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Asperger, il nazismo e la diagnosi – Riflessioni sul libro: I bambini di Asperger (2018) di Edith Sheffer

Rivedremo Kevin Spacey recitare? Ci sarà un altro Frank Underwood, genio perverso? Difficile. Kevin Spacey, molestatore seriale, è ormai persona non gradita. Questo sminuisce il suo talento? No. Vedremo ancora Hans Asperger nelle classificazioni delle malattie mentali? Per un po’ sì, anche se è già relegato nelle note. Poi scomparirà, superato dalla scienza. Espulso con disonore?

Articolo apparso su Il Corriere della Sera il 05/10/2018

 

Chi era Asperger? Psichiatra infantile, operò nella Vienna dell’avvento del nazismo. Descrisse lo “psicopatico autistico”, da lui viene l’eponimo per gli autistici ad alto funzionamento, con intelligenza preservata, a volte con aree di funzionamento eccezionale. Faticano a capire i pensieri e le emozioni degli altri, sono quindi carenti nella cosiddetta “teoria della mente”. Una ricerca di Livia Colle, Università di Torino, con una autorità del campo, Simon Baron-Cohen, mostra che adulti con Asperger non riconoscono bene le emozioni negative nelle facce. Il loro comportamento è stereotipato, ripetitivo, trascurano le relazioni sociali, mancano di reciprocità e simpatia per chi soffre, monologano più che conversare. Faticano a cambiare rotta una volta iniziato un comportamento.

La psichiatria cancella Asperger dai manuali: l’eponimo è sparito dal DSM 5 (il manuale diagnostico più diffuso) ed è marginale nell’ICD-11 (OMS). Si parla ora di disturbi dello spettro autistico, problemi simili a livelli differenti di gravità e funzionamento.

Hans Asperger è stato solo uno psicopatologo acuto, superato dal progresso? Putroppo no. Edith Sheffer ne mostra il lato oscuro, ci accompagna nell’abisso: ha contribuito a usare diagnosi di autismo e disabilità per sostenere l’eugenetica nazista. È stato complice dell’orribile Erwin Jekelius, direttore della “Clinica di pedagogia curativa Spiegelgrund”. Si intuisce cosa vi accadesse? Riporto dal libro di Sheffer, in memoria della piccola Ulrike Mayerhofer, diagnosticata come “gravemente autistica, praticamente inaccessibile dall’esterno”. Trasferita allo Spiegelgrund, fu fatta richiesta di sopprimerla. Un mese e mezzo dopo morì, ufficialmente per polmonite.

Sheffer narra di decine di bambini disabili, prima etichettati, poi mandati a morire. Asperger era lì, operava dietro le quinte, mai esplicitamente nazista, sicuramente coinvolto. Dovevo verificare. Scopro che Herwig Czech, Università di Vienna, ha pubblicato la stessa tesi, in contemporanea a Sheffer, sulla prestigiosa rivista Molecolar Autism. Un editoriale, tra gli autori il già citato Baron-Cohen, ne conferma il valore: Asperger contribuì alla soppressione di bambini inadeguati al Volk, devianti dall’ideale ariano.

I fatti sono inequivocabili, Sheffer e Czech riscrivono una pagina di storia. Che conclusioni ne traggono? Divergenti. Sheffer ha un approccio antidiagnostico, che non condivido. Riduce le osservazioni di Asperger al contesto – oggettivamente mostruoso – nel quale le ha formulate. Non possiamo accettare il termine “psicopatia autistica”, che implica una devianza sociale, ma la descrizione della sindrome era valida. Oggi la si considera la forma meno grave dello spettro autistico, il DSM 5 parla di Livello 1, ovvero lieve ma comunque bisognoso di supporto.

Sheffer nega invece il valore scientifico di quelle osservazioni che, secondo lei, nate nella cultura nazista, riprendono vigore in una società votata “all’ansia di integrazione in un mondo perfezionista”. Psichiatri e psicologi che trattano le persone con autismo sarebbero guidati dall’ “obiettivo di inculcargli sentimenti, pensieri e interazioni con il mondo… C’è chi parla di ‘curare’ o ‘guarire’ i bambini”. Vede un mondo volto a etichettare e di conseguenza stigmatizzare.

Czech, al contrario, sostiene senza mezzi termini che le osservazioni scientifiche di Asperger erano valide, non contaminate dalla complicità col nazismo. La documentazione storica di Sheffer è preziosa, le sue deduzioni e conclusioni no. Intanto due autori che peraltro cita, Frankl e Weiss, ebrei, formularono le stesse osservazioni negli stessi luoghi di Asperger, prima di lui, lo ispirarono. In modo più compassionevole, ma descrivevano gli stessi fenomeni e i loro occhi non erano offuscati dal delirio razziale. Poi, chi ha davvero creato problemi a persone affette da autismo è Bruno Bettelheim, per altro sopravvissuto a Dachau, e noto per avere maltrattato bambini. S’inventò di sana pianta che l’autismo era causato dalle “madri frigofero”. Le ricadute di questa assurdità sulle famiglie sono state tremende. Le sue teorie erano insensate, non perché le ha formulate un ebreo scampate all’Olocausto, ma uno scienziato scadente.

Ridurre le scienze della mente al contesto storico dove nascono è rischioso. Così come lo è il considerare le diagnosi formulate da psichiatri e psicologi come figlie di una cultura che schiaccia l’individuo verso una sopposta norma. Sheffer, lo riconosco, segnala alcuni problemi reali: la diagnosi può essere usata per dare più medicine o diventare uno strumento al servizio dello stigma. Chi fa il mio lavoro può adottare una posizione paternalistica e trincerarsi dietro etichette per risparmiarsi la fatica di capire, empatizzare e curare: “È psicotico, autistico, non perdiamo tempo, un po’ di farmaci e via”. È un fatto, come nota Schaffer, che la diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività abbia portato all’aumento ingiustificato di prescrizioni di Ritalin.

Ma dare nomi alle malattie è inevitabile. Intanto la mente umana funziona categorizzando, si legga Kant e l’ornitorinco di Eco e si faccia pace con l’idea. Raggruppare concetti, oggetti, uomini in categorie è necessario per trasmettere conoscenza. Con la diagnosi identifichiamo fenomeni ricorrenti e così passiamo il sapere acquisito ai colleghi e alle generazioni future. Poi, il terapeuta saggio conosce categorie ma cura individui. Questo facciamo, e oggi, nelle riviste di psicologia e psichiatria, usiamo la formula: ‘persona affetta da… autismo, schizofrenia’ e non più ‘autistico’, ‘schizofrenico’.

Temple Grandin è la protagonista del libro di Oliver Sacks Un antropologo su Marte. Affetta da autismo ad alto funzionamento, ha inventato la macchina degli abbracci che calmava le mucche che allevava. Intervistata, non ha problemi a riconoscere di essere affetta da autismo. Ci tiene solo a essere considerata prima allevatrice di bestiame e poi affetta da autismo. La diagnosi non le ha peggiorato la vita.

Rivedremo House of cards sapendo che Kevin Spacey ha compiuto azioni esecrabili, ma resta un attore ineguagliabile. Leggeremo gli scritti di Asperger sapendo che osservazioni più accurate hanno superato le sue, e che lui ha anche agito servendo il male. Psichiatri e psicologi potranno sbagliare, ma in gran parte faranno diagnosi per capire. Al fine di curare meglio.

ADHD a scuola: l’utilizzo delle pagelle giornaliere per ridurre la procrastinazione e aumentare l’autostima

L’ ADHD è un disturbo che entra a far parte delle classificazioni internazionali nel 1980. La prevalenza mondiale della diagnosi di ADHD nei bambini e adolescenti è stimata intorno al 5,9-7,1%.

 

La prevalenza di ADHD in Italia si attesta intorno all’1% della popolazione di età compresa tra i sei e i diciassette anni. La diffusione della diagnosi ha creato molto allarme, in particolare negli USA, che presentano un’incidenza della diagnosi molto più elevata rispetto all’Italia e una frequenza maggiore nella prescrizione di farmaci.

ADHD: come interferisce con l’attività scolastica

Questi bambini/ragazzi incontrano diverse difficoltà nella vita quotidiana, e molte di queste si manifestano nei contesti scolastici. In particolare, tra i diversi fattori che interferiscono nell’attività accademica, vi sono:

  • Sensibilità alla noia
  • Difficoltà nello svolgere attività che richiedono concentrazione
  • Difficoltà a portare a termine le attività
  • Approccio dispersivo, senza priorità
  • Impulsività, scarsa pianificazione
  • Scarsa gestione del tempo
  • Incapacità di rispettare le scadenze
  • Tendenza a procrastinare

ADHD: l’ausilio delle pagelle giornaliere

A tal proposito, uno studio condotto dall’Università di Exeter, ha intrapreso una revisione sistematica al fine di analizzare, in tutte le ricerche disponibili, l’utilizzo di misure non terapeutiche a sostegno dei bambini con ADHD, implementate dalle scuole.

Dalla ricerca è emerso un risultato promettente rispetto all’utilizzo delle pagelle giornaliere. Queste avevano come fine quello di fissare degli obiettivi giornalieri, rispetto alle attività dei bambini con ADHD. Tale procedura, include anche l’utilizzo di alcuni premi che vengono assegnati per stimolare i ragazzi/e a raggiungere gli obiettivi prefissati. L’uso di una pagella giornaliera rappresenta un metodo economico e facile da implementare. Infine, tale metodo, può incoraggiare la collaborazione tra la famiglia e la scuola e offre la flessibilità necessaria per rispondere alle esigenze individuali di un bambino, attraverso obiettivi ad-hoc.

Questa procedura, rispetto alle difficoltà precedentemente menzionate dei bambini con ADHD, assume un ruolo molto importante. La presenza di obiettivi giornalieri incide positivamente rispetto alla tendenza alla procrastinazione, alla difficoltà di portare a termine le attività, a non rispettare le scadenze etc.. Il raggiungimento dei diversi obiettivi produrrebbe una serie di effetti positivi “a cascata” rispetto all’autostima, l’autoefficacia e l’autoregolazione e ridurebbe invece i vissuti di ansia, depressione e frustrazione che spesso accompagno questi ragazzi/e.

Tamsin Ford, professoressa di Child Psychiatry presso l’Università di Exeter Medical School, sostiene:

I bambini con ADHD sono ovviamente tutti unici, a tal proposito, non esiste un approccio valido per tutti, da utilizzare nelle scuole (..) Le ricerche hanno messo in evidenza che gli interventi non farmacologici implementati nelle scuole, possono aiutare i bambini a impiegare il loro potenziale, in termini di risultati accademici e di altro tipo. E’ necessaria una maggiore ricerca, ma nel frattempo le scuole dovrebbero provare a utilizzare le pagelle giornaliere.

Una società complessa: c’è posto per la fragilità? – Il caso di Desirée dovrebbe farci riflettere

La morte di Desirée, avvenuta nel quartiere di San Lorenzo a Roma, in questi giorni consegna alle coscienze di tutti noi un obbligo: quello di riflettere. Riflettere se la complessità di un evento così doloroso e ingiusto, debba trovare solo spettatori rabbiosi che cercano una sola causa a tutto ciò, dimenticando la complessità di cui questo evento si fa portavoce.

 

L’evento mette in luce: un atto di violenza, un nucleo familiare potenzialmente fragile, su cui ancora si sta cercando di far luce e un contesto in cui si intrecciano delinquenza, tossicodipendenza e mancata integrazione.

Può solo la legge e quindi la giustizia combattere tutto ciò?

Può una società così complessa, ignorare il valore del benessere psico-sociale degli individui che la compongono? Risuonano pregne di attualità le parole con cui Bauman descrive le società “moderne”, definendole liquide:

Come Beck ha acutamente e saggiamente osservato: ‘il modo in cui si vive diventa una soluzione biografica a contraddizioni sistemiche’. Rischi e contraddizioni continuano ad essere prodotti a livello sociale; sono solo il dovere e la necessità di affrontarli a essere stati individualizzati (Bauman, 2011).

Mi chiedo in che modo un adolescente oggi, in maniera individuale, possa trovare risorse per affrontare questa società liquida? Penso alle grandi istituzioni: alla famiglia, alla scuola, ai servizi territoriali. L’individualizzazione, ad oggi, è stata estremizzata ed è per questo che somiglia ad una fatiscente idea di libertà, ma che eventi come questi, disegnano sempre più simile alla solitudine.

Il benessere psicologico di un adolescente è una conquista difficile, lo è ancor di più quando le istituzioni che dovrebbero contenere fisiologiche spinte alla trasgressione non ci sono. Non possiamo ridurre la tutela dei cittadini ad un giustizialismo post-mortem, non è questo di cui la società ha bisogno.

La morte di Desirée è l’emblema di esigenze educative chiare, di accoglienza e cura della fragilità, è l’emblema della richiesta di un territorio affinché possa offrire spazi di vita e non di morte.

Se una società vuole veramente proteggere i suoi bambini, deve cominciare con l’occuparsi dei genitori, così affermava Bowlby, noto psicologo britannico che ha elaborato la teoria dell’attaccamento. La responsabilità genitoriale non esclude che gli stessi genitori possano compiere errori, che anch’essi possano vivere le loro “fragilità e contraddizioni”.

Dinanzi a ciò dobbiamo ripercorrere questa società, con un senso di responsabilità maggiore, con lo sviluppo di un’inclinazione che miri all’ascolto dell’altro.

Questa riflessione tiene altresì conto del potere che lo Stato e le sanzioni penali devono garantire ai fini dell’applicazione della giustizia e della tutela della cittadinanza, ma lo stesso Stato dovrebbe tornare ad offrire ai cittadini servizi per il benessere psicologico utili ad accogliere gli adolescenti con le loro fragilità e ad accompagnare le famiglie in quel percorso, tanto complesso, che è oggi la genitorialità.

La nostra è una società complessa, “liquida”, per usare l’aggettivo dello stesso Bauman, che in quanto tale richiede soluzioni complesse per far si che torni ad essere un promotore attivo di vita e non di morte.

Qual è il ruolo dell’impulsività nel Binge Eating Disorder?

In questo articolo ci soffermeremo in particolar modo a parlare del Binge Eating Disorder (BED), descriveremo le sue peculiarità e ci concentreremo sul ruolo che riveste la strategia dell’ impulsività in questo specifico disturbo.

Maria Obbedio e Ilaria Perrucci – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

I disturbi dell’alimentazione (DA) sono patologie caratterizzate da un’alterazione delle abitudini alimentari e da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per le forme del corpo.

Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e colpiscono soprattutto il sesso femminile. Tuttavia attualmente, come suggerisce la responsabile del Servizio Ambulatoriale Disturbi del Comportamento Alimentare – Umbertide, Dr.ssa Laura dalla Ragione, in un’intervista per Repubblica, in occasione della giornata dedicata ai disturbi alimentari, l’età di manifestazione dei DA si è abbassata notevolmente. Infatti, si ammalano anche bambini di 8-10 anni. Inoltre, anche il numero dei ragazzi di sesso maschile tra i 13-17 anni è aumentato e si aggira intorno al 20%.

Come si manifestano i disturbi dell’alimentazione e quali sono le loro caratterische

I comportamenti tipici di un disturbo dell’alimentazione sono: la diminuzione dell’introito di cibo, il digiuno, le crisi bulimiche (ingerire una notevole quantità di cibo in un breve lasso di tempo), il vomito per controllare il peso, l’uso di anoressizzanti, lassativi o diuretici allo scopo di controllare il peso, un’intensa attività fisica. Alcune persone possono ricorrere ad uno o più di questi comportamenti, ma ciò non vuol dire necessariamente che esse soffrano di un disturbo dell’alimentazione. Ci sono infatti dei criteri diagnostici ben precisi che chiariscono cosa debba intendersi come patologico e cosa invece non lo è.

Una caratteristica quasi sempre presente in chi soffre di un disturbo alimentare è l’alterazione dell’immagine corporea che può arrivare ad essere un vero e proprio disturbo. La percezione che la persona ha del proprio aspetto, ovvero il modo in cui nella sua mente si è formata l’idea del suo corpo e delle sue forme, sembrano influenzare la sua vita più della sua immagine reale. Il corpo diventa teatro di una sofferenza profonda vissuta dal soggetto. È il corpo che deve comunicare. Ad esempio, si può notare come spesso chi soffre di anoressia non riesce a giudicare il proprio corpo in modo obiettivo; l’immagine che rimanda lo specchio è ai loro occhi quella di una ragazza coi fianchi troppo larghi, con le cosce troppo grosse e con la pancia troppo “grande”.

Per le persone che soffrono di bulimia nervosa invece, vi è un’angoscia per la visibile perdita di controllo sul cibo. Sia nell’anoressia nervosa che nella bulimia nervosa, la valutazione di sé stessi dipende in modo eccessivo dal peso e dalla forma del proprio corpo. Il corpo si fa portatore di vissuti traumatici, difficili e insopportabili.

La bulimia nervosa e l’anoressia nervosa rappresentano solo due dei tanti disturbi alimentari. I manuali diagnostici aggiungono anche altri disturbi alimentari come l’obesità e il Binge Eating Disorder (BED).

In questo articolo ci soffermeremo in particolar modo a parlare del Binge Eating Disorder, descriveremo le sue peculiarità e ci concentreremo sul ruolo che riveste la strategia dell’ impulsività in questo specifico disturbo.

Binge Eating Disorder (BED)

Il Binge Eating Disorder (in italiano Disturbo da Alimentazione Incontrollata) è un disturbo multifattoriale che si caratterizza per la presenza di crisi bulimiche in assenza di comportamenti di compensazione inappropriati per il controllo del peso.

Rispetto agli altri pazienti con disturbi dell’alimentazione, i soggetti affetti da Binge Eating Disorder hanno mediamente un peso maggiore, una maggiore frequenza di sovrappeso o obesità, un’età di esordio più varia (che può essere a qualsiasi età, mentre per anoressia nervosa e bulimia nervosa è soprattutto in età adolescenziale), una maggiore prevalenza anche nelle persone di sesso maschile.

Spesso le persone con disturbo da alimentazione incontrollata si rivolgono ai centri per il trattamento dell’obesità, ma rispetto ai pazienti con obesità riportano una maggiore presenza di sintomi psichiatrici, in particolare depressione, disturbi d’ansia e di personalità. Come le persone con obesità, le persone con Binge Eating Disorder possono essere oggetto di discriminazione da parte degli altri a causa della loro condizione fisica.

A livello emotivo, anche chi soffre di Binge Eating Disorder prova un senso di vergogna e di insoddisfazione per il proprio corpo anche se non necessariamente viene perseguito un ideale di magrezza estremo. Essi avvertono un profondo senso di disagio nel perdere il controllo con il cibo, ma a differenza dei soggetti con bulimia nervosa, non sempre danno un’importanza eccessiva al peso o alla figura corporea per valutare se stessi.

Criteri Diagnostici del Binge Eating Disorder

Di seguito vengono riportati i Criteri diagnostici del Binge Eating Disorder secondo il DSM 5:

A. Ricorrenti crisi bulimiche. Una crisi bulimica è caratterizzata da entrambi gli aspetti seguenti:

  • Mangiare, in un periodo definito di tempo (es. 2 ore), una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili;
  • Sensazione di perdere il controllo durante l’episodio (es. sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o di non controllare che cosa o quanto si sta mangiando).

B. Le abbuffate sono associate con tre (o più) dei seguenti aspetti:

  • Mangiare molto più rapidamente del normale;
  • Mangiare fino a sentirsi spiacevolmente pieno;
  • Mangiare grandi quantità di cibo quando non ci si sente fisicamente affamati;
  • Mangiare da solo perché ci si sente imbarazzati dalla quantità di cibo che si sta mangiando;
  • Sentirsi disgustato di se stesso, depresso o assai in colpa dopo l’abbuffata.

C. È presente un marcato disagio in rapporto alle abbuffate

D. Le abbuffate si verificano, in media, almeno una volta a settimana per 3 mesi

E. Le abbuffate non sono associate all’attuazione ricorrente di condotte compensatorie inappropriate come nella bulimia nervosa e non si verificano esclusivamente durante il decorso della bulimia nervosa o dell’anoressia nervosa

Questi pazienti manifestano difficoltà in svariati ambiti della loro vita:

  • Disagio sociale e giovanile esteso alla maggior parte dei rapporti interpersonali;
  • Distorsione nella visione del proprio corpo che alimenta un senso di insicurezza e d’inadeguatezza;
  • Pressione e stress dovuti alla grande quantità di tempo trascorso sotto regime dietetico;
  • In alcuni casi abuso di alcol o droghe;
  • Difficoltà a gestire gli stati d’animo o a esprimere/manifestare le proprie emozioni, compresa la rabbia;
  • Senso di impotenza legato all’incapacità di controllare il proprio comportamento alimentare e il conseguente aumento di peso.

Binge Eating Disorder: il ruolo dell’ impulsività

Il 50% dei pazienti con Binge Eating Disorder soffre di depressione maggiore, disturbo di panico e di alcuni disturbi di personalità. Il sintomo dell’abbuffata infatti andrebbe a compensare una sensazione pervasiva di sconforto persistente presente nel momento della crisi. Un elevato sovrappeso può contribuire al mantenimento e all’accentuazione del sintomo compulsivo in quanto restituisce a chi ne soffre un senso di fallimento, di colpa e di vergogna che “alimenta” la condotta alimentare incontrollata. Durante gli episodi di abbuffata il soggetto è inconsapevole di quello che sta facendo, per cui c’è una perdita di controllo (Mannucci, Ricca, Rotella, 2001). In seguito, è in preda a sentimenti di disgusto.

Inoltre, i pazienti con Binge Eating Disorder presentano specifiche caratteristiche di personalità e proprio tali caratteristiche vengono considerate come fattori di vulnerabilità individuale, cioè fanno sì che coloro che ne sono portatori siano più esposti di altri a sviluppare tale disturbo. La considerazione dei tratti patologici di personalità nei DA e anche nei BED mette in luce il problema della comorbidità (ovvero l’associazione di due o più disturbi nello stesso soggetto), di particolare importanza sia per la ricerca che per la pratica clinica, soprattutto quando ci si interfaccia con quelli che vengono definiti da Fairburn “i casi complessi”. Non è raro, infatti, trovare la presenza di sintomi collegati ad uno o più disturbi aggiuntivi del vecchio Asse I del DSM IV, o sintomi che sono in linea con alcuni disturbi di personalità (Fairburn, Cooper, Waller, 2010).

A livello clinico, si osservano persone spesso impulsive e disregolate da un punto di vista emozionale. Il disturbo alimentare è un tentativo impulsivo-compulsivo di regolare sentimenti percepiti come intollerabili. In particolare, alcuni pazienti riportano sentimenti di disperazione, incapacità a tollerare lo stress e ricerca spasmodica di una sensazione immediata di gratificazione. L’assunzione incontrollata del cibo e la sua eliminazione viene così a costituirsi e rinforzarsi come fallimentare autocura.

Considerando che il Binge Eating Disorder è un disturbo riconosciuto solo di recente, la letteratura in merito a tale argomento non è molto copiosa. Tuttavia, alcuni studi rigurdanti la personalità si sono soffermati sulla dimensione dell’ impulsività – compulsività (in Leombruni, Fassino, 2009). Così come si può osservare nei disturbi che fanno parte del continuum ossessivo-compulsivo, allo stesso modo nel BED, per poter evitare l’emozione dell’ansia, si mette in atto un impulso che possa garantire una fallace sensazione di benessere. Il poter cedere all’impulso, infatti, genera una sorta di piacere soggettivo anche se le sue conseguenze possono essere estremamente dilanianti. La persona, pertanto, percepisce di non riuscire a resistere all’impulso di mangiare. Prima di commettere l’atto il soggetto avverte un aumentato senso di tensione (arousal). Solo mentre commette l’atto e quindi mangia, avverte piacere e gratificazione.

Tuttavia, questo meccanismo innesca un circolo vizioso per cui, in un secondo momento vengono alla luce vissuti negativi che si presentano per lo più sottoforma di sensi colpa e di vergogna (in Leombruni, Fassino, 2009).

BED e modello psicobiologico della personalità

Per poter ben comprendere il Binge Eating Disorder è interessante far riferimento al modello psicobiologico della personalità, il quale potrebbe rivelarsi un’ulteriore chiave di lettura del disturbo stesso e potrebbe rappresentare l’elemento di congiunzione tra i diversi costrutti teorici utili a spiegare un disturbo così peculiare.

Secondo questo approccio ci sono tre dimensioni temperamentali e caratteriali, le quali potrebbero costituire un pattern di personalità specifico del BED. In particolare ad un’alta ricerca della novità (Novelty Seeking, NS), corrisponderebbe la sfera dell’ impulsività e dell’aggressività. Ad un alto evitamento del danno (Harm Avoidance, HA), corrisponderebbe uno spettro ansioso-depressivo. Ad una bassa autodirettivià (Self Directeness, SD) corrisponderebbe un indicatore di fragilità, una difficoltà a contenere un temperamento caratterizzato da impulsività e una predisposizione a sviluppare un disturbo di personalità.

L’ impulsività e la compulsività, colonne portanti della personalità di questi pazienti, sono alla base di diversi comportamenti disfunzionali. Tali caratteristiche, inoltre, compaiono tra i criteri più comuni impiegati nel DSM. Sono presenti, per esempio, nella diagnosi del disturbo di personalità borderline ed antisociale, del deficit di attenzione/disturbo da iperattività, dei disturbi da discontrollo degli impulsi e dei DA, più in generale.

Dal punto di vista clinico la relazione tra scarsa autodirettività e condotte di binge eating potrebbe rivelarsi molto utile per stilare un progetto psicoterapeutico per il trattamento del BED (in Leombruni, Fassino, 2009).

Disturbi dell’alimentazione, BED e impulsività

Ad ogni modo, in generale, i disturbi dell’alimentazione e l’ impulsività sembrerebbero condividere le stesse basi biolgiche. Cosi come i disturbi alimentari potrebbero essere interpretati in un continuum di disfunzione serotoninergica (5HT), allo stesso modo è stato dimostrato che nei soggetti impulsivi esiste un’alterazione del metabolismo della serotonina ed una riduzione dell’attività di questo neurotrasmettitore (Vikkunen, 1987). È interessante notare come livelli elevati di 5HT indurrebbero condotte anoressiche e comportamenti ossessivo-compulsivi, mentre, bassi livelli di 5HT produrrebbero condotte impulsive, con perdita del controllo sul comportamento alimentare e quindi porterebbe ad abbuffate nei soggetti bulimici ed affetti da Binge Eating Disorder (Brewerton, 1995; Wurtman, 1990).

Come menzionato in precedenza, il BED è un disturbo multifattoriale. Pertanto, oltre che tener conto delle basi biologiche correlate al disturbo è interessante comprendere la percezione della realtà dei soggetti presi in analisi.

Secondo l’approccio cognitivista, è frequente nelle persone con Binge Eating Disorder la presenza del pensiero dicotomico: il paziente sarebbe soggetto a estremizzazioni ripetute ed oscillazioni nel giudizio di se stesso e dell’ambiente. La mancanza di una sufficiente consapevolezza di sé facilita l’insorgenza e il mantenimento di comportamenti estremizzati anche in ambito alimentare, producendo l’alternarsi di restrizioni ed abbuffate, tali da riproporre all’individuo la propria incapacità di condurre un’esistenza equilibrata e risultando pericolose poiché rafforzano il senso di fallimento di fronte anche ad una piccola “ricaduta” alimentare, favorendo l’insorgenza dei sensi di colpa, l’insinuarsi e il successivo perpetuarsi dei sintomi depressivi.

Ancora, è possibile rintracciare la presenza di un perfezionismo patologico con una valutazione di sé eccessivamente dipendente dall’inseguimento e dal raggiungimento di determinati standard personali esigenti ed autoimposti (Dalle Grave, 2003). La persona pensa che potrà essere accettata solo a condizione di dare il massimo delle proprie possibilità senza la minima smagliatura. Il giudizio altrui viene considerato l’unico modo per stimare il proprio valore. Vari studi, come quello di Fassino et al, 2002, si sono avvalsi del Temperament and Character Inventory (TCI) uno strumento specifico utilizzato per analizzare il profilo temperamentale e caratteriologico in pazienti con DA. Essi hanno evidenziato che i pazienti con Binge Eating Disorder confrontati con pazienti obesi senza BED ottengono alti punteggi nella scala HA (Harm Avoidance), per cui sono soggetti più insicuri, timidi, apprensivi, nervosi, irascibili e impulsivi, più passivi e che tendono a scoraggiarsi più facilmente.

In particolare, l’ impulsività riveste un ruolo importante soprattutto nel mantenimento del comportamento disfunzionale (Bousardt et al, 2015). Di fronte ad una potenziale minaccia, l’individuo con un forte tratto di impulsività sembra non avere le risorse cognitive necessarie a valutare adeguatamente l’evento e identificare la risposta più adeguata. Al contrario, vi è un’alta probabilità che vengano messi in atto comportamenti aggressivi volti a proteggersi o a evitare il dolore. Si tratta di mettere in atto una risposta repentina in reazione a uno stimolo proveniente dall’ambiente esterno tramite un agito comportamentale. Il soggetto usa come strategia di protezione il comportamento alimentare. Il metodo usato non solo nel BED ma anche negli altri disturbi alimentari sembra essere legato da un unico filo comune: illusoriamente si cerca di controllare e gestire il proprio vissuto emotivo in un tentativo che sembra voler riattivare il corpo con il cibo.

La condotta impulsiva non si limita esclusivamente al cibo. La letteratura recente conferma la multidimensionalità del costrutto dell’impulsività. Whiteside e Lynam, sottoponendo ad analisi fattoriale alcuni classici strumenti di valutazione della personalità e dell’ impulsività, evidenziano l’esistenza di quattro diversi fattori:

  • urgency (“urgenza” in italiano), che include componenti quali le difficoltà di controllo inibitorio e l’ impulsività attentiva;
  • difficoltà di pianificazione, che include componenti come impulsività motoria, difficoltà nel prendere decisioni;
  • difficoltà di perseveranza;
  • ricerca di sensazioni e di situazioni nuove o emotivamente attivanti.

Non solo nel BED ma la condotta impulsiva è presente in tutto il quadro alimentare. Fisher e colleghi, in una meta-analisi, evidenziano che in particolare è la prima di queste dimensioni ad associarsi ai sintomi bulimici. Inoltre, sembra che sia pazienti con anoressia nervosa che pazienti con bulimia abbiano una maggiore labilità e impulsività attentiva, mentre le pazienti con anoressia sembrano essere meno caratterizzate da impulsività motoria e impulsività non pianificata rispetto ai pazienti bulimici. Le pazienti con anoressia nervosa sembrano dunque aderire più a caratteristiche perfezionistiche che non impulsive (Davies, Campbell, Tchanturia).

Inoltre, alcuni studi hanno ampiamente dimostrato come l’ impulsività sia un forte predittore di esito negativo del trattamento della bulimia nervosa (Fisher, Smith, Cyders, Feltman, Ferraro). La letteratura, ad esempio, riporta elevati livelli di comorbilità psicopatologica con disturbi da abuso/dipendenza da alcol e/o droghe. In questo caso specifico, l’associazione più rilevante sembra esistere con i soggetti affetti da bulimia nervosa o da anoressia nervosa, sottotipo “con abbuffate/condotte di eliminazione”, sia per quanto riguarda l’abuso di alcool che di droghe (Bulik, 1987; Welch, Fairburn, 1996). L’abuso o la dipendenza da sostanze sono stati riportati con una frequenza del 55% nelle pazienti affette da bulimia nervosa e del 23% nelle pazienti anoressiche (Kessler, McGonagle, Zhao et al.,1994). Il meccanismo su cui si basa una così frequente associazione non appare del tutto chiaro giacchè il legame si mostra complesso ed è verosimilmente basato su un intreccio di fattori biologici e psicosociali (Baker, Mitchell, Neale, Kendler, 2010). Tuttavia, è stato evidenziato come accada di frequente che, nel momento della remissione sintomatologica, le pazienti possano “sostituire” al sintomo alimentare un uso marcato (o abuso) di sostanze (ibidem).

Oltre alla concomitante presenza di abuso e/o dipendenza da alcool e droghe, in alcuni soggetti con DA si osservano altre condotte connesse all’ impulsività come la promiscuità sessuale, la cleptomania, comportamenti autolesivi o tentativi di suicidio.

Alla luce di quanto detto si evidenzia che alcuni tratti e modalità potrebbero compromettere il trattamento già di per sè difficile di questi pazienti. In particolare, il perfezionismo e l’ impulsività possono incidere nel trattamento di questi disturbi ostacolando l’alleanza terapeutica.

In conclusione

Partendo dalle ricerche presenti in letteratura che asseriscono che l’alessitimia, conseguenza deficitaria o strategia messa in atto rispetto a una gestione emotiva disregolata o disfunzionale, è una delle caratteristiche principali dei disturbi dell’alimentazione (Speranza, Loas, Wallier, et al., 2007) e che a elevati livelli di alessitimia corrispondono una significativa difficoltà nell’identificare le emozioni e i sentimenti, specialmente rabbia e stati emotivi negativi, e nell’esprimerli verbalmente (Schimdt, Jiwany, Treasure, 1993), potrebbe essere interessante orientare le future ricerche sia sullo studio della polarizzazione del pensiero, sia sullo studio dello stato emotivo dei pazienti con Binge Eating Disorder.

Un trattamento psicoterapico integrato del disturbo Ossessivo-Compulsivo: Schema Therapy e Terapia Cognitiva

Tre articoli usciti di recente propongono un’integrazione tra la Schema Therapy e la Terapia Cognitiva nel trattamento psicoterapico del disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), dando molto risalto, sia a livello teorico che terapeutico, non solo ai sintomi ma anche alle esperienze precoci.

 

Recentemente è stata pubblicata una serie di tre articoli sulla rivista Psychology ad opera di Basile, Mancini, Luppino e Tenore (Luppino et al., 2018; Tenore et al., 2018; Basile et al., 2018) in cui è descritta un’integrazione tra la Schema Therapy e la Terapia Cognitiva nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo (DOC).

Disturbo ossessivo-compulsivo secondo il modello cognitivo

Il modello cognitivo del DOC analizzato in dettaglio è quello di Mancini (2016) in cui si mette in risalto che lo scopo perseguito del paziente ossessivo è quello di prevenire un’emozione di colpa per propria responsabilità, valutata inaccettabile e grave. Più precisamente, i pazienti con DOC temono un particolare tipo di emozione di colpa, quella che si origina dall’assunzione di aver violato una regola morale interiorizzata, ovvero la colpa deontologica.

In aggiunta all’obiettivo di prevenire questa emozione, ci sono altri due scopi attivi nel paziente con DOC:

  1. Prevenire o neutralizzare la contaminazione disgustosa (Rachman, 2006)
  2. Evitare l’esperienza emotiva che qualcosa non sia come dovrebbe essere definita la Not Just Right Experience che tutti proviamo, ad esempio, difronte un quadro storto (NJRE – Coles et al., 2003)

Entrambi sono fortemente collegati con il timore di colpa deontologico (D’Olimpo & Mancini, 2014; Mancini e collaboratori, 2008).

Disturbo ossessivo-compulsivo secondo la Schema Therapy

Un ulteriore aspetto particolarmente interessante è l’attenzione rivolta alle esperienze precoci che possono sensibilizzare alle emozioni di colpa e di disgusto. Rispetto alla prima, il clima familiare descritto dai pazienti ossessivi risulta essere molto attento alla moralità e al comportamento normativo, ed è tendente a disapprovare il comportamento del bambino. Più in particolare, la reazione genitoriale alla trasgressione di una regola risulta spesso ambigua e incongrua e talvolta si accompagna alla distanza affettiva e a una particolare espressione facciale rappresentata dal “muso” (Tenore, 2018). Un simile atteggiamento, di tipo passivo-aggressivo, da parte del genitore, non rimanda al bambino solo l’eventuale inappropriatezza di un suo comportamento, ma gli comunica un senso di globale inaccettabilità come persona, minacciando la continuità della relazione con la figura d’accudimento. Appare facile comprendere come una minaccia così grave possa spingere la persona ossessiva a comportarsi in maniera impeccabile, anticipando ogni eventuale mancanza e responsabilità.

A questo si aggiungono l’ipercontrollo, il criticismo e gli elevati standard genitoriali, responsabili dello sviluppo di credenze perfezionistiche, sulla base delle quali lo scostarsi dagli standard severi proposti determina la sensazione di essere colpevoli per non essere stati all’altezza, di avere deluso le aspettative causando sofferenza nel genitore. Rispetto al disgusto, sembrerebbe che la più frequente modalità con cui un bambino si sensibilizza a questa emozione sia attraverso una “trasmissione” genitore-bambino (Rozin et al., 2000). In uno studio di Rozin e collaboratori (2000) è emerso che i figli di genitori particolarmente reattivi agli stimoli elicitanti disgusto di base, si mostrano molto reattivi anche agli stimoli evocanti disgusto morale. Questo sostiene l’ipotesi che la sensibilità al disgusto del genitore svolga un ruolo determinante rispetto allo sviluppo di risposte inerenti stimoli morali, connessi al rischio di provare colpa deontologica. Il disgusto morale, rispetto a quello fisico, presenta maggiori connotazioni relazionali e il percepirsi moralmente disgustosi è connesso alla percezione di minaccia rispetto alla continuità della relazione con l’altro. Infatti, i pazienti con DOC riferiscano il timore di poter essere giudicati negativamente e più in particolare, di poter essere oggetto di disgusto e disprezzo da parte degli altri a causa dei propri errori. Tutto ciò mette in risalto come le esperienze precoci siano un punto molto importante non solo per comprendere lo sviluppo della sintomatologia ma anche un punto di azione terapeutica, dato che queste esperienze compongono un corpus di memorie sofferenti per il paziente.

Disturbo ossessivo-compulsivo secondo il modello integrato: approccio cognitivo e Schema Terapy

Per capire nel dettaglio il modello integrato proposto, è utile partire da un esempio clinico di un paziente ossessivo con il timore di essere omosessuale, descrivendo così il profilo interno del funzionamento del disturbo ossessivo-compulsivo di Mancini e collaboratori (2016) e rappresentato graficamente nella Figura 1.

Figura 1. Schema DOC secondo il modello di Mancini

Disturbo ossessivo-compulsivo un modello psicoterapico integrato 1

 

Dal modello di funzionamento del DOC di Mancini (Figura 1) deriva uno specifico intervento psicoterapico cognitivo. I due obiettivi principali del modello di intervento sono:

1) ridurre i circoli viziosi che sono alla base del mantenimento del DOC perseguendo l’accettazione del rischio percepito

2) abbassare la sensibilità alla colpa deontologica nei pazienti.

Spesso l’ordine di azione nel processo psicoterapeutico può essere quello sopra menzionato, ma ci sono dati in letteratura che mettono in risalto come un’azione diretta sulla vulnerabilità possa portare a risultati importanti in termini di riduzione sintomatica. Diversi lavori suggeriscono che l’intervento sulla vulnerabilità da solo, senza passare per il lavoro sui processi ricorsivi, sia in grado di produrre una riduzione clinicamente significativa della sintomatologia ossessiva. In linea con tale ottica, Veale e colleghi hanno mostrato l’efficacia, in termini di riduzione sintomatica, di un’unica seduta di Imagery with Rescripting (tecnica molto importante nella Schema Therapy) orientata verso ricordi di colpe connessi al dominio dei sintomi. Più recentemente una ricerca tutt’ora in corso e di cui si conoscono dati preliminari (Tenore et al., 2018) suggerisce come un lavoro esperienziale attraverso il solo utilizzo della tecnica dell’Imagery with Rescripting su episodi di colpevolizzazione precoce, produca una riduzione clinicamente significativa dei sintomi ossessivi in una buona percentuale di pazienti. La particolarità dei lavori di Basile, Mancini, Luppino e Tenore è stata quella di riportare la prospettiva del modello della Schema Therapy in chiave di Mode, sovrapponendola e integrandola con il modello cognitivista di Mancini (2016). Il suggerimento terapeutico è applicare il lavoro dei Mode in particolare per potenziare il Mode dell’adulto sano e favorire l’accettazione della minaccia posta dalle ossessioni. Entrando nello specifico del lavoro viene fatta una sovrapposizione minuziosa tra le fasi dello schema di Mancini e i Mode che si attivano (Figura 2).

Figura 2. Sovrapposizione tra il modello cognitivista (Mancini 2016) e il modello Schema Therapy applicati al DOC, in Tenore et al., 2018, pag 2284.

Disturbo ossessivo-compulsivo un modello psicoterapico integrato 2

Analizzando nel dettaglio i Mode, emerge che nel Mode Bambino vulnerabile, il paziente percepisce come intollerabile la possibilità di essere entrato in contatto con una sostanza disgustosa, o che questo sia potuto accadere. Lo scopo dell’intervento non riguarda la rassicurazione del paziente nel Mode Bambino, quanto piuttosto di accettare la possibilità dell’evento (reale o temuto). Quando il paziente è nel Mode Genitore Esigente e Punitivo, non tollera il minimo dubbio rispetto alla possibilità di essere omosessuale, e la possibilità di commettere un errore viene associata ad una punizione molto severa. L’internalizzazione e l’aderenza a questa voce punitiva va sostituita con la capacità di motivarsi in maniera sana e realistica, con standard e aspettative realistiche, imparando a sviluppare un atteggiamento compassionevole verso la possibilità di commettere degli errori. Nel Mode Bambino Arrabbiato è importante considerare che l’espressione della rabbia in sé non costituisce alcuna modalità problematica, ma una espressione particolarmente aggressiva, che oltre ad essere disfunzionale da un punto di vista relazionale, potrebbe riattivare il genitore Critico. A seguito dell’espressione rabbiosa per i rituali o per le critiche che le persone muovono al paziente, o per il riconoscimento autonomo dei costi del disturbo, il paziente ossessivo sperimenta una intensa emozione di colpa e timore di non accettazione. Il lavoro sul Mode arrabbiato verte sull’ aiutare il paziente a condividere i motivi della propria emozione in modo adulto e assertivo esprimendo la rabbia in modo sano. Considerando i Coping Mode è importante differenziare tra le strategie di evitamento (protettore distaccato e auto-consolatore) e le strategie di ipercompensazione (Perfezionista, Ipercontrollante). Nel primo caso le strategie servono a non entrare in contatto con le emozioni, mentre nel secondo caso le strategie sono tese a neutralizzare il rischio che un evento negativo possa realizzarsi, compensando e contrattaccando lo schema sottostante. L’intervento terapeutico sul coping Mode di evitamento include la sostituzione di questo con modalità cognitive, comportamentali e relazionali più funzionali che possano aiutare il paziente ad entrare in contatto con i propri bisogni, e a soddisfarli. Il razionale dell’intervento sul Mode Perfezionista ipercontrollante è l’abbandono delle strategie di neutralizzazione. L’obiettivo è favorire il mode dell’adulto sano sviluppando una accettazione consapevole, ovvero un Mode “Accettante”, in cui il paziente, guidato e sostenuto dal terapeuta, sceglie di tollerare le emozioni sgradevoli che accompagnano la prevenzione della compulsione.

Disturbo ossessivo-compulsivo secondo il modello integrato: le tecniche e la sequenza d’uso

Ampio risalto è dato all’integrazione delle tecniche cognitive e di quelle esperienziali della Schema Therapy (ST, Young, 2003) nel trattamento del paziente ossessivo. Le tecniche emotivo-esperienziali principali usate nella Schema Therapy inlcudono l’imagery with Rescripting (Arntz e Weertman, 1999) e il lavoro con le sedie (chairwork) (Kellogg, 2004). Da un recente studio in corso di pubblicazione (Basile et al., 2018), è emerso che le emozioni più frequentemente riportate dai pazienti DOC durante l’applicazione dell’ imagery with Rescripting includono il senso di colpa, solitamente associato a ricordi di rimprovero da parte di entrambi i genitori. In un’altra serie di lavori un’altra emozione frequentemente riferita dai pazienti ossessivi è relativa al timore di essere disgustosi (Tenore et al., 2016; Mancini, 2016). Conseguentemente, durante l’esercizio immaginativo lo scopo nella fase di Rescripting è quello di ridurre e rassicurare il bambino nell’evento rispetto alla sua accettabilità e rassicurazione. Quindi con l’uso dell’imagery si vanno a riscrivere tutte quello memorie relative ad eventi precoci di colpevolizzazione e rimproveri che caratterizzano l’infanzia di questi pazienti, producendo un abbassamento della sensibilità alla colpa nel paziente.

In parallelo con l’imagery viene svolto il lavoro con le sedie. L’obiettivo in questo caso è di identificare e confrontare il paziente con i propri Mode, con l’obiettivo di riconoscerli e gestirli in modo adeguato e funzionale, tramite l’adulto sano, e aumentandone la capacità di rispondere ai bisogni del Mode Bambino vulnerabile. Vengono descritti inoltre gli interventi cognitivi di accettazione. Accettazione significa passare da un mindset orientato al “perseguire un obiettivo che è impossibile raggiungere “, al punto di rinunciare e accettare la natura irrealistica di questo obiettivo. I pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo, considerano la colpa e il disgusto come vissuti inaccettabili che uno ha il potere e il dovere di controllare e prevenire, ad ogni costo.

Disturbo ossessivo-compulsivo: l’obiettivo accettazione

L’accettazione per i pazienti ossessivi significa tollerare la minaccia di essere responsabili per un danno futuro ed accettare di essere “moralmente imperfetti”. Analogamente, per i pazienti con compulsioni di lavaggio si impara a tollerare la possibilità di essere giudicati come disgustosi dagli altri, o di essere moralmente disprezzati. L’obiettivo è aiutare il paziente a distinguere tra ciò che-è e ciò che-non-è nel suo potere raggiungere. Ciò potrebbe essere fatto attraverso l’uso del dialogo socratico e della discussione “reductio ad absurdum” (Mancini, 2016). Un secondo passo è volto a modificare la convinzione di eludere, o ridurre, la minaccia. Questa convinzione potrebbe essere affrontata concentrandosi sui costi dei tentativi di soluzione rispetto ad altri obiettivi maggiormente rilevanti. Altre fasi, implicano il lavorare sulla credenza che il senso di colpa è nell’ordine naturale delle cose e decatastrofizzando la sua esperienza. Quest’ultimo può essere fatto attraverso il dialogo socratico, con esperimenti comportamentali, esercizi di distanziamento e de-fusione e aumentando nel contempo l’esperienza accettazione. Tutti questi aspetti, inseriti all’interno di questo mode, consentono il rafforzamento dell’Adulto sano. Gli interventi cognitivi possono essere adottati anche durante gli esercizi di immaginazione e nel contesto del lavoro con le sedie.

Questi tre articoli risultano essere una ottima guida rispetto al funzionamento del paziente ossessivo, fornendo una maggiore comprensione dei meccanismi cognitivi alla base del disturbo ossessivo-compulsivo e integrandoli all’interno di un quadro di funzionamento più allargato e dinamico, grazie alla cornice della Schema Therapy. In modo fine, acuto e scientificamente solido, vengono descritti la genesi, il mantenimento e la battaglia che il paziente conduce quotidianamente contro il suo DOC. Alla fine della lettura di questi articoli ho avuto una forte sensazione di sapere cosa fare, perché ho capito cosa sta accadendo nella mente di un paziente ossessivo ed ho pensato ad una vecchia frase di San Francesco che diceva:

Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile.

 

Michel Foucault in Soggettività e verità (2017): uno sguardo sconvolgente sulla società e su temi sempre attuali anche nella cultura moderna – Recensione del libro

Attraverso uno sguardo che sa essere sconvolgente, Michel Foucault ci guida in un’analisi capace di smontare alcune delle idee forza della società moderna.

 

Gli anni ‘60 sono ormai lontani ma hanno segnato indelebilmente l’immaginario occidentale e hanno contribuito in modo decisivo a plasmare la cultura ed il pensiero politico del nostro tempo. Si creò allora una peculiare alleanza tra ceti sociali estremamente eterogenei. Le menti più raffinate dell’intellighenzia si schierarono a fianco dei lavoratori. I rampolli delle famiglie borghesi che affollavano le aule universitarie sfilarono per qualche tempo assieme ad operai e muratori. Li univa un’acre avversione per le tradizionali istituzioni del potere: gli organi dello stato, la Chiesa, la banca, la fabbrica.

Alla testa di questo originale e complesso fenomeno sociale troviamo un drappello di agguerritissimi intellettuali militanti. Herbert Marcuse, Theodor W. Adorno, Jean-Paul Sartre e, naturalmente, Michel Foucault si ispiravano genericamente all’ideologia marxista. Ma avevano spostato il focus della loro indagine.

Sottoposero le strutture e le istituzioni sociali ad una analisi acutissima ed implacabile. Rivelarono i meccanismi occulti che sostengono e perpetuano il potere nei contesti sociali, e le strategie mediatiche che assicurano la gestione del consenso.

Michel Foucault: il suo pensiero e l’impatto sulla cultura moderna

L’opera di Michel Foucault svolse un ruolo centrale nello sviluppo della cultura radicale degli anni ‘60. Foucault rivolse la sua attenzione alle strutture implicite della società di massa. Svelò le idee forza attorno alle quali la cultura occidentale aveva costruito le sue pratiche di controllo e segregazione. In Storia della Follia nell’età classica analizzò il concetto di follia, inteso come rifiuto di sottoporsi alle regole sociali. In Nascita della clinica rivelò le implicite finalità del potere medico. In Sorvegliare e punire chiarì come l’istituzione carceraria nasconda dietro la rappresentazione della colpa e della pena una generale istanza di disciplina e controllo propria della società capitalistica.

Oggi, a distanza di ormai oltre trent’anni dalla sua scomparsa, l’impatto del pensiero di Foucault sulla cultura moderna rimane molto molto evidente. Perfino nella psichiatria del XXI spesso, egemonizzata da un riduzionismo materialista a volte sfrontato e cinico, la dimensione sociale conserva un ruolo rilevante ed istituzionalmente riconosciuto.

Negli ultimi anni della sua vita Michel Foucault rivolse i suoi interessi ad una dimensione più intima. Distolse il suo sguardo dagli spazi pubblici, dalle istituzioni, e decise di applicare la sua peculiare metodologia analitica alle interazioni corporee, propriamente sessuali, tra gli esseri umani. Nacque così un progetto colossale, che potè giungere alla pubblicazione solo in parte. Alla morte del grande filosofo francese ci resteranno i tre volumi de L’histoire della sexualite (1976-1984). Il terzo di questi testi nasce da uno dei famosi seminari che il maestro francese tenne per vari anni al College de France. È questo il testo che ci consegna Pier Aldo Rovatti nella traduzione di Deborah Borca e Carla Triolo.

Non c’è dubbio. Lo sguardo di Foucault sa essere sempre sconvolgente. Come abbiamo accennato più sopra, ha saputo smontare alcune delle idee forza della società occidentale come le polarità follia e ragione, salute e malattia, colpa e punizione, e svelarne la funzione discriminatoria e disumanizzante all’interno di un più generale sistema di controllo sociale operante in tutti i contesti ed a tutta i livelli della società.

Michel Foucault e l’approccio alla sessualità

L’approccio di Foucault alla sessualità non è meno sorprendente. La sessualità era in quegli anni al centro del dibattito e della proposta politica ed antropologica del movimento. Giovani e maestri intellettuali di quegli anni accusavano la cultura tradizionale di avere trasmesso un atteggiamento di generale inibizione e repressione della sessualità umana. Ritenevano tale fenomeno un prodotto precipuo della tradizione giudeo-cristiana che si presentava quindi come un implicito avversario di qualsiasi percorso di trasformazione e liberazione della società.

Le lezioni di Foucault qui pubblicate sottopongono ad una acuta critica proprio questo punto di vista, come sempre in una prospettiva rigorosamente storica. In questi seminari Michel Foucault si dedica anzitutto all’analisi di una serie di testi tardoantichi. La filosofia ellenistica e poi romana si allontana sempre più dalle problematiche metafisiche e si focalizza sullo sviluppo morale dell’uomo e del cittadino. Da Epitteto a Seneca il filosofo diventa una guida cognitiva ed etico-morale. Elabora spesso testi prescrittivi che foucault definisce “arti del vivere”, che mirano a “insegnare soprattutto come essere, come riuscire a essere” (p. 41).

Analizzando questo materiale, Michel Foucault scopre che la contrapposizione tra paganesimo libertario e carnale e cristianesimo rigido e repressivo è del tutto fittizia. “La distinzione, il passaggio o la discontinuità che ci sembravano così chiaramente evidenti non si sono affatto presentate come tali” (p. 49). Tutt’altro: la riflessione critica sulla sessualità e la scelta ascetica nascono proprio nel contesto della filosofia pagana tardoantica: “Che La sedicente ‘morale sessuale cristiana’ sia pre-esistente all’interno del pensiero e della morale cosiddetta pagana sembra certo” (p. 54). E questa posizione è comune alle varie scuole filosofiche, dagli stoici ai neopitagorici, ai cinici e persino agli epicurei.

Tra il I ed il II secolo d.C.- osserva Michel Foucault – “la valorizzazione del matrimonio come luogo unico del rapporto sessuale legittimo ci porta verso l’idea che può esistere solo il rapporto sessuale coniugale” (p. 114). Epiteto e altri stoici come Musonio Rufo definiscono il matrimonio un dovere morale, in netto contrasto con la posizione negativa di cinici e epicurei. Il matrimonio cessa anzi di essere un semplice fatto sociale, finalizzato alla generazione e all’allevamento della prole, L’amore privato personale dei coniugi diventa in alcuni pensatori una aspetto centrale e precipuo dell’istituzione matrimoniale.

Di fronte a quest’ultima evoluzione Foucault resta in verità un po’ spiazzato, quasi deluso. Cerca di spiegarla in termini sociologici. Menziona la diffusione dell’istituzione matrimoniale nel basso impero romano. Lamenta che l’interesse dei filosofi tardoantichi, da Musonio Rufo a Plutarco, per la vita di coppia comporta una valutazione sfavorevole, in qualche modo iniqua, verso all’amore omosessuale e pone fine alla particolare attenzione che a questa forma di interazione tra umani aveva tradizionalmente riservato il pensiero filosofico.

Certo questa competizione tra erotismi non ci interessa oggi. Osservo però che Foucault non ha saputo cogliere un aspetto molto importante di questa evoluzione tardoantica, destinata poi a travasarsi nell’etica cristiana. La coppia coniugale, la coppia umana che condivide la vita, la generazione, come l’allevamento dei figli non è un prodotto culturale o almeno non solo culturale. Corrisponde specificamente a comportamenti che hanno una precisa base eziologica. Dipende da sistemi motivazionali specie-specifici che sono trasmessi da una generazione all’altra, non solo dall’imitazione ma anche dallo specifico set genetico che caratterizza la razza umana e la differenzia da altri primati,

Su questo punto non concordo con Foucault. La sessualità, a differenza della follia del delitto e per certi versi anche della malattia, non è solo un fatto sociale. Per dirla con Freud: “anatomia è destino”.

L’uso moderato dei social network: i possibili effetti positivi sul cervello

Quali sono gli effetti dell’uso dei social media sul nostro cervello? Le conseguenze sono solo negative oppure l’uso dei social network potrebbe rivelarsi anche un utile strumento d’aiuto nel trattamento di alcune patologie?

 

Recenti studi di neuroimmagine evidenziano che un utilizzo moderato di Facebook sia associato ad un aumento del volume di materia grigia nelle strutture cerebrali coinvolte nel processamento di informazioni sociali (Turel, He, Brevers & Bechara, 2018).

Nell’era tecnologica, riflettere sull’effetto che i social media hanno sugli individui è diventata una necessità. Sempre più ricerche pongono al centro dell’attenzione l’uso eccessivo dei social media e le conseguenze negative che ciò ha sugli individui. Turel e i suoi colleghi della University of Southern California e della California State University di Fullerton hanno condotto una serie di studi proprio su questo tema.

Secondo i ricercatori, un uso esagerato dei social media è associato negativamente alla modificazione di alcune aree cerebrali. Gli individui che utilizzano in maniera eccessiva i social media sembra abbiano una struttura cerebrale con caratteristiche simili a quella di individui che utilizzano sostanze stupefacenti (Turel & Qahri-Saremi, 2016).

Ma se i social network avessero anche effetti positivi sul nostro cervello?

Indagare i possibili aspetti positivi di un normale uso dei social media in relazione ai cambiamenti a livello cerebrale può essere fondamentale per sviluppare interventi mirati a deficit in specifiche regioni cerebrali.

L’utilizzo dei siti di social network espone gli utenti a molte più situazioni sociali rispetto al passato. Negli ultimi decenni, le modalità di socializzazione sono enormemente cambiate: l’interazione virtuale richiede un continuo riconoscimento dei membri online di gruppi sociali, il recupero di associazioni semantiche e l’interpretazione dei loro stati e delle loro motivazioni. Tali mansioni socio-semantiche coinvolgono specifiche aree cerebrali.

A tal proposito, Turel e colleghi hanno recentemente indagato gli effetti di un uso moderato di social media sulla struttura cerebrale.

Lo studio

Lo studio iniziale comprendeva 276 utenti Facebook e ipotizzava che un uso limitato dei social media potesse apportare cambiamenti nella forma del cervello e comportare, infine, effetti positivi nella vita dell’individuo. In effetti, i risultati hanno indicato che gli utenti che trascorrono più ore sui siti di social network si trovano ad avere un numero maggiore di relazioni sociali, ad osservare sempre più facce e ad interpretare le espressioni facciali molto più spesso.

I ricercatori hanno poi utilizzato immagini di risonanza magnetica per esaminare la struttura cerebrale di 33 utenti Facebook. Ciò che è emerso è che, un uso controllato dei social media è positivamente correlato al volume della materia grigia nel giro temporale superiore e medio dell’emisfero destro e sinistro (Schneider-Hassloff et al., 2016), oltre che nel giro posteriore fusiforme sinistro (Greve et al., 2013). Questi risultati, dunque, suggeriscono che gli utenti che trascorrono del tempo su Facebook tendono ad aumentare il volume di materia grigia in suddette aree cerebrali. In altre parole, la grandezza di queste regioni cerebrali è positivamente associata al livello di utilizzo dei social media.

Conclusioni

È chiaro che va necessariamente stabilità la causalità diretta di tale associazione ma potrebbe essere possibile promuovere un utilizzo limitato dei social media per il recupero di specifiche aree cerebrali.

Se queste ipotesi fossero confermate, tali studi avrebbero implicazioni cliniche notevoli in quanto le regioni cerebrali coinvolte in tali mansioni socio-semantiche sono le stesse implicate in diverse psicopatologie. Un ridotto volume di queste aree cerebrali è, per esempio, associato alla schizofrenia, caratterizzata anche da disfunzioni nel comportamento sociale.

L’ipotesi portata avanti da Turel e colleghi è molto interessante ma, certamente, questo studio presenta dei limiti. Di fatto, non è stata riscontrata una causalità diretta tra l’utilizzo dei social media e i cambiamenti nella struttura cerebrale, pertanto non è possibile affermare che i social media comportano tali cambiamenti strutturali nel cervello.

Sarebbe però auspicabile approfondire questo tema vista l’evidente influenza che i social media esercitano su molteplici aspetti di vita degli individui.

Il pregiudizio omofobico come fonte di malessere per gay e lesbiche: cosa dice la scienza?

Il termine pregiudizio omofobico mette in luce una presa di posizione rispetto all’orientamento sessuale delle persone, più che una fobia, ovvero un disturbo d’ansia. E’ responsabile, insieme ad altre variabili, dell’insorgenza di sofferenza psicologica nelle persone omosessuali

 

A partire dalle fine degli anni ’60 del XX secolo, il pregiudizio omofobico, l’ atteggiamento di ostilità e di avversione nei confronti degli omosessuali e dell’omosessualità più in generale, diventa oggetto di studio e di ricerca scientifica. In ambito accademico, si è generalmente concordi sul fatto che la storia del termine omofobia abbia avuto inizio a partire dagli anni ’70 del XX secolo. K.T. Smith, che sembrerebbe essere stato il precursore dell’utilizzo di questa parola, in un suo celebre lavoro cercò di identificare i tratti distintivi della personalità cosiddetta omofobica (Smith, 1971). Sarà solo un anno più tardi che George Weinberg cercherà di delineare il costrutto in termini concettuali, definendo l’omofobia come il timore di essere con un omosessuale in un luogo chiuso, e per quello che riguarda gli omosessuali, l’odio verso se stessi (Weinberg, 1972). Nello specifico, Weinberg aveva notato che molti psicoanalisti eterosessuali manifestavano, fuori dal setting clinico, reazioni negative quando si relazionavano a persone omosessuali. Egli discusse questa sua idea con due amici, omosessuali attivisti, i quali la utilizzarono pubblicamente per la prima volta nell’edizione del Maggio 1969 della rivista Screw (cit. in Graglia, 2012).

Pregiudizio omofobico: alla base molta ideologia, non una fobia

Dalla lettura in chiave psicosociale, Weinberg sposta l’attenzione sul problema psicologico-individuale che caratterizza gli atteggiamenti avversivi e ostili verso l’omosessualità, annoverando l’omofobia all’interno del quadro delle “fobie classiche”(cit.in Lingiardi, 2007). Tuttavia, alcuni studi condotti successivamente hanno sottolineato a chiare lettere l’inappropriatezza del termine. Le indagini empiriche, infatti, non hanno confermato la classificazione degli atteggiamenti “anti-gay”, degli eterosessuali, come riferibili a una fobia in senso clinico; il suffisso “fobia”, rimandando implicitamente alla diagnosi psicologica di un tratto clinico individuale, trascura la natura funzionale dell’ideologia eterosessista come fenomeno sociale e politico, e come istituto culturale oppressivo (Herek, 1996). Il termine “omofobia”, infatti, focalizza l’ attenzione esclusivamente sulle cause individuali e irrazionali, trascurando la componente culturale e le radici sociali dell’intolleranza che fa si che l’omofobo, così come il razzista, si rifà ad un sistema codificato di credenze socialmente condivise, che ritiene di dover difendere dalla minaccia di soggetti che considera pericolosi (Lingiardi, 2007); agisce nei confronti di queste persone in base ad un pregiudizio omofobico.

Poiché il termine omofobia rimanda specificamente ad una concezione sociale negativa (Ross e Rosser, 1996), piuttosto che denotare una fobia in senso stretto o la paura degli omosessuali, alcuni autori proposero delle espressioni sostitutive, come “omonegativismo” (Hudson & Ricketts, 1980), “omosessismo” (Hansen, 1982), “eterosessismo” (Herek, 1996), per esprimere una designazione più ampia dell’intero universo di atteggiamenti negativi verso l’omosessualità e le persone omosessuali (dal pregiudizio individuale alla violenza personale -verbale o fisica-, alla discriminazione culturale e istituzionale).

L’eterosessismo, come il razzismo e il sessismo istituzionalizzato, penetra nelle tradizioni e nelle istituzioni; è una forma di pregiudizio omofobico che tende a svilupparsi sin dall’infanzia, dal momento che la maggior parte dei bambini cresce in contesti familiari, scolastici e sociali che, nel migliore dei casi, considerano l’omosessualità un argomento di cui non parlare o sul quale fare battute di spirito (Lingiardi, 2007). Lo stesso Herek (1984), afferma a più riprese il concetto secondo cui gli atteggiamenti nei confronti della sessualità e dell’orientamento sessuale vengono appresi durante la vita dell’individuo e sono un costrutto sociale.

In tal senso, la consapevolezza della radicalizzazione di questi atteggiamenti di pregiudizio omofobico nel tessuto storico-sociale, ci permette di identificare e definire, con una certa facilità, la caratterizzazione della società contemporanea per immagini socioculturali, delle comunità LGB, del tutto negative; immagini figlie di un sistema sociale nel quale tende a rafforzarsi in maniera sempre più dilagante una striscia non solo di pregiudizio omofobico ma anche di odio e di disprezzo che sembrerebbe incidere profondamente sulla qualità della vita di lesbiche e omosessuali.

Pregiudizio omofobico e minority stress

In una famosa indagine nazionale condotta negli Stati Uniti nel 1989, il 5% degli uomini gay intervistati e il 10% delle donne lesbiche riferivano di aver subito degli abusi fisici o di essere stati violentati nell’anno precedente a causa della propria omosessualità. Quasi la metà (47%) riferiva di aver vissuto una qualche forma di discriminazione nel corso della vita, come effetto del proprio orientamento sessuale (San Francisco Examiner, 1989).

In un altro famosissimo studio condotto da Ilan Mayer (1995), docente di Scienze Mediche e Sociali alla Columbia University, si cercò di comprendere e descrivere una particolare forma di stress psicologico derivante dall’appartenenza ad un gruppo minoritario e quali effetti psicologici potesse avere su gay e lesbiche; tale fenomeno viene generalmente identificato come minority stress. Il presupposto fondamentale da cui si parte è che gay e lesbiche, come anche altri membri di gruppi minoritari, siano costantemente sottoposti ad una forma cronica di stress, derivante dalla stigmatizzazione sociale che colpisce il proprio gruppo di appartenenza. Secondo Mayer le tre importanti dimensioni che costituiscono il minority stress sono:

  1. il pregiudizio omofobico interiorizzato (omofobia interiorizzata): accettazione, da parte di una persona omosessuale, di tutti i pregiudizi, le etichette, e gli stereotipi negativi, nonché gli atteggiamenti discriminatori nei confronti dell’omosessualità. L’interiorizzazione del pregiudizio, che può avvenire in maniera più o meno consapevole, porta a vivere in modo conflittuale il proprio orientamento sessuale sino al punto da rinnegarlo o nutrire sentimenti negativi nei confronti degli altri omosessuali.
  2. Lo stigma percepito: quanto maggiore è la percezione del rifiuto sociale, tanto maggiori saranno la sensibilità all’ambiente, il livello di vigilanza relativo alla paura di emarginazione, discriminazione e violenza (Allport 1954; cit. in Mayer, 1995) e il ricorso a strategie di coping inadeguate. Lo stress vissuto da una persona con così alti livelli di vigilanza porta ad una esperienza generale di paura e ad interazioni diffidenti e sfiduciate con la cultura dominante, oltre ad un senso di disarmonia e alienazione con la società in generale.
  3. Le esperienze vissute di discriminazione e violenza: secondo Garnets, Herek e Levy (1990) le principali fonti di minority stress sono il rigetto da parte della società, la discriminazione e le violenze -verbali o fisiche- che gay e lesbiche esperiscono a causa dello stigma che connota il loro status minoritario di appartenenza (cit in Mayer; 1995). A prescindere da ogni forma di classificazione teorica, un esempio concreto risulterebbe di certo più chiaro ed esplicativo: un’ esperienza di discriminazione acuta è quella di una ragazza che, dopo aver superato in modo brillante un colloquio di lavoro, ottiene una posizione professionale che le viene in seguito revocata, quando emerge che è lesbica. Ovviamente appartiene a questa dimensione del minority stress anche ogni forma di violenza esplicita, subita in quanto gay, lesbica, bisessuale, transessuale o queer (Lingiardi, 2007).

I risultati della ricerca ricerca di Mayer, condotta su un campione di 741 soggetti omosessuali, hanno rivelato che:

  • ciascuna delle tre componenti del minority stress predicono significativamente la manifestazione di cinque problematiche -o variabili dipendenti- di natura psicologica (depressione, senso di colpa, problematiche sessuali, pensieri/tentativi suicidari, approcci distorti e iper emotivi all’ AIDS), quando queste sono considerate simultaneamente (effetto di interazione);
  • lo stigma percepito e le esperienze vissute di discriminazione risultano associate significativamente a tutte le variabili dipendenti fatta eccezione per i problemi sessuali; in particolar modo è stato visto che esse hanno a che vedere principalmente con la qualità delle relazioni tra uomini omosessuali.

In sostanza, lo studio ha confermato l’ipotesi secondo cui l’omofobia interiorizzata, lo stigma percepito e il pregiudizio omofobico (esperienze vissute di discriminazione), risultano significativamente associate ad un generale malessere psicologico degli omosessuali, e smentiscono l’ipotesi alternativa secondo la quale gli effetti delle tre dimensioni del minority stress, sulla salute psicologica degli omosessuali, siano indiretti (cioè mediati dal minore o maggiore grado di identificazione dell’individuo con la comunità gay).

Pregiudizio omofobico e variabili legate alla salute psicosociale della comunità LGB: il contributo delle scienze psicologiche

Trattando più specificamente il tema del suicidio in relazione all’omosessualità e all’omofobia, Remafedi at al.(1998) condussero una ricerca con l’intento di trovare un’associazione o una correlazione fra orientamento bisessuale/omosessuale e rischio di suicidio. Lo studio fu condotto su un campione di 366 adolescenti (184 dichiaratisi bisessuali e 182 dichiaratisi omosessuali). Le analisi di regressione hanno rivelato che un orientamento bisessuale / omosessuale nei maschi risultava significativamente associato alle intenzioni suicidarie e al tentativo di suicidio, ma non all’ ideazione suicidaria. È stato inoltre visto che nelle donne, l’orientamento sessuale e l’ etnia non sono significativamente associate con alcuna dimensione suicidaria.

In una ricerca di Jay P. Paul et.al (2002), condotta attraverso intervista telefonica, su un campione di 2881 omosessuali in quattro diverse città statunitensi (Chicago, San Francisco, New York e Los Angeles), è emerso che il 21% del soggetti aveva ideato almeno una volta nella propria vita un piano suicidario; il 12% ha dichiarato di aver tentato il suicidio (inoltre la meta’ dei soggetti di questo 12% ha dichiarato tentativi multipli). Gran parte di coloro che hanno dichiarato il tentato suicidio hanno affermato che il primo tentativo ha avuto luogo prima dei 25 anni di età. Un aumento di pianificazione e tentativi suicidari è stato, inoltre, rilevato fra i soggetti omosessuali con minore grado di istruzione, basso reddito annuo e assenza di lavoro a tempo pieno. Infine è stata riscontrata una maggiore probabilità di pianificazione suicidaria fra i soggetti omosessuali con HIV, ma un numero di tentativi di suicidio che variava di poco rispetto alla restante parte del campione. Lo studio, dunque, ha rilevato un alto rischio di tentativi suicidari nel campione di omosessuali preso ad esame.

Una ricerca condotta da Hatzenbuehler et al. (2010) ha dimostrato che per le persone LGB, vivere negli Stati che hanno approvato leggi discriminatorie e in cui è diffuso il pregiudizio omofobico (come gli emendamenti che bandiscono il matrimonio fra partner dello stesso sesso), costituisce un fattore di rischio per la morbilità psichiatrica. In particolar modo, è stato rilevato che in questi Stati risulta quanto mai evidente un significativo incremento dei disturbi dell’umore (aumento del 36,6%), del disturbo d’ansia generalizzato (aumento del 248,2%), dei disordini da dipendenza per abuso di sostanze alcoliche (aumento del 41,9%) ed un aumento generale della comorbilità psichiatrica pari al 36,3%.

Anche Margherita Graglia (2012), psicologa-psicoterapeuta didatta di CIS (Centro Italiano di sessuologia) e FISS (Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica), opera una descrizione abbastanza esaustiva degli effetti dell’omofobia sociale sulle persone LGB:

  • L’intrusione di significati pre-costituiti: gli stereotipi sull’identità e sui comportamenti non eterosessuali forniscono delle chiavi di lettura su come si presuppone possa essere i mondo LGB. Come naturale conseguenza, si assiste alla formazione di rappresentazioni sociali (erronee) molto potenti, veicolate dai media e dal linguaggio e che vengono assimilate dagli individui omosessuali in maniera inconsapevole
  • Le invalidazioni e gli ostacoli all’autostima: il pregiudizio influenza l’immagine di sé. Le immagini socioculturali delle identità, dei comportamenti e delle comunità LGB sono perlopiù connotate negativamente. Ne consegue un inevitabile svilimento di tutto ciò che non è “eterosessuale” ed il mancato riconoscimento giuridico delle unioni LGB. Un altro effetto dell’omonegatività, che incide sull’ autostima, è l’ isolamento e l’emarginazione che le persone omosessuali sono costrette a subire in virtù della loro appartenenza ad un gruppo minoritario.
  • La minaccia al senso di sicurezza: la percezione di essere diversi può elicitare la sensazione di non essere al sicuro rispetto alle valutazioni e alle reazioni negative degli altri. La pervasività degli atteggiamenti antiomosessuali determina, di riflesso, la sensazione di essere sottoposti ad una costante minaccia da parte degli altri.
  • L’anticipazione del rifiuto: nelle interazioni quotidiane gay e lesbiche si chiedono spesso quale effetto avrà sugli altri il loro orientamento sessuale. La sensazione e il timore di non essere benvoluti si genera ed è nutrita principalmente dall’assunzione di eterosessualità, dalle rappresentazioni negative dell’omosessualità e dal silenzio sociale.
  • Celare il proprio orientamento sessuale.
  • Il monitoraggio del comportamento: in virtù dello stigma e della discriminazione, le persone LGB tendono a controllare tutti quei comportamenti che potrebbero rappresentare segnali rivelatori del proprio orientamento sessuale. Il controllo, in tal senso, è una modalità di coping che tuttavia contribuisce allo sviluppo e al mantenimento dell’ansia.
  • Lo stress dello svelamento: la maggior parte delle persone gay e lesbiche non è dichiarata in molti campi della propria vita (famiglia, lavoro, amici etc). Lo svelamento non è infatti uno stato discreto ma attraversa tutto l’arco di vita del soggetto. Essendo un evento potenzialmente critico, le persone trascorrono molto tempo chiedendosi se, come, quando e con chi fare coming out: in sostanza, questo fenomeno pone la persona in un costante stato di tensione.

Tendenzialmente, infatti, per un gay o per una lesbica svelare il proprio orientamento sessuale, significherebbe correre il rischio concreto di essere respinti dalla famiglia, di avere problemi con il lavoro, di essere esposti a stigmatizzazione e discriminazione, abusi verbali e atti di violenza anche fisica (D’Augelli, 1998; D’Augelli & Grossman, 2001). Tuttavia, come dimostrato in diversi studi e a riconferma delle intuizioni di Margherita Graglia, dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale può incidere positivamente sul benessere psicologico della persona stessa (Bell & Weinberg, 1978; Malyon, 1982; Zuckerman, 1997).

Alla luce dei contributi scientifici fin qui esaminati, risulta doveroso comprendere e definire in maniera chiara e condivisa, quali siano le responsabilità professionali degli psicologi, di tutti i professionisti della salute e delle istituzioni più in generale, riguardo al dilagante malessere sistemico (biopsicosociale) a cui il pregiudizio omofobico può dare luogo, sia in seno all’ esistenza del singolo che dell’intera comunità LGB.

Il bullismo non nasce da un unico seme. I diversi fattori implicati in questo fenomeno

I modelli educativi genitoriali hanno un ruolo fondamentale tra le possibili cause del bullismo sia che siano eccessivamente severi, sia che siano troppo permissivi.

 

Lo psicologo svedese Dan Olweus è stato il primo a usare, negli anni ’70, il termine inglese “bullying”, per indicare le prepotenze fra pari nelle sue ricerche pionieristiche sulla violenza scolare che portarono alla formulazione di un programma di antibullismo ampiamente adottato nelle scuole dei paesi nordici.

Olweus (1996), considerato, ad oggi, tra le massime autorità a livello mondiale in tema di aggressività e bullismo, identificò anche i primi criteri per individuare il problema del bullismo e poterlo differenziare da altre possibili interpretazioni come il gioco turbolento, gli atti distruttivi, le ragazzate, gli incidenti o scherzi e i giochi pesanti tra pari, tipici del processo di maturazione degli individui. La sua definizione di bullismo prevedeva, infatti, delle azioni offensive nei confronti di un compagno reiterate nel tempo:

uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni.

Per Olweus, quindi, è determinante per poter ascrivere un comportamento offensivo al bullismo, la ripetizione sistematica delle azioni ostili anche se meno gravi nel loro complesso di una sola azione isolata ma estremamente violenta, operate sia dal gruppo sia dal singolo individuo. In questa prima definizione ci si riferiva, in particolare, alle offese fisiche e verbali; solo successivamente si è riconosciuta l’importanza della prevaricazione indirette o psicologiche.

Cause e fattori all’origine del bullismo

Le cause alla base del fenomeno del bullismo sono plurime e riconducibili ad una serie di fattori individuali e di dinamiche di gruppo come per esempio il temperamento del bambino, i modelli familiari, gli stereotipi imposti dai mass media o l’educazione impartita dai genitori o da istituzioni scolastiche spesso disattente alle relazioni fra alunni e ad altre variabili collegate all’ambito scolastico e all’ambiente sociale.

I modelli educativi genitoriali hanno un ruolo fondamentale tra le possibili cause del bullismo sia che siano eccessivamente severi, sia che siano troppo permissivi. Se, infatti, si ricorre eccessivamente all’uso di punizioni fisiche il bambino percepirà che la violenza come l’unico mezzo per fare rispettare le proprie regole. Se, invece, si lascia un’eccessiva libertà ai propri figli, non percependo i limiti oltre i quali i comportamenti non sono più consentiti, essi agiscono di conseguenza in maniera prepotente e prevaricatrice.

Olweus (1996), ha individuato tre fattori nell’educazione familiare, che hanno un ruolo determinante nella predisposizione dei ruoli di bullo e più in generale dell’aggressività nei maschi e precisamente:

  • L’atteggiamento emotivo di indifferenza, di mancanza di calore e d’affetto della figura materna nei primi anni di vita;
  • Il permissivismo educativo nella fase dell’età evolutiva, specialmente verso comportamento aggressivi;
  • L’abuso di autorità punitiva fisica, sin dalla prima infanzia che non consente di elaborare appieno l’aggressività nel bambino.

Le vittime, invece, presentano quadri familiari molto coesi e iperprotettivi nei loro confronti. Specialmente una stretta dipendenza verso la figura di attaccamento principale che ritarda l’autonomia necessaria per la gestione delle relazioni con il gruppo dei pari.

Disfunzionalità di attaccamento e Comportamenti antisociali

In particolare Bowbly (1989) insieme a Winnicott (1981), sono stati i primi autori a collegare i comportamenti antisociali con le disfunzionalità di attaccamento.

In base alla teoria dell’attaccamento, infatti, sarebbero proprio le relazioni della prima infanzia a formare il comportamento relativo ai rapporti con gli altri. In particolare Bowbly (1989) sosteneva che

Nel corso delle esperienze ripetute con le figure di attaccamento i bambini si costruiscono immagini mentali delle interazioni sociali, che funzioneranno da guida delle future relazioni adulte.

Tassi (2001) ha riscontrato una correlazione tra vittimizzazione e attaccamento insicuro- ambivalente e tra prevaricazione e attaccamento insicuro-evitante. In particolare, i soggetti insicuri-evitanti, mancando di fiducia verso gli altri, per evitare possibili ostilità da questi, giustificherebbero il loro comportamento aggressivo verso i coetanei. I soggetti, invece insicuri-ambivalenti, mancando di autostima e di fiducia nelle proprie capacità, sarebbero più propensi a diventare facili prede dei compagni prevaricatori. Al contrario, i soggetti con attaccamento sicuro, esplorerebbero il mondo esterno con fiducia, certi di poter contare sull’aiuto della figura di attaccamento.

Diverse tipologie di famiglia

Genta (2002) ha individuato 3 tipologie di famiglia, in base alla coesione interna e all’indipendenza personale. La famiglia equilibrata presenta una coesione interna in armonia con l’indipendenza personale dei singoli membri, mentre una famiglia estremamente coesa nei suoi membri, vive l’ambiente esterno come pericoloso, invece una disaggregata tra i suoi membri non riesce a delineare i confini tra mondo esterno e il gruppo familiare. I bambini non coinvolti nel bullismo, apparterebbero a famiglie del primo tipo, le vittime a famiglie del secondo tipo e i bulli a quelle del terzo tipo.

In definitiva, l’aggressività del bullo o della vittima provocatrice, dipende anche da forme di violenza assistita in famiglia. Chi, infatti, subisce nell’infanzia forme di violenza fisica o psicologica, interpreterà in maniera disfunzionale i segnali del mondo esterno, e si sentirà legittimato a perpetuare violenza per ottenere quello che vuole.

Un altro fattore importante relativo alla famiglia riguarda i sistemi di valore. In questo caso, sarebbero i valori trasmessi dai genitori a condizionare i rapporti dei propri figli con i coetanei. Nelle famiglie dei bulli, i valori della vita, sarebbero improntati maggiormente all’individualismo e all’egoismo, diversamente da quanto si verifica nelle famiglie delle vittime, i cui valori sembrerebbero improntati, invece, alla solidarietà.

Altri dati importanti sull’origine del bullismo

Le convinzioni comuni che le prepotenze inferte alla vittima siano causate prevalentemente dai difetti fisici o da handicap o provocate dallo scarso rendimento scolastico sembrerebbero essere un luogo comune da sfatare, secondo Olweus. Dall’analisi sociologica di Vergati (2003) effettuata su un campione di 606 studenti di scuole medie ed elementari romane, tra i bersagli prescelti, risultano esserci gli studenti dai più bravi (32%) a quelli con rendimento “distinto” (27%). Tuttavia ciò non sempre è generalizzabile perché anche coloro che hanno un rendimento scarso sono oggetto di bullismo probabilmente perché diventano oggetto di invidia.

Il dato che stupisce maggiormente è che proprio tra gli studenti con rendimento elevato si celi il 12% dei bulli mentre tra chi ha un rendimento scolastico medio, la percentuale di bulli cala significativamente al 4,7% a favore, invece, di chi assume il ruolo di difensore della vittima (53%).

Dai dati di Olweus, emerge un aumento di episodi di bullismo in assenza di sorveglianza dell’adulto, specialmente durante il percorso tra la casa e la scuola o durante la ricreazione e la pausa pranzo.

Per De Ajuriaguerra e Marcelli (1984), le cause del bullismo dipenderebbero dalla mancanza di tolleranza verso qualsiasi tipo di ritardo nella soddisfazione delle proprie richieste. Di conseguenza, l’intolleranza alla frustrazione di fronte ad una qualsiasi negazione potrebbe scatenare una reazione aggressiva in maniera violenta ed esacerbata.

Per Ciucci e Fonzi (1999), invece, ciò che motiverebbe a mettere in pratica comportamenti prepotenti sarebbe la sensazione di controllo che aumenta la propria visibilità e gratifica il bisogno di attenzione sugli altri, ottenuto col potere e il dominio. Più specificatamente, a causare sofferenza negli altri dipenderebbe l’astio nei confronti dell’ambiente sociale che si è sviluppato in contesti familiari chiaramente inadeguati ma potrebbe essere dovuto anche a semplici disturbi della condotta, nel qual caso sarebbe finalizzato al puro gusto del contravvenire alle norme sociali.

Ancora giocano un ruolo chiave nel bullismo le difficoltà nelle capacità empatiche sia nel bullo che pare non accorgersi delle sofferenze indotte ma anche nella vittima probabilmente per mancanza di abilità affettive e relazionali verso i propri compagni.

Un altro meccanismo psicologico, quale il disimpegno morale, può influire sul bullismo, legittimando i propri comportamenti violenti (sono solo scherzi) se fatti a fin di giustizia (in fondo se lo meritano) o perché “non è così grave perché lo fanno tutti”.

Incontrare le persone LGB (2018) di Ciriello, Cavina e Cavina Gambin: una guida alla consulenza educativa, psicologica e legale – Recensione del libro

Quali strumenti e quali aree di intervento in ambito educativo, psicologico, legale, possono risultare determinanti nella consulenza con persone LGB? Incontrare le persone LGB prova a rispondere a questo interrogativo.

 

Daniela Ciriello, Chiara Cavina e Serena Cavina Gambin, curatrici di questo libro, forniscono una “cassetta degli attrezzi”, una guida teorico-pratica, agli operatori che più frequentemente incontrano, nella propria attività professionale, persone e famiglie LGB: ad esempio psicologi, medici, insegnanti, assistenti sociali, avvocati, infermieri.

Incontrare le persone LGB: identità sessuale e pregiudizi

Adottando un’ottica multidisciplinare (psicologica, educativa e legale) e ponendo attenzione anche al linguaggio utilizzato, il testo evidenzia le possibili specificità degli interventi professionali rivolti a persone lesbiche, gay, bisessuali, sottolineando la potenziale influenza negativa di fattori quali i modelli ideologici di riferimento, i pregiudizi (consapevoli o latenti), le ostilità e le discriminazioni (anche giuridiche) tuttora in essere, che non mancano di ripercuotersi sui vissuti personali.

Le parole per dire, le parole per fare: identità sessuale e pregiudizio è la prima delle quattro sezioni in cui è suddiviso il libro. Qui vengono delineate le componenti dell’identità sessuale ed affrontati temi importanti come l’omofobia, il coming out, il minority stress. Tematiche fondamentali, che possono determinare complessi vissuti psicologici e vulnerabilità specifiche, che il professionista chiamato a rispondere ha necessità di conoscere.

Incontrare le persone LGB: richieste ricorrenti

La consulenza psico-socio-sanitaria alle persone LGB: richieste ricorrenti e aree di intervento: nella seconda parte, dal mio punto di vista molto interessante, si entra nel vivo della consulenza psico-socio-sanitaria con l’individuo e con le famiglie. Accade attraverso una serie di casi clinici esemplificativi, tratti dall’esperienza degli autori, che inquadrano le richieste rivolte più frequentemente agli operatori e tratteggiano vissuti sottostanti ed ipotesi di intervento. Coming out, definizione del proprio orientamento sessuale, scoperta dell’omosessualità di un figlio, consulenza sessuologica, consulenza alla famiglia omosessuale (con o senza figli) sono alcuni esempi.

Una particolare attenzione è riservata anche alle differenti fasi e situazioni di vita: omosessualità e bisessualità vengono trattate relativamente a fasi delicate quali l’adolescenza e la terza età, ai progetti di genitorialità e ai percorsi di nascita, al parto e alla comunicazione all’interno della famiglia.

In Aspetti legali rilevanti nella consulenza, la terza parte del testo, il focus si sposta in ambito legale: unioni civili, procreazione e genitorialità, tutela dei minori. Per ciascun argomento, gli autori approfondiscono gli aspetti legislativi attuali e forniscono preziosi quadri informativi ed operativi.

Incontrare le persone LGB: un focus sull’intervento in ambito scolastico

La quarta sezione, Interventi in ambito scolastico: accogliere, insegnare, promuovere inclusione, è dedicata al contesto scolastico, a partire dal delicato momento dell’inserimento dei bambini di famiglie omogenitoriali al nido o alla scuola dell’infanzia (anche alla luce delle inevitabili difficoltà burocratiche).

Uno spazio ricco di spunti e riferimenti didattici ed operativi è riservato agli insegnanti, figure cardine nell’implementazione di una didattica inclusiva, nella gestione dei rapporti, nello stimolare i processi di condivisione.
Il testo si conclude con una interessante riflessione sull’influenza dei pregiudizi.

Complessivamente lo definirei un testo utile, chiaro, scorrevole, aggiornato.

In una società che assiste all’aumentata (e desiderata) visibilità di molte persone lgb, i servizi pubblici e privati dovrebbero, a mio avviso necessariamente, approntarsi ad accogliere le peculiarità di quelle richieste, necessità, problematiche che vengono portate all’operatore:

Storie e bisogni attraverso i quali gli operatori e le operatrici hanno una preziosa occasione, umana e professionale: quella di assistere tutta la propria utenza con rispetto e competenza e scoprire, nel contempo, la grande opportunità dell’incontro con l’altra e con l’altro.

LEGGI ANCHE LE ALTRE RECENSIONI DI QUESTO LIBRO:

Incontrare le persone LGB (2018): recensione ed intervista alle autrici del libro sulla consulenza clinica per persone lesbiche, gay, bisessuali

Incontrare le persone LGB (2018) di C. Cavina, S. Cavina Gambin, D. Ciriello – Recensione del libro

Uomini leader e psicopatia? Uno studio ne rivela l’associazione

Psicopatia e leadership sono aspetti in relazione tra loro? Quante volte ci è capitato di pensare che il nostro capo è uno psicopatico?

 

Secondo un recente studio le persone psicopatiche hanno più successo sul lavoro. Sembrerebbe infatti che la mancanza di empatia e l’agire d’impulso siano caratteristiche che portano al successo.

In realtà, le precedenti ricerche che hanno indagato questo legame, non hanno dimostrato una vera e propria associazione, lasciando molte domande in sospeso. Per questo motivo gli autori di un recente studio condotto presso l’University of Alabama in Tuscaloosa e l’Iowa State University in Ames, hanno voluto indagare più a fondo il rapporto che intercorre tra questi tratti della personalità e posizioni di leadership. Nello specifico, i ricercatori volevano comprendere come i tratti psicopatici aiutino un individuo a diventare un leader di successo.

Cosa s’intende per Psicopatia?

Per spiegare il concetto di psicopatia, gli autori hanno utilizzato la concettualizzazione sviluppata dallo psichiatra statunitense Cleckley nel testo The Mask of Sanity (1941), che raccoglie i dati raccolti attraverso interviste cliniche con pazienti detenuti: il lavoro di Cleckley è considerato fondamentale nella descrizione clinica della psicopatia nel XX secolo. Lo “psicopatico” da lui descritto presenterebbe le seguenti caratteristiche: fascino superficiale, mancanza di ansia, riluttanza ad accettare le proprie colpe, mancanza di controllo degli impulsi, mancanza di empatia.

Recentemente a questa definizione se ne è aggiunta un’altra che evidenzia tre fondamentali caratteristiche della personalità psicopatica: audacia (es. dominio interpersonale), disinibizione (es. impulsività); meschinità (es. mancanza di empatia) (Landay et al., 2018).

Psicopatia e Leadership: lo studio

Per quanto concerne il concetto di leadership, nello studio sono stati analizzati due aspetti in particolare:

  • Il primo riguardava il modo in cui un individuo ha raggiunto il ruolo di leader, cioè la sua capacità di emergere;
  • Il secondo, l’efficacia della leadership, invece, si riferiva alle prestazioni dell’intero team e alla percezione del proprio leader pertanto ha preso in considerazione il rapporto tra leader e collaboratori, il leader come persona e il clima generale dell’azienda.

Partendo da questi presupposti teorici, la ricerca ha preso avvio da una nuova analisi di 92 precedenti dataset che, nonostante in passato avessero riportato deboli correlazioni tra le variabili studiate, in questa fase, hanno permesso di raccogliere alcune informazioni rilevanti in merito alla relazione tra psicopatia e leadership; da questi dati emergeva infatti che persone con tratti psicopatici riescono più facilmente a distinguersi come leader, pur non risultando in conclusione leader realmente efficaci.

In un secondo momento, un’analisi più approfondita dei dati ha dimostrato l’esistenza di significative differenze di genere nell’associazione tra psicopatia e leadership. Ciò che è emerso è che i tratti psicopatici sembrerebbero essere di aiuto nel diventare leader soltanto agli uomini, mentre le donne che mostrano di possedere questi tratti rischiano di avere un impatto negativo sui colleghi. Secondo gli autori, questo risultato potrebbe essere spiegato dal fatto che i comportamenti psicopatici sono generalmente visti come una violazione delle norme dell’essere leader, ma soprattutto delle norme associate alla figura della donna leader (Landay et al., 2018).

Per concludere

La scoperta di questa differenza di genere fa sicuramente riflettere, è importante però secondo gli autori che venga approfondita da ricerche future al fine di comprendere più chiaramente i meccanismi all’origine di tale differenza e le diverse sfumature nei comportamenti di maschi e femmine che rivestono posizioni di leader.

Diversi inoltre sono i limiti di questo studio e che è importante colmare: le analisi innanzitutto si basano su un numero di studi empirici limitato; manca un metodo standard per misurare la psicopatia e questo rende difficile il confronto con gli studi precedenti; infine, nella maggior parte degli studi presi in esame, il successo del leader è stato valutato soggettivamente e non in maniera oggettiva, come per esempio attraverso il successo finanziario.

L’ empowerment del paziente

Negli ultimi anni il concetto di empowerment è passato attraverso molteplici e composite trasformazioni e, recentemente, ha acquisito un ruolo di crescente importanza all’interno della letteratura dedicata.

Giulia Marton, Laura Vergani – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

A partire dall’anno 2000, il termine empowerment è stato usato nella stesura di 800 articoli e già nel 2017 il numero degli articoli dedicati all’argomento superava i 2500. In ambito medico si è riscontrato un aumento dell’uso del costrutto che è andato di pari passo con una maggior fruibilità di nuove ed inedite definizioni.

Le numerose sfaccettature del concetto rendono difficoltoso lo sforzo degli autori nel trovare una definizione che sia al contempo onnicomprensiva e condivisibile. 
Nonostante queste evidenti difficoltà classificatorie, la World Health Organization (WHO) nel 2012 ha cercato di fornire una sua definizione del concetto di empowerment che fosse condivisibile dai diversi autori. Secondo la WHO, l’ empowerment è un processo attraverso il quale le persone possono acquisire un maggiore controllo sulle decisioni e sulle azioni che riguardano la loro salute (World Health Organization. Regional Office for Europe, 2012a).

Il concetto è meglio spiegato dalla frase pronunciata da Robert Johnstone in occasione della prima conferenza europea sull’ empowerment dei pazienti tenutasi a Copenaghen nell’aprile del 2012:

Ciò che deve accadere è che i dottori scendano dal loro piedistallo e che i pazienti si alzino dalle loro ginocchia.

La conferenza ha conseguito una notevole risonanza internazionale: ben 260 le persone partecipanti, provenienti da 35 diversi paesi.

Secondo la World Health Organization, il concetto di empowerment è di fondamentale importanza per quanto riguarda le malattie croniche, di cui è affetto il 77% dei pazienti appartenenti ai paesi europei rappresentati dall’organizzazione (World Health Organization. Regional Office for Europe, 2012b). La U.S. National Center for Health Statistics afferma che una patologia, per essere definita cronica, deve avere una durata maggiore di 3 mesi (Center for Health Statistics, 2013). Le malattie di questo tipo non possono essere soggette a prevenzione tramite l’utilizzo di vaccini, non possono essere curate con procedure mediche e se non curate non presentano un decorso naturale spontaneo. Le malattie croniche più diffuse comprendono l’artrite, le malattie cardiovascolari, i tumori, il diabete, l’epilessia, l’obesità e la salute orale (MedicineNet, 2016).

Essendo l’ empowerment rivolto in special modo a questo problema, la sua diffusione può portare ad un cambiamento significativo nell’organizzazione dei sistemi sanitari e nell’assistenza offerta al loro interno oltre che ad un ripensamento del ruolo ricoperto dal paziente.

In particolare, l’ empowerment ha un grande impatto sulla gestione della condizione dei pazienti oncologici. Infatti, una delle tematiche emerse durate il “Forum Internazionale Sull’empowerment Del Paziente Oncologico”, tenutosi nel 2017 e promosso dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con Fondazione Umberto Veronesi, è che i pazienti oncologici sono i primi ad esprimere un desiderio di essere maggiormente coinvolti nel processo di cura.

Il tema dell’ empowerment in oncologia può anche essere considerato nell’ambito della prevenzione. Un atteggiamento più proattivo da parte del paziente e un coinvolgimento maggiore nella propria salute, infatti, può portare ad un’attenzione maggiore al piano di prevenzione. In una ricerca condotta dall’Istituto di Ricerche SWG viene evidenziato un dato allarmante: solo il 4% dei pazienti oncologici riceve una diagnosi durante una visita di controllo.

Durante la conferenza, Guja Tacchi dell’Istituto Ricerche SWG, pone l’attenzione proprio su questo aspetto:

Alla comparsa dei sintomi 8 malati su 10 si rivolgono al medico, di cui il curante nel 60% dei casi è la prima figura di riferimento, mentre per il 47% l’oncologo è il professionista più adatto a comunicare la diagnosi. Riguardo l’ empowerment, la partecipazione attiva alla cura è percepita molto importante da 7 pazienti su 10, tuttavia meno della metà (47%) degli intervistati dichiara di essere pienamente consapevole del proprio percorso terapeutico, contro oltre un quarto che lo è poco o affatto.

È proprio questa mancanza di consapevolezza che evidenzia come il sistema sanitario in Italia e, insieme, l’atteggiamento dei pazienti debbano ancora essere coinvolti in una presa di consapevolezza.

La situazione italiana, in particolar modo, risulta preoccupante: l’Italia si classifica infatti solo penultima tra i paesi che affrontano in questo modo la malattia, seguita solo dalla Spagna. Il dato risulta particolarmente interessante se si considera che l’approccio ad una patologia diffusa come il cancro sta subendo importanti miglioramenti: in Italia la sopravvivenza è aumentata passando dal 39% negli anni ‘90 al 54% del ventennio successivo in un campione maschile di pazienti. Un incremento minore ma significativo è avvenuto nel campione di pazienti donne, dal 55% al 63% (AIOM, AIRTUM Fondazione, 2017). Questo accrescimento è dovuto a un incremento dei progressi scientifici che hanno alzato il tasso di sopravvivenza a 5 anni in più rispetto agli altri paesi europei.

Importanti, a questo proposito, le parole di Gabriella Pravettoni, direttore della divisione di psiconcologia all’Istituto Europeo di Oncologia e professore ordinario di psicologia delle decisioni presso l’Università degli Studi di Milano

Oggi, quando si intraprende un percorso di cura occorre condividerlo con la persona che si ha di fronte a prescindere dal sesso, dall’età e dalle sue conoscenze in ambito medico. Comunicare è fondamentale, anche perché sempre più spesso dal cancro si guarisce. L’essere ascoltati, seguiti e accuditi dai propri familiari favorisce l’autoefficacia e riduce i livelli di ansia e preoccupazione collegati alla malattia.

Questo profondo cambiamento, per la sua insita radicalità e per la natura stessa della procedura, è necessario che si compia gradualmente e in un arco temporale piuttosto lungo per permettere un adattamento progressivo del sistema e del personale coinvolto.

Il processo di empowerment

Una delle caratteristiche dell’ empowerment che trova d’accordo i diversi autori (Castro, Regenmortel, Vanhaecht, Sermeus, & Hecke, 2016) è che la partecipazione del paziente è l’elemento focale di questo cambiamento.

Tritter (2009) identifica cinque diversi livelli di partecipazione del paziente: (1) partecipazione del paziente a decisioni riguardanti il trattamento; (2) il paziente può essere coinvolto nello sviluppo dei servizi; (3) può integrare con la sua prospettiva le valutazioni dei servizi; (4) può partecipare al training e alla formazione e (5) può decidere di partecipare in modo attivo alle attività di ricerca proposte nell’istituto.

La partecipazione dei pazienti è inoltre caratterizzata da un coinvolgimento maggiore nel processo decisionale alla loro cura a loro prescritta. Le decisioni possono riguardare, nello specifico, la propria condizione di malato e quindi i trattamenti da seguire (processo che si svolge anche attraverso il consenso informato) o anche decisioni riguardanti il possibile sviluppo del servizio. La partecipazione del paziente al processo decisionale potrebbe portare ad un impegno attivo (Castro et al., 2016).

Un ruolo più attivo del paziente richiede un duplice impegno, sia da parte del paziente che da quella dei professionisti della salute. Molti autori della comunità scientifica, infatti, sostengono che per promuovere la partecipazione del paziente al processo di cura sia necessario un lavoro che coinvolga tutto il team medico che deve considerare il paziente come un esperto (Tambuyzer, Pieters & Van Audenhove, 2014). Anche nel dialogo e nella comunicazione questa considerazione del paziente non può essere messa da parte e le esperienze e la conoscenza del paziente devono essere considerate in modo tale da formare una relazione di rispetto e fiducia reciproca. Passare da una prospettiva fortemente incentrata sul ruolo predominante del medico ad un modello co-relazionale – dove anche la narrazione di malattia del paziente e le sue preferenze riescano a trovare una loro importanza nell’assegnazione della cura – è senza dubbio un grande passo verso nuove prospettive di rinforzo e valorizzazione del paziente stesso.

Ma come può un paziente, in modo attivo, aumentare la sua partecipazione al processo di cura? Lyons (2007) identifica diverse modalità in cui il paziente può essere più partecipe al processo di cura: il paziente può fornire informazioni sulla propria storia clinica, può dimostrarsi motivato e interessato al raggiungimento di un risultato positivo e per concludere, deve essere partecipe anche fisicamente durante ogni passo del processo di cura e dei suoi trattamenti.

La seconda componente del patient empowerment, secondo le linee guida imposte dalla WHO, sono le abilità del paziente, come l’autoefficacia e la health literacy (World Health Organisation (WHO), 2009).

Il concetto di autoefficacia viene trattato e definito per la prima volta da Bandura (1994) che lo definisce come “convinzione nelle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le situazioni che incontreremo in modo da raggiungere i risultati prefissati. Le convinzioni di efficacia influenzano il modo in cui le persone pensano, si sentono, trovano le motivazioni personali e agiscono”.

Il concetto di autoefficacia è utile perché i soggetti con un alto livello di autoefficacia per un determinato compito sono più predisposti ad intraprenderlo, sono più motivati e di solito svolgono compiti più impegnativi rispetto agli individui con bassa autoefficacia.

In una revisione della letteratura l’autoefficacia e l’ empowerment sono visti come concetti dalle caratteristiche molto simili, in parte sovrapponibili. Diversi autori considerano l’autoefficacia come un risultato del processo di empowerment mentre altri, tra cui le linee guida della WHO, propongono che sia acquisita durante il processo e in quanto elemento necessario per la partecipazione del paziente al processo decisionale, vista come il risultato finale dell’ empowerment (Cerezo, Juvé-Udina, & Delgado-Hito, 2016).

Essendo due concetti strettamente collegati risulta importante prestare attenzione a come migliorare questa componente. Bandura a questo scopo identifica quattro metodi: esperienze di mastery, l’esperienza vicaria, la persuasione sociale e stati fisiologici ed affettivi.

La prima esperienza, considerata come la più importante, si riferiscono al fatto che i precedenti successi aumentano l’autoefficacia. L’esperienza vicaria si riferisce all’aumento della propria autoefficacia grazie alla testimonianza di altre persone che hanno svolto il compito con successo. La terza fonte, la persuasione verbale, si riferisce all’impatto dell’incoraggiamento sulla percezione di efficacia di un individuo. Infine, anche risposte fisiologiche come stati d’animo, stati emotivi, reazioni fisiche e livelli di stress la influenzano (Bandura, 1994).

Oltre all’autoefficacia, risulta importante anche prestare attenzione ad un’altra componente relativa alle abilità del paziente: la Health Literacy. Questa è definita come la capacità di comprendere le informazioni sanitarie e di utilizzare tali informazioni per prendere decisioni sulla propria salute e assistenza medica (Nielsen-Bohlman, Panzer, Kindig, & Institute of Medicine (U.S.). Committee on Health Literacy., 2004).

Un esempio utile per capire meglio questo concetto è ciò che è accaduto presso l’ospedale di Baltimora. È il caso di una donna di 29 anni, afroamericana che viene portata in ospedale dopo aver passato tre giorni con dolori addominali e febbre. Dopo una breve valutazione, le venne comunicato che avrebbe avuto bisogno di una laparotomia esplorativa. Alla notizia, la donna reagì con una forte agitazione e con la richiesta di essere riportata a casa. Quando venne avvicinata dal personale sanitario, urlò “Sono venuta qui per il dolore e tutto quello che volete farmi è “esplorarmi” (in inglese “all you want is to do is an exploratory on me”) Non mi tratterete come una cavia da laboratorio”. Si rifiutò di acconsentire a qualsiasi procedura e in seguito morì di appendicite (Nielsen-Bohlman et al., 2004).

L’Health Literacy è fondamentale per l’ empowerment dei pazienti. Questa tematica è affrontata dagli autori che scrivono materiali di educazione sanitaria chiarendo la terminologia. Il tentativo di risolvere il problema non è stato risolutivo. L’Italia è stata individuata come uno dei paesi con minore alfabetizzazione sanitaria in Europa: un dato che potrebbe essere correlato al fatto che circa il 30% della popolazione italiana ha un limitato accesso al web, secondo una ricerca dell’ISTAT nel 2016. Ma l’intervento sulla health literacy non si riduce con la trasmissione dell’informazione.

Le abilità dei pazienti, in sintesi, sono collegate all’autoefficacia e alla Health literacy, entrambe attività che richiedono un cambiamento comportamentale.

Il terzo elemento che, secondo la WHO, compone il processo di empowerment dei pazienti è la creazione di un ambiente favorevole, cioè un ambiente che possa favorire nel paziente lo sviluppo dell’ empowerment. Diversi autori hanno cercato di enunciare una serie di caratteristiche che rendono un ambiente favorevole per l’ empowerment (World Health Organisation (WHO), 2009). Hawks (1992), ad esempio, in uno suo scritto risalente agli inizi degli anni ’90, evidenzia in particolare la fiducia, l’onestà, l’accettazione, il rispetto, il valore, la cortesia, la condivisione tra pazienti e professionisti: sono queste le peculiarità che deve avere un ambiente, che deve essere inoltre “alimentato e curato”. Parlando di ambiente favorevole, o facilitante, la WHO illustra in particolare il ruolo dei professionisti della salute. Tre i prerequisiti che lo staff deve avere in relazione a questo obiettivo: un ambiente di lavoro che abbia le strutture necessarie per favorire l’ empowerment, la fiducia nelle proprie capacità di essere empowered e la consapevolezza che la comunicazione e la relazione con i professionisti della salute possa essere uno strumento estremamente potente (World Health Organisation (WHO), 2009).

Gli operatori sanitari, però, non possono da soli rendere empowered i pazienti: non si può rendere empowered un altro individuo, è un processo che deve necessariamente partire dall’individuo stesso. La cooperazione tra i pazienti e gli operatori socio sanitari può aiutare a sviluppare il processo di empowerment. Secondo Gibson, infatti, gli operatori sociosanitari possono favorire un senso di autoefficacia e di controllo nei pazienti grazie ad un ambiente di mutuo rispetto e che li possa sostenere. Grazie a queste accortezze da parte dell’équipe, l’ambiente empowered si sviluppa.

Affiancata all’ambiente favorevole la WHO specifica un’altra componente dell’ empowerment: la “positive deviance” (World Health Organisation (WHO), 2009). La “positive deviance” spiega quel fenomeno per il quale, a volte, sembra che certi individui facciano esperienza di risultati più positivi rispetto agli altri. Infatti, nella maggior parte degli ambienti pochi individui a rischio sviluppano abitudini positive non comuni che portano appunto ad outcome più positivi paragonati a individui con rischio simile (Marsh & Schroeder, 2002; Marsh, Schroeder, Dearden, Sternin & Sternin, 2004). Il riconoscimento di questi individui e l’identificazione del loro raro comportamento consentono la progettazione di cambiamenti comportamentali che possono portare all’adozione di comportamenti benefici più diffusi. Un esempio di questo processo è l’aumento della compliance alle cure grazie ad un ambiente che possa identificare i problemi (mobilitazione sociale). Questo può essere fatto radunando gli individui che possano avere un interesse nel problema. Anche la raccolta di informazioni può offrire un’opportunità per trovare modalità con cui coinvolgere i pazienti e gli operatori sociosanitari (World Health Organisation (WHO), 2009).

Per concludere, appare sempre più evidente la necessità di operare un profondo ripensamento su più livelli dell’attuale concezione sottesa al sistema sociosanitario in modo da coinvolgere nel processo di epowerment gli operatori sanitari e i pazienti allo stesso modo.

L’area di Broca – Introduzione alla Psicologia

L’ area di Broca, che corrisponde alle aree citoarchitettoniche di Brodman 44 e 45, è definita area motoria del linguaggio ed è situata nella terza circonvoluzione frontale, avanti all’area motoria, che controlla i muscoli del volto, e sopra la scissura di Silvio.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ area di Broca è una parte dell’emisfero sinistro del cervello ed è connessa all’area di Wernicke da un percorso neurale detto fascicolo arcuato.

Anatomicamente l’ area di Broca è costituita da due zone principali, con diversi ruoli nella comprensione e nella produzione del linguaggio:

Pars triangularis: parte anteriore associata all’interpretazione di varie modalità di stimoli e alla programmazione dei condotti verbali, ovvero “pensare a cosa dire”;

Pars opercularis: parte posteriore associata a un unico tipo di stimolo e presiede al coordinamento degli organi coinvolti nella riproduzione della parola. Essa è posta vicino alle aree del cervello dedicate al controllo dei movimenti e consente, dunque, di organizzare i movimenti verbali.

L’ area di Broca, inoltre, contribuisce alla formazione di caratteristiche linguistiche più astratte, come l’elaborazione grammaticale della lingua che permette di strutturare le frasi seguendo le regole grammaticali.

Storia

L’ area di Broca è stata studiata per la prima volta nel 1861 dal neurologo francese Paul Broca grazie ad un esame eseguito su un paziente non in grado di riprodurre parole, nonostante comprendesse quanto gli fosse detto. Tale paziente era solo capace di riprodurre la sillaba “tan”, da cui il nome Monsieur Tan con cui il paziente passò alla storia. All’esame obiettivo il cervello di questo paziente presentava una lesione nel lobo frontale sinistro. Così, nel 1863 Broca scrisse un articolo in cui parlava di 8 casi clinici caratterizzati dalla presenza di una lesione al lobo frontale sinistro. Tutti questi soggetti presentavano afasia, letteralmente assenza di linguaggio, che in questo caso riguarda la riproduzione dello stesso.

Broca, dunque, dedusse fosse l’emisfero sinistro a controllare la produzione di linguaggio.

In seguito, questa teoria è stata ripetutamente confermata attraverso la realizzazione di diversi esperimenti. Ad esempio, se si inietta nella carotide sinistra un barbiturico ad azione rapida (tecnica di Wada), si ottiene, nella maggior parte dei soggetti, un’ afasia transitoria, della durata di circa 10 minuti, accompagnata da altri effetti motori e sensoriali. L’iniezione, invece, nella carotide destra non produce effetti afasici, pur causando effetti motori e sensoriali. È stato stimato in questo modo che i centri di controllo del linguaggio sono situati nell’emisfero sinistro nel 96% delle persone destrimane e nel 70% dei soggetti mancini. Il rimanente 4% dei soggetti destrimani mostra le aree del linguaggio a destra, mentre del 30% dei soggetti mancini un 15% mostra le aree del linguaggio a destra e un 15% bilaterali (Kos, Vosse, Van Den Brink , Hagoort, 2010)

Funzionamento

L’ area di Broca è responsabile della produzione del linguaggio poiché mantiene la memoria di una serie di comandi motori necessari per articolare i suoni. Per questo, nel riprodurre delle parole ignote o straniere, si fatica maggiormente nella lettura.

Inoltre, in soggetti che apprendono una seconda lingua da adulti, si attiva un’area che non coincide con l’ area di Broca. Questo, suggerisce l’esistenza di circuiti per la pronuncia delle parole diverse da quelle utilizzate per la lingua appresa per prima. È noto, dunque, che altre aree del lobo frontale sinistro svolgono funzioni importanti nell’articolazione del linguaggio. In particolare, l’area motoria supplementare è coinvolta nella pianificazione delle sequenze necessarie per svolgere compiti motori anche linguistici. Infatti, lesioni a queste aree producono una forma di afasia.

Le differenze di attivazione fra l’area 44 e l’area 45 durante l’esecuzione di compiti linguistici e le differenti connessioni che queste aree intrattengono con l’area motoria, le aree prefrontali e le aree sensoriali, suggeriscono che possano svolgere ruoli funzionalmente diversi nell’uomo per quanto riguarda il riconoscimento e la comprensione dell’azione.

Afasia di Broca

Un danno all’ area di Broca, dovuto ad esempio ad ictus, atrofia, traumi, infezioni, neoplasie ed ischemia, può provocare la cosiddetta “afasia di Broca”, classificata tra le “afasie non fluenti”. I pazienti colpiti da afasia non fluente possono essere incapaci di comprendere o formulare frasi con una struttura grammaticale complessa.

Alcune forme di afasia legate a danni nell’ area di Broca possono colpire solo determinate aree del linguaggio, come i verbi o i sostantivi.

È interessante notare che, nel caso di pazienti sordi ci può essere un’inibizione della capacità di produrre quei segni corrispondenti al messaggio che essi vogliono comunicare, pur essendo in grado di muovere mani, dita e braccia come prima.

L’ afasia di Broca, detta anche afasia espressiva, consiste nella perdita parziale della capacità di comporre il linguaggio parlato e scritto, in presenza di una normale capacità di comprensione dello stesso.
 In altre parole, l’ afasia di Broca è un tipo di afasia in cui il paziente ha perso la capacità di parlare e di scrivere, ma non ha perso la capacità di comprendere ciò che sente e ciò che legge.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Istruzioni per l’uso del cervello (2017) di John Arden – Recensione del libro

Il libro Istruzioni per l’uso del cervello pone nel titolo tutto ciò che il lettore può trovarvi. È sia un testo con delle “istruzioni” per il paziente, sia un libro di neuroscienze.

 

Lo scopo del libro Istruzioni per l’uso del cervello è quello di spiegare ai pazienti cosa accade nel loro cervello quando soffrono di ansia e depressione e allo stesso tempo ha l’obiettivo di dare dei suggerimenti ai terapeuti su come integrare i domini della ricerca scientifica nel campo delle sempre più aggiornate neuroscienze.

Istruzioni per l’uso del cervello.. in psicoterapia

Al contenuto principale del testo sono affiancate da un lato, la spiegazione dettagliata degli aspetti neuro-correlati e delle ricerche che supportano il testo (paragrafi chiamati proprio Neuroscienze) e dall’altro la spiegazione (intitolata Educazione del paziente) in cui, in parole povere ed estremamente semplici, viene tradotto il linguaggio neuroscientico per poterlo utilizzare con il paziente. In questo modo il clinico ha un canovaccio da poter seguire che possa spiegare in modo accessibile a tutti cosa che c’è che non va nei loro circuiti cerebrali quando incontrano le sofferenze psicopatologiche e cosa, invece, può andare a modificare (sempre a livello neurobiologico) un percorso di psicoterapia.

Sicuramente Istruzioni per l’uso del cervello è un libro che mancava e ancor più certamente un libro al passo con i tempi in cui le scoperte di impostazione neuroscientifica hanno un ruolo importante nella psicopatologia dell’ansia e della depressione (sono le due grandi macro aree che vengono, difatti, trattate nel libro).

Durante gli ultimi 25 anni si sono accumulati molti dati a sostegno che la psicoterapia modifichi il cervello. È stata riscontrata una riduzione nelle attività dell’amigdala in pazienti trattati per fobie, una riduzione dell’ attività frontale in pazienti trattati per depressione, un aumento dell’attività cingolata anteriore in pazienti trattati per Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS) e un aumento dell’attività ippocampo le nelle persone con depressione e la diminuzione del caudato in pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC).

Oltre a questa suddivisione il libro di Arden si snoda in due arterie principali. La prima parte infatti è dedicata all’applicazione delle neuroscienze, la seconda prende in considerazione più da vicino i disturbi d’ansia, il Disturbo Post Traumatico da Stress, il Disturbo Ossessivo Compulsivo e la Depressione.

Istruzioni per l’uso del cervello.. il contributo delle neuroscienze

Nella prima metà del libro si affrontano temi che vanno dall’ epigenetica, alla neuro plasticità, alle differenze fra i due emisferi nella morfologia e nel funzionamento, alla spiegazione del default model networks (DMN) fino alla psico-neuroimmunologia.

Lo scopo di Istruzioni per l’uso del cervello è quello di rendere il paziente consapevole che il suo comportamento ha un impatto sul suo cervello. Si cerca di spiegare, per esempio, come far procedere il paziente verso una riorganizzazione delle connessioni cerebrali, disinnescando il DMN e riattivando la corteccia pre-frontale per incanalare il cambiamento nella direzione desiderata; viene spiegato perché ridere anche in assenza di gioia, ma come mero gesto comportamentale, possa essere un’ autentica medicina per andare a stimolare l’attivazione dell’emisfero sinistro o ancora come l’esercizio fisico, una corretta alimentazione e una corretta igiene del sonno, possano incidere sulle prestazioni del cervello. Sapevate per esempio che gli alimenti fritti e gli acidi grassi trans in essi contenuti impediscono di pensare con chiarezza? E che non conviene mai dormire arrabbiati? Infatti il sonno amplifica in maniera selettiva le memorie episodiche significative dal punto di vista emotivo e amplifica le memorie emotive fissando una rappresentazione duratura degli eventi stressanti.

Una parte importante di Istruzioni per l’uso del cervello è dedicata allo sviluppo dei sistemi della memoria. Questa si intreccia allo sviluppo, infatti la personalità, così come la psicopatologia, si forma attraverso il modo in cui il cervello si adatta alle interazioni con gli altri. Comprendere la memoria è fondamentale per comprendere il processo della psicoterapia. Una terapia efficace cambia la memoria attraverso processi interattivi modificati dal cambiamento del punto di vista del paziente. Il fatto che la memoria sia plastica rende la psicoterapia possibile.

Viene ampiamente raccontata la memoria nella sua forma dichiarativa e non dichiarativa, di come queste impattino nel reagire alle situazioni, vengono elencati i substrati biologici deputati alla memorizzazione toccando i punti principali e più salienti di ciò che occorre sapere in materia. Sia dal punto di vista delle teorie psicologiche, sia da quello biologico, sia da quello psicopatologico.

Arden spiega ai pazienti che esistono due vie di attivazione dell’amigdala. Quella lenta che fa in modo che pensiamo prima di sentire e quella veloce che funziona al contrario. In modo da lasciar comprendere come mai capita che si sentano ansiosi prima di aver pensieri o come queste vie non siano integrate nel caso del DPTS.

Nello spiegare l’importanza delle relazioni per la modifica dell’attività neuronale non si può prescindere dalle teorie relative alle relazioni precoci. Dal concetto di madre sufficientemente buona (e non perfetta, si specifica) di Winnicott alla teoria dell’Attaccamento (ampiamente dettagliata) con annessi dati rispetto alla neruobiologia nelle varie tipologie di attaccamento. L’obiettivo fondamentale di una psicoterapia può essere quindi quello di sviluppare nuovi sistemi di memoria integrati e adattivi in modo da aiutare il paziente alla costruzione di strutture in grado di aumentare il suo livello di tolleranza alla frustrazione e di reagire in modo regolato alle emozioni.

Istruzioni per l’uso del cervello nelle diverse psicopatologie

La seconda parte del libro Istruzioni per l’uso del cervello raccoglie tutto ciò che è stato seminato e prende in esame capitolo per capitolo i vari disturbi di ansia (suddivisi tra disturbi da auto stress, ansia focalizzata, ansia generalizzata, DPTS, DOC e depressione) per vedere più nel dettaglio e soprattutto nello specifico di ciascuna psicopatologia cosa non funziona a livello del cervello e quindi di come, con la psicoterapia, si possa andare a lavorare su questi aspetti.

La prima parte esamina il sempre più attuale concetto di stress, dalla teoria ormai nota di Seyle fino alle più importanti e recenti scoperte relative all’attivazione vagale di Porges e di tutto quello che succede all’organismo quando è sottoposto ad un carico di stress eccessivo e prolungato.

Arden distingue (dedicando due diversi capitoli) l’ansia generalizzata dall’ansia acuta proprio nelle specificità dei correlati neurobiologici.

In Istruzioni per l’uso del cervello si parla infatti di trovare il modo per il paziente di riequilibrare il sistema nervoso autonomo (che nel caso dell’ansia vede uno squilibrio a favore di una pressochè costante attivazione del Sistema Nervoso Simpatico). Di fatto i due sistemi legati all’ansia o al rilassamento si inibiscono reciprocamente per cui si prova a guidare il clinico e il paziente verso strategie volte proprio ad intervenire sul Sistema Nervoso Parasimpatico attraverso esercizi di respirazione, allenando l’attenzione a restare focalizzata sul presente, agendo sulla postura anche tramite lo yoga, imparando ad osservare pensieri, corpo e stati emotivi etichettandoli per ciò che sono in modo da stimolare la corteccia pre-frontale e distanziando dall’ansia stessa.

Viene preso in esame anche il concetto di evitamento (naturale protagonista della psicopatologia dell’ansia) sia comportamentale che cognitivo e di come questo sia uno dei maggiori fattori di mantenimento del problema. Si intrecciano concetti cognitivi come l’intolleranza all’incertezza e la sua speculare accettazione del rischio e dell’ambiguità, insieme a ciò che a livello del nostro cervello accade passando da uno stato all’altro. Esporsi all’incertezza infatti costruisce la capacità del cervello di neutralizzare le preoccupazioni. La terapia con pazienti con problemi di ansia generalizzata viene sintentizzata con l’acronimo REAL:

  • Relaxation (esercizi di meditazione, rilassamento, autoipnosi, training autogeno)
  • Exposure (programmare l’ora della preoccupazione per esempio in modo da dare alla corteccia orbito frontale la possibilità di lavorare sullo sviluppo della capacità di gestire le ambiguità)
  • Acceptance (dell’incertezza)
  • Labeling (etichettare i pensieri in modo da distanziarsene).

Anche nella sezione dedicata all’ansia focalizzata (sia fobie che attacchi di panico) si parla di nuovo di evitamento e dell’impatto di questo sul Sistema Nervoso ma l’acronimo che viene utilizzato per questo tipo di psicopatolohia è BEAT:

  • Body (in modo da imparare a conoscere e notare le proprie attivazioni corporee),
  • Exposure (esposizione enterocettiva per esempio per aumentare la tolleranza alle sintomatologie normali corporee)
  • Amigdala (e le sue due vie lenta e veloce)
  • Thinking (in modo da ricordare loro che ciò che pensano può influenzare ciò che sta accadendo).

Anche il DPTS ha un ampio spazio nel libro di Arden. La sua terapia prevede tre fasi, secondo l’autore. La prima di stabilizzazione da iniziare immediatamente dopo l’evento traumatico. Durante questa fase ci si occupa del sostegno della persona (un importante fattore di rischio è quello di non avere supporto sociale), ci si occupa di valutare quello che è il funzionamento globale della persona dopo l’essere stato esposto ad una situazione drammatica e si educa la persona anche da un punto di vista della normalizzazione dei sintomi che possono seguire un trauma. La seconda fase è quella di integrazione delle memorie e la terza è un lavoro sulla resilienza post traumatica. L’acronimico utilizzato per la terapia del DPTS è SAFE: Sharing (condividere in modo da lenire il senso di solitudine e di isolamento) Acceptance (dei sintomi del post trauma in modo da non evitarli incrementando la reattività dell’amigdala), Family (riattivare il cervello sociale stando con i propri cari), e infine Exposure (affrontando piano piano i sentimenti e le sensazioni che scatenano l’ansia).

Nel capitolo del DOC viene dato ampio spazio al funzionamento del cervello e sono molto dettagliate tutte le spiegazioni che hanno a che vedere con ciò che accade nella mente mentre si è nella trappola delle compulsioni e delle ossessioni. I circuiti che sottendono il doc sono associati alla corteccia pre frontale ventro-mediale, allo striato e al talamo dorsale. Complessivamente gli studi condotti con RM indicano che nel DOC ci sono delle anomalie nel funzionamento della corteccia orbito-frontale e della corteccia cingolata anteriore nonchè nell’attività del caudato.

Impossibile parlare della terapia del DOC senza cimentarsi nella spiegazione (sia per il paziente che per le neuroscienze) dell’Esposizione con Prevenzione della Risposta ERP. L’acronimo utilizzato per riassumere la terapia del DOC è ORDER:

  • Observing (osservare invece di rispondere automaticamente alle ossessioni con compulsioni in modo da uscire dal pilota automatico)
  • Remembering (ricordare che essere pieni di pensieri e sentirsi di dover compiere comportamenti compulsivi sono sintomi di un funzionamento cerebrale di chi soffre di DOC)
  • Doing (provare a mettere in atto qualcosa che sia diverso dai soliti comportamenti compulsivi in modo da costruire nuove abitudini), Exposure (esporsi imparando a tollerare il disagio)
  • Response Prevention (per astenersi dai comportamenti compulsivi).

Infine l’ultima parte è dedicata alla Depressione, quarta malattia per impatto a livello mondiale e che entro il 2030 sarà il disturbo con i costi più elevati di gestione nelle società ad alto reddito. La regione ipoattivata è quella della corteccia pre-frontale sinistra che può essere riattivata tramite comportamenti pratici. Viene sottolineata l’importanza di contrastare la normale tendenza all’isolamento contando sempre sul mantenere il cervello sociale attivato. Si considera il Default Mode Network poiché la ruminazione che si manifesta durante l’attività di questo sistema pare essere uno dei fattori più significativamente associati alla malattia. Le pratiche di consapevolezza servono proprio per imparare a disinnescare, portare l’attenzione al presente in modo non giudicante può avere il beneficio di tranquillizzare l’attività ruminativa. Per aiutare a ricordare ai pazienti di cosa hanno bisogno per uscire dalla depressione viene utilizzato l’acronimo TEAM:

  • Thinking (per allontanare il pensiero negativistico con tutti i suoi errori cognitivi)
  • Effort (“Sforzo” per riattivare la corteccia pre-frontale sinistra)
  • Acceptance (accettazione anche delle parti negative)
  • Mindfulness (consapevolezza).

Istruzioni per l’uso del cervello è un libro molto denso ma di facile e utile comprensione e utilizzo nonostante si addentri in modo specifico nel vortice della ricerca neuroscientifica. Edito da Astrolabio, è una panoramica utile sicuramente al paziente, ma anche al clinico che al giorno d’oggi non può più prescindere dalle scoperte del funzionamento del nostro cervello per quello che riguarda tanto la psicopatologia ma anche per la sua cura.

Selfie ritoccati? Se lo sappiamo cambia quello che pensiamo di noi e degli altri

L’autrice principale dello studio, Megan Vendemia, dottoranda dell’Ohio State University, mostra come diverse ricerche hanno evidenziato che la visione di immagini di modelli esili o sessualizzati può portare le donne a dare più valore all’essere snelle (interiorizzazione ideale) (Matusek, Wendt & Wiseman, 2004).

 

Tale interiorizzazione può contribuire insieme ad altri fattori alla predisposizione verso disturbi alimentari o altri problemi psicologici; eppure se le donne credono che tali immagini siano state modificate tramite appositi programmi o app l’impatto negativo si riduce, perché

sanno che le immagini online potrebbero non riflettere una realtà offline – afferma Vandemia.

Selfie ritoccati sui social media: lo studio per capire l’impatto

Lo studio, condotto dalla dottoranda insieme a David DeAndrea, docente di comunicazione dell’Ohio University, ha coinvolto 360 studentesse universitarie. Lo scopo dello studio presentato alle studentesse è quello di determinare in che modo le persone valutano le immagini e i selfie che appaiono su popolari social media, quali Instagram.

Le partecipanti hanno visto 45 selfie, di account pubblici su Instagram, di donne magre “sessualizzate” (cioe’ vestite con abiti “succinti”). Alcune di queste immagini mostravano a lato dei loghi di Photoshop o di filtri Instagram inseriti appositamente dai ricercatori per creare un’illusione di modifica.

Metà delle donne è stata informata che le immagini erano di altre studentesse del loro college, mentre all’altra metà è stato detto che le immagini raffiguravano modelle di New York.

È stato inoltre somministrato un questionario rispetto all’interiorizzazione ideale (della magrezza), compilando diversi item, tra cui: “le donne magre sono più attraenti delle altre donne“.

Selfie ritoccati: giudichiamo peggio chi li fa

È emerso che più le partecipanti percepivano le foto ed i selfie come modificati, meno interiorizzavano l’ideale di magrezza:

Le indicazioni che le immagini sono state alterate potrebbero potenzialmente ridurre gli effetti negativi delle immagini magre ideali.

Inoltre, più le spettatrici credevano che i selfie fossero modificati, più pensavano che le donne pubblicassero le foto per mettersi in mostra e vantarsi.

Hanno inoltre giudicato le donne con foto modificate come meno intelligenti e meno oneste, effetto in aumento quando si trattava di presunti pari, anziché di modelli.

Come ha affermato l’autrice:

I partecipanti, di fronte allo stesso comportamento, tendevano ad essere più indulgenti nei confronti dei modelli professionali rispetto ai loro coetanei sui siti di social media. Ritenevano che le modelle condividessero i selfie per ragioni più altruistiche, come motivare gli altri o promuovere la salute.

Si è anche notato come man mano che gli utenti dei social media si servono di un’osservazione più sofisticata nel consultare le foto postate sui social, più sono in grado di evitare alcune insidie. Ciò che rimane da indagare in futuri studi sono le cause che spingono a valutare in modo differente le foto modificate da quelle non modificate e come mai l’attribuzione di ruolo data al soggetto della foto influenzi anch’esso la valutazione in atto.

 

Maternità e disturbi dell’umore: osservate differenze nel riconoscimento delle espressioni emotive infantili

Una nuova ricerca presentata al Congresso European College of Neuropsychopharmacology ha rivelato che le donne che hanno sofferto di depressione o disturbo bipolare presentano un’alterazione nell’abilità di riconoscere le espressioni emotive dei bambini.

 

Quasi l’8% della popolazione europea ha sofferto in tempi recenti (negli ultimi 12 mesi) di depressione, con un tasso di prevalenza femminile intorno al 9,7% superiore di circa il 50% rispetto a quella maschile; la percentuale di presenza del disturbo bipolare invece è leggermente inferiore.

Ogni anno l’Europa assiste a oltre 5 milioni di nuove nascite.

Unendo questi dati si può notare come un numero significativo di donne in dolce attesa potrebbero soffrire o hanno sofferto in passato di depressione o disturbo bipolare.

Disturbi dell’umore: come influenzano l’esperienza materna?

Un recente studio presentato al Congresso di Barcellona ha mostrato che le donne incinte che hanno vissuto in passato periodi di depressione o disturbo bipolare riconoscono i volti dei bambini e le espressioni di pianto o riso in modo diverso rispetto alle donne sane. Quest’alterazione è presente anche se al momento dell’esperimento le donne non presentavano alcun sintomo psicopatologico.

Per lo studio i ricercatori hanno confrontato 57 donne in gravidanza: di queste, 22 presentavano nella storia passata episodi di depressione, 7 avevano sofferto di disturbo bipolare e la restante parte era rappresentata dal gruppo di controllo senza alcuna psicopatologia passata. Per ottenere ulteriore riprova dell’ipotesi sperimentale i ricercatori hanno previsto un gruppo di controllo composto da 18 donne non gravide e senza disturbi psicologici.

Tra il settimo e nono mese di gestazione, alle donne è stato chiesto di osservare una serie di facce felici o tristi ed espressioni di pianto o di riso sia di bambini che di adulti. In particolare il compito sperimentale prevedeva di valutare quanto i bambini fossero felici o angosciati in base all’espressione facciale e vocale delle emozioni; inoltre è stato chiesto di valutare l’intensità delle espressioni facciali di emozioni quali felicità, tristezza, paura e disgusto in soggetti adulti.

La ricercatrice principale Anne Bjertrup ha affermato:

Dai risultati degli esperimenti abbiamo scoperto che le donne incinte con storie di depressione o disturbo bipolare elaborano i segnali facciali e vocali delle emozioni in modo diverso, anche quando non stanno vivendo episodi depressivi o bipolari. Quest’alterazione potrebbe compromettere la capacità di queste donne di riconoscere, interpretare e rispondere appropriatamente ai segnali emotivi dei loro futuri bambini.

In particolare dallo studio è emerso che le donne che hanno esperito episodi bipolari nel passato hanno avuto difficoltà nel riconoscere tutte le espressioni facciali mostrando un “bias di elaborazione del volto positivo”, che significa un miglior riconoscimento e una valutazione più positiva dei volti felici sia degli adulti che dei neonati. Al contrario le donne con una precedente storia di depressione hanno mostrato un giudizio negativo nel riconoscimento delle espressioni facciali adulte e delle grida infantili che sono state valutate in modo maggiormente negativo.

La Bjertrup ha chiarito:

Questo è uno studio pilota per cui è necessario replicare i risultati in un campione più ampio. Sappiamo che la depressione e il disturbo bipolare sono altamente ereditabili a causa del ruolo dei fattori genetici, tuttavia appare estremamente importante anche la qualità dell’interazione precoce tra mamma e figlio. La diversa risposta cognitiva ai segnali emotivi dei bambini in queste donne può rendere più complesso il legame di attaccamento il che potrebbe rappresentare un precoce fattore di rischio per questi bambini.

In conclusione

I risultati trovati mostrano la presenza di un’alterazione nei giudizi emotivi delle persone con disturbi dell’umore anche se in remissione e, per la prima volta, pongono l’attenzione su una possibile difficoltà nell’interazione madre-bambino. Ciò non significa che queste donne non siano in grado di accudire i figli e non assume con certezza un possibile rischio per i loro bambini.

Appaiono necessari ulteriori studi per progettare programmi di screening e di intervento che possano aiutare le madri ad interpretare in modo più efficace i segnali emotivi dei loro figli. I lavori futuri potrebbero essere interessati a vedere se le evidenze emerse da questo studio mostrino veramente un effetto significativo sul rapporto mamma-bambino e se questo tipo di interazione possa avere un impatto negativo sullo sviluppo psicologico dei bambini.

Disturbi gravi di personalità: diagnosi differenziale e trattamento – Report dal Convegno Internazionale sui Disturbi di Personalità, Roma, 11 e 12 ottobre 2018

All’ultimo “Convegno Internazionale sui Disturbi di Personalità”, tenutosi a Roma l’11 e 12 ottobre 2018, tra i relatori c’era anche Otto Kernberg che ci ha raccontato cosa significa personalità sana e patologica. Il Prof. ha poi delineato le caratteristiche della personalità affetta da narcisismo patologico e il modo in cui tali caratteristiche si traducono a livello comportamentale, affettivo e di identità.

 

I disturbi gravi di personalità costituiscono un tema complesso da affrontare sia per quanto riguarda le procedure diagnostiche che per quanto concerne l’impostazione dei trattamenti psicoterapeutici e farmacologici.

Il convegno svoltosi a Roma lo scorso 11 e 12 ottobre presso il centro congressi Angelicum ha rappresentato un momento di riflessione e di confronto tra alcuni tra i massimi esperti del settore. Le relazioni presentate hanno esaminato i disturbi psicotici, il disturbo borderline, il disturbo narcisistico di personalità e il disturbo bipolare. Una delle premesse da cui i lavori hanno preso le mosse è che il disturbo bipolare viene solitamente considerato, nello scenario italiano, con due modalità differenti, da cui derivano diverse impostazioni del trattamento:

  • l’umore viene visto come un elemento sovraordinato rispetto alle funzioni mentali e relazionali; in questo quadro è l’umore a risultare agente determinante della sintomatologia;
  • la configurazione della personalità è prevalente nella genesi dei disturbi mentali, di conseguenza l’umore non è il fattore scatenante dei problemi, ma prodotto di un determinato assetto di personalità.

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Dopo l’inizio dei lavori con l’introduzione da parte del prof. Giuseppe Nicolò e del prof. Antonino Carcione, il primo intervento, effettuato dal prof. Michele Procacci, si concentra sulle similitudini e sulle differenze tra i disturbi psicotici e i disturbi gravi di personalità; viene messo l’accento sul fatto che i percorsi di trattamento di soggetti, adulti e adolescenti affetti da patologie psichiatriche, non possono esimersi dal intervenire, oltre che sull’aspetto sintomatologico, anche sulle difficoltà sociali e di adattamento osservabili negli stessi.

L’intervento successivo, effettuato dal prof. John Clarkin, ha per oggetto il disturbo bipolare, il disturbo borderline di personalità e la presenza di comorbilità tra i due disturbi; l’instabilità affettiva rappresenta una disposizione psicologica che accomuna sia il disturbo borderline che il disturbo bipolare. Viene sottolineato come nell’ambito dei disturbi psichiatrici la comorbilità sia molto elevata: metà degli individui che incontrano i criteri diagnostici per un disturbo incontrano i criteri per un secondo disturbo nello stesso tempo.

Le relazioni a seguire, effettuate dal prof. Antonio Semerari, dal prof. Giuseppe Nicolò e dal prof. Enrico Pompili, prendono in esame questioni legate al trattamento. I trattamenti, finalizzati sia a ridurre i sintomi che a migliorare la funzionalità a livello sociale, contemplano una vasta gamma di interventi tra cui l’utilizzo di farmaci, interventi di natura psicoeducativa, il coinvolgimento del contesto sociale di riferimento.

Otto Kernberg e la Transference Focused Therapy (TFC)

Dopo una fase di confronto tra esperti e pubblico, che conclude i lavori della mattinata, si riprende nel pomeriggio con la relazione del prof. Otto Kernberg, il quale si sofferma sulla definizione di personalità sana e patologica, andando poi a delineare le caratteristiche della personalità affetta dal narcisismo patologico e come tali caratteristiche si traducano a livello comportamentale, affettivo e di identità.

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Otto Kernberg al Convegno Internazionale sui Disturbi di Personalità 2018

Il prof. John Clarkin, nell’intervento a seguire, mette a fuoco le modalità di intervento sulle patologie gravi di personalità proposte dalla Transference Focused Therapy (TFC), elaborata da Otto Kernberg. L’approccio terapeutico proposto è di impostazione psicodinamica e contempla l’utilizzo del transfert, del controtransfert del terapeuta e di libere associazioni; particolare attenzione va posta nel trattare un transfert di tipo antisociale, nei pazienti in cui il tratto antisociale è più marcato.

Il transfert narcisistico è caratterizzato dall’incapacità, da parte del paziente, di dipendere dal terapeuta. Il paziente è portato a svalutare il processo terapeutico, attivando dinamiche inconsapevoli in cui esprime invidia per l’abilità del terapeuta e oscilla tra il senso di superiorità e il senso di inferiorità.

Structured Interview of Personality Organization (STIPO)

Il secondo giorno di lavori si apre con la relazione del prof. John Clarkin che descrive uno strumento diagnostico, l’intervista semistrutturata STIPO (Structured Interview of Personality Organization), disponibile nella versione inglese originale e nella traduzione italiana e tedesca.

Questo strumento diagnostico ha lo scopo di valutare la presenza e la gravità dei sintomi, indagare il funzionamento sociale e lavorativo del paziente, capire che rappresentazioni interne ha degli altri; viene valutata la motivazione al cambiamento in modo da discutere le opzioni terapeutiche più appropriate.

L’intervista aiuta ad ottenere informazioni a livello sia strutturale che dimensionale di personalità. Per quanto riguarda la struttura si distinguono quattro livelli di organizzazione di personalità: normale, nevrotica, borderline e psicotica; l’aspetto dimensionale viene valutato andando ad indagare l’identità, la qualità delle relazioni oggettuali (relazioni interpersonali, relazioni intime e sessuali, investimento negli altri), il tipo di meccanismi di difesa utilizzati (primitivi o maturi), l’aggressività (etero o autodiretta).

Otto Kernberg racconta l’approccio con il paziente narcisista

La restante parte dei lavori è affidata al prof. Otto Kernberg il quale, dopo essersi soffermato sul transfert del paziente con disturbo narcisistico, presenta una panoramica dei modi in cui la personalità narcisista si approccia alle relazioni amorose, attraverso l’esposizione di alcuni casi clinici; il narcisista arriva spesso a richiedere una terapia a causa del senso di vuoto relazionale che prova, determinato dalla sua difficoltà a strutturare relazioni profonde con persone significative.

Nell’intervento conclusivo il prof. Otto Kernberg delinea come alcune caratteristiche della personalità narcisistica giochino un ruolo importante nelle dinamiche osservabili all’interno dei grandi gruppi.

In conclusione

I disturbi gravi di personalità rappresentano un campo di indagine e di intervento molto complesso, rispetto al quale il confronto e lo scambio costante tra ricercatori e clinici è di vitale importanza al fine di sviluppare prassi terapeutiche sempre più efficaci.

Rendimento scolastico in adolescenza: metodo di studio, emozioni, dimensione relazionale

E’ bravo ma non si applica: è forse una delle affermazioni più tipiche che i genitori si sentono dire dagli insegnanti. Solitamente viene utilizzata quando lo studente, seppur dimostrando delle capacità intellettive nella norma, non riesce a portare a termine l’anno scolastico con valutazioni idonee.

 

Lo psicologo viene spesso interrogato sulle motivazioni che possono essere alla base di tale mancanza di risultati. A porre la domanda non sono soltanto i genitori, ma anche gli insegnanti, che continuamente si chiedono dove risiedano gli errori nel proprio metodo di insegnamento. Riassumendo, non esiste una risposta semplice alla domanda riguardo il rendimento degli studi degli adolescenti. I fattori sono molteplici, e attraverso l’analisi di questi si può giungere ad alcune soluzioni.

Rendimento scolastico: come funzionano metodo di studio, apprendimento e memoria

Una teoria da tenere in considerazione riguardante i processi di apprendimento e memoria, è quella di Craik e Lockhart (1972). Questi autori hanno affermato che il classico metodo della ripetizione meccanica degli argomenti di studio non è sufficiente per formare degli apprendimenti duraturi. In pratica non basterebbe leggere e ripetere un argomento per impararlo, bensì sarebbe fondamentale che si effettui un ripasso elaborativo e profondo. Gli studenti dovrebbero riflettere sui significati delle informazioni, creando associazioni con le informazioni più vecchie.

Secondo Gray (2002), le modalità di consolidamento dell’informazione nella memoria a lungo termine possono essere:

  • la ripetizione meccanica
  • l’elaborazione
  • l’organizzazione
  • la visualizzazione.

Il fine dell’elaborazione è quello di capire ciò che si sta studiando, comprenderne la logica (Craik e Tulving, 1975). L’organizzazione del materiale di studio è un altro passaggio fondamentale, ad esempio raggruppando informazioni simili tra loro, formando un discorso logico, soggettivo e non dispersivo. Come dimostrato dagli esperimenti di Halpern (1986), è molto utile l’organizzazione gerarchica, ovvero il raggruppamento delle informazioni in categorie, ed il raggruppamento delle categorie simili in categorie di ordine ancora superiore. Per fare un esempio, il processo è il medesimo che si utilizza in un libro di studio, dove vi è un capitolo che raccoglie paragrafi simili per argomento ed ogni paragrafo raccoglie sottoparagrafi simili tra di loro. In questo modo si garantisce un ordine, una prevedibilità ed una maggiore comprensione dello studio. Con la visualizzazione, invece, si può intendere la teoria della doppia codifica di Paivio (1986), in cui si sostiene la forte efficacia del processo di consolidamento della memoria se, questa è associata ad un’immagine. Negli esperimenti, infatti, se si associano immagini durante l’apprendimento di nuove nozioni aumenta l’efficacia di tale apprendimento, poiché i due codici (visivo e linguistico) sono interagenti.

Concludendo, si può iniziare a sostenere che un possibile errore dello studente riguarda il proprio metodo di studio e l’applicazione delle tecniche sbagliate di consolidamento della memoria. Cominciare modificando questi aspetti, sostituendo ad esempio la ripetizione meccanica passiva delle informazioni, può essere un inizio nel miglioramento dello studio.

Rendimento scolastico e metodo meta-cognitivo

Per Meta-Cognizione si intende

Qualsiasi conoscenza o processo cognitivo, che è coinvolto nella valutazione, nel monitoraggio o nel controllo della cognizione. (Wells, 2002).

È una sorta di cognizione della cognizione. La conoscenza metacognitiva include la consapevolezza delle proprie abilità cognitive (sono bravo in matematica) e delle strategie cognitive (devo prendere appunti per riuscirci). La regolazione metacognitiva ha la funzione di coordinare la cognizione e comprende due aspetti: il monitoraggio (monitorare costantemente la corretta esecuzione) e il controllo cognitivo (di inibire le altre attività inutili)( Koriat et al. 2006).

Il costrutto di metacognizione fu introdotto da Flavell negli anni ’70, indicando proprio la consapevolezza delle strategie riguardanti tutti i processi cognitivi, ovvero la memoria, l’apprendimento o l’attenzione.

Oggi il lavoro metacognitivo è utilizzato per tutti gli studenti che possiedono difficoltà di studio, e soprattutto sono stati scritti molti manuali per l’utilizzo di questa tecnica nelle disabilità intellettive lievi e moderate, nei disturbi specifici dell’apprendimento e nell’autismo ad alto funzionamento.

In Italia è stato studiato soprattutto dal gruppo MT di Padova, da cui scaturisce il Questionario metacognitivo per il metodo di studio. Il gruppo ha individuato diverse componenti importanti per l’apprendimento ed il rendimento scolastico, riguardanti: le strategie di apprendimento, gli stili cognitivi, la metacognizione e l’atteggiamento verso la scuola e lo studio (Cornoldi, De Beni, 2012). Secondo gli autori, in sintesi, per un buon metodo di studio bisogna prendere in considerazione i seguenti aspetti: la motivazione allo studio (coloro che studiano per se stessi e cercano di migliorarsi per soddisfazione personale hanno risultati migliori), l’organizzazione, l’elaborazione, la flessibilità e la partecipazione in classe. Dal punto di vista metacognitivo sono importanti la concentrazione, la selezione degli argomenti, la capacità di autovalutazione, le strategie di preparazione alle prove e la sensibilità metacognitiva. Infine è importante osservare il rapporto con i compagni, con gli insegnanti, la presenza di ansia durante l’orario scolastico, l’atteggiamento verso la scuola e l’impegno. Il manuale del gruppo MT, può essere un valido aiuto per fornire degli strumenti validi all’apprendimento scolastico.

Rendimento scolastico in adolescenza: fattori relazionali e sviluppo della personalità

L’adolescenza è un periodo fondamentale della crescita dell’individuo, sia dal punto di vista dello sviluppo cerebrale, sia per quanto riguarda la formazione delle personalità o per la maturazione delle funzioni esecutive. L’adolescenza è caratterizzata da alcune peculiarità che ne caratterizzano il comportamento come la ricerca di novità, il forte coinvolgimento sociale, la maggiore intensità delle emozioni, una forte componente di creatività (con lo sviluppo del pensiero concettuale e del ragionamento astratto), con una valorizzazione delle capacità del singolo ( Siegel, 2013). Si vive in questi anni lo sviluppo delle capacità di autoriflessione, della capacità morale, decisionale, di integrazione cerebrale. Gli studenti possono essere ancora troppo impulsivi per scegliere lo studio basandosi sui propri hobby o le amicizie, inoltre sono caratterizzati da quello che Siegel chiama pensiero iper-razionale, ovvero dalla ricerca del piacere, senza prendere in considerazione le conseguenze negative future del proprio comportamento. Le connessioni neurali aumentano in questi anni, e con queste le integrazioni tra le diverse aree cerebrali, garantendo lo sviluppo di nuove capacità e di grandi opportunità per quanto riguarda l’intervento clinico ed il miglioramento delle proprie capacità (Gogtay et al 2004; Ernst et al. 2015; Almed et al. 2015). Quando gli adolescenti non hanno un buon rendimento scolastico, si può andare ad osservare la loro motivazione allo studio, e l’effettiva quantità di tempo passato nello studio. Il dialogo è una componente fondamentale tra l’adulto e lo studente, per aiutarlo a comprendere l’importanza dello studio, considerando anche le grandi capacità cerebrali lungo quest’età, il cambiamento ed il miglioramento della propria razionalità e del rendimento scolastico, è sicuramente possibile.

L’adolescente si trova nel periodo della formazione della propria personalità, di cui è componente fondamentale l’Identità. Uno degli aspetti che si indaga per verificare lo sviluppo di un’Identità integrata, è proprio il rendimento scolastico. Una crisi d’identità, o la formazione di un’Organizzazione di Personalità patologica, si riflette nell’adolescenza anche attraverso l’oscillazione del rendimento scolastico, nella carente organizzazione allo studio, nella mancanza di interesse verso la scuola, sino anche all’abbandono scolastico (Ammaniti, Fontana, DiMarco, 2012). Alcuni possono sentirsi inadatti, troppo brutti, con una percezione di incompiutezza affettiva, relazionale ed erotica, tale da non permettergli di potersi presentare a scuola (Pietropolli Charmet, 2012) L’osservazione del rendimento scolastico può essere, quindi, un’indizio per lo psicologo di problematiche legate alla personalità, e può essere precursore anche possibili disturbi del comportamento alimentare (Montecchi, 2016), alla presenza di eventi stressanti nella vita dell’adolescente. In questi casi, solo la presenza di uno psicologo all’interno della scuola può garantire una corretta valutazione.

Aspetti relazionali

Per quello che riguardo le relazioni problematiche tra pari, viene riportata una correlazione tra il basso rendimento scolastico e vittime di bullismo, che per via di questa condizione non riescono ad applicarsi al meglio nello studio (Dazzi, Madeddu, 2009). Inoltre esistono innumerevoli esempi clinici di adolescenti con famiglie problematiche e basso rendimento scolastico. Ad esempio, Pietropolli Charmet e Riva (2001) descrivono alcuni casi di abbandono scolastico, di assenze ingiustificate o di mancanza di risultati positivi in termini di voti, come conseguenza di problematiche di tipo relazionale-emotivo con i propri genitori. Secondo Minuchin (2007), vi è un’impossibilità nel dividere la coppia individuo-famiglia che è in stretta interdipendenza, sia per quello che riguarda le relazioni problematiche, sia per quanto riguarda un eventuale processo di cambiamento, in cui è necessario un accordo tra entrambe le parti. Anche in questo caso lo psicologo potrebbe valutare la condizione familiare dello studente, ed un eventuale lavoro con tutti i componenti.

Un esempio diverso può essere quello di un ragazzo che lascia la scuola dopo aver subito un’umiliazione da parte di un insegnante (Pietropolli Charmet, 2009). Nella comunicazione tra adolescente e adulto è fondamentale che vi sia rispetto, con una valorizzazione e comprensione dei cambiamenti e delle decisioni che avvengono nei giovani. Questi dovrebbero sentirsi capiti dagli adulti, accettati anche quando commettono degli errori, così da potervi rimediare (Siegel, 2013). Una buona relazione con gli insegnanti si collega ad una maggiore motivazione nell’apprendimento scolastico ( Crosnoe, Johnson e Elder, 2004), quindi può risultare fondamentale anche l’osservazione ed il controllo di quest’ultimo aspetto.

Rendimento scolastico in adolescenza: fattori emotivi

Lo stretto collegamento tra emozioni e apprendimento viene fatto notare anche da Immordino-Yang (2016), osservando che i bambini orfani, cresciuti con una mancanza di interazioni sociali emotive soddisfacenti, mostravano anche minori capacità di apprendimento. In un altro esperimento, l’autrice ha dimostrato che coloro che apprendono meglio le strategie per risolvere alcuni problemi presentavano anche un’attivazione emotiva, osservata ad esempio tramite la sudorazione, a differenza di coloro che non mostravano questi aspetti fisiologici. In un terzo esperimento, venivano indotte delle emozioni ai partecipanti, raccontando alcune storie di carattere emotivo. Solo coloro in cui si verificava una maggiore attivazione dell’insula anteriore e del tronco encefalico mediale, mostravano in seguito le capacità di apprendimento da queste storie, dimostrando di essere in grado di prenderne spunto per le decisioni riguardo il proprio futuro. Queste aree cerebrali rappresentano un’attivazione inconsapevole e prettamente emotiva che si accompagna alla comprensione.

Apprendimento ed emozioni sono strettamente legate anche dal punto di vista neuroscientifico, anche se il soggetto non ne è consapevole; questo legame permette una maggiore flessibilità e generalizzazione di ciò che si impara.

Nelle scuole dovrebbe essere tenuto in considerazione che l’aspetto emotivo degli adolescenti è strettamente collegato al rendimento scolastico. Come abbiamo visto, le emozioni possono essere compromesse da uno sviluppo problematico della personalità, dalle relazioni con i pari, con i genitori, con gli insegnanti, oppure da eventi stressanti in generale poichè causano attivazioni di emozioni negative che possono compromettere la motivazione e l’apprendimento stesso. Osservare le emozioni degli studenti, cercare di curarne la relazione, e comprenderne le motivazioni, sono aspetti fondamentali per il rendimento scolastico, insieme all’acquisizione di un buon metodo di studio. Questi processi possono essere attivati con successo soltanto da una stretta collaborazione tra psicologi, insegnanti e la famiglia, elaborando insieme il miglior percorso di recupero tra quelli disponibili.

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