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Dalla parte del nemico: la sindrome di Stoccolma

Davide Di Vitantonio

La sindrome di Stoccolma non viene considerata un vero e proprio disturbo, bensì un insieme di attivazioni emotive e comportamentali peculiari nel funzionamento di alcuni soggetti sottoposti a eventi particolarmente traumatici, come un rapimento o una lunga serie di abusi fisici e mentali.

 

Stati Uniti, 18 Settembre 1975.
Dopo una caccia all’uomo durata 19 mesi l’FBI arresta la ricca ereditiera Patricia Hearst, assieme alla compagna Wendy Yoshimura. L’uomo che le stringe le manette ai polsi si trova di fronte a una donna che per più di un anno aveva partecipato ad attacchi dinamitardi e a violente rapine che avevano comportato l’uccisione di civili.
Tutto ciò con al fianco degli stessi personaggi che il 4 Febbraio del 1975 avevano fatto irruzione nella sua abitazione di Berkeley (California) e l’avevano trascinata nel bagagliaio di una macchina; un rapimento a fine di riscatto, attuato dall’Esercito di Liberazione Simbionese.  Al processo la difesa sostenne la tesi del “lavaggio del cervello”; la personalità della vittima era stata manipolata attraverso l’esposizione a condizioni disumane, l’umiliazione per la propria condizione di ricca privilegiata e un riferimento martellante agli ideali del gruppo.

Al di là delle considerazioni giuridiche, ciò che balza agli occhi è un quadro comportamentale noto da tempo: la Sindrome di Stoccolma, che prende il nome dalla città omonima presso la quale a seguito del rapimento di alcune persone, gli ostaggi manifestarono, dopo la liberazione, dei sentimenti positivi verso i criminali, sentendosi in debito per la gentilezza e la generosità dimostrate. Tale sindrome non viene considerata un vero e proprio disturbo, bensì un insieme di attivazioni emotive e comportamentali peculiari nel funzionamento di alcuni soggetti sottoposti a eventi particolarmente traumatici, come un rapimento o una lunga serie di abusi fisici e mentali. Le interviste cliniche hanno mostrato come il legame emotivo con l’aggressore rappresenti una vera e propria strategia di sopravvivenza messa in atto dalla vittima. Tale legame si sviluppa secondo le seguenti attivazioni emotive:
– Sentimenti positivi della vittima verso l’aggressore, generati dalla consapevolezza che dall’ altro dipenda la propria vita e dalla percezione di essere risparmiati.
– Sentimenti negativi verso la propria famiglia e le forze dell’ordine, percepite come minacciose nei confronti del legame instauratosi.
– Identificazione con il punto di vista dell’aggressore (generato in determinati casi dalla preponderanza dei riferimenti ideologici).
– Incapacità di mettere in atto comportamenti che potrebbero garantire la liberazione (gli operatori sul campo sanno bene che non è raro incontrare resistenze da parte degli ostaggi all’ atto della liberazione).

Chiaramente non vi è correlazione diretta fra l’atto di violenza e il manifestarsi della sindrome; in questo senso sono stati rilevati quattro fattori maggiormente predittivi nei confronti delle reazioni descritte:
1) I soggetti devono percepire un imminente minaccia all’integrità fisica e psicologica, e mantenere per un determinato periodo di tempo la credenza che l’aggressore potrebbe realizzarla in qualunque momento.
2) Alternanza di comportamenti minacciosi e piccole gentilezze o concessioni. Da sottolineare come i soggetti intervistati riportino spesso di aver percepito come forma di gentilezza la semplice mancanza di violenza fisica o psicologica; in questo senso, la differenza che intercorre fra le peggiori fantasie delle vittime e la realtà oggettiva, prepara il terreno per lo sviluppo di sentimenti positivi verso l’aggressore.
3) Incapacità di isolarsi dal punto di vista dell’aggressore esplorando altre possibilità. La dipendenza che si sviluppa fra vittima e carnefice, originatasi dall’istinto di sopravvivenza (la vita della vittima è nelle mani dell’altro), impedisce che ci si concentri sul punto di vista dei soggetti estranei alla situazione presente (famigliari e forze dell’ordine).
4) Forte vissuto di impotenza relativo a possibilità di fuga. Se liberarsi autonomamente non è possibile, le risorse cognitive si focalizzano sull’evitare che nel qui e ora si verifichino eventi temuti; le vittime tendono dunque a mantenere un atteggiamento docile e remissivo al quale seguono feed-back positivi da parte dell’altro rinforzando così il circolo; risulta necessario sottolineare come gli effetti della Sindrome coinvolgano anche gli aggressori, che finiscono per sviluppare sentimenti positivi verso le vittime.

La Sindrome di Stoccolma non è codificata in nessun manuale diagnostico, in quanto come evidenziato in precedenza, non viene considerata un disturbo a tutti gli effetti. Eppure, in un’ottica di psicologia clinica sarebbe interessante tentare di approfondirne le cause, indagando gli stili di attaccamento e i profili comportamentali dei soggetti che hanno vissuto lo stato di identificazione vittima-carnefice, così da permettere agli operatori della salute mentale di guardare con occhi diversi situazioni analoghe identificate dagli studi: membri di sette, personale carcerario, donne maltrattate e, naturalmente, gli ostaggi.

 

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Le crisi di fine decade: quali sono i periodi critici della vita?

Caterina Laria

Avvicinandosi alla cifra tonda le persone sono spinte all’autoriflessione più che in altri compleanni, sentendosi al varco di una soglia che li condurrà in una nuova fase della loro vita.

Le teorie del ciclo di vita ci insegnano che ci sono delle età particolarmente critiche in particolari fasi di transizione come ad esempio l’adolescenza o la cosiddetta terza età.

Una recente ricerca condotta negli Stati Uniti evidenzia la possibilità che possano verificarsi periodi critici anche in altre fasi della vita: si tratterebbe del passaggio da una decade all’altra. In particolare, queste crisi si collocherebbero ai 29,39,49 e 59 anni dell’individuo.

L’ipotesi di Alter ed Hersfield è che avvicinandosi alla cifra tonda le persone siano spinte all’autoriflessione più che in altri compleanni, sentendosi al varco di una soglia che li condurrà in una nuova fase della loro vita. Questo indurrebbe anche alla ricerca di nuove modalità comportamentali e di nuovi significati per la propria esistenza.

Questa ricerca, pubblicata su PNAS – Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, è frutto di sei studi  somministrati a adulti tra i 25 e i 64 anni che hanno preso in considerazione tre macro-aree:

– la ricerca di relazioni extraconiugali;

– il tasso di suicidi;

– l’iniziare a praticare esercizio fisico.

I primi due studi hanno riguardato la somministrazione del World Values Survey, un questionario riguardante i valori morali, a oltre 42000 persone di oltre 100 paesi tra il 2010 e il 2014. In particolare, l’indagine era volta a verificare quanto spesso gli intervistati mettessero in discussione il senso e lo scopo delle loro vite. Coloro che si stavano avvicinando a nuova decade (detti “nine-ender”) sono risultati più propensi a questo tipo di riflessione.

Il terzo studio ha analizzato la relazione tra età e comportamenti negativi, come il tradimento del partner. Il parametro di riferimento è stato la registrazione a un famoso sito di incontri extraconiugali, osservando che il numero di nine-ender era del 20% superiore alla media, con una tendenza al maschile.

La quarta indagine si è focalizzata sui comportamenti suicidari, raccogliendo i dati già catalogati dai centri per il controllo dei suicidi e la prevenzione delle malattie mentali. Qui i nine-ender sono risultati avere un tasso suicidario del 2,4% superiore alla media, collocandosi nella fascia di popolazione più a rischio, a parità di decade. Questo significa, ad esempio, che un ventinovenne era più a rischio rispetto dei ventottenni e ventisettenni.

Le ultime due indagini, infine, hanno approfondito la ricerca di comportamenti positivi come iniziare a praticare regolarmente esercizio fisico. Attingendo al database di un sito dove i podisti caricano i loro tempi nelle gare e i loro progressi negli allenamenti, i ricercatori hanno riscontrato che gli utenti di 29 e 39 anni avevano registrato tempi più competitivi che nei due anni precedenti e successivi. Inoltre, i nine-ender che correvano per la prima volta una maratona avevano una percentuale di successo più altra del 45%, suggerendo una maggior spinta motivazionale in vista della nuova decade.

Nell’insieme, la ricerca indica che l’avvicinarsi una nuova decade della propria vita potrebbe fornire la spinta per rivalutare priorità e comportamenti. Gli autori aggiungono come ciò potrebbe dare una spiegazione anche a spese particolarmente costose, come auto sportive, interventi estetici e grossi investimenti.

 

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Gas esilarante per il trattamento della depressione? – Psichiatria

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Presso la Washington University School of Medicine di St. Louis, è stata condotta la prima ricerca in cui pazienti affetti da gravi forme di depressione sono stati sottoposti ad un trattamento nel corso del quale veniva somministrato loro monossido di diazoto, o gas esilarante.

A tale studio hanno preso parte 20 pazienti, che sono risultati essere resistenti al trattamento clinico per la depressione. A ciascuno di essi è stato somministrato, in due differenti sessioni, una miscela di gas costituita per metà da ossigeno e per metà da monossido di diazoto (lo stesso prodotto utilizzato dai dentisti) ed un placebo, costituito da una miscela composta per metà da ossigeno e per metà da azoto (i due gas che si trovano in quantità maggiori nell’aria che respiriamo). Trattandosi di uno studio a doppio cieco, né i soggetti né lo sperimentatore erano a conoscenza dell’ordine con cui i due trattamenti venivano somministrati.

Dopo due ore dalla conclusione di ciascun trattamento ed il giorno successivo allo stesso, veniva valutata la gravità dei sintomi depressivi riferiti dai pazienti. In modo particolare venivano indagati aspetti quali la tristezza, i sentimenti di colpa, i pensieri suicidari, l’ansia e l’insonnia.

I risultati ottenuti dalle valutazioni dei sintomi depressivi il giorno seguente la somministrazione del trattamento con il gas esilarante hanno messo in evidenza come 3 pazienti riferivano una scomparsa quasi completa dei propri sintomi, 7 pazienti riportavano un miglioramento significativo mentre altri 7 riportavano uno scarso miglioramento. Dalle valutazioni ottenute il giorno successivo alla somministrazione del placebo è emerso, invece, che solo 2 pazienti riportavano di sentirsi significativamente meglio in seguito al trattamento, 5 riferivano uno scarso miglioramento dei propri sintomi e 1 paziente riportava un loro peggioramento.

Secondo i ricercatori del dipartimento di anestesiologia e di psichiatria della Washington University School of Medicine e del Taylor Family Istitute for Innovative Psychiatric Research, nonostante gli effetti del trattamento a base di gas esilarante siano stati valutati il giorno stesso e a distanza di sole ventiquattro ore dalla sua somministrazione, il miglioramento dei sintomi riscontrato in due terzi dei pazienti sembra essere incoraggiante circa il successo di questa nuova forma di trattamento. Inoltre, sebbene alcuni pazienti riportino di sentirsi meglio anche dopo aver respirato il placebo, secondo Charles Conway, professore associato di psichiatria e coautore della ricerca, il pattern osservato mostra una maggiore efficacia dell’ossido di diazoto sui sintomi depressivi rispetto al placebo.

Il gas esilarante potrebbe, quindi, costituire un valido strumento nel trattamento dei pazienti che non rispondono alla terapia tradizionale, e che costituiscono circa un terzo dei soggetti affetti da depressione. L’utilizzo di tale gas presenta limitati effetti collaterali, nella maggior parte dei casi nausea e vomito, e viene rapidamente eliminato dal corpo. Sostiene Charles Zorumski

È la rapidità con cui l’ossido di diazoto entra in azione che potrebbe essere particolarmente utile nel trattamento di pazienti con una depressione grave, che possono essere a rischio di suicidio e che necessitano di un rapido aiuto questo tipo di trattamento potrebbe permettere, inoltre, di ridurre i sintomi temporaneamente fino a che i trattamenti tradizionali comincino a fare effetto.

Molti studi sono ancora necessari per capire se l’ossido di diazoto porta gli stessi benefici anche in altri pazienti affetti da depressione. Per questo motivo i ricercatori stanno cercando di verificare se possa esserci una differenza nell’efficacia del gas sui sintomi depressivi a seconda della sua concentrazione.

 

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Una cosa alla volta è meglio – Annamaria TestaConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
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Tratto da: Internazionale

 

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Il multitasking è ormai una realtà diffusa tra lavoratori di tutte le età e di entrambi i sessi; la American Sociological Review ha pubblicato i risultati di un ampio studio che ha trovato importanti differenze nella percezione, e nella tolleranza, che madri e padri hanno allo svolgimento di più lavori contemporameamente.

Psicologia della disobbedienza: Siamo uomini e caporali (2014) – Recensione

Elena Ponzio

In questa prospettiva dis-obbedire è un segno di maturità e umanità che colloca l’individuo in un collettivo umano di persone capaci di sentire e di com-patire al di là dell’esecuzione rigida di compiti e norme o del loro abuso.

Quanto siamo influenzati dal contesto in cui ci troviamo ad operare e quanto siamo disposti ad aderire al nostro ruolo rinunciando a certi aspetti di noi che ci rendono diversi gli uni dagli altri e che fanno sì che ogni nostra decisione e reazione sgorghino  da una valutazione serena e approfondita dei fatti? Quanto insomma siamo Uomini (con la U maiuscola) o caporali?

Un dialogo ricco di verve e di riferimenti attuali tra Totò e temi di psicologia sociale. La “disobbedienza pro-sociale” e  l’”obbedienza responsabile” vengono presentati come valori necessari alla costruzione di una società democratica e di una autonomia personale: prospettiva quanto mai attuale e stimolante ricca di rimandi agli eventi sociali e politici, oltre a quelli personali è più intimi di ciascuno di noi.

In questa prospettiva dis-obbedire è un segno di maturità e umanità che colloca l’individuo in un collettivo umano di persone capaci di sentire e di com-patire al di là dell’esecuzione rigida di compiti e norme o del loro abuso.

E Totò su questo tema aveva riflettuto molto a partire dalla propria esperienza al servizio militare in cui i temi dell’adesione acritica a ruoli autoritari, della prossimità tra individui e della possibilità di una dis-obbedienza costruttiva (che l’autore chiama pro sociale) rappresentarono un ambito di grande impatto per Totò uomo, e di grande ispirazione per Totò attore. Leitmotiv di tutta la filmografia di Totò è il grande interrogativo sulla natura dell’uomo e del caporale: l’uno  o l’altro oppure l’uno e l’altro?

In un excursus esilarante attraverso le sue opere Totò riflette sul tema dell’etica della disobbedienza per raggiungere gradualmente posizioni via via più pessimistiche sulla natura dell’uomo incapace di fatto di liberarsi dal giogo dell’assimilazione alle leggi del potere e del suo esercizio.

Nel libro si dipanano percorsi paralleli tra gli esperimenti di psicologia sociale di Zimbardo e Milgram e i film di Totò, esplorando i concetti di adesione al ruolo, prossimità tra gli individui e obbedienza e disobbedienza all’autorità.

Gli esperimenti di Milgram e Zimbardo mostrano come sia rilevante l’influenza dei fattori ambientali nel determinare certe condotte piuttosto che le caratteristiche personali, tanto che un ex allievo di Zimbardo arriva a proporre la teoria del “cattivo cesto” invece di quella delle “mele marce”. Grave errore sarebbe ritenersi al sicuro, certi delle proprie reazioni in base alle proprie personali caratteristiche e completamente al di fuori del contesto, come se idealmente operassimo in un ambiente rarefatto dove non vi fosse interrelazione tra individui.

Riprendendo le parole dell’autore: “esiste quindi un antidoto all’inerzia sociale, un vaccino contro i pericoli dell’obbedienza cieca, una vitamina per rinforzare la solidarietà degli individui?”

Cianciabella conclude con una nota costruttiva e di speranza, una prospettiva decisamente più ottimista di quella con cui si avvia a fine carriera Totò, indicando una possibile strada nella formazione e nell’educazione capace di avvertire del pericolo, insegnare a riconoscerlo e conseguentemente a proteggersene. “Attraverso la formazione,dice, è possibile rendere le persone consapevoli delle dinamiche psicologiche che stanno alla base delle interazioni umane, delle forme di influenza sociale come l’obbedienza all’autorità e il conformismo.”

E a questo punto si capisce come dagli esperimenti nelle facoltà di psicologia come quelli di Milgram e Zimbardo si giunga finalmente al qui ed ora di ciascuno di noi alle prese con fatti di cronaca ed eventi di vita che spaziano dalle atrocità del carcere di Abu Grahib al bullismo scolastico. Nessuno può essere davvero certo di non avere un po’ del caporale dentro di sè ma possiamo lavorare affinché consapevolezza, solidarietà e responsabilità condivisa ci aiutino a diventare persone migliori.

Un libro avvincente ed interessantissimo per tutti, imperdibile per insegnanti, formatori e autorità.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Cianciabella, S. (2014). Siamo uomini e caporali. Psicologia della disobbedienza. Franco Angeli Editore. ACQUISTA ONLINE

Mal di montagna: il comportamento nello stato di ipossia

Davide Di Vitantonio

Il mondo per come è conosciuto, è costituito da una massa di agenti chimici, biologici e fisici i quali, interagendo con la struttura degli esseri viventi, generano un output di risposte interne, alcune di queste tradotte dalla coscienza sensibile in comportamenti osservabili.

Uno degli agenti che permette alla singola cellula animale di esistere, è rappresentato da un gas: l’Ossigeno. L’intero funzionamento di Homo Sapiens dipende da questo. 

La presenza di un livello ottimale di ossigeno garantisce il normale funzionamento della macchina umana, il mantenimento dell’omeostasi e un adeguato adattamento all’ambiente esterno: quando l’apporto di ossigeno ai tessuti tende a diminuire (ipossia) o ad aumentare drasticamente (iperossia), la gamma di effetti comportamentali osservabili è sorprendente.

Ross A. McFarland (1932,1937,1972) osservò che processi complessi, quali l’elaborazione mentale aritmetica e la capacità di giudizio venivano compromessi durante l’ascesa ad alte quote, ma più in generale lo stato ipossico può manifestarsi con diverse forme di afasia, cecità, ed emiparesi.

Ancora più interessante storicamente, è il caso di un’anormalità di segnale nel globo pallido di un paziente coreano di 49 anni, riscontrata dopo un’ascesa a 4700 metri, associata a cambiamenti di personalità osservati in quel paziente in seguito all’ascesa. 

Al di là delle affascinanti implicazioni di natura più squisitamente filosofica che tali casi comporterebbero (cambiamenti di personalità dovuti a fattori appartenenti all’universo fisico), lo studio dell’ipossia e dello stadio ipossico induce necessariamente a considerare tutti quei casi in cui tale condizione si manifesta senza che l’individuo ascenda a quote particolari, principalmente il processo di invecchiamento e la Sindrome da apnee ostruttive nel sonno (OSAS).

L’invecchiamento porta a un’ipossia naturale (come se con l’età si salisse lentamente verso la cima di una montagna), mentre l’OSAS, dovuta a occlusione intermittente delle vie aeree superiori, provoca un calo significativo della performance diurna del soggetto affetto, includendo l’attività professionale, la sfera emotiva e relazionale, la pianificazione e il raggiungimento di obiettivi.

In un’ottica di psicologia sperimentale, si sente il bisogno di una cornice teorica che affianchi ai paradigmi tradizionali della scienza in questione una conoscenza più vasta, arricchita dall’intreccio di discipline come la fisica e la fisiologia, al fine di affrontare i sempre nuovi scenari che le spedizioni scientifiche e la tecnologia aerospaziale metteranno di fronte alla macchina umana.

 

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La qualità del sonno e le cure genitoriali ricevute influenzano le funzioni esecutive nel bambino

FLASH NEWS

Gli autori hanno rilevato che i bambini che hanno ricevuto cure genitoriali  di qualità superiore e che hanno dimostrato un attaccamento più sicuro verso le loro madri hanno raggiunto risultati migliori su alcuni tipi di funzioni esecutive come la memoria di lavoro.

Comprendere lo sviluppo del benessere dei bambini richiede una conoscenza integrata delle relazioni sociali, biologiche e cognitive. Questo è quanto sostengono Annie Bernier i suoi colleghi dell’Università di Montreal riassumendo le ultime scoperte circa la relazione esistente tra la qualità del sonno dei bambini, i rapporti con i loro caregiver e le  funzioni esecutive, un insieme di processi cognitivi di ordine superiore che servono soprattutto all’auto-organizzazione del comportamento e dell’emozione.

La prima infanzia, grazie alla rapida crescita del cervello, rappresenta un periodo particolarmente formativo  nel corso dello sviluppo umano. Infatti, le interazioni con i genitori occupano gran parte della vita di un bambino. Per questo, Bernier e colleghi si sono occupati di studiare il modo in cui le relazioni, tra i bambini piccoli con i propri genitori, possano essere associate a un buono sviluppo esecutivo.

In una serie di studi, gli autori hanno rilevato che i bambini che hanno ricevuto cure genitoriali  di qualità superiore e che hanno dimostrato un attaccamento più sicuro verso le loro madri hanno raggiunto risultati migliori su alcuni tipi di funzioni esecutive come la memoria di lavoro. Inoltre, i bambini che vivevano in famiglie con basso reddito o che presentavano temperamenti difficili hanno mostrato un migliore controllo degli impulsi se avevano ricevuto cure genitoriali di qualità superiore.

Inoltre, le cure genitoriali e la qualità del sonno dei bambini rappresentano un fattore importante per la salute fisica e psicologica, e sembrano anche essere correlati.

Uno studio longitudinale suggerì che la salute mentale delle madri e dei padri e la qualità delle cure parentali erano associati a una qualità del sonno migliore in giovani bambini. In altre ricerche, ancora, è emerso che i bambini che a un anno di età presentano una qualità del sonno migliore mostravano funzioni esecutive migliori durante il corso dello sviluppo.

Quindi, dormire a sufficienza aiuta i bambini ad essere più responsivi verso cure parentali positive, che a loro volta sostengono lo sviluppo sano.

Questi  risultati provengono da studi correlazionali che non hanno permesso di determinare definitivamente nessi causali. Per questo, Bernier e colleghi suggeriscono di condurre nuove ricerche per misurare gli effetti diretti della genitorialità sul funzionamento cognitivo dei bambini attraverso un approccio multidisciplinare.

In sintesi, gli autori  della ricerca, combinando i disegni longitudinali, le diverse misure di osservazione tipiche della psicologia dello sviluppo con tecniche di genotipizzazione e di imaging cerebrale, insieme a interventi genitoriali, auspicano di poter spiegare la complessità delle relazioni, la biologia, e cognizione alla base dello sviluppo del bambino.

 

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Antonio Semerari su Il Delirio di Ivan (2014) – Psicologia & Letteratura

Lo psichiatra e psicoterapeuta Antonio Semerari ha pubblicato nel 2014 il suo saggio: Il Delirio di Ivan.  Il 5 dicembre, in occasione della presentazione del libro a Reggio Calabria, è stato girato questo breve servizio televisivo che vi segnaliamo:

 

Proviamo ad immaginare, in un gioco di finzione, uno dei maggiori romanzieri di tutti i tempi che accompagna dallo psicoterapeuta tre dei suoi figli di penna. Quello che ci verrà consegnato alla fine di questo incontro sarà un libricino candido e minuto, firmato da uno dei maggiori psicoterapeuti italiani, Antonio Semerari, che racchiude un’analisi accurata e illuminante della psicologia (o meglio, della psicopatologia) dei tre pazienti dostoevskijani che si sono succeduti sulla sua poltrona: Dmitrij, Aleksej e Ivan, più famosi e noti come i fratelli Karamazòv.

Il delirio di Ivan è un invito a nozze per gli psicologi che amano la letteratura e uno stimolo intellettuale per i profani che hanno però da sempre amato il talento di Fëdor Dostoevskij nel dare vita a personaggi perfetti e coerenti dal punto di vista psichico, a tal punto da sembrare reali… LEGGI LA RECENSIONE COMPLETA DEL LIBRO

 

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I fantasmi nella stanza dei bambini: un’eredità transgenerazionale

 

Nei primi mesi di vita e anche nei primi anni, la relazione madre-bambino è il fattore psicologico più facilmente soggetto a un intervento terapeutico e profilattico e quindi merita di essere studiato assiduamente e con una speciale attenzione (Spitz, 1973). 

Nel momento successivo alla nascita il nuovo nato compie il primo tentativo di adattamento ad un ambiente differente e meno protetto sostenuto dalla funzione di caretaker che è parte del patrimonio di tutte le specie. La sua innata predisposizione a stabilire una relazione con chi si occupa di lui è indipendente dal fatto che questo gli fornisca cibo e nutrimento. In questo periodo è il sostegno dato all’Io dall’assistenza materna che permette al piccolo di vivere e di svilupparsi, malgrado egli non sia ancora capace di sentirsi responsabile di ciò che è buono e cattivo nell’ambiente e di controllarlo (Winnicot, 1970) .

Le ricerche condotte in campo psicoanalitico sull’importanza delle relazioni familiari per lo sviluppo dell’individuo hanno indicato la consultazione terapeutica, una prospettiva di salute per l’intero nucleo familiare, favorendo l’abbandono di una consultazione esclusiva sulla prima infanzia. Le finalità principali di un tale impegno erano quelle di promuovere il miglioramento delle competenze genitoriali e le potenzialità di sviluppo del bambino.

Il lavoro pioneristico compiuto della psicoanalista Selma Fraiberg, in questo ambito di studi, costituisce il frutto di anni di esperienza clinica con le famiglie nel portare alla luce remote angosce e la loro influenza sulle relazioni familiari.

I fantasmi di cui l’autrice parla, intrusi del passato che hanno preso la residenza nella stanza dei bambini, costituiscono l’eredità psicologica di una tragedia familiare destinata a ripetersi per generazioni, la cui individuazione, ha aperto la via alla comprensione della ripetizione del passato nel presente. Un’indagine che con accoglienza, attenzione e silenzio concede l’emergere di orrori rimossi che legano genitori, figli e nipoti in una perversa spirale di sofferenza. Un passato di segreti di famiglia, promiscuità, crimine, abbandono, abusi infantili, trascuratezza, disordine e anche psicosi accomunano due donne la sig.ra March e Annie e le relazioni problematiche con il loro figli, Maria e Greg.

Il comportamento dei bambini, giunti molto piccoli in osservazione, a soli rispettivamente cinque e tre mesi era permeato per lo più da una difesa molto forte nei confronti del caregiver, l’evitamento. Pochi o nessuno sguardo, sorrisi o vocalizzi, né tentativi di girare la testa verso la mamma o di cercarla in momenti di angoscia o disagio. Quasi una profonda compromissione del canale uditivo e visivo peggiorato nel caso di Greg anche da denutrizione.

In assenza di modelli di trattamento a disposizione, l’impresa compiuta dalla Fraiberg e dai suoi collaboratori è stata quella di sviluppare un programma per la salute mentale infantile introducendo via via metodi nel corso dell’attività clinica. L’utilizzo del transfert, la ripetizione del passato nel presente e l’interpretazione erano al centro della psicoterapia psicoanalitica utilizzata, accompagnata da osservazioni dello sviluppo del bambino e della responsività del comportamento materno.

La risposta al quesito clinico che coinvolge le madri in una abnorme difficoltà di ascolto delle grida strazianti degli infanti proviene dalla storia degli stessi dei genitori, affollata di fantasmi.

L’individuo singolarmente preso non utilizza tutti i possibili meccanismi di difesa, ma si limita a selezionarne alcuni, questi però si fissano nel suo Io, diventano modalità abituali di reazione del suo carattere che si ripetono nel corso dell’intera esistenza ogniqualvolta, si presenta una situazione analoga a quella originaria (Freud, 1937).

La signora March era stata a sua volta una bambina abbandonata da una madre che aveva sofferto di psicosi post-partum, cresciuta prima da una zia ed in seguito dalla nonna in una situazione di povertà e promiscuità. Si tratta di una madre le cui grida non sono state sentite, il cui dolore insopportabile è stato tagliato fuori, lasciando spazio ad uno sguardo vuoto e senza speranza, proprio quello che traspariva dagli occhi dalla piccola Marie. La rivelazione dei vecchi sentimenti di bambina era sopraggiunta grazie al lavoro terapeutico, così come il sollievo di poter piangere e sentire il conforto e la comprensione del suo terapeuta. L’ascolto delle grida della madre aveva permesso l’ascolto di quelle del suo bambino innescando una serie di cambiamenti positivi nella relazione diadica con scambi di tenerezze e attenzioni.

Il passato di sofferenze di Annie, una mamma adolescente che alterna accessi di rabbia a umore estremamente depresso aveva ugualmente compromesso la capacità di prendersi cura del suo bambino Greg. Annie era stata abbandonata dalla madre e picchiata per banali disobbedienze dal suo patrigno alcolizzato. Un’intensa paura che impulsi sadici e distruttivi potessero condurla a picchiare e uccidere il suo bambino, proprio come faceva il suo patrigno con lei, la costringeva a evitare il contatto con il piccolo. Anche in questo caso la vicinanza consapevole con vissuti emotivi di rabbia, paura, tristezza e abbandono, le ha consentito di separarsi della dall’identificazione con l’aggressore in atto, in favore di un avvicinamento al figlio. I progressi compiuti hanno permesso di sradicare prima l’evitamento, poi uno strano sorriso che il bambino mostrava ai suoi comportamenti aggressivi, gli stessi che lei aveva usato per tollerare affetti dolorosi.

Un esame profondo delle dinamiche relazionali disfunzionali, l’attribuzione di un significato a comportamenti distruttivi o scarsamente responsivi, sentire le proprie emozioni, può rappresentare un dispositivo di prima scelta delle nuove generazioni di genitori. Accogliere la nascita di un bambino concretamente comporta il riesame del proprio mondo interiore, delle figure, delle relazioni, delle emozioni, delle esperienze che l’hanno definito e l’elaborazione di antiche sofferenze in modo da aprirsi a questo passaggio con piena maturità.

Diventare genitore diviene così un compito complesso da gestire, in cui si palesano aspetti concreti e fantasmatici trasmessi dal genitore al figlio e in cui è indispensabile raggiungere la guarigione del caregiver per il funzionamento ottimale dell’intero nucleo familiare.

 

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Lo humour non è solo ridere: è uno strano cocktail in cui si mescolano – in proporzioni variabili e in una visione del mondo nuova perché stralunata – sorpresa, tenerezza, bonarietà, empatia, indulgenza, candore, massimi sistemi ed eventi minimi, consistenza e leggerezza. (…)

Tratto da: Internazionale

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Stress lavoro-correlato nei knowledge workers

 

L’obiettivo principale di questo articolo consiste nell’ individuazione delle opzioni organizzative in grado di prevenire lo stress legato alle organizzazioni ad alta intensità di conoscenza.

Introduzione

Nel contesto lavorativo contemporaneo, continuamente soggetto a modificazioni e caratterizzato da importanti processi quali la globalizzazione, la mobilità, la precarietà e la flessibilità occupazionale, la psicologia del lavoro e delle organizzazioni gioca un ruolo cruciale nella progettazione di interventi mirati alla promozione della salute e del benessere dei lavoratori. Tra i rischi psicosociali che scaturiscono dal panorama appena accennato, lo Stress Lavoro-Correlato (SLC) costituisce una delle maggiori conseguenze da prendere in considerazione. Nonostante esso riguardi tutte le tipologie di lavoro, indipendentemente «dalla dimensione dell’azienda, dal campo di attività, dal tipo di contratto o di rapporto di lavoro» (Accordo europeo sullo stress sul lavoro, 2004), pochi sono stati gli studi che si sono focalizzati sulla manifestazione di questo fenomeno nei cosiddetti knowledge workers.
Comunemente tradotta in lingua italiana come «lavoratori della conoscenza», la suddetta espressione indica quella categoria di ruoli professionali che non producono beni o oggetti, ma informazioni. Tale categoria comprende professioni collegate con le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, i consulenti, i docenti, gli avvocati, gli scienziati, in genere ruoli che in un determinato contesto operano e comunicano principalmente con la conoscenza.
L’obiettivo principale di questo articolo consiste nell’individuazione delle opzioni organizzative in grado di prevenire lo stress legato alle organizzazioni ad alta intensità di conoscenza. Si tratterà delle organizzazioni che Alvesson (1995, citato da Ipsen & Jensen, 2012) ha definito di conoscenza “pura”, ossia in cui gli individui stessi rappresentano i fruitori e i promotori della stessa (università, studi legali, società di consulenza ecc.).

1. Le caratteristiche del lavoro della conoscenza

Dato che la letteratura non è molto ricca sull’argomento, innanzitutto occorre inquadrare le caratteristiche dell’ambiente psicosociale delle organizzazioni in questione. Il lavoro di Ipsen e Jensen (2012) fornisce un prezioso contributo sulla determinazione di informazioni sul lavoro della conoscenza. Nonostante il loro studio sia mirato unicamente ad aziende di consulenza, può essere considerato come un interessante punto di partenza per studi futuri su questo campo. Attraverso interviste semi-strutturate e aperte è emerso che i lavoratori della conoscenza lavorano autonomamente, ma al contempo cooperano con i clienti e i colleghi per risolvere compiti specifici, al fine di sviluppare prodotti della conoscenza nuovi e accettabili. La stretta interazione con gli altri costituisce continuamente compiti nuovi, unici e complessi per affrontare e fornire nuove soluzioni. La conoscenza di ognuno è a disposizione di tutti, nel senso che ognuno condivide volentieri il proprio sapere con altri.
In altre parole, un’organizzazione ad alta intensità di conoscenza, fa affidamento sul capitale intellettuale al fine di soddisfare le richieste dei clienti e del mercato. Per questo motivo tali organizzazioni reclutano individui altamente competenti e il fattore umano rappresenta l’elemento centrale. In pratica la conoscenza è frutto di collaborazioni fra i lavoratori, di condivisione di saperi, di esperienze, di consigli, di rielaborazioni, di soluzioni, e il prodotto è rappresentato dalla professionalità di ogni individuo che partecipa al progetto o al task assegnato.

2. Lo stress lavoro-correlato nel lavoro della conoscenza

Una volta delineato un panorama generale dell’ambiente che caratterizza le organizzazioni ad alta intensità di conoscenza, bisognerebbe individuare le cause organizzative dei problemi di stress lavoro-correlato. In linea generale, l’ISPESL (2010), nel manuale in cui suggerisce una proposta metodologica sulla valutazione dello stress lavoro-correlato, fornisce una descrizione dettagliata delle caratteristiche del lavoro e delle condizioni che possono condurle a rappresentare dei fattori di rischio psicosociali per l’individuo e le organizzazioni stesse. I fattori stressogeni sono stati divisi in due grandi categorie: quelli relativi al contesto lavorativo (la cultura organizzativa, il ruolo nell’organizzazione, lo sviluppo di carriera, l’autonomia decisionale/controllo, le relazioni interpersonali e l’interfaccia famiglia/lavoro) e quelli relativi al contenuto del lavoro (ambiente di lavoro e attrezzature, pianificazione dei compiti, carico/ritmi di lavoro e orario di lavoro). Facendo riferimento alle suddette indicazioni, si possono confrontare i dati raccolti da Ipsen e Jensen (2012) con i fattori stressogeni:

Cultura organizzativa: è emerso che le pratiche aziendali relative alla gestione del disagio psicosociale sono pressoché assenti; i lavoratori gestiscono le loro situazioni problematiche attuando strategie di coping personali; in altre parole, essi risolvono i propri problemi nel modo che ritengono migliore, concedendosi qualche giorno di assenza, decidendo di lavorare più lentamente o velocemente, o confidandosi con i colleghi. L’imprevedibilità dei compiti e dei clienti, che inizialmente è stata ritenuta un grande incentivo, al tempo stesso è stata considerata causa di stress, in quanto aveva un effetto sulle prestazioni personali e sullo stipendio.
Ruolo nell’organizzazione: l’organizzazione è caratterizzata da un decentramento incorporato in una organizzazione a matrice. La vasta rete prevede un mercato interno e informale per lo scambio di competenze personali, in cui i dipendenti possono partecipare a vari progetti; mantenere questa rete costituisce così una parte centrale del lavoro.
Sviluppo di carriera: dall’ analisi è emerso inoltre che gli incentivi materiali (come il salario o i bonus) giocano un ruolo minore. Maggior importanza viene attribuita agli incentivi culturali (i valori, il prestigio o la reputazione). Nonostante la volontà di condividere la conoscenza e il riconoscimento della sua posizione centrale, i tipici sistemi di ricompensa hanno un focus esplicito sulla performance del singolo in termini di vendite e ore di produzione. Attività e processi interni, come la condivisione della conoscenza e lo sviluppo di nuovi concetti, non sono ricompensati con incentivi materiali, e lo stipendio di un individuo è legato al livello del task assegnato.
Autonomia decisionale/controllo: molto spesso i lavoratori sono tenuti a cercare autonomamente le informazioni necessarie e più adeguate. Pertanto, i dipendenti hanno un interesse comune a un pool di conoscenze che è a disposizione di tutti in caso di necessità. È stato anche chiarito che la conoscenza è condivisa volentieri e direttamente.
Relazioni interpersonali sul lavoro: la maggior parte delle volte non si tratta di un lavoro individuale, ma di un lavoro in team, in cui ogni individuo, direttamente o meno, contribuisce alla creazione del prodotto (la conoscenza) ovvero è parte del prodotto. Già in quest’ottica si potrebbero ipotizzare eventuali situazioni tipicamente stressogene, se ripetute costantemente. Per esempio, la psicologia sociale, per via dei suoi innumerevoli studi sulle dinamiche di gruppo, potrebbe fornire informazioni importanti riguardo alle potenziali situazioni di conflitto all’interno di un team di lavoro. È alta la probabilità di nascita di conflitti legati alle differenziazioni di ruolo, a diverse categorie di pensiero dei vari membri sullo stesso costrutto, alle modalità di comunicazione, alle attitudini o alla personalità dei membri.
Interfaccia famiglia lavoro: la maggior parte delle organizzazioni in questione forniscono vari servizi per i dipendenti: centri diurni per i bambini, mense, club, bar aziendali ecc. Vi è quindi la possibilità di effettuare una pausa pasto in luoghi adeguati, vi è un orario flessibile e la possibilità di svolgere un lavoro part-time verticale o orizzontale.
Ambiente di lavoro/attrezzature: in quanto alle condizioni fisiche del lavoro, o alla manutenzione e alla riparazione delle strutture, non sono state fatte domande, in quanto è stata prestata più attenzione al fattore umano.
Pianificazione dei compiti: in linea generale, i lavoratori intervistati credono di dover migliorare la loro capacità personale di pianificare il loro lavoro al fine di guadagnare più tempo, il che porterebbe ad una maggiore soddisfazione sul lavoro e a soluzioni migliori. In altre parole, hanno ritenuto che sarebbe stata colpa loro se si fossero verificati eventuali problemi; vi è la credenza generale che i problemi siano causati dal singolo individuo.
Carico/ritmi di lavoro/ orari di lavoro: in primo luogo, gli intervistati ritengono che la quantità di incarichi non corrisponde con le risorse disponibili, in termini di denaro e di tempo. È stato espresso inoltre che non ci sono mai due incarichi o due giorni lavorativi uguali, non ci sono routine, ognuno è libero di lavorare ovunque (in casa, in sede, o presso i clienti), utilizzando qualsiasi metodo che ritiene opportuno secondo una scelta personale. Alcune interviste hanno dimostrato che i lavoratori ritengono il proprio lavoro stimolante e interessante, ma che può rivelarsi anche frustrante, poiché bisogna ad esempio mantenersi sempre aggiornati professionalmente.

Utilizzando lo Star Model di J. Galbraith (2002), Ipsen e Jensen (2012) hanno dimostrato che le condizioni organizzative, quali i sistemi di ricompensa, la strategia, la struttura e il flusso di informazioni hanno un’influenza sul flusso di conoscenze e le prestazioni di lavoro. I lavoratori intervistati hanno avvertito che l’essere abbandonati a loro stessi nel cercare le informazioni necessarie per svolgere al meglio il task assegnato, costituisce a volte una perdita di tempo e, qualora fallissero, il loro orgoglio professionale risulterebbe ferito. Gli intervistati hanno sottolineato ad esempio che la mancanza di accesso a nuove conoscenze provoca frustrazione, stress, e ripetizione di errori, anche perché non sempre è così facile confrontarsi con i colleghi. Un altro elemento importante è la mancanza di strutture di supporto che potrebbero prevenire vari problemi. Gli unici supporti presenti sono informali, focalizzati sull’aumento delle performance del singolo.

3. Alcuni suggerimenti per prevenire lo stress lavoro-correlato

Alla luce dei dati raccolti sui fattori organizzativi, si potrebbero avanzare dei suggerimenti utili per prevenire lo stress lavoro-correlato nei lavoratori della conoscenza.
Le aziende di consulenza prese in esame da Ipsen e Jensen (2012) si comportano come la maggior parte delle aziende, concentrandosi sull’individuo piuttosto che sulle variabili organizzative, attribuendo la “colpa” al singolo lavoratore e accantonando le responsabilità dell’organizzazione. Le ragioni di questa prospettiva sono molteplici, ma nella maggior parte dei casi si riconducono alla credenza, da parte della direzione, che i problemi di stress da lavoro siano causati dai lavoratori stessi e dalla loro incapacità di far fronte alle richieste di lavoro a cui sono soggetti. Per giunta, le organizzazioni reputano difficoltoso o, addirittura, controproducente, attuare dei cambiamenti, anche macroscopici, per gestire il problema in questione.

Come accennato in precedenza è emerso che le aziende in questione, in un certo senso, effettuano interventi di sostegno pressoché individuale, mirati soprattutto all’aumento delle capacità di coping dei lavoratori, ma si potrebbero integrare dei corsi di training, come quelli proposti da Murphy (2003, citato da Chandola, 2010), orientati al rilassamento, che si concentrerebbero sulla respirazione e sul calmare l’attività dei muscoli per scaricare la tensione; si potrebbero attuare dei programmi di intervento che si basano sull’aumento della capacità di gestione del tempo e di controllo della rabbia. Infine, sarebbe consigliabile l’implementazione di programmi che comprendono il trattamento terapeutico da uno specialista qualora necessario, o di semplice consulenza.
L’approccio individuale possiede il principale vantaggio della brevità nei tempi di esecuzione, che non comporta un’interruzione nella routine di lavoro, e si adatta facilmente alle esigenze dei singoli. Fra gli svantaggi, però, quello principale è rappresentato dall’impossibilità di agire sulle fonti stressogene.
Seguendo un approccio centrato sull’organizzazione e non sul singolo lavoratore, nelle organizzazioni ad alta intensità di conoscenza si potrebbe implementare un sistema che renda le attività meno frammentate e che gestisca la circolazione delle informazioni e/o che generi delle prescrizioni chiare e coerenti per facilitare i compiti dei lavoratori della conoscenza (evitando magari il sovraccarico o il sottocarico di lavoro). Sarebbe opportuno creare delle “squadre di azione” finalizzate all’individuazione dei problemi e alla loro soluzione, puntare al collettivo, cioè al gruppo di lavoro e agli aspetti collettivi; in questo modo si regola il carico di lavoro e si aiuta ciascuno a costruire la propria identità professionale. Lo studio inoltre dimostra che sia i dipendenti sia i manager sono consapevoli dei problemi del loro lavoro, e hanno anche un’idea delle loro cause e di possibili soluzioni. L’elemento paradossale è che queste opinioni relative ai problemi non sono condivise, perciò sarebbe possibile progettare dei nuovi modi di gestione del lavoro della conoscenza, in cui il fattore umano sarebbe integrato nel disegno organizzativo. Non si verificano mai delle occasioni di confronto fra lavoratori che occupano una posizione manageriale e i dipendenti, in cui si parli per esempio dei fattori che influenzano la qualità e l’efficienza del loro lavoro; perciò sarebbe auspicabile che venissero sviluppate regolarmente delle riunioni centrate su questo tema.

4. Conclusione

Nonostante la ricerca di Ipsen e Jensen (2012) presenti diversi limiti (il campione ridotto, o l’analisi effettuata in un contesto ristretto e specifico), il loro scopo consisteva semplicemente nel dimostrare quanto fosse importante il fenomeno dello stress lavoro-correlato nei lavoratori della conoscenza, dato che la maggior parte degli studi sono stati effettuati in altri ambienti (ad esempio nelle industrie). Sarebbe molto interessante prendere in esame, per esempio, altre imprese che si basano sul lavoro della conoscenza, anche se quest’ultima risulta essere “materializzata” in determinate tecnologie (per esempio nelle aziende high-tech o di biotecnologie). Bisogna sottolineare anche che lo studio in questione si è basato su aziende di una determinata area geografica, sarebbe necessaria una ricerca che prenda in considerazione un campione di aziende molto più ampio.
Alla luce di tutto ciò è evidente che la progettazione di interventi preventivi e correttivi del fenomeno SLC rappresenti un campo d’azione per la psicologia del lavoro e delle organizzazioni. La scarsità di studi sull’ambiente relativo ai lavori della conoscenza è un’opportunità da cogliere al volo per fornire nuove ricerche e analisi sulla manifestazione del fenomeno in questione.

 

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Genitori antisociali? Conseguenze sullo sviluppo cognitivo dei figli

FLASH NEWS

I dati raccolti su un campione di un milione di uomini svedesi, mostrano chiaramente l’esistenza di una relazione tra i comportamenti criminali di alcuni uomini e le capacità cognitive dei loro figli.

Come afferma la ricercatrice Antii Latyala, che lavora presso il Karolinka Institute in Svezia e presso l’University of Helsinki in Finlandia, “tali scoperte sono interessanti, dal momento che le abilità cognitive sono il più importante predittore di molti fondamentali esiti della vita, inclusa la salute e le condizioni socioeconomiche”.

Le ricerche in cui, in passato, sono state studiate generazioni di famiglie, suggeriscono tale tipo di relazione diretta: maggiore è la tendenza di un padre a mettere in atto comportamenti anti-sociali (trasgressione di regole, comportamenti aggressivi e/o violenti), maggiore è la probabilità che lo sviluppo dei loro figli abbia esiti negativi, come ad esempio disturbi psichiatrici, uso di sostanze e scarso rendimento scolastico. Questi studi hanno altresì dimostrato che le persone aventi maggiore tendenza alla messa in atto di comportamenti antisociali, sono anche quelle con capacità cognitive più scarse.

Latyala e colleghi erano interessati a combinare questi due elementi, indagando specificatamente il modo in cui i comportamenti antisociali dei genitori influenzano gli esiti cognitivi dei loro figli. I ricercatori si sono serviti dei numerosi dati esistenti sui cittadini svedesi, compresi dati sulle abilità cognitive raccolti nel contesto della leva militare obbligatoria e dati sui comportamenti anti-sociali (definiti, in questo caso, in termini di condanne penali) raccolti nei registri legali nazionali.

Analizzando i dati di oltre un milione di uomini, Latyala e i suoi collaboratori hanno scoperto che i soggetti i cui padri hanno avuto condanne criminali, mostrano minori abilità cognitive rispetto agli individui i cui padri non hanno una storia di tale genere. E questa associazione sembra strettamente influenzata dalla gravità degli atti criminali commessi dai padri. In altre parole, maggiore è la gravità del comportamento del padre, più scarsi sono gli esiti cognitivi dei loro figli.

Tuttavia, la questione che i ricercatori vogliono indagare è ben più sottile. Ad essi infatti interessa scoprire se tale associazione sia diretta oppure mediata da altri fattori, come ad esempio le componenti genetiche. Per fare ciò, essi confrontano la relazione tra storia criminale del padre e abilità cognitive dei figli con quella dei cugini i cui padri abbiano diverse relazioni tra di loro.

In particolare, gli autori prendono in esame l’associazione tra cugini i cui padri siano fratellastri (ovvero condividono il 25% del loro patrimonio genetico), oppure fratelli o fratelli-gemelli (50% dei geni in comune), oppure gemelli omozigoti (ovvero condividono il 100% del loro patrimonio genetico).

Se i comportamenti anti-sociali dei padri sono direttamente causa delle scarse abilità cognitive dei figli, tale associazione dovrebbe rimanere ugualmente forte tra le diverse relazioni genetiche. I dati, però, dimostrano tutt’altro: quando i ricercatori prendono in considerazione il patrimonio genetico, l’associazione tra i comportamenti criminali del padre e gli esiti cognitivi dei figli sembra diminuire.

“I nostri risultati indicano che, nonostante le difficoltà associate ai comportamenti antisociali del proprio padre, è improbabile che tale atteggiamento influenzi direttamente lo sviluppo delle abilità cognitive dei figli nella loro infanzia. Piuttosto, i dati evidenziano come sia da prendere in considerazione la componente genetica in quanto fattore di rischio”, concludono i ricercatori.

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Videogames violenti: come GTA influenza alimentazione e tendenze antisociali

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Naturalmente infertile: storie di strade e di sogni – Recensione

Leggere questo libro significherebbe non sentirsi sole, significherebbe rispecchiarsi nelle parole di altre donne e sentirsi supportate. Per chi è fermo a quello Stop, “Naturalmente infertile” e Strada per un sogno potrebbero dare più sicurezza e più determinatezza nel riprendere la marcia.

[blockquote style=”1″]Quella porta, di quell’ospedale milanese, quella mattina mi ha cambiato la vita. Sentivo che la mia strada sarebbe stata lunga, tortuosa e complessa, ma come tutti speravo di uscire da quella porta e di chiudermela alle spalle velocemente. Velocemente… Ecco è proprio la fretta di riuscire a ottenere una gravidanza che sconvolge la vita. La normalità si spacca in mille pezzi.[/blockquote]

Queste sono le parole di una delle protagoniste del libro “Naturalmente infertile”. Un libro che parla alle donne e alle coppie, quelle donne e quelle coppie che nei propri progetti di vita hanno dovuto fermarsi un attimo, raccogliere le proprie forze e ripartire più determinate di prima. 

Il libro, scritto da Stefania di Tusco e Luisa Musto infatti, racconta le storie di donne e di coppie che, per diversi motivi, hanno incontrato un ostacolo nel loro cammino: il non poter avere figli. Tra le righe si legge del dolore, della sofferenza e dei sensi di colpa che caratterizzano questo duro confronto con la realtà. Tuttavia queste coppie hanno in comune un altro particolare: la scoperta della PMA (Procreazione Medicalmente Assistita).

 

I diversi cammini di vita ripartono da qui: da una speranza, dalla voglia di sentirsi e credersi di nuovo genitori.

Le voci dei protagonisti di questo libro danno luce a diverse storie: matrimoni felici, malattie, separazioni e riconciliazioni, in cui l’ unica costante è il voler avere un figlio. Le loro storie non si fermano col libro: le protagoniste e altre donne ancora hanno condiviso e condividono i loro vissuti su un forum, Strada per un sogno, punto di incontro per chi ha intrapreso già, o intende farlo, la strada della PMA.

Incuriosita, mi sono dedicata all’esplorazione del forum, diverse le discussioni aperte: dal parere degli esperti, alle opinioni di chi a quegli esperti si è rivolto; dalle mamme grazie all’eterologa, alle gioie della gravidanza, e così via, con discussioni anche sul tema di affido e adozione. Già, perchè non sempre la PMA porta ai risultati tanto desiderati ma, come si legge anche nelle storie del libro, il desiderio di amare un piccolo può andare oltre e, attraverso un cambio di rotta, si possono iniziare pratiche di adozione o affido.

Consiglio la lettura del libro, oltre che agli operatori (quale modo migliore di conoscere un vissuto se non attraverso un racconto in prima persona del protagonista?), soprattutto alle coppie e alle donne che credono di aver trovato un segnale di Stop alla propria genitorialità. Dopo uno Stop, con calma, si può sempre ripartire. 

Leggere questo libro significherebbe non sentirsi sole, significherebbe rispecchiarsi nelle parole di altre donne e sentirsi supportate. Per chi è fermo a quello Stop, “Naturalmente infertile” e Strada per un sogno potrebbero dare più sicurezza e più determinatezza nel riprendere la marcia.

Buona lettura!

 

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La qualità della vita delle coppie che decidono di adottare 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Tosca, S., & Musto, L. (2014). Naturalmente infertile. Storie di strade e di sogni. Graphe Edizioni

Cosima, una storia di abusi familiari e deliri erotomanici – Centro di Igiene Mentale- Cim n. 19 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

CIM – CENTRO DI IGIENE MENTALE #19

Cosima

 

Cosima Cencelli, 45 anni, ha iniziato la parte della vita in cui si rimpiange come si era, gli amori avuti, le occasioni sfiorate. Le donne si accorgono d’un tratto di essere diventate invisibili e gli sguardi dei maschi, un tempo insistenti e fastidiosi, le trascurano per ragazzine che potrebbero essergli figlie.

Cosima di rimpianti ne ha pochi, è sempre stata una bambina, ragazza e donna brutta. Bassa un metro e cinquantacinque, capelli radi tinti di un nero corvino innaturale che lasciano intravedere il cranio. Occhi grigi puntiformi da topo, unico punto di interesse in un viso gonfio come di chi appena svegliato, per il fortissimo strabismo convergente che a momenti, senza un apparente motivo come la gobba di Igor in Frankestein junior, diventa con uno scatto improvvisamente divergente e parlandone non si sa mai dove fissarla.

Cosima Cencelli si rivolge al CIM come terza scelta dopo il suo parroco Don Felice Benetton e l’accogliente vescovo di Vontano che riesce nella manovra di dirottamento. E’ stanca di aspettare e sente che perderà la pazienza. Qualcuno deve pur darle una risposta, sente che il tempo della sua vita stringe e le promesse non possono tardare a realizzarsi anche se il ricordo della biblica Sara la consola. Il fatto che sia Giovanni Brugnoli a farle il primo colloquio è frutto del caso e della sua disponibilità a coprire i turni scoperti. Per Cosima invece sarà un evidente segno del destino che aveva predisposto quell’incontro da quando lei a sette anni si dedicò al Signore. Come spiegare altrimenti che quel lontano giorno di 35 anni fa e l’incontro con Giovanni fossero un sabato 6 seppur di mesi diversi? Questi pensieri Cosima li tenne per sé e Giovanni ne venne a conoscenza solo molti mesi dopo leggendo la memoria difensiva che lei stessa (era avvocato) aveva preparato per il GIP di Vontano che doveva decidere sull’eventuale rinvio a giudizio per stalking e molestie sessuali. Gli assistenti sociali facevano il primo colloquio per raccogliere informazioni a 360°. Poi in base a quanto emerso si decideva in riunione d’equipe l’assegnazione del caso al professionista più idoneo a seconda del problema presentato.

Con la stilografica che Biagioli gli aveva regalato da poco per il suo compleanno, Brugnoli si accinse a compilare la scheda di accoglienza. Gli invii del vescovo erano sempre situazioni impegnative. Ciò suscitava un interesse di Brugnoli di forza uguale e contraria alla sgradevolezza estetica che lo spingeva a mantenere le distanze. Si aggiunga che, cosa rara per le brutte che in genere compensano con la simpatia, Cosima era anche antipatica, arrogante e pretenziosa di risarcimento come una principessa decaduta che ce l’ha col mondo per le sue disgrazie. Insomma da fuggire a gambe levate e infatti così dovevano aver sempre fatto tutti. Impossessatasi della stilografica di cui diceva di essere amante come di tutte le cose antiche l’aprì per vedere le cartucce ed una pozza di inchiostro nero si allargò sulla scrivania innescando un profluvio di scuse e tentativi di rimediare peggiori del male. Cosima disse che per farsi perdonare gliene avrebbe regalata una più bella. Qui lo sventurato sorrise con quella dolcezza da bambino smarrito che era l’arma migliore della sua seduttività. Cosima era la quinta figlia di un ricchissimo penalista di Reggio Calabria che aveva sposato la marchesa Dellipaoli di Capo Rizzuto per nobilitare i soldi fatti assistendo delinquenti e ndranghetisti. La madre, pia donna ubbidientemente contraria agli anticoncezionali, risolse il problema con una emorragia interna che se la portò mentre metteva al mondo quella orribile creatura che era sin da subito Cosima. I due fratelli più grandi avevano quasi venti anni più di lei e vivevano al nord. Il terzo fratello di sei anni più grande prima di raggiungere i due più grandi si era premurato di iniziare al sesso le due sorelline Cosima all’età di 7 anni e Maria, più grande di dodici. Le due sorelle si serrarono a difesa da un mondo pericoloso. Il padre vedovo sempre fuori per lavoro aveva per loro delle attenzioni improprie. Maria era ancora a scuola mentre Cosima, già tornata, sentì distintamente i tre colpi ravvicinati e dopo alcuni secondi di silenzio l’ultimo pietoso alla fronte. Non ebbe neppure bisogno di affacciarsi nel cortile per capire. Lo scalpicciare affannato della portiera sulle scale ed il suo grasso abbraccio a pararle la vista furono il modo in cui venne a sapere di essere diventata orfana.

A Maria non capitava ma per Cosima fu una realtà palpabile sin dalla domenica successiva ai maestosi funerali dove il parroco ricordò alle due bambine che ora la mamma ed il papà stavano alla destra e alla sinistra di Gesù per guidare le loro vite. Un uomo biondo bellissimo che diceva di essere l’arcangelo Gabriele inviato da Dio si sedette sul bordo del suo letto e le promise che se si fosse mantenuta pura fino a 33 anni come gli anni di Cristo, non concedendosi a nessun ragazzo ciò avrebbe dato la forza a Dio di distruggere la ndrangheta e allora il padreterno le avrebbe fatto incontrare l’uomo della sua vita. Maria era l’unica confidente di Cosima e le consigliò di rivolgersi al parroco. L’anziano padre Carmelo fu dilaniato dal dubbio. Da un lato l’opportunità di un rilancio turistico del paese sull’esempio di Lourdes o Medjugorje, sebbene un arcangelo ancorchè biondo tiri meno di una madonna piangente azzurro vestita. Dall’altro non gli sembrava buona cosa per la sua vecchiaia l’annuncio della distruzione della ndrangheta. Da allora il segreto rimase chiuso nel suo cuore e si avviò sulla sua strada di castità aiutata in ciò dall’aspetto che con l’adolescenza diventava, se possibile, ancor più sgradevole.

Giunta a 13 anni consultandosi con Maria decise che il voto prevedeva l’assenza di contatti sessuali con gli uomini reali. Si dedicò con passione allo sviluppo di fantasie sessualmente megalomaniche cui associò presto una masturbazione compulsiva che impediva ogni altra attività. Vivevano grazie alle abbondanti rendite della famiglia materna gestite da un fratello della madre avvocato che la prese nel suo studio. Da allora la chiamavano e sosteneva di essere avvocato ( se incalzata diceva avvocato difensore di tutti gli uomini al cospetto di Dio) ma non prese mai alcuna laurea. La casa con la vecchia portiera che faceva la domestica, sei ore al giorno allo studio dello zio, fantasie ed orgasmi ripetuti dal dopo cena alle prime luci dell’alba. Così Cosima arrivò senza accorgersene a trent’anni. Avvicinandosi la scadenza del voto, convinta che il Signore doveva aver iniziato a prepararle il predestinato, iniziò a guardarsi intorno. Non poteva che essere lui. Lo aveva sempre immaginato così con l’aspetto di Antonio Banderas ma più dolce e comprensivo. E tale era il nuovo parroco sudamericano che aveva sostituito don Carmelo che aveva concluso serenamente la sua vecchiaia senza inciampi con la ndrangheta. Quando leggeva le letture si rivolgeva chiaramente a lei e tutti quei riferimenti ad Israele come sposa illibata del Signore erano inequivocabili. Così come a lei anche a lui il Signore chiedeva un sacrificio per potersi unire al suo dono: avrebbe dovuto rinunciare al sacerdozio.

Quando padre Manel prima con garbo e poi con sempre più fermezza all’aumentare delle insistenze e degli agguati della donna le disse che si era sbagliata e avrebbe fatto bene a curarsi, il mondo le crollò addosso. Entrata una sera in chiesa poco prima della chiusura in preda ad una crisi pantoplatica devastò gli altari minori, sparse a terra le ostie del tabernacolo. Roteando le stampelle degli ex voto ribaltò i portacandele e per poco non provocò l’incendio delle panche. Il primo trattamento sanitario obbligatorio avvenne in questa occasione. Durante il ricovero Cosima era inizialmente adirata con il Signore ma poi capì che aveva avuto poca fede. Evidentemente aveva preparato per lei un uomo molto migliore e non un vile indeciso come Don Manuel. E non era neppure un caso che l’avesse condotta lì. Manuel era solo l’annunciatore come Giovanni Battista rispetto a Gesù. Anche il fatto che la ndrangheta non fosse stata ancora distrutta era la prova che il tempo non era compiuto. Fu certa che il vero sposo per lei fosse il primario dottor Giannetti, moro, barbuto e fumatore di pipa come piaceva a lei. Provò a scivolare nel suo letto una notte in cui era di guardia. Si narra che quella fu l’unica volta che Giannetti rifiutò una donna. L’esagerata bruttezza fu certamente di aiuto ma ancor più il senso di pericolo che da provetto psichiatra intuì nelle advance di quella donna. Durante il ricovero, saputo che Cosima era ancora vergine, fu richiesta una consulenza ginecologica che, nonostante una rispettosa attenzione all’ispessito e intatto imene, segnalò la presenza di numerosi segni di lesioni vulvari pregresse. Da questo episodio si sviluppo un delirio bizzarro. Il signore temendo una sua diminuita fertilità con l’avanzare degli anni aveva fatto prelevare numerosi ovociti che poi aveva sparso negli uteri di donne insignificanti. Fermava bambini per strada, li carezzava, gli regalava dei dolci, a volte tentava di sottrarli alle madri per prenderli in braccio, convinta fossero suoi figli. Una frattura scomposta del setto nasale le indusse una maggiore prudenza nell’operazione di recupero figli.

L’arcangelo Gabriele che dopo la devastazione della chiesa si era astenuto per un po’ tornò a visitarla. Il tempo stava davvero per compiersi e il ritardo era dovuto alle lungaggini delle pratiche in paradiso molto simili a quelle terrestri. Passati i 40 anni la rabbia di Cosima cresceva sempre più. Ogni rifiuto comportava una reazione violenta e divenne una abituale frequentatrice di commissariati e pronti soccorsi psichiatrici dove veniva genericamente chiamata “Cosima l’erotomane” rappresentando una vera e propria croce per medici, infermieri e poliziotti che si prendevano in giro attribuendosela come fidanzata. Bersaglio delle sue attenzioni erano soprattutto uomini famosi del mondo delle arti, scrittori e cineasti. Rileggeva nelle loro opere evidenti riferimenti alla storia d’amore che avevano con lei ad insaputa di tutti. Il resto della loro vita (mogli e figli) le appariva come una montatura per mantenere sotto copertura, lontano dagli sguardi indiscreti del grande pubblico il loro purissimo amore. La denuncia scattava immancabile quando Cosima faceva improvvisamente irruzione nella vita del malcapitato. Fermava la moglie per strada e le intimava di sparire raccontandogli della fecondissima storia d’amore che aveva col marito. Si era presentata durante le celebrazioni della notte di natale rivendicando il ruolo di padrona di casa. Aveva prelevato i bambini all’uscita della scuola dichiarando di essere la baby sitter. Aveva scritto a tutte le autorità possibili dal papa al presidente della repubblica perché fosse riconosciuto il suo eroismo nella lotta alla malavita organizzata e quella che lei chiamava l’eterea maternità. I suoi ovuli sottratigli dal ginecologo e disseminati negli uteri di donne ignare che infatti si ribellavano alle sue rivendicazioni avevano ormai generato millenovecentoventisette bambini che avevano ormai tra i tre e i sette anni.

Brugnoli era un uomo affascinante, era stato un autentico Don Giovanni ed alle sue due mogli aveva sempre affiancato numerose amanti. Lui davvero temeva di avere sparsi in giro altri figli oltre le due adolescenti cui si dedicava dopo l’abbandono da parte dell’ultima moglie. Non era un personaggio famoso ma forse si trattava di un richiamo del Signore all’umiltà e poi era stato messo sulla sua strada proprio dal vescovo di Vontano e quindi indirettamente proprio dal padreterno. Dopo i primi episodi di stalking nei suoi confronti la questione venne affrontata nella riunione di equipe. La maggioranza era per una segnalazione cautelativa alle forze dell’ordine. Irati, che da sempre invidioso dei successi amatori di Brugnoli sotto sotto godeva per la punizione che gli era toccata, sosteneva essere paradossale in quanto il magistrato non avrebbe fatto altro che affidare Cosima, evidentemente disturbata, alle cure del CIM. A quel punto assegnarla ad un altro operatore non avrebbe che peggiorato la situazione facendola sentire rifiutata. Nei capannelli intorno alla macchina del caffè traboccava livore dicendo che Cosima gli avrebbe tagliato le palle e che lui non avrebbe guarito lei ma lei avrebbe guarito lui dal suo vizietto. Per comprendere il perché di tanta animosità occorre ricordare che il secondo dei tre matrimoni del raffinato dottor Giuseppe Irati, quello che gli aveva dato le due figlie, era finito a motivo di una improvvisata che aveva fatto il giorno del precedentemente mai festeggiato onomastico della signora.

Maddalena, che era iscritta a psicologia, prendeva ripetizioni gratuite dal generoso collega del marito laureatosi da poco a pieni voti. In un ambiente colto, aperto, libero e di sinistra non si fa tanto chiasso per cose del genere. Non si tirano fuori le lupare, le mani restano a posto e le parole seguono i percorsi tortuosi delle analisi. Ci si interroga, si problematizza, si cerca di comprendere, di mettersi in discussione. Il brutto non sono le corna ma lo sarebbe il non portarle con disinvoltura, ironia, superiorità. Sebbene con estremo garbo, il successivo onomastico Maddalena lo festeggiò nel monolocale che si era comprata dopo la vendita della villetta matrimoniale. Ma queste son storie vecchie e risapute. La dottoressa filata si opponeva ideologicamente alla denuncia. Diceva che mai un paziente, e ne avevano avuti di gravi e pericolosi, era stato denunciato dal CIM. Il loro compito era quello di curanti e non di giustizieri. Non si poteva cambiare atteggiamento solo perché ad essere coinvolto e a disagio era un operatore del CIM. Era disposta a organizzare la protezione di Brugnoli ma della denuncia non si doveva neppure parlare.

La Mattaccini invece diceva che poteva essere una manovra terapeutica imponendo un esame di realtà. Il dottor Luigi Cortesi, novello Salvo D’Acquisto, si offrì di sostituire Brugnoli nella gestione del caso. Biagioli chiuse la discussione sostenendo che un cambio di operatore avrebbe solo peggiorato la situazione e che la decisione finale circa la denuncia spettava a Brugnoli che era il diretto interessato. Giovanni condivideva la posizione ideologica di Maria Filata e dentro di sé covava un lieve sentore di colpa. Non poteva negarsi che dopo il primo colloquio aveva pensato tra sé “Questa qui con quattro botte fatte bene guarirebbe subito”, purché non dovesse essere lui a dover compiere l’operazione mai tentata fino ad allora da nessun vivente. Ora si vergognava di questo pensiero becero e maschilista e temeva di aver fatto trapelare qualcosa che avesse potuto attivare il delirio di Cosima. Provò poi un’ immensa pena a pensare che la poveretta, anche da loro, veniva trattata come un problema di ordine pubblico. In tutta la riunione nessuno si era occupato della sua psiche e dei percorsi mentali della sua sofferenza. Concluse promettendo una relazione dettagliata sul caso entro due mesi e chiese di essere affiancato, senza per questo mollare, dalla Filata per gli aspetti psicologici e da Luigi Cortesi per le terapie farmacologiche.

Fu, comunque, un grande sollievo per Giovanni poter avventurarsi nel mondo delirante di Cosima, nel quale pur bisognava immergersi per coglierne il senso e magari intravedere qualche pertugio d’uscita, tenendosi per mano a Maria e Luigi che stimava professionalmente e umanamente. Si sentiva protetto più che dalle possibili advance di Cosima che di fronte ai garbati rifiuti divenivano sempre più insistenti e minacciose, dal possibile naufragare della sua stessa mente. Non è difficile smarrirsi nei gironi di una mente delirante se non si ha la supervisione attenta di Virgilio. Soprattutto per lui che forse proprio per questo timore aveva iniziato ad occuparsi dei matti e dei poveri come assistente sociale prima di essere incantato dalle sirene della psicologia.

Cosima fin dall’inizio della sua vita era stata una creaturina brutta e sgraziata apparsa tale persino ai genitori che non avevano saputo amarla. Solo Gesù avrebbe potuto amarla nonostante la sua bruttezza esteriore ed interiore. Anche dentro era schifosa. Infatti dopo le molestie del padre e l’abuso del fratello sentiva un demone perverso e lussurioso agitarsi in lei tormentarla tutti i giorni e accrescersi continuamente alimentandosi della compulsiva masturbazione con cui tentava di acquetarlo. Aveva trovato un senso alla sua vita nel dedicarsi al Signore e nel sacrificarsi per la lotta alla ndrangheta che le aveva portato via il padre. La promessa dell’arcangelo l’aveva compensata per quasi quarant’anni ed in un modo o nell’altro aveva vissuto una vita per lei eroica. Quando era andata a riscuotere il premio del suo sacrificio i conti non erano più tornati. Di settimana in settimana la carrozzeria della macchina di Brugnoli si arricchiva di incisioni reclamanti amore che grondavano disperazione. Le due figlie di 14 e 16 anni erano state fermate due volte all’uscita del liceo da quella brutta signora che gli aveva raccontato una strana storia. Il padre gli aveva spiegato la vicenda e loro l’avevano trovata simpatica e avevano rassicurato il padre di essere tranquille. In un paio di occasioni Giovanni era stato assalito fisicamente all’uscita del CIM e fatto oggetto di pesanti palpamenti da parte di Cosima completamente nuda sotto un lungo cappotto da militare sovietico. La mail di Brugnoli era intasata da video porno amatoriali con Cosima unica protagonista. In un primo momento i curanti avevano pensato di indirizzare Cosima verso una vita religiosa in qualche istituzione disposta ad accoglierla e per questo avevano anche parlato col vescovo di Vontano che era l’inviante. Un monastero di suore, una casa di cura gestita dalle religiose. Progressivamente però il delirio erotomanico si arricchiva di agiti. Giovanni la vedeva comparire dovunque andasse e non riusciva a capire come fosse a conoscenza dei suoi spostamenti. Al bar in piazza. Nella faggeta dove andava per funghi. Due file sotto a lui allo stadio. Era la cassiera del cinema, l’addetta al bagno dell’autogrill sull’autostrada, la benzinaia che faceva il pieno all’auto istoriata dalle sue stesse incisioni, la signora sull’auto accanto al semaforo. A volte le sembrava persino la giornalista del TG. Lei si limitava a guardarlo, sorrideva triste e, non sempre, si apriva un attimo il sovietico pastrano a mostrare le sue nudità. Si convinse che stava impazzendo e chiese a Luigi Cortesi di prescrivergli del serenase adducendo un periodo di insonnia whiskey resistente. Continuava a non voler denunciare per motivi ideologici e perché certo di coprirsi di ridicolo raccontando i suoi deliri persecutori. Il P.M di Vontano dottor Ferracuti aveva proceduto d’ufficio anche a seguito delle pressioni confidenziali del capitano Ruffi del carabinieri di Monticelli dopo che l’incendio doloso dell’auto di Brugnoli aveva rischiato di appiccare le fiamme ai locali della Caritas che ospitavano i senza tetto. Ferracuti ricostruì la storia recente delle molestie interrogando tutti gli operatori del CIM e chiuse in un mese le indagini. Poi la pratica fu affidata insieme alla memoria difensiva scritta dalla stessa Cosima al giudice delle indagini preliminari che doveva decidere per l’archiviazione o il rinvio a giudizio. Scrupoloso chiese al CIM la cartella clinica che studiò con attenzione e si riservò una settimana per esprimere il suo verdetto. Verificata l’evidente non imputabilità della signora Cencelli la affidava alle cure del CIM e costata l’incompatibilità con il pur bravo psicologo Brugnoli ne raccomandava l’assegnazione ad un medico esperto che più volte aveva collaborato con il tribunale quale il dottor Giuseppe Irati.

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Soffri di ansia sociale? Probabilmente i tuoi amici ti apprezzano più di quanto credi

FLASH NEWS

I dati ottenuti in questa ricerca vanno nella stessa direzione di quanto sostenuto in passato da molti studiosi, ovvero che il disturbo d’ansia sociale porta le persone che ne soffrono a sottostimare la qualità dei loro rapporti di amicizia.

La psicoterapia con una persona che soffre di disturbo d’ansia sociale comprende, tra le altre cose, il tentativo del terapeuta di stimolare il paziente di essere socialmente accettati più di quanto essi credano. Approccio spesso vano, in quanto questo genere di pazienti tende regolarmente a svalutare le proprie relazioni.

Thomas Rodebaugh ed i suoi colleghi indagano proprio questa tematica, declinandola specificatamente nel contesto dei rapporti di amicizia: i ricercatori chiedevano a soggetti con disturbo d’ansia sociale di valutare una loro amicizia in termini di intimità, piacevolezza, supporto e soddisfazione; chiedevano poi agli amici chiamati in causa di fare lo stesso.

La ricerca si basava su un campione di 77 uomini e donne con una diagnosi di disturbo d’ansia sociale e 63 soggetti di controllo che non soffrissero di tale disturbo. Ciascuno dei partecipanti nominava un amico e a entrambi era somministrato lo stesso questionario. La maggior parte delle amicizie erano tra persone dello stesso sesso.

I dati ottenuti in questa ricerca vanno nella stessa direzione di quanto sostenuto in passato da molti studiosi, ovvero che il disturbo d’ansia sociale porta le persone che ne soffrono a sottostimare la qualità dei loro rapporti di amicizia.

In particolare, dallo studio di Rodebaugh e collaboratori emerge la tendenza di tali soggetti patologici a giudicare in maniera peggiore questo tipo di relazioni se confrontati con il gruppo di controllo. Inoltre, più giovani erano i partecipanti con disturbo d’ansia sociale e più nuove le loro amicizie, tanto più queste erano valutate negativamente.

Ad ogni modo, la buona notizia è che, mentre non c’era una differenza significativa tra le valutazioni dei soggetti di controllo e il loro rispettivo amico in merito al loro rapporto, c’era invece una differenza significativa tra i giudizi espressi dai partecipanti con disturbo d’ansia sociale e i loro amici. Ovvero, questi ultimi giudicavano la relazione in modo molto più positivo. Infatti, essi vedono i soggetti con disturbo d’ansia sociale come meno dominanti e aventi maggiori capacità di adattamento quindi, in sostanza, più comprensivi e capaci di compromesso.

Nonostante i limiti di questo studio – è possibile che le differenze tra gruppi siano la causa, e non la conseguenza, del disturbo d’ansia infatti, la ricerca era ristretta a persone con disturbo d’ansia sociale che avessero un amico disponibile a partecipare a tale ricerca – è importante sottolineare il messaggio di ottimismo e speranza rivolto alle persone che soffrono di questo disturbo: non preoccupatevi, nonostante non ne abbiate la percezione chiara e definitiva, i vostri amici vi adorano.

 

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Ordine degli Psicologi del Friuli Venezia Giulia: La Regione cancella la Psicologia dalla riforma della sanità – Comunicato Stampa

COMUNICATO STAMPA

Friuli Venezia Giulia, «La Regione cancella la psicologia dalla riforma della sanità»

La denuncia del presidente dell’Ordine degli Psicologi: «Famiglie, disabili e anziani vengono abbandonati a se stessi. Questa è una sanità senza testa».

 

Nessun supporto all’interno di un progetto organico ai portatori di disabilità e alle donne in difficoltà. Addio anche alle strutture di valutazione neuropsicologica per la diagnosi delle demenze. Finiscono nel limbo i servizi per i minori.

Il presidente dell’Ordine degli psicologi del Friuli Venezia Giulia Roberto Calvani boccia la riforma della sanità regionale che è stata recentemente approvata: «È un riforma che delinea una sanità senza testa dove non si fa nulla per integrare la figura professionale dello psicologo. Il testo approvato lascia presagire che i servizi a carattere psicologico non saranno più erogati dal nostro sistema sanitario. Se così fosse questo comporterebbe un taglio netto delle prestazioni essenziali a supporto delle fasce più deboli della popolazione».

Insiste Calvani: «La riforma, così come scritta, delinea una sanità dedicata alla sola cura di coloro che sono necessari al sistema produttivo, mentre le fasce più deboli, quelle che richiedono interventi essenziali di carattere psicologico, saranno lasciate sole».

A partire dai portatori di disabilità, cui spesso si associano sintomatologie psichiche anche gravi che, «al compimento della maggiore età, non verrebbero più seguiti dal servizio sanitario regionale non essendo prevista una specifica attribuzione di ruoli e competenze psicologiche. In particolare, ci si è più volte imbattuti nella impossibilità di orientare opportunamente le persone con disabilità adulta, in situazioni di necessità di valutazioni, rivalutazioni, accompagnamento presso un centro adeguatamente preparato e formato sulla disabilità adulta anche per contrastare le “migrazioni” verso centri fuori Regione».

Per quanto riguarda i minori, «i servizi, che sono già in serissime difficoltà, con liste di attesa che rasentano in alcune realtà gli otto-nove mesi, non trovano nella legge una precisa collocazione. Non si prende nemmeno in considerazione per gli psicologi liberi professionisti l’opportunità di collaborare, in modalità strutturale, con le ASL e le scuole della Regione per attuare, all’interno di un protocollo definito, le norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico».

Anche sulla popolazione anziana, gli effetti sarebbero molto pesanti. «Le strutture di valutazione neuropsicologica, fondamentali per la diagnosi delle demenze e in particolare dell’Alzheimer, non vengono nemmeno prese in considerazione nel nuovo sistema sanitario. Così come i servizi adeguati di sostegno ed accompagnamento della disabilità adulta non trovano compensazione né risposta nella legge».

La riforma porta così ad una serie di tagli che «a fronte dell’aumento delle richieste di intervento psicologico che registriamo da parte di  familiari e pazienti, cancellano le parole “psicologia” e “psicologo” dal testo della norma». Questo, sottolinea Calvani, «davanti ad una situazione che vede operare nel sistema sanitario regionale 287 psicologi di cui 196 di ruolo con contratto a tempo indeterminato e 91 con contratti  a termine o di diversa natura che si stanno avviando verso una cessazione del servizio.

Attualmente gli psicologi svolgono la loro professione in oltre 20 servizi sanitari sia territoriali che ospedalieri con erogazione di decine di migliaia di prestazioni psicologiche. Non è possibile cancellare tutto questo con un colpo di spugna in nome di non si sa cosa».

 

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Contesti di emergenza: la fiducia verso l’altro è funzionale!

Marco Pontalti

 

La fiducia verso l’altro è funzionale in contesti di emergenza? Il fatto che certe persone siano state coinvolte senza che il piano di emergenza lo abbia previsto, e pertanto ne abbiano avuto il permesso, è stato oggetto di interesse per alcuni studiosi svedesi (Uhr et al., 2008).

Stiamo assistendo in questi ultimi mesi ai vari dissesti idrologici che stanno duramente colpendo molte zone del territorio italiano: alluvioni, frane, smottamenti. Così come accade ad ogni situazione di calamità, il piano di emergenza è l’abbecedario che permette alle autorità competenti, radunatisi in una sala operativa, di fornire le istruzioni alle unità di soccorso al fine di intervenire in maniera coordinata ed operativa alla tutela della popolazione coinvolta e dei beni sul territorio colpito. Per esempio, il Sindaco di un comune colpito da una frana è colui che prende in mano il comando ed il controllo cercando di dirigere e coordinare i servizi di assistenza e soccorso come quanto previsto dal piano. Pertanto il Sindaco dovrà seguire le istruzioni, coinvolgendo i diversi organismi, come la Protezione Civile, i Vigili del Fuoco, il Pronto Soccorso, etc.

Alcuni studiosi hanno notato che nelle situazioni di emergenza, pur in presenza di un piano in cui sono definiti ruoli e responsabilità, si possono osservare delle differenze tra quanto previsto nel piano stesso e quanto effettivamente messo in atto (Mendonça 2006; Santoianni, 2007; Uhr et al., 2008). Potrebbe accadere che invece di coinvolgere il responsabile di un’unità di soccorso, il Sindaco senta per primo il consigliere comunale, che il soccorritore chiami un suo amico per aiutarlo in un’operazione di recupero, che un capo volontario raccolga informazioni sulla situazione dal suo collega piuttosto che dal suo diretto responsabile. Queste deviazioni potrebbero apparire all’occhio del lettore come sintomi di disorganizzazione che possono causare rallentamenti e disordine nella regolare attuazione del piano di emergenza.

Il fatto che certe persone siano state coinvolte senza che il piano di emergenza lo abbia previsto, e pertanto ne abbiano avuto il permesso, è stato oggetto di interesse per alcuni studiosi svedesi (Uhr et al., 2008). Attraverso il metodo di analisi della social network (é una metodologia di analisi di reti sociali che, attraverso strumenti di rilevazione come questionari, consiste nell’individuazione di nodi che rappresentano i singoli individui di una rete, e di frecce/linee le quali raffigurano le relazioni tra gli stessi)(Wasserman & Faust, 1999), hanno cercato di comprendere se sono state chiamate perché legate da un rapporto di reciproca conoscenza e fiducia.

Riferendosi al caso di un grave incidente industriale accaduto nel febbraio del 2005 vicino a Helsingborg, gli stessi si sono dapprima documentati sull’ evento accaduto, sulle organizzazioni e sulle persone coinvolte. Successivamente hanno somministrato agli operatori un questionario per ottenere informazioni circa il loro ruolo, i tempi di inizio e conclusione del loro intervento oltreché le risposte ai tre quesiti:

“Chi hai contattato durante l’emergenza?”

– Il quesito cerca di misurare il fattore contact ossia quante volte una persona è stata contattata e chi, oltre agli intervistati, è stato coinvolto. La risposta a questo quesito, combinata con il ruolo dell’operatore intervistato, consentirebbe di identificare gli addetti ai soccorsi distinguendoli da quelli non rientranti nel piano di emergenza.

“Chi tra questi sono stati i più importanti per svolgere le tue operazioni?”

– Il quesito misura su una scala da 0 a 3 il fattore importance, ossia quanto le persone contattate sarebbero state importanti per portare avanti e a termine il proprio intervento. La risposta consentirebbe di individuare se un soggetto contattato sia stato o meno funzionale per lo svolgimento dei propri compiti.

“Chi e quanto tra questi conoscevi prima di intervenire?”

– Il quesito misura il fattore friendship. La risposta, su una scala da 0 (non lo si conosce per nome) a 5 (è un amico di fiducia), cercava di valutare se l’ausilio delle persone si fosse basato anche su un rapporto di fiducia. Tale risposta consentirebbe di analizzare se i soggetti, importanti o meno, sono stati chiamati sulla base di un rapporto di reciproca conoscenza.

L’insieme di questi dati hanno consentito di ricostruire diverse social network analysis e di comprendere le dinamiche relazionali tra gli attori coinvolti. In generale gli studi sembrano mostrare che durante una situazione di emergenza, i soggetti tenderebbero a contattare le persone che risultano importanti nel perseguimento dei propri compiti, piuttosto che quelle previste nel piano di emergenza. Sembrerebbe anche che ad influenzare la tempestività dell’intervento da parte degli operatori sia il fattore fiducia: pare infatti che sul campo intervengano primariamente conoscenti o amici, coinvolti in quanto ritenuti funzionali alla finalizzazione del proprio intervento.

 Pertanto, la costellazione relazionale ed interpersonale sembra essere precostituita già prima che un evento si manifesti, influenzando potenzialmente il tipo di risposta all’emergenza e generando una deviazione o una strutturazione organizzativa non prevista. Questo permetterebbe la formazione di gruppi ad hoc, ovvero, adattati al contesto, altamente efficienti (Meyerson et al., 1996), promotori di cooperazione (Gambetta, 1988) e di comportamenti funzionali alla creazione di una solida rete interattiva (Miles & Snow, 1992). Con questo gli studiosi svedesi non intendono dire che i piani di emergenza siano inadeguati, restano dei capisaldi a cui fare riferimento per regolare in maniera strategica i ruoli, i mezzi e le procedure da attivare. Ritengono, invece, utile far presente che sussistono componenti sociali e psicologiche, la cui conoscenza e consapevolezza contribuirebbe ad una più efficace organizzazione dell’intervento in caso di emergenza.

Tornando all’esempio del Sindaco del Comune colpito da una frana: consulterà il piano di emergenza o in primis mobiliterà le risorse che già conosce e che sono a sua diretta disposizione? Di fronte alla necessità di rodare e aggiornare il piano di emergenza, preferirà formarsi e collaborare con esperti a lui sconosciuti o con persone della sua rete interpersonale?

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Mendonça, D., Beroggi, G. E. G., van Gent, D., & Wallace, W. A. (2006). Designing gaming simulations for the assessment of group decision support systems in emergency response. Safety Science, 44 (6), 523-535.
  • Santoianni, F. (2007). Protezione civile disaster management. Emergenza e soccorso: pianificazione e gestione. Firenze: Accursio Edizioni.  ACQUISTA ONLINE
  • Uhr, C., Johansson, H., & Fredholm L. (2008). Analysing emergency response systems. Journal of Contingencies and Crisis Management, 16 (2), 80-90.
  • Wasserman, S, & Faust, K. (1999). Social network analysis. Cambridge: Cambridge University Press.
  • Meyerson, D., Weick, K.E. and Kramer, R.M.Swift Trust and Temporary Groups (1996), Trust in Organizations: Frontiers of Theory and Research, Sage Publications, California.  ACQUISTA ONLINE
  • Miles, R.E. and Snow, C.C. (1992). Causes of Failure in Network Organisations, California Management Review, 34 (4), 53–72.  DOWNLOAD
  • Gambetta, D. (1988). Trust: making and breaking cooperative relations. New York:Basil Blackwell. DOWNLOAD 

Psicoterapia: intervista a Tullio Scrimali – I Grandi Clinici

 LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

 

State of Mind intervista:

Tullio Scrimali

Professore di Psicologia Clinica, Università di Catania

 

State of Mind intervista Tullio Scrimali: Psichiatra e Psicoterapeuta, Professore di Psicologia Clinica presso l’Università di Catania. Direttore della scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva Aleteia.

Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

 

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