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Emozioni, disturbi d’ansia e dell’umore ci fanno ragionare meglio.

Emozioni & Ragionamento: Le emozioni disturbano il corretto funzionamento della ragione? Il cognitivismo clinico dà una risposta diversa.

Di Redazione

Pubblicato il 03 Dic. 2012

Aggiornato il 02 Feb. 2015 11:42

di Francesco Mancini

Emozioni, disturbi d’ansia e dell’umore ci fanno ragionare meglio. - Immagine: © freshidea - Fotolia.comEmozioni & Ragionamento: Le emozioni disturbano il corretto funzionamento della ragione? Il cognitivismo clinico fornisce una risposta diversa.

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È in press sul Journal of Cognitive Psychology, un articolo di Gangemi, Mancini e Johnson Laird dal titolo Models and cognitive change in psychopathology. L’articolo è scaricabile dal sito APC.

I risultati dei tre esperimenti presentati nell’articolo modificano profondamente la concezione tradizionale dei rapporti tra emozioni, psicopatologia e ragionamento formale. Per illustrarli è opportuno, innanzitutto, chiarire la differenza fra razionalità formale e razionalità pratica. Credere nella esistenza di Dio è formalmente razionale se il bilancio degli argomenti e delle prove di cui si dispone sostengono la verità della affermazione “Dio esiste”. Credere nell’esistenza di Dio è razionale in senso pratico, invece, se è nel proprio interesse complessivo crederci. Come noto, ad esempio Pascal riconosceva l’irrazionalità formale della credenza in Dio ma sosteneva che è razionale in senso pratico crederci, infatti, l’errore di non credere in Dio, se Dio esiste davvero, è ben più costoso che l’errore inverso, ci si rimette la beatitudine eterna.

In secondo luogo è opportuno ricordare che la psicopatologia, o meglio larga parte di essa è caratterizzata da un mal adattamento che persiste nonostante che per il paziente sia vantaggioso e possibile cambiare. La psicopatologia, dunque, offre esempi evidenti di irrazionalità pratica.

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Nella nostra cultura da Aristotele e Platone, fino all’attuale cognitivismo clinico, si ritiene che la irrazionalità pratica dipenda da irrazionalità formali. L’idea condivisa, anche dal senso comune, è che se si ragionasse in modo formalmente corretto, cioè rispettando la logica, non ci sarebbero irrazionalità pratiche.

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Da ciò deriva la domanda: perché gli esseri umani non rispettano la logica? La spiegazione tradizionale, da Aristotele e Platone in poi fino al senso comune attuale, fa riferimento all’intervento delle emozioni e delle passioni che disturberebbero il corretto funzionamento della ragione.

Il cognitivismo clinico suggerisce una risposta diversa, articolata in quattro punti:

  • Come dimostrato dalla psicologia generale, il ragionamento tende ad essere confirmatorio delle premesse da cui parte, il ben noto bias confirmatorio;
  • La tendenza alla conferma aumenta quanto più le premesse, vale a dire le credenze dell’individuo, sono per lui credibili e monolitiche, cioè non ha a disposizione credenze alternative;
  • Di conseguenza, quanto maggiore è la credibilità soggettiva e il monolitismo delle credenze tanto più ci si allontana dal rispetto della logica;
  • Di conseguenza più facilmente si persiste in condotte, reazioni emotive e linee di pensiero disfunzionali, cioè irrazionali in senso pratico

Il cognitivismo clinico condivide, con la visione Aristotelica e Platonica, l’idea che la irrazionalità pratica dipenda dalla irrazionalità formale, ma se ne differenzia perché ritiene che la irrazionalità formale dipenda da fattori strettamente cognitivi.

Che cosa dicono in proposito i risultati di Gangemi e colleghi?

Innanzitutto, le persone affette da depressione e da disturbi d’ansia, nel dominio sintomatico, compiono meno errori logici di quanto fanno loro stessi in altri domini e di soggetti non clinici. I risultati di Gangemi e colleghi dicono anche che nei pazienti affetti da disturbi dell’umore e d’ansia, il ragionamento, anche quando è formalmente corretto, tende a privilegiare conclusioni che confermano le credenze disfunzionali alla base dei sintomi e dunque contribuisce alla persistenza del mal adattamento, cioè alla irrazionalità pratica.

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Una prima interessante conclusione, dunque, è che la razionalità formale può implicare irrazionalità pratica. Viene meno l’assunto tradizionale per il quale la irrazionalità pratica sarebbe riconducibile alla irrazionalità formale.

In altri esperimenti pubblicati in Johnson Laird, Mancini & Gangemi (2006) si è dimostrato che le emozioni facilitano la razionalità formale del pensiero, se il contenuto del ragionamento è congruo con il dominio intenzionale della emozione, come accade in psicopatologia.

 Una seconda conclusione, dunque, è che emozione e ragione non sono necessariamente in conflitto ma addirittura l’emozione può migliorare le capacità logiche. Viene meno l’assunto tradizionale per il quale la fonte della irrazionalità formale sarebbero le emozioni.

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I risultati di Gangemi e colleghi dimostrano un altro punto, interessante per i cognitivisti: il ragionamento che riguarda i domini sintomatici è confirmatorio delle credenze disfunzionali ma non per rispetto del confirmation bias. Non è quindi la coerenza dei significati a regolare i processi cognitivi e a rendere conto del mal adattamento psicopatologico e quindi della irrazionalità pratica.

Perché i pazienti compiono meno errori logici nel dominio sintomatico, di quanto facciano loro stessi in altri domini e i soggetti non clinici?

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Per la risposta è opportuna una premessa. Gli errori logici dipendono da una rappresentazione incompleta delle premesse. Più si è esperti di un dominio, più, invece, si riesce ad avere una rappresentazione completa delle premesse. I pazienti, con gli anni, diventano esperti del loro dominio problematico, di conseguenza riescono ad averne una rappresentazione più articolata e completa e perciò compiono meno errori logici. Ad esempio, immaginiamo un fobico sociale e una persona senza particolari timidezze. Il primo, per definizione, è molto preoccupato di fare brutte figure, dunque dedica grande attenzione ai modi con cui ciò può realizzarsi, diventerà quindi un esperto in materia e di conseguenza farà meno errori logici quando ragionerà sulle possibilità di fare brutte figure. Tuttavia ciò non gli impedirà di confermare le sue aspettative negative e continuare ad essere irrazionale in senso pratico cioè a mantenere un timore doloroso, costoso e non necessario. Il pensiero del fobico sociale, come degli altri pazienti, dunque, è orientato in senso confirmatorio sia se è formalmente razionale sia se è formalmente irrazionale. I risultati di Gangemi e colleghi ci dicono anche che la tendenza confirmatoria delle sue aspettative di brutta figura non dipende dall’alta credibilità ma da ragioni prudenziali.

Dalla psicologia cognitiva sappiamo che il pensiero è al servizio degli scopi dell’individuo ed è specificatamente orientato in senso prudenziale, cioè in modo da minimizzare il rischio di errori cruciali. Per i pazienti, nel dominio sintomatico, il costo di abbandonare erroneamente una credenza di pericolo è assai elevato, e per questo motivo il pensiero è orientato in senso confirmatorio, anche al costo di produrre effetti irrazionali da un punto di vista pratico.

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