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Il bando della ASL di Torino tra corruzione, raccomandazioni e il senso della meritocrazia

La notizia della psicologa assunta all’ASL di Torino dopo aver vinto il bando proposto da suo padre direttore del personale di quella stessa ASL è una buona occasione per riflettere. C’è spazio per l’indignazione, ma anche per pensieri più cauti e accurati.

L’articolo apparso sulle pagine torinesi di Repubblica (LEGGI L’ARTICOLO) riporta due dati che alludono a possibili scorrettezze: la parentela tra vincitrice e proponente del bando e il periodo di esposizione del bando, dal 31 dicembre al 10 gennaio, periodo di vacanza e –presumibilmente- di scarsa attenzione alla pubblicazione di bandi. Da qui la nostra mente è invitata inevitabilmente a indignarsi ricordando altre notizie simili a questa, notizie apparentate con le possibili scorrettezze dell’ASL di Torino.

Sappiamo che il sistema sanitario italiano, come altri servizi pubblici, è probabilmente esposto a fenomeni di corruzione. Un altro articolo di giornale, questa volta del Corriere della Sera, riporta che –secondo il “Global Corruption Barometer” – il sistema sanitario italiano mostra eccessivi livelli di corruzione (LEGGI L’ARTICOLO). Sembrerebbe quindi giusto sospettare del caso di Torino, se non altro come stima probabilistica.

Siamo messi così male?

Attenzione. Avrete notato che quello stesso articolo del Corriere che riporta il dato sulla corruzione ci porge anche una notizia più incoraggiante: la sanità italiana offre un ottimo prodotto, migliore di quello della maggior parte degli altri paesi. Nel 2014, secondo il rapporto della Bloomberg, multinazionale dell’informazione, la nostra sanità sarebbe la terza migliore del mondo, dopo Singapore e Hong Kong e prima del Giappone, quarto. Seguono Corea del Sud, Australia e Israele.

Notiamo: abbiamo elencato sette paesi e non è ancora apparso un paese europeo oltre l’Italia. Dove sono finiti? Li incontriamo dopo Israele. Ottava la Francia, decimo il Regno Unito, addirittura ventitreesima la Germania, per citare i tre paesi con i quali nervosamente ci paragoniamo da un paio di secoli a questa parte nel timore di non essere alla loro altezza. Dietro di noi c’è anche un’altra pietra di paragone: la Svizzera è quindicesima. Dietro perfino gli impeccabili paesi scandinavi: undicesima la Norvegia, diciannovesime a pari punteggio Svezia e Finlandia, addirittura trentaquattresima la Danimarca. Chi manca all’appello dei paesi verso i quali nutriamo un eterno automatismo di inferiorità? Ah si, l’Olanda. Dove diamine è, che non la vedo? Addirittura quarantesima. Controllo distrattamente il Belgio, di cui non si sa mai bene cosa pensare: sono dei Francesi falliti o degli Olandesi annacquati? Boh; comunque è nordico e civile anche il Belgio eppure è dietro, quarantunesimo. Altro caso speciale gli Stati Uniti, di cui si sa solo che ha una sanità strana tutta sua, tutta privata, non si sa bene cosa pensarne, sono barbarissimi o civilissimi? Nemmeno Montanelli aveva direttive chiare sugli USA. In ogni caso gli americani sono lontanissimi in classifica: quarantaquattresimi, peggio dei Belgi (tiè!) Insomma, fanno bene le mamme italiane a raccomandarci di indossare il golfino quando andiamo in vacanza su, a nord delle Alpi. Il golfino anche se è estate.  In realtà non sono preoccupate per noi, sono realistiche: giustamente diffidano degli ospedali dei paesi nordeuropei.

La sanità italiana è buona. È questo non è nemmeno un dato nuovo. Eravamo già messi bene quindici anni fa, quando fu pubblicato il World Health Report del 2000 (DOWNLOAD). Lì eravamo addirittura secondi nel mondo dietro la Francia. Nel frattempo la Francia è rimasta indietro e ora davanti a noi ci sono altri paesi. Insomma, da quindici anni a questa parte restiamo saldamente sul podio e siamo gli unici a esserci rimasti. Non possiamo proprio lamentarci, che forse per noi italiani è la vera tragedia.

Scherzi a parte, com’è possibile? Terzi al mondo e primi tra i paesi “occidentali”? Però corrotti? Non saprei, questi parametri non sono facili da interpretare. Quando non scrivo articoli per State of Mind mi occupo di ricerca scientifica, e vi assicuro che i numeri non sono sempre dati incontrovertibili. Possono essere a loro volta oracoli ambigui da interpretare. 

Per esempio, torniamo al “Global Corruption Barometer” che, secondo il giornalista del Corriere, ci condanna. Il dato negativo, a ben vedere, riguarda la corruzione percepita e non propriamente quella attuale. Il dato in cui l’Italia ha alcuni valori elevati, vicini all’80%, è la percentuale d’intervistati che pensano che certe istituzioni siano corrotte. D’accordo, non è un bel dato, ma cosa sappiamo su quanto siano effettivamente corrotte? Se andiamo più in basso nella stessa pagina web, troviamo un dato più concreto: la percentuale di persone che effettivamente hanno pagato un “bribe” (bustarella) o ne possono dare testimonianza certa e circostanziata. Qui le cose cambiano. La percentuale di persone che si sono sentite chiedere bustarelle dai vari tipi di pubblici ufficiali italiani varia dal 2% (esattori delle tasse) al 6% (impiegati generici nei servizi pubblici) con un picco del 12% per quanto riguarda gli ufficiali giudiziari di vario tipo.

Sono dati alti o bassi? Facciamo il solito paragone con l’Inghilterra, che nell’immaginario comune rimane il paese modello della modernità calvinista, efficiente e incorruttibile. I dati però parlano di fenomeni di corruzione più elevati dell’Italia: 8% di persone che si sono sentite chiedere una bustarella dalla polizia inglese (4% da quella italiana), 11% da impiegati nei servizi anagrafe e cittadinanza (3% in Italia), per concludere con un 21% di bustarelle chieste da ufficiali giudiziari corrotti, che –come in Italia- si confermano la classe più propensa a chiedere bustarelle (ricordate? In Italia era il 12%). Se desideriamo cercare paesi meno corrotti di noi, dobbiamo andare in Spagna (toh, un paese mediterraneo, un PIG) o in Finlandia. I dati di Francia e Germania non sono disponibili.

Che dire? Sono confuso. A leggere questi dati mi viene da pensare che forse la corruzione italiana è fatta di favori e non soldi, il papà che (forse) crea le condizioni per facilitare l’assunzione della figlia. Se andiamo sulla corruzione pesante, le bustarelle vere, i soldi veramente chiesti e ottenuti in cambio di servizi dovuti, pare che in Inghilterra siano messi peggio di noi. Oppure no. I dati sono sempre difficili da interpretare. Ognuno ha le sue distorsioni. Quali sono l’autorevolezza e l’affidabilità di questo “Global Corruption Barometer”? Negli articoli scientifici so muovermi. In questo terreno no. Chi lo sa.

Lasciamo da parte i numeri. Torniamo al caso della collega di Torino. Vi dirò la mia idea.

Credo che, nel reclutamento delle persone più adatte ai posti di lavoro, dobbiamo abbandonare l’idea di un’astratta “meritocrazia”, che spesso concepiamo come una qualità assoluta e apriori, appunto un “merito” che precederebbe l’assunzione e che andrebbe valutata in un ambiente asettico e purificato attraverso esami, concorsi e colloqui impersonali e correttissimi in grado di individuare la persona adatta a quella mansione. Non credo che il “merito” sia questo. Il merito non è qualcosa che sta prima della prestazione, una qualità che ci portiamo dietro e che ci distingue in partenza dagli immeritevoli, potenzialmente corrotti.

Il merito è qualcosa che accade dopo. E non si tratta solo di prestazione quantitativa. Il merito è anche una valutazione della capacità di qualcuno d’integrarsi in un gruppo di lavoro e partecipare a un lavoro di squadra, valutazione che va fatta a valle dopo un congruo periodo di prova e anche ancora dopo il periodo di prova, in un processo di formazione e valutazione continui.

Dove occorrerebbe essere un po’ più spietati non è tanto nella selezione iniziale, in fondo sempre superficiale ed emotiva, ma nei meccanismi di sospensione e riallocazione (attenzione: non sto dicendo di espulsione, ovvero licenziamento; non siamo e non vogliamo essere un paese anglo-sassone, e va bene così) di chi non sa, non riesce, o peggio non vuole integrarsi. Spesso la scelta di elementi integrabili cade non a caso e non scorrettamente su elementi già noti, già segnalati, già raccomandati se vogliamo (diciamolo in inglese: “endorsed”, che suona meglio). Raccomandati nel senso migliore del termine, ovvero già notati per le loro qualità e per il loro potenziale affiatamento.

Insomma, già conosciuti e quindi si, un po’ raccomandati rispetto a qualcuno con un curriculum migliore, ma che conosce meno l’ambiente. È possibile che qualcosa del genere sia accaduta a Torino, sia nel senso migliore (endorsement?) che peggiore (raccomandazione?) del termine. O forse no. Non lo so e in fondo non m’interessa.

Introduciamo sistemi di valutazione del lavoro prodotto sempre più efficienti a valle delle prestazioni (fenomeno peraltro già in corso) e sottoponiamoci a essi. A quel punto l’assunzione della figlia del direttore del personale diventerà un episodio inelegante, ma non di corruzione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il trattamento dei disturbi alimentari in contesti istituzionali (2014) – Recensione

L’aspetto di accordo comune tra la maggior parte degli autori del libro riguarda la necessità di un intervento multidisciplinare di equipe e di rete nel trattamento di questi pazienti come anche l’essenzialità del porre al centro del progetto di cura la singolarità del soggetto.

Ciccolini - DCA Copertina 2014Come avviene il processo di cura per i disturbi alimentari in struttura residenziale-riabilitativa?

“Il trattamento dei disturbi alimentari in contesti istituzionali” fornisce una chiara risposta a tale domanda volendo configurarsi come un luogo di dibattito e di incontro dialettico tra i principali esperti, nel contesto nazionale, nella cura dei pazienti con disturbo alimentare in istituzione e regime di ricovero.

Nasce dal lavoro clinico di quindici anni  dell’equipe multidisciplinare integrata della comunità residenziale a orientamento analitico, “La Vela” di Moncrivello (VC), per il trattamento della bulimia e anoressia. L’intento è appunto quello di offrire uno spunto di riflessione condiviso sugli aspetti fondanti il lavoro terapeutico residenziale di pazienti con disturbo alimentare, sottolineando al contempo i nodi problematici legati al processo di cura che, di conseguenza, ne ostacolano l’efficacia.

Suddiviso in quattro parti il testo si focalizza sia sugli aspetti metodologici del trattamento dei disturbi alimentari, sia sul significato che il sintomo acquisisce sul singolo paziente, in base alla storia di vita personale e clinica, e sulle conseguenti difficoltà legate al disturbo, quali ad esempio la non accettazione della propria immagine corporea.

In un’ottica di inserimento del paziente nella cura, che non sempre corrisponde all’affettivo inizio della terapia, risultano essenziali alcuni elementi: per Cuzzolaro il contratto terapeutico stipulato dal paziente al suo ingresso che costituisce un limite rispetto alla deriva sintomatica del corpo, per Cordeschi la necessità di definire il setting e la posizione dell’analista in un’ottica più partecipativa dipendentemente dal deficit di identità e della dipendenza adesiva che spesso si osserva in questi pazienti.

La struttura residenziale diventa quindi, secondo Sarnicola, un contenitore psichico utile alla persona per trovare e sperimentare una propria modalità di legame con l’altro. Come sottolinea lo stesso Fadda, aspetto non trascurabile nel trattamento istituzionale del paziente con DCA, è il piano nutrizionale che ha come obiettivo non tanto l’eliminazione del sintomo, quanto una sua riduzione di centralità e di rilevanza nella vita del paziente:  il cibo perde interesse e si sgancia dall’essere il fulcro su cui ruota la quotidianità. Occorre quindi un intervento clinico-nutrizionale che tenga in considerazione il valore simbolico del cibo e il rapporto, spesso conflittuale, che il paziente ha con ogni singolo alimento.

Molto interessante risulta la differenza che Giuseppe Saglio mette in luce tra le espressioni “prendere corpo” e “dare corpo”, la prima come acquisizione di forma e sostanza, la cui negazione caratterizza il soggetto con disturbo alimentare; “dare corpo” sta ad indicare invece il moto, la spinta che muove la persona che soffre di tali disturbi verso l’attuazione di un progetto terapeutico e presuppone una scelta che implica un processo di consapevolezza delle proprie debolezze e vulnerabilità. In quest’ottica lo spazio della cura e quindi del possibile cambiamento, è quello in cui il paziente si riconosce e nasce dalla possibilità di abitare uno spazio che permette di diventare un corpo.

La conclusione del percorso di ricovero, determinato non necessariamente da una scomparsa del sintomo ma dettato da un miglioramento delle condizioni clinico-nutrizionali, è spesso, per il paziente, vissuto con estrema difficoltà in quanto vera e propria“separazione”.  In questo quadro un lavoro integrato di rete tra i servizi territoriali e la struttura comunitaria includendo la famiglia dall’ingresso al termine del percorso istituzionale del paziente, è un fulcro nella cura dei pazienti con disturbo alimentare.

Vi sono quattro livelli  di trattamento necessari per una presa in carico integrata: ambulatorio, day-hospital, ricovero ospedaliero e riabilitazione residenziale. In quest’ottica si colloca l’interdisciplinarietà dei differenti interventi di cura ma anche un precoce intervento di prevenzione primaria e secondaria nelle scuole al fine di cogliere i primi segnali della presenza del disturbo.

Tanto più la rete risulta integrata e collaborante, tanto più sia l’esito sintomatico sia il reinserimento sociale del paziente, in seguito al ricovero, risulteranno positivi. Si tratta di un vero e proprio continuum del trattamento clinico-nutrizionale che a partire dalla struttura residenziale prosegue attraverso i servizi territoriali. Tra questi, come sottolinea Saragò, il centro Diurno si inserisce come un dispositivo terapeutico che riduce i fenomeni regressivi spesso esacerbati durante il ricovero, costituendo un ponte territoriale privilegiato tra la struttura e terapeutica e la vita quotidiana.

Nonostante i differenti tipi di pensiero e di esperienze professionali,  l’aspetto di accordo comune tra la maggior parte degli autori del libro riguarda la necessità di un intervento multidisciplinare di equipe e di rete nel trattamento di questi pazienti come anche l’essenzialità del porre al centro del progetto di cura la singolarità del soggetto: fondare il trattamento su un approccio personalizzato, caso per caso (anche dal punto di vista nutrizionale), che, soprattutto nei pazienti di giovane età, includa anche la famiglia producendo un cambiamento nelle relazioni, alla ricerca di una soluzione alternativa e meno invalidante dello stesso sintomo alimentare.

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Maternità conflittuale: un percorso nella cura dei disturbi alimentari – di Sabba Orefice

BIBLIOGRAFIA:

  • Ciccolini L., Cosenza D. (2015). Il trattamento dei disturbi alimentari in contesti istituzionali. Milano: Franco Angeli. ACQUISTA ONLINE

La rabbia: un’emozione primordiale a volte adattiva a volte disfunzionale!

Sigmund Freud University - Milano - LOGOINTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA  (02)

 

 

La rabbia è un sentimento primordiale, di base, che è determinato dall’istinto di difendersi per sopravvivere nell’ambiente in cui ci si trova. Quindi, possiamo dire che la rabbia inizialmente ha una funzione adattiva.

 

Proseguendo con il viaggio all’interno delle emozioni ad un tratto ci imbattiamo nella rabbia. Che ne dite, proviamo a conoscerla un po’ meglio? E, allora, avviciniamola per guardarla più da vicino, cercando di farci amicizia.

Di cosa si tratta, cos’è questa rabbia? È una emozione che si manifesta in tutti, grandi e piccoli, e in alcuni casi porta all’attuazione di agiti, mentre, in altri è soffocata.

Capita spesso di osservare bebè che non vogliono fare o mangiare qualcosa e manifestano questo stato urlando o lanciando oggetti. Questo comportamento suggerisce che la rabbia è una delle emozioni innate, infatti si mostra fin da subito. Si tratta, dunque, di un sentimento primordiale, di base, che è determinato dall’istinto di difendersi per sopravvivere nell’ambiente in cui ci si trova. Quindi, possiamo dire che la rabbia inizialmente ha una funzione adattiva.

Successivamente, col tempo, la situazione si modifica, l’ambiente potrebbe diventare ostile, e qualcosa potrebbe esserci negata. A questo punto si manifesta la rabbia, che non sarà più adattiva, ma disadattiva perché crea malessere.

Chiaramente, numerosi sono i motivi per cui è possibile perdere la calma, per esempio quando consideriamo un’altra persona responsabile per averci procurato un danno, un fastidio; oppure, se non dovessimo trovare un responsabile diretto è possibile arrabbiarsi con se stessi, in ogni caso è sempre necessario trovare un capro espiatorio, un colpevole a quello che succede, perché serve per rivolgere la rabbia verso qualcosa o qualcuno. Spesse volte ci arrabbiamo con le persone a cui siamo più legati, come i genitori, i coniugi, in quanto proprio da loro ci aspettiamo di essere capiti e ascoltati, ma questo non si verifica sempre e, allora, la rabbia ci inonda.

La rabbia mostra un andamento sinusoidale, a volte ha dei picchi in eccesso chiamati collera, esasperazione, furore e ira, oppure in difetto, di intensità minore, e li definiamo irritazione, fastidio, impazienza. In ogni caso si tratta di una risposta emotiva intensa ma transitoria, che si protrae per brevi momenti.

Solo in casi estremi la rabbia si esprime attraverso dei comportamenti (rompendo oggetti, guidando velocemente, etc.), ma il più delle volte si manifesta verbalmente con l’alterazione del tono di voce che diventa più intensa o sibilante, stridula o minacciosa.

Chiaramente, la manifestazione di rabbia è coadiuvata da una particolare mimica facciale: aggrottiamo la fronte, le sopracciglia, serriamo i denti fino a digrignare in alcuni casi. L’organismo assume una postura che gli permette di entrare in azione da un momento all’altro, di attaccare o di aggredire. Si manifestano anche variazioni fisiologiche come l’accelerazione del battito cardiaco, aumento dell’afflusso del sangue nella periferia del corpo, la maggiore tensione muscolare e iper-sudorazione. Tutto questo ci dice che il nostro corpo è pronto a difendersi contro il presunto nemico.

In linea generare si può parlare di una rabbia disadattiva, disfunzionale o patologica, quando crea sofferenza individuale, oppure compromette le relazioni sociali e spinge a compiere azioni dannose verso persone o cose o se stessi.

In altri casi, la rabbia non è una emozione negativa, infatti, da piccoli è adattiva e anche da adulti potrebbe esserlo incanalandola in attività alternative a quelle del bisogno che ci viene negato. Così facendo, aumenta il nostro benessere e non rimaniamo incastrati in questa emozione.

Bene, amici, anche questo viaggio nei meandri della rabbia è finito. Ci diamo appuntamento alla prossima settimana.

 

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

 

Ansia sociale: rimuginio & dialoghi interiori prima di parlare in pubblico

FLASH NEWS

Parlare in pubblico & ansia sociale: su che cosa rimuginiamo prima di una presentazione o di un discorso davanti a un pubblico più o meno esteso? In che modo i dialoghi interni della mente (i cosiddetti self-talk) si differenziano nelle persone ansiose e non ansiose all’ idea di parlare in pubblico?

Un gruppo di ricercatori ha approfondito la tematica coinvolgendo 200 studenti di un corso di public speaking. Per indagare il fenomeno è stato chiesto agli studenti di riportare puntualmente i contenuti dei loro self-talk mentali e il livello di ansia nei giorni e nei momenti precedenti la prestazione di fronte al pubblico. Anzitutto è emerso che le donne tendono ad essere più ansiose degli uomini all’ idea di parlare in pubblico. Ma una volta considerata tale variabile di genere, la frequenza di diversi tipi di dialoghi interni spiega il 20% della restante varianza nei livelli di ansia del campione preso in considerazione.

Nello specifico, gli studenti con minori livelli di ansia riportano minori quote di dialoghi interni autocriticisti e relativi alle valutazioni basate sul giudizio degli altri, mentre con maggiore frequenza tendono ad autorinforzarsi attraverso parole di incitamento nella loro mente (ad esempio dirsi quanto si sentivano ben preparati per affrontare la prova), ai limiti di un bias positivo di autovalutazione.

Lo studio, che si è focalizzato su un campione subclinico, può fornire spunti interessanti, più che per la clinica, per la formazione delle competenze trasversali quali le abilità di public-speaking e di comunicazione. Può essere importante supportare gli studenti anche nella regolazione dell’ansia che si innesca essendo al centro dell’attenzione di fronte al pubblico. Intervenire nelle fasi iniziali di insorgenza del self-talk, monitorarlo, riconoscerlo e modificarlo nei suoi aspetti più disfunzionali può portare non solo a prestazioni migliori ma anche a vivere meglio l’esperienza del public-speaking.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’amicizia tra uomini e donne è possibile? La scienza si pronuncia…

Un Articolo di Serena Cappelli, pubblicato su Linkiesta il 5 Febbraio 2015

 

«La scienza dimostra – si legge sull’Huffington Post – perché sembra impossibile per uomini e donne essere “solo amici”. Si tratta di una delle domande più antiche che perseguitano l’uomo (e la donna): esiste l’amicizia tra uomo e donna, o ci sarà sempre dell’attrazione? Come riportato da Science.Mic, un nuovo studio dell’Evolutionary Psychology Journal presenta interessanti novità per i fautori dell’impossibilità dell’amicizia tra uomo e donna. La ricerca, condotta in Normandia, ha scoperto che uomini e donne fondamentalmente si fraintendono: lei interpreta i suoi segnali d’interesse sessuale come amicizia mentre lui legge i suoi segnali d’amicizia come interesse sessuale. Può suonare stereotipato, ma gli uomini hanno in testa il sesso».

Può suonare stereotipato, già.
Più che altro diciamo che è saggezza popolare basata su millemila anni di vita vissuta: dalla preistoria a oggi, infatti, non c’è stato un solo giorno in cui una donna non abbia detto a un uomo – a voce, via segnali di fumo, via lettera, via faccine su WhatsApp – la fatidica frase “Ma ogni tanto non puoi pensare a qualcos’altro?”.
No, risponde per lui la scienza, dando finalmente ragione a Harry che lo sostiene con convinzione dal 1989…

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L’uomo amico solo di donne che non trova attraenti? No, di norma vuole farsi anche quelleConsigliato dalla Redazione

esiste l’amicizia tra uomo e donna, o ci sarà sempre dell’attrazione? (…)

Tratto da: Linkiesta.it

 

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Ansia generalizzata & Rimuginio – Introduzione alla Psicoterapia

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (01)

 

 

Le persone con Disturbo d’Ansia Generalizzata faticano a controllare il proprio rimuginio. Quando iniziano a pensarci non riescono più a smettere, a concentrarsi su altri compiti o su aspetti piacevoli della vita quotidiana.

Il disturbo d’ansia generalizzato è un disturbo d’ansia caratterizzato da una cronica condizione di stress e da uno stato di preoccupazione costante per molte situazioni diverse che risulta eccessivo in intensità durata o frequenza rispetto alla probabilità o alle conseguenze degli eventi temuti.

Le preoccupazioni possono essere accompagnate da: irrequietezza, affaticamento, difficoltà di concentrazione e memoria, irritabilità, difficoltà nel sonno, tensione muscolare o altri disturbi somatici (es: nausea, diarrea, emicrania, sudorazione ecc…).

Il rimuginio è un elemento centrale del disturbo. Rimuginare significa pensare e ripensare continuamente alle cose negative che potrebbero capitare al fine di prevederle o prevenirle.

Le persone con Disturbo d’Ansia Generalizzata faticano a controllare il proprio rimuginio. Quando iniziano a pensarci non riescono più a smettere, a concentrarsi su altri compiti o su aspetti piacevoli della vita quotidiana.

Un’altra caratteristica di questo disturbo sono le strategie di controllo del pensiero (es: tentativo di distrarsi e di non pensare) e la ricerca di rassicurazioni. Questi tentativi di controllo spesso sono controproducenti nel lungo termine e non modificano il modo in cui funziona e si mantiene il malessere emotivo del paziente con Disturbo d’Ansia Generalizzato.

 

 

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Dentro la mia follia: la diversità di Alberto – CIM Nr. 20 – Psicoterapia Pubblica

 – CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #20

Dentro la mia follia: la diversità di Alberto

 

 

– Leggi l’introduzione –

La presunta imprevedibilità dei matti crea intorno a loro un alone di apprensione, timore e sospettosità che riflette esattamente il loro vissuto nei confronti dei cosiddetti normali. Alberto attraversa a lunghe falcate la piazza del paese per raggiungere il bar, ha addosso gli occhi di tutti. 

Il ragazzino che sta in porta ferma la palla e volge lo sguardo, ancora scevro di pregiudizi ostili ma carico di curiosità. Gli altri monelli (dal libro cuore non si usava più questo termine) orfani dell’azione lo accompagnano mentre con le mani sui fianchi riprendono fiato, sudati e rubizzi . Gli uomini ai tavoli esterni abbassano il tono e infittiscono i commenti la cui gamma va dalla riprovazione alla pena attraversando il consueto terreno delle critiche alla legge ed alla sanità pubblica colpevole, ad un tempo, di abbandonare e permettere. Le donne allungano il passo e svoltano nelle stradine laterali. Se troppo vicine temono di recare offesa cambiando marciapiede o semplicemente di essere notate e provocare qualche reazione e allora si fermano a contemplare insulse vetrine aspettando che scorra alle loro spalle. Se in compagnia si serrano a capannello infervorandosi in una discussione calorosa indipendentemente dalla futilità dell’argomento con, però, un radar acceso a registrare l’allontanamento che le consentirà il ritorno alla normalità. Le due guardie municipali (uomo e donna) sedute nell’auto di servizio che hanno avuto a che fare poco cordialmente con Alberto per le due ordinanze del sindaco che ne decretavano il trattamento sanitario obbligatorio e avevano raccontato per mesi l’esperienza come una delle più epiche della loro carriera, si rassicurarono vicendevolmente sulla tranquillità della situazione.

Lui, Alfio Tomini 55 anni, per il ruolo di caposquadra anziano avendo sentito montare l’allerta per un sensibile aumento del tono muscolare, si era sentito in dovere di poggiare una protettiva mano sulla coscia di Patrizia Lari 33 anni, praticamente una delle ultime arrivate considerato il blocco delle assunzioni. Conoscendolo fu quel gesto ad aumentare in lei l’allerta ma non disse nulla salvo che sarebbe andata al bar per tenere sott’occhio la situazione e con scopo di deterrenza. Al contrario la presenza delle istituzioni con il loro aspetto esteriore pomposo, l’alfa di servizio tirata a lucido e l’elegante divisa estiva che mal celava la prorompente fisicità mediterranea della vigilessa, e la sostanziale impotenza poteva costituire il detonatore di lamentele e critiche.

Ma non è di questo che ci stiamo occupando ma del vissuto speculare del matto, in questo caso interpretato da Alberto. Anche lui guarda gli altri senza sapere cosa attendersi. E’ sempre stato così sin da quando era piccolo. No, in famiglia con mamma Anna, papà Arturo e il suo gemello Alfonso (tutta una famiglia di “A”) non lo aveva avvertito.

L’estraneità era arrivata con la prima elementare. Gli altri bambini giocavano ad un gioco di cui non conosceva le regole e lo scopo. Non sapeva cosa fosse lecito e cosa no. Non sapeva quando fosse il suo turno e quando quello degli altri. La sera con Alfonso parlando sul letto a castello si erano fatti persuasi di essere di una specie diversa, superiore, forse extraterrestre. Se ne erano convinti a tal punto che avevano fatto domande trabocchetto ai genitori ed avevano rovistato negli album fotografici per trovare immagini dei loro genitori prima della loro nascita. Forse avrebbero trovato un modulo metallico sulla superficie di Marte invece della bifamiliare in contrada “La Ripa” nella periferia nord di Monticelli.

Al primo trimestre le maestre caldeggiarono una separazione dei due gemelli per facilitare la socializzazione e Alberto restò solo a non capire usanze e codici di quella tribù scalmanata. Sarebbe passato col crescere aveva sentenziato lo psicologo della scuola. In adolescenza, se possibile fu anche peggio. I riti si complicavano. L’unica tribù si era divisa in quella dei maschi e quella delle femmine con regole d’ingaggio molto precise quanto sconosciute ad Alberto che dalla iniziale categoria degli esclusi scivolò rapidamente in quella degli sfigati, emarginati e derisi nella quale si ritagliò il ruolo di molestatore.

Le poche imprese che lo portavano vicino al suo bersaglio, il corpo o gli indumenti delle sue compagne, avevano due immancabili conseguenze. La prima, severe punizioni dall’autorità costituita: insegnanti, presidi, genitori delle compagne e, una volta, persino un burbero magistrato del tribunale minorile con intollerabile vergogna per una famiglia medio borghese che aveva nel perbenismo e nelle apparenze il proprio credo . La seconda decisamente migliore, interminabili sedute masturbatorie a quattro mani con Alfonso alimentate dai racconti predatori di entrambi. Sembravano avviati ad una carriera di devianza e delinquenza. Servivano soluzioni drastiche. L’unico punto di forza di Alberto era il rendimento scolastico soprattutto nelle materie scientifiche.

I genitori decisero d’autorità e compiuti i 15 anni presentarono domanda solo per Alberto (lo scopo di tenerli separati era ormai acquisito) alla scuola militare aeronautica “Giulio Douhet” un istituto secondario a carattere scientifico con sede a Firenze all’interno della scuola di guerra aerea, situato nel magnifico parco delle Cascine. Qui gli allievi stanno a convitto e ricevono una istruzione gratuita e di buon livello con l’unico obbligo di una ferma volontaria di tre anni al compimento del sedicesimo anno d’età che rappresenta una facilitazione nel caso intendessero poi continuare la carriera militare.Il vissuto di estraneità si era consolidato durante l’esperienza della scuola. Senza altre prospettive aveva firmato la ferma volontaria con sergente e preso servizio al piccolo aeroporto militare di Vontano sede della scuola dell’aviazione leggera dell’esercito.

Di recente, durante i colloqui di psicoterapia con il Dottor Irati, iniziati con la presa in carico del CIM per i fatti che narrerò tra breve era, per la prima volta riuscito a spiegare con un’immagine il suo vissuto di marziano privo del manuale di istruzione sul funzionamento degli esseri umani. Lo spunto glielo aveva fornito la pubblicità del “campari soda” in cui un gruppo di avventori di un bar, presumibilmente colleghi, si rapportano gli uni agli altri in perfetto sincronia. Le sedie si infilano perfettamente sotto i sederi che si abbassano per sedersi, i bicchieri volano con precisione da una mano all’altra, la scena appae come un balletto gaio e perfettamente sincrono in cui i movimenti di ciascuno si incastrano perfettamente con quelli di tutti gli altri.

Per Alberto era esattamente il contrario. La parola si sovrapponeva sempre a quella dell’altro oppure si creavano pause interminabili nella conversazione superate con un ennesimo sovrapporsi. Persino stringersi la mano necessitava di un coordinamento mentale, di una decisione cosciente che lo rendeva un compito faticoso e spesso fallimentare. Non parliamo poi di dove poggiare lo sguardo e di quale espressione scegliere per commentare le frasi altrui. Guardava le normali interazioni umane con invidia e nel tentativo di scoprirne le segrete regole. Tutto per gli altri sembrava facile e spontaneo, lui invece doveva ragionarci. Quando le regole effettivamente c’erano Alberto vi si atteneva scrupolosamente con il terrore di sbagliare. Se fosse stato perfetto gli altri lo avrebbero apprezzato. Quella sarebbe stata la sua strategia per convivere con gli umani.

In effetti la prima segnalazione al Cim era stata fatta dal comando della base di Vontano per comportamenti bizzarri che, tuttavia si connotavano come eccesso di zelo. Parcheggiare la sua vettura negli appositi spazi richiedeva un notevole tempo perchè doveva assicurarsi con un centimetro che fosse su tutti e quattro i lati alla stessa distanza dalla linea bianca. I resoconti obbligatori dell’attività svolta durante la giornata che per gli altri consistevano in mezza paginetta, per Alberto non erano mai inferiori alle 10 pagine riportando praticamente tutti i gesti compiuti. Siccome il regolamento prevedeva 8 effettive ore di lavoro da cui erano esclusi i tempi per attività personali (necessità fisiologiche, ecc.) in una prima fase Alberto per non essere inadempiente si presentava a mattino alle 6,30 ovvero un’ora e mezza prima dell’apertura della base e alla sera usciva circa un’ora dopo tutti gli altri. Eccesso di lavoro, pensava non poteva che essere encomiabile. I superiori lo avrebbero notato favorevolmente. Invece, forse a causa delle proteste del servizio di portineria (nessuno glielo avrebbe mai tolto dalla testa) qualche mese dopo uscì una circolare che vietava, per problemi di risparmio qualsiasi orario straordinario.

Da quel momento Alberto attaccava puntualmente alle 8,00 e aveva sempre in mano un cronometro che attivava per ogni attività personale (quando andava in bagno, per il caffè nel thermos che si portava da casa come pranzo, più un dieci minuti al giorno forfettari per soffiarsi il naso, grattarsi soprattutto nel periodo delle allergie, pulirsi gli occhiali ed altre amenità del genere).Questi comportamenti nella loro bizzarria si limitavano a preoccupare il comando come possibili segni premonitori di più gravi e imprevedibili stranezze. Tutto qui.

Ciò che creava vero disagio era la meticolosità sul lavoro. Non c’era motore che fosse sottoposto alla verifica di Alberto che non fosse rispedito in officina con un elenco di ulteriori controlli e aggiustamenti da fare. Il comandante della base colonnello Gianrico Cottone si era appellato alla vecchia amicizia che aveva con Biagioli per aver fatto il servizio di leva insieme per chiedergli di presenziare alla visita trimestrale di idoneità. Alberto appariva come un automa di un metro e ottantacinque, capelli a spazzola color topo anemico, occhi marroni vistosamente miopi ingigantiti da lenti spesse come fondi di bottiglia in una montatura tartaruga che doveva essere costata il carapace di molte bestiole. Le mani ricoperte di spessi peli neri che, più in alto, univano le sopracciglia in un unica linea delimitante insieme ad un’attaccatura dei capelli particolarmente bassa una fronte più adatta ad un progenitore del paleolitico.

Pensando che a tali individui fosse affidato il controllo dei motori degli aerei Biagioli si ripromise di rinunciare per sempre a quel genere di mezzo di trasporto. La sola presenza di Alberto con la sua goffagine, in effetti, creava tutto intorno un senso di imbarazzo. La visita ebbe come risultato l’obbligo per Alberto di una ulteriore valutazione specialistica e testistica da eseguirsi presso il CIM di Monticelli, nonostante lui non avesse manifestato alcun disagio e nulla gli fosse stato contestato.

Al contrario di quanto il colonnello e Biagioli si aspettavano Alberto non si meravigliò e accettò di buon grado segnando sul suo telefonino giorno e orario dell’appuntamento.. Era convinto che “loro” si fossero finalmente convinti ad iniziare il vero addestramento. Del resto erano giorni che gli mandavano segnali inequivocabili. I genitori non lo chiamavano da tre giorni e ciò significava che doveva abituarsi a fare a meno di loro anche per lunghi periodi durante le future missioni. A mensa la cameriera gli aveva detto che l’ampolla era sul tavolino ad indicare che tutto andava liscio come l’olio e non c’erano più ostacoli. La macchina al mattino aveva stentato a mettersi in moto, offesa dalla consapevolezza che presto sarebbe stata sostituita da un nuovo mezzo di servizio pluriaccessoriato. Nella base tutti lo guardavano, chiaro segno che la voce della sua scelta si era diffusa. Carla una ragazza che aveva conosciuto l’anno precedente al mare le aveva scritto Tronto. Cos’altro poteva significare se non che venuta a conoscenza della sua nuova prospettiva di vita lo lasciava libero dalle promesse matrimoniali che gli aveva mentalmente fatto il giorno dopo aver trascorso una notte di passione con il suo costume sottratto dallo stendino dietro le cabine.

In numerosissime occasioni la parola svolta si era presentata quel giorno, nei giornali radio, nei commenti dei colleghi al campionato, nei segnali stradali. Più volte negli ultimi giorni gli era capitato di guardare l’ora quando i minuti erano pari alle ore (ad esempio 9.09; 11.11; 20,20) stando ciò a significare che l’ora era giunta o anche che non c’era un minuto da perdere. Nè il colonnello nèe Biagioli sospettavano la presenza di questo ricchissimo mondo delirante.

Se ne avvide l’azzimato dottor Iraci mentre sottoponeva Alberto ai test di personalità. Non tanto per il loro risultato ma perchè Alberto gli disse che nella sua distaccata freddezza( che al CIM veniva considerata odioso snobismo) aveva riconosciuto l’inconfondibile segno della razza superiore. Era lui dunque quello che sottoponendolo ad un ultimo esame lo doveva introdurre alla sua nuova vita . A questa affermazioni Irati ribatte che per tutto ciò avrebbero dovuto vedersi un certo numero di volte per conoscersi e prepararsi al meglio. Dopo tanti anni di professione Giuseppe ancora rimaneva affascinato dall’improvviso manifestarsi di un delirio dietro una facciata di normalità.

Quell’improvvisa epifania di un mondo altro gli incuteva rispetto, soggezione sconfinante con la paura di perdercisi e l’infinita curiosità che l aveva spinto a questa professione. Per un paio di mesi passeggiarono insieme nel rigoglioso giardino del suo delirio. Giuseppe aveva chiarito di comprendere perfettamente i problemi e le angosce di Alberto ma di non condividerne le spiegazioni che gli diceva esplicitamente frutto della sua follia. Dopo un po’ lo stesso Alberto che a dispetto della fronte neandertaliana non era affatto stupido, iniziò a chiamare, un po’ per scherzo un po’ sul serio “la mia follia” le varie interpretazioni deliranti.

Il lavoro che procedeva positivamente fu interrotto per un malaugurato incidente che esitò in un trattamento sanitario obbligatorio di 5 giorni allo scopo di evitare una denuncia per atti osceni in luogo pubblico che ne avrebbe pregiudicato il posto di lavoro. Alberto era stato sorpreso a masturbarsi, cronometro alla mano (per la questione del recupero del tempo lavorativo sottratto per questioni personali) nei bagni della base abbracciato teneramente agli anfibi del sottotenente medico Maria Lamantia di Cosenza una baffuta 35enne calabrese che avrebbe ricordato l’episodio come il vertice dell’eccitazione sessuale che avesse mai provocato in un uomo. La collega fu convinta da Irati a non sporgere denuncia e si dimostrò persino premurosa andando a trovare Alberto nei 5 giorni di ricovero all’SPDC. In fondo il ragazzone non era niente male.

La relazione terapeutica ne uscì rafforzata e il vagabondaggio nel mondo delirante proseguì ad esplorarne i confini. “Loro” erano in molti prevalentemente ben intenzionati e lo spingevano a comportarsi bene senza trasgredire alcuna regola. Tra loro c’era lo spirito dei genitori e di tutti i suoi insegnanti, maestri e catechisti. Sapevano del suo diavoletto trasgressivo e lo aiutavano a tenerlo a freno. Quando lo ostacolavano o facevano dispetti volevano semplicemente metterlo alla prova per rafforzarlo. Erano insomma una guida severa ma benevola che, ad esempio, non sollevavano nessuna biezione sulla masturbazione vista anzi come un mantenersi in allenamento in vista del matrimonio e della produzione di nipotini.

“Loro” erano comparsi per la prima volta durante la straziante solitudine nel periodo del collegio aeronautico e si limitavano ai tre familiari. Si ripresentarono poi arricchiti di numero nelle situazioni nuove con un doppio ruolo. Da un lato erano dei suggeritori che consigliavano come comportarsi spiegandogli il significato delle situazioni che a lui era oscuro. Dall’altro erano dei giudici severi che lo aiutavano a rigare dritto. La loro presenza si moltiplicava nei periodi in cui provava interesse per una donna. La donna , terreno completamente sconosciuto, incrementava le angosce di imprevedibilità e di non contenimento dei suoi colpevoli impulsi. Alberto non sentiva “loro” come minacciosi ma sentiva pesante questa continua presenza che ad un certo punto aveva iniziato a controllargli il pensiero. Rubarne alcuni e inserirne altri non suoi. A quel punto Irati provo a proporre l’utilizzo di farmaci ma rinunciò per non compromettere la relazione terapeutica.

Il lavoro psicoterapeutico si muoveva lungo tre principali direttrici. In primo luogo si trattava di riconoscere come propri gli impulsi negati tra cui primeggiava non quello sessuale ma di affiliazione, appartenenza, attaccamento che aveva dovuto disconoscere al momento del collegio. Ora ricordava intere giornate passate a piangere, una completa anoressia e la comparsa dell’enuresi. Tutte cose che non aveva mai detto ai genitori certo che sarebbero state motivo di riprovazione. A questo bisogno di accettazione andava ricondotto anche il perfezionismo e tutti i rituali ossessivi.

In secondo luogo evidenziare e allentare il rigido sistema di regole che governavano la sua esistenza che non conosceva il piacere ma esclusivamente il dovere. Le esperienze di abbandono erano un nodo irrisolto da cui si limitava a fuggire evitando qualsiasi intimità per il timore della perdita.

In terzo luogo il potenziamento dell’autostima che rendesse inutile il delirio narcisistico di essere destinato ad una missione speciale da supersoldato che riprendeva il tema coltivato sin da piccolo con il fratello di appartenere ad una razza superiore ed estranea. Un tentativo di migliorare le social skill , carenti sin da piccolissimo, con l’inserimento in un gruppo ad hoc fu interrotto per l’attivarsi di un comportamento di stalking nei confronti di Gilda che animava il gruppo.

Giuseppe Irati aveva predetto ad Alberto che un giorno se ne sarebbe andato senza salutare essendo per lui intollerabili i distacchi. E che ciò sarebbe avvenuto quando avesse sentito la relazione con lui profonda ed intima e dunque pericolosa. Avvenne esattamente così.

Il colonnello Cottone avvisò Biagioli che Alberto non si presentava al lavoro da una settimana e, nello stesso periodo aveva interrotto ogni contatto con il CIM. Temendo il peggio furono attivate delle ricerche da parte delle forze dell’ordine. irati si sentiva in colpa per il mancato uso dei farmaci. Si aspettava da un giorno all’altro la notizia del ritrovamento di un corpo.

Si dovette aspettare cinque anni prima che arrivasse una lettera dalla Norvegia. Dopo la morte improvvisa per incidente automobilistico dei suoi Alberto, riscossa la modesta eredità si era trasferito in una piccola base dentro il circolo polare artico dove faceva il meccanico per gli avventurosi esploratori. Passarono altri dieci anni prima che giungesse la lettera che permise la chiusura della cartella clinica. In uno stentato inglese diceva che il papà era precipitato durante un volo di collaudo e tra le sue cose Olof aveva trovato l’indirizzo del dr. Giuseppe irati con sotto scritto “ da ringraziare per quanto fatto”. Quando arrivò non molti si ricordavano del caso di Alberto. Biagioli pensò che in fondo era andato a vivere quasi tra i marziani e la scarsa densità della popolazione gli aveva consentito di trovare la distanza giusta dalle persone.

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LEGGI ANCHE:

CENTRO DI IGIENE MENTALE – CIM

GRIN2B mediates susceptibility to IQ and cognitive impairments in Developmental Dyslexia

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

GRIN2B mediates susceptibility to IQ and cognitive impairments in Developmental Dyslexia

Autori: Sara Mascheretti, Andrea Facoetti, Roberto Giorda, Silvana Beri, Valentina Riva, Vittoria Trezzi, Maria R. Cellino, Cecilia Marino

Department of Child Psychiatry, Scientific Institute ‘Eugenio Medea’, Bosisio Parini (Lecco), Italy

Developmental and Cognitive Neuroscience Lab, Department of General Psychology, University of Padua, Padua, Italy

Molecular Biology Laboratory, Scientific Institute ‘Eugenio Medea’, Bosisio Parini (Lecco), Italy

Centro Regionale di Riferimento per i Disturbi dell’Apprendimento – CRRDA, ULSS 20, Verona, Italy

Centre de recherche de l’Institut universitaire en santé mentale de Québec, Québec (Québec), Canada

Département de Psychiatrie et Neurosciences, Faculté de Médecine, Université Laval, Québec (Québec), Canada

 

Abstract

Objective(s) Developmental dyslexia (DD) is a complex heritable condition associated with impairments in multiple neurocognitive domains. Substantial heritability has been reported for DD and related phenotypes, and candidate genes have been identified. Recently, a candidate gene for human cognitive processes, i.e., GRIN2B, has been found significantly associated with working memory in a German DD sample. In this study, we explored the contribution of six GRIN2B markers to DD and key DD-related phenotypes by association analyses in a sample of Italian nuclear families. Moreover, we assessed potential gene-by-environment interactions on DD-related phenotypes.
Methods We performed a family-based association study to determine whether the GRIN2B gene influence both DD as a categorical trait and its related cognitive traits, in a large cohort of 466 Italian nuclear families ascertained through a proband affected by DD. Moreover, we tested the role of the selected GRIN2B markers and a set of commonly-described environmental moderators, by applying a test for GxE interaction in sib pair-based association analysis of quantitative traits in 178 Italian nuclear families.
Results Evidence for significant association were found with the categorical diagnosis of DD, performance IQ, phonemic elision and auditory short-term memory. No significant gene-by-environment effects were found.
Conclusions Our results add further evidence in support of GRIN2B contributing to DD and deficits in DD. More specifically, our data support the view that GRIN2B influences DD as a categorical trait and its related quantitative phenotypes, thus shedding further light into the etiologic basis and the phenotypic complexity of this disorder.

Key Words: Developmental Dyslexia; Developmental Dyslexia-related neuropsychological traits; GRIN2B; N-methyl-D-aspartate receptors; association study; gene-by-environment interaction. 

Riassunto

Obiettivo: La Dislessia Evolutiva (DD) è una condizione complessa ed ereditabile associata a deficit in differenti domini neurocognitivi. E’ stata riscontrata una significativa ereditabilità sia nella Dislessia Evolutiva che nei fenotipi ad essa associati. Recentemente, un gene implicato nelle fasi del
neurosviluppo, e.i., GRIN2B, è stato osservato essere significativamente associato alla memoria di lavoro in un campione di dislessici tedeschi. In questo studio abbiamo esplorato il contributo di sei marcatori del gene GRIN2B sulla DD e dei principali fenotipi associati alla Dislessia Evolutiva per mezzo di analisi di associazione genetica in un campione di famiglie nucleari italiane.
Metodi: Abbiamo messo a punto uno studio di associazione family-based per determinare se il gene GRIN2B influenza sia la DD come tratto categoriale sia i tratti cognitivi ad essa correlati, in un ampio campione di 466 famiglie nucleari italiane accertate per mezzo di un probando affetto da DD. Inoltre abbiamo testato il ruolo di specifici marcatori del gene GRIN2B e una serie di moderatori ambientali comunemente descritti, applicando test per l’interazione GxE utilizzando analisi di associazione con coppie di fratelli in 178 famiglie nucleari italiane.
Risultati: Sono state trovate evidenze di associazioni significative tra la diagnosi categoria di DD, QI di Performance, elisione fonemica e memoria a breve termine uditiva. Non son stati riscontrati effetti di interazione gene-ambiente.
Conclusioni: I nostri risultati aggiungono una forte evidenza in supporto al contributo del gene GRIN2B sulla DD e sui deficit associate alla DD. Più specificatamente, i nostri dati supportano la teoria per cui il gene GRIN2B influenza la DD come tratto categoriale e i fenotipi ad essa associati. Tali risultati ci permettono di gettar luce sulle basi eziologiche e sulla complessità fenotipica di questo disturbo.

Parole chiave: Dislessia Evolutiva; Dislessia Evolutiva – tratti neuropsicologici correlati; GRIN2B; recettori N-methyl-D-aspartate; studio di associazione; interazione gene-ambiente.

 

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DISLESSIADISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO

NEUROPSICOLOGIA

La paura nel cervello: nuove scoperte sul circuito cerebrale salva-vita – Neuropsicologia

FLASH NEWS

L’area PVT è altamente sensibile agli stimoli di minaccia e pericolo, e in particolare i neuroni di quest’area sarebbero in connessione con la parte centrale dell’amigdala, sede principale delle nostre memorie emotive.

La paura e il sistema “fight or flight” rappresentano i nostri fondamentali evolutivi.  Ma cosa accade nel nostro cervello quando scatta l’allarme “paura” per mobilitare tutte le risorse e per ricordarci di evitare i pericoli in futuro?

Un articolo pubblicato su Nature ha indagato il ben noto ma non ancora esaurito tema della paura e delle sue attivazioni cerebrali, identificando a livello cerebrale un nuovo circuito salva-vita deputato al riconoscimento e alla memorizzazione dei pericoli, nonché al loro fronteggiamento.

Lo studio – condotto sui topi cui venivano somministrate lievi scosse elettriche-  ha analizzando l’area talamica, in particolare il nucleo paraventricolare del talamo (PVT), un’area che si attiva in relazione a eventi fisici stressanti. I risultati hanno confermato che l’area PVT è altamente sensibile agli stimoli di minaccia e pericolo, e in particolare i neuroni di quest’area sarebbero in connessione con la parte centrale dell’amigdala, sede principale delle nostre memorie emotive.

Attraverso una serie di esprimenti che inibivano la comunicazione tra i neuroni dell’area PVT talamica e l’amigdala è stato dimostrato che il talamo gioca un ruolo fondamentale tanto quanto l’amigdala nel condizionare il soggetto rispetto a certe minacce e anche nella ritenzione mnestica delle stesse.

 

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Paura, Traumi, Ossessioni. Esposizioni in Psicoterapia: effetti sul cervello di Emiliano Toso – Recensione

 

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Depressione & Neuroscienze: l’imaging cerebrale per capire se la psicoterapia è stata utile

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Una tecnica di imaging cerebrale viene usata per sapere quale trattamento sia il più indicato per il singolo paziente. Si evitano tentativi inutili e perdite di tempo

 

In futuro saremo in grado di utilizzare la tecnologia di imaging cerebrale non invasiva per trovare per i pazienti con l’opzione di trattamento che ha le migliori possibilità di guarirli dalla depressione

Depressione & Neuroscienze: l’imaging cerebrale per capire se la psicoterapia è stata utile Consigliato dalla Redazione

Una tecnica di imaging cerebrale che potrebbe essere utilizzata per scegliere la terapia più adatta per ogni paziente (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Il Neuromarketing: tra spiritualità e shopping

Gianluca Minucci, Valeria Zauli

Le emozioni provate di fronte a prodotti come l’iPhone oppure una bottiglia di Coca-cola sono simili a quelle generate da simboli religiosi come la bibbia o le croci (Lindstorm, 2009).

Cosa ci porta ad attribuire un certo valore ad un prodotto e poi a decidere di acquistarlo? La risposta dimora in alcuni circuiti e sistemi cerebrali interconnessi che lavorano nell’amalgamare pensieri, desideri, memorie ed emozioni creando il substrato delle nostre azioni e decisioni. Le scienze che oggi si occupano dello studio del comportamento dei consumatori cercano di trovare i meccanismi e i processi che regolano “l’ingranaggio dell’acquisto” e che determinano le scelte che prendiamo ogni giorno. Tra queste una delle più attuali è il Neuromarketing, un connubio particolare tra neuroscienze e marketing.

Secondo Antonio Damasio, gran parte dei nostri processi di apprendimento avviene in una dimensione implicita e inconscia (Damasio, 2000). Di conseguenza noi consumatori non siamo sempre consapevoli dei nostri bisogni e non riconosciamo completamente il perché dei nostri acquisti; quindi, a determinare la scelta del prodotto non sarebbero le considerazioni razionali del consumatore, bensì un insieme di desideri e di emozioni di cui non sempre si ha coscienza. Il cervello ci rivela che non acquistiamo un prodotto solo in base alle sue caratteristiche, alla funzione, al prezzo o alla potenza di uno spot pubblicitario; le nostre preferenze si strutturano attraverso un rapporto intuitivo con il marchio.

Secondo quanto riscontrato da Christophe Morin (Morin, 2007), tutte le esperienze relazionate ad un brand contribuiscono a costruire la nostra percezione dello stesso e vanno a definire i contorni del nostro atteggiamento nei confronti di quella marca. Compriamo un particolare tipo di jeans non solo perché ci piace il modo in cui li indossiamo ma in base a come questi ci definiscono in termini di gusto personale e di riconoscimento sociale.

Il neuromarketing si affida principalmente alla risonanza magnetica funzionale (fMRI), che consente di studiare se un prodotto o uno spot viene percepito come “accattivante” dal consumatore poichè in grado di attivare il circuito cerebrale della ricompensa (i neuroni dopaminergici dell’area tegmentale ventrale (VTA), i quali proiettano alle aree prefrontali e al nucleo accumbens) e le aree visive (Berridge & Kringelbach, 2008). Analizza inoltre il modo in cui odori, luci, colori e gusto influenzano le decisioni e la motivazione delle persone.

Quali sono le nostre reazioni cerebrali alla vista di Brand molto conosciuti? Accendendo la tv o passeggiando per le città, ci rendiamo conto che esistono migliaia di marche identificate da un simbolo (si pensi alla famosa “mela”) ma solo poche rimangono nella nostra testa, la maggior parte finisce nel dimenticatoio. I brand possono essere distinti in brand forti, ovvero quelle marche che evocano una potente risposta emotiva oltre che cognitiva come ad esempio Apple, Harley-Davidson e Coca-cola, e brand deboli.

Facendo visionare delle immagini di brand forti a soggetti sottoposti ad fMRI, si è notato che i brand forti, attivano molte aree del cervello deputate alla memoria (ippocampo), alle emozioni (nucleo caudato) ed ai processi decisionali (corteccia prefrontale), in maniera più intensa rispetto a brand deboli. Ma c’è di più, quando questi stessi soggetti hanno visionato delle immagini religiose, il loro cervello mostrava l’attivazione delle stesse aree di quando hanno visionato dei brand forti. Le emozioni provate di fronte a prodotti come l’iPhone oppure una bottiglia di Coca-cola sono simili a quelle generate da simboli religiosi come la bibbia o le croci (Lindstorm, 2009).

Il neuromarketing è una disciplina che sta ricevendo molte attenzioni da parte delle aziende in quanto può rivelarsi uno strumento estremamente utile e affidabile per creare prodotti, servizi, spot pubblicitari e campagne di marketing di successo.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Fare acquisti usando il cervello: Neuromarketing by Martin Lindstrom

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Berridge K. C., Kringelbach M. L. (2008). Affective neuroscience of pleasure: reward in humans and animals, Psychopharmacology
  • Damasio A., (2000). The Feeling of What Happens: Body and Emotion in the Making of Consciousness. Mariner Books
  • Lindstrom M. (2009). Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto, Apogeo
  • Morin C., Renvoise P. (2007). Neuromarketing: Understanding the Buy Buttons in Your Customer’s  Brain. Thomas Nelson Inc.

Corso di meditazione di mindfulness: conosco, conduco, calmo il mio pensare (2014) – Recensione

Il libro di Ennio Preziosi è un manuale di auto aiuto, attivo e interattivo che ci guida alla pratica mindfulness attraverso un percorso di otto settimane di meditazione guidata.

Cos’è la mindfulness? Come si fa? Da dove viene? Chi può praticarla? A chi può essere utile?

Dalle radici antiche nelle pratiche meditative delle religioni orientali fino ai più moderni studi delle neuroscienze, la mindfulness è una pratica sempre più riconosciuta ed utilizzata per i suoi benefici a livello cognitivo.
Il libro di Ennio Preziosi è un manuale di auto aiuto, attivo e interattivo che ci guida alla pratica mindfulness attraverso un percorso di otto settimane di meditazione guidata. Il libro è correlato da otto tracce audio da scaricare e da un diario di monitoraggio della meditazione da compilare giornalmente.
Le otto settimane di esercizio sono accompagnate da un’autovalutazione psicologica iniziale e finale nella quale sono presenti alcuni test di tipo clinico, che servono a definire per quali aree di intervento può essere più utile la pratica mindfulness e a rilevare i progressi nella pratica meditativa. Inoltre è presente una parte psicoeducativa, un inventario delle emozioni e del pensiero, dove il paziente viene invitato a riflettere sulle emozioni della rabbia, della tristezza e della paura, sui pensieri ossessivi, sui pensieri anticipatori e sul rimuginio.

Il libro è rivolto senz’altro anche ai neofiti della meditazione, in quanto ogni passaggio è spiegato in modo semplice, ma dettagliato.
Partendo da queste premesse il libro è pensato come una guida per un paziente che si rivolge ad un terapeuta per svariate problematiche.

Il primo esercizio è quello della meditazione sul corpo o body scan. Il paziente per una settimana si allena alla meditazione, cogliendo le sensazioni che vengono spontaneamente dal corpo, osservando i pensieri che lo distraggono, imparando piano piano a selezionare il campo attentivo della propria esperienza e comincia ad imparare a distanziarsi dai pensieri e a non percepirli come fatti.
Complementare a questa esperienza meditativa viene offerta una guida per riconoscere e differenziare le emozioni e per riconoscerne le componenti corporee. Tristezza, rabbia, felicità, senso di colpa etc., vengono analizzate rispetto alle loro caratteristiche nell’espressione e nella percezione corporea, alla loro conseguenza sul nostro umore, alla loro capacità di estinguersi o autoalimentarsi.
Il corso continua poi con una settimana di meditazione sul respiro, e una settimana di meditazione sul respiro di tre minuti; queste pratiche favoriscono il passaggio dalla modalità del fare alla modalità dell’essere, modalità di attenzione non giudicante (osservo i pensieri, non vi reagisco) e di presenza mentale (osservo ciò che c’è e ciò che ho).

La quarta settimana è il momento di esercitarsi a giudare l’attenzione sul respiro, sui pensieri, sul corpo o sui suoni, per ricordarci l’importanza della presenza mentale, o come viene chiamata della modalità on-line, contrapposta al pilota automatico, in ogni istante della nostra esistenza, mentre mangio, mentre faccio la doccia o mentre cammino, come verrà riproposto nella meditazione in movimento della settima settimana e nella meditazione dell’uvetta dell’ultima settimana del corso.
La meditazione della montagna infine è una tecnica di visualizzazione che ci conferisce un forte senso di stabilità e di fermezza, che ci aiuta a essere pronti di fronte alle turbolenze esistenziali.

A favore dei benefici della pratica mindfulness viene riportata una completa rassegna bibliografica di più di ottocento pubblicazioni che vanno dal 1980 al 2013 che indagano le principali aree di applicazione della mindfulness nella medicina e nelle scienze cognitive, come ad esempio i disturbi d’ansia e depressione, il disturbo borderline, la gestione del dolore cronico etc.

Con la pratica mindfulness possiamo sostituire alla consueta modalità di pilota automatico di utilizzare la nostra mente, la contrapposta modalità mindful dove i pensieri sono osservati e lasciati andare, senza intervenire su di essi, senza porvi la nostra attenzione, senza cadere nella trappola del rimuginio e senza essere giudicati. La pratica mindfulness mira a determinare una nuova dimensione osservativa della propria esperienza sensoriale, cognitiva ed emotiva, che porta ad una nuova consapevolezza, benevola e non giudicante di se stessi e della propria esistenza.

 

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Gli interventi basati sulla mindfulness (2011) di Alberto Chiesa – Recensione

BIBLIOGRAFIA:

  • Preziosi, E. (2014). Corso di meditazione di mindfulness. Conosco, conduco, calmo il mio pensare. Franco Angeli Editore: Milano.  ACQUISTA ONLINE

La mania dei Selfie e la correlazione con Narcisismo e Psicopatia

FLASH NEWS

E con questa mania dei selfie quanto c’entra il narcisismo?
Sembra che i più narcisiti siano gli uomini che non tanto si fanno i selfie, ma che una volta scattato il click lo postano sui social networks.

La ricerca che lo dimostra è pubblicata sulla rivista Personality and Individual Differences. Gli autori hanno preso come riferimento la cosiddetta Dark Triad delle personalità che include – anche a livello subclinico- il machiavellinismo, il narcisismo e la psicopatia (Paulhus & Williams, 2002).

I machiavellici sono strategici e cinici, cercano la soddisfazione dei propri bisogni con scarsi vincoli morali e manipolando gli altri. Nel narcisista prevale la percezione di grandiosità e di superiorità rispetto agli altri, tuttavia con un senso di insicurezza. Infine, la psicopatia che comporta scarsa empatia, comportamenti impulsivi e thrill-seeking con scarsa considerazione degli altri.

La ricerca è stata condotta mediante una survey on-line e ha coinvolto un campione di uomini americani di età compresa tra i 18 e i 40 anni attraverso misurazioni self-report. Tra gli strumenti di misura vi è il questionario Dirty Dozen, composto da 12 items che misurano il machiavellinismo, il narcisismo e la psicopatia.

Gli esiti dello studio, dunque, sono interessanti poiché evidenziano una correlazione tra narcisismo e la tendenza a condividere selfie sul web. I più narcisisti sono non tanto coloro che si fanno i selfie e se li tengono sul cellulare ma quelli che, fatto il selfie, sentono l’impulso incontrollabile di postarlo da qualche parte in rete. Gli stessi soggetti avrebbero anche punteggi elevati nella psicopatia, dimensione spesso associata a elevata impulsività. In nessun caso, invece, si rilevano correlazioni con la dimensione del machiavellinismo. Il campione è esclusivamente maschile ma gli autori stanno già raccogliendo i dati relativi alla relazione tra selfie-mania e narcisismo nelle donne.

 

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La sindrome del selfie – Social Network & narcisismo – Psicologia

BIBLIOGRAFIA:

Psicopatologia in tempo di crisi: stress, vulnerabilità e resilienza – SOPSI 2015

Psicopatologia in tempo di crisi: stress, vulnerabilità e resilienza

Presentazione del 19° Convegno Nazionale della Società italiana di Psicopatologia (SOPSI)

Si è svolta mercoledì 4 febbraio la conferenza stampa indetta dalla SOPSI per presentare alcuni dei temi che verranno approfonditi durante il Congresso che avrà luogo a Milano presso il MiCo, dal 23 al 26 febbraio 2015.

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Oggi presso il Circolo della Stampa di Milano sono intervenuti A. Carlo Altamura, Professore Ordinario di Psichiatria dell’Università di Milano e Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Salute Mentale della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, in veste di moderatore del dibattito, Alessandro Rossi, Professore Ordinario di Psichiatria presso l’Università degli Studi dell’Aquila e Alberto Siracusano, Ordinario di Psichiatria e Direttore del Dipartimento di Medicina dei Sistemi presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata.

Il professor Altamura ha dato inizio alla discussione presentando il Convegno annuale come il risultato di tutte le attività di ricerca e di clinica sulla salute mentale che la SOPSI promuove, attività che hanno sempre come punto focale l’evoluzione dei fenomeni culturali e sociali, col fine di organizzare strategie di cura efficaci, in un ottica di novità e rinnovamento del pensiero psichiatrico.

 LEGGI ANCHE: CONGRESSO SOPSI 2014 TORINO

La crisi del sistema globale che il mondo occidentale sta attraversando, legata ai cambiamenti economici e degli stili di vita, ha avuto delle ricadute anche sulla salute mentale delle persone. Al mutamento della società corrisponde sempre un’evoluzione del disturbo mentale, aggravando alcune patologie e slatentizzandone di nuove.

Queste considerazioni hanno condotto alla scelta dei temi che verranno discussi quest’anno durante il convegno: stress, vulnerabilità e resilienza. Le statistiche, infatti, mostrano un aumento della sintomatologia: suicidi, alcolismo, disturbi del sonno e patologie cardiovascolari. La situazione attuale non solo deve essere tenuta sotto controllo, ha continuato il Professore, ma bisogna effettuare un lavoro congiunto che coinvolga figure diverse, come psichiatri, psicologi, medici e operatori sociali, per affrontare le patologie correlate a questo momento storico.

CONSIGLIATO: Le reti di Berna: prevenire il rischio di suicidio intervenendo sul contesto

Nel suo intervento, il Professor Rossi ha parlato del fatto che le conseguenze psicologiche e psicopatologiche agli eventi traumatici non colpiscono i soggetti in maniera uniforme. L’esposizione ad un trauma, per quanto grave, non comporta obbligatoriamente l’esordio di un disturbo mentale.

L’entità e le conseguenze di uno stress dipendono da fattori di vulnerabilità e protezione. Tra i fattori di protezione, gioca un ruolo fondamentale quello della resilienza, cioè la capacità di un organismo, di fronteggiare e riprendersi dall’effetto di un evento perturbante negativo, resistendo, adattandosi e rigenerandosi. Per il Professor Rossi, un individuo resiliente è una persona dotata di coerenza, orientata al compito, capace di resistere alle avversità, perseverando con fiducia nel raggiungimento del successo, ma anche un individuo con una buona rete e competenze sociali.

Chi è in grado di mettere in atto la resilienza non solo è capace di affrontare una crisi, ma può anche raggiungere un livello funzionale migliore di quello di partenza. Per i professionisti della salute mentale è quindi fondamentale, ha concluso il Professor Rossi, intervenire su questo costrutto sviluppando strategie psicoterapeutiche specifiche volte ad aumentarla. La sfida per il futuro è l’implementazione della metodologia, lo sviluppo di strumenti in grado di misurare la resilienza, in modo da promuovere dei training che addestrino il soggetto a questa capacità.

 

Anche secondo il Professor Alberto Siracusano, l’interrelazione tra gli stress bio-psico-sociali e la vulnerabilità del funzionamento sociale e individuale devono guidare la strutturazione degli interventi terapeutici. Oggetto del suo intervento è stato la paura.

Se storicamente è l’angoscia di morte a guidare l’individuo, nella modernità a spaventarlo è la vita stessa.

Secondo il Professore non è stato tanto l’impatto della crisi in sé a promuovere il disagio mentale, quanto lo stato di incertezza nei confronti del futuro. Sono i pazienti della post-modernità, quelli che si sono trovati a vivere in un tempo in cui sono venuti a mancare modelli forti di identificazione, che non possono più contare sulla famiglia tradizionale e che considerano il “lavoro sicuro” una chimera.

La paura è diventata liquida, per usare l’espressione del sociologo Bauman: diffusa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, non riconducibile a un motivo, ma che perseguita senza una causa. La minaccia che intravediamo è ovunque e non è mai intercettabile in maniera chiara. La nostra società è costantemente sottoposta a diversi tipi di violenze, come ha illustrato l’antropologo Marc Augè: violenze economiche e sociali, violenze politiche, legate al razzismo e al terrorismo, violenze tecnologiche e naturali. La violenza genera paura, stress, ansia, un habitat ideale per lo sviluppo della malattia mentale.

Negli ultimi anni l’apporto delle neuroscienze è stato importante per capire i meccanismi di funzionamento e sviluppo della paura. Il professor Siracusano ha citato, a questo proposito, il lavoro di Joseph LeDoux: se da un lato è appurato il ruolo centrale dell’amigdala (Li et al., 2013), dall’altro l’attivazione di questa area, da sola, non è sufficiente a provocare quest’emozione. Una spiegazione è che la natura della paura moderna, non dipenda dal solo stimolo, dall’allarme concreto presente nell’ambiente, ma che sia legata a questioni individuali ed esistenziali più profonde, che riguardano i circuiti cerebrali superiori, in particolare a livello pre-frontale.

L’emozione della paura diventa così un sentimento complesso e come tale va trattato a livello di intervento terapeutico.

La mattinata ha promosso molti spunti di riflessione: “Un antipasto, di quello che sarà servito durante il Convegno” come ha terminato nei saluti il Professor Altamura.

 

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICHIATRIANEUROSCIENZE

BIBLIOGRAFIA:

  • Augè M., “Le nuove paure. Che cosa temiamo oggi?”, Bollati Boringhieri, 2013.
  • Li H. et al., Experience – dependent modification of a central amygdala fear circuit. Nat Neurosci, 2013; 16:332-9
  • Zygmunt B., “Paura Liquida”, ed. Laterza, 2008.

 

Forse siamo pronti a chiudere gli ex manicomi criminali

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

La data ultima è il 31 marzo 2015. Dal 1 aprile gli Ospedali psichiatrici giudiziari, Opg, non dovrebbero più esistere. O almeno questo è quello che prevede la legge 81 del 2014, dopo che per ben due volte la chiusura delle strutture è stata spostata in avanti. È successo il 31 marzo 2013, e la stessa cosa è avvenuta l’anno dopo. Le immagini di abbandono e disperazione filmate nei vecchi manicomi criminali dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Ignazio Marino avevano portato l’argomento alla ribalta. Ma nonostante il decreto “svuota carceri” avesse già stanziato oltre 270 milioni spalmati tra il 2012 e il 2013, per ben due volte le regioni si sono fatte trovare impreparate ad accogliere nelle strutture sanitarie del territorio i pazienti autori di reato internati negli Opg.

Il 5 febbraio, il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo in un incontro con i comitati per la chiusura degli Opg ha confermato che non ci saranno altre proroghe e che saranno possibili commissariamenti per le regioni inadempienti. La realtà, al momento, è che quasi nessuna regione ha ultimato la realizzazione delle strutture sostitutive, ma la maggior parte ha presentato percorsi di cura individuali nelle strutture sanitarie del territorio per i pazienti ritenuti “dimissibili”, che sono più di 400 su 780. Per gli altri, l’ipotesi più plausibile è che saranno messe a disposizione strutture provvisorie in attesa di realizzare le cosiddette Rems, Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza. E qui il rischio è la riproduzione, seppur in piccolo, del funzionamento degli Opg. Tanto che dal Senato stanno pensando a una nuova commissione di inchiesta che monitori le nuoe strutture. «Sembra ripetersi quello che è accaduto con la legge Basaglia», dice Cesare Bondioli, psichiatra membro dell’associazione Psichiatria democratica, fondata da Franco Basaglia. «La legge era del 1978, ma la parola fine per i manicomi è stata messa nel 1999, con la chiusura di Siena, dopo che la finanziaria ha detto che le regioni inadempienti sarebbero state commissariate e penalizzate nei trasferimenti statali». 

In ogni caso, per evitare la sorpresa di un’altra proroga, il comitato Stop Opg propone alle altre associazioni attente al tema un digiuno a staffetta per tutto il mese di marzo. Oltre che un monitoraggio dei nuovi istituti a partire da aprile 2015. «Il rischio è che dopo il 31 marzo si spengano di nuovo i fari su queste realtà», dice Stefano Cecconi, portavoce del Comitato Stop Opg, «e che si ripropongano le logiche da manicomio criminale». 

Regioni in ritardo e soluzioni “provvisorie” Il problema è che nell’ultimo anno il trend degli ingressi non è stato invertito: su 67 dimissioni ci sono stati 84 nuovi detenuti che hanno varcato i cancelli dei sei Opg sparsi in tutta Italia, nonostante la legge chiedesse di dare priorità alle misure alternative. Nell’Opg Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, dove la Commissione Marino trovò 329 malati e un solo medico, neppure psichiatra, è stata addirittura aperta una nuova ala femminile da 12 posti, facendo pure trasferire alcune pazienti dall’Opg di Mantova (l’unico fino ad allora ad avere una sezione dedicata alle donne)…

Forse siamo pronti a chiudere gli ex manicomi criminaliConsigliato dalla Redazione

La data ultima è il 31 marzo. Il rischio è che le strutture sostitutive siano riproduzioni degli Opg (…)

Tratto da: Linkiesta.it

 

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Multitasking: quali sono le conseguenze sul cervello?

Dai risultati emerge che coloro i quali sono impegnati in attività di multitasking hanno meno materia grigia in una zona del cervello denominata corteccia cingolata anteriore (ACC), che è coinvolta nell’elaborazione del pensiero e nel controllo emotivo.

 

GLI EFFETTI DEL MULTITASKING

 

 

Multitasking: quali sono le conseguenze sul cervello?Consigliato dalla Redazione

Come agisce il multitasking sulla materia grigia? Le scoperte di una nuova ricerca pubblicata su PloS ONE (…)

Tratto da: scienzaesalute

 

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Multitasking: uomini e donne a confronto.
Il multitasking è ormai una realtà diffusa tra lavoratori di tutte le età e di entrambi i sessi; la American Sociological Review ha pubblicato i risultati di un ampio studio che ha trovato importanti differenze nella percezione, e nella tolleranza, che madri e padri hanno allo svolgimento di più lavori contemporameamente.

ABC delle mie emozioni: alfabetizzazione socio-affettiva secondo il modello REBT

Questo testo si presenta dalle prime pagine come un contributo chiaro e operativo che offre al lettore preziosi strumenti di lavoro per chi desidera, in un contesto di coaching o di psicoterapia, favorire nel bambino la conoscenza dei propri vissuti emotivi e soprattutto la sua capacità di superare le emozioni dannose in favore di una vita emotiva quanto più possibile positiva.

La ricerca scientifica ha infatti dimostrato che insegnare al bambino a pensare in positivo garantisce non solo una crescita armonica sul piano psicoaffettivo, ma rende anche più probabile una vita relazionale soddisfacente da adulto.

L’autore Mario di Pietro, Psicologo e Psicoterapeuta specializzato nella gestione di problematiche emotive e comportamentali nell’età evolutiva, indica cinque fasi attraverso le quali procedere a questo insegnamento: individuare lo stile di pensiero abituale del genitore, evidenziare i più abituali modi di pensare del bambino, presentare a quest’ultimo il concetto di dialogo interiore, dimostrargli come pensare in modo positivo ed aiutarlo infine a correggere i pensieri negativi.

La teoria psicologica di riferimento è la Terapia Razionale Emotiva (REBT) ideata dallo psicologo statunitense Albert Ellis negli anni novanta. Questa teoria e prassi psicoterapeutica intende le emozioni come reazioni non all’evento in sè quanto piuttosto al modo in cui l’individuo lo rappresenta nella propria testa. Ne consegue che una buona qualità di vita emotiva dipenda da un buon modo di pensare. Riconoscendo al bambino il ruolo di attivo costruttore della propria realtà, risulta di fondamentale importanza favorire al più presto un dialogo interiore  capace di rinunciare a quei pensieri irrazionali responsabili di emozioni eccessivamente negative.

TECNICA ABC (REBT)

Dopo un breve e chiaro approfondimento di queste premesse teoriche, il testo si dedica interamente all’offerta di esempi di attività rivolte ai bambini tra gli otto e i tredici anni. Familiarizzare con questi esercizi potrà rivelarsi utile non solo agli psicoterapeuti, ma anche ai genitori che intendono promuovere la crescita serena dei propri figli o agli insegnanti interessati ad avviare un percorso di Educazione Razionale Emotiva (ERE) rivolto a tutta la classe.

I punti di forza delle attività rappresentate nel testo sono l’utilizzo di un linguaggio consono all’età target (i pensieri negativi diventano i virus mentali), l’impiego di materiali che incontrano gli interessi dei bambini ( l’uso dei giornali a fumetti per il riconoscimento degli stati emotivi), le varie attività di role playing a beneficio dell’intero gruppo classe, il ricorso alle vignette per esprimere dialoghi e pensieri ed una grafica accattivante.

PSICOPEDIA: Definizione di TECNICA ABC

Le ultime pagine del libro sono dedicate a quattro racconti, esempi di come mettere in pratica quanto dovrebbe essere stato appreso lungo il percorso fatto.
Un libro interessante e ricco di spunti che può diventare strumento utile nella misura in cui l’adulto che intende accompagnare il bambino in questa esperienza, conosce e sa applicare a se stesso quanto destinato al minore. Perchè solo ciò che si conosce abbastanza bene si può tentare di insegnare.

 

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Bambini & emozioni: parlarne aiuta a migliorare le capacità cognitive

BIBLIOGRAFIA:

  • Di Pietro, M. (2014). ABC delle mie emozioni. Erickson: Trento.   ACQUISTA ONLINE

Appraisal emotivo & differenze di genere – Neuroscienze

FLASH NEWS

Uno studio appena pubblicato sul Journal of Neuroscience conferma il sapere naif e popolare secondo cui le donne valutano le immagini emotigene come più intense e attivanti rispetto agli uomini; e inoltre le ricorderebbero anche più facilmente.

Uno studio su larga scala svolto dall’Università di Basilea ha approfondito le differenze di genere nell’appraisal emotivo e riguardo la memoria emotiva.
In generale gli studi sulla memoria emotiva già hanno sottolineato che gli stimoli emotigeni vengono ricordati con più facilità rispetto a elementi emotivamente neutri, se poi vi è -come sottolinea lo studio- una differenza di genere significa che vi sarebbero differenze nel processo di elaborazione emotiva tra maschi e femmine.

In particolare le differenze emergono anche a livello dell’appraisal di stimoli emotigeni negativi, che vengono valutati come emotivamente più intensi dalle donne rispetto agli uomini, mentre non si rilevano differenze nel processo di valutazione se gli stimoli sono emotivamente neutri.
Successivamente, i soggetti sottoposti a un test mnestico dovevano ricordare quante più immagini emotigene possibile: numericamente le donne ricordavano una quantità maggiore di tali stimoli rispetto agli uomini.

Inoltre, in uno studio successivo che ha coinvolto circa 600 soggetti, i ricercatori hanno dimostrato, usando la risonanza magnetica funzionale, che la tendenza delle donne a valutare come più intensi dal punto di vista emotivo alcuni stimoli sarebbe correlata anche ad una maggiore attivazione nelle regioni motorie a livello cerebrale, in linea con le ipotesi esplicative della embodied cognition.

 

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Cognitive reappraisal: l’efficacia dipende dal contesto!

BIBLIOGRAFIA:

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