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Il quinto Quaderno del Centro Napoletano di Psicoanalisi: Identità e Processi di Identificazione – Recensione

L’identificazione in psicoanalisi richiama subito una pluralità di qualificazioni che la specificano e al tempo stesso la articolano e la rinfrangono: identificazione primaria, isterica, melanconica, narcisistica, edipica, alienante. Le numerose sfaccettature rinviano al versante evolutivo o regressivo della dinamica psichica, al lato patologico o a quello costitutivo.

Il quinto Quaderno raccoglie il lavoro svolto dal Centro Napoletano di Psicoanalisi intorno al tema dell’identificazione nelle sue molteplici configurazioni e delle relazioni con la strutturazione dell’identità e con la soggettivazione (ndr: i quaderni del Centro Napoletano di Psicoanalisi sono volumi che raccolgono i momenti più significativi della vita scientifica e culturale del Centro. I precedenti quaderni sono Psicoanalisi e Teoria della Cultura. Riflessioni su un classico: “Il disagio della civiltà” (2003); Metapsicologia Oggi (2005); Violenza e Simbolizzazione (2009) editi da la Biblioteca, Bari-Roma; Le Figure del Vuoto. I Sintomi della Contemporaneità: anoressie, bulimie, depressione e dintorni (2012) per le edizioni Borla, Roma).

L’identificazione in psicoanalisi richiama subito una pluralità di qualificazioni che la specificano e al tempo stesso la articolano e la rinfrangono: identificazione primaria, isterica, melanconica, narcisistica, edipica, alienante. Le numerose sfaccettature rinviano al versante evolutivo o regressivo della dinamica psichica, al lato patologico o a quello costitutivo.

Le relazioni presentate in questo quaderno ci permettono di seguire un percorso che si articola intorno a differenti modelli teorici della psicoanalisi.

 Nella fattispecie possiamo individuare un filo conduttore che partendo da un criterio evolutivo-genetico, incentrato sulla teoria della relazione d’oggetto, perviene dapprima ad una modellizzazione in cui la relazione d’oggetto si articola con una visione strutturale, per arrivare ad un modello fondato totalmente sulla meta-psicologia freudiana classica. Nasciamo stranieri al mondo, in un mondo che ci è estraneo. Comincia quindi un lungo e faticoso percorso di appropriazione e investimento del proprio essere e del proprio divenire nel mondo. Il bambino inizia a divenir del mondo esperto attraverso le forme attiva, passiva e riflessiva della conoscenza.

Identificare è, infatti, contemporaneamente un processo euristico – conoscere l’identità di qualcosa, o di qualcuno, la sua uguaglianza nel tempo e nello spazio – e, riflessivamente, la costruzione della propria persona, soggettività che ci appartiene seppure alienata nella follia. La formazione del soggetto può configurarsi come storia delle sue identificazioni: se queste contribuiscono a strutturare un’identità, d’altro canto costituiscono anche la traccia della permeabilità della psiche al mondo. L’identificazione, collegata ai processi di apprendimento, sembra configurare una necessità tanto radicata da apparire ormai innata nella nostra psiche.

Le problematiche esplorate interrogano teoria e pratica clinica chiamate a confrontarsi sempre più spesso col narcisismo, la soggettività e i suoi confini, la precarietà del senso d’identità, attraversato da crisi personali e sociali.

Nell’ordito di questo tema si è venuta a tessere una trama che disegna immagini composite con inaspettate confluenze e imprevedibili punti di snodo, anche in dialogo con l’antropologia nella sua funzione di osservazione delle trasformazioni identitarie nell’impatto transculturale.

 

LEGGI ANCHE:

Psicoanalisi e Terapie Psicodinamiche

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Cotrufo P. e Pozzi R., (2014), Identità e processi di identificazione, Franco Angeli. ACQUISTA
  • Klein M., (1958), Sullo sviluppo dell’attività psichica, in Scritti, Bollati Boringhieri.
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  • Thanopulos S., (2012), L’identificazione isterica, Riv. Psicoanal., LVIII, 1.

Stai favorendo lo sviluppo del comportamento aggressivo del tuo bambino?

FLASH NEWS

Gli autori della ricerca hanno trovato che i comportamenti dei genitori potrebbero influenzare lo sviluppo di una relazione tra aggressività e competenze linguistiche nella prima infanzia.

Un recente studio dell’ Università di Montreal smentisce l’ipotesi sostenuta dalla letteratura più recente per cui l’aggressione fisica da parte dei bambini sia associata con la frustrazione causata dagli eventuali problemi della lingua parlata. Gli autori della ricerca hanno trovato che sarebbero i comportamenti dei genitori ad influenzare lo sviluppo di una relazione tra aggressività e competenze linguistiche nella prima infanzia. Colpire frequentemente l’altro attraverso calci, la tendenza a mordere o picchiare gli altri sono esempi di aggressione fisica osservata nei bambini.

Ricerche condotte 10 anni fa hanno dimostrato che i problemi di aggressione fisica sorgono nella prima infanzia in concomitanza con lo sviluppo dell linguaggio. Lo studio longitudinale presentato ha incluso un campione di 2,057 bambini francofoni e anglofoni Québec tra i 17 e 72 mesi di età reclutati dal Quebec Longitudinal Study of Child Development ( QLSCD ), condotto da GRIP in collaborazione con Quebec del Ministero della Sanità e dei Servizi Sociali e l’Istituto di Statistica Québec.

I genitori sono stati invitati a valutare la frequenza delle aggressioni fisiche e le abilità linguistiche dei loro figli a 17 , 29, 41 , 60 , e 72 mesi. Sono stati inoltre valutati i comportamenti dei genitori (comportamento punitivo e/o affettuoso) .

I risultati della ricerca mostravano un’associazione tra la frequenza di aggressioni fisiche e la qualità di sviluppo del linguaggio tra i 17 ei 41 mesi.

In realtà , i bambini che avevano competenze linguistiche di basso livello a 17 mesi hanno commesso maggiori atti di aggressione fisica a 29 mesi e la frequenza di questo comportamento aggressivo a 29 mesi era associata a competenze linguistiche di livello inferiore a 41 mesi. Raggiunta questa età la maggior parte dei bambini hanno imparato ad usare altri mezzi di comunicazione per ottenere ciò che vogliono, riducendo così il rischio di un’ associazione tra il ritardo nel linguaggio e l’adozione del comportamento aggressivo in un campione di popolazione rappresentativo.

Una possibile spiegazione dei risultati raggiunti potrebbe essere l’influenza dei fattori genetici e neurologici sullo sviluppo di questi tipi di comportamento. Tuttavia, i ricercatori hanno anche notato che in questo periodo una modalità di relazione affettuosa con i propri genitori è associata a bassi livelli di aggressività e di buon sviluppo del linguaggio nei bambini.

Questa osservazione potrebbe indicare che i comportamenti affettuosi dei genitori potrebbero facilitare l’apprendimento delle lingue il quale faciliterebbe l’apprendimento di alternative accettabili alla aggressione fisica . Tuttavia, è anche possibile che i bassi livelli di aggressività e uno sviluppo del linguaggio adeguato nei bambini incoraggiano i genitori a essere più responsivi verso i propri figli.

Gli autori della ricerca invitano ad approfondire questa tematica in bambini nei primi tre anni di vita per meglio comprendere il ruolo degli effetti del comportamento dei genitori e della genetica nello sviluppo della relazione tra la aggressione fisica e lo sviluppo del linguaggio.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Perfezionismo – Definizione

Elisabetta Marinucci

 LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2014 State of Mind. Riproduzione riservataIl termine “perfezionismo” definisce la consuetudine di esigere da sé stessi o dagli altri una performance di qualità maggiore, rispetto a quella richiesta dalla situazione. Questo  porta il soggetto a  ipercriticare il proprio comportamento (Frost  R. O. e al., 1990 Bastiani A.et al., 1994) e a vivere in un costante stato di ansia causato dal bisogno di fare sempre meglio (Hamacheck 1978).

Paul Hewitt  e Gordon Flett (1991) identificano le seguenti caratteristiche del perfezionismo :

1) Standard irrealistici e sforzi per raggiungerli

2) Attenzione selettiva agli errori

3) Interpretazione degli errori come indicatori di fallimento e credenza che, a causa di essi, verrà persa la stima degli altri

4) Autovalutazioni severe e tendenza ad incorrere in un pensiero tutto o nulla, dove i risultati possono essere solo un totale successo o un totale fallimento

5) Dubbio sulla capacità di portare a conclusione un compito in modo corretto

6) Tendenza a credere che gli altri significativi abbiano aspettative elevate

7) Timore delle critiche.

Quando parliamo di perfezionismo interessante è la distinzione che Hamacheck (1978) propone tra il perfezionismo normale e il perfezionismo nevrotico: mentre nel perfezionismo normale l’errore è visto come una possibilità di crescita e non si teme il giudizio negativo degli altri, nel perfezionismo nevrotico sono costanti la paura di fallire e la svalutazione dei risultati ottenuti; per contro si tende a  sottolineare i propri errori. Questo determina  un abbassamento dell’autostima perché si crede  che per ottenere l’approvazione degli altri sia necessario dimostrare costantemente il raggiungimento di obiettivi sempre più elevati.

In altri termini Burns (1993) proporrà lo stesso concetto differenziando il perfezionismo clinico dalla “salutare ricerca di eccellere”: questa  è promotrice del sano funzionamento psicologico dell’individuo perché lo spinge a misurare le proprie capacità con obiettivi sempre diversi, senza però intaccare la propria autostima o legarla ai soli risultati ottenuti. Il perfezionismo clinico, invece,  ha un ruolo rilevante nell’eziologia di alcuni stati psicopatologici quali: depressione, disturbi d’ansia (ansia sociale, fobia sociale, disturbo ossessivo compulsivo – DOC), disturbo di personalità ossessivo-compulsivo (DPOC), Disturbi dell’Alimentazione (DCA).

La teoria di Skinner (1968) porterà Terry-Short e collaboratori (1995) a considerare il perfezionismo “sano” come la conseguenza di una storia personale caratterizzata da rinforzi positivi, e il perfezionismo maladattivo il frutto di rinforzi negativi. La psicopatologia del perfezionismo  si struttura in una serie di comportamenti disfunzionali così classificati dal DSM-IV- TR:

1. Preoccupazione eccessiva per le liste, i dettagli e l’organizzazione a discapito dell’obiettivo generale

2. Perfezionismo che interferisce con la riuscita di un lavoro in tempi rapidi

3. Eccessiva dedizione al lavoro (non giustificata da necessità economiche) con conseguente riduzione del tempo dedicato ad attività ricreative

4. Incapacità a gettare oggetti vecchi o inutili, anche quando privi di valore affettivo

5. Inflessibilità su posizioni etiche e/o morali (non giustificate dall’appartenenza politica o religiosa)

6. Riluttanza a delegare compiti o a lavorare in gruppo

7. Stile di vita eccessivamente parsimonioso sia verso sé stessi che verso gli altri

8. Rigidità e testardaggine.

Affinchè possa essere fatta diagnosi di perfezionismo devono essere presenti almeno quattro dei sintomi sopra elencati. Per alcune persone perseguire standard perfezionistici porta ad abbandonare il lavoro a metà per paura di fallire (Antony e Swinson 1998, Burns D.D. 1980, Frost et al 1990, Slade e Owens 1995).

Alla fine degli anni sessanta il perfezionismo è stato descritto come un costrutto unidimesionale dando maggior risalto agli aspetti autoriferiti ovvero lo stabilire standard non realistici per se stessi, l’attenzione selettiva verso il fallimento ed il pensiero dicotomico successo pieno o totale fallimento (Hollender M.H., 1965; Hamacheck D. E., 1978; Burns D.D., 1980).

Hamacheck (1978) evidenzia che quando l’amore dei genitori viene manifestato in base alle performance che si hanno, il bambino non si sente soddisfatto perché il suo comportamento non viene mai percepito abbastanza corretto per guadagnare l’approvazione dei genitori. Tutto questo struttura l’eccessiva preoccupazione di compiere errori, la paura del giudizio negativo degli altri e lo sforzo costante da parte del bambino di conquistare l’approvazione dei genitori.

A partire dagli anni ’90 si sviluppano definizioni multidimensionali di perfezionismo che ne evidenziano non solo gli aspetti autoriferiti ma anche quelli interpersonali. Tale approccio riconosce l’importanza sia del piano personale che di quello sociale per avere una comprensione globale del fenomeno (Frost  R. O. et al, 1990; Hewitt P.L. et al, 1991). Vengono proposte quindi due scale: La Multidimensional Perfectionism Scale (MPS; Frost et al.; 1990) è costituita da 6 dimensioni: 

1) Excessive Concern Over Mistakes:  misura le reazioni negative agli errori, lo sbaglio è considerato un insuccesso, in seguito al fallimento gli altri perderanno la stima nei confronti del soggetto.

2) Personal Standard: misura la presenza di standard elevati e la loro influenza sull’autovalutazione.

3) Parental Expectations: misura la tendenza a credere che gli altri significativi abbiano elevate aspettative nei confronti del soggetto.

4) Parental Criticism: misura la percezione che gli altri siano o siano stati eccessivamente critici nei confronti della persona.

5) Doubts About Action: misura la presenza del dubbio sulla propria capacità di portare a termine il compito in modo perfetto.

6) Organization: misura l’importanza attribuita all’ordine ed all’organizzazione.

La Multidimensional Perfectionism Scale (MPS; Hewitt et al., 1991) è invece costituita da tre dimensioni:

1) Self Oriented Perfectionism: esprime la tendenza a porsi obiettivi troppo elevati, a generalizzare i fallimenti e ad incorrere facilmente in pensieri “tutto o nulla”.

2) Other Oriented Perfectionism:  misura la tendenza ad avere aspettative troppo elevate riguardo agli altri e alle persone significative, ad essere eccessivamente critici nel valutare gli altri.

3) Socially Prescribed Perfectionism: valuta la tendenza a credere che gli altri abbiano alte aspettative sulle prestazioni del soggetto; questo porta timore per la valutazione negativa degli altri e a credere che sia necessario raggiungere quegli standards per guadagnare l’altrui approvazione e accettazione.

Il confronto delle due scale proposto da Frost ed i suoi colleghi nel 1993  riconosce nelle preoccupazioni valutative disadattive e nello sforzo per raggiungere risultati positivi, i due principali fattori distintivi del costrutto, mentre l’Excessive Concern Over Mistake e il Socially Prescribed Perfectionism sembrano essere le dimensioni più correlate alla depressione e al disturbo borderline di personalità.

Alcuni sostengono che il perfezionismo sia una caratteristica necessaria per lo sviluppo del DOC (Rhéaume et al. 1995) perché molti pazienti con disturbo ossessivo compulsivo dichiarano di aver bisogno di perfezione (Goodman et al. 1989). Rothenberg (1990) ritiene che l’anoressia sia una variante “moderna” del DOC con cui condivide molte manifestazioni patologiche. Nell’anoressia, infatti, il cibo e la magrezza costituiscono preoccupazioni ossessive,  mentre  l’esercitare il proprio controllo su peso e appetito diventa un bisogno compulsivo.  Rothenberg, inoltre, evidenzia che anche nei DOC le idee ossessive svolgono una funzione di controllo su impulsi, desideri e affetti. Inoltre i disturbi del comportamento alimentare e il DOC sono accomunati da un alto livello di attività fisica e da una alterazione dell’attività serotoninergica.

Brownell (1991) ha evidenziato il ruolo che la società moderna ha nel generare la ricerca del corpo perfetto. Secondo l’autore le persone ricercano l’ideale non solo per avere benefici in termini di salute ma per ciò che l’ideale di controllo che il corpo perfetto simboleggia. Rosenberg (1965) collega il costrutto dell’autostima alla percezione del proprio valore personale e afferma che la bassa autostima è un fattore di rischio per lo sviluppo dei disturbi alimentari. In particolare Il Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES, Rosenberg 1965) valuta l’autostima globale e il senso di valore di sé.

Sempre in termini di comorbilità gli studi di Hewitt e Flett (1991-1993) evidenziano come il perfezionismo sia una caratteristica della depressione; Hamilton e Schweitzer (2000) in alcuni studi condotti su studenti e campioni psichiatrici, rilevano l’associazione tra il perfezionismo self oriented e socially prescribed con l’aumento dell’ideazione suicidaria. Il perfezionismo socially prescribed inoltre è associato ai disturbi della personalità schizoide, evitante, schizotipico e borderline; mentre il perfezionismo other oriented è stato rilevato nel disturbo istrionico e narcisistico (Hewitt et al. 1994).

Bastiani (1994) in particolare, ha rilevato che la dimensione “self-oriented” del perfezionismo  e l’impulso alla magrezza  si mantengono stabili nonostante  l’aumento di peso corporeo. Questi risultati portano a supporre che il perfezionismo sia una caratteristica dominante della personalità dei  soggetti affetti da anoressia nervosa e che possa aumentare la suscettibilità a sviluppare questo disturbo (Haimi e coll 2000).

La ricerca di Hewitt e Flett (1995) su un campione studentesco, ha evidenziato che il Socially Prescribed Perfectionism è maggiormente legato ai sintomi dei DCA, al disturbo dell’immagine corporea e all’autostima. Il Self Oriented Perfectionism, invece, sembra essere collegato solo a sintomi anoressici, dieta e impulso alla magrezza. Tutto questo sottolinea l’importanza della dimensione sociale del perfezionismo nei DCA in cui i soggetti sembrano animati dal desiderio di conformarsi ad un modello o ad un ideale di perfezione che è percepito provenire dalle richieste altrui.

Secondo Safran e collaboratori (1999), la definizione multidimensionale associa il perfezionismo ad un range di caratteristiche troppo ampio che non consente la valutazione della sua originaria struttura. Secondo questa prospettiva solo la dimensione Self- Oriented descrive nella sua interezza il costrutto del perfezionismo, mentre le dimensioni Other Oriented e Socially Prescribed sono sì  associati al perfezionismo, ma non ne costituiscono parte integrante.

Safran, Cooper e Fairbun (1999) inoltre, propongono una definizione cognitivo comportamentale del perfezionismo definendolo come: “l’eccessiva dipendenza della valutazione di sé dalla risoluta ricerca di standard personali particolarmente esigenti ed auto-imposti in almeno un dominio altamente saliente, nonostante le conseguenze avverse” (depressione, isolamento sociale, insonnia, ridotta concentrazione etc.). Altri autori sono a favore della multidimensionalità del perfezionismo (Tozzi et al., 2004; Sassaroli et Ruggiero, 2005).

A livello psicopatologico raramente il perfezionismo si manifesta da solo, in genere  si associa a disturbi dell’Asse  I e II.  
Fairfun, Safran e Cooper (1999) a tal proposito hanno suggerito che il soggetto tende a rispondere meno al trattamento quando il dominio in cui il perfezionismo  si manifesta và a sovrapporsi al disturbo psichiatrico. Un esempio: se  pazienti  con fobia sociale, manifestano anche il perfezionismo nel dominio relazioni sociali, quest’ultimo tende a  mantenere stabile il disturbo psichiatrico inficiando un possibile trattamento.

Interessante è l’indagine di Bardone e collaboratori (2000) sulla relazione tra perfezionismo, autostima e insoddisfazione corporea. Lo studio, infatti, rivela che compresenza di queste tre variabili sia predittivo rispetto allo strutturarsi dei  sintomi bulimici. In particolare, percepirsi in sovrappeso, avere alti livelli di perfezionismo e una bassa autostima, espone maggiormente al rischio di manifestare sintomi bulimici.

Grolnick nel 2002 rintraccia nel controllo psicologico in particolare, e nel modello di parenting intrusivo più in generale, quelle modalità educative che il genitore utilizza per spingere il figlio a raggiungere particolari risultati, (Grolnick et al. 2002).  Alcune ricerche hanno evidenziato come il controllo psicologico in tenera età, predica un aumento del perfezionismo maladattivo nella tarda adolescenza, e sia predittivo di un aumento dei sintomi depressivi (Flett et al. 2002).  Inoltre, quando eccessivo, il controllo sembra misconoscere l’indipendenza e la singolarità del bambino (Barbera e Harmon 2002, Kering 2003).

Dal punto di vista terapeutico Burns (1980) propone di fare un’analisi dei costi e dei benefici rispetto alle credenze perfezionistiche disfunzionali per poter valutare i vantaggi e gli svantaggi che si hanno nel mantenerle. Fairbun, Safran e Cooper (1999) sostengono che la terapia debba partire dal riconoscere a livello cognitivo comportamentale il proprio perfezionismo come un problema. Questo per ampliare lo schema di auto-valutazione di sé introducendo domini non disfunzionali. Vanderlinden (2001) propone un approccio terapeutico di tipo comportamentale  suggerendo una serie di esercizi quali:

– individuare le attività che si svolgono in modo compulsivo per poter innescare un cambiamento partendo dalla progressiva diminuzione del tempo dedicato ad esse;

– attuare comportamenti contrari a quelli abituali  definita “sfida al perfezionismo”. Un esempio è essere disordinati volutamente.

 

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TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

 

BIBLIOGRAFIA:

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Obesità nei bambini: il cervello si attiva diversamente quando il sapore è dolce!

FLASH NEWS

E se fossero i nostri neuroni ad essere golosi? É quanto sostiene un gruppo di ricercatori dell’Università della California che ha trovato evidenze empiriche secondo cui alcuni cervelli gradiscano lo zucchero più di altri.

Sembrerebbe infatti che alcuni individui abbiano una predisposizione fisiologica che li spinge a desiderare lo zucchero, a essere più portati a percepire il cibo come una ricompensa, a essere motivati dal cibo e a gradire maggiormente la derivante sensazione di benessere data dallo stesso.

Sebbene non sia stata individuata una relazione causale tra l’ipersensibilità allo zucchero e l’eccessiva alimentazione, in questo studio è stato scoperto che nei bambini obesi il cervello risponde diversamente allo zucchero rispetto ai bambini normo-peso.

Per questo studio sono stati coinvolti 23 bambini di età compresa tra gli 8 e i 12 anni, di cui 10 obesi e 13 normo-peso. Le immagini cerebrali hanno mostrato una maggiore attività della corteccia insulare e dell’amigdala dei bambini obesi rispetto al gruppo di controllo. Regioni che infatti sono coinvolte nella percezione, emozione, consapevolezza, gusto, motivazione e ricompensa.
Non hanno mostrato differenze nell’attività neuronale dello striato, anch’esso parte del circuito di ricompensa che altri studi hanno associato all’obesità negli adulti, tuttavia lo striato non è pienamente sviluppato fino all’adolescenza per cui non stupisce questa assenza di variazioni significative, anzi il campione di riferimento di questa ricerca potrebbe essere il primo caso di studio di sviluppo del circuito della ricompensa da cibo nei pre-adolescenti.

I bambini obesi hanno tra l’80 e il 90% di probabilità di diventare adulti obesi; dunque uno studio come questo è un campanello di allarme che dovrebbe far riflettere sulla prevenzione e sulla possibilità che alcuni bambini nascano con una certa ipersensibilità al cibo o con una predisposizione ad imparare più rapidamente il legame tra mangiare e sentirsi meglio che, se riconosciuta, potrebbe essere un efficace punto di partenza per strutturare un intervento mirato e gestire meglio il rischio di sovrappeso e obesità.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Sindrome metabolica e obesità: fonte di deficit cognitivi?

BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia, Metacognizione e PTSD: Nuove conferme sperimentali

L’ipotesi che la metacognizione sia danneggiata nei pazienti gravi era stata espressa da Semerari e colleghi a metà degli anni ’90 – vedi Semerari A. (a cura di) (1999). Psicoterapia cognitiva del paziente grave. Milano: Raffaello Cortina -. Liotti e colleghi da tempo ipotizzano che esperienze psicologicamente traumatiche disorganizzino le funzioni superiori della coscienza, che corrisponde a problemi in quella che nell’area della metacognizione viene chiamata integrazione.

L’idea fino ad ora non aveva ricevuto conferme sperimentali. Il uno studio del gruppo di Paul Lysaker al quale ho partecipato, abbiamo testato l’ipotesi misurando la metacognizione con la versione adattata della Metacognition Assessment Scale in tre gruppi: uno affetto da PTSD, uno da schizofrenia e un terzo gruppo che è stato soggetto a difficoltà esistenziali significative, di soggetti HIV+.

Sono stati misurati anche i livelli di depressione e le capacità di riconoscimento emozionale attraverso un task che valuta sia l’espressione del viso che la prosodia (il Bell Lysaker Emotion Recognition Task).

È emerso che i pazienti con PTSD avevano migliore metacognizione del gruppo con schizofrenia, come ipotizzato, e livelli minori di mastery, ovvero della capacità di utilizzare la conoscenza sugli stati mentali per padroneggiare problemi interpersonali e sofferenza soggettiva, del gruppo di controllo costituito da pazienti HIV+. I risultati erano indipendenti dal livello di depressione.

All’interno del gruppo PTSD, si è visto che minore mastery era collegata a maggior stress soggettivo e iperarousal. Una relazione simile era specifica di aspetti della metacognizione, mentre non sono emersi collegamenti tra la performance nel task di riconoscimento emotivo e la gravità dei sintomi legati al PTSD.

Alcuni risultati erano invece inaspettati, non abbiamo ad esempio trovato correlazioni tra metacognizione e sintomi di avoidance/numbing.

Ad un livello descrittivo, osservando le medie dei punteggi dei pazienti con PTSD, si notava come non fossero per la maggior parte capaci di integrare molteplici aspetti dell’esperienza soggettiva in una narrazione coerente, direi dato a supporto delle teorie della “disintegrazione” delle funzioni superiori della coscienza sotto l’effetto del trauma.

Il lavoro di riferimento è il seguente:

Lysaker, P.H., Dimaggio, G., Wickett-Curtis, A., Luedtke, B., Vohs, J., Leonhardt, B., James, A., Buck, K.D. & Davis, L.W. (in press) Deficits in metacognitive capacity are related to subjective distress and heightened levels of hyperarousal symptoms in adults with Posttraumatic Stress Disorder. Journal of Trauma and Dissociation.

Nel complesso, l’idea che la metacognizione sia in generale danneggiata nei pazienti gravi – si veda Dimaggio e Lysaker (a cura di) (2011): Metacognizione e Psicopatologia, Raffaello Cortina – trova conferma in una popolazione in cui non era ancora stata studiata. Più nello specifico, arriva una prima conferma sperimentale che, coerentemente con le ipotesi di Liotti, Farina e altri colleghi italiani che se ne sono occupati, che la metacognizione sia compromessa, almeno in parte, nei processi dissociativi.

Studi futuri dovranno esplorare il legame con i pattern di attaccamento in questa patologia e usare un gruppo di controllo privo di patologia (qui ci aspettiamo che il PTSD abbia una performance significativamente inferiore anche in altri aspetti della metacognizione).

 

ARGOMENTI CORRELATI:

METACOGNIZIONETERAPIA METACOGNITIVO-INTERPERSONALE

 

 

Sanità Pubblica & Psicologia: a Napoli primo ambulatorio di Psiconcologia nel territorio

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

ERCOLANO. Un ambulatorio di psicologia riservato esclusivamente a pazienti e familiari di persone ammalate di cancro o da patologie croniche. È il servizio di Psiconcologia dell’Asl Napoli 3 Sud, da qualche tempo attivo presso il Distretto Sanitario di Ercolano nei locali dell’Asl in via Marittima. Un servizio all’avanguardia, soprattutto se si considera che la sanità pubblica in Campania offre questo particolare sostegno ai malati «cronici» quasi esclusivamente in ambiente ospedaliero, in un contesto già di per sé pesante per persone affette da gravi patologie e spesso sottoposte a lunghe e dolorose terapie…

Asl Napoli 3, a Ercolano il primo ambulatorio di psicologia riservato ai malati di cancro e patologie cronicheConsigliato dalla Redazione

Francesco Catalano ERCOLANO. Un ambulatorio di psicologia riservato esclusivamente a pazienti e familiari di persone ammalate di cancro o da patologie croniche. (…)

Tratto da: Il Mattino

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Le parole sono importanti: psicoterapeuti e “psicanalisti”

Una delle ragioni che non aiutano la crescita professionale del mestiere di psicoterapista è la confusione terminologica. Ci sono troppe parole per troppi concetti. Prima di tutto il dilemma: psicoterapista o psicoanalista? Poi le varianti: analista, psicoterapista, psicoterapeuta, terapista, terapeuta. E infine le specializzazioni: psicoterapista psicodinamico (o solo dinamico), cognitivo, cognitivo-comportamentale, sistemico, familiare, umanistico, esperienziale e così via.

Troppe parole creano confusione. Per comunicare occorre semplificare. Meglio sarebbe convenire su una sola parola per iniziare a capirsi. Però a volte il rimedio scelto è peggiore del problema. E già, perché il termine più diffuso tra i non addetti ai lavori per indicare la nostra professione sembra ancora essere “psicoanalista” o –peggio- “psicanalista” senza la “o”, con inevitabile effetto retrò anni ’70. No, “psicoanalista” o “psicanalista” non sono le parole giuste per indicare il nostro mestiere. Indicano solo un gruppo che effettua un determinato tipo di psicoterapia. Appunto la psicoanalisi. La parola giusta è “psicoterapista” o, se si preferisce, “psicoterapeuta”.

C’è cascato anche il Post, che ha pubblicato un estratto di un bel libro di fotografie, cinquanta ritratti di psicoterapisti effettuati da Sebastian Zimmermann. Il libro s’intitola “Fifty shrinks”, ovvero “Cinquanta strizza-cervelli”.

La scelta del Post di rendere “Fifty shrinks” con “Gli psicanalisti a New York” è comprensibile.

“Shrink “è un termine gergale intraducibile in italiano. Nel doppiaggio al cinema o nei fumetti è reso con “strizza-cervelli”, parola che convenzionalmente fornisce l’appropriato saporino americano alla conversazione dei personaggi. Nessuno però userebbe “strizza-cervelli” in una conversazione normale, così come nessuno dice mai “chiudi il becco” in italiano. Al Post avranno pensato giustamente che in un titolo di giornale “strizza-cervelli” sarebbe suonato fumettistico. Meglio “psicoanalista”, che a quanto pare nella conversazione sociale italiana è ancora il termine più popolare per indicare il nostro mestiere.

D’accordo, tutto vero. “Shrink” però ha un merito: è un termine neutro, che va bene per qualunque tipo di psicoterapista. E non per caso Zimmermann ha scelto questo termine neutro. Gli “shrinks” che lui ha fotografato non sono tutti psicoanalisti. Tra le foto di Zimmermann pubblicate nel Post la numero #5 ritrae Albert Ellis, che, a parte il periodo iniziale, tutto è stato nella sua vita professionale meno che uno psicoanalista. Anzi, Ellis è uno dei fondatori della terapia cognitivo-comportamentale. Una psicoterapia diversa dalla psicoanalisi.

Esageriamo?

La tentazione di lasciar perdere ci sarebbe. In fondo si tratta di parole. Le parole sono strumenti e devono il loro significato a convenzioni effimere e mutevoli. Lasciamo ai pedanti la mistica del significato esatto delle parole. Può accadere che un termine particolare indichi un più ampio insieme, senza danno per la comprensione.

Però noi della redazione di State of Mind riteniamo che in questo caso il danno per la comprensione ci sia. Al contrario di quanto accade nella conversazione sociale, nel campo professionale il termine “psicoanalisi” non è diventato il termine comune e neutro da tutti accettato per indicare il nostro mestiere, la pratica psicoterapeutica. Non basta. Gli stessi psicoanalisti ci tengono moltissimo a distinguere la loro pratica non solo dalle psicoterapie non psicoanalitiche, ma anche dalle psicoterapie di derivazione psicoanalitica che non sono psicoanalisi pura. Queste sono chiamate “psicoterapie psicodinamiche”.

Bene sarebbe iniziare ad abituarsi anche nella conversazione sociale e popolare italiana a usare un termine appropriato. “Psicoterapia”, “psicoterapista” e/o “psicoterapeuta” sono le parole giuste. Non così evocative come “psicoanalista”, ma molto più precise e appropriate. Comprendiamo che la pletora di sottotipi di psicoterapie, compresa la psicoanalisi, sono una giungla che probabilmente crea confusione nei non addetti ai lavori. Tuttavia usare in maniera imprecisa e indiscriminata i termini “psicoanalisi”, “psicanalisi”, “psicoanalisti” e “psicanalisti” è confusivo e non aiuta noi professionisti a far capire ai pazienti quale trattamento forniamo e soprattutto non aiuta i pazienti a comprendere cosa possono aspettarsi e cosa cercare per la loro sofferenza.

 

 

Psicoterapia: intervista con Lorenzo Cionini – I Grandi Clinici

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Lorenzo Cionini

Professore Associato di Psicologia Clinica, Università di Firenze

 

State of Mind intervista Lorenzo Cionini: Psicoterapeuta e Professore Associato di Psicologia Clinica presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Firenze. 

Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

TUTTI GLI ARTICOLI SU:  PSICOTERAPIA COGNITIVA

VEDI IL PROFILO DI LORENZO CIONINI

 

Differenze di genere in ambito scientifico: natura vs cultura

Diego Moriggia, OPEN SCHOOL.

 

L’articolo mette a confronto il punto di vista di 2 studiosi, Pinker e Spelke rispetto alle differenze esistenti tra maschi e femmine in particolare rispetto alle abilità scientifiche e si riporta una serie di evidenze scientifiche a supporto dell’idea che siano i fattori biologici o quelli culturali e sociali a determinare tali differenze, ma la risposta risulta ancora controversa. 

Il 22 gennaio 2005, Lawrence Summers – rettore dell’Università di Harvard – si espresse, in maniera piuttosto netta, sul perché posizioni di vertice accademico in ambito scientifico siano occupate maggiormente da uomini; ebbene, Summers dichiarò che non v’è alcuna ragione da attribuire ad eventuali discriminazioni delle carriere e la causa principale, invece, dev’essere cercata nelle differenze genetiche presenti tra maschi e femmine nel ragionamento scientifico. In altre parole, i maschi sono naturalmente più portati delle femmine nell’avere successo in ambito scientifico.

Com’è possibile immaginare, la dichiarazione portò con sé numerose polemiche di carattere discriminatorio; tuttavia, se da un lato le discussioni erano floride sul solo tema della discriminazione di genere, dall’altro regnava silenzio proprio nella comunità scientifica, restia a spendere opinioni al riguardo.
Pertanto, pochi mesi dopo la stessa Università di Harvard organizzò un dibattito di approfondimento, con protagonisti due tra i più autorevoli pensatori della psicologia contemporanea: Steven Pinker, docente alla facoltà di psicologia di Harvard e grande studioso dell’acquisizione del linguaggio nell’uomo, ed Elizabeth Spelke, anch’essa docente ad Harvard ed eminente ricercatrice nell’ambito dello sviluppo cognitivo. I punti di vista dei due studiosi, come avremo modo di vedere, si riveleranno simili in alcuni punti (è opportuno precisare che entrambi appartengono alla corrente idelogica chiamata “innatismo”, la quale sostiene che gli esseri umani nascano già con un corredo di abilità primordiali e predisposizioni specifiche allo sviluppo) e distanti in altri.

Pinker

Possiamo considerare, secondo Pinker, tre posizioni che ci aiuterebbero a spiegare l’esigua rappresentanza femminile nelle posizioni di vertice accademico in materie scientifiche. Secondo l’ottica naturalista, solamente i maschi posseggono talento e temperamento necessario per lavorare in ambito scientifico; in ottica culturalista, maschi e femmine sono biologicamente indistinguibili, le differenze rilevanti sono prodotto dell’ambiente circostante; per concludere, l’ottica intermedia direbbe che la differenza può essere spiegata da discrepanze biologiche che, in ogni caso, interagiscono con il sistema ecologico.

Ma quali sarebbero esattamente queste differenze tra i due generi? Possiamo immaginare anche delle somiglianze? Rispondendo a questa ultima domanda, sicuramente sì: maschi e femmine non mostrano differenze per quanto riguarda l’intelligenza generale (altrimenti chiamata fattore g) e riferendosi alle categorie base della cognizione (rapporto con il mondo circostante, concezione dei numeri, rappresentazioni degli oggetti, delle persone) è ugualmente possibile non osservare alcuna disparità. Osserviamo differenze – invece – in altri ambiti: l’andamento è comunque variabile, avendo occasioni in cui i maschi sono leggermente meglio delle donne (rotazione mentale degli oggetti) e viceversa (memoria visiva); ancora, le femmine sono più abili nel calcolo matematico e gli uomini nel problem solving.

Tuttavia, possiamo elencare alcune differenze che giocano un ruolo chiave nel dato in oggetto:
Uomini e donne differiscono nei cosiddetti obiettivi di vita; in altre parole, è più probabile che i maschi possano inseguire obiettivi lavorativi sacrificando la famiglia, mentre le femmine mostrano un comportamento più equilibrato. Lo studio di Benbow e collaboratori (Benbow et al., 2000), basato su un campione di 1729 giovani (maschi e femmine) con abilità matematiche particolarmente spiccate e seguiti in follow-up per più di vent’anni, dice che, a parità di talento, risultati ottenuti e soddisfazione percepita, le femmine prestano maggior attenzione ad aspetti come vicinanza ai propri genitori e famigliari e qualità di amicizie e legami; i maschi, d’altro canto, son sembrati più orientati verso scopi carrieristici, remunerativi ma anche creativi.

Interessi lavorativi. Lavorativamente parlando, si è più interessati alle persone o alle cose? La grande mole di dati proveniente dagli studi sugli interessi professionali dice che la percentuale di donne interessate ad un lavoro che implichi lungo contatto con cose fisiche è significativamente minore rispetto a quella degli uomini, pur essendo, in assoluto, molto aumentata negli ultimi quarant’anni; la differenza è osservabile persino tra le diverse specializzazioni scientifiche, per ulteriori informazioni si vedano i lavori di Goldin (1990) e Browne (2002).

Assunzione di rischi. Il genere maschile è quello più spericolato. Byrnes, Miller e Schafer (1999) hanno condotto al riguardo una meta analisi su 150 studi e osservando che i maschi sono sovra-rappresentati in quattordici, su sedici totali, categorie che definiscono l’assunzione di rischi (nelle due rimanenti i generi sono equamente rappresentati, una di queste è relativa al fumo).

Trasformazioni mentali di oggetti a tre dimensioni. Una meta analisi condotta su 286 campioni di dati evidenzia consistenti e stabili differenze tra i generi. Come si è già detto, in alcuni compiti di abilità spaziale le donne sono avvantaggiate, mentre i maschi recuperano in altri (rotazione mentale, percezione dello spazio, visualizzazione dello spazio; Voyer, Voyer, & Bryden, 2005). Potremmo chiederci: che attinenza hanno questi risultati con la capacità di raggiungere risultati in ambito scientifico? Studi psicometrici (Geary, 1996) mostrano una correlazione significativa di queste abilità con il problem solving matematico. Inoltre, brillanti abilità di manipolazione mentale degli oggetti sono rintracciabili negli scritti di alcuni dei più prolifici pensatori: Faraday, Maxwell e Tesla hanno sostenuto di esser giunti alle loro scoperte per mezzo di quest’abilità, trascritte solo successivamente in forma di equazione.

Ragionamento matematico: ragazze e donne hanno migliori voti scolastici in matematica, ma anche in altre materie; in più, sono maggiormente abili nel calcolo matematico, mentre i maschi totalizzano punteggi più alti nei compiti di ragionamento matematico. Per meglio chiarire la questione, ci appelliamo ancora ai risultati di una meta analisi, con 254 studi e più di tre milioni di partecipanti (Hyde, Fennema, & Lamon, 1990): le differenze tra genere sono nulle nell’infanzia, aumentano lievemente nella pubertà per poi ampliarsi in adolescenza ed età adulta. [Nota: parte di questi risultati sono ottenuti confrontando i risultati ottenuti al test SAT (Scholastic Assessment Test); l’attendibilità di questi test è tuttavia criticata da alcuni ricercatori, tra cui la stessa Spelke.]

Ora, aver accennato all’esistenza di queste differenze tra generi non implica l’assunzione a priori della loro origine innata; del resto, quantificare il reale contributo di uno o più fattori biologici nello sviluppo di abilità matematiche è decisamente complesso. Pinker, tuttavia, considera l’esistenza di dieci evidenze scientifiche di difformità intergenere, che potrebbero costituire una base (seppur labile) di differenziazione biologica.
Esiste, tra uomini e donne, una grande differenza a livello di ormoni sessuali, specie nel periodo prenatale, nei primi sei mesi di vita ed in adolescenza (per i quali il cervello umano dispone di una moltitudine di specifici recettori, anche nella corteccia); differenze più piccole sono riscontrate, a livello anatomico, nella dimensione globale dell’encefalo, nella densità neuronale della corteccia, nella dimensione dei nuclei ipotalamici e parecchi altri.

Gran parte delle differenze tra genere sono universali; Donald Brown, nel suo Human Universals (1991), sottolinea che in tutte le culture le femmine sono più direttamente coinvolte nella cura della prole, mentre i maschi mostrano maggior inclinazione alla competitività (in varie misure).

Le differenze sono stabili nel tempo: revisioni della letteratura su temi come personalità ed interessi di vita hanno evidenziato piccoli o nulli cambiamenti nelle due generazioni che hanno raggiunto la maggiore età durante la seconda ondata femminista (Feingold, 1994; Browne, 2002). In compiti di rotazione mentale degli oggetti, Voyer (2011), nella sua meta-analisi, non riscontra nessun cambiamento nel tempo; mentre Hyde, Fennema & Lamon (1990) rilevano, nel ragionamento matematico (e nel corso del tempo), minor differenza tra maschi e femmine.
Alcune delle differenze sopracitate (tendenza alla cura della prole nelle femmine e tendenza all’aggressività nei maschi) sono riscontrabili in altre specie di mammiferi; all’interno dell’ordine dei primati, alcune specie prediligono interazioni con oggetti anziché con conspecifici.

Alcune delle diversità emergono entro la prima settimana di vita: le femmine reagiscono con maggior distress agli stimoli acustici e sono capaci di mantenere contatto visivo più a lungo dei maschi (Baron-Cohen et al., 2004). Più avanti nello sviluppo, alcune differenze divengono vieppiù robuste; si parla dei già citati stili di gioco e d’interazione con gli oggetti, ma anche della capacità di considerare la mente altrui (le femmine sembrano più abili nella soluzione del “false belief task”, ma anche più inclini a comprendere gli stati mentali di personaggi inventati; Baron-Cohen, 2003).

 

Bambini cresciuti come bambine: il caso “John/Joan” (Colapinto, 2000).

Negli anni ’70, un bambino (membro di una coppia di gemmelli omozigoti) perse il proprio pene in seguito ad un approssimativo intervento di circoncisione; i genitori, forti del parere di un luminare dell’epoca, decisero di castrarlo e che gli venissero somministrati specifici ormoni sessuali femminili, perché potesse essere cresciuto come una bambina. Questo caso è stato a lungo citato per rafforzare la teoria che vede i ruoli di genere come socialmente acquisiti. In realtà, il ragazzo (ormai cresciuto) venne intervistato anni dopo e si scoprì che nella sua infanzia, comunque, esibiva stili di gioco propri del genere maschile, rigettando attività “femminili” e mostrando molto più interesse negli oggetti piuttosto che nelle cose.
Gli insegnanti, a lungo imputati di promuovere differenze di considerazione e riconoscimento tra maschi e femmine, in realtà hanno un’idea equilibrata della loro performance scolastica (Lytton & Romney, 1991); anzi, pare che la percezione sui propri studenti derivi proprio dalla loro (degli studenti) motivazione allo studio e dalle loro prestazioni (Jussim & Eccles, 1995).

Il ruolo degli ormoni prenatali: vi sono evidenze, invero un po’ deboli in alcune parti, relative al fatto che differenze quantitative di ormoni sessuali prenatali determinano, nel corso dello sviluppo, significative discrepanze intragenere. Si pensi, ad esempio, alle femmine affette da iperplasia surrenale congenita: viene loro somministrato un trattamento a base di androgeni quando ancora sono nell’utero e, anni più avanti, le medesime bambine esibiscono un comportamento più orientato alla sfera maschile rispetto a quella femminile (Berenbaum, 1999; Collaer & Hines, 1995).

Il ruolo degli ormoni sessuali: nonostante la letteratura sia piuttosto confusa, è stato possibile osservare che, nei maschi, livelli di testosterone medio-bassi sono predittivi di maggiori abilità spaziali, come la rotazione mentale di oggetti (Kimura, 2000; Hines, 2004).

L’imprinting genetico e il ruolo del cromosoma X. Nello specifico quadro clinico chiamato Sindrome di Turner, la bambina (la sindrome ha incidenza sulla sola popolazione femminile) possiede un solo cromosoma X che può essere trasmesso sia dalla madre che dal padre; in accordo con la teoria dell’imprinting genetico (Haig, 2011), quando ella eredita un cromosoma X dalla madre, avrà mediamente un lessico più ampio, migliori abilità sociali e migliore capacità di leggere emozioni.

In definitiva, Steven Pinker vuole, quindi, portarci a considerare l’effetto incrociato della componente biologica e dell’ambiente sullo sviluppo di un individuo, avendo però cura di sottolineare che, alla base, esistono delle diversità intergenere ben specifiche, che tuttavia non indirizzano in alcun modo lo sviluppo in una direzione piuttosto che in un’altra; concetto che, trasposto all’oggetto del contendere (sottorappresentaione femminile nel mondo scientifico) vuol significare medesima possibilità di sviluppare abilità specifiche pur partendo da un biologismo leggermente diverso in alcuni casi e parecchio diverso in altri.

 

Spelke

L’argomentazione di Spelke muove dal presupposto per cui la forza che genera questa discrepanza è da attribuirsi principalmente a questioni sociali, preoccupandosi prima, però, di discutere due affermazioni coinvolte nella credenza che tratteggia gli uomini come naturalmente predisposti alle materie scientifiche.

“I maschi, a partire dalla nascita, sono maggiormente interessati agli oggetti, le femmine alle persone: ciò spinge i maschi verso la scienza e le femmine verso obiettivi sociali.”
Questo punto di vista, precedentemente menzionato da Pinker, sta guadagnando credito dopo il lavoro pubblicato da Simon Baron-Cohen (2004) e con titolo “The essential difference: the truth about the male and female brain”: all’interno, l’autore distingue due abilità specifiche per maschi e femmine. I maschi, parrebbero presentare innate predisposizioni per apprendere il funzionamento degli oggetti e coglierne l’aspetto meccanico; questo li porterà ad essere quelli che lui chiama “sistematizzatori”.
Dall’altra parte, le femmine sembrerebbero innatamente avvantaggiate ad apprendere emozioni umane e ciò le porterà ad essere “empatizzatrici”. Poiché la sistematizzazione è al centro del pensiero matematico e scientifico, i maschi saranno più propensi a sviluppare abilità scientifiche e matematiche.

Spelke, tuttavia, non concede grande rilievo a questo articolo (“è una vecchia idea, solo proposta in un nuovo linguaggio”), procedendo invece a chiarire quanto gli studi sulle differenze di genere hanno esplicitato nel corso degli ultimi decenni; a partire dal fondamentale lavoro di Maccoby e Jacklin (“The psychology of sex difference”, 1974) fino ai giorni nostri, essi hanno evidenziato peculiari proprietà cognitive nei bambini, relative al riconoscimento di caratteristiche di oggetti. Si scopre così che i bambini percepiscono gli oggetti fin dalla nascita, dove ne finisce uno e ne inizia un altro; a 5 mesi sono in grado di creare rappresentazioni interne dell’oggetto anche dopo la sua scomparsa, confutando i dati ottenuti da Piaget sulla costanza dell’oggetto; sono capaci di produrre inferenze sul movimento degli oggetti e sulle loro interazioni meccaniche. In nessuno di questi ambiti, i ricercatori hanno rilevato significative differenze di genere: maschi e femmine sono ugualmente interessate agli oggetti, producono le medesime inferenze sul loro movimento e nelle stesse fasi dello sviluppo (Baillargeon, 2004; Spelke, 1990). In altre parole, maschi e femmine apprendono le stesse cose allo stesso tempo; inoltre, le conclusioni di Maccoby e Jacklin sono tutt’ora attuali e veritiere.

“I maschi sono naturalmente portati per matematica e scienze”
Le ricerche convergenti di varie aree quali neuroscienze, neuropsicologia e psicologia dello sviluppo cognitivo hanno evidenziato 5 domini chiave che stanno alla base del ragionamento matematico:

Gli umani sviluppano, a partire dai 5 mesi di vita, un sistema che rappresenta piccole quantità: in altre parole, la differenza tra uno, due e tre.
Sempre in prima infazia (4/5 mesi), si acquisisce la capacità di cogliere la differenza di numerosità tra grandi gruppi di oggetti.
Tra i due anni e mezzo di vita e i quattro, i bambini apprendono una capacità cruciale (e, probabilmente, unica in tutto il regno animale): associare la numerosità alla forma verbale.
Non appena i bambini acquistano autonomia di spostamento, osserviamo la nascita di sistemi di supporto all’orientamento: riescono a rappresentarsi la conformazione dell’ambiente circostante, nonché la possibilità di distinguere i confini degli oggetti.

Tutti i sistemi soprastanti sono stati studiati largamente in ampie quantità di maschi e femmine e, ancora, in nessuno di questi è stata notata alcuna differenza di genere.
Aiutiamoci con i dati provenienti da due studi. Nel primo (Condry & Spelke, 2008), i ricercatori ci mostrano che, a fronte di una grande variabilità nella capacità di concettualizzare i numeri naturali entro i due ed i quattro anni di vita, non vi appartiene alcuna superiorità dimostrabile dei maschi, nei confronti delle femmine.

Nel secondo (Lee, Shustermann & Spelke, 2006), una sorta di corrispettivo prescolare del compito di rotazione mentale, si testava nei giovani partecipanti la capacità di ri-orientamento in seguito ad un apposito disorientamento. Anche qui, nessuna differenza di genere. Questi risultati ci portano a concludere che gli umani sono innatamente dotati di specifici sistemi che governano il ragionamento matematico e, in particolare, che questi sistemi si sviluppano equamente in maschi e femmine. Le differenze emergono più avanti nello sviluppo; ma di che tipo di differenze si parla? Le differenze, per quanto di eziologia sconosciuta, sono state rilevate in ambito verbale (maschi più forti nelle analogie verbali, femmine nella fluenza), matematico (femmine più portate nel calcolo, maschi nel ragionamento) e spaziale (femmine più dotate nel riconoscimento degli oggetti nello spazio, maschi più abili nella rotazione mentale. Potremmo chiederci, a questo punto: le peculiarità cognitive dei maschi garantiscono un migliore apprendimento matematico? Non precisamente. Gallagher e Kaufman (2005) scrivono che nell’arco dell’high school (l’equivalente delle nostre scuole superiori) le femmine scelgono quasi la metà dei corsi di matematica, ottenendo migliori voti. Nel percorso universitario, il 47% di lauree triennali in matematica vengono assegnati a femmine, ottenendo voti equiparabili a quelli dei maschi. Citando Halpern (2000): “Maschi e femmine hanno pari talento in matematica; le differenti strategie cognitive di un genere rispetto all’altro non conducono ad alcuna sostanziale differenza.”

Spelke, avendo fornito argomentazioni sufficienti a mettere in dubbio la nostra convinzione relativa ad una differente predisposizione biologica, si sofferma sui fattori sociali implicati, secondo lei ben più incisivi nell’ aver creato il supposto divario prestazionale.
Uno di questi fattori è attinente al modo in cui i genitori percepiscono i loro figli; emerge da alcuni studi (Rubin et al., 1974; Karraker et al., 1995) che i genitori di maschi “vedono” i propri figli come più forti e vigorosi rispetto ai genitori di femmine (a parità di salute globale, controllata dai ricercatori servendosi dei referti medici). Un altro studio di Mondschein (2000), condotto su bambini di 12 mesi e relativi genitori, rivela che i genitori di maschi mostravano più sicurezza dei genitori di femmine nel prevedere il successo del proprio figlio/a in un test di locomozione (anche in questo caso la letteratura conferma che a 12 mesi le capacità locomotorie sono affatto equiparabili). Salendo con l’età, studi diretti a genitori di ragazzi di 11-12 anni di vita confermano aspettative parentali più rosee verso i maschi, i quali sono idealizzati dai propri genitori come più naturalmente portati per matematica e scienze (Eccles et al., 1990; Tenebaum & Leaper, 2003).
A questo punto, abbiamo una chiara disarmonia tra quanto percepiscono i genitori dei propri figli e ciò che le ricerche testimoniano. Sarebbe lecito chiedersi: i genitori riescono a cogliere qualche aspetto che le tecniche di rilevazione sperimentale, invece, tralasciano? Per fugare questo dubbio, Spelke porta a sostegno della sua tesi uno studio (Condry & Condry, 1978) su credenze relative ai bambini e percezione degli stessi: in questo caso, si mostrava ad un gruppo di genitori un bambino sconosciuto, avente età e tratti somatici tali per cui non era possibile determinarne il genere a prima vista. A metà campione genitoriale era stato fatto credere che l’infante era un maschio (“David”), all’altra metà che era una femmina (“Jessica”). I risultati ci dicono che in caso di comportamenti non ambigui del bambino, la credenza di genere non influenzava le risposte mentre, in casi di comportamenti ambigui (es. pianto in seguito ad uno spavento) il genere aveva un effetto sulla percezione del bambino; i genitori che osservavano “Jessica” la definivano spaventata, quelli che osservavano “David” lo consideravano arrabbiato. Ciò che Spelke ritiene pregnante nel commentare questi risultati è che, nonostante un genitore possa avere le migliori intenzioni nel trattare maschi e femmine allo stesso modo, sicuramente lo stesso genitore non tratterà allo stesso modo un bambino arrabbiato e un bambino spaventato: tutto ciò porta, inevitabilmente, a far sì che maschi e femmine attiveranno diverse reazioni dal mondo circostante, diversi schemi di sostegno e incoraggiamento.
Per concludere, Spelke cita un ulteriore studio sull’etichettamento di genere (Steinpreis et al., 1999), questa volta condotto su adulti e con destinatari un campione di docenti di psicologia. A metà di questi veniva fatto pervenire un curriculum vitae di un candidato ideale, perfetto, brillante e di genere maschile; all’altra metà, stesse caratteristiche ma genere femminile. Quindi veniva fatto pervenire anche un CV di livello medio, di un candidato non improduttivo ma nemmeno eccellente; anche qui, per metà campione il genere era maschile e per l’altra metà, femminile. I risultati ci comunicano che nel caso del CV brillante non abbiamo alcun effetto di genere, ovvero un curriculum brillante è giudicato tale sia che rechi il nome di un maschio o di una femmina; nel secondo caso, invece, il candidato maschio – si noti, a parità di pubblicazioni, lezioni, corsi – è sempre considerato in maniera positiva e il candidato femmina in maniera meno positiva. Aspetto piuttosto importante dei risultati, è che i giudizi sono più o meno identici per professori maschi e professori femmine: la diversità di percezione è pari sia in maschi che in femmine, persino in persone assolutamente rispettose dell’equità tra generi.

Come è stato possibile leggere, i punti di vista dei due luminari sono – in alcune parti – piuttosto discordanti, nonostante le tesi dell’uno e dell’altro siano avvalorate da corpose evidenze scientifiche. La vena fortemente evolutiva che caratterizza questo confronto, tuttavia, lascia un “finale” indefinito, e che esprime la grande indecisione del mondo scientifico (non esclusivamente psicologico) rispetto ad uno dei temi più controversi e dibattuti: il contributo di natura e cultura allo sviluppo umano.

 

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I comportamenti antisociali: questione di genetica o ambiente?

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La conclusione a cui sono giunti i ricercatori è che le varianti genetiche interagiscono tra loro e con fattori ambientali negativi per aumentare il rischio di delinquenza, mentre la presenza di fattori ambientali positivi diminuisce questo rischio confermando che i fattori genetici influenzano il nostro cervello e il nostro comportamento alterando la sensibilità all’ambiente.

Tutte e due, genetica e ambiente sono legati da un doppio filo, in una relazione di reciproca influenza. Infatti, la predisposizione genetica rende più o meno sensibili all’ambiente circostante e allo stesso tempo le esperienze, positive o negative, influenzano il modo in cui la genetica influisce sul cervello e, di conseguenza, sul comportamento.

Una chiara evidenza di questa doppia influenza è data da uno studio dell’università di Montréal in cui si è indagato il legame tra comportamenti antisociali nei giovani e l’interazione tra varianti genetiche e esperienze di vita.
A questo scopo 1337 studenti di Västmanland, Svezia, di età compresa tra i 17 e i 18 anni hanno fornito un campione di saliva per estrarre il DNA e compilato un questionario anonimo su delinquenza, conflitti familiari, esperienze di abusi sessuali e la qualità della loro relazione con i rispettivi genitori.

Grazie ai dati raccolti sono stati individuati tre geni come maggiormente coinvolti nei comportamenti antisociali: MAOA (Monoamine oxidase A), BDNF (brain-derived neurotrophic factor) e 5-HTTLPR (trasportatore di serotonina). Inoltre, è stato notato che gli individui che presentavano una variante “meno attiva” erano anche più propensi ad assumere un comportamento più aggressivo.
Queste varianti genetiche oltre ad avere effetti singolarmente hanno mostrato anche una interazione tra loro, ma non solo: in presenza di conflitti familiari e abusi sessuali aumentava la probabilità di sviluppare livelli di delinquenza maggiori.
Tuttavia, quando le stesse varianti genetiche erano associate a esperienze di vita positive il rischio diminuiva significativamente.

La conclusione a cui sono giunti i ricercatori è quindi che le varianti genetiche interagiscono tra loro e con fattori ambientali negativi per aumentare il rischio di delinquenza, mentre la presenza di fattori ambientali positivi diminuisce questo rischio confermando che i fattori genetici influenzano il nostro cervello e il nostro comportamento alterando la sensibilità all’ambiente.

 

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Alessitimia – Definizione Psicopedia

Elisabetta Virginia Marinucci

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Il termine Alessitimia è stato introdotto  agli inizi degli anni settanta da John Nemian e Peter Sifneos (1976) per definire un insieme di caratteristiche di personalità riscontrabili nei pazienti psicosomatici. Deriva dal greco “Alexis thymos” e letteralmente  significa non avere parole per le emozioni.

Nello specifico Peter Sifneos coniò questo termine per indicare un disturbo delle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo dei pazienti psicosomatici.

L’alessitimia si manifesta attraverso una serie di difficoltà rispetto a:

identificare, descrivere e interpretare i propri e gli altrui sentimenti;

distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche;

individuare quali siano le cause che determinano le proprie emozioni;

utilizzare il linguaggio come strumento per esprimere i sentimenti, con conseguente tendenza a sostituire la parola con l’azione fisica.

Taylor, Bagby e Parker (2000) a tal proposito, hanno considerato l’alessitimia un disturbo dell’elaborazione degli affetti che interferisce con i processi di auto-regolazione e riorganizzazione delle emozioni. Questo potrebbe spiegare la tendenza dei soggetti alessitimici ad assumere alcuni comportamenti compulsivi quali: l’abbuffarsi di cibo, l’abuso di sostanze o il vivere in modo perverso la sessualità per liberarsi dalle tensioni causate da stati emotivi non elaborati.

Solo apparentemente ben inseriti nella società, i soggetti alessitimici assumono una postura rigida, presentano processi immaginativi coartati e tendono ad avere esplosioni di collera o di pianto incontrollato e, se interrogati sui motivi di queste manifestazioni, sono incapaci di dare spiegazioni. Questo perché i  soggetti alessitimici, pur mostrando una normale attivazione fisiologica in presenza di emozioni, hanno ridotte capacità di riorganizzare gli elementi che caratterizzano la loro esperienza corporea in una rappresentazione mentale intrapsichica (Parker J.D.A., Taylor G.J., Bagby R.M. 1993; Kristal H. 2007).

Per molto tempo i tratti alessitimici, poiché altamente riscontrati nei pazienti psicosomatici, sono stati considerati fattori predittivi per lo sviluppo delle malattie psicosomatiche in senso stretto.  Attualmente, invece, studi e ricerche dimostrano che  l’alessitimia è uno dei fattori di rischio per diversi disturbi sia fisici quali coronaropatie, ipertensione, disturbi gastrointestinali (Porcelli P., Bagby R.M., Taylor G.J., De Carne M., Leandro G., Todarello O. 2003) che psicologici: anoressia e bulimia nervosa, depressione, disturbi d’ansia. Caratteristiche alessitimiche sono state individuate anche in pazienti con: dipendenza da sostanze, disturbo post-traumatico da stress, depressione (Honkalampi K, Hintikka J, Laukkanen E, Lehtonen J, Viinamaki H. 2001). Infine l’alessitimia è stata evidenziata nei pazienti cha hanno subito un trapianto, che sono in dialisi o  in terapia intensiva (Porcelli P. 2009).

Diverse teorie neurofisiologiche (Nemiah J.C., Freyberger H., Sifneos P.E. 1976; ·    MacLean PD (1952) Some psychiatric implications of physiological studies onMacLean Paul D. 1952) sono state proposte negli anni per spiegare l’eziologia dell’alessitimia. Gli studi hanno ampiamente dimostrato che  l’emisfero destro è coinvolto maggiormente nell’elaborazione del comportamento emotivo, mentre l’emisfero sinistro è implicato nell’articolazione del linguaggio. Questo fa ipotizzare che l’interruzione della comunicazione interemisferica tramite corpo calloso e un cattivo funzionamento dell’emisfero cerebrale destro possano essere due  possibili cause dello sviluppo dell’alessitimia.

Alcuni studi neurologici (Dizionario di Medicina Treccani, 2010) inoltre, confermano la distinzione tra: Alessitimia di tipo I caratterizzata dall’assenza stessa di esperienza emotiva, e Alessitimia di tipo II che, invece, conserva l’integrità dell’esperienza emotiva da un lato, ma evidenzia un deficit specifico rispetto all’espressione e alla valutazione cognitiva delle emozioni  (Parker JDA, Taylor GJ, Bagby RM. 1993). Questo deficit può essere conseguenza di eventi traumatici o di uno sviluppo inadeguato delle funzioni di mentalizzazione (Kristal H. 2007).

Tutto ciò porta i soggetti alessitimici ad assumere un pensiero operatorio e ad avere una ridotta o inesistente capacità onirica (Marty P., De M’uzan M., David C. 1971).

Paul Mac Lean (1967, 1984) sostiene che quando le emozioni vengono vissute  per via somatica, si incanalano direttamente negli organi attraverso le vie neuroendocrine e autonome. Questo fa sì che i soggetti con tratti di personalità elessitimici abbiano un deficit nel  verbalizzare e interpretare gli stati emotivi che vengono confusi con le sensazioni corporee.

Tra le varie definizioni possibili,  l’alessitimia può essere considerata  un deficit della funzione riflessiva del Sé per la mancanza di consapevolezza emotiva che la caratterizza (Kout H. 1982, 2003). I soggetti che ne soffrono tendono al conformismo sociale e generalmente stabiliscono relazioni di forte dipendenza o, viceversa, preferiscono l’isolamento (Harris J.C. 2003,  Lambert KG, Gerlai R (2003) The neurobiological relevance of social behavior:Lambert K.G., Gerlai R .2003). Questo riconduce a ciò che Winnicott (Winnicott D.V. 1974) definisce stile di attaccamento insicuro- evitante con una immagine materna non interiorizzata.

Da quanto finora detto emerge che l’alessitimia delinea un fenomeno molto articolato, risultato della compresenza di fattori genetici, neurofisiologici , intrapsichici, nonché di modelli di comunicazione  familiare e fattori socioculturali.

Possiamo rintracciare una importante chiave di lettura dell’alessitimia anche  dagli studi condotti da Titchener negli anni venti (Legrenzi P. 1997). Questi infatti non solo osserva che  sin dai primi giorni di vita i neonati  sono turbati dal pianto di un altro bambino, ma rileva che già ad un anno di età i bambini sono capaci di mimetismo motorio per imitare, e verosimilmente comprendere,  la sofferenza degli altri. Tali evidenze porteranno Titchener a considerare il mimetismo motorio il precursore dell’empatia. Questo porta a ritenere che le capacità empatiche si  strutturino nell’individuo già a partire dall’infanzia.

Winnicott, d’altro canto, pone l’accento sulla madre empaticamente sintonizzata come base da cui il bambino può costruire il suo sviluppo emotivo. Al contrario, quando un genitore non riesce sistematicamente a sintonizzarsi con alcune specifiche emozioni del bambino, questi  evita di esprimerle con un costo notevole in termini emozionali (Winnicott D.W. 2000).

Sappiamo infatti che quanto più una persona è consapevole delle proprie emozioni, tanto più riuscirà ad essere empatico. Il retaggio culturale che spinge ad insegnare più favorevolmente  agli uomini capacità pratiche piuttosto che affettive, sembra spiegare il loro maggior numero tra i soggetti alessitimici rispetto alle donne (Pasini A. Delle Chiaie R. Seripa S. Ciani N. 1992; Mattila A. K. , Keefer  K.V. , Taylor J.G.e al, 2010) 2010 | 49 | 3 | 216-221.

Goleman (Goleman D. 1997) sostiene quanto detto individuando proprio nell’empatia e nell’autocontrollo le due fondamentali competenze sociali che consentono di costruire una vita relazionale ricca ed emotivamente soddisfacente alla base del benessere psico-fisico della persona.

Ad oggi il test più diffuso per la diagnosi di alessitima è la TAS-20 (Toronto Alexithymia Scale) del 1985. Questa scala psicometrica di autovalutazione, si compone di 20 items che servono a rintracciare le presenza delle tre caratteristiche principali del distrurbo:

la difficoltà nell’identificare i sentimenti;

la difficoltà nel descrivere i sentimenti altrui;

il pensiero orientato quasi solo all’esterno, e raramente verso i propri processi endopsichisi.

Il Tematic Apperception Test (TAT) di Murray nel 1935 e gli studi di Reusch tra il 1948 e il 1957  evidenziano che i pazienti alessitimici hanno fantasie primitive e stereotipate e confermando la difficoltà dei paziente ad accedere al proprio mondo pulsionale inconscio.

Il  SAT9 (Objective Scored Archetypale Test) è un’altra tecnica proiettiva di disegno che valuta la caratteristica centrale dell’alessitimia: la funzione simbolica e la capacità del soggetto di creare fantasie.

Come già detto l’alessitimia è significativamente correlata a diverse condizioni patologiche di natura psicosomatica e psicologica ma, per una corretta diagnosi differenziale, và distinta dai sintomi negativi della schizofrenia (ottundimento affettivo, alogia, depressione, anedonia..), e considerata un tratto stabile di personalità.

Studi e osservazioni hanno dimostrato infatti che dopo un anno di trattamento psicofarmacologico appropriato, i pazienti schizofrenici vedono migliorate le sindromi schizofreniche e depressive così come il funzionamento psicosociale, mentre le caratteristiche principali dell’alessitimia restano stabili (Blanchard J.J., Mueser K.T, Bellack A.S. 1998). Questo dimostra che l’alessitimia non è in relazione  ai disturbi dell’Asse I ma è legata alle caratteristiche dell’Asse II ed è quindi una dimensione della personalità indipendente dalle categorie psichiatriche.

Una ipotesi è che la schizofrenia e l’alessitimia possano avere gli stessi meccanismi neurobiologici (Stanghellini G, Ricca V. 1995). Studi recenti ostengono la possibilità che una disfunzione della corteccia cingolata anteriore possa essere il meccanismo neurobiologico comune ai deficit cognitivi responsabili sia di alcuni sintomi della schizofrenia che della manifestazione comportamentale dell’alessitimia (Sanders G.S., Gallup G.G., Heinsen H., Hof P.R., Schmitz C. 2002).

Da un punto di vista terapeutico, si evidenzia la necessità di ristrutturare la sfera cognitivo-affettiva della personalità. Le esperienze cliniche finora raccolte sottolineano l’importanza di un trattamento che integri l’approccio farmacologico con quello psicoterapeutico con l’intento di intervenire sinergicamente sia sulla struttura neurobiologica che sui fattori di matrice psicosociale (Bateson G. 1972, Marty P., De M’uzan M., David C. 1971; Caretti V., La Barbera D. 2005).

 

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

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BIBLIOGRAFIA:

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  • Taylor G.J., Parker J.D.A  Bagby R.M., (1997). Disturbi della regolazione affettiva. L’alessitimia nelle malattie mediche e psichiatriche. Giovanni Fioriti Editore, Roma 2000.
  • Winnicott, D.W. (1951). Gioco e realtà. Armando Ed. Roma, 1974.
  • Winnicott, D.W. (2000). Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo. Armando Editore

Fibromialgia – Definizione, sintomi, cura

La fibromialgia (o sindrome fibromialgica) è una malattia cronica complessa definita dall’American College of Rheumatology come “una condizione di dolore cronico diffuso con caratteristici “tender points” (punti dolenti alla pressione) all’esame fisico, spesso associata con una varietà di sintomi o disfunzioni quali la fatica, i disturbi del sonno, la cefalea, la sindrome del colon irritabile e i disturbi dell’umore”.

 

Che cos’è la fibromialgia

La fibromialgia è stata ed è ancora una delle diagnosi più controverse in medicina. L’angolo di visuale del reumatologo  non sempre concorda con quello dello psicologo, dello psichiatra o del neurologo.

Il gruppo italiano di studio sulla fibromialgia ha recentemente definito questa malattia:

[blockquote style=”1″]“una sindrome da sensibilizzazione centrale, caratterizzata da disfunzione dei neurocircuiti, che coinvolgono la percezione, la trasmissione e la processazione degli stimoli nocicettivi afferenti, con la prevalente manifestazione di dolore a livello dell’apparato locomotore”.[/blockquote]

Nel 1996 Turk e collaboratori avevano dimostrato l’esistenza di “subset” di pazienti differenziabili in base a caratteristiche cognitive, psicosociali e che rispondevano in modo diverso al trattamento farmacologico. Nel 2003, Giesecke e collaboratori, basandosi sulle caratteristiche del dolore (intensità, capacità di controllo del dolore e soglia nocicettiva) e sugli aspetti interpretativi ed emozionali della percezione nocicettiva (ansia, depressione e catastrofismo) hanno identificato tre tipologie di pazienti (1):

•    il primo gruppo (51,5%) è caratterizzato da valori medi per tutti i parametri misurati; comprende la maggior parte dei pazienti che si rivolgono al medico di medicina generale a causa del dolore diffuso e che, solitamente, rispondono maggiormente al trattamento;

•    il secondo gruppo (32%) è caratterizzato da alti livelli di ansia, depressione e catastrofismo, da scarsa capacità di autocontrollo del dolore e da elevata dolorabilità alla digitopressione;

•    il terzo gruppo (16,5%) è invece caratterizzato da pazienti con bassi livelli di ansia, depressione e catastrofismo ma con soglia nocicettiva particolarmente bassa.

 

Diagnosi di fibromialgia

I criteri per la diagnosi della fibromialgia sono stati definiti dall’American College of Rheumatology nel 1990. Nel 1992 la fibromialgia è stata riconosciuta come malattia nosograficamente autonoma dalla Organizzazione Mondiale della Sanità ed è stata classificata con il codice M79.03 nella classificazione internazionale delle malattie (ICD-10). Infine, nel 1994 l’International Association of the Study of Pain (IASP) ha riconosciuto la fibromialgia come una malattia, classificandola con il codice X33.X8a. Ma quali sono i sintomi caratteristici di questa malattia così emblematica? Eccone un elenco.

 

Sintomi della fibromialgia

Dolore

Il dolore cronico diffuso, riferito a “tutto il corpo”, presente da almeno 3 mesi, è indubbiamente il sintomo più caratteristico della fibromialgia, rilevandosi nella quasi totalità dei pazienti. Il dolore che affligge i pazienti affetti da fibromialgia, è un dolore diffuso che non presenta una particolare distribuzione anatomica. L’elenco dei segni e dei sintomi è estremamente ampio e variegato. La semantica del dolore è alquanto variegata. Espressioni quali: “mi fa male tutto” o , “riesco prima a dire che cosa non mi fa male” sono del tutto caratteristiche dei pazienti fibromialgici. Il dolore viene abitualmente definito come “pungente”, “urente”, “lancinante”, “penetrante”. La sintomatologia dolorosa viene caratteristicamente accentuata dal freddo, dall’umidità, ma anche da eventi stressanti, periodi di inattività o dal sovraccarico funzionale. I malati tendono a definire il dolore “di tipo muscolare”.

 

Astenia

Un quadro di astenia talora intenso ed uno stato generale di affaticamento (che gli anglosassoni ben definiscono con il termine: la “fatigue”) sono presenti nel 75-90% dei casi (2,3). “Mi sento sempre stanco” è una tipica descrizione della “fatigue” da parte del malato, che riferisce inoltre spossatezza, stanchezza, mancanza di energie. L’astenia è nettamente più accentuata al risveglio, tanto che i pazienti spesso utilizzano la stessa frase per descrivere questa sensazione: “mi sento più stanca la mattina rispetto alla sera”. Tra i fattori correlati all’astenia ed al senso di affaticamento figurano: qualità e quantità del sonno inadeguate (sonno non ristoratore), un decondizionamento muscolare causato dall’inattività ed uno stato ansioso-depressivo (astenia “motivazionale).

 

Disturbi del sonno

Tipico della fibromialgia è un sonno non ristoratore, riferito dal 75% dei pazienti e si manifesta sotto forma di: insonnia iniziale, insonnia centrale (risvegli frequenti durante la notte con difficoltà a riaddormentarsi), insonnia finale, ipersonnia, sonno leggero, irregolare riposo diurno, inversione del ritmo sonno-veglia (4). Studi di polisonnografia hanno mostrato che i soggetti con fibromialgia, rispetto ad un gruppo sano di controllo, presentano una ridotta quota di sonno ad onde lente, di sonno REM, di sonno totale, così come un maggior numero di risvegli prolungati ed un pattern elettroencefalografico di intrusione di onde alfa (onde associate alla reazione di risveglio) sul ritmo delta (onde lente che caratterizzano il sonno profondo)(5). Le alterazioni del sonno appena riferite, creano un circolo vizioso, in quanto accentuano il dolore e influiscono sull’umore, che a loro volta contribuiscono a disturbare il sonno (6). I pazienti con sonno maggiormente alterato presentano una maggiore percezione del dolore ed un più elevato numero di tender point (5,7).

 

Parestesie

Una sensazione di formicolio, di intorpidimento, di spilli o aghi che pungono si rileva nell’ 84% dei pazienti (8). L’esame obiettivo neurologico e l’elettromiografia risultano il più delle volte nella norma.

 

Sensazione di gonfiore nelle zone dolenti

Una sensazione soggettiva di gonfiore si osserva in circa la metà dei pazienti (9). Questa sensazione è spesso associata a crampi muscolari, fascicolazioni e tremori palpebrali.

 

Disturbi neurocognitivi

Sintomi neurocognitivi della fibromialgia comprendono difficoltà e calo della concentrazione, disturbi della consolidazione della memoria a breve termine (“mi dimentico tutto”), rallentamento nei gesti, riduzione della performance linguistiche, inabilità a compiere più azioni contemporaneamente, facile distrazione e sovraccarico cognitivo sono particolarmente frequenti in corso di fibromialgia. I pazienti lamentano inoltre “nebbia cognitiva” (definita come “fibro-frog”), confusione mentale, dislessia, difficoltà nello scrivere, nel parlare, nel leggere, nel compiere azioni matematiche e nel reperire vacaboli (10). È stato dimostrato che i pazienti con fibromialgia presentano funzioni cognitive (in termini di memoria a lungo termine e “working memory”) inferiori rispetto a soggetti più anziani di 20 anni (11,12) e simili a quelle di adulti di venti anni più anziani. I pazienti possono avere performance simili ai soggetti sani di controllo ma solo con attivazione neuronale estensiva delle regioni frontali e parietali dell’encefalo (13).
Studi recenti mostrano come nei pazienti affetti da fibromialgia vi sia una significativa perdita di materia grigia (3,3 volte maggiore rispetto a soggetti sani della stessa età), con una correlazione tra durata di malattia e perdita di sostanza grigia (14).

 

Acufeni

Senso di ronzio e di rumore all’orecchio rientrano tra i sintomi frequenti nei pazienti con fibromialgia.

 

Dolore temporo-mandibolare

La Sindrome algico-disfunzionale delle articolazioni temporo-mandibolari è di non raro riscontro. Il dolore si accentua con i movimenti di apertura e chiusura della bocca.

 

Sindrome delle gambe senza riposo

Una tipica “restless leg syndrome” è presente nel 30% dei pazienti, e si manifesta con la caratteristica sintomatologia notturna (gambe che si muovono di continuo).

 

Colon irritabile

Sindrome del colon irritabile è presente nel 32-70% dei pazienti e si manifesta con dolore addominale, sensazione di gonfiore e turbe dell’alvo (diarrea alternata a stipsi).

 

Disturbi dell’apparato genito urinario

Dolori pelvici, spasmi vescicali con minzioni frequenti, tensione ai genitali, dismenorrea sono molto frequenti nelle pazienti con fibromialgia.

 

Disfunzioni sessuali

La fibromialgia risulta associata con alcune disfunzioni sessuali femminili. Tra queste figurano soprattutto la diminuzione della eccitazione sessuale, una negativa esperienza orgasmica ed un aumento del dolore correlato al coito (15,16,17,18). Sul ruolo della componete psicologica nella genesi di tali disturbi non si registrano orientamenti univoci. Anche se i dati epidemiologici non possono ritenersi esaurienti, si ritiene che circa 1/5 delle donne affette da fibromialgia presenti disturbi da dolore vulvare (19,20). La comparsa di dolore durante il rapporto coitale è più comune nelle pazienti fibromialgiche (50%) rispetto alle donne sane (16,7%) (Aydin et al). Secondo altri autori (Shower et al) il dolore nel corso di un rapporto sessuale sarebbe più frequente nelle pazienti con fibromialgia dal momento che in questa malattia la tolleranza e la soglia di percezione del dolore sono nettamente ridotte rispetto ai soggetti sani (21).

 

Disturbi della sfera affettiva

Il 50-60% dei pazienti con fibromialgia presenta almeno un episodio di depressione maggiore nel corso della vita. Degno di nota è il fatto che i parenti di primo grado dei pazienti con fibromialgia presentino una prevalenza elevata di disturbi dell’umore rispetto ai pazienti con artrite reumatoide ed ai soggetti di controllo (22). I soggetti affetti da fibromialgia riportano esperienze traumatiche infantili, come abusi, rifiuti e maltrattamenti fisici, più frequentemente rispetto ai soggetti di controllo (23).   

 

Altri sintomi della fibromialgia

Altre manifestazioni: nell’infinita lista dei sintomi della fibromialgia figurano inoltre: disturbi vasomotori periferici, intolleranza alla luce ed ai suoni, sindrome sicca (secchezza degli occhi e della bocca), dolore toracico (descritto come “forti fitte al cuore da togliere il respiro”), cardiopalmo (sensazione soggettiva del battito cardiaco).

I tender point rappresentano invece il segno obiettivo più caratteristico della fibromialgia. Possono essere definiti punti dolenti alla pressione situati in corrispondenza di specifiche sedi muscolari e tendinee. La digitopressione che l’operatore esercita nei 18 punti dolenti individuati nella mappa dei tender point deve essere di 4 Kg/cm2 (questa pressione equivale allo sbiancamento del letto ungueale dell’esaminatore).

Il complesso quadro sintomatologico dei pazienti con fibromialgia può essere influenzato negativamente da fattori esterni, quali eventi stressanti (lutti, traumi, esperienze traumatiche infantili, abusi e/o violenze, rifiuti e maltrattamenti fisici, traumi fisici e psicologici, eventi particolarmente dolorosi), rumore (24), freddo, umidità, cambiamenti metereologici, fase pre-mestruale, sovraccarico lavorativo, lunghi periodi di inattività, ritmi di vita frenetici, stato di tensione continua, ansia, stress, sonno disturbato (25,26).

 

Epidemiologia della fibromialgia

Per ciò che concerne l’epidemiologia, è possibile affermare che la fibromialgia è una condizione di difficile valutazione e può contare un numero limitato di studi su incidenza e prevalenza che certamente non rendono agevole la messa a punto di una accurata mappa epidemiologica della malattia. Gli studi basati sui criteri classificativi dell’American College of Rheumatology (ACR) riportano una prevalenza sulla popolazione generale tra lo 0,1 ed il 3,3%.

Lo studio MAPPING riporta una prevalenza della fibromialgia nell’ordine del 2.22%. Sulla base di tale dato, in Italia risulterebbero affetti da fibromialgia 1.333.000 soggetti (5). Questa percentuale risulta quasi doppia rispetto alle stime di riferimento di Ciocci e coll. che vedevano la fibromialgia interessare l’1,2% della popolazione generale (circa 700.000 italiani) (27).

La motivazione della maggiore prevalenza nel sesso femminile non è del tutto nota.  E’ probabile che la differenza tra i due sessi debba essere ricondotta  ad una diversa interazione tra fattori genetici, biologici, psicologici e socio culturali (certamente gli estrogeni hanno un ruolo importante nella modulazione del dolore, come pure la ridotta produzione del testosterone nel sesso femminile). Sembra che la prevalenza della fibromialgia aumenti con l’aumentare dell’età fino ai 79 anni, pur potendo colpire adolescenti e bambini.

Il sesso femminile rappresenta certamente il maggior fattore di rischio per la fibromialgia (rapporto maschi/femmine 1:9). Uno studio del 1999 di Forseth (28) ha preso in esame i possibili fattori di rischio per la comparsa di fibromialgia in un gruppo di donne con dolore diffuso aspecifico. Sono risultati predittori la durata del dolore superiore ai 6 mesi, la presenza di dolore assiale e nella parte distale degli arti superiori, la presenza di sintomi associati quali disturbi del sonno, metereolabilità, la familiarità, la cefalea cronica, l’alvo alterno, le parestesie ed un tono dell’umore depresso. L’età attuale, l’età di esordio, la conta dei tender point alla digitopressione e le caratteristiche del dolore non sono elementi utili per discriminare i soggetti che possono sviluppare la fibromialgia.

Un dato interessante emerso da molti studi riguarda invece il rapporto inverso esistente tra il grado di istruzione e lo sviluppo di una sindrome dolorosa cronica, analogamente alla presenza di condizioni sociali svantaggiose (divorzio, handicap, immigrazione, basso reddito) (29,30).

 

Fibromialgia e disturbi della sfera affettiva

È inoltre evidente l’importanza che riveste nello sviluppo di una sintomatologia fibromialgica la presenza di disturbi della sfera affettiva in atto o pregressi (divorzi, separazioni, lutti) o di altre affezioni croniche, in particolare se aggravate da stress psicologico e/o caratterizzate dalla presenza di stimoli nocicettivi persistenti.

Oliver e Silman (31) hanno riproposto in un recente articolo, l’importanza degli studi epidemiologici nella fibromialgia, avvalorando la tesi secondo cui traumi fisici, problematiche psico-sociali, fattori genetici e raziali possano essere elementi condizionanti la comparsa e l’espressione della fibromialgia. Grazie ad un’intervista condotta in anonimo via Internet, Wilson e coll., hanno potuto confermare che le cause indicate dalla popolazione come motivo di insorgenza della fibromialgia sono nel 60% emozionali (40% fisiche) e che le stesse cause emozionali sono nel 94,2% motivo stesso delle riacutizzazioni (5,8% cause fisiche ed ambientali)(32).

 

Comorbilità nella fibromialgia

Le classiche espressioni cliniche della fibromialgia possono rilevarsi anche in soggetti con un’ampia e variegata gamma di affezioni ad impronta algico-disfunzionale. Tra le comorbilità più frequentemente osservate in pazienti con fibromialgia figurano (33):

–    sindrome del tunnel carpale (23% vs 1% dei controlli);

–    ansia (5% vs 1% dei controlli);

–    depressione (12% vs 3% dei controlli).

Di rilevante interesse risulta lo studio di Bateman e coll. che nel 2009 hanno pubblicato un’indagine condotta su pazienti partecipanti al convegno tematico sulla fibromialgia tenutosi a Salt Lake City (USA).  Fra le comorbilità più frequenti risultarono i disturbi del sonno (83%), la depressione (71%), l’ansia (63%) e l’artrite (38%).

 

Fibromialgia e disturbi psichiatrici

La prevalenza dei disturbi psichiatrici nei pazienti con fibromialgia è palesemente elevata rispetto alla popolazione generale. E’ stato dimostrato che il rischio di sviluppare disturbi d’ansia (in particolare il disturbo ossessivo – compulsivo ed il disordine post-traumatico da stress) nel corso della vita dei pazienti con fibromialgia è circa 5 volte superiore rispetto a soggetti di controllo (34). Studi epidemiologici hanno infatti osservato una concomitante depressione maggiore nel 14-36% dei pazienti fibromialgici contro il 6.6% dei soggetti di controllo (35). Un’ulteriore associazione è stata osservata tra il disordine post-traumatico e il  56% dei pazienti con fibromialgia.

 

Fibromialgia e depressione

Anche se vi è una associazione ben documentata tra malattie croniche e depressione, quella tra depressione e fibromialgia è particolarmente rilevante (Kassan et al, 2006). È stato recentemente dimostrato che la stanchezza e la depressione risultano essere le componenti che esercitano maggior impatto negativo sulla capacità funzionale dei pazienti (Del e coll., 2008). Dallo studio degli autori spagnoli è emerso che una storia pregressa di problematiche significative di ordine psicologico e psichiatrico risultava documentabile nel 50% dei casi. Al momento dello studio, tuttavia, la prevalenza di una “mental illness” è stata documentata solo nel 36,4% dei casi. Questa percentuale risulta sostanzialmente sovrapponibile a quella che si registra in studi precedenti in soggetti con altre malattie croniche.

Occorre sottolineare che in questi pazienti la diagnosi di fibromialgia viene accolta con un certo sollievo. In alcuni soggetti l’ansia innescata dalla perplessità e dai dubbi in merito alla natura della sintomatologia sembra quasi dileguarsi di fronte alla conferma della diagnosi di fibromialgia. L’espressione “mi sento meglio adesso che so che non mi stavo inventando tutto” è particolarmente frequente e caratterizza una reazione molto comune da parte dei pazienti, i quali si sentono considerati dei veri e propri “malati immaginari” anche dai propri familiari. In quest’ottica, la diagnosi di fibromialgia viene in parte considerata come una vera e propria liberazione.

Occorre sottolineare che i fibromialgici mostrano spesso una forte irritazione quando i propri disturbi vengono ricondotti nel contesto delle espressioni di una sindrome depressiva e tendono a rifiutare con fermezza i farmaci anti-depressivi e, in senso più generale, ogni terapia capace di incidere nel tono dell’umore. Tra i descrittori semantici più spesso utilizzati per esprimere tale atteggiamento figurano espressioni quali: “non sono pazzo”, “non sono depresso”. Di ciò deve tener conto il medico, dal momento che alcuni dei farmaci che si sono rivelati più efficaci nella terapia della fibromialgia appartengono proprio al gruppo degli anti-depressivi.

 

Trattamento della fibromialgia

Un principio fondamentale della strategia di trattamento della fibromialgia è l’approccio interdisciplinare e multiprofessionale finalizzato all’attenuazione del dolore, alla riduzione della “fatigue”, delle turbe del sonno e delle altre manifestazioni emotive della malattia. Il risultato finale dei diversi possibili schemi di intervento è quello di migliorare la qualità della vita, che risulta gravemente compromessa nella quasi totalità dei pazienti fibromialgici. La strategia di trattamento deve risultare particolarmente flessibile, dovendo tener conto delle molteplici variabili che incidono sulla espressione di malattia.

Depressione e angoscia sono sentimenti che nascono e si sviluppano come risposta naturale alla diagnosi di una malattia cronico – degenerativa o oncologica. Passare dalla condizione di “individuo sano” a quella di  “individuo malato” è una esperienza complessa e delicata, non facile da gestire, specie in soggetti molto sensibili o particolarmente fragili (VEDI: Accettazione della malattia).

 

Psicoterapia per la fibromialgia

Fra le tante emozioni che il paziente vive figurano anche la tristezza, la rabbia (..”perché proprio a me” … “cosa ho fatto per meritarmi questo”), la vergogna, il senso di impotenza ed una tendenza all’isolamento, che porta inesorabilmente il malato ad una progressivo accentuazione della sofferenza e ad un stato di profonda solitudine dell’anima. Anche la famiglia vive gli stessi sentimenti del paziente, spesso uniti ad un senso di colpa e di imbarazzo per la difficoltà che ha nell’affrontare lo sguardo del proprio caro o per non sentirsi capace di gestire in modo adeguato la situazione. A tal fine risulta sempre più importante l’integrazione della terapia farmacologica alla psicoterapia.

La Fibromialgia un'esperienza di gruppo - Immagine: 74868580CONSIGLIATO: FIBROMIALGIA, UN ESPERIENZA DI TERAPIA DI GRUPPO

Una recente meta analisi orientata allo scopo di valutare il ruolo degli ”psychological treatments” ha dimostrato che l’ effetto della psicoterapia può definirsi “small but robust” e comparabile con quello attribuibile al trattamento farmacologico comunemente usato per la fibromialgia. La terapia cognitivo-comportamentale è risultata associata con il maggior “effect sizes” (36).

Quest’ultima è stata infatti utilizzata come base per molti programmi di trattamento del dolore e dello stress e costituisce una forma di educazione più complessa del paziente. Gli interventi della terapia cognitivo comportamentale possono comprendere:

–    l’aiuto ai pazienti ad apprendere e a monitorare le interazioni tra i propri pensieri, sentimenti, sintomi, comportamento e ambiente sociale,

–    il training cognitivo di adattamento alla malattia (tecniche di risoluzione dei problemi, tecniche di rilassamento, ristrutturazione cognitiva ecc),

–    le tecniche comportamentali di adattamento (definizione degli obiettivi, tecniche di prevenzione delle recidive, ecc.)  

–    le strategie per promuovere il supporto sociale.

Alcuni studi apportano l’efficacia del trattamento educazionale associato a strategie terapeutiche multimodali più complesse da parte di specialisti per il dolore, che lavorano in modo multidisciplinare su protocolli terapeutici per i pazienti affetti da fibromialgia. Alcuni di questi studi combinavano l’educazione del paziente e/o la terapia cognitivo comportamentale con l’esercizio; nella maggior parte di questi studi è stato evidenziato alla fine del trattamento, un miglioramento significativo in una o più delle variabili cliniche considerate (37).

Attraverso una meta-analisi (38) condotta su 49 pazienti affetti da fibromialgia è stata confrontata l’efficacia di terapie farmacologiche e di trattamenti non farmacologici (terapia cognitivo comportamentale e terapia fisica) nei confronti della condizione fisica, dei sintomi, della fibromialgia, dello stato psicologico e delle capacità funzionali. Gli antidepressivi hanno determinato miglioramenti significativi sia della condizione fisica che dei sintomi soggettivi della fibromialgia.

La terapia cognitivo comportamentale del dolore, invece, ha determinato miglioramenti significativi di tutti e quattro gli aspetti, raggiungendo un risultato migliore anche rispetto al trattamento farmacologico per quanto riguarda il miglioramento dei sintomi soggettivi e l’abilità nello svolgere le normali attività quotidiane. Questa meta-analisi porta alla ragionevole conclusione che il trattamento ottimale per la fibromialgia dovrebbe includere anche i metodi cognitivo-comportamentali.

 

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Le persone affette da disturbo mentale hanno maggiore probabilità di sottoporsi al test per l’HIV

FLASH NEWS

Secondo un nuovo studio condotto da un team di ricercatori della Penn Medicine, Centri statunitensi per il Controllo e la Prevenzione  della malattia, le persone affette da un disturbo mentale hanno maggiori probabilità di sottoporsi al test per
l’HIV rispetto a soggetti sani.

I ricercatori hanno scoperto che i pazienti con diagnosi di malattia mentale più grave (come schizofrenia e disturbi bipolari) hanno effettuato il più alto numero di test per l’HIV.

Lo studio ha valutato i dati del 2007 a livello nazionale di 21.785 adulti intervistati dal  National Health Interview Survey (NHIS).

I ricercatori hanno rilevato che il 15 percento degli intervistati ha riferito di presentare un disturbo psichiatrico. Di questi, l’89 % ha avuto sintomi di depressione e / o ansia, l’ 8,5 %  ha avuto un disturbo bipolare, e del 2,6 % era affetto da disturbi dello spettro della schizofrenia. Tra i soggetti che segnalavano almeno una malattia mentale, il 48,5 per cento era stato testato per l’HIV. Più in particolare, il 64 per cento delle persone con schizofrenia, il 63 per cento delle persone con disturbo bipolare, e il 47 percento delle persone con depressione e /o ansia non avevano mai segnalato di essere stati testati all’HIV.

L’autore della ricerca Michael B. Blank, sostiene che lo studio ha dimostrato che le persone con malattia mentale e / o gli operatori che ne forniscono assistenza, riconoscono che i soggetti affetti da disturbo mentale sono a più alto rischio di contrarre l’HIV e chiedono di essere testati, ma non ci sono progetti di prevenzione formale e programmi di screening da parte di operatori della salute mentale dedicati a questa parte di popolazione a rischio.

Inoltre, lo studio ha rilevato che le persone di età compresa tra 25-44, le donne, le minoranze razziali ed etniche, divorziati/separati, coloro che dichiarano un uso eccessivo di alcol o tabacco, e le persone che presentavano maggiori fattori di rischio HIV erano significativamente più propensi ad essere testati per verificare la presenza dell’ HIV rispetto ai loro omologhi.

I soggetti affetti da malattie psichiatriche hanno maggiori possibilità di adottare comportamenti ad alto rischio associati a trasmissione di HIV, come rapporti sessuali non protetti, assunzione di droga con siringa e sesso con partner multipli.

In linea con studi precedenti, dalla ricerca emerge che le persone con malattia mentale sono testati maggiormente per l’HIV  rispetto a coloro che non ne sono affetti, ma si evidenzia anche il ridotto numero di programmi di prevenzione per questa popolazione a rischio.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Ruolo strategico degli psicologici: l’attenzione del Ministero della Salute e della Regione Lombardia al ruolo dello psicologo – Comunicato Stampa

Si è svolto a Roma il seminario organizzato dal CNOP  – Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi – dal titolo “Il contributo della psicologia alla Sanità che cambia” durante il quale il sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo, ha espresso il suo impegno nel promuovere la figura dello psicologo su tutto il territorio nazionale.

 

COMUNICATO STAMPA

“RUOLO STRATEGICO DEGLI PSICOLOGI”:

L’ATTENZIONE DEL MINISTERO DELLA SALUTE E DELLA REGIONE LOMBARDIA

Dichiarazione del presidente dell’Ordine Psicologi della Lombardia, Riccardo Bettiga

Milano, 19 dicembre 2014:

 [blockquote style=”1″]Creare un tavolo tecnico nel quale il Ministero della Salute possa fornire le linee guida e gli indirizzi strategici affinché il lavoro di programmazione previsto dal Patto della Salute venga implementato in maniera più uniforme e completa su tutto il territorio nazionale, consentendo così anche un adeguato ed efficace inserimento della figura dello psicologo, che assume un ruolo sempre più strategico di fronte all’incremento di malattie psicologiche determinate dalla crisi economica[/blockquote].

E’ l’impegno preso dal Sottosegretario alla Salute, Vito De Filippo, durante il seminario organizzato dal CNOP – Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi – dal titolo “Il contributo della psicologia alla Sanità che cambia”, che si è svolto ieri a Roma. 

Riccardo Bettiga, Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, commentando questa dichiarazione ha espresso “soddisfazione per i risultati raggiunti dall’azione politica attuata dal CNOP, che riunisce tutti gli Ordini regionali”.

Inoltre, ricordando il recente incontro presso la sede dell’Ordine a Milano con il Governatore della Regione Lombardia, Roberto Maroni e il Presidente della terza Commissione Sanità e Politiche sociali della Regione, Fabio Rizzi, Bettiga ha anche detto che : “l’attenzione alla figura professionale dello psicologo e il coinvolgimento dell’Ordine in una fase importante come quella della stesura del Libro Bianco relativo alla nuova riforma della sanità lombarda, ha visto Regione Lombardia anticipare e confermare le fondamentali dichiarazioni rese dal Sottosegretario De Filippo. Come Ordine non possiamo che apprezzare l’interessamento del Governatore e del presidente Rizzi che hanno visto, da un lato nella figura dello psicologo un investimento per migliorare l’appropriatezza e l’integrazione delle attività socio-sanitarie, in una prospettiva di riduzione dei costi e miglioramento della qualità assistenziale e, dall’altro, nella natura ampia e trasversale della professione psicologica, soprattutto in ambito di riformulazione dei servizi territoriali, una grande opportunità per i cittadini e le istituzioni”.

 

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Psicoterapia: Intervista a Cesare Maffei – I Grandi Clinici Italiani

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Cesare Maffei

Professore Ordinario di Psicologia Clinica
Primario del Servizio di Psicologia Clinica e Psicoterapia dell’Istituto Scientifico H San Raffaele

Prorettore alle Scienze Umane UNISR

 

State of Mind intervista Cesare Maffei,  Professore Ordinario di Psicologia Clinica e Primario del Servizio di Psicologia Clinica e Psicoterapia dell’Istituto Scientifico H San Raffaele.

Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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Oltre il potenziale d’azione: l’emergentismo in psicologia.

Davide Di Vitantonio

 

All’interno del dibattito scientifico, vengono definite emergenti tutte quelle proprietà di un sistema complesso (sia esso il cervello umano o una rete neurale artificiale) che presentano caratteristiche di irriducibilità (a proprietà di base), imprevedibilità (a livello epistemologico) e inspiegabilità (a livello concettuale).

Per usare le parole di Kim (1999, p. 3.)

Quando un sistema acquista gradi di complessità organizzativa sempre maggiori esso comincia a esibire nuove proprietà che in qualche senso trascendono le proprietà delle loro parti costituenti, e si comporta in modi che non possono essere predetti sulla base delle leggi che governano i sistemi più semplici.

L’emergentismo rappresenta la possibile terza via nell’esplicazione dei fenomeni, contrapponendosi sia al fisicalismo riduttivo sia al dualismo cartesiano; in quest’ottica, l’encefalo di un soggetto sarebbe in grado di generare stati mentali quali coscienza o intenzionalità, qualitativamente differenti da quelli che sarebbero prevedibili sulla base del funzionamento causale delle singole cellule componenti il substrato biologico. Sulla base di tali considerazioni, la prospettiva emergentista esplose negli anni ’80 allargandosi dalla filosofia ai campi della scienze cognitive, dell’informatica e della psicologia sociale.

Il dilemma dei qualia (proprietà qualitative imprevedibili e irriducibili della mente, di natura ipotetica), croce e delizia di pensatori del calibro di Daniel Dennet, Hilary Putnam o Frank Jackson, rappresenta un esempio lampante del fermento generato dall’ipotesi sulle proprietà irriducibili; due neuroni posti in isolamento mostrano la medesima attività, generata dalle medesime componenti biologiche, nonostante possano appartenere a due diverse cortecce sensoriali. Eppure le percezioni del canto o dell’acqua che scorre fra le mani sono qualitativamente differenti; tali percezioni qualitative, o qualia, sarebbero dunque proprietà emergenti del sistema cervello, così come l’intelligenza o il linguaggio.

Gli stessi comportamenti delle folle o l’andamento del traffico stradale, così come variabili fisiche quali lo spazio e il tempo, sono anch’essi considerabili come eventi emergenti, esibiti da sistemi estremamente complessi e inspiegabili sulla base delle leggi che ne governano i singoli componenti.

Tenendo in considerazione che l’interpretazione di Copenaghen ha già posto limiti importanti alla possibilità di predire il comportamento dei sistemi complessi (vengono accettate solo collezioni di probabilità) e che la presenza di un osservatore influisce inevitabilmente sulla misura del costrutto di interesse (Heisenberg), diventerà di importanza cruciale per la scienza psicologica tenere in considerazione gli effetti emergenti di sistemi di enorme complessità come la mente stessa (Psicologia Generale e Neuroscienze) e le dinamiche di gruppo (Psicologia Sociale e dello Sviluppo).

Tutto questo senza dimenticare il campo delle reti neurali (finora sembra non aver mostrato proprietà genuinamente emergenti) e dell’intelligenza artificiale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Kim, J., 1993, Supervenience and Mind, Cambridge, Cambridge University Press.
  • Kim, J., 1996, Philosophy of Mind, Oxford, Westview.
  • Kim, J., 1988, Mind in a Physical World, Cambridge, MIT Press.
  • Kim, J., 1999, Making Sense of Emergence, Philosophical Studies, 95, 3-36,.
  • Crane, T., 2001b, The Significance of Emergence, in C. Gillett, B. Lower (a cura di), Physicalism and Its Discontents, Cambridge, Cambridge University Press, 207-224.
  • De Caro, M., e Macarthur, D., 2004, (a cura di) Naturalism in Question, Cambridge (MA), London, Harvard University Press; tr. it. La mente e la natura, Roma, Fazi, 2005.
  • Di Francesco, M., 2000, Causalità mentale, riduzionismo e fisicalismo non riduttivo, Sistemi Intelligenti, XII, 1, 2000, 77-93.

Le donne nelle scienze matematiche: nessuna discriminazione di genere!

FLASH NEWS

Non esisterebbe una differenza significativa tra le possibilità professionali e lavorative di uomini e donne nel mondo delle scienze matematiche.

Un studio pubblicato su Psychological Science ed effettuato da Ceci, Ginther, Kahn e Williams, ha recentemente suscitato grande scalpore e provocato numerose risposte. Questo, soprattutto, grazie ad un articolo pubblicato sul New York Times dalle co-autrici dello studio Stephane Ceci e Wendy Williams, dal titolo “Academic Science isn’t sexist”. Affermazione forte, questa che, in effetti proprio per la sua potenza,  ha stimolato l’interesse di molti e aperto le porte a svariate discussioni sul tema.

Il laborioso studio di Ceci e colleghe consisteva in 54 pagine di analisi di dati precedentemente raccolti ma anche di dati nuovi, ad ogni modo tutti riguardanti la distribuzione di uomini e donne nel mondo delle scienze matematiche: matematica, informatica, fisica, ingegneria…

La conclusione delle autrici sarebbe che, per le donne, le difficoltà ad ottenere un lavoro di tale tipo e fare carriera in questo contesto non sarebbero maggiori di quanto non lo siano per gli uomini. In altre parole, non esisterebbe una differenza significativa tra le possibilità professionali e lavorative di uomini e donne nel mondo delle scienze matematiche. E’ interessante tuttavia entrare nel merito di questi dati e cercare di capire in dettaglio le premesse che hanno portato a tale inaspettata conclusione.

I risultati dello studio suggeriscono innanzitutto che il tasso di persone che accedono a dottorati di ricerca in questo contesto è ugualmente distribuito tra uomini e donne. Le donne costituiscono però solo il 30% degli Assistenti Docenti, e la percentuale si abbassa ulteriormente se consideriamo quante siano le persone di sesso femminile che abbiano contratti come Docente di Ruolo. Le autrici attribuiscono la colpa di ciò alle “barriere passate” e Wendy Williams afferma che, al giorno d’oggi, “una volta che le donne accedono al mondo delle scienze matematiche, le loro possibilità di progresso in tale campo sono del tutto paragonabili a quelle degli uomini”.

Le studiose evidenziano anche che, secondo la loro esperienza nel campo delle scienze, alle persone di sesso femminile viene spesso offerto un lavoro o una promozione. Questo a sottolineare che esiste un’assoluta imparzialità nelle assunzioni di personale nel campo delle scienze matematiche, in contrasto con anni e anni di studi di psicologia, i quali dimostrano che candidati con preparazione identica vengono spesso trattati in modo diverso a causa del genere cui appartengono.

Ceci e collaboratrici cercano di darsi una ragione di questo gap tra la realtà e quanto rilevato negli studi di laboratorio, affermando che, in un laboratorio, non si è mai riscontrata una discriminazione di genere nel caso in cui un candidato fosse estremamente preparato; in altre parole, le studiose suggeriscono che solo quando il responsabile della selezione dei candidati aveva una quantità insufficiente di dati interessanti a disposizione, allora iniziava inconsciamente a fare illazioni sulla base di stereotipi. Il che  suona come una giustificazione, piuttosto che una spiegazione.

Il numero di pubblicazioni è un’altra misura che mette in luce le nette differenze esistenti tra maschi e femmine nel contesto delle scienze matematiche. Analizzando ulteriormente i dati dello studio, emerge che gli uomini sono molto più produttivi, definendosi su una media di tre o più pubblicazioni in due anni. Secondo Ceci e Williams, questo accadrebbe perché le donne investono molto più tempo nella cura dei figli, avendone in questo modo meno a disposizione per tutto ciò che riguarda il lavoro. Tuttavia, uno sguardo più approfondito ai dati ci consente di notare il fatto che le pubblicazioni delle donne con o senza figli sono comunque meno rispetto a quelle degli uomini.

Le autrici concludevano l’articolo precedentemente menzionato sostenendo che le possibilità professionali delle donne nel campo delle scienze matematiche sono simili a quelle dei loro colleghi uomini: certo, non uguali, ma molto meno differenti di quel che si sarebbe portati a credere. Esiste inoltre una sottorappresentazione del genere femminile in tale contesto che potrebbe essere legata, secondo le studiose, a fattori quali, ad esempio, gli interessi personali oppure il profilo cognitivo individuale. Insomma, tale sottorappresentazione sarebbe una coincidenza, che non coinvolge stereotipi di sorta ma piuttosto variabili soggettive.

Viene senz’altro da pensare che l’esperienza diretta delle autrici sia stata buona oltre ogni aspettativa, e che quanto vissuto da loro sia in contraddizione con quello che viene comunemente definito “sessismo accademico”. Questo giustificherebbe le conclusioni che hanno tratto dai dati e le modalità ottimistiche con cui li hanno interpretati e diffusi; ma tale concetto politicamente e culturalmente mediato di sessismo, non favorisce certo l’auspicato cambiamento che ci avvicini sempre più al tanto sospirato concetto di parità dei sessi. Perché offuscare i dati con l’ottimismo certo non aiuta.

E’ bello apprezzare il fatto che attualmente, nel campo delle scienze, le discriminazioni di genere sono meno diffuse rispetto al passato, e ancor meno rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare. Tuttavia l’articolo delle autrici non dice, per esempio, in che misura il mondo accademico moderno sia libero dal sessismo informale di tutti i giorni, e se le donne che scelgono di intraprendere questa carriera debbano affrontare tra gli altri anche questo ostacolo, e in che misura tutto ciò possa essere per loro stressante. Il mondo della scienza ha chiaramente fatto grandi passi in avanti verso l’uguaglianza di genere, ma è decisamente prematuro sostenere che il sessismo è cosa d’altri tempi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Paura, Traumi, Ossessioni. Esposizione in psicoterapia: effetti sul cervello di Emiliano Toso – Recensione

Libro finalista al Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica 2014.

Cinzia Gasperi

Il lettore può vedere le prove dei cambiamento del cervello quando la terapia va a buon fine ed allo stesso tempo entra nel vivo di una discussione scientifica che ancora non ha trovato una risposta definitiva ai molti quesiti che la discussione sull’esposizione ha dischiuso.

Emiliano Toso, nel testo Paura, Traumi, Ossessioni. Esposizione in psicoterapia: effetti sul cervello, si propone l’intento, splendidamente riuscito, di parlare contemporaneamente ad un pubblico di specialisti e di appassionati. Lo stile che caratterizza l’intero libro è scorrevole, immediato, ma allo stesso tempo accurato e preciso.

I cardini attorno cui si sviluppano il discorso sono la plasticità neuronale e l’esposizione, ossia quella tecnica che propone alle persone d’affrontare ciò che più temono coll’aiuto di un terapeuta. Questo spunto consente all’autore d’illustrare le ultime frontiere della psicoterapia e d’intrecciare strettamente cervello, mente e comportamento, a partire da una solida base scientifica, riccamente documentata da una rassegna di recenti ricerche.

Il ritratto che emerge è quello di un cervello come organo capace di cambiare se stesso grazie allo straordinario ruolo dell’esperienza e di una psicoterapia efficace in quanto “metodica esperienziale di apprendimento controllato per eccellenza”.

premio_nazionale_300Il primo capitolo descrive l’esposizione, illustrando le diverse strategie che appartengono a questa famiglia; nonché quali elementi impediscano la sua attuazione o favoriscano la riuscita dell’intervento.  Toso illustra, poi, sia efficacia dell’esposizione, sia  l’impossibilità di comprendere  i suoi sorprendenti effetti, poiché non sono ancora chiari i meccanismi che davvero cambiano la persona, i suoi comportamenti, la sua mente.

Il secondo capitolo descrive cosa d’intenda per plasticità neuronale, ossia la straordinaria abilità del nostro cervello di scolpirsi attraverso le esperienze di vita, che solo le recenti evoluzioni delle tecniche di neuroimmagine (argomento del quarto capitolo) hanno consentito di iniziare ad esplorare, aprendo un terreno di ricerca nuovo e fecondo per i curiosi della mente. Queste recenti acquisizioni hanno permesso, inoltre, di comprendere come sia possibile superare i limiti del genoma e come le persone possano adattarsi oltre l’immaginabile ad ambienti ed eventi di vita, grazie a meccanismi spiegati e trasmessi con immediatezza al lettore.

L’aspetto forse più affascinante che l’autore pone in luce, è proprio la possibilità che noi tutti abbiamo d’influenzare, attraverso esperienza, azioni, pensieri, emozioni il nostro cervello e la nostra mente  ed è proprio questo meccanismo che ci porta a ridefinire la psicoterapia (esperienza correttiva per eccellenza),  rendendola a pieno titolo una terapia anche biologica; essa stessa, (come ampliamente descritto nel capitolo quarto) risulta efficace, infatti, solo se insieme ai comportamenti e ai pensieri dalla persona, ne modifica anche quel chilo e mezzo scarso di carne della consistenza del tofu, che chiamiamo cervello (come illustrato del terzo capitolo).

La riprova di quanto scritto si trova nel capitolo quinto, che presenta una rassegna di ricerche sull’uso e l’efficacia dell’esposizione in diversi disturbi psicologici, quali DOC ed Ansia Sociale, solo per citarne alcuni.

Il lettore può vedere, così, le prove dei cambiamento del cervello quando la terapia va a buon fine ed allo stesso tempo entra nel vivo di una discussione scientifica che ancora non ha trovato una risposta definitiva ai molti quesiti che la discussione sull’esposizione ha dischiuso.

Tosi conclude con alcune considerazioni, che vanno a concretizzare il discorso portante dell’intero testo: è impossibile, visti gli intrecci tra esperienza, vita e carne, separare il psicologico dal biologico, rinchiudere la sofferenza e l’esperienza umana in una rigida linea causa-effetto.

Questa constatazione ci obbliga a ridefinire su base scientifica il dualismo anima-corpo di cartesiana memoria: la mente diventa in grado di modificare e modificarsi; dobbiamo ripensare la psicoterapia stessa, non più come una terapia alternativa agli aspetti biologici, ma come un processo incarnato, con tutte le responsabilità che ne derivano.

Paura, Traumi, Ossessioni. Esposizione in psicoterapia: effetti sul cervello: un testo di divulgazione, di psicoterapia, di riflessione ontologica.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Toso E. (2014). Paura, Traumi, Ossessioni. Esposizione in psicoterapia: effetti sul cervello. Libreria universitaria
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