lo impersona) nel momento in cui colpisce la donna è di estremo dolore (puntata del 03.11.2014, puntata del 17.11.2014), come se l’uomo fosse profondamente dispiaciuto per la morte della donna che sta uccidendo. Si tratta di un’attribuzione del tutto arbitraria, non esistendo evidentemente prove dei sentimenti vissuti da questi imputati al momento dei delitti avvenuti senza testimoni (al di là forse delle loro stesse dichiarazioni di autodifesa) e potendosi, anzi, ragionevolmente supporre che l’emozione prevalente in un uomo che infierisce sulla ex-partner con 17 coltellate (puntata del 17.11.2014) o in quello che colpisce il volto della partner fino a renderlo irriconoscibile (puntata del 03.11.2014) sia la rabbia, non il dolore. Anche questa arbitraria attribuzione di dolore per la morte della donna va nel senso di confermare l’idea che l’aggressore provi per lei amore o affetto.

  1. La facile definizione delle violenze come esito di discontrollo o follia (autogiustificazione n. 2). In realtà, gli stati mentali di infermità o seminfermità mentale possono essere qualificati tali solo dopo complesse procedure psicodiagnostiche.

B1. Le violenze sulla partner sono frequentemente spiegate come perdita del controllo dell’aggressore in reazione a scelte di autonomia della donna. Non viene menzionata la possibilità che nelle violenze che si susseguono impunite sulla donna indifesa l’aggressore possa trovar sollievo anche rispetto a frustrazioni che hanno origine in contesti in cui è costretto a controllare la sua aggressività: sul lavoro, nella famiglia di origine ecc. e che quindi si possa trattare non di una incapacità nel controllare l’aggressività, bensì di un controllo selettivo. Per esempio, nella puntata del 03.11.2014 così viene commentata una scena di violenze fisiche e verbali: “Pasquale non sopporta l’autonomia di Adriana e un giorno esplode” (segue una scena di violenze e insulti). Nella puntata del 17.11.2014 secondo l’avvocata della vittima, “Una grande gelosia” porta Benedetto ad avere “reazioni spropositate”.

B2. Altre volte si descrivono gli stati mentali dell’aggressore con termini assunti, spesso scorrettamente, dalla nosografia psichiatrica. Per esempio, nella puntata del 03.11.2014 così vengono definiti i comportamenti di Alain: “comportamenti ossessivi e compulsivi”. E la notte prima del delitto così è narrata: “Una notte di puro delirio… Antidepressivi e hashish creano in lui ansia, panico, depressione”. Nella puntata del 10.11.2014 così è descritta lo stato mentale dell’uomo che ucciderà Sabrina: “Sabrina ha provato in tutti i modi di far capire a Nino che non è interessata a lui, ma l’uomo non l’ascolta: vive il suo delirio ossessivo… Sono tanti gli uomini che davanti al rifiuto di una donna non si rassegnano, che impazziscono all’idea che quella donna non possa essere loro”. “Nino scappa [dopo il delitto]. E’ in fuga da se stesso, è in fuga dal gesto atroce che ha compiuto. Ha portato a compimento il suo delirio ossessivo”. Persino la tendenza al controllo della vittima viene qualificata come una psicopatologia: nella puntata del 17.11.2014 la conduttrice commenta: “Rosi… uccisa da un uomo malato di possesso”.

  1. La co-partecipazione delle vittime alla violenza (autogiustificazione n. 3). Si tratta di un luogo comune presente anche nei testi della psichiatria e della psicologia, dove si parlava –e, ahimè ancora da parte di alcuni si parla- di masochismo delle vittime o collusione con l’aggressore e dove si usava –e, ahimè, ancora talvolta si usa- praticare psicoterapie di coppia per curare le violenze. In realtà, è vero che la donna che presenta tratti di personalità quali tolleranza dell’aggressività, scarsa tolleranza dell’abbandono, compromissione dell’autostima può più facilmente essere preda dell’abusante, ma è anche vero che queste sono caratteristiche che possono far parte della condizione femminile, spesso esito e non causa dell’essere oggetto di forme di maltrattamento e comuni anche a tantissime donne che non subiscono violenze: sono gli aggressori che creano le vittime di violenza, non queste ultime a cercarsela.

C1. Definizione delle violenze dell’aggressore come un’interazione di coppia. Nella puntata del 17.11.2014 così viene introdotta dalla conduttrice la scena in cui Rosi (26 anni) rimprovera a Benedetto (38 anni) la mancanza di guadagni e lui reagisce picchiandola brutalmente: “Le rispettive famiglie di origine non sempre riescono ad aiutare i due ragazzi. Così più di qualche volta i soldi non bastano neanche per fare la spesa. Questo inizia a provocare le prime grandi tensioni tra Rosi e Benedetto”. E una zia riferisce la distruzione dei mobili di casa operata da Benedetto in questo modo: “Hanno litigato e hanno distrutto una casa…”. E, più avanti, la conduttrice racconta: “Benedetto diventa geloso e violento. Basta poco per farlo scattare. Ma Rosi reagisce: quando il compagno la picchia risponde alle botte. E’ un rapporto, quello tra i due ragazzi, che è entrato in una brutta spirale”… “In un’altalena di liti e riappacificazioni, Rosi ritorna con Benedetto”… In realtà, secondo quanto riferisce la madre, tutte le volte che Rosi rientrava in famiglia Benedetto continuava a insistere perché lei tornasse da lui. “Le discussioni e i litigi tra Rosi e Benedetto proseguono nonostante la gravidanza” (in un’intervista, la madre riferisce che Rosi venne ricoverata per un pugno al ventre inferto da Benedetto). E, in seguito, “Nuove violente liti determinano il peggioramento del rapporto”… “Neanche la nascita del bambino migliora le cose: tra Rosi e Benedetto c’è sempre molta violenza”. Nella puntata del 17.11.2014 la conduttrice spiega: “La vita matrimoniale di Alkida è subito segnata da liti e violenze. In realtà, a domanda dell’intervistatrice, Alkida risponde rivelando violenze tutt’altro che reciproche: “Schiaffi, pugni, mi sbatteva a terra…. Poi iniziano le minacce di morte”. Nella puntata del 03.11.2014 così viene ricostruita dagli autori della trasmissione l’uccisione di Alice: Come siano andate le cose lo sa solo Alain. Di certo la lite si è sviluppata in tutti i locali della casa per poi concentrarsi drammaticamente nel bagno” e le immagini mostrano l’attore che picchia l’attrice mentre lei picchia lui. Nella puntata del 03.11.2014 così viene commentata una violenza sessuale: “I rapporti sessuali tra Adriana e Pasquale si impoveriscono fino a diventare rapporti di puro possesso e sottomissione”. Il termine “sottomissione” implica una componente soggettiva di obbedienza, riconoscimento del potere dell’altro, sia pure obtorto collo (si vedano per esempio i dizionari Garzanti e Zingarelli). Attribuito alla vittima di uno stupro è minimizzante e responsabilizzante tanto più che viene riportata nella stessa trasmissione questa testimonianza della donna: ”Se non facevo quello che diceva lui erano botte, erano sputi” (dunque di schiavitù si trattava, non di sottomissione).

C2. Minimizzazione delle violenze, corollario dalla loro definizione come parte di un’interazione di coppia. Si veda la puntata del 03.11.2014: “La speranza del cambiamento… naufraga contro le durezze di Pasquale” con il termine “durezze” ci si riferisce a una violenza che procura alla vittima una tumefazione a un occhio che si ridurrà solo dopo un mese. Nella puntata del 17.11.2014 così viene commentato un ricovero d’urgenza di Rosi al quinto mese di gravidanza: “Le discussioni e i litigi tra Rosi e Benedetto proseguono nonostante la gravidanza e Rosi fisicamente ne risente al punto che si teme per il bambino”. In realtà la madre di Rosi rivela, nel corso di un’intervista trasmessa nella stessa trasmissione, che Rosi era stata portata all’Ospedale perché “Le aveva dato lui un calcio… Me lo ha detto il ginecologo”.

C3. L’idea che la spiegazione dei fatti sia da ricercarsi parimenti nella personalità della vittima e in quella dell’aggressore. E’ un concetto che non viene mai esplicitato, ma potrebbe essere veicolato dalla struttura narrativa utilizzata. Ogni puntata inizia con una descrizione della storia e della personalità della vittima cui fa seguito la descrizione della storia e della personalità del reo. L’indagine sull’infanzia e l’adolescenza della vittima e l’indagine relativa alla vita dell’aggressore poste alla pari e in parallelo possono veicolare la rappresentazione di due concatenazioni di eventi equamente concausa dell’incontro tra i due personaggi e poi del tragico epilogo. Questa sintassi storiografica potrebbe tendere a far perdere di vista la responsabilità individuale ed esclusiva dell’aggressore rispetto alla scelta di uccidere la donna.

C4. La tesi che le vittime non si rendano conto della pericolosità dell’aggressore ed è per questo che non denunciano o non si allontanano. Nella puntata del 03.11.2014 la conduttrice afferma: “Le violenze sono spesso precedute da campanelli d’allarme che le donne spesso sottovalutano o ignorano”. E, a conclusione della puntata, così commenta: “Capire il momento esatto in cui un amore diventa un amore criminale non è facile. Molte donne non riescono a comprendere la pericolosità dei rapporti che stanno vivendo perché hanno perso la lucidità, perché l’uomo che hanno accanto le ha distrutte psicologicamente”. La tesi, ribadita in tutte le trasmissioni dalla conduttrice, non è sostenuta da adeguate argomentazioni. Anzi, è smentita dai documenti presentati nelle stesse trasmissioni dai quali risulta che, se è vero che vi sono alcuni casi di dipendenza affettiva (come quello di Rosi, di cui parleremo), nella maggioranza delle vicende trattate nel corso delle puntate, quando le donne tardano ad allontanarsi dal partner o a sporgere denuncia è perché hanno ragione di temere che l’allontanamento o la denuncia, anziché ridurre il pericolo, possano causare un aumento della frequenza o intensità delle violenze. Infatti, le vittime sanno bene che le denunce non esitano nella loro messa in sicurezza. Si veda la puntata del 17.11.2014: quando Rosi denuncia Benedetto, la conduttrice riporta che “La denuncia provoca in lui una bruttissima reazione… Impaurita dalla reazione di Benedetto sarà proprio Rosi a ritirare la denuncia”. E’ dunque chiaro che un motivo che può spesso ritardare le denunce è proprio la previsione di “brutte reazioni” da parte dell’aggressore, ma questa connessione non viene esplicitata nei commenti della conduttrice alle scelte delle donne.

Nella puntata del 17.11.2014 Aikida, una donna sopravvissuta a una relazione con un uomo violento, alla domanda dell’intervistatrice sul perché restasse a vivere con il marito, dice esplicitamente che restava per paura. Nella puntata del 17.11.2014 ecco come è annunciata la vicenda di Rosi, che, come si legge nelle immagini delle pagine dei quotidiani inquadrate nel corso della trasmissione, quando fu uccisa aveva denunciato l’aggressore sei volte per stalking: “Questa è la storia di una madre che cerca di aiutare una figlia e di una figlia che non riesce a capire in tempo il pericolo che sta correndo”. Si veda il commento della conduttrice nella puntata del 10.11.2014 riguardo la tragica vicenda di Sabrina: “Ma Sabrina sottovaluta la pericolosità di Nino”. Invece, secondo la testimonianza della collega trasmessa nella stessa puntata, Sabrina sapeva bene che stava rischiando la vita tanto che aveva rivelato di voler sparire; infatti pare proprio che, dopo aver denunciato invano, sparire sarebbe stata per lei l’unica via per salvarsi. Anche dopo che l’uomo comunica a Sabrina di avere un’arma e di nuovo la minaccia, secondo gli amici e il comandante dei carabinieri intervistati nella stessa trasmissione, Sabrina era consapevole del fatto che avrebbe potuto usare l’arma contro di lei. Ma la conduttrice, nonostante quanto emerge da queste interviste, ribadisce: “Sabrina all’inizio sottovaluta, non crede che Nino sarà capace di fare quello che ha detto. Solo molto tempo dopo comprenderà che quello minacce di morte sono vere”. Inoltre, nonostante che, come riferisce il comandante dei carabinieri, Nino avesse minacciato non solo Sabrina, ma anche “chiunque si fosse messo in mezzo”, il fatto che Sabrina non riferisca le minacce al fratello e al marito non viene interpretato come modo per non metterli in pericolo: “Finalmente, Sabrina capisce che Nino non sta scherzando…ma al fratello e al marito non dice ancora nulla”. Nella puntata del 03.11.2014 così viene commentata la vicenda di Silvia, un’altra donna sopravvissuta: “Silvia non si accorge che è entrata in un vortice emotivo pericoloso”. In realtà, Silvia all’intervistatrice dichiara ripetutamente che aveva paura dell’uomo e per questo non lo lasciava e riferisce di averlo subito denunciato per poi essere minacciata di morte e con tale minaccia costretta a ritirare denuncia; afferma poi che tuttora teme che l’uomo, che è a piede libero, possa fare irruzione in casa sua sfondando la porta. Parimenti del tutto priva di riscontri è l’affermazione nella puntata del 03.11.2014: “Adriana ci ha messo molto tempo a capire che la relazione con Pasquale era pericolosa… In realtà, secondo il suo avvocato, Adriana restava perché “Il terrore di essere uccisa aveva annullato in lei ogni capacità di reagire”. Dunque, non certo per una sottovalutazione del pericolo. In conclusione, se la maggior parte delle donne uccise di cui nelle puntate esaminate viene narrata la vicenda avevano denunciato le violenze e si erano allontanate dall’aggressore o comunque lo stavano lasciando quale pensano gli autori della trasmissione dovrebbe essere il comportamento delle vittime consapevoli dei pericoli? Nei filmati non si evince una risposta a questo quesito; vi è tuttavia la reiterata responsabilizzazione delle vittime, come nell’esempio che segue: ”Adriana ci ha messo molto tempo a capire che la relazione con Pasquale era pericolosa. Molte donne vivono una condizione come la sua: le invitiamo a troncare la relazione prima che sia troppo tardi”.

C5. La tesi che le vittime restano con l’aggressore perché psicologicamente dipendenti. Nella stessa puntata del 03.11.2014 così viene commentata la vicenda di Adriana: “Questa è la storia di una donna che per dieci anni non riesce a uscire dal ruolo di vittima… Come lei vivono tante donne accanto a uomini che le calpestano e le umiliano… Sono donne fragili, che non riescono a staccarsi dal proprio carnefice, che vivono una situazione di dipendenza affettiva”. In realtà, come abbiamo visto, secondo il suo avvocato, Adriana restava per il terrore di essere uccisa. Inoltre, secondo un’amica Adriana restava anche perché poteva sentirsi senza alternative essendo non indipendente economicamente e in una città lontana (quindi non per una dipendenza puramente psicologica). Vicenda diversa è quella di Rosi, trattata nella puntata del 17.11.2014. Effettivamente in questo caso pare sussistere una dipendenza affettiva, come anche le dice la sua psicologa in un colloquio ricostruito: “E’ un caso di dipendenza affettiva… Occorre por fine a questa situazione altrimenti rischi di farti ancora più male”. Tuttavia, gli autori della trasmissione omettono di sottolineare che è proprio quando Rosi avrà seguito l’indicazione della psicologa, si sarà emancipata e avrà lasciato Benedetto che verrà uccisa. Anzi, nel commento alla morte della giovane non si dà atto del fatto che la ragazza era riuscita ad allontanare l’uomo e lo riceveva in casa solo perché obbligata a concedergli di incontrare il figlioletto: “Rosi non riusciva a staccarsi dal proprio carnefice. Accade a molte donne. Non è facile capire perché succede. Non è facile capire quali dinamiche scattano. Non è facile capire perché un amore diventa un amore criminale”.

C6. La tesi che per evitare le violenze sia sufficiente coraggio e forza di volontà. Se anche questa tesi non viene esplicitata, non può non veicolarla il modo in cui viene raccomandato alle vittime di denunciare le violenze: pur essendo riportato all’interno degli stessi filmati che molte donne vengono uccise nonostante la ripetuta denuncia dei loro aggressori, le raccomandazioni che la conduttrice ripete in ogni puntata sono rivolte esclusivamente alle vittime, affinché denuncino l’aggressore, anziché essere indirizzate in primo luogo alle autorità, alle famiglie, ai datori di lavoro, ai cittadini affinché non lascino sola la donna di cui sappiano che sta subendo violenze e rendano il suo aggressore immediatamente oggetto di ogni condanna anche morale. Va nella stessa direzione la cronaca delle testimonianze delle donne che sono sopravvissute a una relazione con un uomo violento: le loro vicende vengono descritte come se la donna ce l’avesse fatta da sola con coraggio e forza di volontà. Si veda per esempio la storia di Vanessa (puntata del 10.11.2014), dove l’aiuto ricevuto dai genitori dopo la separazione dal convivente si intuisce ma non è esplicitato; nella puntata del 17.11.2014 su Aikida per l’aiuto ricevuto dal centro antiviolenza solo un accenno. Nella puntata del 03.11.2014, dove viene intervistata Silvia, l’accenno ad aiuti ricevuti da professionisti resta vago. Nell’intervista ad Adriana (puntata del 03.11.2014) il ruolo del vicino di casa che durante un assalto del marito la protegge e si oppone all’aggressore non è, almeno a nostro parere, adeguatamente valorizzato; infatti la psicologa rileva soltanto che Adriana ha “smesso di fare la vittima”.

 

La nostra preoccupazione circa questi messaggi di conferma delle tre autogiustificazioni degli aggressori e l’effetto che essi potrebbero avere qualora lo spettatore sia un uomo che desidera uccidere la partner o l’ex-partner risulta accresciuta quando lo studio si focalizza sul contesto in cui questi contenuti vengono trasmessi; infatti, da tempo le scienze della comunicazione insegnano che l’efficacia di un messaggio dipende anche dal suo contesto. Qui di seguito elenco sommariamente alcune caratteristiche che saltano, per così dire, agli occhi dello studioso:

  • Autorevolezza morale della fonte delle informazioni: Amori Criminali si presenta come un’inchiesta giornalistica, genere da cui lo spettatore è abituato ad aspettarsi la rivelazione di fatti veri nonché un impegno sociale da parte degli autori; infatti frequentissime sono le affermazioni di condanna della violenza e di solidarietà alle vittime, accompagnate dalla giusta enfasi. Tali affermazioni di positivi principi morali finiscono purtroppo per fare da cornice anche agli stereotipi che abbiamo elencato qualificandoli moralmente in senso positivo e quindi facilitandone l’assimilazione;
  • Importanza istituzionale dell’emittente: RAI, Canale 3, e la collocazione in prima serata. Frequentemente, inoltre, viene data la parola a professionisti quali psicologi, ufficiali dei carabinieri, medici, magistrati, avvocati;
  • Tecniche atte a facilitare l’integrazione immediata delle informazioni: l’elencazione degli avvenimenti è con linguaggio e sintassi elementari tanto che talvolta si sofferma pedissequamente su particolari che non hanno alcunché di rilevante, come quando vengono rappresentati i rilievi della scientifica sulla scena del crimine senza comunicarne gli esiti che peraltro sarebbero comunque scontati (puntate del 10.11.2014, del 17.11.2014). Nelle spiegazioni dei fatti proposte dalla conduttrice o dagli esperti intervistati non sono menzionati dubbi interpretativi, né i complessi fattori in gioco a monte dei tragici avvenimenti. La mente dello spettatore non è sollecitata a formulare ipotesi o costruire collegamenti di causa-effetto o rilevare le contraddizioni. E’ pertanto facilitata l’adesione agli stereotipi sopra riportati;
  • Omessa citazione dei documenti: non è dato allo spettatore conoscere le fonti delle informazioni trasmesse. E non vi è soluzione di continuità tra documentario e recita: si deduce che si è passati dall’uno all’altra perché si riconoscono attori anziché i veri personaggi, ma la rappresentazione d’insieme tende a favorire l’indistinzione tra documenti, simulazioni e finzioni. E’ quindi inibita la valutazione critica dell’attendibilità di quanto affermato e tendono a essere equiparati a verità documentate anche dati che non possono che essere inventati dagli autori della trasmissione come l’espressione di dolore sul volto dell’aggressore nel momento dell’assassinio avvenuto senza testimoni (vedi punto A5), o l’attribuzione al reo di “follia” (vedi il punto B2);
  • Le scene di sangue, che si ripetono richiamate anche dal rosso nell’immagine in sovraimpressione (un cuore che si trasforma in un’arma – vedi punto A3), e l’esposizione delle salme martoriate non possono che attivare emozioni molto intense e le relative difese, atte a soverchiare lo spazio per il ragionamento e la critica e a favorire quindi l’accettazione dei contenuti trasmessi.

In conclusione, l’efficacia dei messaggi trasmessi, anche di quelli a favore delle autogiustificazioni di chi desideri uccidere la partner o l’ex-partner, potrebbe essere purtroppo accresciuta dal contesto.

Ringrazio per l’attenzione e, restando la disposizione per eventuali ulteriori chiarimenti, porgo distinti saluti.

 

Lugano, 24 Novembre 2014                                                                                        

Piera Serra

 

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FEMMINICIDIO

Il complesso di Ruben – Rivisitazione cognitivista di un personaggio biblico

Questo lavoro esprime l’invidia dei cognitivisti per l’Edipo psicoanalitico che tanta fortuna ha avuto ed è entrato nel vocabolario comune e cerca di ristabilire giustizia.

Storia di Ruben

(tratto da “Una nuvola come tappeto” di Erri De Luca FELTRINELLI – 1994)

Chi è Ruben? È colui che pretende giustizia negli affetti. Soffre di sentimenti calpestati, patisce il torto fatto alla madre. Se non il giustiziere è perlomeno il PM degli affetti familiari.
Ruben è figura opposta a quella dell’inconsapevole Edipo preso a pretesto di desideri incestuosi, Ruben è colui che vuole che il padre Giacobbe giaccia con la madre Lea. Soffre l’umiliazione di Lea come se fosse la sua. Viola la concubina del padre per punire il torto subito dalla madre. Sacrifica il privilegio solenne della primogenitura assumendo su di sé una colpa che vuole essere un castigo. Disonora il padre per pareggiare il conto dei torti. Per tutta la vita si è adoperato perché Lea fosse una sposa felice.

I fatti

Da Isacco e Rebecca nacque Giacobbe, secondo figlio di un parto gemellare. Giacobbe, il padre delle dodici tribù di Israele. Giacobbe è colui che afferrò il calcagno del fratello Esaù che lo precedeva all’uscita dal ventre di Rebecca, e questo segnò l’inizio della disputa sul diritto di primogenitura. Ma Giacobbe significa anche ingannatore. Ingannò infatti suo padre, vestendo i panni del fratello Esaù, e ottenendo con un raggiro la benedizione di Isacco a primogenito.

Fuggendo da Esaù fu esule per sette anni, come pastore di greggi, presso lo zio materno Labano. Giacobbe era innamorato di Rachele, la figlia minore di Labano. La chiese in sposa, ma Labano la sera delle nozze introdusse nel talamo la prima figlia Lea. Questo perché le regole del luogo imponevano che una sorella minore non potesse sposarsi prima della maggiore. Solo in cambio di altri sette anni di lavoro, Giacobbe avrebbe potuto avere, la settimana successiva, anche Rachele. A colui che carpì la primogenitura, toccò in sorte la frode parallela di un’indesiderata primogenitura per moglie.

Allo scadere del contratto Giacobbe con un espediente segreto riuscì via via a far diminuire il bestiame bianco di Labano e a far aumentare invece i suoi capi macchiati. Quando ritenne di aver pareggiato i conti, senza preavviso se ne andò con famiglia e averi.

Ruben è il primo figlio di Giacobbe, nato da Lea.

Sei figli li generò Lea, due Zilpà la sua schiava, due Bilhà schiava di Rachele e due Rachele. Da qui le dodici tribù di Israele.
Giacobbe amò sempre e solo Rachele dal primo giorno che la incontrò alla fonte. Non amò mai Lea, perché il suo cuore era occupato solo da Rachele, perché Lea gli era stata imposta e si era prestata all’imbroglio di Labano, e nemmeno la sua fecondità fece breccia in Giacobbe, che anzi per lei provava odio. Rachele restava sterile. Lea partorì il primo figlio, Ruben e ciò la illuse che il suo sposo l’avrebbe amata.

Il nome Ruben rappresenta una sigla della frase Dio ha visto la mia afflizione e adesso mio marito mi amerà. Lea lo chiamò così per fissare la sua pena, ma non sapeva che così avrebbe trasferito il suo dolore nel destino del figlio, oltre che nel nome. Nella Bibbia i nomi di persona spiegano qualche dettaglio del nascituro, una circostanza che permette di ricordarlo.
Anche dopo altri figli Giacobbe non mutò animo e Lea smise di sperare.

Ruben fin dal nome che porta gli brucia in petto il malanimo di Giacobbe verso Lea, la mai amata. Farebbe qualunque cosa per riparare quel dolore.

Al tempo della mietitura Ruben raccolse per la campagna delle mandragore, piante che favorivano l’amore e la fecondità. Le colse e le portò alla madre Lea. Rachele sterile com’è implora la sorella di cedergliene qualcuna, ma Lea si rifiuta. Allora Rachele cede l’unica cosa che può avere per Lea un valore di scambio: Giacobbe giacerà una notte con lei. Ruben vedeva ridursi sua madre a dare un compenso a Rachele, per stare una notte col proprio marito. Giacobbe che uomo era ai suoi occhi? Disprezzava l’amore di sua madre e si concedeva a lei solo con il permesso di quella zia terribile e sterile. Ruben anche se ragazzo, vedeva e capiva.

Lea ebbe sei figli, e solo allora Dio si ricordò di Rachele, e le schiuse il grembo indurito. Nacque da lei Giuseppe, l’undicesimo figlio di Giacobbe. La seconda gravidanza le portò la morte.
Ma la scomparsa dell’eterna rivale della madre non restituì a Ruben la normalità degli affetti. Giacobbe non solo non si avvicinò a Lea, ma le preferì la schiava di Rachele, Bilhà.

Che la madre dovesse subire anche questo affronto, umiliata non più dalla sorella minore ma dalla schiava, gli parve intollerabile. Ruben era cresciuto ed era un uomo forte e grande. La collera che sdegna ogni prudenza gli chiedeva sfogo. Ruben giacque con Bilhà, concubina di suo padre. Nella foga di offendere Giacobbe, di punirlo proprio in quel suo letto sempre ostile alla madre, forse c’era anche la speranza di rendere odiosa la nuova preferita. Forse Giacobbe avrebbe aperto gli occhi e avrebbe visto nella madre la prima e vera moglie. Commise un gesto che gli costò la primogenitura e che nella futura legge di Israele verrà punito con la morte di entrambi i colpevoli. Fu un gesto compiuto deliberatamente, per esasperazione, ma anche per giustizia. Non si pentirà per averlo commesso.

Giacobbe lo perdonò, intese il gesto del figlio, il dolore che ne reggeva la collera e perdonò le sue acque impetuose. Capì forse che nemmeno negli affetti ci si può abbandonare ai moti del cuore, anche lì occorre amministrare giustizia. I commentari del Talmud non credono che Ruben osò giungere a tanto. Se era un giusto e lo era perché continuò a essere considerato uno dei dodici figli, allora doveva essere innocente di quella colpa. È quindi possibile che sotto la spinta dello sdegno per l’umiliazione subita dalla madre, andò a scompigliare il letto del padre e a metterlo sottosopra. Era un atto grave,ma simbolico e privo di conseguenze disonorevoli per Giacobbe.

Ruben e i suoi fratelli odiavano Giuseppe, il primo figlio della prediletta Rachele. Giuseppe si era reso antipatico facendo spia al padre dei loro discorsi. Un giorno vedendolo arrivare solo dai campi si scatena in loro la furia e decidono di ucciderlo. Ma Ruben propone di non sporcarsi le mani di sangue e di gettarlo invece in un pozzo. Aveva in mente di tornare poi a salvarlo e ricondurlo al padre, sentiva la responsabilità di essere il primogenito, avverte lo sguardo di Giacobbe su di sé e stavolta il suo odio non è così grande da reggere il peso di quella colpa. Tornò sul pozzo a salvare Giuseppe ma i fratelli lo avevano già venduto come schiavo a una carovana di mercanti in viaggio verso l’Egitto.

Ruben si trova dinanzi a una colpa che aveva cercato di scongiurare e dalla quale è quasi innocente. Una colpa che sembra insostenibile a lui che ben altra offesa aveva recato a suo padre, sfidandone in nome di sua madre la collera e l’onore. Perché nel cuore impetuoso di Ruben c’è posto per un solo rancore, quello per la madre offesa.

 

Rilettura cognitivista della storia di Ruben

Ruben è figura opposta ad Edipo. Ruben vuole che il padre Giacobbe giaccia con la madre Lea, e per tutta la vita si adopera perché Lea sia una sposa felice. Ruben in fondo è il protettore degli affetti familiari.

Il conflitto di Ruben, anch’esso iscritto in una problematica a tre, figlio, padre e madre, non si limita nei 3-5 anni di età come quello di Edipo. Anzi più Ruben cresce e più comprende, soffrendo l’umiliazione di Lea come se fosse la sua. Per la tematica rubenica è necessario un livello di mentalizzazione che solo l’adolescenza permette con la consapevolezza della propria sessualità.

Nella forma completa del Complesso di Edipo (Laplache e Pontalis) troviamo due forme, quella positiva e quella negativa o invertita.

Della forma positiva del Complesso di Edipo al posto della libido sessuale verso la madre, in Ruben troviamo una relazione in cui c’è un prendersi cura di lei ed adoperarsi affinché sia felice, classica adozione inversa degli scopi. Ruben accudisce e protegge la madre, non la desidera; e al posto della rivalità amorosa verso il padre, troviamo odio, ostilità e desiderio di punirlo proprio in quel suo letto sempre ostile alla madre. In effetti più che punire il padre qui c’è da sostituirlo, c’è un sacrificio non un godimento. Più che di un amplesso si tratta di uno stupro che serve ad offendere.

Della forma inversa del Complesso di Edipo non troviamo tanto l’ atteggiamento femminile tenero del bambino nei riguardi del padre, tuttavia ravvisiamo una certa ambivalenza, dal momento che quell’uomo che tanto odia, è colui che vorrebbe giacesse con sua madre e facesse a lui da padre E’ l’odio disperato di chi vorrebbe essere amato dal suo oggetto d’odio. Né tantomeno di questa forma troviamo l’ostilità gelosa provata nei riguardi della madre. La madre è considerata passiva impotente, non gli si riconosce nessuna responsabilità sempre in balia del maschio, prima il padre e poi il marito.

Non sappiamo se Lea avesse avuto la tendenza ad aspettarsi cure e attenzioni da suo figlio, ma di certo il loro rapporto appare come una relazione invertita. Relazione in cui è il figlio a preoccuparsi per la madre e a prendersi cura di Lei. Lea sembra aspettarsi sempre che siano i maschi a decidere per lei. Ruben non sopportava che sua madre venisse umiliata dalla sorella minore, né tantomeno sopportò che dovesse subire anche l’ affronto della schiava, gli parve intollerabile. E così si adopera per riparare al male e al torto.

Sembra essere un aspetto opposto all’Edipo e molto frequente da vedere. Il figlio non si gode un attivazione sessuale verso il genitore del sesso opposto ma si carica del suo accudimento, di farlo felice a posto del coniuge assente. L’assente può esserlo per tradimento, per una nuova famiglia, oppure per morte. Più frequentemente la configurazione rubenica si attiva anche a famiglia unita per l’assenza affettiva di uno dei due genitori. Neppure è da escludere che un atteggiamento rubenico si attivi verso il genitore dello stesso sesso, considerato quello più debole e vessato. Nulla vieta che il compito edipico e rubenico si associno nello stesso individuo. Il figlio rubenico rinuncia alla sua famiglia per mantenere in piedi quella mutilata d’origine. Quella di Ruben è una missione, e potremmo chiederci quanti piccoli/e Ruben si mettono pesantemente di traverso rispetto al divorzio parentale e vengono tacciati/e di edipo non risolto mentre incarnano la missione di Ruben.

Non è la legge della proibizione dell’incesto che emerge da questa storia quanto la legge che regola la giustizia degli affetti. Non abbiamo l’omicidio del padre per giacere con la propria madre, quanto piuttosto l’offesa al padre sfidandone in nome di sua madre la collera e l’onore. Sulla presunta ingiustizia degli affetti si giocano le più aspre faide intrafamiliari. Notissime e oggetto di innumerevoli miti e studi psicologici quelle intragenerazionali tra fratelli, mentre quella rubenica è transgenerazionale. E’ un danno subito che non conosce risarcimento.

Se ci spostiamo sul problema di una struttura preedipica, la possibilità che ci sia una relazione complessa di tipo duale tra la madre e il bambino, è qualcosa che emerge in maniera più chiara tra Ruben e Lea, fin da subito. Infatti Giacobbe appare un padre essente sia negli affetti che nelle cure, e quindi la triangolazione emergerà solo più tardi.

Quando Ruben prende coscienza che l’oggetto del desiderio materno è il padre, non utilizza tutte le risorse per affermare la sua posizione fallica, ma per recare offesa a suo padre, sfidandone in nome di sua madre la collera e l’onore. Il suo intento non è conquistare l’oggetto materno, eppure nella figura paterna egli vede comunque un rivale, che è però un ostacolo al suo progetto di realizzazione della felicità di Lea. L’amore di Ruben per Lea è quello di un cavaliere servente che vuole la felicità della sua dama piuttosto che possederla. Non troviamo quindi l’investimento oggettuale sessuale della madre, ma nemmeno l’attaccamento libidico al padre con intento di imitazione o di piacere al padre, difatti disonora il padre per pareggiare il conto dei torti.

Mentre però la competizione edipica non è reale ma solo fantasmatica, perché la madre scegliendo il padre dà al bambino consolazioni prive di libido erotica, la competizione Rubenica non è fantasmatica ma reale, in quanto Lea ha scelto il padre ma il rifiuto da parte di questi non consente a Ruben di essere consolato e vedere raggiunto il proprio scopo. Interessante è sottolineare la dicotomia: lo psicoanalitico Edipo agisce inconsciamente, il cognitivista Ruben con cosciente determinazione. Di più, comportamenti rubenici sono esprimibili alla luce del sole e talvolta persino rinforzati dall’ambiente circostante che ne intuisce la motivazione giustizialista. I due complessi potrebbero anche essere visti in successione temporale.

Mentre in Edipo la consapevolezza dell’inutilità dei suoi sforzi gli consente di superare l’angoscia di castrazione e di rinunciare alla competizione con il padre e al tentativo di seduzione erotica della madre, in Ruben questa consapevolezza lo condanna ad un eterno rancore, sacrifica il privilegio solenne della primogenitura assumendo su di sé una colpa che vuole essere un castigo. Potremmo dire che dall’Edipo prima o poi si esce più o meno castrati ma si fa. Da Ruben si può rimanere intrappolati per sempre.

Il fatto che il progetto di Ruben sia realizzabile lo rende più pericoloso di quello di Edipo. Si può passare l’esistenza a consolare il genitore dai torti subiti. Ad esattamente quaranta anni dal referendum sul divorzio in Italia che ha visto il proliferare di costellazioni familiari sempre più simili a quelle descritte nel racconto biblico, il tema risulta anche molto attuale dato il numero di famiglie con genitori separati e figli chiamati a consolare genitori sofferenti e forse nelle femmine è ancora più evidente.

L’Edipo ha avuto il difetto di essere stato pensato sul maschio e poi esteso alle femmine. Per Ruben non facciamo l’errore opposto. Ne rigidamente orientato verso il genitore di sesso opposto. L’errore potrebbe essere: i maschi più sessualizzati sono edipici, le femmine più biologicamente motivate all’accudimento sono rubeniche.

 

TAB.1 Il complesso di Ruben - Rivisitazione cognitivista di un personaggio biblico

 

La sofferenza psichica di Ruben: Farebbe qualunque cosa per riparare quel dolore.

La sofferenza di Ruben è molto simile a quella di figli di genitori separati o in disaccordo tra loro, figli che vengono triangolati nella conflittualità. Nella storia di Ruben non si giunge mai una riorganizzazione della famiglia che possa consentire un riadattamento. E così in Ruben predominano rabbia e fantasie di riconciliazione dei genitori.

Gli offesi negli affetti, sono i più afflitti in terra, privi di ogni tribunale che li risarcisca. Costretti da una rabbia ceca a farsi giustizia da soli senza cercare un impossibile risarcimento ma solo per punire nell’altro il destino di non essere amati.

Lo scopo di Ruben è che il padre giaccia con la madre. Vista così è uno scopo frustrato. Vista invece nell’ottica che Giacobbe non ha mai amato Lea, sembrerebbe uno scopo mai raggiunto. Si tratta comunque di uno scopo attivo e perseguito. Ruben non si rassegna ad essere il figlio di un non amore. Ruben fin dal nome che porta gli brucia in petto il malanimo di Giacobbe verso Lea, la mai amata. Farebbe qualunque cosa per riparare quel dolore. E così insieme al nome sembra aver adottato anche lo scopo della madre. La storia di Lea dovrebbe essere raccontata a tutti coloro che cercano di aggiustare un matrimonio zoppicante facendo figli. Ed a coloro che chiedono soccorso ai figli per salvare un matrimonio, andrebbe scritta nelle aule dei tribunali per i divorzi sotto la legge è uguale per tutti.

Ruben è colui che pretende giustizia negli affetti. Soffre di sentimenti calpestati, patisce il torto fatto alla madre. La giustizia negli affetti possiamo leggerla come uno sovrascopo, mentre riparare il torto fatto alla madre come uno scopo strumentale. Ci potremmo chiedere quanti altri scopi strumentali possono servire il sovra scopo della giustizia negli affetti. Il quale a sua volta può essere strumentale ai più assoluti scopi dell’equità.

La scomparsa dell’eterna rivale della madre non restituì a Ruben la normalità degli affetti. Ruben giacque con Bilhà, concubina di suo padre. Nella foga di offendere Giacobbe, di punirlo proprio in quel suo letto sempre ostile alla madre, forse c’era anche la speranza di rendere odiosa la nuova preferita. Forse Giacobbe avrebbe aperto gli occhi e avrebbe visto nella madre la prima e vera moglie. Ma ciò non avvenne e così la delusione dell’aspettativa diventa un’aggravante della sofferenza. Possiamo dire che Ruben non sia stato quindi un buon previsore, in quanto sacrifica il privilegio solenne della primogenitura assumendo su di sé una colpa che vuole essere un castigo. Supponiamo che un privilegio così grande avesse previsto di non perderlo a vuoto.

La rabbia di Ruben: La collera che sdegna ogni prudenza

Qual è la rabbia di Ruben? E’ il rancore per la madre offesa. Il torto è l’ingiustizia. La vittima del danno non è Ruben stesso ma sua madre. È quindi solo una rabbia altruistica? Potrebbe esser anche una rabbia etica-deontologica, verso chi non rispetta l’ordine dato, e Giacobbe non rispettò Lea, prima moglie.

Ruben sembra passare attraverso due tipi di rabbia. Comincia con una rabbia costruttiva, con cui cerca di far cambiare le cose, ad esempio portando le mandragore a sua madre e confidando nel potere di fertilità di questo fiore. Poi passa a una rabbia distruttiva in cui c’è la foga di offendere Giacobbe, Ruben qui è esasperato e ritiene intollerabile l’affronto a sua madre. La collera che sdegna ogni prudenza gli chiedeva sfogo.

Ruben si arrabbia in quanto ritiene che la causa del torto sia suo padre piuttosto che il fato o il destino non tenendo conto che A colui che carpì la primogenitura, toccò in sorte la frode parallela di un’indesiderata primogenitura per moglie. Ruben ritiene che il torto è stato intenzionale; ritiene che suo padre aveva un dovere di protezione nei suoi confronti, prima ancora che nei confronti di Lea.

Ruben è il portabandiera dei non amati che si incaponiscono e restano lì tutta la vita in attesa di un riconoscimento che non arriva mai, forse proprio perché non arriva. La rabbia di Ruben si iscrive tutta nel sistema motivazionale di attaccamento/accudimento. Rimanere rabbiosamente attaccati a chi non ama e non essere consolabili da nessun altro amore genera un intero capitolo trasversale della psicopatologia.

Ecco che forse giungiamo a comprendere qual è la giustizia negli affetti, non solo l’amore di Giacobbe verso la madre, ma anche verso suo figlio. Giacobbe aveva il dovere di occuparsi di lui e di proteggerlo.

 

La colpa di Ruben: Assume su di sé una colpa che vuole essere un castigo

Ruben è in colpa ma non si sente in colpa. Fu un gesto compiuto deliberatamente, per esasperazione, ma anche per giustizia. Non si pentirà per averlo commesso. Eppure c’è un autorità depositaria di valori e norme al cui cospetto Ruben ha commesso ciò che è male, ha adottato una condotta socio morale sbagliata. Il male è rappresentato sia da un danno a terzi, sfidando la collera di Giacobbe, sia dalla violazione di norme, sfidando l’onore del padre. Per lo meno dovrebbe provare un senso di colpa deontologico.

Tuttavia in qualche modo Ruben si difende dal senso di colpa con alcune delle strategie tipiche: rivolge a Giacobbe accuse o rimproveri, attribuendo a lui la responsabilità del danno o della trasgressione e getta discredito sulla vittima.

Non vediamo in Ruben la tendenza a riparare al male commesso, non si pentirà per averlo commesso, quanto piuttosto la tendenza a ricercare la punizione assumendo su di sé una colpa che vuole essere un castigo.  Questo castigo che funzione ha? Ristabilire l’equilibrio di potere tra la vittima e il colpevole? Restituire il potere di cui il colpevole ha indebitamente privato la vittima? La restituzione avverrebbe qui riducendo il proprio potere, sacrifica il privilegio solenne della primogenitura. Sarebbe avvenuta se Giacobbe non lo avesse perdonato. Il perdono di Giacobbe, per un certo verso è l’ennesimo atto aggressivo in quanto rende inutile tutta la missione di Ruben.

 

Breve riflessione culturale

L’incesto non è reale nel caso di Edipo: materiale sì, ma non reale. Nel senso che Edipo si innamora, sposa e giace con Giocasta, regina di Tebe, rimasta vedova del marito Laio ( morto per mano di Edipo ), senza sapere che ella è in relatà la sua vera madre ( e il re morto il suo vero padre ).

Diversamente, Ruben si macchia di un reato simile con consapevolezza! E’ consapevole che giacerà e giace con la “matrigna” solo ed esclusivamente per fare un torto al padre, credendo di poter riscattare così i tanti anni di dolore materno.

Ruben è calcolatore: programma l’attentato al padre e non si pente. Edipo, diversamete, ignaro della storia della sua vita, nel momento in cui apprende del misfatto con la madre vera e dell’indiretto torto fatto a suo padre naturale, se ne vergogna da morire e si acceca addirittura per la vergogna; si autopunisce per espiare.

In un contesto come la cultura greca in cui il modello (sia divino che terreno) proposto è di tipo pagano, abbastanza libertino e promiscuo (vedi in primis gli dei, tra loro e con gli uomini), Edipo invece ha un’umanità abbastanza morale/educata da subire il suo modo di comportarsi. Un anticipatore del senso (dogmatico) cristiano, potremmo dire.
Ruben, che è un diretto antenato della nostra formula di famiglia cristiana, tradisce, viene meno ad uno dei comandamenti (posteriori ovvio) principali come onora il padre e la madre, macchiandosi di un doppio peccato per il quale (o quali) non prova alcun tipo di rimorso (potremmo definirlo una sorta di delitto d’onore, che è sì un retaggio della cultura moderna ma che può trovare un senso già in un testo sacro e antico come la Bibbia).

 

Considerazioni conclusive

Concludiamo con una tabella esemplificativa di quella che da adesso definiremo Configurazione Rubenica.

TAB.2 Il complesso di Ruben-rivisitazione cognitivista di un personaggio biblico

 

 

LEGGI ANCHE:

Psicologia e Filosofia

Psicoanalisi e Terapie Psicodinamiche

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Castelfranchi, C., Mancini F., Miceli M. (a cura di) Fondamenti di cognitivismo clinico. Ed. Bollati Boringhieri, 2001 ACQUISTA
  • Castelfranchi, C. (2005) Che figura. Emozioni e immagine sociale. Ed. Il Mulino
  • De Luca, E. (1994) Una nuvola come tappeto, Ed. Feltrinelli
  • La Bibbia di Gerusalemme
  • Monaco, G., Casertano, M., Nuzzo, G.(1997) L’attività letteraria nell’ antica Grecia, Storia della letteratura greca, Ed. Palumbo.
  • Mancini, F., Gangemi, A. (2004) L’influenza del senso di colpa sulle scelte. Cognitivismo Clinico. Giovanni Fioriti Editore ACQUISTA

Tommasino: l’ingegnere cinquant’enne – CIM Nr. 17 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #17

– Leggi l’introduzione –

Come era possibile che una così sofisticata macchina cognitiva proveniente da una famiglia benestante e culturalmente stimolante fosse finita in una tale palude di sofferenza?

Al CIM vanno i poveracci che non hanno mezzi per rivolgersi al privato e soprattutto quelli che non sono consapevoli di stare male e, dunque, sono spesso i più gravi. Talvolta vengono anche i benestanti più probabilmente se colti e di sinistra. La spiegazione è facile. I benestanti sono tali perché attenti a non spendere (tirchi nel linguaggio comune): non è strano che siano tirati nonostante ricchi perché sono ricchi proprio in quanto “avveduti nello spendere”. I colti sanno che nel servizio pubblici ci sono ottimi professionisti competenti e motivati anche se magari le sale d’attesa sono scrostate e le sedie scomode. I sinistri per una questione ideologica anche se poi chiedono un parere di conferma al luminare amico della cognata “perché non si sa mai quando c’è di mezzo la salute e soprattutto la propria!”Chi è davvero raro che bussi alla porta del CIM è il ceto medio perché si vergogna di star male e ancor di più di non avere i soldi per andare in privato. In famiglia si fanno sacrifici e prima o poi si riesce ad approdare ad uno studio privato magari razionando le visite.

La gravità manifesta, quella che spaventa i familiari è invece come la livella di Totò. Così come una pioggerellina autunnale consente ai rivoli sulla terra di farsi ognuno la propria strada tra sassi, fenditure, ciuffi d’erba, discesette mentre il torrenziale temporale estivo non permette personalizzazioni e trascina tutto in un unico rovinoso flusso. Così quando la follia è palpabile e si teme che da un momento all’altro proponga sulle prime pagine dei quotidiani una esistenza finora a detta di tutti misurata, riservata, quasi sotto tono quale che sia la provenienza la stazione di arrivo è il CIM.

La signora Assunta tollerava da sempre le stranezze del figlio giustificandole con la difficile infanzia ed un patrimonio genetico difettoso dove si annoveravano tre suicidi e due morti in manicomio per l’onnicomprensivo “esaurimento nervoso”. Da un mese Tommaso aveva smesso di andare a lavoro. Stava tutto il giorno a letto. La goccia che aveva fatto richiedere l’intervento del CIM era stata la pretesa di tenere sotto il cuscino un punteruolo per spezzare il ghiaccio.

L’idea che si fece Gilda che prese la telefonata fu che si trattasse di un giovane che perduto il lavoro precario fosse precipitato in una crisi depressiva. Nei mesi precedenti la crisi economica era stata più volte additata dai media come causa di numerosi suicidi. Nonostante lei, sempre vissuta in ristrettezze non lo credesse possibile un accertamento era d’obbligo e trascrisse l’indirizzo di Assunta e Tommaso Pedrini. “Polti e Cortesi” scrisse sotto l’appunto Biagioli fermatosi a chiacchierare con Gilda per capire le insofferenze della sua Luisa ( da tempo la loro relazione non veniva più camuffata da intesa professionale tranne quando il cornuto veniva a prendere la moglie).

Via degli archibugi non era nella zona popolare di Monticelli ma nel quartiere residenziale di commercianti e professionisti. La crisi cominciava a mordere chiappe abituate ai cuscini pensarono Luigi e Marco parcheggiando davanti alla villetta della famiglia Pedrini. Le sorprese erano appena cominciate. La sordità rese necessarie numerose scampanellate prima che uno spiraglio della porta trattenuta da una prudenziale catenella mostrasse il volto di una vecchia che li accolse in soggiorno.

Assunta aveva 83 anni, una cataratta le opacizzava l’occhio sinistro ma l’altro di un azzurro chiarissimo guizzava a valutare i due sconosciuti che aveva di fronte e che avrebbero dovuto aiutare il suo Tommasino che stava più male di sempre. Assunta per somiglianza fisica, il fare determinato, deciso e scattante del capitano d’azienda avrebbe potuto essere una Agnelli. Li lasciò subito per accendere il fuoco sotto la moka. Si guardarono intorno.

Nel salotto il tempo sembrava essersi fermato agli anni sessanta del novecento. Due divani e due poltroncine in vera pelle viola facevano trasparire i segni delle molle denunciando una originaria ambizione non sostenuta poi da adeguata manutenzione. Carta da parati con vasi di girasoli arancioni alla Van Gogh. Lampadario a gocce di cristallo la cui ultima pulizia doveva risalire ad oltre un lustro quando chi era riuscito ad arrivare lassù aveva avvitata anche l’ultima delle lampadine a tortiglioni da 40 watt ancora in funzione. Una lama di sole infilatasi in una fenditura delle pesanti tende bordeaux mostrava una danza tranquilla di numerosissime particelle di polvere che forse smosse dall’improvvisa vivacità dovuta alla presenza dei due ospiti tornavano lentamente ad accomodarsi sul tappeto zebrato che riempiva metà stanza lasciando scoperto in periferia un pavimento di graniglia non all’altezza dell’apparenza che voleva darsi l’abitazione. Sul Buffet e il controbuffet con sportelli scorrevoli di vetro satinato un accatastarsi di modellini di navi ed aerei costruiti probabilmente dal piccolo Tommasino predestinato a diventare ingegnere. Un solo grande ritratto in cornice argentata. Un trentacinquenne moro e robusto dallo sguardo severo con una uniforme imprecisata che si scoprirà poi essere il “povero Giulio” padre indimenticato della signora Assunta.

Non ingannare mai i pazienti neanche a fin di bene gli aveva insegnato Biagioli. Sorseggiando il caffè che giurarono essere l’ultimo in quella casa rifiutarono la proposta di Assunta di essere presentati a Tommasino come venditori porta a porta di enciclopedie o, in alternativa, nipoti della Mariuccia amica di banco di chiesa della signora Assunta, passati per caso a fare un salutino. Di contro lei si rifiutava di dire la verità a Tommasino certa che avrebbe immediato usato il punteruolo prima contro di lei e poi contro se stesso per l’umiliazione subita. Decisero di fare da soli. In un attimo sarebbe stato accettazione o rifiuto ma erano o no operatori esperti di un CIM di eccellenza?

Entrarono chiedendo quel permesso che non aspettarono poi per andare a spalancare la finestra e consentire alla luce di rischiarare l’antro e al tanfo di urina stantia e scorreggia rafferma di uscire. Fuori Assunta continuava a cantilenare un “no…no… non ditegli niente”. Marco fu tentato di farsi prestare il punteruolo. Luigi lo calmò sapendo che non ci sono vittime da proteggere e carnefici da punire ma solo un sofferenza lievitata e traboccante che tutti avvolge. Spiegarono a Tommaso che erano lì per le preoccupazioni della madre nei suoi confronti e gli chiesero di aiutarli a rassicurarla. Due cose erano degne di nota rispetto alle aspettative.

Tommasino non era un giovane precario ma un cinquantaduenne ingegnere con contratto a tempo indeterminato. Il letto in cui stava era quello matrimoniale che condivideva regolarmente con la madre dormendo abbracciati quando le paure si facevano più forti. Concordarono che avrebbero inviato un certificato di malattia in azienda in modo da salvaguardare il posto di lavoro e l’assunzione di alcune gocce di ansiolitico per mitigare la tensione terribile che aveva spinto in quei giorni Tommaso a chiudersi nel letto tra le braccia della mamma. Fissarono un appuntamento in ambulatorio con Tommaso. Alla madre che mentre scendevano le scale continuava a lamentarsi dicendo “ non mi lasciate….non mi lasciate” promisero di trovarle una dottoressa bravissima che l’avrebbe aiutata in un momento così difficile. Siccome a Marco stava odiosa la dottoressa Ficca pensò immediatamente a lei. Una punizione per entrambi. In macchina il discorso scivolò subito sul calcio e la fica: era sempre così quando si incontravano situazioni pesanti in assenza di colleghe donne.

All’appuntamento Tommaso si presentò con un completo di tre taglie più grande e testimone del trascorrere inesorabile del tempo che Luigi pensò fosse appartenuto al “povero Giulio”. Tommaso assomigliava ai condor che fanno il coretto nel libro della jungla. Sparuti ciuffetti di capelli bianchi asimmetrici su un cranio devastato da un arcipelago di alopecia che aspirava ad una decorosa calvizie. Naso adunco a tradire una chiara origine semita. Magrezza flaccida e colorito giallognolo. Alto, con le spalle curve e l’andatura stentata e barcollante sembrava un malato terminale allontanatosi per qualche istante dalla morte intenta alle rifiniture del suo antico lavoro. Nonostante ciò era proprio sull’aspetto complessivo che ci si concentrava più volentieri perché lo sguardo era intollerabile. Gli occhi un tempo probabilmente grigio acciaio apparivano slavati, il mondo esterno non vi si rifletteva fissi com’erano a contemplare il dolore interiore. La speranza assente non lasciava spazio alla rassegnazione. Così dovevano essere gli occhi dei condannati a morte con il cappio già al collo sulla forca a guardare senza vedere il pubblico vivace accorso allo spettacolo. Il suo era uno sguardo che paralizzava convincendo l’interlocutore della sua assoluta impotenza.

Dicevano che tutto si era già compiuto, che si era arrivati troppo tardi, che altro non restava che le condoglianze ai superstiti. Non accusavano colpevolizzanti e rabbiosi. Dicevano che non poteva che andare come era andata e anzi rassicuravano che persino il dolore era lontano perduto come tutto il resto. Occhi che avevano smesso di cercare e di chiedere. Per aiutare qualcuno deve offrire un appiglio, perlomeno lamentare una sofferenza se non anche la voglia e la speranza di uscirne.

Tommaso disse che non aveva più spazio per mettere i libri. Certo temeva anche il licenziamento ma il problema era lo spazio dei libri. Con il suo accordo decisero di vedersi sempre in tre. Nè Luigi nè Marco sopportavano infatti l’angoscia di rimanere un tempo prolungato da soli a chiacchierare con un trapassato. La vita presente di Tommaso era un sobbalzare tra i flutti di angosce d’ogni tipo che lo privavano del sonno nonostante dosaggi anestetici di farmaci. Tutta la quotidianeità gli appariva come un compito faticosissimo e destinato al fallimento. Sul futuro incombeva la minaccia della inevitabile morte della madre che rappresentava il punto in cui le onde dell’attuale fiume di angoscia si precipitavano nel salto della cascata di cui oggi intravedeva il bordo ingorgato di correnti con l’acqua nebulizzata sopra ad opacizzare l’orizzonte. Talvolta chi sta male nel presente ed è angosciato per il futuro vive rivolto all’indietro conservando il ricordo, magari fallace, di un passato punteggiato di gioie. Momenti di serenità familiare nell’infanzia. Illusioni, ideali, passioni dell’adolescenza.

Tommaso non ricordava o ricordava solo sofferenza. Eppure per 52 anni era stato al mondo. L’unica consolazione presente era l’acquisto dei libri. Ogni giorno uscito dal lavoro passava in libreria e acquistava due o tre libri che poi si obbligava a leggere. Il piacere era scomparso da tempo. Ormai sia l’acquisto che la lettura erano un rituale ossessivo di cui non poteva fare a meno. Gli argomenti dei libri erano mutati nel tempo. Otto anni prima aveva iniziato con le epigrafi latine delle tombe di cui era diventato un vero esperto impegnandosi anche come guida volontaria del FAI. Coltivava così la passione per le lettere e le arti che aveva dovuto abbandonare per fare sulle tracce del padre l’ingegnere senza alcun interesse. Poi si era occupato di storia dell’arte funeraria e di filosofia. Attualmente la storia delle guerre del primo novecento erano l’argomento che cercava in libreria e su internet.

La compulsione verso i libri era diventato un problema quando le spese avevano superato il suo pur buono stipendio spingendolo a chiedere piccoli prestiti a delle finanziare e alla madre di ascoltarlo e correggerlo mentre gli ripeteva il contenuto dei libri. I libri erano il suo scudo verso il mondo. Al mattino per timore di arrivare tardi al lavoro che iniziava alle 8,30 si era imposto di prendere il trenino delle 6. Per sicurezza si svegliava alle 4 e facendo in modo di scivolare fuori dal letto senza svegliare la madre raggiungeva a piedi la stazione a due chilometri da casa. Nella mezz’ora di tragitto leggeva stando in piedi per non rischiare di addormentarsi ed arrivare tardi. Nel bar davanti all’azienda trascorreva al tavolino e leggendo ininterrottamente l’ora e mezza che lo separava dall’ingresso. Dalle otto e mezza in poi si dedicava esclusivamente al lavoro con scrupolosità e abnegazione.

Marco e Luigi si convinsero che fosse davvero molto bravo come progettista di sistemi d’arma automatizzati. Non c’era infatti alcun altro plausibile motivo per cui un azienda importante ed efficiente tenesse tra i suoi quadri un personaggio così evidentemente disturbato. Durante i 45′ dell’intervallo per il pranzo non scendeva a mensa e riapriva i suoi libri. In azienda L’ing. Pedrini era considerato da un quarto dei dipendenti un pazzo cui tenersi alla larga. Un altro quarto, soprattutto i colleghi, un genio cui l’azienda doveva molto per l’invenzione delle mine touch che ne avevano fatto la fortuna durante le guerre regionali africane .Il successo era stato tale che l’azienda aveva acquistato una cospicua partecipazione nella “new body” una ortopedica specializzata in protesi che grazie alle mine touch aveva quadruplicato il fatturato e delocalizzato da Sassuolo a Kinshasa per fornire gambe a chilometri zero. Per un altro quarto Pedrini era un intoccabile raccomandato dai vertici della massoneria. I restanti pensavano fosse a conoscenza di segreti sull’Amministratore delegato(intrighi con la destra fascista o più semplicemente corna omosessuali) e lo ricattasse. Tutti dunque si ponevano lo stesso problema di Luigi e Marco “perchè nonostante i licenziamenti dovuti alla crisi Pedrini restava saldo al suo posto?”.

Alle 16 in punto timbrava il cartellino e si precipitava alla stazione per scendere però alla fermata della libreria del corso suo preferito terreno di caccia. A casa verso le 18 cenavano frugalmente con la madre e poi correvano a letto per potersi svegliare per tempo e ricominciare. Quando soprattutto Luigi riusciva a distrarlo dalla continua preoccupazione per le sue preoccupazioni che generavano una monotona sequela di lamentazioni e lagne con un tono rapidamente insopportabile, si intravedeva un altro Tommaso.

Le sue riflessioni sulla storia e la politica non solo mostravano una cultura enciclopedica ma inaspettatamente un pensiero originale e divergente. Si aveva netta l’impressione che fosse una Ferrari uscita solo poche volte dal garage per fare il giro dell’isolato. Meglio non pensarci. Il carico delle opportunità sprecate e dei rimpianti poteva schiacciare definitivamente Tommaso, meglio per lui pensarsi come un mediocre incapace di apprendere persino ciò che legge.

In verità il dottor Luigi Cortesi e l’esperto infermiere Marco Polti, a dispetto dell’iniziale precettazione e dello scoraggiamento dei primi tempi, ci stavano prendendo gusto. Come era possibile che una così sofisticata macchina cognitiva proveniente peraltro da una famiglia benestante e culturalmente stimolante fosse finita in tale palude di sofferenza. La ricostruzione della sua storia di vita procedeva lenta e faticosa. La memoria era ricca di episodi dai particolari vividi ma la narrazione ostacolata dal crescente tremolio delle labbra da una sudorazione grondante, dallo spezzarsi in gola della voce.

Talvolta giungeva un pianto composto che si sarebbe detto un semplice lacrimare che innescava una vergogna a interrompere il racconto. I brani di memoria erano però strappati come in un film prima del montaggio. Sconnessi, senza la congruenza di una storia. Immagini e impressioni. Il vero Ingegner Pedrini era stato Italo, suo padre. Figlio di Genesio un generale degli alpini che aveva fondato l’azienda costruttrice delle prime funivie e seggiovie dove i ricchi andavano a sciare. Il Duce stesso ne aveva inaugurate due sfoggiando la sua tuta da sci completamente nera. Sui girasoli della carta da parati ancora c’era dal 1968 l’impronta della foto di Genesio e Benito che si stringevano la mano con il profilo inconfondibile del Cervino alle spalle. Alle caduta del regime Genesio tolse il disturbo con un ultimo colpo della sua pistola da guerra. Italo alla guida della “Pedrini infrastrutture” era diventato commendatore, medaglia d’oro per meriti civili e soprattutto ricchissimo.

Tommaso era cresciuto in una villa sul lago di Como con dodici persone di servizio, due precettori privati (un prete bergamasco per le lettere e un ingegnere di Torino per le scienze) ed un fattore per gestire i sessanta ettari della tenuta affidati a 9 mezzadri con altrettanti poderi. Lui era il signorino e,vietato qualsiasi rapporto con i numerosi figli dei dipendenti, stava sempre solo.

Ricordava solo vagamente i primi tre anni di vita e la figura magrissima e sempre in movimento per fargli qualche dispetto di Mariella, la sorellina di tre anni più grande. Mancavano venti giorni d’avvento a Natale e sotto una incessante pioggerellina tutto il mondo Pedrini era alla ricerca della piccola Mariella che aveva da pochi mesi iniziato le lezioni domiciliari. Anch’ella per prudenza non usciva mai dalla tenuta. Tommaso ricordava solo sprazzi della vicenda. Le macchine della polizia coi lampeggianti nel piazzale antistante la scalinata della villa, il borbottio dei genitori chiusi con il telefono nello studio del padre, la fila dei dipendenti e dei pochi amici che venivano a chiedere notizie, offrire la loro disponibilità, mettersi a disposizione. Ricordava persino l’odore forte di incenso di una messa di preghiera fatta nella cappella della villa cui partecipò tutto il paese. Ricordava soprattutto la vigilia di natale ed una barchetta a remi che trascinava fino all’imbarcadero della villa legato con una corda il corpo gonfio e violaceo di Mariella. Lui che assisteva da dietro l’ampia gonna viola della madre pensò che nulla sarebbe più stato come prima ed altre cose indicibili di cui ancora si sente in colpa. Aveva consapevolezza di star vivendo uno di quei momenti di snodo dell’esistenza che cambiano definitivamente la direzione. Il prossimo che lo attendeva all’inizio dell’ultima cascata sarebbe stato la morte della madre. Italo iniziò a bere e dovette far entrare nella gestione dell’azienda l’ingegner Montasio un vecchio compagno di università.

La violenza dentro casa divenne il linguaggio degli scambi quotidiani. Assunta, considerata responsabile, era il bersaglio preferito del padre ma Italo non sopportava più qualsiasi espressione vitale. Un giorno che trovò il dodicenne Tommaso nella vigna a giocare a nascondino con Carla la figlia coetanea del fattore lo picchiò con tale ceca furia da dover ricorrere alle cure ospedaliere per frattura dell’omero sinistro e trauma cranico.

In paese si diceva che Italo fosse impazzito e fosse meglio evitarlo. Le frequentazioni esterne finirono con l’azzerarsi. L’ingegner Montasio complice il notaio Pistilli divise l’azienda in due mettendo a suo nome la parte produttiva con gli utili e le attrezzature e lasciando a Italo la parte indebitata che fallì il giorno in cui Tommaso compiva quattordici anni. Aveva due certezze che ogni giorno sarebbe stato peggiore del precedente e che fosse tutta colpa sua. Se non fosse nato Mariella non se ne sarebbe dovuta andare per fargli posto. Non si sarebbe allontanata da casa e non avrebbe incontrato Bonci, il diciottenne scemotto che l’aveva violentata e uccisa. Non si poteva più tornare indietro. Non poteva scambiarsi con Mariella ma a vivere gli sembrava di offenderla.

Sequestrati tutti i possedimenti Tommaso conobbe l’ospitalità svogliata della zia Mafalda sorella del padre e di suo marito il vecchio latinista il prof Marucci che parlando a Tommaso delle consuetudine romane e greche prese ad abusare ripetutamente del ragazzino. Quando Italo costretto a vivere con Assunta in un monolocale del parroco decise di seguire le orme del padre Genesio e con la stessa pistola si sparò in bocca, Tommaso venne sottratto alla libidine del professor Marucci e affidato al collegio delle clarisse di Milano. Fu il periodo di maggior sofferenza.

Lui signorino aristocratico era oggetto di bullismo da parte degli altri ospiti. La madre andava a trovarlo non più di una volta al mese impegnata ad assistere il vecchio Italo ormai non più violento ma costretto su una sedia a rotelle e completamente non autosufficiente. Giunto a sedici anni le suore avvalendosi del prestigioso cognome che portava (il nonno Genesio era un indimenticato imprenditore e generale degli alpini) e delle conoscenze altolocate che vantavano lo fecero entrare all’accademia militare di Modena dove fu avviato agli studi di ingegneria che avrebbero garantito un lavoro sicuro.

Il dubbio che si trattasse di un disturbo bipolare dell’umore lo sollevo il dr. Irati, peraltro fissato con questa diagnosi tanto da essere soprannominato a sua insaputa Dr. Litio. Questa vota però ottenne l’inaspettato sostegno della dottoressa Filata di solito ideologicamente contraria a qualsiasi riduzionismo biologico della sofferenza mentale.

Dopo la riunione furono persino visti al bar insieme per la prima volta, ma questa è un’altra storia. Il giovane Tommaso per la prima volta a vent’anni si trovava a vivere libero dalla famiglia nella foresteria dell’accademia. Aveva una notevole disponibilità economica, il fisico alto e sottile gli conferiva un aspetto da baronetto inglese che l’eleganza nel comportamento e nel vestire confermava. I ricci biondi incorniciavano un viso maschio ma dolcemente infantile. Molte ragazze cercavano inutilmente di cacciare dalle loro notti insonni quegli occhi azzurri con sfumature grigio acciaio del giovane allievo ufficiale del genio. La divisa azzurra al vento sulla fiat 850 spider rossa segnalava l’arrivo in tutti i posti più “in” e ben frequentati” del giovane ricco e scapestrato rubacuori. Aveva preso a bere anche in eccesso, sperperava ai tavoli da gioco gran parte del contributo mensile che Assunta gli inviava. L’intimità per Tommaso era minacciosa e foriera di dolore. Rifuggiva da legami stabili e quando, sparsasi la voce della sua inaffidabilità, le signorine della Modena bene iniziarono a rifiutargli le loro attenzioni, si rivolse con accresciuta soddisfazione a ragazze più o meno esplicitamente, interessate ai suoi soldi sostenendo provocatoriamente che alla fine il costo era minore e la soddisfazione maggiore.

Tanto temeva i legami che durante questo periodo eroico che gli avrebbe meritato la diagnosi di bipolarità del dottor Irati fece una cosa inconsueta per un giovane di 22 anni. Si fece resecare i tubuli seminiferi votandosi alla sterilità irreversibile. Il Prof Pignadoro direttore della cattedra di urologia fece di tutto per dissuaderlo da una decisione così radicale ma dovette piegarsi alla volontà ferrea di Tommaso.

La sua intelligenza brillante superava agilmente gli esami di ingegneria senza che lui vi ponesse il minimo interesse. Quello studio era l’inutile tributo alla fallita azienda di famiglia. La sua curiosità era tutta rivolta al funzionamento che gli appariva così bizzarro degli esseri umani e all’inesplicabile senso della vita. Aveva avvicinato gruppi religiosi settari e integralisti sperando nell’accendersi della fede, la grande consolatrice. Tutt’oggi aspettava invano. Allora si era rivolto alla psicologia, le prime facoltà aprivano proprio in quegli anni. Non aveva trovato le risposte sull’uomo e sulla vita ma un femminaio disinibito dalla rivoluzione sessuale dove il suo pisello asciutto, per questo molto apprezzato dalle utenti, accumulo onori e soddisfazioni.

Attraversò tutto il periodo indenne da innamoramenti e amori. Negli anni del miracolo economico un ingegnere laureato a pieni voti all’accademia militare era corteggiatissimo dalle numerose e prestigiose fabbriche d’armi italiane. Lo stabilimento principale era in provincia di Vontano e Tommaso decise di trasferirsi con la madre rimasta vedova in circostanze misteriose a Monticelli. Il vecchio ingegner Italo nonostante la tetraplegia che lo costringeva immobile a letto era riuscito a portare a termine quello che aveva iniziato dieci anni prima dopo il fallimento della sua azienda e si era sparato questa volta alla tempia. Irati era sempre più iroso (si perdoni il gioco di parole) alle riunioni di equipe.

Un soggetto con una così forte familiarità suicidiaria, una forte impulsività (vasectomia) e una storia di bipolarità doveva essere trattato, volente o nolente ( a costo di fargli un TSO) con stabilizzatori dell’umore che, era certo, gli avrebbero anche tolto questa sua appetizione ossessiva verso i libri. Invece sfruttandola il dottor Cortesi aveva chiesto all’assistente sociale Brugnoli di trovare un’ impegno per Tommaso nella biblioteca comunale da retribuire con un sussidio terapeutico di 150€ al mese. Marco Politi era solo un infermiere ma per gli anni passati in psichiatria aveva sviluppato una grande capacità terapeutica ed ebbe un’idea geniale. Per modestia e non voler atteggiarsi a psicologo la attibuì alla moglie attivista della LIPU. Se con i libri stava bene mentre gli esseri umani lo mettevano a disagio, la soluzione intermedia era un cane. Un legame affettivo probabilmente tollerabile e protettivo rispetto alla sempre più probabile perdita della madre ottantatreenne, unico affetto rimastogli.

Non immaginava di certo Polti che Arturo il cocker beige che avevano recuperato al canile sarebbe stato causa di ciò di cui doveva essere cura. Non era neppure un mese che gironzolava per casa Pedrini che la cataratta di Assunta impedì la visione della bestiola impegnandola in un mezzo carpiato in avanti. La testa durissima resistette allo spigolo della scrivania ma il femore osteoporotico implose.

Un assistente sociale bravo sa trasformare una debolezza in una risorsa e far incontrare i bisogni diversi creando sinergie virtuose, si direbbe oggi. Brugnoli era un bravissimo assistente sociale. Si occupava da sette mesi di Killa e per farlo aveva dovuto etichettarla con la diagnosi di disturbo borderline di personalità sebbene sia lui che Biagioli che aveva aperto la cartella sapessero benissimo che l’unica diagnosi era sfortuna, povertà, sfruttamento. Killa aveva ventitre anni ed era fuggita dall’ucraina lasciando un marito alcolista che l’aveva messa incinta a 16 anni e poi picchiata fino a farla abortire.

Cosciente della sua straordinaria bellezza era arrivata con il pulman alla stazione tiburtina di Roma certa che avrebbe fatto la puttana. Era comunque una vita migliore. Non fece in tempo a realizzare il suo progetto. Scendendo scivolò sull’ultimo gradino e si ruppe la tibia destra. Al policlinico un operatore della comunità di Sant’Egidio notando l’interesse e le cure che attirava da parte degli infermieri la ritenne in pericolo.

Per strapparla al rischio della prostituzione contattò il convento delle Clarisse di Monticelli dove aveva agganci. La ospitarono e mandano all’aria il suo progetto di impresa commerciale la segnalarono all’assistente sociale Brugnoli. Troppa gente la voleva salvare dalla strada e alla fine si arrese. Avrebbe fatto la badante come tutti tranne lei, si aspettavano. Un sussidio fu assegnato direttamente a lei e altri 150 € arrivavano dal sussidio bibliotecario di Tommaso. I capelli biondi lunghi li portava raccolti in uno chignon o, se aveva premura, in una frettolosa coda di cavallo che lasciavano scoperto un collo lungo e sinuoso creato evidentemente per essere baciato. Una malinconia che suscitava tenerezza velava gli occhi naturalmente azzurri. Il seno prosperoso era normalmente celato dentro maglioni enormi e sformati per non rubare il campo a quella che era la sua autentica meraviglia. Le gambe lunghissime, sode e affusolate terminavano da un lato in caviglie sottili da bambina e dall’altro si ricongiungevano in un bacino morbidamente ondulante davanti e sfacciatamente prominente dietro.

Era, senza alcun dubbio la donna più bella che Tommaso avesse mai visto. Se avesse saputo delle intenzioni originarie di Killa non sarebbero stati certo i trent’anni di differenza ad impedirgli di farle una proposta economica convincente. Con Brugnoli scherzava dicendo che sarebbe finito come tutti i vecchietti rincoglioniti che fanno testamento a vantaggio della giovane e disponibile badante. Tanto, pensava, lui non aveva, per fortuna, eredi che potessero interdirlo. I problemi erano altri. Da un lato la vigilanza di Brugnoli che non aveva certo salvato la ragazza dalla strada per servirla direttamente al lupo solitario. Dall’altro che Killa tanto si dedicava con amorevolezza alle cure di Assunta, tanto trascurava le discrete ma evidenti attenzioni di Tommaso. In ultimo poiché l’aveva spuntata il dottor Irati assumeva ogni giorno 600 mg di depakin chrono ed il suo pisello, ancorchè asciutto, si presentava piuttosto abbacchiato.

Non se la sentiva di rischiare. La spiava ed aveva rinverdito le pratiche masturbatorie adolescenziali. Tommaso stava decisamente meglio ed al CIM ognuno se ne attribuiva il merito. Marco e Luigi per la psicoterapia, Irati per il Depakin, Brugnoli per la badante. Era così preso oltre che dal lavoro, dall’impegno in biblioteca e dalle passeggiate con Arturo che iniziò a saltare gli appuntamenti al CIM che mai aveva mancato.

Fu proprio durante la funzione religiosa per il trigesimo della scomparsa della signora Assunta che Killa chiese a Brugnoli di parlagli in privato. Fuori dalla cappella del cimitero entrambi resi irriconoscibili dagli abiti da cerimonia che rendevano Giovanni un pecoraro nel giorno di festa e Killa col suo tayer nero una diva da red carpet si parlarono. Ora che non c’era più la signora Assunta e che aveva scoperto da una settimana di essere incinta al terzo mese non se la sentiva più di rimanere in casa Pedrini, sarebbe tornata dalle clarisse. Sia per la descrizione di Brugnoli, sia perchè non inerisce direttamente la nostra vicenda, non sarà dato conoscere altro. Quando Brugnoli riferì l’accaduto a Tommaso alla presenza di Luigi e Marco non riuscì a celare un’aria di velata riprovazione quasi avesse tradito la loro fiducia approfittandosi della ragazza. Tommaso si guardò bene dallo svelare il segreto che era a conoscenza però dei due terapeuti che rimasero basiti quando affermò che era pronto a prendersi le sue responsabilità perché era stata una ponderata scelta d’amore. Gli operatori del CIM ed in particolare Gilda che aveva preso la prima telefonata tornavano a ripensare alla bizzarra storia dell’ing Pedrini solo quando fuori servizio lo incontravano al parco con il piccolo biondissimo Thomas e lo scodinzolante Arturo.

 

LEGGI LA RUBRICA STORIE DI TERAPIE DI ROBERTO LORENZINI

Rapporto con i genitori: l’incostanza influenza negativamente lo sviluppo sociale già a 4 anni

FLASH NEWS

Uno nuovo studio dell’Istituto Frank Porter Graham per lo sviluppo dell’Infanzia dell’UNC rivela che, seppur marginalmente, una cura incostante nei confronti del bambino influenza negativamente lo sviluppo sociale dello stesso già a 4 anni.

Lo studio mostra, però, che non tutti i tipi di cure mutevoli sembrano avere un impatto negativo sui bambini.
Infatti i risultati hanno mostrato che quando i cambiamenti riguardavano ambienti di cura diversi, questi influenzavano negativamente la capacità di adattamento dei bambini.

Molti esperti  sostengono che la presenza di stabilità e di sicurezza nelle relazioni precoci con genitori e caregiver sia un presupposto per formare future reti sociali efficaci, infatti maggiori livelli di instabilità e rotture all’interno delle prime relazioni con genitori e figure di riferimento potrebbero portare successivamente a difficoltà nell’instaurare rapporti di fiducia con gli altri.

Bratsch-Hines dice che fattori come la precarietà economica e lavorativa e la disponibilità dei mezzi di trasporto, così come altri fattori analoghi, possono costringere la famiglia a trasferimenti in un diverso ambiente di cura o anche all’interno dello stesso.

A partire da queste osservazioni , Bratsch-Hines e i suoi collaboratori decisero di fornire una panoramica complessiva sull’impatto dell’instabilità della cura del bambino, il tutto spiegato nel progetto (a lungo in esecuzione) Family Life Project dell’ Istituto Frank Porter Graham Child Development.

Gli autori esaminarono le esperienze di circa1300 bambini che vivevano in aree rurali povere, prestando attenzione ai cambiamenti nella cura del bambino  all’interno dello stesso ambiente o tra ambienti diversi, un approccio che nessuno studio aveva tentato prima. A differenza di studi precedente, il campione utilizzato nella ricerca includeva anche infanti (1-2 anni di età) che non avevano ricevuto costantemente la cura da parte dei loro genitori.

Dai risultati emerse che coloro che avevano vissuto esperienze di cambiamento tra diversi ambienti di cura hanno ottenuto punteggi più bassi da parte degli insegnanti sulla capacità di adattamento.

Per i bambini cambiare luoghi di cura significava doversi adattare ad ambienti fisici diversi in termini di spazi, parchi giochi e giocattoli così come imparare a convivere con nuove abitudini  e dover instaurare nuove relazioni tra pari, con adulti di riferimento e altri adulti. Se i cambiamenti sono avvenuti invece all’interno dello stesso luogo di cura (turnover di insegnanti o del personale o dell’organizzazione) , non si rileva a lungo termine un impatto sull’adattamento sociale del bambino.

Alla luce dei risultati ottenuti dallo studio,  gli autori suggeriscono di potenziare i programmi d’intervento per favorire l’integrazione dei bambini all’interno degli ambienti di cura e di fornire ai  genitori sussidi che permetterebbero ai bambini di accedere a luoghi di cura stabilmente.  

Secondo gli autori, nuove ricerche potrebbero essere utili per meglio comprendere il ruolo che la cura incostante nei confronti dei bambini esercita sullo sviluppo del bambino.

 

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WORKSHOP

I risultati delle ricerche internazionali degli ultimi anni hanno dimostrato quanto gli interventi psico-educativi e comportamentali precoci (prima dei 5 anni) possano essere efficaci in termini di buon recupero dei deficit cognitivi, comunicativi e sociali dei bambini con ASD soprattutto quando il bambino ha la possibilità di apprendere da tutti i contesti di vita, non solo durante la terapia.

I workshop dedicati alla scuola e al modo educativo, hanno fatto emergere spunti di riflessione e domande importanti per quanto riguarda l’alunno con ASD all’interno della realtà scolastica italiana.

Gli obiettivi principali hanno riguardato l’individuazione di nuclei comuni ad approcci psicoeducativi diversi e il confronto di interventi precoci nei contesti educativi.

Gli interventi durante i workshop hanno seguito un filo rosso per quello che riguarda la considerazione clinica, abilitativa e psicoeducativa dei soggetti autistici. Sembrano ormai consolidati, nelle realtà delle buone prassi presentate, punti cardine quali la diagnosi precoce, la specificità degli interventi, il coinvolgimento della famiglia e della scuola nella costruzione dell’intervento e la formazione specifica per gli insegnanti.

Arianna Bentenuto (Laboratorio di Osservazione Diagnosi e Formazione dell’Università di Trento) ha presentato un intervento intensivo svolto presso l’Università di Trento basato sulla promozione dell’intersoggettività e sulla condivisione degli obiettivi specifici da parte dei terapeuti e della famiglia. Sono state sottolineate come fondamentali caratteristiche per un intervento efficace la precocità, l’intensità, la specificità, l’interattività tra famiglia e scuola che, nello specifico, prevede il supporto per i genitori, la formazione degli insegnanti in un’ottica più ampia di lavoro di rete.

Gli interventi di Liliana Ruta (IRCCS Fondazione Stella Maris) e Giacomo Vivanti (Ricercatore presso La Trobe University di Melbourne) hanno introdotto l’Early Start Denver Model (ESDM) come programma di intervento precoce (dai 12 ai 48 mesi) con base relazionale – evolutiva e comportamentale, come terzo step in seguito ad uno screening precoce e ad una diagnosi funzionale.

I risultati riportati hanno confermato l’efficacia degli interventi nei follow up successivi in termini di aumento del quoziente di sviluppo, di diminuzione della severity della Scala ADOS e di maggiori abilità adattive misurate con la Scala Vineland.

A conclusione delle presentazioni sono emersi spunti di riflessioni per quanto riguarda la capacità di misurare i cambiamenti a seguito degli interventi; ci si è chiesto in che modo fosse possibile trovare forme per misurare i cambiamenti interni dei soggetti con ASD in quanto diversamente osservabili dai comportamenti. Inoltre si è riflettuto sull’applicabilità e sulla sostenibilità di tali modelli poiché si basano sulla diagnosi funzionale che non tutti i servizi pubblici italiani forniscono.

I risultati delle ricerche internazionali degli ultimi anni hanno dimostrato quanto gli interventi psico-educativi e comportamentali precoci (prima dei 5 anni) possano essere efficaci in termini di buon recupero dei deficit cognitivi, comunicativi e sociali dei bambini con ASD soprattutto quando il bambino ha la possibilità di apprendere da tutti i contesti di vita, non solo durante la terapia. In tale senso è necessario che la scuola diventi il luogo di abilitazione e di educazione per i bambini con ASD, che sia il luogo delle “opportunità quotidiane” di apprendimento.

La proposta in 5 punti (vedi articolo) per favorire l’integrazione e l’inclusione scolastica degli alunni con disturbi dello spettro autistico, formalizzata dalla Direzione Scientifica e dagli oltre 900 partecipanti durante il Convegno, ha sottolineato i concetti chiave per raggiungere tale scopo: lotta contro il bullismo, organizzazione degli spazi, didattica, materiali e formazione degli insegnanti.

Non si è parlato solo di scuola dell’infanzia o primaria ma anche di scuola secondaria di primo e secondo grado con uno sguardo a ciò che sarà il futuro dei ragazzi con ASD, ovvero la vita adulta, il progetto di vita. Come sostenuto da Alessandro Carolli (Lavoratorio di Osservazione Diagnosi e Formazione dell’Università di Trento), l’obbiettivo finale della scuola secondaria di secondo grado è costruire un progetto di vita quindi lavorare sull’autonomia, sulla regolazione emotiva dei ragazzi con ASD. Attori importanti nella costruzione del progetto sono gli insegnanti per i quali sono previsti percorsi di formazione specifica per favorire l’inclusione ed accompagnare i ragazzi all’ingresso della vita adulta.

Il concetto trasversale a tutte le buone prassi presentate è stato quello di inclusione e integrazione scolastica: è emersa la necessità di cominciare a sradicare la didattica frontale della scuola italiana a favore di una didattica costruttiva.

Gli interrogativi che rimangono aperti riguardano il significato di inclusione e di integrazione scolastica di cui si dovrebbero trovare delle linee di condotta comuni attraverso un lavoro di rete, come suggerisce l’esperienza dello Sportello Provinciale Autismo di Vicenza. Il progetto, presentato da Claudia Munaro (Ufficio Scolastico Territoriale XIII Vicenza) è approdato alla formalizzazione di un Protocollo di Intesa che indica le linee di condotta univoche per l’inclusione scolastica (www.autismovicenza.it). Questo è un esempio paradigmatico per le atre realtà nazionali di come si possa utilizzare meglio la realtà scolastica.

 

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Dalla genetica all’autismo in età adulta: Report dal convegno Autismi – Rimini 14 e 15 Novembre 2014  – II Parte

Tra diagnosi e interventi intensivi precoci: report dal convegno Autismi- Rimini, 14 e 15 novembre 2014- I parte

L’assertività e gli stili di comportamento – Quinta parte

PARTE QUINTA

Il comportamento assertivo è tipico della persona che rispetta i diritti propri e quelli altrui, non permette agli altri di essere aggressivi, non li subisce, non esige che gli altri modifichino le loro opinioni, non giudica gli altri, decide per se stessa e non si assume responsabilità che non le competono.

Lo stile assertivo

Il comportamento assertivo è tipico della persona che rispetta i diritti propri e quelli altrui, non permette agli altri di essere aggressivi, non li subisce, non esige che gli altri modifichino le loro opinioni, non giudica gli altri, decide per se stessa e non si assume responsabilità che non le competono, ha stima di sé e dell’altro, sa esprimere le proprie opinioni e le proprie emozioni in modo funzionale, raggiunge i suoi obiettivi, sa che cosa vuole e lo persegue senza calpestare gli altri.

I vantaggi a breve termine, che permettono il mantenimento del comportamento assertivo possono essere riconducibili alla soddisfazione della necessità umana di esprimere i propri bisogni, desideri e pensieri e di avere un ruolo costruttivo nella relazione sociale. La disponibilità nel gestire in modo produttivo le eventuali divergenze costituirà un vantaggio condiviso per il soggetto e per il suo interlocutore, a breve ed a lungo termine.

A lungo termine la coerenza con se stessi permetterà una serenità nella relazione con il sé e la chiarezza nei confronti degli altri permetterà la costruzione di rapporti interpersonali veritieri. Sarà, inoltre, possibile aumentare il senso di autoefficacia per aver raggiunto gli obiettivi desiderati ed una maggiore tolleranza alla frustrazione legata alla sconfitta o all’interloquire con persone aventi punti di vista differenti dal proprio.

Le principali caratteristiche di un individuo che utilizza uno stile assertivo possono essere così riassunte:

– Accetta il punto di vista altrui,

– non giudica,

– non inferiorizza o colpevolizza gli altri,

– ascolta gli altri, ma decide in modo autonomo,

– è pronto a cambiare la propria opinione,

– non permette che gli altri lo manipolino,

– non pretende che gli altri si comportino secondo le sue aspettative,

– ricerca l’altrui collaborazione,

– è in grado di comunicare le proprie emozioni,

– si valuta in modo adeguato (buona autostima).

I costi di uno stile assertivo possono essere:

1. Si ha difficoltà ad acquisire tale stile, dato che assertivi non si nasce, ma si diventa. Ciò significa modificare, talvolta in modo davvero cospicuo, le proprie abitudini comunicative.

2. In una cultura come la nostra, in cui l’aggressività, l’invidia sociale, la manipolazione dell’altro, ecc., la fanno da padrone, è possibile che la persona assertiva non venga né creduta, né accettata. Il rischio è che ad essa vengano attribuiti sentimenti ed intenzioni che non le appartengono.

Possiamo ricapitolare quanto detto fino ad ora attraverso quanto suggerito da Bonenti e Meneghelli (1992):

  PASSIVO ASSERTIVO AGGRESSIVO
Comportamento È attento solo agli altri.
È condizionato e influenzato dagli altri.
Subisce.
Non si oppone.
Ha un’elevata ansia sociale.
È attento a sé e agli altri.
Non è condizionato dagli
Altri.
Utilizza metodi motivanti e gratificanti.
È attento solo a sé.
Prevarica gli altri.
Utilizza metodi coercitivi e distruttivi.
Obiettivo Benevolenza degli altri
ed evitamento del conflitto.
Successo personale e
con gli altri.
Potere personale e sociale.
Conseguenze Frustrazione, ansia,
senso di colpa, inibizione.
Violazione del mondo
interiore.
Mortificazione della
propria dignità.
Emozioni e cognizioni
prive di insicurezza e di
ansia.
Attenta considerazione
degli altri.
Fiducia in sé e negli altri.
Scelte autonome.
Dignità propria e altrui.
Senso di colpa e difesa
personali.
Collera, ostilità.
Umiliazione e disprezzo
per gli altri.
Mortificazione della
dignità degli altri.

 

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L’assertività e gli stili di comportamento – PRIMA PARTE

L’assertività e gli stili di comportamento – SECONDA PARTE

L’assertività e gli stili di comportamento – TERZA PARTE

L’assertività e gli stili di comportamento – QUARTA PARTE

BIBLIOGRAFIA:

Autismo e Vaccini: Intervista a Chiara Picinelli

Sono stati fatti moltissimi studi dagli anni novanta ad oggi a tal proposito, e mai nessuno ha dimostrato l’associazione tra vaccini ed autismo, né tantomeno tra il mercurio presente nei vaccini e l’autismo.

Da qualche giorno rimbalza tra i media la notizia di una sentenza del Tribunale del Lavoro di Milano, secondo cui sarebbe “acclarata la sussistenza del nesso causale tra tale vaccinazione e la malattia” e per tale ragione si dispone un risarcimento bimestrale a vita  per un bambino di 9 anni che nel 2006 si sottopose al vaccino esavalente prodotto dalla multinazional GlaxoSmithKline. La Dottoressa Chiara Picinelli, biotecnologa esperta in genetica delle malattie rare ha gentilmente risposto ad alcune brevi domande di State of Mind in proposito.

Dottoressa Picinelli, che effetto le ha fatto leggere di questa sentenza?

Un effetto bruttissimo! Un effetto bruttissimo perché in questo modo è come se si giustificasse un allarmismo che è invece del tutto infondato nei confronti della pericolosità del vaccino e del suo potenziale ruolo nel determinare l’autismo. E tutto questo allarmismo fa solo male perché mette a repentaglio la salute dei bambini, che, se non vaccinati, potrebbero andare incontro ad infezioni che potrebbero causare gravi malattie e morti. E un effetto bruttissimo perché è a mio parere inconcepibile che in un’aula di tribunale si sia emessa una “sentenza scientifica” che va contro a quello che la scienza internazionale sostiene in maniera molto ferma da anni.

Che cos’è l’autismo?

Premesso che sarebbe più corretto parlare di “autismi” piuttosto che di autismo. Ogni bambino è una storia a sè, e per questo si parla di “Disturbi dello Spettro Autistico”. I soggetti con disturbo dello spettro autistico condividono tuttavia delle problematiche in comune che si possono manifestare in maniera più o meno grave. Tutti nascono bene, sono dei bambini che stanno bene nel corso dei primi mesi o del primo anno di vita, ma poi ad un certo punto i genitori si accorgono che c’è qualche cosa che non va. Il bambino non ti guarda negli occhi, parla poco o tende a non sviluppare il linguaggio, muove le mani in maniera anomala, non gioca come gli altri bambini. Insomma, emergono delle anomalie che riflettono deficit a livello della comunicazione e della interazione sociale e a livello del comportamento (spesso si riscontrano comportamenti ripetitivi e stereotipati o fissi ed invarianti).

Nonostante l’esordio del disturbo sia post-natale, l’autismo è un disturbo causato da anomalie di origine prenatale e con una forte componente genetica, e questo è stato dimostrato da diversi studi. Si è visto infatti che le anomalie alla base della malattia, che provocano una formazione di reti neurali anomala a livello cerebrale, sono riconducibili a processi biologici che avvengono durante le prime fasi dello sviluppo fetale. Ad oggi sono stati individuati più di 100 geni correlati allo sviluppo dell’autismo, ma nella maggior parte dei casi l’autismo si presenta come malattia genetica complessa, e questo vuol dire che ci sono più concause che concorrono insieme (diverse anomalie genetiche nello stesso individuo, oppure la presenza di particolari anomalie genetiche sommate all’influsso di specifici fattori ambientali agenti in ambito pre-natale).

Può il mercurio, ritrovato in alcuni lotti di tale vaccino, essere stato causa o concausa per l’insorgenza di autismo?

Sono stati fatti moltissimi studi dagli anni novanta ad oggi a tal proposito, e mai nessuno ha dimostrato l’associazione tra vaccini ed autismo, né tantomeno tra il mercurio presente nei vaccini e l’autismo. L’unico studio che dimostrava un’associazione, pubblicata sulla rivista “Lancet” nel 1998, si è rivelata una “bufala” (passatemi il termine!), tanto che la rivista stessa  lo ha ritirato dieci anni dopo, gli autori del lavoro hanno  ritrattato formalmente le conclusioni del loro lavoro e il primo autore è stato radiato dall’albo dell’ordine dei medici. Ma ciò che dovrebbe eliminare ogni dubbio su un’eventuale associazione tra mercurio e autismo è che dal 1992 il mercurio è stato dapprima ridotto e poi definitivamente eliminato dai vaccini (in via preventiva, a causa dell’allarmismo che c’era), ma nonostante questo il tasso di autismo è stato comunque in continuo incremento negli anni successivi. Detto questo, è sicuramente vero che l’età di insorgenza dei sintomi più caratteristici dell’autismo è nella stessa fase in cui viene somministrato il vaccino, ma questa è solo una correlazione temporale e non causale.

Abbiamo detto che l’autismo è un disturbo di origine prenatale che comporta anomalie delle reti neurali presenti nel cervello. Quello che si può al massimo pensare è che queste anomalie possano compensare le loro carenze fino a che non viene posta sull’organismo una richiesta di sovrappiù energetico che è quello che fanno le infezioni. Alcuni genitori si accorgono del manifestarsi dei problemi dopo una brutta influenza, o dopo un’otite. Queste infezioni, allo stesso modo dei vaccini, stimolano una risposta immunitaria. Ma non è l’attivazione del sistema immunitario in quanto tale che ha causato la malattia, semplicemente potrebbe averla  slatentizzata, fatta emergere. Non diremmo mai che una semplice influenza possa essere stata la causa dell’autismo in un bambino, no?

Vaccinerà i suoi figli?

Assolutamente si!

 

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