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Connessione tra ADHD e regolazione delle emozioni: prospettive teoriche e utilità nella pratica clinica

Non è ancora chiaro quale sia il legame tra disregolazione emotiva e ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) ma tale deficit è stato riscontrato in oltre il 40% di soggetti con ADHD.

Alberto Morandi e Silvia Locatelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) è una condizione caratterizzata da componenti di inattenzione, iperattività, impulsività tali da rendere problematico l’adattamento del paziente al contesto di vita (Lambruschi, 2014).

Attualmente vi sono difficoltà nella definizione dei criteri di diagnosi, nell’interpretazione e nell’individuazione dei sottotipi e delle diverse manifestazioni dei sintomi in relazione all’età (Lambruschi, 2014).

Nella versione V del DSM, alcuni sintomi di disattenzione e/o di iperattività-impulsività devono essere presenti prima dei 12 anni di età e devono causare menomazione nel funzionamento sociale del soggetto, scolastico e lavorativo (APA, 2012).

Sebbene alcuni bambini abbiano sintomi sia di disattenzione che di iperattività-impulsività, vi sono alcuni pazienti in cui può predominare l’una o l’altra caratteristica. In particolare nel DSM V si presentano i seguenti sottotipi: Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Disattenzione Predominante (6 o più sintomi di disattenzione, ma meno di 6 sintomi di iperattività-impulsività sono persistiti per almeno 6 mesi); Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Disattenzione Predominante più restrittivo del precedente (6 o più sintomi di disattenzione, non più di 2 sintomi del gruppo di iperattività-impulsività sono persistiti per almeno 6 mesi); Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Iperattività/Impulsività Predominante (6 o più sintomi di iperattività-impulsività, ma meno di 6 sintomi di disattenzione sono persistiti per almeno 6 mesi); Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo Combinato (6 o più sintomi di iperattività-impulsività e 6 o più sintomi di disattenzione sono persistiti per almeno 6 mesi)( APA, 2012).

Il manuale DSM V consente al clinico di orientare la propria valutazione attraverso la definizione di precisi comportamenti problema, tuttavia l’avverbio “spesso” accanto alla descrizione del comportamento (es. “il bambino spesso non riesce a prestare l’attenzione ai particolari”) lascia un ampio margine di arbitrarietà nella scelta dei criteri diagnostici (Lambruschi, 2014).

Indubbiamente le indicazioni diagnostiche offrono al clinico dei criteri statistico-quantitativi importanti nella decisione diagnostica, ma tuttavia l’assenza di un modello interpretativo del funzionamento psicologico dell’ADHD rende difficile l’inquadramento del disordine sia dal punto di vista cognitivo che comportamentale (Lambruschi, 2014).

Esistono diversi modelli di spiegazione del disturbo, i quali sembrano avvalorare l’ipotesi che la componente di regolazione emotiva meriti di essere tenuta in considerazione in ambito clinico e di ricerca.

Nel tempo sono state indagate numerose ipotesi per interpretare e spiegare il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD). Diversi modelli sembrano individuare i problemi principali del bambino ADHD nei processi di controllo, nel modulare le risorse attentive in relazione al compito e nell’inibire l’informazione.

Se ci si riferisce a una capacità di inibire una risposta programmata e del controllo dell’attenzione, in psicologia cognitiva si parla di sistemi di autoregolazione (self-regulation) o di autocontrollo.

Secondo Cornoldi (1999), termini come autoregolazione, autocontrollo, automonitoraggio indicano le capacità “che un organismo ha di controllare le sue azioni in relazione alle esigenze in cui si trova”. In particolare, si parla di autoregolazione indicando non solo la possibilità di un soggetto di regolare il proprio comportamento in relazione al contesto, ma anche la fine regolazione delle reazioni fisiologiche e psicologiche in relazione allo stimolo.

Ricerche hanno evidenziato la presenza di una compromissione nella regolazione delle emozioni in individui con ADHD. Infatti, è stato possibile osservare come bambini e adulti risultano deficitari nei report compilati dai genitori (Forslund 2016, Sjoewall, 2013; Spencer, 2011; Surman, 2013) e nei test comportamentali (Maegden, 2000).

Tuttavia, non è ancora chiaro quale sia il legame tra la regolazione emotiva e gli altri sintomi del disturbo. Infatti, è stato possibile osservare come la disregolazione non sia sempre presente nel campione clinico, nonostante la percentuale superi il 40% della popolazione patologica (Spencer, 2011).

Qual è il legame tra la disregolazione emotiva e i sintomi dell’ ADHD?

Diversi studi condotti fino ad oggi hanno prodotto dati apparentemente discordanti. Infatti sembrerebbe che la disregolazione emotiva possa essere un sintomo (Forslund, 2016; Sjoewall, 2013, Martel, 2009), precedentemente ignorato tra i criteri della diagnosi categoriale, poiché definibile in termini di dimensione temperamentale (Martel, 2009) o come una conseguenza di un deficit nelle funzioni esecutive (Barkley, 1997; Maedgen, 2000) e quindi una disfunzione nell’inibizione del controllo comportamentale, di stati fisiologici, e di rifocalizzazzione dell’attenzione (Barkley, 1997; Spencer, 2011; Surman, 2013).

Secondo la prima ipotesi, che spiega la disregolazione emotiva in termini di dimensione temperamentale, la regolazione emotiva è un processo dissociabile dall’esperienza emotiva di per sé (Martel, 2009). Inoltre, in base al sottotipo di ADHD, se inattento, iperattivo/impulsivo o combinato, l’espressione della regolazione emotiva avviene in modi diversi, classificabili secondo un modello che prende in considerazione dimensioni del temperamento. Secondo questo modello il sottotipo inattento è caratterizzato da un basso controllo dell’emozione, indipendentemente dall’intensità. Mentre il sottotipo impulsivo/iperattivo è caratterizzato invece da una forte esperienza ed espressione delle emozioni positive e negative (Martel, 2009). Inoltre, se si tiene conto delle dimensioni temperamentali i due sottotipi si distinguono ulteriormente in bassa coscienziosità per il sottotipo inattento, e sgradevolezza, apertura ed estroversione per il sottotipo impulsivo/iperattivo. Infatti, esistono ricerche che evidenziano come i due sottotipi sono dissociabili. Tali ricerche suggeriscono che la regolazione delle emozioni, l’emotività negativa e quella positiva siano dimensioni indipendenti da componenti di controllo cognitivo, come le funzioni esecutive (Sjoewall, 2013; Forslund, 2016).

In questi ultimi lavori il controllo delle emozioni è stato misurato attraverso il questionario delle emozioni di Rydell (valutazione compilata dai genitori), mentre le funzioni esecutive sono state misurate attraverso compiti cognitivi (ad esempio test di Stroop e compiti di go/no-go). Entrambi i lavori hanno riportato come i dati misurati al test di Rydell e ai compiti per le funzioni esecutive non siano in relazione tra loro, ma di come invece contribuiscono in modo indipendente al disturbo.

Ad esempio, nello studio di Sjoewall e collaboratori (2013) il 16% di bambini con ADHD presenta deficit nella regolazione emotiva ma non nel riconoscimento delle stesse. In particolare, gli stessi bambini con deficit nella regolazione delle emozioni non risultano deficitari nelle funzioni esecutive. Un ulteriore 5% di bambini che hanno partecipato nello studio di Sjoewall e collaboratori (2013) sono risultati deficitari nella regolazione emotiva e nel riconoscimento delle emozioni ma non nelle funzioni esecutive (si veda la figura 1B).

La seconda ipotesi, che vede la disregolazione emotiva come una conseguenza del deficit nelle funzioni esecutive, è un’estensione del modello di Barkley (1997). Tale teoria non tiene conto di elementi temperamentali e ipotizza che il controllo dell’espressione emotiva è soggetto al controllo cognitivo.

Barkley (1997) mette in relazione la difficoltà di inibizione di un comportamento con altre funzioni esecutive (come la memoria di lavoro, il livello motivazionale in relazione al compito, quello di attivazione necessario per lo svolgimento delle consegne, il linguaggio interiore, la capacità di avvalersi dell’errore, processi generalmente indicati all’interno delle funzioni esecutive). L’ipotesi che l’ ADHD sia legato ad un deficit delle funzioni esecutive è sostenuta da ricercatori che hanno notato una certa somiglianza tra comportamenti di bambini DDAI e disordini comportamentali e/o attentivi, evidenziati da pazienti con lesioni prefrontali (Pennington & Ozonoff, 1996; Shallice, Marzocchi e altri, 2002).

Barkley (1997) ha indagato il ruolo delle funzioni esecutive nell’ ADHD proponendo un modello di spiegazione. Parte del modello prende in considerazione l’auto-regolazione degli affetti-motivazione-arousal (Self-Regulation of Affect-Motivation-Arousal). Il modello fa delle previsioni su quali siano le mancanze nell’inibizione che possono spiegare le difficoltà degli individui con ADHD: (a) una maggiore reattività emotiva a eventi emotivamente pregnanti; (b) una minore reattività emotiva anticipatoria in previsione di eventi emotivamente pregnanti (in prospettiva di una diminuzione della capacità di previsione); (c) una minore abilità di agire sulle proprie emozioni rivolte agli altri; (d) una minore capacità di indurre e regolare stati emotivi, motivazionali e di arousal che sono al servizio del comportamento diretto ad uno scopo (all’aumentare del tempo che passa verso lo obiettivo aumenta l’incapacità di sostenere arousal e motivazione verso quell’obiettivo); (e) una maggiore dipendenza dalle fonti esterne che guidano l’affetto, la motivazione e l’arousal che fanno parte di un contesto che determina il grado dello sforzo dell’azione diretta all’obiettivo (Barkley, 1997).

A partire dal modello di Barkley (1997) sono seguite ricerche che hanno hanno ipotizzato che la disregolazione emotiva nell’ ADHD possa essere concettualizzata come “deficient emotional self regulation” (DESR) riferendosi a: 1) defict nell’autoregolazione dell’arousal causato da emozioni forti, 2) difficoltà nell’inibire il comportamento inappropriato in risposta a emozioni negative, 3) problemi nel rifocalizzare l’attenzione in seguito a emozioni forti sia positive che negative e 4) disorganizzazione del comportamento conseguente all’attivazione emotiva (Spencer, 2011; Surman, 2013). Quest’ultima è una definizione molto simile a quella utilizzata da Martel (2009). Tuttavia, questi autori si sono concentrati in primo luogo nel distinguere la disregolazione emotiva in altri disturbi, come ad esempio la depressione, l’ansia e il disturbo bipolare (Spencer, 2011). Inoltre, tali autori hanno voluto indagare come la disregolazione emotiva influenzi negativamente il funzionamento sociale in pazienti con ADHD (Surman, 2013).

I due modelli esplicativi presentati nel presente articolo non si escludono l’uno con l’altro, ma possono invece essere visti come complementari. Infatti, in un lavoro di Steinberg e Drabick del 2015 viene introdotto il concetto di “effortfull control” (“controllo volontario impegnato”), secondo cui temperamento e regolazione emotiva influenzano i meccanismi che regolano e inibiscono la risposta automatica dominante a uno stimolo, modificando volontariamente attenzione e comportamento. L’inibizione appare in tale ottica una sfaccettatura dell’effortful control, e cioè quanto un bambino è abile nel sopprimere un comportamento inadeguato in un determinato contesto, che non è correlata solo con il controllo comportamentale, ma appare invece correlata soprattutto con il controllo emotivo. Secondo le autrici l’inibizione e di conseguenza il controllo del proprio temperamento sono delle componenti delle funzioni esecutive (Steinberg & Drabick, 2015). Tale abilità sarebbe appresa attraverso l’osservazione e la regolazione del comportamento da parte dei genitori (Steinberg & Drabick, 2015). Infatti, un’ipotesi all’origine del disturbo potrebbe essere un mancato apprendimento della mediazione verbale nello sviluppo dell’autoregolazione. Ovvero, non viene prestata l’opportuna attenzione alle istruzioni dei genitori e pertanto tali comandi non vengono interiorizzati e fatti propri dal bambino, non imparando quindi la necessaria autoregolazione del proprio comportamento (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

Il modello della scuola russa: Vygotskij e Lurija

Già in passato Vygotskij (1962) e Lurija (1961) avevano osservato come il meccanismo dell’autoregolazione si costituirebbe in seguito all’aiuto offerto dalle regole sociali e dallo sviluppo del linguaggio. Secondo la prospettiva di questi autori potremmo indicare nelle seguenti fasi lo sviluppo dell’autoregolazione: a) il bambino è controllato dai comandi verbali degli adulti che svolgono un’azione inibitoria ed eccitatoria della sua azione; b) i segnali verbali degli adulti vengono interiorizzati dal bambino e associati ad auto-comandi; c) verso i 5-6 anni, le istruzioni una volta interiorizzate vengono automatizzate e differenziate a seconda dei contesti in cui viene la rievocazione: è in questa fase che il bambino comincia a servirsi di un “linguaggio interno” che gli serve da guida nell’applicare un piano d’azione.

In questa prospettiva il modello della scuola russa (Vygotskij, 1962; Lurija, 1961) consente di interpretare numerose difficoltà del bambino ADHD (Cornoldi, De Meo, Ofredi & Vio, 2001).

ADHD e stile di attaccamento

Un’ulteriore causa delle difficoltà di individui con ADHD può essere individuata nella relazione genitoriale, ovvero nello stile di attaccamento che si instaura tra bambino e caregiver. Le diverse configurazioni di attaccamento che si strutturano a partire dalla prima infanzia e poi si articolano e si differenziano in età prescolare e scolare, possono essere viste sia come pattern comportamentali interattivi osservabili, ma anche soprattutto come modalità di regolazione emotiva: all’interno dei legami d’attaccamento si imparano a riconoscere, articolare, dare un nome e regolare gli stati emozionali e le relative disposizioni comportamentali; specifici contesti di sviluppo caratterizzati da particolari forme di insicurezza che portano a specifiche disregolazioni emotive (Lambruschi, 2014).

Esperienze diadiche (resistenti), come connotate da discontinuità della risposta materna, portano all’opposto ad uno stile di regolazione emotiva iperattivante, come forte attivazione neurofisiologica e segnalazione emotiva e comportamentale, talora anche drammatica e teatrale. Altre (disorganizzate), in cui il contesto di accudimento e cure è connotato da elevati livelli di pericolo e minaccia al Sé, possono portare invece a caoticità, contraddittorietà, e forte instabilità nell’espressività emotiva (Lambruschi, 2014).

Clarke, Ungerer e altri (2002) hanno confrontato due gruppi di bambini (con e senza ADHD) testando i modelli operativi interni relativi all’attaccamento attraverso il SAT (Separation Anxiety Test), la Self Interview e il Family Drawning, trovando una forte correlazione tra ADHD e uno stile di attaccamento insicuro. Anche Pinto, Turton e altri (2006) hanno rintracciato una correlazione significativa tra sintomi dell’ ADHD rilevati dagli insegnanti e significativi livelli di attaccamento disorganizzato. Green, Stanley e Peters (2007) hanno investigato il rapporto tra attaccamento e ADHD e hanno osservato che la diagnosi è significativamente associata a più elevati livelli di disorganizzazione dell’attaccamento.

Da questi studi è possibile ipotizzare che quando il deficit autoregolativo di base va a incontrarsi con quote di sensibilità e responsività sufficientemente ampie, le mancanze o gli eccessi di segnalazione del bambino avranno più probabilità di essere compensati o contenuti dal genitore, con una possibile attenuazione del quadro comportamentale e attentivo del bambino.
Si può immaginare un’amplificazione del disturbo e una maggiore resistenza al trattamento, laddove il comportamento scarsamente regolato del bambino vada ad incontrarsi con sponde relazionali insicure (Lambruschi, 2014).

Se un bambino è immerso in un funzionamento diadico ambivalente, l’iperattività e la distraibilità possono facilmente assumere una funzione coercitiva e di controllo nei confronti della figura di attaccamento. Mentre, in uno sviluppo evitante è più probabile che i sintomi si esprimano come un’esasperazione dell’utilizzo dell’esplorazione compulsiva e come “distrattore”, caratteristica forma di regolazione emotiva di questi pattern (Lambruschi, 2014).

Lo stile genitoriale come fattore di protezione o di rischio

Grazie alle osservazioni riportate è possibile constatare quanto la regolazione emotiva sia influenzata quindi dalle funzioni esecutive, dal temperamento e dai modelli genitoriali. Infatti, secondo la prospettiva di Steinberg e Drabick, derivante dalla psicologia dello sviluppo, al di là di quale siano i fattori psicologici alla base di una disregolazione emotiva, quest’ultima è influenzata da fattori relazionali appresi nel nucleo familiare.

Lo stile genitoriale può essere sia un fattore di resilienza, supportando il bambino nell’esternalizzazione delle emozioni, oppure un fattore di rischio. Infatti, appurato che il bambino abbia un disturbo ADHD e anche una disregolazione emotiva, il supporto dei genitori nel regolare le proprie emozioni fa sì che il bambino non sviluppi disturbi in comorbidità come il disturbo della condotta o il disturbo oppositivo provocatorio (Steinberg & Drabick, 2015). Ad esempio, a livello terapeutico, una delle proposte del parent training per genitori di bambini con ADHD si basa su interventi di coping emotivo: ovvero l’apprendimento per imitazione di un modello che di fronte a situazioni complesse non nasconde la propria emotività, ma si sforza di trovare la soluzione al problema, esplicitando le strategie che vorrebbe attuare (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

Diversamente uno stile genitoriale autoritario con modalità aggressive è uno dei fattori che aumenta la disregolazione e il rischio di incorrere in altri disturbi. A volte i genitori di bambini con ADHD hanno agiti aggressivi nel momento in cui cercano di far rispettare delle regole. Tale espressione emotiva esacerba il comportamento disfunzionale (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).
In particolare, bambini e adolescenti con un basso controllo inibitorio (coerente con le caratteristiche comportamentali del disturbo ADHD) potrebbero mostrare sia problemi internalizzati che esternalizzati. Ad esempio, tali bambini potrebbero avere difficoltà a attenuare pensieri negativi (come la ruminazione), ed esibire un eccessivo ritiro negativo, aumentando il rischio di depressione (Steinberg & Drabick, 2015). Se lo stesso bambino ha dei genitori che rispondono a questo comportamento con rabbia, o comunque con un feedback negativo, appare ovvio come il rischio depressivo possa aumentare, o in alternativa come possa emergere un disturbo della condotta o degli agiti impulsivi (Steinberg & Drabick, 2015).

Può esserci una trasmissione intergenerazionale?

In tale prospettiva le relazioni familiari influenzano la regolazione emotiva del bambino con ADHD. Studi hanno cercato di verificare se la disregolazione emotiva possa essere non solo influenzata ma addirittura trasmessa. A questo scopo è stato condotto uno studio da Surman e collaboratori (2011) per testare questa ipotesi. Attraverso quello che è stato uno studio familiare, si è voluto verificare se in genitori con ADHD fosse presente lo stesso disturbo nei figli. In particolare, i ricercatori hanno verificato se l’ ADHD e la disregolazione emotiva presenti nei genitori fossero presenti anche nei figli.

I risultati ottenuti mostrano come la disregolazione emotiva appartenga solo a un sottotipo di disturbo ADHD perciò è possibile affermare che il disturbo ADHD sembra essere trasmesso indipendentemente dalla presenza o meno di un deficit nella regolazione emotiva, mentre quest’ultima era presente solo in figli di genitori con ADHD e disregolazione (Surman, 2011).

Gli autori hanno di conseguenza ipotizzato che la disregolazione sia un effetto secondario nell’ ADHD. Inoltre, considerano la disregolazione secondaria all’ ADHD nella condizione in cui sia manifestata nel contesto familiare: l’apprendimento attraverso le regole sociali disfunzionali potrebbe influenzare la normale curva di sviluppo della regolazione emotiva e questo effetto potrebbe essere ancora maggiore per bambini con ADHD avendo genitori con ADHD e disregolazione emotiva (Surman, 2011).

ADHD, disregolazione emotiva e disturbi dell’umore

I lavori fino a ora presentati riguardano la regolazione emotiva dal punto di vista cognitivo, temperamentale e familiare. Ciò che accomuna i lavori sopra descritti è l’influenza di questi tre fattori nella mediazione della regolazione emotiva nello sviluppo di quadri complessi del disturbo in comorbidità con il disturbo della condotta, il disturbo oppositivo provocatorio e i disturbi dell’umore.

Infatti, potrebbero essere presenti differenti manifestazioni emotive a seconda del sottotipo di ADHD. Nel sottotipo disattento sono più frequenti disturbi dell’umore, appaiono più ansiosi, timidi e ritirati socialmente. Diversamente nel sottotipo iperattivo-impulsivo e combinato vi è la presenza di comportamenti aggressivi. Quest’ultimi si oppongono più frequentemente alle richieste, ricevendo addirittura una seconda diagnosi di disturbo della condotta e di disturbo oppositivo-provocatorio (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

In particolare, è stato proposto come distinguendo tra ADHD sottotipo inattento e sottotipo impulsivo-iperattivo, e distinguendo tra controllo dell’emozione e l’esperienza di forti emozioni positive o negative, vi siano manifestazioni di comorbidità diverse (Martel, 2009). Secondo tale prospettiva il controllo dell’emozione sarebbe maggiormente associato al sottotipo inattento e al disturbo della condotta. Le forti esperienze emotive sarebbero invece associate al sottotipo impulsivo-iperattivo e al disturbo oppositivo-provocatorio (Martel, 2009).

Tuttavia, sono state proposte ulteriori distinzioni. Ad esempio, è stato possibile osservare una diversa disregolazione delle emozioni positive e di quelle negative. È stato possibile osservare come la prima è un fattore di rischio specifico del disturbo ADHD, mentre la seconda è maggiormente associata al disturbo della condotta (Forslund, 2016). Il fatto che bambini con ADHD manifestano anche una forte componente di emotività negativa potrebbe essere dovuta a una concomitante presenza del disturbo della condotta (Forslund, 2016).

Inoltre, in un campione di pazienti adulti ADHD, è stato osservato come la disregolazione emotiva estrema fosse sia parte del disturbo ADHD, ma anche in pazienti con una storia di concomitante disturbo oppositivo-provocatorio (Surman, 2013). Il fatto che la disregolazione fosse presente sia in pazienti con solo ADHD che in quelli con ADHD e disturbo oppositivo-provocatorio ha portato gli autori a proporre come la disregolazione sia un fattore che possa presupporre un concomitante disturbo oppositivo-provocatorio ma non il contrario, in quanto esistono quadri diagnostici di disturbo ADHD con disregolazione senza disturbo oppositivo-provocatorio (Surman, 2013).

Per di più, come già indicato sopra, individui con ADHD possono anche presentare disturbi dell’umore secondari.

Ma come si può distinguere la disregolazione emotiva da un disturbo dell’umore?

Sia nella disregolazione emotiva, come nei disturbi dell’umore, sono presenti forti esperienze emotive, positive (disturbo bipolare), negative (disturbi d’ansia, depressivi e bipolare), forte irritabilità e difficoltà nel controllo dell’arousal. Tuttavia, solo l’ ADHD e non i disturbi dell’umore avrebbero un deficit nel controllo delle emozioni e non solo una forte emotività (Spencer, 2011).

Spencer e collaboratori (2011) hanno svolto uno studio che consentisse di poter distinguere disturbi dell’umore e disregolazione (da un punto di vista quantitativo piuttosto che qualitativo). Per raggiungere questo scopo, gli autori proposero di utilizzare un test carta e matita, il Child Behavior Check List (CBCL). Dallo studio è emerso che punteggi maggiori di due deviazioni standard dalla media nelle sotto scale Ansia/Depressione, Aggressività e Attenzione sono indicativi di un disturbo dell’umore, mentre punteggi che si discostano tra una e due deviazioni standard dalla media sono invece indice di disregolazione emotiva in bambini con ADHD (Spencer, 2011).

Il contributo di questi ultimi lavori è fondamentale per il trattamento del disturbo, in quanto identificare la presenza o meno di un disturbo dell’umore è necessario per impostare sia la terapia farmacologica che quella psicologica. Infatti, Spencer e collaboratori (2011) sottolineano come la terapia farmacologica nel disturbo bipolare quando esso non è presente potrebbe avere effetti non solo controproducenti, ma addirittura esacerbare i sintomi del disturbo ADHD.

Difficoltà nella regolazione emotiva in bambini con ADHD: conseguenze sul funzionamento sociale

Inoltre, l’ultimo lavoro citato ha mostrato come la disregolazione emotiva influenzi negativamente il funzionamento sociale dei bambini con ADHD. Nello studio proposto da Spencer e collaboratori (2011), oltre alla regolazione emotiva sono state misurate anche la regolazione sociale del comportamento, il funzionamento scolastico e la gravità dei conflitti familiari. Dallo studio è emerso come la disregolazione emotiva possa spiegare una porzione significativa di difficoltà in questi domini.

Infatti, tra i sintomi secondari dell’ ADHD si possono riscontrare difficoltà relazionali, in quanto i bambini iperattivi diventano maggiormente contestatori e incapaci di comunicare in modo efficace con i pari (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

In particolare, l’ipotesi che alla base del malfunzionamento sociale vi sia una difficoltà nella gestione delle emozioni è stata testata in un lavoro precedente di Maegden e collaboratori (2000) in cui è stato esaminato come la reattività emotiva influenzi le abilità sociali nel sottotipo inattento di bambini con ADHD, comparando i risultati con un gruppo di bambini con sottotipo ADHD combinato e normali. Nell’esperimento la regolazione emotiva venne misurata secondo il paradigma di Ekman e Friesen delle display rules: regole non scritte che descrivono come dovrebbe essere espressa un’emozione in un certo contesto sociale. Al termine di questa prova veniva dato ai partecipanti un premio deludente a seguito di una performance buona (Maegden, 2000).
I risultati mostrarono che bambini con ADHD sottotipo combinato manifestavano reazioni emotive più intense (sia positive che negative) rispetto agli altri due gruppi. Questo risultato è in linea con i lavori riportati precedentemente (Forslund, 2016; Martel, 2009, Vio, Marzocchi & Offredi, 2015; Spencer, 2011). In particolare, nel momento in cui fosse ragguardevole non mostrare disappunto alla presentazione di un premio deludente, i bambini con ADHD (per entrambi i sottotipi) tentarono di regolare l’espressività emotiva, pur essendo meno efficaci dei controlli, come dimostrato da un trend (comunque non significativo) nei dati. Quindi sembrerebbe che i bambini ADHD conoscano quella che sia la regola sociale più adatta, pur faticando nell’applicarla (Maegden, 2000).

Dato che la disregolazione influenza fortemente, e direttamente, il funzionamento sociale dei bambini è necessario tenerne conto durante il trattamento del disturbo ADHD. Soprattutto poiché vi sono evidenze come il malfunzionamento sociale non si limiti all’infanzia e all’adolescenza, ma si protragga anche nell’età adulta. Infatti, si è visto come in adulti ADHD con deficit nella regolazione emotiva vi sia una più bassa qualità della vita e un peggiore adattamento sociale (maggior numero di incidenti stradali e arresti) (Spencer, 2013).

In conclusione

Dai lavori qui riportati, emerge come la regolazione emotiva sia una componente del disturbo ADHD che non può essere sottovalutata. Infatti, a livello teorico porre attenzione a questa dimensione aiuta a comprendere la natura del disturbo e la sua associazione con altre condizioni, come altri disturbi del comportamento dirompente e disturbi dell’umore.

Inoltre, nella pratica clinica, indagare questa componente può indirizzare il terapeuta a valutare il comportamento in relazione alla storia familiare e alle relazioni attuali con genitori e pari. Non solo la disregolazione delle emozioni potrebbe avere origine da come i genitori di un bambino affetto da ADHD si rapportano con quest’ultimo e intervenire su questo aspetto potrebbe prevenire il decorso del disturbo, evitando la comorbidità con altre condizioni.

Un altro aspetto importante riguarda il funzionamento sociale e relazionale degli individui affetti da ADHD. Infatti, si è visto come la regolazione emotiva abbia un ruolo diretto sul comportamento sociale disfunzionale, che si protrae anche nell’età adulta e che a sua volta può essere trasmesso alla generazione successiva.

In conclusione, grazie al crescente numero di dati riportati, la disregolazione emotiva è una componente importante nel disturbo ADHD che non può essere sottovalutata nei trattamenti poiché influenza fortemente gli individui che presentano tale problematica.

Lo psicoterapeuta in bilico (2018) di G. Salvatore – Una recensione o, piuttosto, il resoconto di una serata al pub

Cresci insieme a un collega. Lui è persino convinto che tu sia stato il suo mentore, glielo lasci credere. Ci sviluppi insieme modelli di psicoterapia, ci metti su studi professionali, ci scrivi insieme volumi tecnici. Poi vai in birreria a San Lorenzo con la lucida consapevolezza che te lo ritrovi narratore.

 

Non vai lì per mandar giù una birra artigianale dopo l’altra cercando di cancellare la delusione: ma come, era una persona seria? Ci vai perché presenta il suo primo romanzo. E ti fa piacere! A quel punto la birra è strumento di coesione sociale, se mi passate la definizione.

La saletta che ci è stata riservata si riempie rapidamente. C’è gente che rimane in piedi. Penso: figo. Dal posto in prima fila che l’autore ha riservato a me e a un pugno di colleghi del Centro TMI, sale il brusio. Il libro si chiama Lo psicoterapeuta in bilico e il pubblico rumoreggia: Cosa gli sarà passato nella mente scrivendolo? Siamo tutti curiosi. Io credo di saperlo, Giampaolo mi fece leggere il libro anni fa, in una versione precedente.

Ha organizzato tutto la collega, brava, Chiara Gambino, occhi azzurri, nata per stare sul palco, maestra di cerimonie che se la vedono in Rai il posto di presentatore del prossimo San Remo è preso. Il contrasto tra la naturalezza con cui Chiara si muove sul palco e l’impaccio di Giampaolo già vale la serata. Se non avete presente il concetto di ‘timidezza corretta’, avreste dovuto esserci, capivate un sacco di cose.

Però sul palco, come tutti i timidi corretti, Giampaolo tira fuori il suo senso dello humour campano. Si ride.

Poi le cose diventano serie. Lo psicoterapeuta in bilico è la storia di un uomo che suo malgrado è completamente identificato con il suo lavoro. Si muove nelle relazioni familiari e professionali con una specie di torpore, di indolenza che cerca di contrastare con un cinismo divertito. Nelle sue esperienze di relazione, con sua moglie, con sua figlia, con i pazienti, con i suoi allievi, si miscelano estraneità e coinvolgimento commosso. La sua esistenza in fondo minima, routinaria, colpita da ondate di nostalgia per il passato, viene interrotta dall’incontro con due personaggi: il primo è Monica. Il gioco che si crea tra Monica e il protagonista è a metà tra seduzione reciproca e competizione per il rango. Competizione per il rango è quel sistema motivazionale descritto dalla psicologia evoluzionista. In Italia ne ha parlato tanto Gianni Liotti insieme ai suoi colleghi. Si tratta di fare a gara per chi accede a risorse limitate. Chi sta più in alto sulla scala sociale mangia prima e si accoppia col partner più fico. Il protagonista e Monica gareggiano e si seducono, uno scontro simbolico. Di quelli che di solito predicono catastrofi.

L’altro personaggio è un paziente difficile, problematico ma di grande umanità e intelligenza. Questi due personaggi in un certo senso smascherano il protagonista, lo obbligano a guardarsi allo specchio, ne smontano pezzo per pezzo le sovrastrutture psicologiche e ne liberano la parte più vulnerabile e autentica.

La trama, dice l’autore, è quasi un pretesto per dialogare con sé stesso. Per Giampaolo il tema dell’inganno è centrale. Lo ritiene fisiologico. Lo pratichiamo, lo subiamo, continuamente. Anche quando ci raccontiamo cercando di farlo con la massima sincerità, nascondiamo parti di noi, e mai le stesse parti alle diverse persone che ci circondano.

Si crea una certa tensione in sala: l’idea dell’inganno connaturato alle relazioni è disturbante. Giampaolo dice più o meno che la nostra autobiografia è fatta di frammenti irregolari, che quando crediamo di poter raccontare la nostra vita in maniera precisa a fatica ci rendiamo conto che sono numerose le zone d’ombra, le cose che non sappiamo spiegare, le ragioni delle scelte e delle opportunità mancate. E forse ce la raccontiamo e la raccontiamo agli altri. Il protagonista seduce Monica o ne è sedotto. È amore o gioco di ruoli? Desiderio o rispecchiamento narcisistico? O forse, semplicemente, un antidoto al vuoto esistenziale?

La scrittura di Giampaolo funziona, e spesso è una botta nello stomaco. A tratti spiritosa, leggera, a tratti acida, aspra, al vetriolo. Vuole portare il lettore in zone dell’animo umano scomode da abitare.

La lettura di qualche brano fa da interludio alle spiegazioni di Giampaolo e al dialogo con il pubblico. Chiara chiama l’attore Christian Galizia, alto che quasi non ci sta nella nicchia che è il palco, bella voce. Incisivo, trascinante, legge il prologo:

Avevo scelto di fare lo psichiatra perché, quando mancava solo un anno alla laurea in medicina, mi ero reso conto che non ero assolutamente tagliato per fare il medico. Avevo dimenticato la medicina già mentre la studiavo. Questo perché anche se avevo superato gli esami, spesso brillantemente, non avevo mai messo piede a lezione o nei reparti. Le ore di lezione ed esercitazione le trascorrevo sui libri. Ma dove si impara veramente la medicina, manco a parlarne… Tra mezz’ora devi essere in aula; tutto quello che potevi fare l’hai fatto; testa alta, perché hai fatto del tuo meglio.

Guai a confessare a me stesso che il mio meglio avrebbe potuto e dovuto essere andare a lezione e in reparto. Il che, tra l’altro, mi avrebbe messo in condizione di superare l’esame con molta meno fatica, e di imparare davvero. Senza dimenticare. Perché quando imparare consiste in un’esperienza, non dimentichi. Invece, quando imparare è come facevo io, cioè scopare con i libri mettendoci per un po’ il sentimento, non vedi l’ora di lasciare le pagine vecchie perché hai bisogno di pagine nuove da possedere. Di spruzzare colori di evidenziatore come fosse sperma. Insomma, sei anni di medicina, quattro di specializzazione e altri quattro di training in psicoterapia. Tutto questo tempo, a conti fatti, solo per acquisire il porto d’armi su tre sillabe. “Ca-pi-sco”. Sì, perché fare lo psichiatra, e soprattutto lo psicoterapeuta, significa sostanzialmente che quando dici “capisco”, questa parola ha un impatto di gran lunga maggiore di quando la dice chiunque altro. Mentre la maggior parte delle persone di fronte alla sofferenza altrui tace o dice sciocchezze, io avrei sfoderato al momento opportuno il mio “capisco”. E avrei imparato ad avvertire nettamente – come un fremito lungo la colonna vertebrale che negli anni si sarebbe gradualmente attenuato per lasciare spazio a una consapevolezza sempre più algida – come quelle tre sillabe riuscissero a distendere i nervi del mio interlocutore. Per non parlare del potere terribile delle enfatizzazioni rafforzative: “certo, capisco”. “Capisco, capisco”. “Mi creda, capisco”. “Posso comprendere”. “Credo veramente di comprendere”. E poi, l’arma totale.

L’uzi emotivo silenziato. Dire in modo convincente a chi sta soffrendo come un cane, quasi sempre senza sapere perché, che in ciò che prova, in ciò che desidera, in ciò che pensa, e in ciò che fa, c’è sempre qualcosa di universalmente condivisibile

Che significa in bilico? Gli chiedono. Lui spiega che siamo contrasti viventi. Continuamente sospesi, tragicomicamente dicotomici.

Come Giampaolo sul palco viene da pensare: metà psicoterapeuta intellettuale, lo prendo sempre in giro perché in campo scientifico scriverebbe come i fenomenologi. Traduco in italiano: tende a usare parole con minimo cinque sillabe che di solito risultano incomprensibili. Autonoetico. Idiosincratico. L’altra metà è una sorta di Massimo Troisi, ma più muscoloso. In bilico tra Heidegger e La Smorfia.

Giampaolo mi frega. Ero venuto ad ascoltarlo, a essere fiero di lui e, naturalmente, a bere con gli amici. Invece mi invita a salire sul palco. Mica mi aveva avvisato!

In bilico tra il mandarlo a quel paese ed essere contento, salgo.

Chiara Gambino mi fa domande serie alle quali rifiuto di rispondere! Non si parla di psicoterapia stasera, ma di narrazione replico in modo definitivo. Chiara risponde qualcosa che suona come: Ah. Però è d’accordo.

Sotto la luce dei riflettori ci deve essere la scrittura di Giampaolo. Una roba che picchia dritto al fegato, spietata, come una difesa dai colpi che la vita ti assesta sul naso e tu rispondi menando più duro. E poi fa anche ridere, umorismo napoletano/salernitano DOP. Definisco lo stile di Giampaolo una miscela di Quentin Tarantino e Un posto al sole, il pubblico ride. Gli chiedo a quali scrittori si sia ispirato. E lui risponde a tono: Ho compiuto un lungo viaggio stilistico da Proust a Nino D’angelo, però non l’ultimo, quello anni ’80, quello col caschetto. Il pubblico ride ancora di più.

La domanda ripetuta, sembra che il pubblico non voglia sapere altro: Quanto c’è di te in questo libro?. Glielo chiedono in diverse declinazioni quattro volte. La risposta tenace: Le emozioni sono vere, le storie no.

Uno psicoterapeuta dosa gli autosvelamenti con sapienza, uno scrittore può mentire a piacere. Il mestiere glielo permette.

Body Shape: come la forma del corpo influenza le nostre prime impressioni

Il primo incontro con un’altra persona è un momento cruciale. Quanto ci guida la prima impressione, e soprattutto quanto è difficile cambiarla! Ma quali sono gli aspetti che guidano la nostra valutazione?

 

Le “prime impressioni” sono delle sensazioni immediate che si creano quando vediamo per la prima volta qualcosa o qualcuno. Sono spesso influenzate da una serie di fattori come, nel caso delle persone, il loro modo di comunicare, l’estetica, il modo di vestire.

Secondo una ricerca recente, tra le caratteristiche che contribuiscono alla formazione delle prime impressioni ci sarebbe la forma fisica. L’autrice Hu afferma:

La nostra ricerca mostra che le persone deducono la personalità di un’altra persona semplicemente guardando la forma del loro corpo.

È importante essere a conoscenza del fatto che questo stereotipo condiziona il modo in cui giudichiamo e interagiamo con un’altra persona.

Lo studio

Le ricerche precedenti su questo tema avevano posto l’attenzione sull’importanza dei volti e su come questi contribuiscano alla formazione delle prime impressioni, ma ben pochi studi hanno studiato la forma del corpo.

Nel presente studio si è pertanto cercato di andare oltre per comprendere che tipo di giudizio si forma dopo aver visto il corpo di una persona.

Nello studio sono stati ricreati dei modelli che rappresentavano dei corpi reali, di cui 70 erano di donne e 70 di uomini. I valori per la costruzione dei modelli sono stati selezionati in modo casuale lungo 10 dimensioni corporee differenti.

I partecipanti, 76 ragazzi universitari, hanno osservato i corpi da due differenti punti ed hanno poi selezionato per ogni corpo degli aggettivi provenienti da una lista di 30 parole. La lista era stata formata seguendo le dimensioni di personalità del modello Big Five (un modello psicologico che suddivide la personalità in cinque dimensioni).

Dai risultati è emerso che:

  • Modelli che raffiguravano corpi più pesanti sono stati associati a parole più negative, come pigrizia e non curanza, mentre corpi più snelli a parole positive, come essere sicuri di sé ed entusiasti;
  • I corpi che rappresentavano le forme classiche del corpo femminile (fianchi larghi) e del corpo maschile (spalle larghe) erano associati a termini più attivi come irritabile, estroverso;
  • Corpi con forme più rettangolari erano associati invece a termini più passivi, come timido, affidabile.

I ricercatori dopo lo studio erano in grado di predire che parole sarebbero state scelte in base alla forma del corpo.

I risultati hanno mostrato come, oltre al peso e all’altezza, le forme di un corpo giocano un ruolo fondamentale nella formazione delle prime impressioni.

Sebbene sia una tendenza universale, quanto la forma del corpo incida sul nostro giudizio dipende anche dalla cultura di appartenenza, dall’etnia e anche dall’età.

L’autrice Hu conclude:

Questi risultati sono un nuovo strato da aggiungere alla scienza che studia la formazione delle prime impressioni e rivelano quanto il giudicare sia un processo complicato e basato su preconcetti.

Cosa resta oggi dei nostri bisogni individuali? Ecco alcuni semplici consigli per gestire lo stress e tornare a riappropriarci del nostro benessere

A lungo andare situazioni di stress cronico possono recare danni permanenti alla salute dell’individuo, ciò appare particolarmente evidente nelle condizioni di burnout ed esaurimento emotivo. Diventa dunque importante chiarire quali sono i sintomi, le cause e le modalità di trattamento di queste condizioni.

 

“Riposati ogni tanto; un campo che ha riposato dà un raccolto abbondante”. Ignoriamo continuamente questo prezioso consiglio di Ovidio, specialmente nei tempi odierni, dove siamo chiamati a “dare” oltre ogni limite, costretti ad agire come robot e dove la paura di essere rimpiazzati (sia a lavoro che nelle relazioni) ha la meglio su ogni bisogno individuale.

In questo mondo, competitivo e pretenzioso, dobbiamo mostrarci forti, instancabili e pronti ad appagare le esigenze altrui. Dimenticando di avere dei bisogni, mettiamo da parte noi stessi, ci facciamo carico di responsabilità, conflitti e preoccupazioni senza poi ricevere attenzioni, riconoscimenti e affetto sufficienti. Di conseguenza, ci stressiamo.

Un lungo periodo di stress può portare ad un esaurimento emotivo: ci si sente, cioè, emotivamente logorati ed esausti. Qualcuno può percepire di non avere alcun potere o controllo su ciò che succede nella propria vita, qualcun altro si potrebbe sentire intrappolato o bloccato in una determinata situazione (Legg, 2018).

Conseguenze dello stress cronico: burnout ed esaurimento emotivo

A lungo andare, questa situazione di stress cronico può portare a danni permanenti per la salute dell’individuo. Pertanto, è di rilevante importanza chiarire quali sono i sintomi, le cause e le modalità di trattamento del burnout e dell’ esaurimento emotivo. Provare ansia e sentirsi sotto stress per alcuni giorni consecutivi è normale, il problema emerge nel momento in cui lo stress diventa cronico, con conseguenze negative sul benessere dell’individuo.

Le cause del burnout e dell’ esaurimento emotivo, oltre ad un periodo prolungato di stress, sono varie e diverse da persona a persona. Tra i trigger più comuni rientrano (Tijdink, Vergouwen & Smulders, 2014):

  • lavori altamente stressanti e inerenti la cura e la tutela di altri individui (per esempio medici, infermieri, poliziotti)
  • una carriera universitaria intensa
  • esercitare un lavoro che non piace
  • diventare genitori
  • problemi finanziari o povertà
  • essere il caregiver di una persona bisognosa
  • procedure di divorzio lunghe ed estenuanti
  • convivere con una malattia cronica

Presente tra i primi segni del burnout, l’ esaurimento emotivo mostra sintomi sia di tipo emotivo che fisico, tra cui: mancanza di motivazione, problemi di sonno, irritabilità, affaticamento fisico, sentirsi senza speranza, distraibilità, apatia, mal di testa, cambiamenti nell’appetito, nervosismo, difficoltà di concentrazione, rabbia irrazionale, aumento di criticismo o pessimismo, senso di timore e depressione (Michel, 2016).

Nell’ambito lavorativo, gli impiegati che sono sovraccarichi di lavoro ed emotivamente esausti, potrebbero iniziare a notare cambiamenti nella prestazione lavorativa come, per esempio, un peggioramento della performance, l’incapacità a rispettare le scadenze, assenteismo e, infine, una minore dedizione verso l’organizzazione/azienda (Shanafelt & Noseworthy, 2017).

Alcune strategie e piccoli accorgimenti possono aiutarci nella gestione dello stress..

Per gestire e alleviare i sintomi del burnout e dell’ esaurimento emotivo, si può iniziare con piccoli cambiamenti nella vita quotidiana.

Prima di tutto, è importante cercare di eliminare o per lo meno ridurre gli stressors (per esempio: se litighi sempre con il capo, puoi pensare di chiedere il trasferimento in un altro dipartimento).

In secondo luogo bisogna prestare attenzione alla dieta: in un periodo di stress, mangiare cibi salutari migliora la digestione, il sonno e il livello di energia e questo può avere effetti benefici anche sullo stato emotivo.

L’esercizio fisico è un’altra pratica utile per alleviare lo stress e i sintomi dell’ esaurimento emotivo in quanto l’attività fisica aumenta i livelli di endorfina e serotonina, migliorando di conseguenza lo stato emotivo.

Al contrario, l’alcol potrebbe essere causa di peggioramento dei sintomi in quanto aumenta stati ansiogeni e depressivi e interferisce con il ritmo del sonno, fattore cruciale per la salute mentale.

Momenti di pausa, una vacanza o semplicemente prendersi del tempo per se stessi può essere estremamente utile per ridurre il peso dello stress, in alcuni casi però ciò potrebbe non essere sufficiente ed è perciò importante chiedere aiuto ad professionista della salute mentale (Durocher, Marti, Morin & Wakeham, 2018).

In conclusione

Una condizione di stress, se prolungata, può condurre oltre al burnout e all’ esaurimento emotivo anche a problemi di salute che riguardano il sistema immunitario, il metabolismo e il benessere mentale.

Si tratta di condizioni trattabili, ma perchè l’intervento e il trattamento permettano davvero alla persona di raggiungere un nuovo stato di benessere è necessario definire la natura del burnout e dell’ esaurimento emotivo, informare circa i suoi sintomi in modo da riconoscerlo e prevenire ulteriori conseguenze negative.

Inconscio non rimosso (2018) di Giuseppe Craparo – Recensione del libro

Il costrutto dell’ Inconscio Non Rimosso è un’elaborazione teorica della psicoanalisi che si costituisce, in questo decisivo periodo storico-scientifico, quale fondamentale area di riflessione, elaborazione e integrazione teorico-clinica per le Scienze della Mente.

 

L’inconscio non rimosso è un tema solo accennato da Freud ma poi approfondito da studiosi post freudiani, teorici dell’Attaccamento e dell’Infant Research.

Inconscio non rimosso: storia del costrutto

Gli studiosi hanno convenuto sull’importanza che l’ inconscio non rimosso riveste sia nella comprensione della fenomenologia riferibile alle gravi psicopatologie, sia nella preziosa funzione di riformulazione della Teoria della Mente e dunque della pratica clinica. Giuseppe Craparo, coerentemente ai vari contributi, ha proposto l’ inconscio non rimosso non tanto come un nuovo costrutto teso a soppiantare l’inconscio freudiano, ma come una funzione psichica con sue caratteristiche pre-riflessive e pre-verbali.

Prima di addentrarsi nella discussione dell’ inconscio non rimosso e dunque nelle imprescindibili variazioni prospettiche della valutazione e dell’intervento clinico conseguenti, Craparo ripercorre la complessa panoramica storico-concettuale entro cui esso si inserisce. L’Autore, utilizzando una stilistica essenziale e diretta, puntuale nelle testimonianze teoriche, dispiega il composito quadro delle sue considerazioni attraverso un’equilibrata alternanza di sequenze descrittive, riflessive e dialogiche dalle quali emerge la dialettica, per alcuni ritenuta inconciliabile, tra lo sguardo clinico e quello di ricercatore.

Nella prima parte del libro, si definisce l’inconscio secondo Freud, quale istanza psichica che si contraddistingue per la sua dinamicità. Il termine dinamico, mutuato dalla fisica applicata all’inconscio, va inteso in due modi (Auchinloss, 2015): in rapporto a forze motivazionali latenti e in rapporto alla rimozione che nega l’accesso alla coscienza di rappresentazioni inaccettabili. Craparo ripercorre i numerosi sforzi compiuti, tesi a verificare l’esistenza dell’inconscio al fine di rendere dimostrabile, secondo i canoni della Scienza, ciò che sembrava relegato a un istanza più mistica che scientifica. Per i neopositivisti l’inconscio era una mera congettura che precede financo la formulazione delle ipotesi (Wittgenstein,1965. p.126). Karl Popper (1934) fu altrettanto critico: riconoscendo come criterio discriminante la Scienza dalla pseudoscienza non la verificabilità (come per i neopositivisti) ma la falsificabilità, ritiene che il limite della teoria psicoanalitica sia il fatto di sostenersi su congetture impossibili da confutare sia sul piano logico che su quello empirico.

L’ Autore riporta dunque le testimonianze degli studiosi che si sono contrapposti a Popper, sostenendo che la scientificità in una teoria dipenda tanto dalla sua attitudine a produrre nuovi modelli esegetici, quanto dalla sua capacità di reinterpretare i modelli antichi in funzione di una esperienza acquisita (Elisabeth Roudinesco, 1999, p.128). Le scienze umane, in particolare, sono tese alla comprensione dei comportamenti umani individuali e collettivi a partire da tre categorie fondamentali: la soggettività, il simbolismo, la significazione (Ib. pag.120). Una posizione questa non dissimile dai sostenitori dell’Ermeneutica per i quali la psicoanalisi non può essere associata alle Scienze Naturali ma alle Scienze Umane proprio in virtù dell’importanza accordata alla soggettività e al significato che l’individuo attribuisce alla sua esperienza e alla realtà. Agli attacchi rispetto alla scientificità della psicoanalisi, gli psicoanalisti, in generale, hanno risposto o sostenendo che essa non è equiparabile alle scienze esatte, svincolandosi dal necessità di operazionalizzazioni che sminuirebbero la complessità della psiche, oppure avvalorando la necessità di rilanciare la psicoanalisi facendola dialogare con discipline considerate scientificamente più accreditate, come ad esempio le Neuroscienze. Erik Kandel sostiene, a tal proposito, che le Neuroscienze rappresentino un’opportunità di rinnovamento sia concettuale che sperimentale.

Inconscio non rimosso e neuroscienze: è possibile un’integrazione?

Il testo Inconscio non rimosso ripercorre infatti i contributi delle Neuroscienze alla comprensione dell’inconscio e la domanda che Craparo pone è se sia utile riferirsi all’inconscio rimosso (a cui dedica la prima parte del libro) oppure sia più utile riformulare l’inconscio rimosso secondo le scoperte neurobiologiche, che lo farebbero coincidere con una memoria procedurale implicita e sostanzialmente non rimossa. Uno dei vettori critici che hanno caratterizzato il lavoro del libro è proprio diretto a comprendere se e in che modo sia possibile attuare l’integrazione delle scoperte neuroscientifiche con i principi della psicoanalisi, conferendole caratteristiche di scientificità che le sono mancate, o se questo non comporti il rischio di ibridazione del campo di indagine, con il conseguente depauperamento della conoscenza in luogo di un suo incremento.

Considerazioni teoriche si intervallano a valutazioni sul lavoro analitico: l’Autore auspica che questo si costituisca non come un mero disvelatore ma proteso alla creazione di un campo psichico che funga da contenitore, affinché si possa fronteggiare il materiale rimosso; in questo l’analista procede nel rispetto di quel punto di “opacità quale elemento costitutivo della soggettività del paziente…” che “non va abolito bensì salvaguardato”. L’opacità rappresenta la dimensione originaria su cui si organizza l’inconscio. E’ possibile verificare l’opacità e l’inconscio? Craparo risponde che l’inconscio è di per sé non verificabile, rappresentando un modo di intendere la realtà psichica, servendosi di un linguaggio specifico attraverso cui rimandare l’idea di un’Origine (una realtà ultima e inconoscibile secondo il linguaggio Bioniano); rispetto a questa non possiamo altro che operare delle deduzioni a partire dall’osservabile. Inconscio, opacità e complesso psichico non delegittimano, però, la possibilità di verificare l’efficacia della psicoanalisi.

Craparo riporta la descrizione sui tre tipi inconscio:

  • Inconscio Cognitivo, relativo ad aspetti legati a processi impliciti di elaborazione delle informazioni mentali
  • Subconscio, riproponendo dunque la teorizzazione di Janet relative alla dissociazione strutturale (disaggregazione)
  • Inconscio Rimosso nella sua natura relazionale e simbolico-verbale.

Le tecniche di Neuroimaging iniziano a consentire un sostanziale supporto all’ individuazione dei substrati neuronali di alcuni processi mentali e pertanto preziosa è anche la parte dello scritto dedicata all’esposizione delle teorie di Le Doux, Schore, Solms e Ansermet & Magistretti. I quadri esplicativi da loro proposti convergono, sostanzialmente, nel delineare la natura affettiva dell’inconscio, collocando l’inconscio rimosso nell’emisfero sinistro più che in quello destro dove, invece, si collocherebbe l’inconscio non rimosso (pre-verbale e pre-riflessivo).

Inconscio non rimosso: la concezione di Craparo

Freud aveva suggerito l’opportunità di estendere l’inconscio a una parte dell’apparato psichico più primitiva dell’inconscio dinamico che sembra essere in relazione con l’esperienza sensoriale associata alla percezione della realtà esterna. Craparo sottolinea il potenziale euristico di tale riflessione, non solo per l’articolarsi della Teoria della Mente ma anche per le conseguenti valutazioni, sul piano clinico, del trattamento delle patologie pre-edipiche. L’inconscio non rimosso disegna un nuovo vertice di osservazione, che intravede la possibilità di trattamento anche per quei pazienti (Borderline e Psicotici) nei quali, non il rimosso e il ritorno del rimosso, ma la compromissione delle capacità di mentalizzazione e di regolazione emotiva rappresentano il fulcro del loro (dis)funzionamento mentale. L’Autore si sofferma, dunque, sui modi di concepire l’inconscio non rimosso da parte di psicoanalisti di assoluto valore del passato e del presente come Jung, Bion, Matte Blanco, Sandler, Atwood, Storolow e De Masi, accomunati dal concettualizzare l’inconscio non rimosso come affettivo, pre-verbale, pre-riflessivo. Come lo interpreta Craparo? Secondo quattro aspetti fondamentali: la sua natura relazionale; la sua natura pre-riflessiva e preverbale; il suo rapporto con l’essere umano come essere parlante (parlessere); il suo rapporto con la rimozione.

Corpo e inconscio non rimosso sono significativamente interrelati, non solo per il precoce sviluppo dell’ inconscio non rimosso ma anche perché è in tale incontro che le esperienze emotive (memorie somatiche) vengono elaborate per poi passare a livelli successivi dell’apparato psichico. La maturazione dell’ inconscio non rimosso è segnata dalle esperienze infantili, in particolare dallo sperimentare una sintonizzazione adeguata da parte del caregiver. In questa prospettiva, il corpo rappresenta uno schermo in cui persistono le tracce dei vissuti sensoriali del soggetto lungo tutto l’arco della vita. Il corpo è biologico, affettivo e simbolico e questi tre modi di intenderlo non sono antinomici ma rappresentano tre lenti da utilizzare sinergicamente nell’osservazione terapeutica perché è in ognuno di essi che il paziente racconterà l’esperienza di sé, della sua realtà relazionale e della relazione terapeutica stessa.

Il mondo affettivo è inoltre regolato dall’attività onirica essendo

il sogno la via regia che conduce sia alla conoscenza dell’inconscio rimosso che dell’inconscio non rimosso.

Quando la regolazione fallisce, stati non rappresentati si veicolano attraverso il corpo, svincolati da una rappresentazione psichica che consente ulteriori elaborazioni attraverso la consapevolezza dello stato di veglia.

Lavoro particolarmente denso di contributi, la seconda parte del libro Inconscio Non Rimosso, rappresenta un ambizioso tentativo di sintesi di un quadro storico-concettuale estremante complesso. Complessità alla quale si aggiunge l’enorme quantità di informazione che la crescita esponenziale della Tecnologia e della Neuroimaging sta aggiungendo al campo ipotetico relativo funzionamento mentale. Riccardo Williams, nell’eccellente prefazione al libro, fa riferimento al rischio di ibridazione, che si corre allorquando ci si trova di fronte ad un cospicuo bagaglio di contenuti, risultante da approcci caratterizzati da svariati livelli di eterogeneità fra loro. Integrare non sempre produce un incremento della conoscenza: può comportare una perdita se si “svende” la peculiarità di un’ottica in ragione di un presunto comune denominatore.

Una visione integrata e non depauperata della conoscenza della mente è possibile? In che modo tradurre questo nel lavoro clinico-terapeutico? Secondo le mie personali riflessioni una possibile procedura per ridurre il rischio di ibridazione si potrebbe individuare in un intimo gioco delle distanze di osservazione da parte dello studioso. In una particolare critica dialettica che riflette e astrae. In terapia si tradurrebbe in una particolare dinamica che prevede un equilibrio tra simmetria e asimmetria della relazione. Questo particolare gioco vettoriale è d’altronde la modalità che caratterizza l’onestà intellettuale di Craparo. Con questo libro egli ha fornito ai lettori un’esposizione preziosa, particolarmente ricca ma non ancora satura, essendo aperta alla sfida che la costruzione di un modello integrato del funzionamento mentale richiede.

Charles Bonnet Syndrome: alla scoperta di questa misteriosa e sottovalutata patologia

Il primo Charles Bonnet Syndrome Patient Day del mondo si terrà il 16 novembre 2018 al Moorfields Hospital. Judith Potts, la fondatrice della campagna per la sindrome di Charles Bonnet Esme’s Umbrella, parla di tale disturbo e del modo in cui influisce direttamente sulla sua vita.

 

Cos’è la Charles Bonnet Syndrome?

La sindrome di Charles Bonnet (CBS) è un disturbo che si può manifestare in persone di ogni età con oltre il 60% di disabilità visiva causata dalla miriade di malattie oculari – infarto, cancro, diabete – o persino lesioni in grado di danneggiare la via ottica. Con la diminuzione della vista, i messaggi trasmessi dalla retina alla corteccia visiva rallentano o si bloccano completamente, mentre il cervello si comporta in modo opposto, attivandosi per creare allucinazioni visive, vivide e silenziose, che possono essere innocue come terrificanti.

La sindrome di Charles Bonnet è riconosciuta da oculisti e optometristi dal 1760, anno in cui Charles Bonnet – un avvocato, filosofo e naturalista di Ginevra – documentò per primo il caso di Charles Lullin, il nonno 97enne, la cui vista era stata compromessa da una forma grave di cataratta. Mentalmente ancora lucido, Lullin raccontò di vedere gli arazzi appesi al muro cambiare, oltre a persone, uccelli, carrozze e palazzi. Tuttavia, anche se nel corso dei secoli i dottori hanno rilevato la patologia, risale al 1998 la prima ricerca sulla Charles Bonnet Syndrome, che è sempre stata considerata solo un effetto collaterale della perdita della vista.

In realtà è molto più di ciò, come scoprii il giorno in cui mia madre Esme, di 92 anni, mi disse: “Mi piacerebbe che queste persone si levassero dal mio divano”, descrivendomi anche le altre sue “visioni”, come le chiamava lei – una creatura simile a un gargoyle che saltava dal tavolo alla sedia, un bambino di strada vittoriano in lacrime che la seguiva dappertutto e, a volte, tutta la stanza o il giardino trasformati in qualcos’altro. Un giorno mi raccontò di un corteo funebre edoardiano, con cavalli piumati e il clero in tonaca rossa.

Ma fu solo quando lessi su un giornale un paragrafetto, il cui autore avrebbe potuto essere mia madre, che la parola “demenza” smise di aleggiare nell’aria. Sfortunatamente il suo oculista si rifiutò di discutere della sindrome, mentre né il medico di base né l’optometrista ne avevano mai sentito parlare. Cercando su internet, trovai il dottor Dominic ffytche del King’s College di Londra, che ha condotto l’unico studio sulla Charles Bonnet Syndrome ed è il solo esperto, riconosciuto a livello mondiale, del disturbo. La sua ricerca ha sfatato alcuni miti sulla malattia – la convinzione che scompaia dopo 18 mesi e che le allucinazioni siano sempre innocue.

L’ombrello di Esme

Dopo la morte di mia madre, ho lanciato Esme’s Umbrella (“L’Ombrello di Esme”) per sensibilizzare sia medici che gente comune sulla sindrome di Charles Bonnet e raccogliere fondi a favore della ricerca. Il dottor ffytche è il mio consulente medico.

Pur conoscendo la patologia, gli specialisti di oftalmologia non hanno compreso appieno l’esatta natura del disturbo e l’effetto negativo che ha su coloro che ne soffrono. Di conseguenza, sono davvero pochi i medici che parlano della Charles Bonnet Syndrome o avvertono i loro pazienti della possibilità che si manifesti. Ovviamente ciò potrebbe non accadere, ma “uomo avvisato mezzo salvato”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Sindrome di Charles Bonnet una patologia spesso sottovalutata imm1

Imm. 1 – Le statistiche relative alla Sindrome di Charles Bonnet

Le allucinazioni da Sindrome di Charles Bonnet

Non esiste un farmaco contro le allucinazioni né consulenti medici esperti di Charles Bonnet Syndrome. Troppi medici di base e ospedalieri sono ignari del disturbo e, di fronte a una descrizione di allucinazioni visive, il loro primo istinto è quello di far iniziare al paziente un percorso psichiatrico – a volte senza ritorno.

Il timore che le allucinazioni siano un problema di salute mentale, impedisce alle persone di confidarsi con gli altri, mentre la qualità della loro vita – già compromessa dalla perdita della vista – peggiora ancora di più.

Per alcuni, che vedono immagini innocue come fiori, gattini che giocano o splendidi paesaggi, le allucinazioni sono sopportabili, ma per altri sono frustranti e fastidiose a causa della loro costanza o della loro natura inquietante e terrificante.

La lista di ciò che viene visto è infinita, ma va da immagini dell’intera camera ricoperta di parole, mappe, reticoli, graticci, note musicali o figure colorate a visioni sinistre di persone, spesso in costume (edoardiano, vittoriano, militare, medievale, mediorientale, tirolese), fino al fuoco – il che, negli ultimi due casi, può causare chiamate ai servizi d’emergenza. Altre allucinazioni frequenti includono bambini, neonati, animali, serpenti, roditori, insetti, rane, acqua, veicoli, edifici, piante, erba, alberi, mobili o pareti.

Talvolta, come nel caso di Esme, l’intera stanza si tramuta in un posto alieno e ci si ritrova, com’è stato raccontato, seduti su un bancale in mezzo a un fiume torrentizio, da soli in una cattedrale medievale illuminata da candele o circondati da porte di tutte le misure. Coloro che soffrono di allucinazioni multiple sono costretti a stare a casa, non distinguendo ciò che è reale da ciò che non lo è. Per alcune persone, queste sono così orribili e angoscianti che il suicidio diventa una possibile alternativa.

Chiedere aiuto

Per evitare eventuali errori nella diagnosi, è fondamentale sensibilizzare su questa angosciante malattia sia i medici che il resto della società. A questo scopo, ho organizzato la prima Charles Bonnet Syndrome Patient Day (“Giornata del Paziente con la Sindrome di Charles Bonnet”) del mondo, che si terrà il 16 novembre 2018 al Moorfields Hospital e coinciderà con il Charles Bonnet Syndrome Awareness Day (“Giornata di Sensibilizzazione sulla Sindrome di Charles Bonnet”).

Sarà un evento stimolante e rivoluzionario, a cui prenderanno parte due studiosi della Charles Bonnet Syndrome dell’Università di Newcastle – uno dei quali lavora all’Esme’s Umbrella, finanziata da Fight for Sight-The Thomas Pocklington Trust-National Eye Research Centre e dalla Macular Society. Mi auguro che il Patient Day invogli più ricercatori a interessarsi a quest’area e che vengano raccolti ulteriori fondi.

È già abbastanza difficile convivere con la cecità, ma se si soffre anche di Sindrome di Charles Bonnet il senso di solitudine e isolamento si amplifica. Se sospetti di soffrire di questa sindrome o conosci qualcuno che pensi ne sia affetto, chiedi aiuto.

Vision Direct

Il direttore operativo di Vision Direct e optometrista, Brendan O’Brien sostiene che:

La sindrome di Charles Bonnet è un disturbo oculare di cui è improbabile sentir parlare in una normale conversazione, persino con il proprio oculista. Siamo felici di sostenere la campagna di Judith per la sensibilizzazione sulla CBS, con la speranza che possa portare, un giorno, a un significativo miglioramento della vita di chi ci convive.

Se sospetti di essere affetto da questo disturbo o conosci qualcuno che potrebbe soffrirne, cerca aiuto.

L’ Esme’s Umbrella offre tutte le informazioni disponibili sulla CBS, compresa la ricerca del dottor ffytche, e le strategie per affrontarla, che, insieme alle rassicurazioni, sono l’unico trattamento esistente al momento. In alternativa, puoi chiamare il numero di supporto dell’Esme’s Umbrella +44 (0)20 7391 3299, a cui risponderà il team di assistenza sanitaria dell’RNIB.

 

La mente fragile. L’enigma dell’Alzheimer (2018) di Arnaldo Benini – Recensione del libro

Il libro del Prof. Benini, neurochirurgo, spiega con un linguaggio semplice ed una narrazione accattivante, l’enigma della sindrome di Alzheimer e della demenza. Che sia un enigma lo si scopre già dalle prime pagine, allorquando è esposta la probabile origine della malattia, ancora oggi oggetto di ricerca.

 

Per lungo tempo si sono considerati la formazione delle placche di beta – amiloidi fra un neurone e l’altro e il deposito di proteine tau all’interno dei neuroni come la causa dell’Alzheimer. In realtà, queste alterazioni, che sono una conseguenza dell’invecchiamento, si trovano anche nel cervello di anziani che non soffrono di demenza e di sindrome di Alzheimer.

La mente fragile: gli stadi della malattia

La demenza altera nell’individuo “il pensiero astratto, il rapporto con la realtà, la memoria, l’orientamento spaziale, la capacità di giudizio e le funzioni sociali e professionali. Possono essere compromessi linguaggio e vista” [pag. 41]. Negli stadi finali la malattia determina deliri e soprattutto di sera e di notte, degli atroci attacchi di panico.

La demenza e la sindrome di Alzheimer sono inquadrate nel libro con uno sviluppo stadiale, che va dallo stadio 1, caratterizzato dal deterioramento cognitivo, che si riscontra in quasi tutti gli anziani, fino allo stadio 6, contraddistinto dalla demenza e sindrome di Alzheimer grave. Nel corso di questo stadio sopraggiunge la morte o per problemi respiratori o per infezioni delle piaghe da decubito, prodotte dal continuo allettamento.

La mente fragile: sempre più persone anziane che si ammaleranno

Negli ultimi anni la durata della vita si è allungata e, come il Prof. Benini afferma, l’allungamento riguarda la durata della senescenza. Questa dilatazione temporale della vecchiaia crea un numero elevato di pazienti affetti da demenza e Alzheimer. “Attualmente le persone che soffrono di demenza sono cinquanta milioni in tutto il mondo. Diventeranno settantacinque milioni nel 2030 e centoventi milioni nel 2050″ [pag. 47 – 48].

Sembra che ci sia una predisposizione genetica alla demenza e alla sindrome di Alzheimer, che può manifestarsi laddove il ciclo di vita dell’individuo è stato caratterizzato da uno stile di vita poco salutare. Fattori di rischio aspecifici per la demenza e l’Alzheimer possono essere l’ipertensione arteriosa, i disturbi cardiocircolatori, le sindromi metaboliche, l’alcolismo, il tabagismo, un’insufficiente attività fisica, un basso livello culturale.

Dalla demenza e dalla sindrome di Alzheimer non si guarisce. La patologia può essere alleviata dalle misure palliative, che come il prof. Benini spiega “non sono cure, ma aiutano gli ammalati a vivere meglio e a utilizzare il più a lungo possibile le capacità mentali e fisiche residue. Il principio dell’assistenza palliativa è quello di lasciar vivere la persona come il cervello alterato le permette, senza pretendere quello che non può fare o capire e senza ferirne la dignità” [pag. 84].

L’intervento sulla famiglia a rischio: come cambia il cervello del bambino

Molte famiglie vivono in una condizione socio-economica che potrebbe essere definita “a rischio”. Tale condizione non ha solo degli effetti negativi diretti sui figli, che spesso non hanno uguali opportunità rispetto ai coetanei, ma anche indiretti, in quanto incidono sulla qualità delle cure genitoriali.

 

Nella maggior parte di questi casi le cure genitoriali saranno carenti a causa della moltitudine di problemi “più gravi” che catturano l’attenzione dei genitori.

Ad esempio, questi genitori metteranno in atto un minor monitoraggio e controllo delle attività del figlio, rispetto a famiglie che vivono in un contesto più sereno, con una maggiore possibilità d’interazione.

Famiglia a rischio e danni sui bambini: lo studio

Contesti familiari stressanti sono spesso associati a esperienze di vita sfavorevoli per i bambini di quelle famiglie, e a un funzionamento socioemotivo disfunzionale più tardi nella vita. A tal proposito, molte ricerche hanno messo in evidenza che gli interventi focalizzati sulla famiglia assumono un ruolo importante nella prevenzione della psicopatologia, con benefici che si manifestano per un lungo periodo di tempo.

Jamie Hanson, professore di psicologia all’Università di Pittsburgh, insieme ad alcuni collaboratori, ha svolto uno studio allo scopo di verificare se la partecipazione ai programmi focalizzati sulla famiglia può avere un impatto sul cervello dei bambini.

Il campione era costituito da famiglie afroamericane, reclutate da comunità rurali, a basso reddito negli Stati Uniti sud-orientali. Quando i bambini avevano compiuto undici anni, metà delle famiglie è stata invitata, in modo casuale, a partecipare al programma Strong African American Families (SAAF), mentre l’altra metà costituiva il gruppo di controllo, che non ha ricevuto alcun tipo di intervento.

Il programma, ricevuto solo dalla metà del campione, si è concentrato sul rafforzamento delle risorse nei giovani, sul miglioramento del supporto emotivo dei genitori, sull’incoraggiamento della comunicazione genitore-figlio e sull’aiutare i giovani a fissare obiettivi futuri.

Successivamente, quando avevano compiuto 25 anni, i giovani di entrambi i gruppi sono stati sottoposti a imaging cerebrale “a riposo”, allo scopo di indagare l’organizzazione cerebrale.

Famiglie a rischio e intervento precoce: i risultati

Dalle tecniche di neuroimaging, i ricercatori hanno riscontrato che coloro che avevano partecipato all’intervento presentavano connessioni più forti (più interazioni) tra l’ippocampo e la corteccia prefrontale, aree coinvolte nella memoria e nel processo decisionale, rispetto al gruppo di controllo. In più il gruppo sperimentale, che aveva ricevuto l’intervento, presentava con una probabilità minore, problemi comportamentali distruttivi dettati dall’aggressività e dalla rabbia.
A tal proposito, Hanson ha affermato:

Questo intervento, focalizzato sulla famiglia, può essere un modo economicamente efficace per affrontare le disparità sociali e promuovere il benessere dei bambini in situazioni a rischio.

Le esperienze avverse in infanzia sono collegate a burnout e depressione in un campione di infermieri

Il numero di esperienze avverse vissute durante l’infanzia sembra essere collegato in maniera significativa ai livelli di burnout e alla gravità dei sintomi depressivi riscontrati nei giovani infermieri.

 

Presso l’Università del Texas è stato effettuato uno studio nel dipartimento della scuola di infermieristica di El Paso in cui è stato rilevato che gli studenti di infermieristica che durante l’infanzia hanno vissuto con maggiore frequenza esperienze avverse, tra cui abuso, abbandono, trascuratezza, nel presente hanno maggiori livelli di burnout e depressione rispetto ai colleghi che non hanno vissuto tali esperienze o che le hanno vissute in frequenza minore.

La scelta del campione da parte dei ricercatori è stata dettata dal fatto che la letteratura mostra come gli infermieri appartengono ad una categoria professionale altamente soggetta a rischio di burnout (Van Bogaert, Timmermans, Weeks, Van Heusden, Wouters & Franck, 2014).

Come confermato da innumerevoli studi, gli ACE (Adverse Childhood Experience) possono avere effetti negativi e duraturi sulla salute fisica e mentale degli adulti, predisponendo le persone allo sviluppo di una maggiore sensibilità allo stress (Anda, Felitti, Bremner Walker, Whitfield, Perry & Giles, 2006; Dube, Felitti, Dong, Chapman, Giles & Anda, 2003).

Lo studio

Tra gli autori dello studio ritroviamo i docenti della facoltà di infermieristica UTEP Gloria McKee-Lopez, Leslie K. Robbins, Elias Provencio-Vasquez, ex preside della scuola infermieristica e attuale preside della University of Colorado College of Nursing presso l’Anschutz Medical Campus e Hector A. Olvera, direttore della ricerca presso la School of Nursing.

Il campione oggetto della ricerca era composto da 211 studenti iscritti al primo semestre dei corsi di infermieristica del programma BSN (Bachelor of Science in Nursing), ai quali è stato chiesto di compilare una serie di questionari deputati a misurare il numero di ACE, il livello di depressione e il livello di burnout.

Il numero di esperienze avversive infantili riportati dai partecipanti ha mostrato una relazione significativa sui livelli di burnout e sulla gravità dei sintomi depressivi.

Inoltre, le studentesse con un numero più elevato di ACE avevano più probabilità di riportare livelli più elevati di burnout di tipo A (Emotional Exhaustion) e burnout di tipo B (Depersonalizzazione), oltre a punteggi di gravità della depressione più alti rispetto agli studenti di genere maschile.

Conclusioni

Lo studio supporta gli sforzi dei programmi di assistenza infermieristica in tutto il paese per preparare al meglio una nuova generazione di infermieri alle esigenze della professione.

I ricercatori raccomandano di istruire la facoltà infermieristica sulla frequenza e la gamma di ACE sperimentate dagli studenti infermieri in arrivo, che potrebbero metterli a maggior rischio di sviluppare stress, burnout e depressione mentre sono nel programma. Raccomandano inoltre di fornire ai docenti le risorse per fornire informazioni agli studenti sui servizi di consulenza e supporto psicologico.

Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare – Report dal Convegno di Roma, 10 e 11 novembre 2018

Il convegno organizzato presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica dell’Università Sapienza di Roma lo scorso 10 e 11 ottobre ha avuto l’obiettivo di promuovere un confronto tra i diversi professionisti che operano nel settore dell’assistenza ai bambini prematuri e ai loro genitori.

 

Il parto prematuro rappresenta un evento molto critico da affrontare, sia per il bimbo che per la coppia genitoriale e per il contesto familiare allargato.

Il livello di sopravvivenza dei bimbi nati pretermine è aumentato grazie ai progressi in ambito medico, come pure la qualità dell’assistenza prestata ai neonati. Detto questo, il modo in cui una nascita traumatica (che implica il ricovero in terapia intensiva del neonato, il rischio per la sua sopravvivenza e per lo sviluppo futuro) condiziona fortemente l’esperienza genitoriale viene spesso sottovalutato.

Il convegno organizzato presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica dell’Università Sapienza di Roma lo scorso 10 e 11 ottobre ha rappresentato un momento di riflessione su queste tematiche. L’obiettivo dichiarato è quello di promuovere un confronto tra i diversi professionisti che operano nel settore dell’assistenza ai bambini prematuri e ai loro genitori.

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Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report - Imm.3Imm. 1 – Immagine dal Convegno “Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare”

I bambini prematuri e i loro genitori: la prima giornata del convegno

La premessa di fondo si identifica con il fatto che un intervento multidisciplinare, finalizzato a sostenere sia lo sviluppo del bambino che le competenze genitoriali, ha un impatto positivo sulla gestione a breve e lungo termine degli aspetti sociali e sanitari legati alla salute e allo sviluppo del nato pretermine.

I lavori prendono il via con i saluti introduttivi di Renata Tambelli (direttrice del Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica- Sapienza Università di Roma), Massimo Volpe (preside della Facoltà di Medicina e Psicologia- Sapienza Università di Roma), Fabio Lucidi (vice preside della Facoltà di Medicina e Psicologia- Sapienza Università di Roma) e Mirta Mattina (Coordinatrice del gruppo di Lavoro su Salute e Psicologia Perinatale dell’Ordine Psicologi del Lazio).

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Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report Imm5Imm. 2 – Prof.ssa Renata Tambelli

La relazioni della prima parte della mattinata sono incentrate sugli aspetti epidemiologici legati alla nascita prematura. Roberto Bellù (neonatologo presso la TIN dell’Ospedale di Lecco e appartenente all’Italian Neonatal Network) presenta una panoramica dell’epidemiologia e delle cure prestate al neonato pretermine nel contesto italiano; a seguire Serena Donati (responsabile del Reparto Salute della donna e dell’età evolutiva presso il CNPMP -Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la promozione della Salute- dell’’Istituto Superiore di Sanità), parla del progetto pilota di “Sorveglianza della mortalità perinatale”, finalizzato a rilevare la mortalità tardiva in utero e la morte perinatale, individuando i fattori di rischio.

Nella seconda parte della mattinata Chiara Cattaneo (del CNPMP dell’Istituto Superiore di Sanità) prende in esame che tipo di interventi precoci andrebbero attuati nelle TIN, le unità di Terapia Intensiva Neonatale, a sostegno della diade madre-bambino, della coppia genitoriale e del neonato. In modo particolare, si riscontrano nelle madri dei bambini prematuri maggiori livelli -rispetto alle madri di bambini nati a termine- di ansia, stress e depressione, sui quali sarebbe opportuno intervenire.

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Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report - Imm1Imm. 3 – Dott.ssa Chiara Cattaneo

Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report - Imm4Imm. 4 – Dott.ssa Michela Di Trani

Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report Imm.2Imm. 5 – Relatori durante il convegno

La mattinata si conclude con le testimonianze di due associazioni no profit costituite da genitori di bambini pretermine: l’associazione “Nati Prima” di Ferrara e l’associazione “La Cicogna Frettolosa” di Roma. Entrambi gli interventi mettono l’accento su quanto sia importante dare ai genitori supporto a livello emotivo per riuscire ad affrontare la nascita pretermine, la fase di ricovero del neonato e la fase che segue le dimissioni e il termine dell’ospedalizzazione.

I lavori del pomeriggio sono incentrati selle testimonianze delle Terapie Intensive Neonatali; i relatori, psicologi e operatori sanitari provenienti dalla TIN dell’Ospedale di Cesena, dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma e dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma, relazionano le proprie esperienze rispetto alla presa in carico del neonato pretermine e del contesto familiare.

Risulta importantissimo che le TIN siano aperte h24 in modo da consentire ai genitori di vedere il bambino ed essere il più possibile coinvolti nella fase di ricovero e terapia. I genitori vanno aiutati a sviluppare delle competenze genitoriali mirate, valorizzando la relazione precoce con il bimbo, ad esempio con il contatto pelle a pelle.

Il contenimento cutaneo, attraverso interventi come l’accarezzare il bimbo nell’incubatrice e la Marsupioterapia, rappresenta un’esperienza protettiva e stabilizzante sia per il bambino che per i genitori. È, inoltre, importante favorire, nella misura in cui è possibile, l’allattamento esclusivo al seno; il nutrire il bimbo restituisce alla madre competenza rispetto alla cura del proprio figlio, contrastando il vissuto di inadeguatezza che di frequente le madri di bambini prematuri provano.

Vengono proposti anche interventi di lettura ai bimbi, sia per aiutare i genitori a stabilire un legame con i piccoli, che per favorire il contatto dei bimbi con il mondo esterno, attraverso la voce dei loro cari.

I genitori dei bambini prematuri sono portatori di molteplici bisogni perché si trovano, in modo del tutto inaspettato, a vivere una genitorialità molto distante dai modelli idealizzati e da quella che credevano sarebbe stata la nuova realtà di padre e madre a cui si stavano preparando. La coppia ha enorme bisogno di essere sostenuta in questo difficile cammino in cui si rischia di sentirsi isolati nella propria esperienza.

Le relazioni della seconda parte del pomeriggio mettono l’accento su queste tematiche, riportando le testimonianze di professionisti che effettuano interventi di supporto alla genitorialità attraverso progetti come il “Progetto Distacchi Dolorosi alla Nascita”, condotto dall’Associazione “Il Melograno” di Roma.

La seconda giornata del convegno: il follow up dei bambini nati pretermine

I lavori del secondo giorno di convegno si concentrano sul tema delle cure post-ricovero e del follow up e sono affidati alle relazioni di Alessanda Sansavini (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Bologna), Anna Maria Dall’Oglio (Psicologia clinica, Ospedale Bambino Gesù di Roma), Barbara Caravale (Dipartimento Psicologia Sviluppo e Socializzazione, Sapienza Università di Roma) e Fiorella Monti (Università degli Studi di Bologna).

Viene ricordato che il diritto all’assistenza post ricovero e al follow up è menzionato nella Carta dei diritti del Bambino nato prematuro dato che è importante continuare a dare al bambino tutto il supporto di cui necessita per il suo sviluppo anche quando la fase di ricovero si è conclusa.

In sintesi, la promozione del benessere del bimbo pretermine e dei genitori rappresenta un tema su cui molto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare; in modo particolare è importante valorizzare maggiormente la necessità di un adeguato supporto psicologico sia dei genitori che anche degli operatori che lavorano nelle unità di Terapia Intensiva Neonatale. Attualmente, la presenza di psicologi all’interno delle TIN non è prevista in termini di necessità, ma è a discrezione della singola unità di terapia intensiva; si verifica di frequente che il servizio venga attivato grazie ai fondi raccolti dalle associazioni di supporto create dai genitori.

 

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Regolazione emotiva: la diade madre-bambino tra psicoanalisi e neuroscienze

La capacità dell’individuo di regolare le proprie emozioni è una componente fondamentale per lo sviluppo adattivo ed è una capacità che emerge nella relazione madre-bambino, attraverso gli scambi fisici e preverbali. Influisce sul benessere psicofisico e sulle prestazioni in vari ambiti dello sviluppo.

 

Infatti, un individuo in grado di regolare le proprie emozioni avrà a disposizione più risorse per affrontare le situazioni positive e conflittuali, sarà un individuo capace di comprendere le emozioni proprie e altrui e quindi sarà capace di usufruire del supporto sociale, considerato una forma di regolazione emozionale che consente all’individuo di consolidare i contatti sociali e di conseguenza, di favorire la progressiva formazione di un’identità sociale (Renzetti, Tripicchio, 2010; Bonfiglioli, Ricci Bitti, 2013).

Regolazione emotiva: l’importanza del contatto corporeo tra mamma e bambino

L’importanza del contatto corporeo tra madre e bambino è evidenziata dal ruolo fondamentale che assume sullo sviluppo del sistema nervoso centrale e del sistema endocrino; in particolare la madre è in grado di innescare alti livelli di oppioidi endogeni, responsabili della piacevolezza delle interazioni. A loro volta, gli oppioidi endogeni innescano la produzione del fattore di rilascio di corticotropina nell’ipotalamo del bambino che, controllando la produzione di endorfina e ACTH nell’ipofisi anteriore, stimola la produzione di dopamina. La cascata biochimica che si attiva nelle interazioni tra madre e bambino favorisce la nascita di nuovi neuroni, la sintesi proteica e quindi mediante la disponibilità emotiva dei caregivers, viene attivata la crescita del cervello e favorita la formazione di un tono vagale positivo che, a sua volta, conferisce la forza dell’Io e la salute fisica (Cozolino, 2008).

Le esperienze corporee sono quindi il veicolo primario per le relazioni con gli altri; infatti, il più arcaico senso del Sé è tessuto, in cui il contatto corporeo permette i processi di separazione tra il “me” e il “non-me”, oltre ai processi di sviluppo neurobiologico. La pelle, sostiene la Bick (1968), è l’oggetto primario di contenimento ed è percepita dal bambino come un confine, come qualcosa che tiene insieme le parti della personalità, ancora non differenziate dalle parti del corpo. La funzione contenitiva della pelle si sviluppa però grazie all’esperienza di una relazione di accudimento adeguata che, permette di introiettare la funzione contenitiva materna. Anzieu (1985) prosegue gli studi della Bick e sottolinea come l’Io sia principalmente strutturato come un Io-pelle che si presenta come una rappresentazione mentale; l’Io del bambino lo usa per rappresentare se stesso come un Io che contiene i contenuti psichici, partendo dalle esperienze che compie attraverso la superficie corporea. In particolare, sostiene che il bambino acquisisce la percezione di una superficie corporea attraverso il contatto con la pelle della madre, mentre questa lo accudisce. L’Io-pelle ha quindi origine dalla pelle condivisa tra madre e bambino, quella che Anzieu definisce “pelle comune” (Lemma, 2011).

Regolazione emotiva: il modello neuropsicobiologico di Schore

Allan Schore ha sottolineato l’importanza della diade madre-bambino, nel determinare la formazione di una funzione fondamentale per lo sviluppo emotivo del bambino, ovvero la regolazione emotiva (Ardito, Adenzato, 2012).

La regolazione emotiva fa riferimento ai processi cognitivi e comportamentali che influenzano il verificarsi, l’intensità, la durata e l’espressione delle emozioni e si definisce come la capacità individuale di regolare le proprie emozioni, negative e positive, attenuandole, intensificandole o mantenendole semplicemente. È un costrutto multidimensionale caratterizzato dalla consapevolezza, comprensione e accettazione delle emozioni; dalla capacità di impegnarsi in comportamenti diretti verso l’obiettivo in risposta alle emozioni; dalla capacità di modulare l’intensità e/o durata della risposta emotiva e dalla disponibilità a sperimentare emozioni negative. Carenze o deficit in queste capacità sono correlate positivamente con la psicopatologia e negativamente con il benessere individuale e il funzionamento interpersonale (Infantino, 2012).

Beebe e Lachmann (2002) ritengono che la diade madre-bambino sia caratterizzata da due tipi di processi di regolazione che si influenzano reciprocamente, ovvero la regolazione interattiva, in cui i comportamenti di un partner sono influenzati da quelli dell’altro, e l’autoregolazione cioè la capacità di ogni individuo di auto-organizzarsi grazie al controllo del livello di attivazione ed espressività emozionale. Sin dai primi mesi di vita infatti il bambino, grazie ai neuroni specchio e alle capacità materne affrontate nel paragrafo precedente, entra in connessione con la madre di modo che attraverso una co-regolazione, gli stati fisiologici e le emozioni possano essere regolati ed elaborati, passando poi ad una regolazione autonoma (Renzetti, Tripicchio, 2010). Quindi le differenze individuali nei processi regolatori sono il risultato, nei primi tre anni di vita, dell’effetto combinato delle strategie di accudimento dei genitori e delle componenti biologiche e temperamentali dell’autoregolazione; l’apprendimento, all’interno della diade, delle prime strategie di regolazione, pone le basi per lo sviluppo futuro di capacità complesse come l’empatia e la lettura della mente dell’altro (Renzetti, Tripicchio, 2010).

Il modello psiconeurobiologico di Schore ha rilevato un chiaro legame tra attaccamento sicuro, sviluppo efficace delle funzioni regolatorie del cervello destro e salute mentale del bambino (Benvenuti, 2007). Ha sottolineato, in particolare, il ruolo centrale nella regolazione emotiva del sistema limbico dell’emisfero destro in quanto tale sistema è implicato nell’integrazione delle informazioni proveniente dall’ambiente sociale esterno con quelle corporee ed è formato inoltre da numerose strutture cerebrali tra cui la corteccia orbitofrontale. Quest’ultima riceve informazioni da tutto il corpo e svolge il ruolo di centro di controllo del sistema nervoso centrale sui sistemi simpatico e parasimpatico. Lo sviluppo della corteccia orbitofrontale è influenzata sia da fattori genetici che ambientali ed in particolare un attaccamento sicuro con il caregiver è la base per uno sviluppo adeguato di tali strutture che si occupano della regolazione emotiva (Ardito, Adenzato, 2012).

Regolazione emotiva, vergogna e invalidazione

L’acquisizione della capacità di regolare le emozioni dipende inoltre dal raggiungimento di due importanti traguardi. Il primo, la capacità di mantenere stati di attivazione positiva, è raggiunto attraverso le esperienze di sintonizzazione emotiva con il caregiver, possibili grazie al fatto che l’emisfero destro del bambino viene psicobiologicamente sintonizzato all’output dell’emisfero destro della madre, regolandone le emozioni. Per il raggiungimento del secondo traguardo, la capacità di modulare e recuperare stati di attivazione negativa, è fondamentale il ruolo del genitore di “agente socializzante” ovvero la capacità di proibire i comportamenti del bambino per permettergli lo sviluppo della socializzazione ma ciò comporta l’emergere del vissuto della vergogna. Questa è vissuta dal bambino come un momento di non sintonizzazione con il genitore ma la vergona e i momenti di rottura seguiti da riparazione, consentono al bambino di imparare a regolare gli affetti negativi (Benvenuti, 2007).

Oltre agli scambi tattili e alla funzione del rispecchiamento, anche la voce materna assume un ruolo importante nella regolazione emotiva e nello sviluppo psicofisico del bambino che è capace, fin dall’inizio, di processare la qualità delle componenti linguistiche. In particolare, il linguaggio materno, definito “motherese”, è in grado di attivare il flusso nella zona orbitofrontale destra del cervello, collegata allo sviluppo dell’intelligenza emotiva, tanto che le madri depresse, non essendo in grado di usare il motherese, espongono i figli ad un più alto rischio di sviluppare la depressione o altri problemi di sviluppo. L’intonazione della voce materna assume, come gli scambi fisici, una funzione contenitiva, infatti Stern (1998) sostiene che il monologo che la madre compie con il proprio bambino, permette di costruire un forte legame affettivo e con la sua lentezza consente al bambino di elaborarlo e farlo proprio. Risulta chiaro quindi che non sono fondamentali i contenuti ma il modo con cui vengono espressi. La voce materna, oltre a contribuire alla formazione della relazione e a svolgere la funzione contenitiva, permette anche la regolazione emotiva; infatti Stern (1998) sottolinea l’importante funzione dei “profili di intonazione” del linguaggio materno che permettono di regolare il grado di attivazione e il tono affettivo del bambino (Causa, Moschetti, Volta, Luchino, Brunelli, Manetti, 2007).

Il corpo diventa quindi il terreno su cui possono emergere problematiche nella relazione e conseguentemente nella regolazione emotiva e nelle capacità che permettono di costruire il benessere individuale e, allo stesso tempo, si propone come mezzo di espressione di tali dinamiche patologiche. Numerose ricerche, in ambito clinico, hanno messo in relazione la disregolazione emotiva con diverse forme di psicopatologia nei bambini. Infatti, una eccessiva inibizione nella regolazione delle emozioni è correlata a problemi di internalizzazione, connessi ad ansia, depressione, vergogna, bassa autostima, paura e tristezza mentre una scarsa regolazione delle emozioni è risultata essere associata a problemi esternalizzanti (Renzetti, Tripicchio, 2010).

Comunicazione assertiva. Come farsi rispettare in ogni occasione senza prevaricare (2016) di Alessandro Ferrari – Recensione del libro

Comunicazione assertiva di A. Ferrari è un manuale che raccoglie l’esperienza dell’autore come manager e formatore in diverse multinazionali che, nel corso degli anni, gli hanno permesso di sviluppare le sue abilità nella gestione delle risorse umane e delle pubbliche relazioni.

 

Un no pronunciato con convinzione è molto migliore di un sì pronunciato unicamente per compiacere o, ancora peggio, per evitare problemi. (Mahatma Ghandi)

 

Alessandro Ferrari è un manager italiano che grazie alle sue capacità comunicative ha avuto successo come formatore, scrivendo ebook, organizzando corsi sui diversi tipi di comunicazione e girando l’Italia con il suo roadshow in cui spiega il suo metodo. Ha formato il personale di numerose aziende, sviluppando un’esperienza trentennale sul tema della comunicazione efficace e la leadership.

Comunicazione assertiva: struttura del libro

L’opera, divisa in capitoli, parte dall’approfondimento del concetto di assertività e dell’importanza di sviluppare questa abilità per vivere meglio con se stessi, per raggiungere i propri obiettivi e comunicarli efficacemente agli altri. Si passa poi all’analisi di strategie relazionali come quella passiva e aggressiva, mettendone in luce i limiti e gli svantaggi.

Diversi capitoli sono dedicati al modo migliore di valorizzare se stessi e focalizzarsi sul pensiero positivo per migliorare la propria autostima e sicurezza nel rapporto con se stessi e gli altri e per raggiungere il successo desiderato.

Nella seconda parte del libro si passa al vedere come l’ assertività venga declinata nel mondo del lavoro con i propri pari e superiori, per imparare a farsi valere e a gestire i rapporti al meglio. Il ruolo dell’ assertività viene evidenziato soprattutto quando si devono affrontare conflitti ed è necessario mettere in atto delle negoziazioni.

Gli ultimi capitoli, infine, affrontano l’importanza dell’essere assertivi quando ci si trova a parlare in pubblico e quando si vive un rapporto di coppia. Comunicazione assertiva si conclude con un capitolo contenente un test preparato da Ferrari per scoprire se il proprio stile è più passivo, più aggressivo o assertivo.

Comunicazione assertiva: a chi è adatto

Il manuale Comunicazione assertiva di Alessandro Ferrari è un testo di tipo divulgativo, nel quale oltre alle considerazioni personali dell’autore, è raccolto un mix di tecniche e di teorie che prendono spunto dai principali orientamenti psicologici e che vengono trattate in maniera semplice e di facile comprensione per il lettore. Presenta, inoltre, le più famose tecniche utilizzate nelle strategie di marketing e quelle impiegate nel settore delle vendite. È scritto con un linguaggio facilmente comprensibile e ogni concetto è ripreso più volte, in modo da essere velocemente memorizzato.

L’opera che, evidentemente, non ha velleità di costituirsi come un testo scientifico, contiene una serie di consigli ed esortazioni utili per chi si avvicina per la prima volta al concetto di assertività. Chi non conosce ancora questa abilità può imparare, infatti, a comprendere cosa sia e farsene un’idea di base. Comunicazione assertiva potrebbe essere anche un utile sostegno per le persone che stanno seguendo già un training sull’ assertività con un professionista specificamente formato.

Neurobiologia dell’aggressività sociale

Il comportamento sociale può essere modulato da meccanismi neuronali, così affermano alcuni ricercatori della Duke-NUS Medical School. Tale scoperta può avere un notevole impatto sulla società visto il forte incremento di episodi di bullismo e aggressioni, principalmente tra i più giovani.

Adriano Mauro Ellena

 

E’ risaputo ormai da tempo quanto l’essere umano sia un animale estremamente sociale, le cui interazioni sono fortemente regolate da gerarchie sociali. D’altro canto, il non rispetto di queste gerarchie può essere estremamente dannoso.

Quello a cui ha portato la ricerca condotta dalla Duke-NUS Medical School è sorprendente, ovvero la scoperta di un particolare meccanismo neuronale che regola e modula la “dominanza sociale“ all’interno di un gruppo di topi.

Nello specifico è stato scoperto che una proteina avente funzione di fattore di crescita, la BDNF (Brain-derived neurotrophic factor) e il suo rispettivo recettore TrkB (Tropomyosin receptor kinase B) modulano la dominanza sociale nei topi.

Neurobiologia dell’aggressività sociale: l’esperimento

L’esperimento è stato condotto nel seguente modo: sono stati generati topi transgenici nei quali è stato rimosso il recettore TrkB negli interneuroni GABAergici presenti nell’area cerebrale adibita alla regolazione emotiva ed al comportamento sociale (Sistema Corticolimbico). I topi transgenici sono stati successivamente collocati in uno spazio insieme a topi non-transgenici. L’esito è stato sorprendente. I primi hanno iniziato a manifestare comportamenti particolarmente aggressivi rispetto ai topi non-transgenici.

Una volta evidenziato ciò, i ricercatori non si sono limitati però a segnalare l’aumento del comportamento aggressivo, ma hanno voluto approfondire la questione per cercare di comprendere tali comportamenti aggressivi.

Neurobiologia dell’aggressività sociale: i risultati

I ricercatori hanno dunque eseguito dei test comportamentali per meglio comprenderne l’origine. Anche in questo caso le scoperte si sono rivelate molto interessanti:

  • L’aggressività non era finalizzata a proteggere il territorio;
  • L’aggressività non era dovuta ad una maggior forza fisica dei topi transgenici;
  • I topi transgenici presentavano maggiori ferite rispetto agli altri topi;
  • L’aggressività era il risultato di un incremento della lotta per lo status e la dominanza sugli altri topi all’interno del gruppo.

I ricercatori, a seguito di ciò, hanno ipotizzato che la perdita del recettore BDNF-TrkB abbia portato ad un indebolimento dei segnali inibitori da parte degli interneuroni GABAergici alle circostanti cellule eccitatorie, che si sono iperattivate. Infatti, una volta inibite le cellule eccitatorie, e ripristinato il bilancio “eccitazione-inibizione”, il comportamento aggressivo dei topi transgenici è cessato immediatamente.

Questo studio dimostrerebbe come nel comportamento sociale anche la genetica e la biologia abbiano un importantissimo ruolo.

Patrick Melrose (2018): c’è vita oltre il sarcasmo

Ultima e incredibile interpretazione di Benedict Cumberbatch, Patrick Melrose (2018) è una miniserie britannica di 5 episodi, ispirata dal ciclo di racconti dello scrittore Edward St Aubyn, I Melrose.

 

Lo scenario dipinto è quello di una ricca famiglia inglese, rappresentante perfetta di una borghesia compita, elegante e dedita all’educazione umana e culturale dei figli, ma disturbata e segretamente tollerante verso gli abusi di un padre violento, le mancanze di una madre alcolista e depressa, le derisioni di un entourage affascinato dal potere, colluso con i carnefici e dedito al sarcasmo. Protagonista è Patrick, unico figlio ed erede diseredato, vittima delle torture psicologiche e della trascuratezza affettiva dei suoi genitori.

La doppia vita della famiglia Melrose, tra l’intellettuale messa in scena e il teatro orribile delle quinte domestiche, genera una costante emozione di sconcerto, incredulità, disgusto. Il muro della negazione è spiazzante, sminuisce ogni normale e umana reazione emotiva, ed è lo stesso muro che lascia sfumare la speranza e la fiducia nel mondo di Patrick, il bambino che in quello scenario deve lottare per la sua sopravvivenza. La morte del padre apre il racconto e lancia Patrick Melrose in un turbine di ricordi, emozioni e fantasmi che da solo non riesce ad affrontare.

Patrick Melrose: una preziosa sintesi umana e clinica di come il trauma irrompe nella vita

La traiettoria evolutiva di Patrick Melrose è una preziosa sintesi – umana e clinica – di come il trauma irrompe nella vita e nella mente di un bambino, cambiandone la storia e le opportunità di crescita in modo significativo. L’alternanza narrativa tra presente e passato costituisce un breve compendio di psicotraumatologia che tutti i clinici impegnati in questo campo dovrebbero conoscere e tenere ben in mente nel lavoro clinico quotidiano, poiché ogni elemento patologico del presente rivela una sua precisa ragione d’essere che solo alla fine – e solo resistendo all’umana repulsione per quello che si vede – può essere compresa.

Il presente del Patrick adulto è interpretato maestralmente da Benedict Cumberbatch, la sua mente è colonizzata da orribili flash back, allucinazioni, droghe, relazioni instabili, estrema frammentazione dell’identità e del senso del sé; il racconto del passato è affidato invece al giovanissimo Sebastian Maltz, che con il suo aspetto esile e inerme riesce a trasmettere la vita di bambino traumatizzato, vissuta in punta di piedi, nascosto negli angoli della casa, nell’impotenza dei silenzi, nella paura e nell’impossibilità di decifrare la realtà della sua famiglia.

Per ogni clinico esperto di trauma, tutta la sofferenza del Patrick adulto ha una chiara definizione diagnostica: Disturbo Post traumatico Cronico o Trauma complesso, con sintomi dissociativi. Per chiunque guardi il film è evidente come la sua sofferenza venga dal passato doloroso e dai traumi dell’infanzia, così come risulta chiaro che le sue uniche strategie di sopravvivenza siano state cucite negli anni sui modelli disfunzionali della sua infanzia, sua madre e suo padre: alcol, droghe, seduzione, disprezzo, prevaricazione, sarcasmo.

La complessità degli effetti del trauma sulla mente, già ampiamente discussi in precedenti contributi sul tema del trauma complesso e della dissociazione, è tuttavia solo una parte della storia. Quello che la storia racconta e denuncia con forza è tutto quello che ruota intorno al trauma e che ne impedisce una risoluzione, alla fine forse più semplice di quello che si pensi: riconoscere il vissuto di Patrick, offrirgli protezione, comprendere il suo dolore e permettergli di cambiare e diventare un adulto resiliente e forte, capace di essere un padre migliore del suo e di andare oltre le ferite del passato.

Nulla è possibile finché la barriera della negazione ostacola questo cambiamento. Tutto diventa possibile quando a Patrick è offerta una possibilità sicura di mettersi in salvo.

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https://www.youtube.com/watch?v=JQh36eStMqk

Cosa ci insegna la storia di Patrick Melrose

La storia di Patrick Melrose non è dunque solo il racconto del suo malessere, ma è il racconto dei meccanismi più subdoli e inaccettabili della violenza domestica intrafamiliare, in cui il comportamento violento è solo la superfice di molte mancanze e inadeguatezze che ne facilitano la messa in atto da parte dei carnefici.

La segretezza è la prima: negare gli eventi, restare in silenzio, chiedere ai bambini abusati di mantenere la segretezza per avere salva la vita è la garanzia dei perpetratori per continuare ad esercitare il loro potere. Da adulti appare facile urlare, scappare via, chiedere aiuto, ma da piccoli la minaccia di un adulto stralcia ogni istinto di difesa. In ogni famiglia violenta il riconoscimento di quello che accade è l’unica via per interrompere la violenza, ma allo stesso tempo è l’elemento più grave di minaccia per la vita di tutti. Chiedere ad un bambino se è in pericolo potrebbe non ricevere la risposta utile a proteggerlo, osservarne invece i comportamenti incerti, lo sguardo spaventato, le abitudini bizzarre o la tendenza ad isolarsi può offrire le risposte che gli adulti hanno la responsabilità di accertare per comprendere cosa succede davvero nella sua famiglia.

La mancanza di protezione, e la conseguente collusione con il carnefice, è il secondo ostacolo all’interruzione della violenza. Eleanor, madre di Patrick – interpretata da una bravissima Jennifer Jason Leigh – non è abusante e risulta anzi spesso sensibile e consapevole della gravità della situazione, ma tuttavia l’alcol e la depressione la rendono cieca verso quello che accade e incapace di sintonizzarsi sui bisogni di Patrick, di difenderlo e men che mai di riconoscere i suoi segnali di stress. Il malessere della madre alimenta il senso di isolamento e abbandono, che lasciano in Patrick i segni di una profonda trascuratezza emotiva.

Questo elemento, spesso messo in secondo piano rispetto alla violenza attiva, crea in realtà il terreno più fertile per i carnefici: un bambino non protetto dagli adulti che ha intorno, è un bambino più vulnerabile e più incline a non chiedere aiuto in caso di bisogno. La responsabilità della non-protezione è cruciale, poiché toglie la speranza di essere ascoltati dall’unica fonte di sicurezza disponibile e questo distrugge la fiducia verso gli altri nel presente, così come nel futuro.

I segnali di malessere degli adulti, uomini o donne che siano, vittime di violenza domestica vanno colti e ascoltati, per aiutare tutte le vittime a restare adulti capaci di proteggere se stessi, i loro figli e di interrompere il circolo vizioso della violenza.

Nell’entourage della famiglia Melrose, gli adulti che osservano immobili vedono il malessere di Eleonor, ma tendono a colpevolizzarla, a giudicarla, a deriderla o ad osservarla con compassione, sposando una visione cupa e cinica della vita, che alla fine non aiuta nessuno. Il loro intervento non è di stimolo per Eleanor ad uscire allo scoperto e denunciare, ma certamente offre silenzioso sostegno al carnefice che acquisisce forza da chi non prende posizione contro di lui.

La confusione e l’incoerenza del contesto di vita di Patrick Melrose sono infine una trappola decisiva alla consapevolezza di quello che stava accadendo. Un contesto privilegiato, ma emotivamente trascurante. Genitori controllati e formali, ma che possono esplodere nel più imprevedibile e spaventoso dei modi. L’estrema attenzione all’etiquette, ma discorsi volgari, sessisti e umilianti di ogni genere. Per un bambino la realtà rappresentata dagli adulti che ha intorno, è semplicemente l’unica realtà conosciuta e l’unica attraverso la quale può valutare il mondo. Nessun bambino sa cosa è giusto e sbagliato, ma certamente può sentirsi minacciato.

Cosa succede nella mente di un bambino quando si sente in pericolo, ma gli adulti intorno non sembrano preoccupati per lui o peggio ridicolizzano la sua paura? Patrick ha molte emozioni negative e chiarissime sensazioni sgradevoli che vengono dal rapporto con i suoi genitori, ma non sa decifrarne l’origine poiché nessun adulto intorno a lui attribuisce a quegli eventi violenti e spaventosi un significato corretto e univoco. Al contrario il sarcasmo copre di ridicolo una richiesta di aiuto, getta nebbia sulla gravità di una violenza, minimizza i pericoli reali, propone paradossi esistenziali in cambio di spiegazioni e soprattutto: il sarcasmo non è comprensibile a nessun bambino. La soluzione possibile a questa confusione è solo una: “Se per gli altri è tutto normale, allora il problema sono io”. Colpa e vergogna vanno a rafforzare il muro della negazione, stavolta però il muro costruito è dentro la mente di Patrick e dentro ogni bambino vittima di violenza intra-familiare che “sceglie” di non chiedere aiuto e denunciare i suoi aguzzini.

In conclusione

La storia di Patrick Melrose è cruda e dura da ascoltare, ma la denuncia ad una società borghese, distratta e incapace di cogliere bisogni semplici come quelli di un bambino merita di essere ascoltata e trasmette un messaggio di forza: la mente umana ha in sé la resilienza adeguata a rispondere e adattarsi a situazioni sfavorevoli ed estreme, anche a fronte di un’infanzia molto difficile, ma uscire dall’isolamento emotivo che il trauma genera in chi lo ha vissuto è possibile solo se il mondo fuori è disposto a scegliere di non voltare lo sguardo e a non giudicare.

“Le idee sono fatte per essere cambiate.”

Paura, odio e razzismo: perchè fioriscono oggi?

Si cerca all’esterno, negli immigrati, nei migranti, negli omosessuali, nei buonisti, negli intellettuali e negli scrittori sotto scorta, la causa del proprio malcontento. In realtà la causa è dentro: le emozioni negative interne non riconosciute, come paura, tristezza e umiliazione, vengono trasformate in odio e rabbia, queste sono emozioni secondarie che ci fanno sentire forti.

 

Si suggerisce l’ascolto di Benzin dei Rammstein durante la lettura.

Paura, odio e razzismo centrali nella vita di ognuno di noi

Abbiamo tutti paura, tanta paura, viviamo in un mondo non sicuro, tutto è incerto, camminiamo sulle uova, il pericolo può arrivare da ogni parte, dallo sconosciuto tatuato, palestrato e rasato che ci cammina di fronte, dal vicino di casa, dall’immigrato che ci pulisce il vetro, dal fidanzato geloso, da chi guarda troppo o fa un complimento alla nostra donna, dal capo quando ci rimprovera, da chi non la pensa e intende il mondo come noi. Ma è veramente così? Viviamo per davvero in una favela occidentale? O è forse una rappresentazione un po’ esagerata della realtà? Una nostra percezione alterata? E se fosse così, come mai accede ciò? Chiaro che i governanti attuali giocano proprio su questo, per acquisire consensi vanno proprio a riattivare queste paure recondite. Piuttosto di parlare di sviluppo, progetti per il futuro, programmi di governo, risolvere problemi che attanagliano la nazione da decenni, ripetono invece le stesse cose risvegliando paure più antiche, più profonde. E’ tutto studiato, si toccano i giusti tasti emotivi, si toccano sempre i medesimi argomenti, quelli che vanno a ridestare angosce remote, paure che le persone provano da sempre o che non provavano più da decenni. Il popolo si sente realmente in pericolo, minacciato, vulnerabile, indifeso, e allora crede, si fida e si affida a personaggi controversi. Come mai succede questo? Proviamo a ipotizzarlo.

Paura, odio e razzismo: quando il corpo accusa il colpo

Quando il corpo accusa il colpo, il passato sembra presente, la mente crede che sia tutto vero. Aver subito maltrattamenti, essere stati umiliati, non essere stati riconosciuti nel proprio valore o nella propria identità (volevo fare il boy-scout ma mio padre ha voluto che facessi calcio e mia madre pianoforte, oppure, mi sgridavano o prendevano in giro se giocavo con le bambole), non essere stati abbastanza amati, soprattutto nella prima infanzia e nell’adolescenza, ancora peggio, aver subito violenza fisica, sessuale o psicologica per anni, proprio dalle persone che invece dovevano essere punti di riferimento sani (genitori, parenti, preti, maestre di scuola o professori delle superiori, amici di quartiere, allenatori o altri insegnati, ecc.), sono esperienze che lasciano tracce indelebili nelle memorie emotive e somatiche delle persone.

Le memorie implicite, quelle non ricordate ma presenti, guidano già nei primi dodici mesi di vita i comportamenti del bambino, sulla base della sicurezza-insicurezza percepita e dall’organizzazione-disorganizzazione delle cure parentali ricevute (Liotti, Monticelli, Fassone, 2017). Le emozioni negative provate all’epoca e tenute dentro per anni si esprimono con svariati disagi mentali tramite tante forme di somatizzazioni corporee che durano da decenni (Van Der Kolk, 2014). Le massicce emozioni negative sperimentate nel passato e mai affrontate, non elaborate, spesso si dice “rimosse”, stanno ancora tutte lì. Si possono presentare come stati di insicurezza perdurante (anche piccoli disturbi fisici), paura, confusione, malesseri psicologici di vario tipo, difficoltà enormi a fidarsi dell’altro o a vedere molti come potenzialmente minacciosi. La conseguenza è il bisogno urgente di aggrapparsi a qualcosa o a qualcuno per placare l’ansia, l’angoscia e la paura. Ci sentiamo come se fossimo in un deserto e bevessimo da una pozza d’acqua pur sapendo che può essere velenosa. Si è settati costantemente su un sistema di difesa da qualsiasi potenziale minaccia. (Liotti, Monticelli, 2014). Questo fa sì che si cerchi costantemente di vivere in sicurezza, di non subire offese o minacce, di percepirsi forti e di valore sempre e in ogni frangente, ogni insuccesso è un fallimento, una battuta diventa un’offesa imperdonabile. Mai ci si può scorgere vulnerabili, in pericolo o giudicati. Viviamo in assenza di consapevolezza, siamo così abituati a difenderci e a contrattaccare, come facevamo da bambini, che non ci rendiamo conto che l’altro scherza, che non è malevolo, non ci sta offendendo, non ci può rubare il lavoro, non è un nemico ma uno che semplicemente porta avanti la sua vita per i fatti suoi.

Paura, odio e razzismo. Ovvero progresso senza sviluppo, dentro e fuori del Sè.

I tempi di oggi, con la loro vacuità, sono orientati impetuosamente all’immagine, al potere, al possedere, all’apparire. Non si deve essere mai inferiori a nessuno, si ha la pretesa rabbiosa di ottenere soldi e successo o senza impegnarsi o non avendo talenti (oggi si ricevono più complimenti per un tatuaggio che per un risultato artistico o scientifico). Si progredisce troppo rapidamente e sempre di più, ma senza sviluppo, diceva Pasolini. E’ una corsa verso il nulla nel tentativo di riempire vuoti identitari. L’epoca frammentata di oggi è il terreno fertile ideale per alimentare e consolidare la paura di essere in pericolo o in condizioni precarie (emozioni tipiche correlate sono: ansia, panico, incertezza, insicurezza, rassegnazione, rabbia, odio) e la paura di non essere nessuno (emozioni correlate: vergogna, umiliazione, senso di inferiorità, perdita di autostima, rabbia eccessiva ingiustificata, invidia, odio, disprezzo). Si cerca all’esterno, negli immigrati, nei migranti, nei vaccinisti, nei comunisti, negli omosessuali, nei buonisti, nei piddini, negli intellettuali e negli scrittori sotto scorta, la causa del proprio malcontento. In realtà la causa è dentro, è un malessere interiore, primitivo, spesso ricevuto in eredità dai genitori, dai nonni o da chiunque abbia avuto qualche tipo di influenza nella propria vita. Le emozioni negative interne non riconosciute, come paura, tristezza e umiliazione, vengono trasformate in odio e rabbia, queste sono emozioni secondarie che ci fanno sentire forti. Quelle primarie tuttavia, spingono dal sottofondo perché sono lì da sempre. Il fatto che possa essere qualcosa che viene dai recessi della propria psiche, dai propri schemi individuali e familiari è inimmaginabile, viene tutto “proiettato” all’esterno. Gli altri sono visti come minacciosi, umilianti, pericolosi e quindi da odiare, distruggere, annientare, ridicolizzare, bisogna terrorizzarli prima che ti spaventino loro, cosa che da bambini non si riusciva o poteva fare.

E allora via a comprare pistole ad aria, coltelli e cani da combattimento, a picchiare, a minacciare, a fare i leoni da tastiera, a seminare odio, a modificare le mazze da baseball. Difficile pensare che non ci siano pericoli reali, o che sono molto esigui rispetto a ciò che si percepisce. Il pericolo è nella testa, nella rappresentazione negativa che si ha di questi “altri”, i quali diventano non una minaccia reale, ma una minaccia all’immagine di Sé: ho bisogno di sicurezza e benessere, percepisco e mi aspetto che gli altri siano minacciosi o che le risorse siano limitate, come mi è capitato spesso, mi vedo debole, impotente e provo ansia, divento allora rabbioso e metto in atto tutta una serie di comportamenti di sicurezza e di contrattacco (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Tradotto: questi tempi ambigui non mi fanno sentire al sicuro, ci sono precarietà, disoccupazione, scarsità di risorse e di valori (ma anche poco senso del sacrificio nel perseguire i propri obiettivi), qualcuno dall’alto mi convince che la colpa sia tutta dei migranti, dell’Europa o dei sinistroidi, provo ansia, paura e mi vedo minacciato, mi percepisco impotente, la paura diventa odio rabbioso e credo a tutto ciò che viene dai nostri politicanti non laureati e dalle fake news.

Credere a tutto questo mi dà un senso immediato di sicurezza, ma mi fa anche provare anche rabbia e indignazione; queste emozioni reattive mi danno forza, non mi fanno più sentire debole ma capace in qualche modo di poter reagire e fronteggiare il pericolo, con l’attacco, l’odio e il razzismo. Mi fanno anche sentire meno solo, perché ci sono milioni di “indignati” come me. Avviene tutto in un secondo, ma solo nella nostra testa e nel nostro corpo. Il Sé si percepisce vulnerabile, inferiore, in pericolo, debole, come se non potesse accedere ai frutti profumati e maturi offerti dal mondo e dalla vita, tutto per colpa dei migranti, degli abortisti, degli omosessuali e dei comunisti. Tuttavia la questione non è così semplice e riduttiva, c’è anche altro. Gestire la percezione di non valere, di non essere nessuno, avere a che fare con la paura, l’ansia, l’angoscia di un futuro incerto, che si regge su un passato individuale inconsistente e su un presente sociale che non esiste, diventa cosa impossibile da fare soli. Timonare l’incertezza, l’insicurezza personale, lavorativa, sociale, non è cosa semplice. C’è bisogno dell’Altro e degli altri.

Paura, odio e razzismo: cosa accade a Io, Noi e l’Altro.

Nel mondo animale (e anche umano) si riconosce un altro come dominante e guida. Il dramma dell’agonismo tra i membri viene risolto in questo modo, si riconosce che c’è un altro più forte, più intelligente, più abile e lo si segue. Nel mondo animale questo serve a proteggere la specie e a raggiungere una meta comune, le forze di tutti sono dirette verso un unico obiettivo, che non è più individuale ma comunitario: difesa da un nemico, da un predatore, conquista di un territorio, procacciamento (Trower, Gilbert, 1989). Nel mondo umano succede lo stesso, non siamo ancora abbastanza evoluti, il raggiungimento di un’intersoggettività affiliativa genuina ha ancora lunghi passi evolutivi (secolari) da percorrere. Chi ha subito in passato esperienze di umiliazione, di violenza, di abusi, chi in qualche modo dopo anni dagli eventi originari porta ancora dentro di se (ma non lo sa) un nucleo di inferiorità, inadeguatezza, vulnerabilità, debolezza, pericolosità ha bisogno di una guida.

Il fallimento di una riuscita relazione madre-padre-bambino, scarsa sintonizzazione, cooperazione paritetica genitori-figli e carente connessione emotiva, indispensabili nell’infanzia, portano alla “dissoluzione” più o meno prolungata (Jackson, 1884/1958) della dimensione intersoggettiva (Liotti, Monticelli, Fassone, 2017): non ci sentiamo più come gli altri ma diversi gli altri, non sono più con noi ma contro di noi. Immaginiamo questa scena: siamo al bar a prendere un caffè, entrano due uomini di colore e ordinano un caffè mettendosi al bancone affianco a noi, ci aspettiamo già, immediatamente (memorie procedurali implicite) che i nostri bisogni di sicurezza o di sentirci persone di valore vengano meno, ci vediamo deboli e inadeguati, la paura che proviamo diventa immediatamente intolleranza o peggio odio, l’odio è la risposta utile che ci fa sentire forti e al sicuro (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Persone lontane dal raggiungimento di una soddisfazione sentimentale o sessuale, economica, professionale o personale o che, se anche l’hanno raggiunta, devono ancora fare i conti con i piccoli e grandi traumi o con le ferite, più o meno ancora aperte, del proprio animo (Liotti, Farina, 2011) da sole non ce la fanno, ma è normale che sia così, solo che non ne sono consapevoli.

Diventa allora facile proteggersi e credere a chi parla in modo chiaro e a voce alta con un linguaggio semplice. E’ la lingua del popolo, le cose che ognuno di noi vorrebbe sentirsi dire e raccontare, giuramenti irrealizzabili di terre promesse e abbondanti, di ricchi tesori e messaggi di odio verso i nemici che impediscono che questo accada: l’Europa, i buonisti, i migranti, i comunisti. Non è più allora responsabilità di tuo padre (o di altri) che da bambino ti picchiava, ti umiliava o non ti capiva se oggi ti senti a volte strano, irrealizzato o scontento, è colpa del PD, delle ONG e di Saviano. Il senso (illusorio) di sicurezza arriva dall’alto, dal vertice politico e istituzionale, che come un padre buono e gigante, severo ma giusto fa tutto solo per il tuo bene, questo nobile fine giustifica ogni loro e tua nefandezza. Questa dimensione relazionale per così dire, verticale, soddisfa pienamente il bisogno di sentirci al sicuro, guidati e protetti da un Salvini salvifico che ci guarisce dall’ansia e dall’angoscia (trasformandole in odio) causate dal nulla, un nulla sociale, umano, culturale e valoriale in cui in realtà come disperati annaspiamo le nostre vite (le droghe, i social, i selfie, le sale da gioco, i cani e i gatti, i programmi tv spazzatura, sky, le escort, il calcio, le serie tv, i siti porno non bastano a riempire appieno la vita, ci fanno solo sentire vivi per brevi istanti).

Paura, odio e razzismo sotto c’è bisogno di appartenere e di esser visti

Vi è però un’altra dimensione molto viva e attiva da acquietare, quella che riguarda le relazioni per così dire orizzontali, sono bisogni altrettanto importanti da soddisfare, il bisogno di appartenenza (compagnia) e il bisogno di valere qualcosa agli occhi di noi stessi e degli altri (rango). Semplificando: se altri la pensano come te, sentono soddisfatti gli stessi bisogni di sicurezza, vivono gli stessi psicodrammi interni misconosciuti descritti sopra, allora ti senti meno solo, al sicuro e di contare qualcosa. Il bisogno di far parte, di essere integrati in un gruppo in cui ci si riconosce come membri, accettati, ci fa sentire persone di un certo valore, persone che contano (come quando si passeggia per strada e si salutano tante persone, quasi sempre senza dirsi nulla). Sapere che altri la pensano come noi ci fa anche sentire al sicuro, protetti dalla minaccia di subire rifiuti, umiliazioni o di rimanere soli, ci da anche la sensazione di essere protetti dal pericolo di sciagure personali, di diventare o rimanere poveri, perdere il lavoro, la casa o il partner (non importa poi se la maggior parte dei maschi italiani sperpera i propri patrimoni familiari con prostitute straniere, nelle sale scommesse e passa ore sui siti porno o sui social anziché studiare o imparare un mestiere). A maggior ragione poi, se questo senso di accoglimento viene condiviso da più della metà della popolazione italiana, guidati da un ministro senza giacca e cravatta, con la panzetta e la barba sfatta. Lo sentiamo vicino, è uno di noi e ci sentiamo vicini tra noi. Ma è un senso del Noi non genuino, si regge sulla paura ed è basato sul rango. Non è uno stare assieme autentico, è un’affiliazione illusoria, ogni opinione diversa, ogni differenza, diventa una minaccia a un senso del noi fasullo, quando invece, un senso del noi pienamente compiuto contempla la differenza in quanto occasione di crescita e di sviluppo per l’intera comunità (Liotti, Fassone, Monticelli, 2017). I seguaci dei nostri governanti non accettano il confronto, non accettano la critica, non accettano argomentazioni, rispondono con frasi fatte e illogiche (Es: “portateli a casa tua i migranti”, “rosiconi”, ecc.). Tutto diventa per loro minaccioso, il contraddittorio riapre ferite remote, traumi o vissuti irrisolti, umiliazioni antiche, frustrazioni e scontentezze attuali che, si sono originate in un oscuro e nebuloso passato individuale, e che vengono riversate all’esterno del Sé, contro poveri disperati dalla pelle scura (“lo nero periglio che vien dallo mare”, che già Brancaleone da Norcia temeva) e chiunque non confermi le loro posizioni comode e rassicuranti. Tutto è gestito dall’alto da scaltri gerarchi cialtroni (nella prima Repubblica questi avrebbero lavato le scale) ben consapevoli delle debolezze (non riconosciute, negate e rifiutate) del loro popolino impaurito e della sudditanza che provocano in esso.

Domanda: Ma allora vuol dire che la metà della popolazione italiana vive in un organizzazione psicopatologica di personalità e non lo sa?

Risposta: Non lo so, ma è probabile che valga per molti di più, non intesi come singoli, ma come popolazione, come identità culturale nazionale, che, o non esiste più, o è vittima di un cancro maligno degenerativo e inguaribile, qualcosa di simile a ciò che descriveva Thomas Mann nel Doctor Faustus riferendosi alla sua Germania degli anni ’30-40.

L’importanza della relazione terapeutica nel trattamento di pazienti psichiatrici – Report del convegno di Palermo del 29 ottobre 2018

Relazione terapeutica, empatia, ascolto, collaborazione, stile decisionale condiviso da paziente e terapeuta, non subito e non imposto: tutti elementi indispensabili per un trattamento di successo a lungo termine, attorno ai quali si gioca l’efficacia della psicoterapia e l’aderenza stessa al trattamento farmacologico, nelle patologie a carattere psicotico.

 

Questo il focus delle relazioni che si sono succedute il 29 Ottobre scorso nella cornice sontuosa del Mondello Palace Hotel, a Palermo, all’interno del Convegno dal titolo “La Relazione terapeutica in psichiatria”, promosso, tra le altre, dalla Società Italiana di Psichiatria sociale.

Un momento di alto valore scientifico utile per riflettere sull’importanza della relazione umana, prima ancora che sull’utilizzo di specifiche tecniche riconducibili a specifici orientamenti terapeutici. Emblematiche a tal proposito le relazioni di apertura dell’evento a cura di Andrea Fiorillo, Dipartimento di Psichiatria, Università della Campania “L. Vanvitelli”, Napoli e Serafino Di Giorgi, Dipartimento Salute Mentale ASL di Lecce, dedicati al ruolo della relazione terapeutica nel trattamento della schizofrenia.

In una prospettiva di psichiatria centrata sul cliente, la relazione terapeutica, elemento alla base di ogni atto medico, basata su ascolto ed empatia, svolge un ruolo centrale nel successo terapeutico, in quanto fattore aspecifico, trasversale alle differenti tecniche specifiche di un approccio, che influenza maggiormente la compliance ai trattamenti. In definitiva, è chiaro come non sia la psicoterapia con specifiche tecniche a essere efficace, quanto l’ascolto per il paziente e le sue esigenze, il suo coinvolgimento in ogni step della cura, soprattutto per gli interventi complessi, necessari in patologie gravi come la schizofrenia e il disturbo bipolare.

Un rapporto empatico e fiduciario che si salda attraverso una comunicazione aperta delle proprie esigenze, in cui la continua rivalutazione dell’efficacia dei trattamenti e delle “scelte” avviene alla luce di decisioni condivise, discusse e partecipate, nella cornice ideale di un decision making condiviso.

Esistono due tipologie di decision making clinico, parte integrante del processo di cura, che possono riguardare vari ambiti, dal lavoro alle relazioni sentimentali, alla gestione della terapia farmacologica. Da una parte le decisioni di tipo paternalistico, basate su raccomandazioni e informazioni, prese fondamentalmente dall’alto, utili in specifiche occasioni in cui, per esempio, le abilità o risorse del paziente siano lacunose, poiché questi si trova in un momento particolarmente intenso della sintomatologia, e un decision making condiviso, in cui la decisione sul trattamento deriva dalla concertazione dei punti di vista di paziente e terapeuta, e dal coinvolgimento dei familiari – sottolinea Gaia Sampogna, Andrea Fiorillo, Dipartimento di Psichiatria, Università della Campania L. Vanvitelli, Napoli – Adottare uno stile condiviso equivale a offrire al paziente la migliore assistenza, nel rispetto delle sue preferenze e valori, di modo che la responsabilità della decisione ricade tanto sull’operatore che sul paziente. È da sottolineare come le decisioni adottate utilizzando uno stile condiviso, importante per instaurare una buona relazione con i pazienti affetti da schizofrenia, si associno a un ridotto tasso di drop out e a esiti migliori a lungo termine, soprattutto in termini di funzionamento personale e sociale.

Una relazione terapeutica che diventa, quindi, asse portante dell’intera efficacia del trattamento, una fiducia da costruire con gli strumenti dell’ascolto e dell’empatia, nella co-costruzione di quelle scelte che definiscono la ri-costruzione funzionale di una vita orientata al benessere e all’accettazione, da generalizzare nei differenti contesti di vita, al di là dei limiti spaziali e temporali propri del setting terapeutico, lungo l’arco di vita della persona.

Costruire l’etica dell’intelligenza artificiale

Lo studio dei dilemmi morali risulta essere una precondizione necessaria prima dell’adozione di mezzi di trasporto autonomi guidati da sistemi di intelligenza artificiale.

 

Alcune delle più grandi compagnie tech al mondo, sviluppatrici di automobili, come Google, Uber e Tesla, stanno programmando veicoli in grado di muoversi e viaggiare senza guidatore con l’idea che questi possano, in futuro, migliorare la sicurezza su strada riducendo gli incidenti e facilitare il traffico automobilistico.

L’idea di facilitare il traffico automobilistico e ridurre gli incidenti inevitabilmente comporterà l’utilizzo dell’ intelligenza artificiale (AI) nei dispositivi elettronici dei veicoli, ma soprattutto porterà con sé delle implicazioni etiche di non facile soluzione: infatti verrà richiesto ai sistemi di intelligenza artificiale di trovare compromessi tra pericolo per i passeggeri dell’auto o per i pedoni sulla strada e risolvere quindi al momento potenziali rischi tramite processi di valutazione e decision-making.

La risoluzione di dilemmi morali sarà pertanto affidata ad algoritmi nonostante molti si sono dimostrati contrari e poco fiduciosi all’idea che sia un algoritmo a prendere decisioni sulla vita e sulla morte propria e altrui senza che vi sia alcun parere o intervento umano a riguardo (Awad, Dsouza, Schulz, Rahwan et al., 2018).

In questo contesto, lo studio dei dilemmi morali risulta essere una precondizione necessaria prima dell’adozione di mezzi di trasporto autonomi.

Intelligenza artificiale e dilemmi morali: l’esperimento della “Moral Machine”

A tal proposito, alcuni ricercatori appartenenti al Media Lab del Massachussets Istitute of Technology, del dipartimento di Biologia Evolutiva dell’università di Harvard e del dipartimento di Psicologia dell’University of British Columbia di Vancouver, hanno incominciato ad approfondire sperimentalmente il tema della moralità e delle modalità attraverso le quali gli individui selezionano e scelgono un’azione “morale” in diverse combinazioni di scenari, che potrebbero verificarsi anche nella quotidianità, in cui veicoli, passeggeri e pedoni entrano in collisione e in cui si verifica inevitabilmente la morte dei primi o di quest’ultimi.

Attraverso l’analisi di risposte ottenute tramite survey online a cui hanno partecipato circa 3 milioni di persone in tutto il mondo, Awad, Dzousa, Shultz e colleghi (2018), nel loro studio intitolato “The Moral Machine experiment” apparso su Nature, hanno rivelato una variazione culturale nei principi morali che guidano la presa di decisioni morali ed etiche nei guidatori, sfatando il concetto di un’universalità dei principi in culture estremamente differenziate ed eterogenee quando si tratta di dilemmi morali.

Lo studio ha osservato come le preferenze rilevate dalla “Moral Machine” siano altamente correlate con le differenze culturali ed economiche tra i paesi.

In particolare i ricercatori hanno mostrato come le risposte date dalle persone in 233 paesi possono essere divise e categorizzate in modo sommario in tre grandi gruppi o cluster: il primo contiene il Nord America e la maggior parte delle nazioni europee e altri paesi in cui il cristianesimo storicamente ha prevalso e tuttora è presente (Cluster Nord), il secondo è costituito dai paesi dell’Est come il Giappone, l’Indonesia e il Pakistan in cui è presente una forte tradizione sia musulmana che confuciana (Cluster Est), mentre il terzo include l’America Centrale e Meridionale, la Francia e i paesi ex colonie francesi (Cluster Sud).

Alla domanda “Cosa dovrebbe fare il guidatore della macchina, travolgere tre pedoni uccidendoli o salvare loro la vita a scapito della propria?” (la macchina inevitabilmente andrà a finire contro un blocco di cemento), coloro che sono stati raggruppati nel Cluster Sud mostravano una maggioranza di risposte che tendevano a risparmiare dalla morte ad esempio i pedoni più giovani rispetto al Cluster Est; oppure il Cluster Sud esibiva una minor attitudine nel risparmiare la vita ad animali rispetto agli altri due Cluster.

È importante notare che nelle varie combinazioni degli scenari morali infatti le caratteristiche dei pedoni si modificavano per età, genere, status sociale, chi partecipava al gioco poteva mettere in atto delle strategie che potevano focalizzarsi su nove fattori: risparmiare la vita di persone versus quelle di animali, salvare quella dei passeggeri dell’auto a discapito di quella dei pedoni, risparmiare i più giovani rispetto agli anziani, donne (anche in gravidanza) rispetto a uomini e quelli con status sociale più elevato e così via.

In conclusione

L’esperimento della “Moral Machine”, ancora in corso, rappresenta il primo esempio di ricerca sperimentale in grado di raccogliere e poi categorizzare in tre macro cluster, con analisi all’avanguardia, un campione proveniente da tutto il mondo, ampissimo e assai eterogeneo per religione, educazione, cultura, con il fine di identificare i mediatori culturali e demografici delle preferenze morali per la risoluzione di dilemmi etici.

Gli autori si augurano che la raccolta di queste preferenze in futuro potrebbe contribuire allo sviluppo di principi globali e socialmente accettati per la costruzione di “Macchine Morali” in grado autonomamente di risolvere dilemmi seguendo le aspettative sociali, economiche, demografiche e culturali dell’intera area pubblica in cui vengono progettati, all’incirca come accade per i cittadini che guidano per le strade.

La diffusione del panico nella folla: l’importanza del fenomeno nella medicina delle catastrofi

Il panico rappresenta una paura esasperata che conduce verso comportamenti afinalistici. Se la paura costituisce una reazione vantaggiosa per la preservazione della specie e dell’individuo, il panico, al contrario, non avendo una funzione specifica né di tutela del singolo né di risposta ad un evento avverso, può sfociare in comportamenti deleteri per l’individuo stesso e per il suo entourage.

Monica Patetta, Marco Tanini, Simona Leone

 

Una catastrofe è sempre grave, improvvisa e imprevista e la sua gravità è misurata con parametri quantitativi (Ligi, 2009).

Secondo la definizione delle Nazioni Unite, una catastrofe o disastro è “un evento concentrato nel tempo e nello spazio, nel corso del quale una comunità è sottoposta a un grave pericolo ed è soggetta a perdite dei suoi membri, o delle proprietà o dei beni, in misura tale che la struttura sociale è sconvolta e risulta impossibile lo svolgimento delle funzioni essenziali della società stessa” (Scandone, Giacomelli, 2015).

Esistono molteplici classificazioni di disastri e catastrofi a seconda del parametro preso in considerazione: numero delle vittime, fattori scatenanti configurazione geografica ecc…

Prozeski nel 1979 classifica i disastri in base all’entità (piccola, media o grande) al totale delle persone coinvolte (tra 25 e 99, tra 100 e 999 o più di mille) e al numero di pazienti che necessitano di trattamento ospedaliero (tra 10 e 49, 50 e 249 o maggiore di 250).

I comportamenti collettivi

Per un’analisi efficace dei fattori di una catastrofe e per la sua gestione, non possiamo prescindere da una valutazione di tipo filosofico, sociologico e antropologico dei meccanismi che sono alla base dei comportamenti collettivi.

Per comportamento si intende l’insieme delle risposte che un organismo animale dà in conseguenza di uno stimolo esogeno e/o endogeno. Il comportamento può essere individuale o collettivo (Moro, 2003). Secondo Smelser il comportamento collettivo (Smelser, 1968) è caratterizzato da una risposta spontanea e non strutturata di un gruppo di persone quale reazione nei confronti di una situazione di incertezza o di minaccia.

Parlando di medicina delle catastrofi i comportamenti collettivi sono definiti adatti quando la struttura di quel gruppo sociale sopravvive o è in grado di riorganizzarsi oppure comportamenti collettivi inadatti, quando una risposta illogica e irrazionale produce conseguenze pericolose per la sicurezza delle vittime e degli stessi soccorritori. Tra i più significativi troviamo il panico (Cuzzolaro, Frighi 1991).

Goode ha stabilito una classificazione dei comportamenti collettivi secondo otto prospettive teoriche (Goode, 1978, 1990). Se ne prenderanno in considerazione in questo contesto solo quattro: la teoria del contagio, la teoria della convergenza, la teoria della norma emergente e la teoria del valore aggiunto.

La teoria del contagio, che si ispira a Le Bon (Le Bon, 1979), rappresenta la prima di tali prospettive e mette in evidenza quanto i comportamenti collettivi tendano ad essere uniformi: protetto dall’anonimato della massa anche l’individuo più flemmatico può diventare audace ed irruente, agendo per imitazione o suggestione. L’assenza di un controllo diretto e la formazione di una massa “critica” costituitasi casualmente, aumenta il senso di deresponsabilizzazione, portando all’azione collettiva. Quando la frenesia della massa si propaga e diventa collettiva si parla di contagio sociale.

Secondo la teoria della convergenza individui inclini al medesimo atteggiamento, che si ritrovino nella medesima condizione tenderanno verosimilmente ad assumere il medesimo comportamento collettivo, anche qualora questo fosse aggressivo, prevaricatore o distruttivo.

Queste teorie suppongono che il comportamento collettivo abbia in sé delle connotazioni negative in violazione di norme consolidate.

Turner e Killian (Turner e Killian, 1957, 1987), con la teoria della norma emergente, ipotizzano la costruzione di nuove norme comportamentali, plausibili, ammissibili ed attuabili, a partire da un rimodellamento della norma preesistente, nel momento in cui questa appaia obsoleta o inadeguata o ambigua. Gli individui inseriti in una determinata situazione riscriverebbero la norma comportamentale fondendola con la norma precedente e con la propria opinione personale.

Per quanto riguarda inoltre la teoria del valore aggiunto, attribuibile a Smelser, un comportamento collettivo si verificherà solo e soltanto al realizzarsi in sequenza di determinate condizioni, vale a dire:

  1. presenza di una situazione che permetta o promuova un determinato comportamento
  2. ansietà diffusa causata dall’incertezza che diventa problema da risolvere
  3. presenza di credenze o “sentito dire”, per cui agire in uno specifico modo
  4. intervento di fattori precipitanti
  5. intervento di un leader che promuova la mobilitazione
  6. mancanza o eccesso di controllo sociale

Se la sequenza viene interrotta per la mancata realizzazione di una delle condizioni, secondo Smelser il comportamento collettivo non sarà presente.

Nel comportamento collettivo si individuano 3 emozioni fondamentali: paura, ostilità, gioia (Lofland, 1985) preceduti nel caso di una situazione catastrofica dalla sorpresa.

La paura

La paura è una emozione derivata dalla percezione di un pericolo, reale o presunto; si tratta di un’emozione primaria, condivisa con molte specie animali, che ha come unico obiettivo la sopravvivenza dell’individuo o della specie (Oliviero Ferraris 2013).

La reazione di attacco e fuga, innescata dalla paura è una risposta ancestrale vantaggiosa per l’evoluzione, chiamata anche reazione da stress acuto e descritta da Walter Cannon (1929).

Cannon teorizza che gli animali compreso l’uomo, reagiscono alle minacce del mondo esterno con una scarica generale del sistema nervoso simpatico.

Molti ricercatori nel corso degli anni si sono dedicati allo studio delle emozioni, partendo da Cannon (1927), Bard (1934), Schachter e Singer (1962), fino ad arrivare a Zajonc e Sherer (1984).

Per sua natura, la reazione di attacco e fuga scavalca la mente razionale, l’organismo si muove in modalità “attacco” e il mondo viene percepito come minaccioso (Nardone, 2016).

Nel suo lavoro del 2007, Porges analizza i meccanismi ancestrali delle reazioni umane ascrivibili all’attivazione delle due branche del sistema nervoso autonomo: il sistema simpatico, la cui attivazione è generata dalla dismissione in circolo di adrenalina e noradrenalina che causano le reazioni di “fight or flight” (lotta e fuga), e quello parasimpatico, attivato dall’acetilcolina, che provoca le risposte “rest and digest”, cioè di rilassamento fisiologico. Lo studio di Porges presuppone che la componente parasimpatica sia distinta in due parti: la branca vago-ventrale sarebbe attiva in situazioni percepite come relativamente sicure, producendo uno stato di tranquillità mentre la branca vago-dorsale si attiverebbe in situazioni percepite come rischiose per la vita dell’individuo, producendo tramite un crollo del tono vagale uno stato di catalessia e di “morte apparente” provocato dall’ipotonia muscolare. Questa reazione, che ci deriva dai rettili, è un ricordo ancestrale vantaggioso dal punto di vista evolutivo. La neurocezione è il processo neurale che coinvolgendo il lobo temporale e il sistema limbico è in grado di soppesare gli stimoli ambientali distinguendone la pericolosità e dunque discriminando fra quale delle tre reazioni sia la più idonea in un determinato contesto (Porges, 2001).

Il panico

Pànico (agg. e s. m. dal lat. panĭcus, gr. πανικός , derivato dal nome del dio Πάν, Pan): 1- nella mitologia greca Pan era il dio delle montagne e della vita agreste, patrono del riposo meridiano; in particolare, era detto timor panico, terrore panico quel timore misterioso e indefinibile che gli antichi ritenevano cagionato dalla presenza del dio Pan. 2- s. m. Senso di forte ansia e paura che un individuo può provare di fronte a un pericolo inaspettato, e che determina uno stato di confusione ideomotoria, caratterizzata per lo più da comportamenti irrazionali: farsi prendere, lasciarsi vincere dal panico. In particolari situazioni, tale reazione può diffondersi rapidamente tra più individui di una folla, dando luogo a fenomeni di panico collettivo: la folla è fuggita in preda al panico; lo scoppio improvviso ha suscitato il panico del pubblico. Anche, psicosi collettiva provocata dal diffondersi di notizie allarmanti: il crollo delle azioni ha fatto nascere il panico nell’ambiente della borsa; le notizie sull’epidemia hanno diffuso il panico nella popolazione.

La debolezza dei comportamenti di crisi, sottolineata da alcuni autori, è legata alla destrutturazione del corpo sociale, anziché alla sua mobilitazione. La manifestazione limite di questi comportamenti è rappresentata dal panico, che si palesa quando un corpo sociale percepisce l’aleggiare di una minaccia aspecifica, ardua da individuare e conseguentemente da affrontare.

Il panico rappresenta la reazione ad una catastrofe, sia essa naturale, come un terremoto o un’alluvione o un tornado, che di origine antropica, quale un incidente aereo, il collasso di una diga o un incendio.

Secondo Touraine il comportamento di crisi decompone il gruppo e lo sostituisce con una folla incapace di decisioni finalizzate, in cui ogni singolo individuo agisce solo per la propria salvaguardia.

È a questo punto che entrerebbe in gioco la figura del leader, il quale, secondo le opinioni di Le Bon e Freud, imporrebbe il suo dominio non tanto sulla totalità degli individui, quanto sul singolo.

Il panico rappresenta quindi una paura esasperata che conduce verso comportamenti afinalistici; se la paura costituisce una reazione vantaggiosa per la preservazione della specie e dell’individuo, il panico, al contrario, non avendo una funzione specifica né di tutela del singolo né di risposta ad un evento avverso, può sfociare in comportamenti deleteri per l’individuo stesso e per il suo entourage.

Il panico è una situazione senza via di scampo, in cui prevale una sensazione di ineluttabilità. Nella realtà delle cose il panico scoppia solo se c’è la percezione di un grande pericolo per sé o altre persone vicine, se il salvataggio è visto come possibile, ma le vie di fuga e le opzioni sono limitate e quando l’individuo si lascia sopraffare da una sensazione di impotenza e incapacità di evitare il pericolo in altri modi.

La paura, nonostante sia una motivazione forte, non porta necessariamente a comportamenti di panico in situazioni di disastro e di emergenza. (Lavanco 2007)

Al contrario: soprattutto durante situazioni estreme gli esseri umani hanno fondamentalmente un atteggiamento prosociale, solidale, generoso e disponibile.

Questo vale ancora di più se le altre persone coinvolte non sono estranee. Il “fattore sociale”, pertanto, può effettivamente diventare un pilastro della cultura della sicurezza operativa.

Conclusioni

Il numero delle vittime di un disastro può essere ridotto attraverso la conoscenza, da parte della popolazione esposta al rischio, di misure comportamentali da adottare al verificarsi dell’evento disastroso, finalizzate a ridurre la distruttività e i danni personali.

La diffusione di tali informazioni riduce l’evoluzione dei fenomeni negativi di origine psicologica che caratterizzano le grandi emergenze (es. panico). Considerazioni come queste non vanno trascurate in quanto, soprattutto nei luoghi affollati, l’ipereccitazione o l’apatia possono generare morti e pericoli in quantità superiore rispetto a quelli dovuti all’agente causa dell’emergenza.

Il panico, seppur preceduto dallo svilupparsi di un’intensa paura, può scatenarsi improvvisamente e propagarsi velocemente per imitazione o subalternità. In queste situazioni ci si aspetta di riscontrare il dissolversi della coscienza individuale accompagnata da alterazioni delle percezioni e del giudizio, regressione, suggestionabilità, impulsività, gregarismo acritico con adeguamento automatico al movimento degli altri, sentimento di appartenere a una potenza oscura e partecipazione violenta senza responsabilità. Se tutto ciò dipinge efficacemente quello che ci si attende da una reazione di panico collettivo, occorre prestare attenzione a non generalizzare quest’immagine come l’unica capace di descrivere ciò che accade in una folla durante una situazione di emergenza. Vi è, infatti, un’altra reazione, ben più pericolosa e insidiosa che viene troppo spesso sottovalutata: la negazione del pericolo.

Si può pensare di limitare i danni derivanti dalla folla colta dal panico solo attraverso un meccanismo di prevenzione che si basa principalmente sulla diffusione di informazioni esatte, sui pericoli che si possono presentare nei diversi tipi di catastrofi e sul comportamento da adottare in tali circostanze.

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