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Cos’è la dipendenza da cibo? Due voci a confronto: Paul Fletcher e Paul J. Kenny

L’applicazione del termine food addiction al pari di altre forme di dipendenza si basa sul fatto che alcune caratteristiche di questo fenomeno sono simili a quelle riscontrate nel disturbo da abuso di sostanze e alcuni cibi, gustosi e saporiti, sembrano avere gli stessi effetti delle sostanze che creano dipendenza su specifici network cerebrali.

 

Non esiste chiaro consenso sulla validità del concetto di dipendenza da cibo né sul fatto che alcune persone che hanno un discontrollo sull’alimentazione possano considerarsi “dipendenti” al pari di quelle affette da un disturbo da abuso sostanze.

Paul Fletcher, del dipartimento di psichiatria dell’università di Cambridge, e Paul J. Kenny, del dipartimento di neuroscienze dell’Icahn School of Medicine at Mount Sinai di New York, sono le due voci contrapposte nel dibattito sulla caratterizzazione del concetto della food addiction recentemente pubblicato sulla rivista Neuropsychopharmacology.

Cosa si intende per food addiction?

L’applicazione del termine food addiction è basata sul fatto che alcune caratteristiche di questo fenomeno appaiono somiglianti a quelle riscontrate nel disturbo da abuso di sostanze e che alcuni cibi, gustosi e saporiti, sembrano avere gli stessi effetti delle sostanze che creano dipendenza, su specifici network cerebrali – il sistema dopaminergico mesolimbico – legati alla ricompensa.

In particolare, alcuni studi di tipo neurobiologico hanno sviluppato l’ipotesi che la facile accessibilità e sovraconsumazione di questi cibi potrebbe favorire l’attivazione dei medesimi processi cerebrali sottostanti sia comportamenti alimentari di tipo binge che sintomi di astinenza, anche se, al momento, a parere di Fletcher, non esistono delle evidenze robuste e convincenti a riguardo (Fletcher & Kenny, 2018).

Infatti i dati finora ottenuti attraverso l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale e dalla PET non supportano in modo convincente l’ipotesi che nell’uomo i cambiamenti neurobiologici osservati siano riconducibili a comportamenti di food addiction, come invece evidenziato nei modelli animali (Ziauddeen & Fletcher, 2013).

Da diverso tempo si fa riferimento alla food addiction come tentativo di spiegazione di quei pattern di comportamento, spesso osservati in ambito clinico, legati alla ricerca spasmodica di cibi ipercalorici appetitosi ad alto contenuto di zucchero e grassi, simil craving, in cui è presente una perdita di controllo al momento del loro consumo (Davis, 2014).

Per tale ragione, il concetto di food addiction, la cui validità viene attualmente discussa, spesso viene sovrapposto e collegato oltre che alle dipendenze anche a pattern di comportamenti alimentari disfunzionali e problematici, come il disturbo da alimentazione incontrollata e la bulimia in cui sono presenti le abbuffate incontrollate di cibo ipercalorico, tanto da ritenere che la food addiction non sia distinta dal sintomo del binge eating (de Vries & Meule, 2016).

La food addiction è dunque un comportamento alimentare disfunzionale oppure una vera e propria forma di dipendenza?

Per poter stabilire la validità e l’attendibilità del costrutto food addiction è necessario occuparsi anche di altri fenomeni, come la tolleranza e l’astinenza, legate maggiormente al disturbo da abuso di sostanze piuttosto che ai comportamenti alimentari disfunzionali. Infatti il piacere al consumo inversamente proporzionale alla quantità di cibo ingerito può riferirsi al fenomeno della tolleranza, così come l’ansia e la disforia presenti quando vi è penuria di cibi ipercalorici siano da classificarsi come sintomi legati all’astinenza.

Nonostante ciò, in letteratura si sono evidenziate difficoltà nel traslare in modo sistematico le evidenze neurobiologiche ottenute grazie ai modelli animali sugli umani, che potrebbero aiutare nello stabilire la categorizzazione della food addiction tra i disturbi da abuso di sostanza. A parere di Fletcher (Fletcher & Kenny, 2018), infatti, se non vi sono evidenze robuste che possano supportare l’adesione di un costrutto (la dipendenza da cibo o food addiction) ad un modello (quello delle dipendenze), non è scientificamente possibile categorizzare tale costrutto in modo sicuro anche se comunemente ci si riferisce ad alcune tipologie di cibo come a delle droghe.

Al contrario Kenny è maggiormente convinto che il sovraconsumo di cibi ipercalorici ad alto contenuto energetico possa comportare dei rimodellamenti dei circuiti legati alla motivazione in una maniera tale da costituire una vulnerabilità consistente per i soggetti sovrappeso che saranno portati più frequentemente a desiderare certe proprietà nel cibo che ingeriscono, nonostante siano assolutamente consapevoli degli effetti negativi che la loro alimentazione dannosa avrà sulla loro salute (Fletcher & Kenny, 2018), come succede nelle dipendenze.

In particolare la dipendenza da cibo condividerebbe tre caratteristiche cliniche con i disturbi da abuso di sostanze, oltre che la tolleranza e l’astinenza: la sensazione di deprivazione quando la sostanza non è disponibile al momento, una percentuale maggiore di recidiva e di mancanza di autocontrollo durante i momenti di astinenza e la persistenza nel consumo della sostanza (“il non riuscire a farne a meno”, nonostante la consapevolezza dei sue effetti negativi sulla salute).

Diverse evidenze inoltre mostrano come i cibi ipercalorici ad alto apporto energetico stimolino i circuiti della ricompensa nello striato e ciò impedirebbe ai soggetti sovrappeso di perdere il peso in eccesso, e come questi cibi siano implicati nell’alterazione dell’attività dei circuiti prefrontali, alterazione che si riscontra nella dipendenza da sostanze (Siep, Roefs et al., 2009).

In particolare, a parere di Kenny (Fletcher & Kenny, 2018), una specifica combinazione di macronutrienti nei cibi ipercalorici potrebbe determinare una “spinta sovrafisiologica” nei circuiti cerebrali legati alla motivazione, spinta che a sua volta causerebbe comportamenti consumatori.

In conclusione

Nonostante i differenti pareri, entrambi i ricercatori concordano nell’affermare che una maggiore conoscenza dei meccanismi che fanno si ché specifiche sostanze possano rimodellare i circuiti legati alla motivazione, e di conseguenza determinare comportamenti compulsivi di ricerca della sostanza stessa, possa apportare benefici, insieme a ricerche orientate ad identificare le differenze tra la food addicition e il disturbo da abuso di sostanze, alla comprensione di tale fenomeno.

Alimentazione e salute mentale – Report dal Convegno di Palermo, 28 e 29 Settembre 2018

La PsicoNutrizione si rende necessaria quando si riscontrano difficoltà ad attenersi a un modello dietetico idoneo; essa affronta le problematiche della fame emotiva e della dipendenza da cibo supportando chi vuole dimagrire ma incontra difficoltà a lungo termine.

 

Alimentazione, salute psicofisica, prevenzione, sensibilizzazione a un corretto stile di vita: questi i temi centrali del Convegno “Alimentazione e Salute Mentale. Le nuove conquiste del legame mente-corpo” svoltosi il 28 e 29 Settembre scorsi nella sontuosa cornice di Villa Igiea.

Un susseguirsi di relazioni a carattere medico e psicologico, in linea con quanto indicato dall’OMS sul concetto di salute come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, dove un ruolo centrale occupa la prevenzione delle malattie correlate all’obesità, quali le malattie cardivascolari e il diabete.

Il Convegno sottolinea la sinergia tra psicologo e nutrizionista a supporto del paziente che si accinge a seguire con successo un piano alimentare personalizzato e si pone, altresì, l’obiettivo di sensibilizzare gli aspetti di prevenzione e cura per uno stile di vita sano e duraturo nel tempo – introduce la dott.ssa Paola Di Natale, Presidente e Responsabile Scientifico del convegno – In questa direzione si muove la PsicoNutrizione come sostegno a uno stile di vita sano, prima dell’insorgenza dei problemi.

La prevenzione deve iniziare già nella vita prenatale, nella misura in cui i geni possono essere modificati dalle esperienze ambientali, così che il DNA non sia il nostro destino, come sottolinea l’epigenetica – argomenta la dott.ssa Nicoletta Salviato, Responsabile UOS Educazione e Promozione della salute, ARNAS Civico di Palermo – Una corretta prevenzione si rende necessaria per ridurre la probabilità di insorgenza della sindrome metabolica, complessa, patologia che vede associate, tra le altre, insulino-resistenza, obesità centrale e ipertensione arteriosa ed è collegata all’insorgenza dell’Alzheimer.

Oggi sempre più importanza si dà in medicina al concetto di nutraceutica, che indica come il cibo possa essere la prima efficace soluzione terapeutica – sottolinea Raffaella Mallaci Bocchio, biologo nutrizionista – In particolare i nutraceutici, come la Berberina e le fibre solubili, sono un buon coadiuvante insieme a dieta e trattamento farmacologico sia in fase di prevenzione che trattamento del diabete mellito di tipo 2, associato con aumento del rischio cardiovascolare.

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Psiconutrizione_ alimentazione e salute mentale - Report dal Convegno_1

Psiconutrizione_ alimentazione e salute mentale - Report dal Convegno_2Imm. 1 e 2 – Immagini dal convegno Alimentazione e Salute Mentale

 

Dal punto di vista della lotta ai problemi di sovrappeso e obesità e considerando l’importanza di un piano alimentare sostenibile, praticabile e accettato dalla persona colpita dal disturbo alimentare, che apporti cambiamenti duraturi nel tempo, e che si interessi della gestione della fame emotiva, un ruolo di primo piano è svolto dalla PsicoNutrizione, approccio olistico e integrato tra Psicologia e Scienza dell’Alimentazione.

La PsicoNutrizione si rende necessaria quando si riscontra difficoltà ad attenersi a un modello dietetico idoneo; essa affronta le problematiche della fame emotiva e della dipendenza da cibo supportando chi vuole dimagrire, ma incontra difficoltà a lungo termine – spiega Di Natale – Ecco che lo psicologo lavorerà sulla motivazione al cambiamento, sull’immagine corporea e sull’autostima, mentre il nutrizionista, attraverso il percorso di educazione alimentare, la dieta e la perdita di peso, inciderà sugli aspetti psicologici.

Psicologia e biologia, un binomio che richiama la correlazione tra alimentazione e salute mentale, come afferma il prof. Ramilli, fondatore della Psicobiotica.

La Psicobiotica considera non solo l’importanza del cibo inteso nel senso classico, ma anche come il cibo-emotivo, poiché le emozioni possano condizionare la fisiologia e la funzionalità dell’organismo fino a creare vere e proprie patologie (stress, depressione…). È importante sottolineare, in tal senso, l’importanza dei rapporti sociali, delle relazioni amicali e degli ambienti di lavoro poiché condizionano notevolmente la nostra salute.

Un’integrazione che richiama il concetto di unità mente-corpo e che rimanda alla necessità di un monitoraggio dei propri stati mentali che, se scarsamente regolati, per esempio sul versante depressivo, si traducono in disregolazione alimentare, promuovendo malessere psicofisico e rendendo sempre più complesso, con lo strutturarsi di abitudini disfunzionali, l’obiettivo di uno stile di vita salutare, preventivo rispetto a ogni sorta di patologia dell’organismo.

Psicoterapia di Dio (2018) di B. Cyrulnik – Le riflessioni di Giancarlo Dimaggio

Tutte le estati nuoto nello Jonio. Cammino tra dune, ginepro, finocchio spinoso e sbriciolo origano, profuma. Poi mi tuffo. È l’inizio di settembre, quest’anno per la prima volta incontro una tartaruga. È grandissima. L’avvicino, mi guarda, in pochi secondi è fuori portata. Da quale mondo antico e senza tempo è arrivata?

Articolo scritto da Giancarlo Dimaggio per il Corriere della Sera il 15/09/2018

 

Forse lo stesso che ha scorto il soldato che accoglie il nuovo superiore a Guadalcanal nel film La sottile linea rossa. Gli deve fornire la mappa della situazione, con i giapponesi le cose sono complicate, dal bunker in cima alla collina sparano come dannati. E gli dice: “Hanno pesci che vivono sugli alberi”. Sono in guerra, molti moriranno, ma dalla sua voce erompe lo stupore di chi scopre una natura oltre quello che poteva concepire. La trascendenza. Boris Cyrulnik nel suo La psicoterapia di Dio evoca due vulcanologi, Katia e Maurice Krafft, morti “il 3 giugno1991, quando una colata di lava incandescente li ha raggiunti sulle pendici del monte Uzen”. La coppia sapeva che il loro amore per i vulcani un giorno li avrebbe sopraffatti, ma erano felici. La lava che erutta apriva loro uno squarcio sull’altrove.

Cyrulnik ha lavorato in uno scenario di foreste e massacri: il Congo, in una pausa tra le guerre. Quei posti dove ti chiedi più facilmente dov’è Dio: nella bellezza della natura o perso nel fragore delle raffiche di un Uzi? Ha parlato con bambini-soldato, dodici anni e già vecchi. Uno di loro da grande vuole fare il calciatore o l’autista, ha visto le macchine, ai suoi occhi spettacolari, delle ONG. Quel bambino gli chiede perché solo in chiesa veda immagini belle, invece di quelle spaventose che lo inondano senza requie. Cyrulnik si accorge di non avere una risposta, il bambino è deluso. La psicoterapia di Dio è il suo tentativo di sanare quell’animo. La sua domanda diventa: come può un’istanza eterna agire fin dentro il cervello? Da credente, ha trovato la sua spiegazione.

Si appoggia alla teoria dell’attaccamento, formulata da quel pilastro della psicoterapia che è stato John Bowlby. Il bambino nasce e immediatamente per ogni dolore, bisogno ha l’istinto a rivolgersi a degli adulti speciali. Mamme, papà, che poi la scienza rinomina: figure d’attaccamento. Il modo in cui tali figure rispondono alle richieste del bambino ne plasma il carattere. Genitori sicuri, quindi amorevoli, presenti e, per quanto possibile, prevedibili e calmi forgiano figli fiduciosi. Al contrario, sia genitori freddi, distanti, pronti al giudizio stizzito sia genitori che curano ma imbevuti d’ansia generano figli insicuri. Genitori disorganizzati, che possono abbracciare e poi odiare, abusare, andare via con la testa nei loro mondi popolati di mostri, spaccano la mente del bambino, quasi alla lettera. Cyrulnik sostiene che il modo in cui si plasma il rapporto con Dio dipende dallo stile di attaccamento. Bambini cresciuti sicuri hanno fiducia nell’intervento dall’alto, gli altri lo temono, se ne distaccano, protestano per le sue ingiustizie. Cyrulnik è un illuminato pluralista, le sue parole si rivolgono a credenti in Dei dai nomi diversi e anche ad atei e agnostici. Descrive un Dio materno e consolatore, sensuale ed esaltante, paternamente normativo. Alla fine della sua ricerca c’è un Dio psicoterapeuta, che cura, risana, conduce verso la trascendenza.

Il libro, va detto, non ha come pregio principale il rigore scientifico. Il quadro che emerge nel rapporto tra religiosità e benessere è in realtà più complesso. Alcune ricerche indicano che credere in Dio è fonte di sollievo e resilienza – la capacità di reggere all’impatto delle avversità – altre il contrario. Per molti, scopre uno studio di Gebauer e colleghi, dell’Università Humboldt di Berlino, la religiosità è benefica perché permette di sentirsi validi e accettati in società dove è un valore, più in America Latina che nella laica Scandinavia direi. Vero è invece che adattare la psicoterapia alla religione dell’individuo è utile. Molto più chiaro il potere di spiritualità e trascendenza: quella che Cyrulnik chiama “meraviglia di esistere” è benefica.

L’afferri nelle condizioni estreme. Il pastore protestante ricordato nel libro: i nazisti fermano il suo treno. Se lo arrestano e torturano può svelare i nomi dei resistenti. Si contorce dall’angoscia, ma al momento dell’arresto lo troveranno in estasi. Era andato altrove.

È come la meraviglia delle terre desolate. Appare nei libri Meridiano di sangue e La strada di Cormac McCarthy e in quello di Omar Di Monopoli Nella perfida terra di Dio. Muretti a secco, solidi già nel giorno dell’origine, abitati da rettili impassibili, costeggiati da eremiti paranoici e uomini dagli occhi opachi. Terre in cui chi cerca Dio respira polveri rosse, un minerale insidioso che induce una Fatamorgana malefica: una cattedrale romanica rovesciata e potente. Eppure c’è una trascendenza in quei mondi bruciati. La stessa che cercano i bambini-soldato del Congo, morti dentro per la fame di Coltan dei nostri smartphone. L’accesso al mondo altro di Jim Caviezel che ne La sottile linea rossa risponde a Sean Penn, nel ventre della nave che li porterà verso l’orrore: “Io sono due volte l’uomo che è lei… io ho un’altra vita l’ho vista”.

Nei nostri studi di psicoterapia incontriamo abitanti di quelle terre: hanno disimparato a sperare, il loro sguardo incagliato nell’orizzonte della sofferenza, il pensiero avvolto su sé stesso in spirali soffocanti. Per molti di loro Dio non è più o non è mai stato consolazione. Con loro lavoriamo nelle nostre serre, seminate di tecnica, ragionamento, lavoro sul corpo ed empatia, ormai giunti a piena fioritura. Di molti riduciamo il dolore, ad alcuni apriamo squarci su un altro modo di osservare il mondo.

Pinneggio verso la tartaruga, vorrei toccarla. È sorpresa, per un attimo resta immobile. I raggi fendenti che screziano le pendici vinaccia del suo carapace sono il frutto di eoni di ricombinazioni del DNA. Lo è ugualmente il movimento lento e perfetto del collo tozzo con cui si volta a guardarmi, curiosa, dubbiosa. Più rapida e sicura di me svanisce e io, due metri sott’acqua, perdo l’interesse nel reale.

Fame e tono dell’umore: come i livelli di glucosio influenzerebbero stati emotivi e comportamenti

L’improvviso calo di glucosio che sperimentiamo quando siamo affamati potrebbe influire sul nostro umore. La ricerca pubblicata su Psychopharmacology ha indagato l’impatto della fame sul comportamento emotivo.

 

La ricerca ha utilizzato topi da laboratorio. I ricercatori hanno osservato segnali di stress, quali livelli più elevati di cortisolo e comportamenti simil depressivi nei ratti dopo aver somministrato loro un bloccante del glucosio.

Fame: può determinare cattivo umore, stress ed ansia?

Per lo studio i ricercatori dell’Università di Guelph hanno somministrato un bloccante del glucosio, inducendo uno stato di ipoglicemia in alcune cavie che si trovavano in un particolare luogo fisico; nella seconda condizione è stata somministrata un’iniezione di acqua ai medesimi topi, posti però in un altro luogo. Ciò che si è osservato è che quando i topi erano liberi di muoversi nell’ambiente, evitavano attivamente il luogo in cui era stata indotta l’ipoglicemia.

Francesco Leri, professore del Dipartimento di Psicologia ha spiegato

Questo tipo di comportamento di evitamento è un’espressione di stress e ansia. Gli animali ricordano il luogo in cui hanno vissuto l’esperienza stressante e lo evitano per non riprovare più la medesima sensazione.

I ricercatori hanno monitorato i livelli ematici dei ratti dopo la somministrazione del bloccante e hanno trovato livelli più elevati di cortisolo, un indicatore di stress fisiologico; inoltre hanno osservato che le cavie apparivano più pigre in seguito all’iniezione. Questo potrebbe essere in parte giustificato dal fatto che buoni livelli di glucosio sono essenziali per la funzionalità muscolare, tuttavia quando è stato somministrato un farmaco antidepressivo di uso comune, gli animali hanno iniziato a muoversi normalmente, si è assistito quindi a un cambiamento del comportamento non giustificato dai livelli di glucosio che sono rimasti invariati.

Fame e tono dell’umore: i risultati dello studio

Questa scoperta supporta l’idea che gli animali sperimentavano stress e umore depresso nella condizione di ipoglicemia.

Leri ha affermato

Abbiamo ottenuto prove del fatto che un cambiamento nel livello di glucosio può avere un effetto duraturo sull’umore. Quando le persone pensano agli stati d’animo negativi e allo stress, pensano ai fattori psicologici e non a quelli metabolici. Io stesso ero scettico quando le persone mi dicevano che diventano scontrose se non mangiavano, ma ora ci credo. La ricerca ha rivelato che l’ipoglicemia è un forte fattore di stress psicologico, questo ci porta a sostenere che un comportamento alimentare scorretto possa avere un impatto a livello emotivo.

In conclusione le evidenze trovate rivelano che bassi livelli di glucosio determinano stati d’animo negativo.

Alla luce di ciò in futuro i ricercatori intendono capire se l’ipoglicemia cronica possa essere un fattore di rischio per lo sviluppo di comportamenti depressivi e ansiosi a lungo termine.

Leri ha detto

Cattiva alimentazione e umore depresso possono diventare elementi di un circolo vizioso: se una persona non mangia in modo adeguato, può sperimentare un calo nel tono dell’umore il quale a sua volta può indurre una riduzione del desiderio di cibo. Sperimentare costantemente questo circolo può influenzare negativamente lo stato emotivo

e ha concluso

I fattori scatenati della depressione possono essere diversi da soggetto a soggetto tuttavia sapendo che la nutrizione è un possibile fattore di rischio, si potrebbe includere la promozione di abitudini alimentari sane come parte di un trattamento.

Le ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi – Recensione del film premiato a Berlino

E’ un mondo di sole donne, gli uomini sono figure in dissolvenza, quello che racconta nel film Le ereditiere il regista Marcelo Martinessi. Un mondo quasi claustrofobico, di sguardi e di poche parole, un mondo che appare spiato dalla cinepresa nascosta dietro una porta.

È il mondo di Chela e Chiquita, due signore unite da un legame sentimentale che negli anni è diventato abitudine. Vivono ad Asuncion, capitale del Paraguay, in una casa borghese perché sono entrambe di buona famiglia. Le loro rendite però cominciano a diminuire, tocca vendere e svendere mobili, quadri, argenteria, persino piatti e bicchieri. La situazione precipita quando Chiquita, che è la forte e la più pratica nella coppia, finisce in prigione per un debito mai pagato. Chela, una donna che lotta quotidianamente con la depressione e non vorrebbe uscire mai di casa, sempre più smarrita viene affidata alle cure di una cameriera analfabeta. Dorme poco, sente rumori strani nella notte, e le visite in carcere alla compagna sono occasione di ulteriore smarrimento.

Le ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi – Trailer del film:

 

È solo per puro caso, una ricca vicina le chiede un passaggio in auto, che si ritrova a fare l’autista. Tira fuori dal garage la vecchia Daimler avuta in eredità dal padre e, sbalordita, scopre che per il suo servizio può essere pagata. Nel giro di poco tempo le anziane e ingioiellate amiche della vicina, quasi fosse un taxi privato, la chiamano sempre più spesso. I suoi pomeriggi ormai sono occupati ad accompagnarle nei ricchi salotti di una o dell’altra per le partite a carte. Il suo sguardo, prima perso nel vuoto si sofferma sui particolari, sulle persone: là fuori c’è qualcosa, qualcuno che merita attenzione, qualcuno che le dà attenzione. È la giovane e disinibita Angy, con la sua fisicità e con la sua esuberanza, a risvegliare in lei sensazioni ed emozioni che pensava ormai perdute.

Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi - Scena dal film 1
Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi. Una scena dal film.

Il regista del film in una recente intervista, ha detto che Le ereditiere è un film essenzialmente sui confini, facendo così riferimento alla situazione del suo Paese, che parole sue, è e resta “una gigantesca prigione”. Il Paraguay è stato per decenni governato da una dittatura militare e ora è in mano a una destra molto conservatrice. Le ereditiere del film, che appartengono a un’élite privilegiata, sono dunque un po’ la metafora del Paese. Di una società che ha paura del cambiamento, che si sente più sicura e protetta nei confini delle proprie accoglienti case. Meglio vendere un quadro, privarsi di un tavolo, piuttosto che rinunciare alla domestica, piuttosto che uscire e guardarsi attorno. Ma forse, suggerisce il regista nel finale del film, il mondo esterno può essere esplorato, forse c’è la possibilità di un nuovo inizio.

Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi - Scena dal film 3
Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi. Una scena del film

A chi consiglio la visione del film: a chi pensa che i nostri percorsi di vita siano fortemente influenzati dalla società in cui cresciamo. A chi piace scoprire nel cinema e nella letteratura parte della storia di un Paese (io per esempio del Paraguay non sapevo nulla e sono andata a cercarmi la sua storia su Internet).

Ecco chi invece farebbe meglio ad astenersi dalla sua visione: innanzitutto gli insofferenti, quelli che amano i film di azione. E poi chi pensa che il desiderio in una donna avviata all’età della vecchiaia sia ormai sopito.

Il film, che al Festival di Berlino ha fatto incetta di premi, l’Orso d’Oro per la migliore attrice (una bravissima Ana Brun), il premio Alfred Bauer e quello Fipresci della critica internazionale, sarà sugli schermi italiani da giovedì 18 ottobre.

Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi - Scena dal film 2
Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi – Scena dal film.

La nuove sfide della stimolazione magnetica cerebrale, intervista al Dott. Giuseppe Fazzari

La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS), ci racconta Giuseppe Fazzari, è stata messa a punto come metodica a metà degli anni ottanta e ha trovato indicazioni nel trattamento in particolare dei disturbi dell’umore, soprattutto come seconda scelta in caso di trattamenti farmacologici inefficaci.

 

Nonostante abbia dato i natali a Bini e Cerletti, i padri della terapia elettroconvulsiva (TEC), l’Italia rispetto ad altri paesi industrializzati ha sempre mostrato una sorta di pregiudizio e riluttanza nei confronti di terapie psichiatriche che usassero macchinari (i cosiddetti devices), prediligendo di gran lunga farmaci e psicoterapia. Negli ultimi anni le cose stanno un po’ cambiando con la diffusione anche nel nostro paese, per ora solo in alcuni centri privati, della stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS).

A differenza della TEC, questa metodica non invasiva e non dolorosa viene effettuata senza preparazioni particolari del paziente, con effetti reversibili sulla corteccia cerebrale. Si utilizza un’apparecchiatura costituita da un generatore di corrente ad elevata intensità e da una sonda mobile, che può essere montata su un casco, che è a diretto contatto con lo scalpo del paziente e che va a stimolare la corteccia dorsolaterale prefrontale. Le sedute (giornaliere) durano 20 minuti e il trattamento dura mediamente dalle 4 alle 6 settimane. Non sono riportati particolari effetti collaterali e l’unica controindicazione al trattamento è la presenza nel corpo del paziente di impianti metallici e pacemaker.

Messa a punto come metodica a metà degli anni ottanta, inizialmente la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) ha trovato indicazioni nei disturbi dell’umore, soprattutto come seconda scelta in caso di trattamenti farmacologici inefficaci. Più recentemente le indicazioni si sono allargate anche all’addiction, in particolare nella dipendenza di cocaina (Lapo Elkan in alcune interviste ha dichiarato pubblicamente di averne tratto beneficio), ma anche in altri disturbi (disturbi alimentari, DOC resistente) e anche singoli sintomi psichiatrici (autolesionismo). Sembra davvero un trattamento molto interessante e promettente per i tanti casi psichiatrici resistenti sia ai farmaci che alla psicoterapia.

Abbiamo parlato di questa metodica con il Dott. Giuseppe Fazzari, direttore scientifico e responsabile organizzativo del Mood Center di Brescia ed esperto da tanti anni di brain stimulation.

Intervista al Dott. Giuseppe Fazzari

I (intervistatore): Salve Dott. Fazzari e grazie per questa intervista. Ci racconta della vostra attività al Mood Center e in particolare all’uso della rTMS?

GF (Giuseppe Fazzari): Il nostro centro è nato lo scorso maggio, ma abbiamo già una casistica notevole di pazienti affetti da disturbi dell’umore e addiction. Sono tanti anni che mi occupo di stimolazione cerebrale a partire dalla mia precedente esperienza lavorativa all’ospedale di Montichiari. I pazienti per cui proponiamo la deep rTMS solitamente hanno già una storia psichiatrica con almeno un trattamento farmacologico fallito. La deep rTMS è difficilmente un trattamento di prima linea, a meno che non sia una richiesta esplicita del paziente. Nelle indicazioni non ci sono solo diagnosi psichiatriche ma ormai anche sintomi, nell’ambito di pratiche psichiatriche sempre più precise e mirate. Abbiamo avuto esperienze positive anche in casi di insonnia resistente, autolesionismo e i comportamenti suicidari. Il nostro centro collabora per ricerca e supervisione dei casi più complicati con centri universitari israeliani e americani.

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rTMS e applicazioni cliniche - Intervista al Dott. Giuseppr Fazzari_1

rTMS e applicazioni cliniche - Intervista al Dott. Giuseppr Fazzari_2Imm. 1 e 2 –  Dettagli dell’apparecchiatura rTMS 

 

I: Ci potrebbe raccontare qualcosa di più sul meccanismo d’azione di questa metodica?

GF: La TMS funziona secondo il principio dell’Induzione Elettromagnetica: se vi è un passaggio di corrente entro una bobina metallica (coil), si genera un campo elettromagnetico perpendicolare al flusso di corrente presente nella bobina. Se un secondo conduttore (scalpo) viene posizionato entro il campo magnetico, verrà indotta corrente in questo secondo mezzo. I campi elettrici generati attraverso l’induzione elettromagnetica sono perpendicolari rispetto allo stimolatore e quindi si rivelano adatti all’eccitazione dei neuroni corticali. Si determina, pertanto, una corrente indotta, in grado di produrre dei potenziali di azione in neuroni eccitabili della corteccia. Il razionale della rTMS a livello della corteccia dorsofrontolaterale sin (DLPFC) risiede nelle osservazioni fatte sul metabolismo di questa porzione della corteccia nei pazienti depressi. Dopo tentativi poco convincenti di applicazione a livello del vertice del capo o della corteccia motoria, George et al. (1995) furono i primi a stimolare la DLPFC sinistra ad alta frequenza, con risultati incoraggianti; in seguito questa è stata l’area stimolata nella grande maggioranza degli studi successivi. Rispetto alla rTMS, la deep rTMS facilita la stimolazione selettiva di diverse aree cerebrali e permette di raagiungeree una profondità di stimolo di 5cm rispetto ai 1-2 cm delle altre TMS.

I: Dunque quali sono i casi dove la rTMS è maggiormente indicata e più efficace?

GF: Disturbi dell’umore, in particolare episodi depressivi, ma anche stati misti e mania cronica moderata, addiction (abuso di sostanze – cocaina, cannabis, alcool, nicotina -, gambling patologico, dipendenza da internet), disturbo ossessivo compulsivo, disturbi del comportamento alimentare (sia bulimia che anoressia), autolesionismo, emicrania, tinnito cronico, allucinazioni uditive farmacoresistenti, forme inziali di Alzheimer, gravi difficoltà di sonno.

I: Può essere utile integrare il trattamento con la psicoterapia? Se sì in quali fasi (prima, durante o dopo)?

GF: Dipende dalle situazioni. Ci accade di trattare pazienti inviati dallo psicoterapeuta che li ha in carico. Se il paziente non è in psicoterapia e riteniamo che possa essere utile, lo inviamo nel corso del trattamento stesso o al termine del trattamento.

I: Dopo il trattamento delle venti sedute sono previsti richiami e follow up?

GF: Per alcuni pazienti può essere necessario un richiamo dopo alcuni mesi, ma non in tutti i casi. In qualche caso, quando trattiamo per esempio depressioni resistenti, dipendenza da cocaina, forme iniziali di Alzheimer, prevediamo anche la possibilità di un trattamento di mantenimento.

I: Che reazioni avete avuto da parte di colleghi e pazienti a questa proposta terapeutica? Immagino ci sia qualche pregiudizio.

GF: In Italia c’è un grande interesse per la neurostimolazione, ma c’è ancora il taboo rispetto alla TEC. C’è una sorta di paura per tutto quello che ha a che fare con la corrente elettrica. In questo caso è fondamentale fare un lavoro di informazione per far capire che il trattamento non c’entra con la TEC, che comunque è un trattamento di grande efficacia con le giuste indicazioni, diffuso in molti paesi. In Italia c’è una scarsissima conoscenza anche in ambito accademico della neurostimolazione, salve alcuni rari casi, e nelle scuole di specialità non viene insegnato quasi nulla a riguardo. Negli Stati Uniti invece il 24% del mercato della salute mentale è caratterizzato dall’uso di devices, per intenderci. Ho dedicato almeno 15 anni di studio a questo tipo di stimolazione e all’inizio anche io avevo qualche pregiudizio. Vedo con piacere che il clima sta nettamente cambiando e i giovani psichiatri hanno meno pregiudizi anche in Italia. È un peccato che molti colleghi si privino di una possibile risorsa, che negli ultimi studi ha mostrato un’efficacia fino al 75% dei casi.

I: Molti sono critici verso la TEC per i possibili effetti avversi ad esempio sulla memoria. Ci conferma che effetti collaterali del trattamento rTMS sono minimi?

GF: Sì sono veramente trascurabili, a volte un po’ di mal di testa (che raramente richiede assunzione di un po’ di tachipirina) o il fastidio per il rumore della macchina (fa il rumore simile a una Risonanza Magnetica), per il quale a volte usiamo tappi per le orecchie. Rispetto alla terapia farmacologica, la rTMS ha innegabili vantaggi per quanto riguarda l’aumento di peso, le problematiche sessuali e si è dimostrata praticabile anche in situazioni delicate come la gravidanza.

I: Qual è la modalità di accesso al vostro centro e quali sono i costi del trattamento?

GF: I pazienti provengono da tutta Italia e anche dall’estero a volte. Riusciamo a fornire un aiuto per trovare una soluzione alberghiera. Il trattamento costa 150 euro per ogni seduta, che viene ridotta a 100 se l’invio viene fatta da una struttura pubblica come un CPS o un SERT. Il costo medio dell’intero trattamento di venti sedute si aggira intorno ai 3000 euro, ma abbiamo l’obiettivo di creare una Fondazione per garantire il trattamento anche a chi non ha la possibilità di permetterselo.

L’esperienza ipnotica in psicoterapia (2017) di C. Casilli: alla scoperta dell’incontro tra ipnosi e terapia cognitiva, attraverso un pratico manuale – Recensione

L’esperienza ipnotica in psicoterapia è un testo di Costantino Casilli scorrevole nella lettura e stimolante, dove aspetti teorici si incontrano con molteplici esempi tratti dalla clinica. Adatto a tutti i terapeuti che desiderano comprendere come l’ipnosi possa rappresentare una valida risorsa nella pratica clinica, integrandosi ed arricchendo l’approccio cognitivo alla malattia e alla cura.

 

You use hypnosis not as a cure
but as a means of establishing
a favorable climate in which to learn.
Milton Erickson

 

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un notevole incremento dell’interesse scientifico sull’ipnosi clinica, non solo come fenomeno distinto in sé ma soprattutto come “clima relazionale” entro cui il paziente ha la possibilità di sperimentare e co-costruire con il terapeuta nuove vie, nuove esperienze emotive, nuovi nessi associativi che concretamente possano integrarsi nella sua vita favorendone un maggiore benessere.

L’ipnosi non è più quindi solo una risposta fisiologica o una risposta alle suggestioni (qualcosa che richiede un certo grado di suggestionabilità da parte del paziente) o ancora uno stato particolare della mente del paziente. Diventa invece un’esperienza ipnotica condivisa in cui paziente e terapeuta sperimentano e utilizzano la trance come terreno entro cui “creare, arricchire e modificare”.

È di questo che parla il testo L’esperienza ipnotica in psicoterapia di Costantino Casilli, di come l’ipnosi sia non solo un processo intrapsichico ma relazionale, e di come nella pratica clinica l’approccio ipnotico Ericksoniano possa sposarsi e integrarsi con la prospettiva cognitiva post-razionalista e sistemico-processuale di Guidano.

L’esperienza ipnotica in psicoterapia: un manuale pratico di ipnoterapia cognitiva

Il testo L’esperienza ipnotica in psicoterapia parla quindi di cosa sia l’ipnoterapia cognitiva e soprattutto di cosa significa lavorare con il paziente all’interno di questa prospettiva, allo scopo di differenziare, articolare e integrare i significati del paziente, creando nuove reti associative, nuove letture del mondo, che siano più fluide, articolate e funzionali per il paziente.

Casilli parte da un approfondimento dell’approccio ipnotico tradizionale, dove l’accento è posto sull’induzione ipnotica come rituale di transizione che consente il passaggio da uno ad un altro stato di coscienza (con un ruolo centrale della dissociazione), rendendo il paziente più pronto, più ricettivo rispetto alle suggestioni del terapeuta, più aperto al cambiamento. Casilli descrive, fornendo utili esempi, le varianti di induzione tradizionale, approfondendo la letteratura circa le suggestioni maggiormente utilizzate e più efficaci con i pazienti affetti da ansia e fobia, depressione e disturbi del comportamento alimentare.

Il capitolo successivo si concentra sul contributo che Milton Erickson ha dato all’ipnoterapia, rivoluzionando il ruolo che paziente e terapeuta avevano in una visione più classica. Dalla distinzione tra pazienti ipnotizzabili/non ipnotizzabili all’idea che ogni persona è potenzialmente capace di sperimentare la trance nella misura in cui fa naturalmente esperienza nella sua vita di momenti di discontinuità o modificazione del proprio stato di coscienza (le “comuni trance quotidiane”). Dall’idea che esista un solo modo di fare ipnosi, alla centralità dei significati personali del paziente: il terapeuta diventa quindi un facilitatore, che aiuta il paziente a rievocare in seduta esperienze di trance quotidiana mediante l’utilizzo di un linguaggio permissivo, analogico e metaforico che sia rispettoso dei vissuti del paziente. E se una buona trance nel paziente dipende dalle capacità tecniche dell’ipnotista (pena l’emergere della resistenza) è pur vero che il terapeuta non può non “cucire su misura” l’induzione sul paziente, che significa costruire e coltivare la relazione terapeutica e la sintonizzazione reciproca. La tecnica è quindi importante, ma ancor di più lo è la capacità del terapeuta di impostare il suo intervento sulla base della storia del paziente, nel rispetto delle sue difficoltà, risorse e peculiarità. A partire da queste considerazioni Costantino Casilli approfondisce con chiarezza espositiva e con diversi esempi clinici le quattro tipologie di esperienze che favoriscono l’accesso del paziente in stati simil-ipnotici, e che possono rappresentare dei validi aiuti all’induzione, se adeguatamente scelti sulla base delle caratteristiche del paziente.

L’incontro tra ipnoterapia e terapia cognitiva: l’ipnoterapia cognitiva

Estremamente interessante è quindi la nuova idea che l’ipnosi non sia circoscritta ad un momento ben definito della seduta o della terapia, ma che la seduta stessa sia ipnotica: anche senza indurre la trance in modo formale il terapeuta può costruire dinamiche relazionali ipnotiche, che favoriscano l’avvio di una forma di comune trance quotidiana. Non solo. Ma così come il paziente sperimenta quotidianamente nella sua vita momenti di “distacco” non di per sé disfunzionali, interessante è l’idea che il disturbo del paziente, la sua “emergenza sintomatica” possa essere pensato come uno stato simil-ipnotico, una trance problematica in cui la persona è completamente assorta e focalizzata dentro la sua personale lettura rigida del mondo e di se stresso.

Questo il punto di contatto tra ipnoterapia e terapia cognitiva: l’ipnoterapia cognitiva come approccio in grado di modificare i contenuti (le auto-dichiarazioni automatiche di Beck, i pensieri irrazionali di Ellis e il dialogo interno di Meichenbaum) e i processi di pensiero disfunzionali (le distorsioni cognitive di Beck), e di affrontare e lavorare sulle strutture cognitive (la conoscenza tacita che ha preso forma nella storia biografica del paziente). Casilli approfondisce le affinità teorico-applicative tra il modello ipnotico ericksoniano con la Schema Therapy di Young e il modello post-razionalista e sistemico-processuale di Guidano, quest’ultimo maggiormente affine ai principi dell’ipnoterapia. Le Organizzazioni di Significato Personale (OSP) intese come “specifiche modalità di ordinamento della percezione di sé e del mondo” diventano per l’ipnotista una mappa di riferimento, utile al fine di orientarsi nella comprensione della storia del paziente e del sintomo e dunque di tagliare l’intervento ad hoc su di lui. E se i pazienti non posso cambiare nel corso della vita la propria Organizzazione di Significato Personale possono però rendere più flessibili e articolate le sue componenti.

Come sottolinea Casilli lavorare in ipnosi cognitiva significa quindi “sapere entrare in, e partecipare ad, un gioco di induzioni ipnotiche reciproche in cui ciascuno chiede all’altro di “chiudere gli occhi” e di vedere e ascoltare veramente – anche dentro di sé – quello che viene detto”. Presupposto della terapia non è quindi più solo che il paziente vada in trance ma che anche il terapeuta possa sperimentare uno stato di trance, attivando una ricerca dentro di sé finalizzata a cogliere le strutture profonde che sostengono il racconto del paziente, per poi utilizzarle in terapia promuovendo nuovi nessi associativi.

Casilli dedica gli ultimi capitoli de L’esperienza ipnotica in psicoterapia ad un approfondimento dell’applicazione dell’ipnoterapia cognitivo-evolutiva nei pazienti che presentano una Organizzazione di Significato Personale fobica, ossessiva, depressiva e del comportamento alimentare. L’accento viene posto non solo su come leggere il sintomo in chiave ipnotica, ma anche come gestire l’induzione e le possibili problematiche insorgenti.

Un lavoro, quello dell’autore, di scorrevole lettura e stimolante, dove aspetti teorici si incontrano con molteplici esempi tratti dalla clinica. L’esperienza ipnotica in psicoterapia è adatto a tutti i terapeuti che desiderano comprendere come l’ipnosi può rappresentare una valida risorsa nella pratica clinica, integrandosi ed arricchendo l’approccio cognitivo alla malattia e alla cura.

Biomarker urinari per una diagnosi più oggettiva dei disturbi ansiosi e depressivi

Un recente studio cinese pubblicato su Translational Psychiatry, ha sottolineato l’importanza, nella pratica clinica, di identificare specifici biomarker che possano costituire test diagnostici oggettivi di laboratorio da accompagnare ai classici self-report, per una corretta differenziazione e diagnosi di ansia e depressione nei pazienti.

 

I sintomi ansiosi e depressivi per le loro somiglianze spesso si sovrappongono e frequentemente si osservano in comorbilità; spesso la presenza di sintomi depressivi può mascherare la presenza di quelli ansiosi e viceversa (Coplan, Aaronson et al., 2015).

L’alta percentuale di comorbilità, dal 40 all’80%, per ansia e depressione, fa si che il disturbo ansioso o depressivo si aggravi e determini un peggior funzionamento psicosociale, oltre che una ridotta qualità di vita e una necessità maggiore di accesso alle cure. La comorbilità aumenta anche la persistenza e la durata nel tempo della psicopatologia rispetto al disturbo preso singolarmente, aumentando il rischio di cronicità della malattia.

In aggiunta, il mancato riconoscimento o la non corretta diagnosi della comorbilità appare legata ad un aumento della resistenza al trattamento e della percentuale di rischio per un’ospedalizzazione psichiatrica dovuta alla ricomparsa di alcuni sintomi dopo un trattamento che ha avuto come bersaglio soltanto uno dei due disturbi (Chen, Bai, Li, Zhou et al., 2018).

Ansia e depressione: un aiuto nella diagnosi differenziale grazie all’individuazione di biomarker metabolici

Diventa pertanto centrale una valutazione e uno screening accurato della sintomatologia, che sia in grado di individuare nel modo più oggettivo possibile la comorbilità e che possa aiutare poi il clinico a realizzare un efficace piano di trattamento per il paziente, caratterizzando adeguatamente l’eterogeneità e la complessità dei due disturbi ugualmente presenti.

Per questa ragione, già in precedenza, gli autori Zheng, Chen e Wang (2013) si erano mossi ad identificare dei biomarker metabolici per una più accurata diagnosi di disturbo depressivo maggiore; dei biomarker in particolare che potessero supportare una diagnosi oggettiva, di laboratorio, da accompagnare ai self-report dei sintomi riportati soggettivamente dal paziente.

Nello studio attualmente preso in considerazione di Chen, Bai, Li, Zhou e colleghi (2018), l’obiettivo è stato quello di identificare i differenti metaboliti presenti nelle urine e usarli come marker specifici per la presenza di ansia e depressione in un gruppo di 32 pazienti affetti da disturbi ansiosi e depressivi, per poi confrontare i dati con un gruppo di controllo.

Per distinguere i due gruppi e per esplorare le differenze metaboliche nei due gruppi, gli autori hanno utilizzato un’analisi ortogonale discriminante che ha caratterizzato il gruppo dei pazienti con un’elevata concentrazione nelle urine di circa 20 metaboliti rispetto a quello di controllo. In seguito, per semplificare il riconoscimento di quei metaboliti più rappresentati e che maggiormente potevano costituire il gruppo di biomarker, i ricercatori hanno sottoposto i risultati ottenuti ad ulteriori analisi individuando quattro metaboliti urinari che, in modo significativo, distinguevano i due gruppi (soggetti sperimentali e controlli): N-metilnicotinamide, l’acido amino malonico, l’acido azelaico e l’acido ippurico.

N-metilnicotinamide è il prodotto finale del metabolismo della nicotinammide che a sua volta è legato all’acido nicotinico e al triptofano, precursore biochimico della serotonina; il suo coinvolgimento nel gruppo dei biomarker potrebbe indicare delle anomalie nella biosintesi della serotonina le cui alterazioni sono implicate nell’eziopatologia dei disturbi d’ansia e depressivi.

Al contempo anche la presenza di un aumento dell’acido amino malonico nel gruppo dei pazienti potrebbe suggerire un legame con anomalie nella neurotrasmissione della serotonina, come già evidenziato da studi sulla venlafaxina, un antidepressivo SSRI, che riduce il livello di tale acido nell’ippocampo dei ratti (Bai, Hu, Chen et al., 2017).

Per quanto riguarda l’acido azelaico e l’acido ippurico, il presente studio ha mostrato un aumento della concentrazione di entrambi nelle urine del gruppo dei pazienti. Questi sono legati al metabolismo intestinale e la loro assegnazione al gruppo dei biomaker per ansia e depressione potrebbe essere giustificata dal fatto che studi hanno dimostrato un coinvolgimento del microbiota intestinale nello sviluppo di ansia e depressione (Zheng, Zhou, Liu et al., 2016).

Nonostante le numerose limitazioni sottolineate dagli stessi autori, appare evidente come questi risultati possano essere di preparazione per future ricerche che approfondiranno i metodi diagnostici oggettivi basati su test di laboratorio, in questo caso analisi delle urine, per un assessment più accurato dei disturbi d’ansia, depressivi e della loro comorbilità.

 

Altruismo nei bambini: la sensibilità ai volti che esprimono paura sarebbe predittore di comportamenti prosociali

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista PLOS Biology, da Tobias Grossman e colleghi della University of Virginia, l’attenzione dei bambini rivolta ai volti impauriti predispone all’ altruismo.

 

Altruismo e comportamenti derivati, come aiutare una persona sconosciuta che ne ha bisogno, sono considerati una caratteristica chiave della cooperazione nelle società umane.

Altruismo e sensibilità ai volti che esprimono paura

La nostra propensione a impegnarci nel compiere gesti di altruismo varia considerevolmente da persona a persona: troviamo donatori straordinariamente altruisti e persone altamente antisociali.

Precedenti studi hanno suggerito che una maggiore sensibilità ai volti impauriti è correlata ad alti livelli di comportamento pro-sociale, che possono essere già visti nei bambini in età prescolare. Esaminare la capacità di rispondere ai volti che esprimono paura e la loro variabilità all’inizio dello sviluppo umano rappresenta un’occasione unica per far luce sui precursori del comportamento altruistico.

Altruismo: la sensibilità ai volti impauriti ne sarebbe un predittore

Per affrontare questo problema Grossmann e colleghi hanno monitorato i movimenti oculari per analizzare la capacità di reagire nel vedere gli altri in difficoltà (mostrando volti che esprimevano paura). Le risposte misurate durante la visualizzazione di volti spaventati a 7 mesi di età erano segnali che predicevano il comportamento altruistico a 14 mesi (periodo in cui, secondo i ricercatori, è possibile vedere per la prima volta il comportamento prosociale).

Lo studio ha confermato che il comportamento di altruismo nei bambini piccoli era previsto dall’attenzione dei bambini ai volti impauriti ma non ai volti felici o arrabbiati.

Secondo gli autori, sin dall’inizio dello sviluppo, la variabilità del comportamento di aiuto altruistico è legata alla nostra capacità di rispondere quando vediamo gli altri in difficoltà e ai processi cerebrali implicati nel controllo dell’attenzione.

Gli effetti della trascuratezza su bambini e adolescenti. L’ultimo studio del Bucharest Early Intervention Project (BEIP)

All’inizio degli anni ’90, a Bucarest, esistevano numerose strutture statali alle quali venivano affidati bambini che non avevano più i genitori o altre persone che si potessero prendere cura di loro: in questo contesto è stato possibile studiare quali fossero gli effetti dovuti all’esposizione ad un ambiente di sviluppo caratterizzato da deprivazione emotiva.

 

È risaputo che un’adeguata stimolazione sociale, cognitiva, etc. è fondamentale per una crescita sana. Le interazioni dei bambini con i genitori e con altri adulti significativi assumono dunque un ruolo importante in quanto permettono ai più piccoli di sviluppare alcune importanti abilità. In tal senso, una distinzione necessaria è quella tra periodo critico e periodo sensibile.

Il periodo critico si caratterizza per finestre temporali molto ristrette nel corso dello sviluppo, durante le quali una specifica esperienza deve avvenire perché una particolare funzione si sviluppi in modo normale.

Il periodo sensibile fa riferimento a quei momenti nel corso dello sviluppo durante i quali l’organismo è particolarmente sensibile a specifiche esperienze, senza necessariamente escludere che queste esperienze possano favorire lo sviluppo di una particolare funzione anche in momenti successivi, anche se in grado minore.

BEIP: il progetto di intervento precoce di Bucarest

Intorno all’inizio degli anni ’90, a Bucarest, esistevano strutture statali a cui molti bambini venivano affidati. In questo contesto è stato possibile studiare quali fossero gli effetti dovuti all’esposizione ad un ambiente caratterizzato da deprivazione emotiva.

A tal proposito, il progetto di intervento precoce di Bucarest (BEIP), che coinvolge bambini negli orfanotrofi rumeni, ha dimostrato che i bambini allevati in ambienti istituzionali negligenti, caratterizzati da grave privazione sociale e cognitiva e da grave deprivazione emotiva, sono maggiormente a rischio di problemi cognitivi, depressione, ansia, comportamenti distruttivi e disordine da deficit di attenzione e iperattività, rispetto ai bambini cresciuti in famiglia. Tale studio, ha anche dimostrato che l’affidamento di questi bambini a delle famiglie accudenti ha un effetto positivo sulla loro crescita, soprattutto se questo avviene precocemente.

Effetti della deprivazione emotiva su bambini e adolescenti istituzionalizzati. I dati dell’ultimo studio BEIP

L’ultimo studio BEIP, pubblicato nei giorni scorsi da JAMA Psychiatry, ha indagato gli effetti della deprivazione emotiva sulla salute mentale dei bambini istituzionalizzati, nel passaggio all’adolescenza. I risultati a otto, dodici e sedici anni, hanno messo in evidenza traiettorie di sviluppo divergenti tra i bambini rimasti in istituto rispetto a quelli scelti a caso per il collocamento con famiglie affidatarie attentamente controllate.

I ricercatori guidati da Mark Wade, PhD, e Charles Nelson, PhD, della divisione di Medicina dello sviluppo presso l’ospedale pediatrico di Boston, hanno studiato 220 bambini di cui 119 hanno trascorso almeno un po’ di tempo in istituti. Dei 119, metà era stata posta in affidamento.

Nel corso degli anni, insegnanti e tutori hanno somministrato a questi ragazzi il “questionario sulla salute e il comportamento di MacArthur”, che comprende una serie di sotto-scale inerenti a depressione, ansia, abbandono, comportamento oppositivo provocatorio, problemi della condotta, aggressività fisica, aggressività relazionale e ADHD.

Dai risultati è emerso che i bambini collocati in famiglie affidatarie di qualità, rispetto a quelli rimasti nelle istituzioni, mostravano uno migliore stato di salute mentale; in particolare, presentavano un minor numero di comportamenti esternalizzanti come violazione di regole, discussioni eccessive con figure autorevoli, furto o aggressione tra pari. Tali differenze iniziarono ad emergere a circa dodici anni e divennero significative a sedici anni.

Wade ha affermato:

I nostri risultati si aggiungono a una letteratura crescente su ciò che potrebbe accadere allo sviluppo psicologico a lungo termine di un bambino quando sperimentano la separazione da un caregiver primario all’inizio dello sviluppo.

L’autore continua dicendo:

La buona notizia è che se vengono collocati in famiglie di alta qualità con una buona assistenza, questo rischio è ridotto, ma tendono ancora ad avere più difficoltà rispetto ai loro coetanei che non hanno mai sperimentato questa forma di privazione nei primi anni di vita.

Psicoterapia dell’insonnia: l’efficacia dei trattamenti cognitivo-comportamentali online

Uno studio dell’Università di Oxford e della Northwestern Medicine ha scoperto che grazie alle terapie cognitivo-comportamentali digitali, si può migliorare lo stato di salute in generale ed in particolare il sonno.

 

L’insonnia è uno dei fattori di rischio connessi allo sviluppo di disturbi mentali, malattie cardiovascolari e diabete di tipo 2. Il trattamento di questo disturbo con terapie cognitivo-comportamentali (CBT) è poco frequente data la mancanza di terapisti specializzati in questo settore e il numero sempre crescente di pazienti. L’American College of Physicians nel 2016 ha raccomandato, per curare l’insonnia, l’utilizzo della CBT come primo step anche prima di trattamenti farmacologici.

Insonnia: lo studio

Questo studio è durato all’incirca un anno, e ha coinvolto 1711 soggetti. Sono state utilizzate delle piattaforme online, rendendo il trattamento più accessibile e personalizzato alle esigenze delle persone coinvolte, quindi sono stati portati avanti dei trattamenti in linea alle tipologie di sonno degli utenti. Ognuno ha seguito il trattamento utilizzando un’app associata al programma digitale di miglioramento del sonno Sleepio che utilizza tecniche CBT, contenuti comportamentali, cognitivi ed educativi. Lo svolgimento del trattamento è avvenuto in sei sessioni dalla durata media di 20 minuti per un massimo di 12 settimane. I partecipanti sono stati valutati in quattro condizioni temporali: la baseline a zero settimane; il trattamento intermedio a quattro settimane; il post-trattamento ad otto settimane; infine il follow-up a ventiquattro settimane.

Insonnia: i risultati del trattamento online

Il trattamento è stato associato ad un miglioramento significativo della salute e del benessere. Inoltre il quest’ultimo ha avuto un ruolo di mediazione su: sintomi depressivi, ansia, sonnolenza, fallimenti cognitivi, produttività e soddisfazione lavorativa.

 

Validazione della versione italiana dell’Anger Cognition Scale per bambini e adolescenti – Congresso SITCC 2018

Validazione della versione italiana per adolescenti dell’Anger Cognition Scale

R. Piron, S. Nicoli, C. Caruso, G.M. Ruggiero, R. DiGiuseppe, S. Scaini

 

La terapia cognitivo-comportamentale si è rivelato il trattamento privilegiato per quanto riguarda i disturbi cognitivi, emotivi e comportamentali correlati alla rabbia, eppure la ricerca sui processi cognitivi connessi alla rabbia è relativamente scarsa (Martin & Dahalen, 2007).

In Italia molti bambini e adolescenti presentano difficoltà connesse a una cattiva gestione della rabbia, ma nella pratica clinica diventa difficile una valutazione accurata poiché non abbiamo a disposizione scale italiane che misurino il costrutto della rabbia in età evolutiva. Il presente lavoro ha lo scopo di validare la versione italiana per bambini e adolescenti dell’ Anger Cognition Scale (ACS, DiGiuseppe et al., in preparation), uno degli strumenti più completi per valutare i pensieri legati alla rabbia. La validazione di questa scala permetterebbe di valutare i pensieri rabbiosi nei ragazzi, sia con finalità di screening in contesti di popolazione generale, sia per la rilevazione clinica in contesti di patologia.

Nel presente studio 180 soggetti di età compresa tra gli 10 e i 19 anni sono stati reclutati a random presso la scuola media statale di Carpineti (RE) e presso la scuola superiore Sacro Cuore di Gesù di Modena.

Emozioni (2018) di Antonio Scarinci e Giovanni Brunori – Recensione del manuale di auto aiuto

La cultura della psicoeducazione emotiva sta assumendo importanza sempre maggiore in Italia sia in ambito clinico che in ambito educativo, anche grazie alla spinta della psicologia evoluzionistica e di tecniche terapeutiche come la Terapia dialettico comportamentale (DBT) di Marsha Linehan.

 

Come ci ricordano Scarinci e Brunori, i pazienti con disturbi emotivi comuni rappresentano circa il 20% dei pazienti che si rivolgono ai Medici di Medicina Generale e solo il 50% di essi riceve trattamenti appropriati.

Emozioni: cosa sono e a cosa servono

Le emozioni si legano in modo complesso ai nostri pensieri, alle nostre valutazioni, e spesso non riusciamo bene a identificarle, riconoscerle e regolarle. Si possono sviluppare così persino disturbi emotivi di una certa gravità, un’intensa ansia che ci rende persistentemente preoccupati, una rabbia incontrollabile che si somatizza in qualche disturbo gastrointestinale, una profonda tristezza che rende il nostro umore deflesso e ci fa perdere i piaceri della vita, una paura che ci blocca e ci impedisce di vivere liberamente. Questo manuale si rivolge in particolare agli utenti come strumento di auto-aiuto, ma può essere una lettura di estremo interesse anche per gli operatori, soprattutto quelli più lontani dal mondo della psicoterapia cognitivo comportamentale.

Gli autori partono spiegando cosa siano e a cosa servano le emozioni, con alcuni riferimenti ai correlati neuroanatomici delle stesse.

Le emozioni primarie (tristezza, paura, gioia, rabbia, disgusto) e secondarie (sorpresa, vergogna, disprezzo, pena, invidia, gelosia, noia, nostalgia, tenerezza) vengono illustrate nei propri significati partendo dalla tristezza che ci informa che abbiamo perso qualcosa, fino alla gioia che ci segnala che un nostro scopo è stato raggiunto.

Emozioni: quando sono parte di disturbi emotivi

C’è una parte dedicata ai disturbi emotivi, con riferimenti a ansia e depressione e successivamente viene affrontato il tema della regolazione emotiva, partendo dal presupposto che in termini evolutivi non esistono emozioni positive o negative, ma quello che rende disfunzionale l’attivazione può essere l’intensità, la durata, il manifestarsi dell’emozione in modo incongruo. Vengono proposte diverse tecniche immaginative e strategie regolatorie (strategie di distacco), con esercizi e schede di autosservazione,

La semplicità e la capacità di sintesi sono uno dei punti forti di questo libro; come ci ricorda anche Roberto Lorenzini nella presentazione

Scarinci e Brunori riescono a conservare nella pagina scritta quella stessa semplicità e vividezza che me li ha sempre fatti invidiare quando queste cose le spiegavano a centinaia di pazienti, ai loro famigliari e agli allievi.

 

Il giardino dell’umano. Counseling di Gruppo nelle Organizzazzioni (2017): una guida nella comprensione delle organizzazioni – Recensione del libro

Il giardino dell’umano è un testo che offre, in un clima di sviluppo di nuove tendenze nel counseling di gruppo per le organizzazioni, un insieme di metodi per facilitare il benessere e l’accettazione, un insieme di capacità come l’ascolto e la cooperazione. Offre uno stimolo allo sviluppo personale e alla risoluzione di problemi nel luogo di lavoro.

 

Il giardino dell’umano: mentoring, coaching e counseling

Nel capitolo 1 de Il giardino dell’umano, viene proposta una descrizione degli inquadramenti teorici che sostengono i diversi approcci culturali del counseling organizzativo.

Esistono differenze significative tra mentoring, coaching e il counseling.

Il mentoring nasce nel contesto universitario ed è quell’attività di sostegno culturale-scientifico (nelle università) o professionale (nelle aziende) che un esperto in un dato campo culturale/professionale trasmette ad un collega junior, aiutandolo ad apprendere determinate competenze grazie al lavoro di affiancamento che svolgono insieme. Il mentoring si basa pertanto sull’accettazione di una modalità di supporto gerarchica, in cui una persona riconosce la maggiore competenza culturale dell’altra e gli si affida proprio per questo.

Il coaching nasce nell’ambito sportivo (Gallway, 1974) ed è poi stato traslato nel management; è una modalità di sostegno individualizzato, finalizzato a migliorare un qualche tipo di performance manageriale. Nel coaching il cliente (coachee) è in rapporto paritario con il coach.

Il counseling, come sappiamo, nasce nel campo socio-formativo (Parsons, 1906) e rappresenta una relazione d’aiuto non direttiva in cui il counselor facilita l’empowerment del cliente mediante un’esplorazione della criticità che il cliente porta e della successiva individuazione di risorse personali da poter utilizzare per far fronte al problema e identificare delle soluzioni possibili.
Il counseling di gruppo riesce a stimolare aspetti cognitivi ed emozionali in misura diversa e più efficace di altre modalità, va a costruire un autenico sviluppo personale all’interno di un processo di crescita fondato sulla consapevolezza e sulla padronanza delle proprie risorse cognitive, corporee ed emotive, in un’ottica di potenziamento complessivo della persona rispetto alle situazioni attuali e future.

L’individualizzazione fonte di tensione

Nel capitolo 2 si affronta la questione del rapporto tra persone e organizzazione mettendo al centro la questione dell’individualizzazione come fonte di tensioni di difficile gestione.

Il punto centrale dello schema di intervento riguarda necessariamente la correlazione dell’azione individuale con il contesto. Lo schema indica da un lato l’agency – l’agire, i flussi delle condotte individuali – dall’altro la structure – l’insieme delle regole e delle risorse nonché dei condizionamenti e delle facilitazioni che il contesto offre all’agency. (Giddens, 1991, 1994)

La crescita individuale all’interno del gruppo avviene sulla base di una varietà di pratiche e interazioni che consentono ai partecipanti di riconoscere ed elaborare i propri vissuti, i propri pensieri e comportamenti, ed evolvere scoprendo nuovi nessi e significati, in se stessi e nella relazione con gli altri.

Il counseling e la trasformazione interiore

Nel capitolo 3 de Il giardino dell’umano, vengono proposte alcune riflessioni inerenti al processo di trasformazione interiore che il counseling organizzativo si propone di favorire.

Per ‹conoscere› la realtà non puoi starne fuori e definirla; devi entrarci dentro, esserla, sentirla. (Alan W. Watts)

La dimensione più importante di lavoro è l’ascolto profondo nei gruppi, che consente ai partecipanti di osservare onestamente se stessi, quindi sperimentare nuove parti di sé. Ascoltare profondamente, significa incontrare gli altri con curiosità, sospendendo il giudizio e creando spazio per il nuovo.

L’ascolto nel counseling di gruppo rappresenta quindi la leva grazie alla quale il singolo e il gruppo nel suo insieme progrediscono gradualmente verso una maggiore autenticità e intimità. Quando il gruppo in counseling sviluppa una qualità di ascolto profondo, i partecipanti scoprono una diversa capacità di lavorare insieme.

Essere consapevoli, in ascolto, presenti a ciò che stiamo vivendo, ci permette di accedere ad una conoscenza più ampia di noi stessi e della realtà, consentendo a idee e intuizioni di emergere.

La dimensione dell’accettazione ci permette infine di attuare il cambiamento. La dimensione spirituale in ultimo vede la ricerca di “scopo” spesso coincidere con un’evoluzione dello sguardo, un ampliamento della visione che consente di riconoscere l’interconnessione che lega tutte le cose e favorisce un contatto più ricco con ciò che viviamo.

Il counseling di gruppo organizzativo si configura anch’esso come metodologia principalmente dedicata a una trasformazione profonda che coinvolge l’atteggiamento mentale (mindset) della persona, il suo approccio nelle differenti situazioni di vita e relazione, sulla base di un modello di lavoro basato sulla sperimentazione e sull’apprendimento riflessivo.

Il giardino dell’umano: le attività per i gruppi

Nel capitolo 4 de Il giardino dell’umano, viene proposta un’esemplificazione di “attività possibili” da realizzare nei gruppi di counseling organizzativo, qui sintetizzata genericamente per punti:

  1. Analisi della domanda: ascolto delle esigenze tramite questionari strutturati, focus group o colloqui individuali
  2. Progettazione di un percorso di counseling di gruppo attraverso un disegno generale del percorso, la composizione dei gruppi e una suddivisione in ulteriori sottogruppi così da facilitare i processi di approfondimento, esplorazione, presa di decisione e creatività. La durata dell’intervento va da un minimo di tre ad un massimo di dieci incontri
  3. Il processo di counseling deve continuamente accogliere, stimolare, sostenere il gruppo e i suoi componenti
  4. L’intervento di counseling è stato efficace se le risposte dei partecipanti vengono in maniera continuativa stimolate ponendo domande sul livello di gradimento e soddisfazione del percorso. Anche i lavori dei partecipanti e i feedback dati al commitente rappresentano uno strumento di rilevazione di efficacia del percorso.

Nel capitolo 5 de Il giardino dell’umano, viene compiutamente descritta l’esperienza realizzata in Sogei S.p.A.

Il capitolo 6 del libro amplia le considerazioni e gli esempi a livello internazionale, permettendo al lettore di comprendere quanto lo strumento si stia diffondendo e con quali modalità ed obiettivi.

Il percorso di counseling di gruppo in un’organizzazione integra una gestione tradizionale, aperta e consapevole del gruppo-cliente con molteplici attività esperienziali finalizzate a stimolare la partecipazione emotiva, cognitiva e corporea dei membri del gruppo.

Il fine ultimo è lo sviluppo di una sana consapevolezza della persona rispetto alle scelte di vita che possano facilitare il raggiungimento e il mantenimento del benessere.

La gentilezza, in tutti i suoi aspetti, può diventare una straordinaria avventura interiore che cambia in modo radicale la nostra maniera di pensare e di essere e ci fa fare molti passi avanti nella nostra crescita personale e interiore […] sembra una cosa da niente, un peso leggero, invece è un fattore centrale nella nostra esistenza perlomeno se la intendiamo nel significato esteso della parola. Ha un sorprendente potere di trasformarci, forse più di qualsiasi altro atteggiamento o di qualsiasi tecnica di cui veniamo in possesso (Ferrucci, 2004, p. 9).

L’epoca degli attacchi di panico

Il panico è un sintomo, un’emozione, uno stato mentale o una condizione dell’anima o qualcosa di tutto questo assieme. Dipende da esperienze precoci di separazione e di perdita oppure si tratta di una valutazione -a suo modo razionale- fatta dalla mente nel qui e ora del presente.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su linkiesta il 06/10/18

 

Possiamo gestirla controllandola razionalmente o accettandola saggiamente oppure subirla in uno stato di completa impotenza emotiva. Impotenza che è diminuita nel corso delle epoche storiche man mano che ci si liberava di vecchi modi di pensare magici e religiosi, ma che va incontro a inevitabili ritorni nell’irrazionale anche nella modernità. L’umanità ha progredito nella sua evoluzione da una condizione di scarso controllo degli istinti e degli stati mentali emotivi e impulsivi a forme di autocontrollo psicologico, sociale e culturale sempre più estese. Il fenomeno non è recente: il grande Pan è morto, scrisse una volta Plutarco in una delle sue prose più note, Sul Tramonto degli Oracoli. Così scriveva Plutarco:

(Epiterse) mi raccontò che una volta, navigando verso l’Italia, si era imbarcato su una nave che trasportava merci con molti passeggeri a bordo. Di sera, quando già si trovavano presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave, trascinata dalla corrente, giunse nei pressi di Paxos; la maggior parte dei passeggeri era sveglia, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo. All’improvviso si sentì una voce dall’isola di Paxos, come di uno che chiamasse a gran voce Thamus, tanto che restarono sbalorditi. Thamus era un pilota egiziano, ma a molti dei passeggeri non era noto per nome. Chiamato per due volte, dunque, lui stette zitto, ma alla terza rispose a chi chiamava; e quello, alzando il tono di voce, disse: “Quando sarai a Palodes, annuncia che il grande Pan è morto”

La morte del dio Pan andava insieme alla crescente incredulità degli antichi verso gli oracoli, i miti, le credenze magiche, le feste pagane, e così via. La storia di Plutarco avvenne durante il regno di Tiberio imperatore, tra il 14 e il 37 dopo Cristo. Un’epoca di crescente scetticismo filosofico? D’illuminismo culturale? Certo, ma anche di conversione degli animi verso nuove fedi, nuovi timori e nuove forme di panico. Secondo Eusebio di Cesarea, la morte di Pan era la fine di un’oscura era pagana, che cedeva all’inizio di un nuovo mondo sotto la luce di Cristo, morto appunto sotto l’impero di Tiberio.

Forse lo stesso avviene in questi tempi di crescente scetticismo in cui però l’incredulità non è solo manifestazione di pensiero critico ma sembra colorarsi d’irrazionalità. La perdita di fiducia nella scienza, per esempio nel caso dei vaccini, non avviene in nome di una fede irrazionale ma nel nome di una forma estrema di scetticismo che somiglia a una caricatura della scienza stessa. In fondo non si tratta altro che di un’applicazione estrema del principio del dubbio: puoi garantirmi che i vaccini …? E chi lo ha detto che i vaccini …? E così via. Il principio del dubbio divora se stesso e ci rende più consapevoli che non possiamo passare il nostro tempo a dubitare di tutto e che un minimo fede ci tocca, se non altro per vaccinarci.

E poi pare che tutto questo abbia un’origine molto emotiva. Gli studi di psicologia dello sviluppo infantile correlano sempre più la suscettibilità al panico alle esperienze precoci di separazione dai genitori, soprattutto dalla madre. Un elegante esperimento condotto dall’equipe scientifica del prof. Marco Battaglia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, ha trovato un interessante risultato. Ha dimostrato un rapporto tra panico e ansia da separazione, ovvero l’ansia eccessiva che coglie alcune persone al momento di lasciare la propria casa o di separarsi da persone a cui è particolarmente attaccato: genitori, parenti, educatori, perfino amici.

Conta ancora di più l’eleganza dell’esperimento di Battaglia e quel che ci racconta. Battaglia e i suoi ricercatori hanno lavorato su cucciolate di roditori, sapendo che questi animali mostrano un livello di cura per la prole paragonabile a quello dell’uomo: la femmina del roditore non solo nutre ma coccola all’inverosimile i propri cuccioli. Il colpo di genio dei ricercatori è stato fare qualcosa di diverso dai soliti esperimenti di separazione, così dolorosi per i poveri animali. Si sono limitati a sostituire ogni 24 ore le madri di ogni cucciolata. Nel primo giorno c’era la madre biologica, dal secondo giorno in poi prendevano il suo posto una serie di madri adottive, una al giorno per un po’ fino alla ricomparsa della madre biologica. Il colpo di genio dell’esperimento risiede nel fatto che queste madri adottive, per la natura intensamente affettiva del comportamento genitoriale dei roditori, erano altrettanto affettuose della madre biologica del primo giorno. E anch’esse, come le madri biologiche, allattavano i piccoli.

Ebbene, l’affettività delle madri adottive non bastava. I cuccioli trattati a questa maniera manifestavano comportamenti animali in qualche modo associabili a una reazione umana di panico: più vocalizzazioni ultrasoniche, risposte iperventilatorie più pronunciate (maggiore volume corrente e incrementi di volume minuto) all’esposizione all’aria arricchita di CO2 e maggiore avversione verso gli ambienti arricchiti di CO2 rispetto agli individui normalmente allevati.

Insomma, almeno in questi roditori non bastava l’affetto delle madri adottive, i cuccioli “volevano” la madre biologica. Risultato interessante. Ci dice forse qualcosa per questi nostri tempi così pieni di timor panico (in questi giorni le cronache giornalistiche sembrano interessate al problema) e al tempo stesso così pieni di scetticismo e incredulità? Forse che si, forse che no. Forse abbiamo bisogno di maggiore conforto in qualcosa di radicato e di incontrovertibile come l’origine biologica oppure forse no, ormai non ne abbiamo più bisogno e ce la caviamo così, non attaccati a nulla e affezionati a tutto, e con qualche attacco di panico in più col quale convivere.

Burrhus Skinner: il padre del condizionamento operante – Introduzione alla Psicologia

Burrhus Skinner è stato uno dei più influenti psicologi del XX secolo nell’ambito del comportamentismo. Il suo principale interesse fu comprendere come il comportamento umano varii in relazione alle diverse modificazioni ambientali. Per questo divenne il padre del paradigma del condizionamento operante.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Burrhus Skinner: la vita

Burrhus Frederic Skinner nacque nel 1904 in una piccola cittadina della Pennsylvania, Susquehanna. Suo padre era un avvocato, sua madre una casalinga e suo fratello minore morì all’età di 16 anni per un aneurisma cerebrale.

Burrhus Skinner frequentò l’Hamilton College a New York con l’intento di diventare scrittore, ma, presto, si rese conto di non essere molto interessato all’ambito in questione, poiché era più avezzo a descrivere e analizzare il comportamento umano. Nel 1927, Skinner decise di dedicarsi allo studio della psicologia ad Harvard e nel 1931 conseguì il Dottorato di Ricerca in Psicologia. Successivamente, iniziò a insegnare prima ad Harvard e poi presso l’università del Minnesota, dove divenne presidente del dipartimento di psicologia.

Nel 1948 ritornò ad Harvard dove rimase per il resto dei suoi anni. Nel 1973 Burrhus Skinner fu uno dei firmatari dello Humanist Manifesto II e fu autore di molti lavori, tra cui il Beyond Freedom, Dignity e il Walden. Nel 1990 gli fu conferito il Lifetime Achievement dall’American Psychology Association, l’Outstanding member, nel 1991 il Distinguished Professional Achievement Award, dalla Society for Performance Improvement, e, il più importante, nel 1997 lo Scholar Hall of Fame Award dall’Academy of Resource and Development.

Skinner morì nel 1990 a causa di una leucemia.

Burrhus Skinner: il contributo teorico

Burrhus Skinner partì approfondendo gli studi condotti da Edward Lee Thorndike, in particolare la legge dell’effetto e introdusse un nuovo concetto: il rinforzo. Secondo Skinner l’apprendimento avviene per prove ed errori e si attua seguendo la Legge dell’Effetto, per cui si instaura la connessione tra uno stimolo e una risposta. La risposta, se attrattiva, ha come effetto una conseguenza piacevole o positiva e il soggetto tende a ripetere il comportamento. Se, invece, la risposta è avversiva ha come effetto una conseguenza sgradevole o negativa e il soggetto tende ad abbandonare il comportamento. 

Attraverso la realizzazione di quello che divenne il suo maggiore esperimento, denominato “Skinner box”, affermò l’importanza di questo concetto.

Lo Skinner Box consiste nell’osservare il comportamento di un topo all’interno di una gabbia, nella quale è presente una leva che se premuta rilascia cibo. Il topo all’inizio dell’esperimento tende a girare casualmente per osservare l’ambiente, ma ad un certo punto spinge, per caso, la leva e ottiene del cibo. La prima volta in cui ciò accade, il topo non si rende conto della connessione tra leva e cibo, ma dopo vari tentativi capisce la connessione e di conseguenza inizia a premere continuamente la leva per ottenere cibo finché non avrà soddisfatto totalmente la sua fame.

Burrhus Skinner definì questo processo rinforzo. Il rinforzo, dunque, è un processo per cui uno stimolo aumenta la probabilità che un comportamento precedente, messo in atto, possa essere ripetuto. Il cibo invece è chiamato rinforzatore ed è uno elemento che aumenta la probabilità che un comportamento sia ripetuto.

Uno stimolo può diventare un rinforzatore solo se assolve a una serie di preferenze individuali. I rinforzatori, inoltre, possono essere primari e secondari. I primari soddisfano bisogni biologici e operano in modo naturale, come ad esempio il cibo soddisfa la nostra fame; i secondari diventano rinforzanti in seguito ad un’associazione con un rinforzatore primario, ad esempio il denaro è utile in quanto ci permette di acquistare del cibo.

I rinforzatori hanno la stessa funzione della ricompensa, ovvero entrambi aumentano la probabilità che un comportamento possa essere ripetuto. Esiste però una sostanziale differenza che li distingue: la ricompensa riguarda eventi unicamente positivi, i rinforzatori includono anche quelli negativi.

Il rinforzatore positivo, dunque, è uno stimolo aggiunto all’ambiente che aumenta la probabilità di ripetere un comportamento precedente. Il rinforzatore negativo, invece, è uno stimolo spiacevole la cui rimozione aumenta la probabilità di ripetere un comportamento.

La punizione, al contrario, diminuisce le probabilità che un comportamento possa ripetersi. La punizione, dunque, è in grado di indebolire una risposta mediante l’applicazione di uno stimolo spiacevole o la rimozione di qualcosa di piacevole.

La punizione, dunque, rappresenta la strada più immediata per modificare un comportamento.

Le applicazioni pratiche del contributo di Skinner

Partendo dalla teoria di Burrhus Skinner e sulla base della frequenza e del timing del rinforzo sono stati messi a punto dei programmi di rinforzo in cui si distinguono due tipologie:

  • Programma di rinforzo continuo che consiste nel rinforzare il comportamento ogni volta che viene emesso;
  • Programma di rinforzo intermittente che consiste nel rinforzare il comportamento alcune volte ma non ogni volta che viene emesso.

Un comportamento, dunque, è appreso più facilmente se esposto a un rinforzo continuo, ma è soggetto ad un’estinzione più precoce. Al contrario, con un rinforzo intermittente l’apprendimento è più lento, ma più duraturo nel tempo.

Sono stati esaminati differenti programmi di rinforzo intermittente, essi possono essere ripartiti in due categorie:

  • Programmi che considerano il numero di risposte emesse, prima che venga somministrato il rinforzo. Si possono distinguere in programmi a rapporto fisso, dove il rinforzo è somministrato in seguito a uno specifico numero di risposte, e a rapporto variabile, dove è somministrato il rinforzo in base alla media delle risposte.
  • Programmi che considerano l’intervallo di tempo che trascorre prima che sia fornito il rinforzo. Si distingue in programmi a intervallo fisso, dove il rinforzo è fornito dopo un determinato intervallo di tempo, e a intervallo variabile, dove l’intervallo di tempo tra i rinforzi varia intorno alla media invece di essere fisso.

Tali programmi sono spesso utilizzati durante le normali pratiche di apprendimento in diversi ambiti che variano da quello sportivo a quello musicale, in ambito educativo, per il trattamento di disturbi della condotta e nel trattamento delle dipendenze.

L’uso delle sostanze può essere letto come una forma di un condizionamento operante, in cui la ripetuta associazione tra assunzione di sostanze (risposta comportamentale) e attivazione del sistema della ricompensa (rinforzo positivo) può portare prima all’aumento della risposta comportamentale, cioè l’uso di sostanza.

Secondo la terapia comportamentale, la gestione della contingenza è volta a cambiare la struttura di rinforzo che porta ad assumere la sostanza. Ciò è possibile erogando rinforzi positivi come conseguenza dell’astinenza o di comportamenti che possono competere con l’uso della sostanza e, quindi della dipendenza.

In concreto un intervento di gestione della contingenza nelle dipendenze può prevedere un controllo frequente delle urine, per verificare l’astinenza, e l’immediato rinforzo contingente per ogni campione negativo o pulito.

Gli psicologi cognitivi comportamentali utilizzano spesso il condizionamento per indurre i pazienti al cambiamento.

Un esempio di attuazione del condizionamento operante lo si può osservare nei disturbi d’ansia. Ad esempio un individuo per non sperimentare ansia mette in atto strategie di coping, che gli forniscono un’immediata ricompensa non facendogli provare questa emozione. Le tecniche usate per gestire l’ansia da parte del paziente sono: la risposta di fuga, che consiste nell’allontanamento dalla situazione dopo l’esperienza negativa; la risposta d’evitamento che riduce la probabilità un’ulteriore punizione.

Queste ultime diventano, alla lunga, disfunzionali ma resistenti in quanto portano alla diminuzione dell’ansia provocata dalla presenza di stimoli spiacevoli per l’individuo.

L’evitamento, presente nelle fobie, rende molto difficile l’eliminazione spontanea della paura, in quanto non porta la persona ad affrontare attivamente lo stimolo ansiogeno. Quando, al contrario, nell’ambiente mancano le possibilità che inducono all’evitamento, si verifica un senso d’impotenza appreso (learned helplessness), che è alla base della formazione della depressione.

Nel momento in cui queste strategie di coping disfunzionale vengono interrotte all’interno di un precorso terapeutico, l’ansia va incontro ad processo di estinzione che si attua attraverso una gestione della stessa.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Il paradigma teorico metacognitivo e i suoi sviluppi clinici – Congresso SITCC 2018

Il paradigma teorico metacognitivo e i suoi sviluppi clinici

Gabriele Caselli, Giovanni M. Ruggiero, Sandra Sassaroli

 

 

Finestre sul futuro. Fondamenti di Psicologia Digitale (2018) – Recensione del libro

Finestre sul futuro. Fondamenti di Psicologia Digitale si colloca tra i primi contributi di un settore emergente, la Psicologia Digitale. Quest’ultima è un’area di ricerca e intervento che analizza l’effetto dei nuovi media sul funzionamento mentale, comportamentale e relazionale di tutti noi

 

La Psicologia Digitale analizza gli effetti dei nuovi media ma non si focalizza necessariamente sulle connotazioni patologiche e applica queste conoscenze anche alla creazione e all’utilizzo di nuovi strumenti che possano coadiuvare e affiancare il clinico nella sua attività con pazienti con diversi tipi di problematiche, oltre che promuovere la conoscenza e l’importanza del benessere psicologico.

Finestre sul futuro: i temi trattati dal libro

Si tratta di tool flessibili che si adattano ai diversi approcci ed interpretazioni: la loro forza risiede non nelle loro premesse teoriche formali quanto nel fornire un mezzo adattabile e versatile. Sebbene l’approccio cognitivo comportamentale si sia dimostrato il modello più adattabile, probabilmente perché già di per sé strutturato, anche approcci psicoanalitici possono trarne beneficio, un esempio fra tutti riguarda le sessioni ipnotiche online.

Questo libro ci propone in modo snello e sintetico un cammino nel mondo digitale che si sviluppa lungo due filoni: da un lato Barbato e Di Natale ci raccontano e spiegano da dove nascono e come si sono sviluppati realtà virtuale e intelligenze artificiali, con brevi excursus sulla loro storia ed evoluzione; dall’altro approfondiscono questi temi in maniera molto concreta e pratica analizzando gli interventi e gli strumenti psicologici e psicoterapeutici online ora a disposizione dei clinici, in particolare e-therapy, realtà virtuale (VR) e intelligenza artificiale (IA). Proprio questi ultimi sono il focus su cui si concentra il libro.

La Psicologia Digitale e l’e-therapy

L’e-therapy, termine con il quale ci si riferisce agli interventi psicoterapeutici web-mediati, non sostituisce la terapia vis à vis né si è mai proposta di aspirare a modello terapeutico esclusivo. Quello che sottolineano Barbato e Di Natale è che a fronte di alcuni anni in cui il dibattito sulla sua valenza si è focalizzato su una contrapposizione tra quest’ultima e la terapia face-to-face, si è ora passati a evidenziare che l’e-therapy permette l’avvicinamento, la sensibilizzazione e l’educazione su diversi fronti. Utilizzare una realtà mediata dal computer permette infatti di raggiungere persone che prima non erano a conoscenza di un’opportunità terapeutica o diffidenti circa il reale beneficio che possono trarne, oppure, dato che l’e-therapy permette di abbattere barriere fisiche e materiali (dato che è fattibile praticamente in qualsiasi luogo e a costi ridotti), consente di raggiungere persone con limitata capacità di spostamento o poco abbienti. Non da ultimo la possibilità di praticarla in luoghi più riservati rispetto a centri clinici o studi elude lo stigma sociale che purtroppo ancora si associa a chi si rivolge al “medico dei pazzi”, permettendo anche a chi si sentirebbe a disagio per il solo fatto di essere in terapia di non avere questo ostacolo. In generale, gli strumenti più utilizzati vanno dalle email alle chat, a Skype o MSN; proprio alle forme di comunicazione scritta Finestre sul futuro. Fondamenti di Psicologia Digitale dedica un approfondimento in cui sono spiegate le possibili problematiche e vengono forniti suggerimenti pratici su come preservare la prestazione terapeutica senza dimenticare la tutela della privacy, tema sensibile su cui è bene tenersi sempre aggiornati soprattutto quando vengono coinvolte forme di comunicazione mediata che aprono nuovi scenari (si pensi ad esempio al fatto che software come Skype conservano automaticamente le nostre conversazioni).

Per disciplinare e dare agli iscritti dei mezzi per meglio comprendere ed utilizzare le potenzialità del mondo virtuale, l’Ordine degli Psicologi lo scorso anno ha pubblicato per la prima volta delle Linee Guida (Digitalizzazione della professione e dell’intervento psicologico mediato dal web, CNOP 2017) che offrono agli psicologi delle raccomandazioni su come praticare al meglio l’intervento psicologico digitalizzato.

Finestre sul futuro: le potenziaità della realtà virtuale

La realtà virtuale (VR) poi può essere considerata quasi un medium a sé, caratterizzato da senso di presenza, immersività e trasparenza. Senso di presenza che si riassume nella capacità di mettere in atto delle intenzioni motorie, la percezione di un ambiente vivido e reale e la percezione di elementi significativi e rilevanti: in definitiva la sensazione di essere realmente all’interno di questo ambiente. La VR è un medium immersivo e trasparente perché l’esperienza virtuale è così coinvolgente e ‘avvolgente’ che la persona dimentica l’esistenza del medium stesso ed è completamente immersa a livello sensoriale e percettivo nel mondo virtuale.

Il termine realtà virtuale si riferisce ad un ambiente tridimensionale virtuale, quindi generato dal computer, in cui i soggetti possono interagire con l’ambiente come se fossero realmente in esso. L’interazione rappresenta l’utente come parte attiva della sua esperienza e gli consente di sperimentare in un ambiente sicuro situazioni che egli stesso percepisce come reali in ambienti che hanno le stesse caratteristiche degli ambienti reali. Proprio la validità ecologica è uno dei vantaggi fondamentali della VR, oltre alla sua flessibilità, date le infinite possibilità di simulazioni e alla registrazione delle esperienze utile soprattutto per analizzare i dati.

I campi di applicazione, secondo Barbato e Di Natale sono molteplici perché la VR permette di praticare protocolli di intervento controllati, adattati alle specificità del singolo paziente e gli stimoli possono essere presentati gradualmente secondo necessità. Ci sono evidenze che sia un valido aiuto nel trattamento di diversi disturbi, da quelli di ansia, a quelli alimentari fino ad arrivare agli ambiti dello sport e della riabilitazione neuropsicologica.

Finestre sul futuro: le intelligenze artificiali

Infine, Barbato e Di Natale dedicano altro spazio del libro Finestre sul futuro. Fondamenti di Psicologia Digitale alle intelligenze artificiali (IA). Probabilmente si fa prima a fare degli esempi delle sue applicazioni che a definirla (si pensi ai dispositivi wearable per esempio), ma in breve possiamo dire che per IA si intende un qualsiasi hardware o software che svolge compiti tipicamente umani. Tali compiti possono essere dominio specifici (IA debole), per cui l’IA replica molto bene solo un singolo aspetto dell’intelligenza umana, oppure ad un livello superiore l’IA (detta in questo caso forte) può replicare le abilità cognitive umane necessarie alla risoluzione di compiti nuovi e non familiari, attività di problem solving tipicamente umana. Le applicazioni in ambito clinico più recenti sono i chatbot come Woebot, ovvero IA con le quali un utente può interagire in chat tramite apposita App o Messenger di Facebook. Il vantaggio è che sono disponibili sempre e ovunque, naturalmente vanno visti più come un supporto in un momento di emergenza che come strumenti terapeutici in sé.

E-therapy, VR e IA sono strumenti utili che possono supportare il clinico nel suo dialogo col paziente e che non potranno mai sostituirsi ad esso.

Lo psicologo contemporaneo dovrebbe avere un atteggiamento di apertura e consapevolezza nei confronti di questi tool e dei nuovi media, di conoscenza e approfondimento circa le nuove opportunità di oggi e di domani, senza sottovalutare quanto nella pratica professionale sia necessario essere al passo con le trasformazioni culturali e sociali come quella che ci sta portando l’evoluzione digitale.

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