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Violenza domestica e terapia metacognitiva interpersonale – Congresso SITCC 2018

Durante il congresso SITCC 2018 di Verona uno di noi (Andrea Pasetto) ha presentato un caso clinico di violenza domestica trattato con Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Popolo et al, 2013) all’interno di un Simposio organizzato dal Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma (CTMI) e che aveva come tema comune la TMI in condizioni relazionali estreme.

 

Il fenomeno della violenza domestica è uno dei problemi sociali più significativi e pervasivi in termini di impatto sociale, psicologico ed economico.

Si definisce violenza domestica un pattern di comportamenti che una persona agisce all’interno di una relazione affettiva per controllare e dominare l’altro partner incutendo paura e limitandone la libertà personale (Dobash, Dobash,1998). Si stima che in tutto il mondo, circa il 30% delle donne che hanno avuto una relazione affettiva abbiano subito violenza fisica e/o sessuale dal proprio partner (Misso D., Dimaggio e Schweitzer, 2018). In Italia circa una donna su tre tra i 16 ed i 70 anni riferisce di aver subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nell’arco della propria vita. I partner attuali o ex partner commettono le violenze più gravi, il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente (ISTAT 2015). Tale quadro viene confermato anche dai dati della comunità internazionale dove ben il 38% delle donne uccise sono uccise per mano del proprio compagno (WHO, 2016).

L’intervento psicoterapeutico ha bisogno di considerare l’eventuale presenza di disturbi di personalità e/o tratti di personalità, in particolare alcuni autori hanno riscontrato come i tratti di personalità relativi a disinibizione, antagonismo e distacco siano positivamente associati a questa tipologia di offenders (Dowgwillo et al., 2016). Inoltre essere di giovane età e avere un disturbo correlato all’uso di alcol oppure la presenza di disturbo di personalità del cluster B (Borderline, Narcisistico, Istrionico) o dipendente aumenta la probabilità di agire violenza all’interno della coppia (Okuda et al., 2015).

Come si presentano i Domestic Offenders in terapia? Presentano metacognizione compromessa, in particolare hanno difficoltà a riconoscere e descrivere le proprie emozioni (alessitimia), scarsa consapevolezza dei segnali emotivi attivanti (soprattutto emozioni negative), scarsa differenziazione (rappresentazioni negative di sé con l’altro prese per vere) e scarsa teoria della mente. Gli schemi interpersonali prevalenti partono dal desiderio di essere apprezzati (rango sociale) e amati (attaccamento). A fronte del loro desiderio tendono a costruire l’altro, la partner in particolare come: “mi ignora, mi trascura, mi tradisce e mi umilia”. Quando leggono il comportamento dell’altro secondo queste immagini schema-dipendenti, rispondono sentendosi innanzitutto di scarso valore e non amati, e questo conferma le immagini nucleari di sé. Accedono però con difficoltà ai sentimenti dolorosi di tristezza, solitudine, umiliazione e subito transitano verso rabbia reattiva e strategie di controllo e dominanza. Insomma molti uomini che agiscono violenza domestica agiscono in modo aggressivo e impulsivo reagendo ad emozioni dolorose che non sanno nominare e di conseguenza poi regolare e si trovano ad agire, nelle relazioni con la partner, guidati da schemi interpersonali che non sanno riconoscere.

A partire da queste considerazioni la TMI mette in risalto come le difficoltà metacognitive presentate da questa tipologia di offenders possono essere un obiettivo del trattamento per favorire l’interruzione del comportamento violento e la promozione del cambiamento. Quindi promuovere la Metacognizione li aiuta a capire il proprio funzionamento durante gli episodi di violenza, trovare soluzioni alternative al comportamento violento ed una maggiore attività regolatoria (riduzione dell’aggressività).

Come funziona? Prima di tutto il contratto: deve essere chiaro al paziente che il focus della terapia è l’aggressività e la violenza, ma all’inizio con lo scopo di capire cosa rende il coping disfunzionale, violento, così automatico e incontrollabile. Quindi l’obiettivo è concentrarsi sugli gli antecedenti psicologici dell’aggressività. Si chiede al paziente di concentrarsi e capire cosa succede dentro di lui un attimo prima dell’esplosione violenta, cosa pensa e prova, cosa sente a livello corporeo. Per fare questo è importante elicitare episodi narrativi legati a comportamenti aggressivi per allenare il monitoraggio emotivo e cognitivo. Attraverso l’analisi e l’elicitazione degli episodi narrativi personali arriviamo ad una formulazione condivisa del funzionamento del paziente per ricostruire gli schemi interpersonali tipici, ad esempio: “Desidero essere apprezzato/stimato (immagine negativa sottostante come inferiore e debole), la partner mi critica e mi svaluta – mi sento umiliato, schiacciato/sottomesso (risposta del sè) – reagisco con rabbia e la attacco”.

A partire poi dalla formulazione condivisa del funzionamento si procede con due tipi di interventi:

  • il primo intervento ha lo scopo di favorire possibili memorie associate all’episodio emerso, in modo che il paziente reagisca a qualcosa che non è connesso direttamente alla partner, ma alla propria storia personale. Si tratta quindi di promuovere la differenziazione tra gli schemi interni e la realtà esterna. Si mira quindi a  promuovere una distanza critica dai modelli interiorizzati di costruzione di significati.
  • il secondo intervento ha lo scopo di lavorare sulla regolazione dello stato emotivo attivato dalla risposta dell’altro, cercando di promuovere strategie regolatorie alternative all’aggressione per lenire lo stato affettivo doloroso.

Il caso clinico presentato all’interno del Simposio riguarda Roberto: 33 anni, celibe, diploma professionale. Lavora come imprenditore edile, presenta buone capacità lavorative. La relazione con  Barbara inizia nel 2012 e vanno a convivere nel 2014. Viene inviato dalla psicologia territoriale dopo alcuni incontri di terapia di coppia (Ottobre 2017). Riferisce precedenti interventi psicoterapici per problemi di ansia generalizzata. Non riporta uso di sostanze. Dai primi colloqui si evidenziano «tratti» di personalità di tipo paranoide, narcisistico, ed ossessivo. Roberto ammette di avere comportamenti di controllo dettato dalla gelosia, che sfociano poi in violenza verbale e fisica verso Barbara.

Roberto è guidato dai desideri di essere amato, e apprezzato/stimato. La rappresentazione di sé sottostante è: non amabile e inferiore rispetto a un altro più interessante di lui. Dagli episodi narrativi emerge il timore di Roberto di essere tradito e abbandonato da Barbara. La rappresentazione negativa di sé è connessa al ricordo di episodi in cui mamma ha preferito il fratello minore dopo la sua nascita, concentrando le attenzioni su di lui e facendo sentire Roberto come inferiore e non più amato.

Trattamento: la riduzione del comportamento violento è lo scopo a lungo termine e il comportamento violento è il focus principale del trattamento, tuttavia dobbiamo focalizzarci sugli antecedenti del comportamento violento e cosa rende la violenza così automatica, potente e non controllabile come meccanismo. A partire dal contratto quindi si passa all’ esplorazione degli episodi narrativi di violenza nei loro elementi cognitivi ed emotivi per attivare la metacognizione ed accedere agli stati mentali prevalenti. Successivamente ricostruiamo una formulazione condivisa del funzionamento e stimoliamo la connessione di memorie associate allo schema emerso per promuovere la differenziazione e la regolazione dello stato emotivo attivato dalla risposta dell’altro.

Il lavoro sugli episodi narrativi violenti per allenare il monitoraggio emotivo e cognitivo di Roberto porta il terapeuta ad una formulazione condivisa del funzionamento come di seguito: “Lei Roberto desidera essere sicuro/apprezzato/amato nella relazione con Barbara. Immagina gli altri superiori a lei e migliori di lei. Si aspetta quindi che Barbara preferisca altri a lei, la tradisca e l’abbandoni, (immagine di sé come inferiore e non amabile). Prova ansia, paura, tristezza e gelosia e a quel punto assume comportamenti di controllo perché Barbara non la tradisca, si arrabbia con lei e l’aggredisce, ma questo non fa diminuire la paura né i sentimenti di inferiorità e non-amabilità.

Con la richiesta di memorie associate a questa struttura narrativa, Roberto connette l’immagine negativa di sé non amabile ed inferiore alla sensazione di inferiorità e non amabilità sperimentata nel periodo in cui è nato il fratellino più piccolo Giovanni e mamma aveva riversato tutte le sue attenzioni su di lui. Da qui inizia la svolta del trattamento e l’inizio del processo di differenziazione, quando Roberto inizia a comprendere che lui “Non è necessariamente inferiore/sbagliato/non amabile ma guidato da questa idea (che gli ricorda quello che è successo con mamma) reagisce con violenza verso Barbara e fa delle cose che hanno conseguenze sfavorevoli”.

Roberto negli incontri successivi comprende che la paura che Barbara lo abbandoni e lo tradisca è schema-dipendente e dipende da quello che prova lui, dalle emozioni che vive internamente. L’attenzione focalizzata su Barbara che può tradire e abbandonare è schema dipendente e non corrisponde necessariamente alla realtà. Roberto in uno degli ultimi incontri riferisce: «la fonte delle mie paure non è Barbara, ma è dentro di me». Tale consapevolezza aiuta Roberto a bloccare il coping disfunzionale violento e promuove una maggiore autoregolazione con diminuzione del comportamento violento e dei comportamenti di controllo nei confronti della partner. Quest’ultima attraverso un contatto telefonico conferma la diminuzione dei comportamenti violenti sia in frequenza che in intensità.

E’ solo un gioco? La ricerca del rischio e i giochi pericolosi in adolescenza

Negli adolescenti è tipica l’esigenza di unicità e visibilità ed è proprio tale desiderio che li conduce spesso a mettere in atto comportamenti provocatori e a volte rischiosi.

 

Negli anni passati, non era previsto un periodo di transazione preciso tra l’infanzia e l’età adulta. Molti giovani trascorrevano gli anni precedenti e successivi alla pubertà entro i confini familiari. Le ragazze imparavano tra le mura domestiche a svolgere mansioni femminili, mentre i ragazzi venivano inseriti come apprendisti presso gli artigiani.

Oggi l’adolescenza è definita come una fase del ciclo di vita umano, una transazione dello stato di bambino a quello adulto. Essa ricopre un periodo lungo e mutevole da individuo a individuo in cui, a fronte delle numerose trasformazioni fisico-corporee, si assiste a profondi cambiamenti psicologici che investono le capacità cognitive, la sfera affettiva e le competenze sociali della persona.

La fase di transazione, non deve essere vista come svalutazione del contributo sociale e culturale ma un periodo di vita vissuto dagli adolescenti, come momento evolutivo per il processo di costruzione dell’identità, stato autonomo dove gli adolescenti sono capaci di concentrarsi sulla propria vita interiore.

L’adolescenza oggi: desiderio di unicità e comportamenti provocatori

Nei giovani d’oggi è tipica l’esigenza di unicità e visibilità che li conduce a mettere in atto comportamenti di provocazione. Il loro scopo è in ogni caso quello di anticipare l’adultità ed è proprio per questo che talvolta gli adolescenti mettono in atto comportamenti per loro inadeguati.

Sono definiti “sensation seeker” proprio per sottolineare il bisogno di ricercare sensazioni forti ed emozioni estreme. Sfida, impulsività, senso di invulnerabilità sono funzionali alla costruzione dell’identità e partecipazione sociale, intesa come insieme di relazioni sociali, ma se superano i limiti diventano un fattore di rischio.

La scelta di quali azioni intraprendere spetta agli adolescenti stessi che saranno influenzati non solo dall’ambiente di appartenenza, ma anche da variabili personali legate allo sviluppo di capacità individuali.

Le funzioni del comportamento a rischio che gli adolescenti possono mettere in atto sono:

  • Adultità: assunzione anticipata di comportamenti considerati normali negli adulti (es. fumo di sigarette, uso di alcol, comportamento sessuale vs partecipazione e assunzione di responsabilità);
  • Acquisizione e affermazione di autonomia: la necessità di svincolarsi dalla condizione di dipendenza dai genitori per costruirsi un’identità di adulto (es. accettazione di nuove regole, il sostenere le proprie opinioni, prendere decisioni circa il proprio futuro vs azioni devianti come l’uso di sostanze psicoattive, il comportamento sessuale o un’alimentazione distorta);
  • Identificazione e differenziazione: necessità di differenziarsi dagli adulti significativi, identificandosi come un individuo dotato di particolari caratteristiche (es. violazione di norme, abbigliamento eccentrico, messa in atto di azioni tipiche del proprio gruppo di appartenenza come fumare, etc.);
  • Affermazione e sperimentazione di sé: adozione di nuovi comportamenti per mettersi alla prova (attività produttive vs rischiose, come la guida pericolosa, giochi estremi etc);
  • Trasgressione e superamento dei limiti: trasgredire le regole del mondo adulto per aderire a regole più consone alle proprie esigenze, per dimostrare la propria capacità di decisione (es. uso sostanze psicoattive illegali);
  • Esplorazione di sensazioni: esigenza particolarmente diffusa nella cultura occidentale, dove si esalta ogni sperimentazione del nuovo (comportamenti salutari, quali quelli derivanti dalla musica, dall’arte, etc. vs comportamenti dannosi per il benessere psicofisico, come l’uso di sostanze psicoattive, giochi estremi, etc);
  • Percezione di controllo: necessità di superare il limite per dimostrare, a se stessi e agli altri, che la novità non spaventa e che si è in grado di controllare le proprie azioni senza il bisogno dell’adulto, senza lasciarsi travolgere;
  • Coping e fuga: messa in atto di strategie che consentono di far fronte in modo adattivo alle difficoltà e a problemi personali e relazionali, che però non sono sempre funzionali.

Quali sono i giochi estremi più diffusi tra gli adolescenti?

In adolescenza le relazioni che si intrattengono con la dimensione del rischio sono particolarmente intense; difatti assistiamo a cadenza periodica, a servizi giornalistici che raccontano gli orientamenti estremi più in voga tra gli adolescenti, dove il divertimento e il disagio si sovrappongono e i giovani appaiano contemporaneamente vittime e carnefici delle più folle tendenze del momento.

Ecco alcuni giochi estremi più noti con i quali gli adolescenti si misurano:

  • Balconing: è un’attività che consiste nel saltare da un balcone o da una finestra, posti a un piano elevato direttamente all’interno di una piscina o di un altro balcone. Viene solitamente effettuato sotto l’effetto di alcool e droghe e il salto viene filmato per poi essere caricato su siti web come You Tube. In alcuni casi il salto, può finire male causando la morte;
  • Binge Drinking: è l’assunzione di più bevande alcoliche in un intervallo di tempo più meno breve. Non è importante il tipo di sostanza che viene ingerita, né l’eventuale dipendenza alcolica, lo scopo principale di queste “abbuffate alcoliche” è l’ubriacatura immediata, nonché la perdita di controllo;
  • Chocking game o space monkey: è una pratica per “sballarsi”, senza far uso di droga. Si tratta di un “finto strangolamento” che attraverso una pressione sulla carotide, blocca l’afflusso di ossigeno al cervello, causando una temporanea perdita di sensi e al risveglio, una piacevole euforia. Questo tipo di gioco può creare una lesione al cervello o la morte;
  • Eye balling: si porta l’imboccatura di una bottiglia di superalcolico a livello dell’occhio, come se la si stesse bevendo. Si versa il superalcolico nell’occhio, usandolo come “collirio” per ottenere effetti di euforia ed ebbrezza. Si rischiano danni permanenti alla vista causando cecità e ischemia;
  • Batmanning: ispirata alle posizioni di Batman, ovvero appeso ai piedi e a testa in giù. I rischi sono ben elevati con il sangue alla testa.

L’ultima moda sbarcata in Italia? Stendere a terra i passanti con calci e pugni e filmare tutto e caricarlo in rete.

In conclusione

Sono infiniti i giochi pericolosi in adolescenza, ma non sono semplici frutti di incoscienza o ignoranza del pericolo, vengono intraprese insieme agli altri perché in questo modo risulta più semplice per l’adolescente vivere in modo tangibile la propria identità, presentandola al gruppo per ottenerne riconoscimento, reputazione, popolarità; sono infatti molto importanti l’accettazione pubblica e il sostegno sociale tra coetanei, lottando per differenziarsi.

Le azioni sono intraprese proprio per essere rese visibili, oltre che per fondare un legame sociale con i coetanei, legame che si rafforza attraverso ritualizzazioni e ripetizioni di gesti (es. saltare da un balcone ad un altro) che talvolta sono solo rituali di passaggio.

Gli adolescenti hanno bisogno di misurarsi con i propri coetanei e di emularli per affermare se stessi. Questo può essere un rischio per la messa in atto di comportamenti gravosi, perché contribuisce ad alterare la reale percezione del rischio spingendo l’adolescente ad esporsi in modo azzardato, mantenendo l’illusione di controllo.

I giovani usano il rischio, come una risorsa per esprimere se stessi, per rafforzare una coesione sociale e l’appartenenza del gruppo per affermare il proprio ideale di stile, gusto, tempo libero e rompere la noia, sfidare e farsi notare. Spesso fanno ricorso a queste pratiche estreme, come fuga della realtà da situazioni familiari, scolastiche, relazionali, contesti che possono suscitare ansia, paura e angoscia, senza rendersi conto degli esiti drammatici di queste attività. Pertanto, gli adolescenti sono spesso attratti dal pericolo e dal macabro.

Non si deve però mai sottovalutare l’importanza e la pericolosità di questi fenomeni, soprattutto nella fase adolescenziale, fatta di cambiamenti e fragilità, dove si è più suscettibili alle sollecitazioni esterne e attratti dal pericolo e dal rischio.

Disturbi alimentari e anomalie nel circuito del reward

Uno studio di Frank, DeGuzman e colleghi – dipartimento di Psichiatria dell’Università del Colorado e Eating Disorders Care, Colorado – ha investigato la possibile associazione tra sistema cerebrale dopaminergico del reward, restrizione dell’apporto calorico ed evitamento del cibo in un gruppo di adolescenti e giovani adulti affetti da anoressia nervosa.

 

Lo studio pubblicato su JAMA Psychiatry,  ipotizza un modello per il quale la restrizione calorica fino all’inedia avrebbe un effetto sul sistema dopaminergico tale da perpetuare il disturbo, anche a seguito di un ripristino del BMI nella norma.

Disturbi alimentari: quale ruolo ha il circuito del reward

Quando ci si avventura negli studi che trattano da un punto di vista neurobiologico i disturbi dell’alimentazione e della nutrizione per la comprensione dei meccanismi neurali sottostanti, le evidenze che se ne ricavano sono spesso poco chiare e di non facile interpretazione in quanto i modelli neurali che ne ipotizzano e descrivono l’anomalo funzionamento cerebrale sono stati ricavati per la maggior parte in gruppi di popolazione sana (Steinglass & Foerde, 2018).

Oltre a ciò, vi sono anche numerosi dubbi e titubanze tra gli esperti circa le metodologie e gli strumenti spesso utilizzati in questo tipo di ricerche, che avrebbero lo scopo di mettere in evidenza i circuiti neurali che sono coinvolti in modo specifico nel disturbo della nutrizione, i cui effetti potrebbero perpetuare il comportamento alimentare disfunzionale e mantenere in questo modo il disturbo stesso.

Pertanto una comprensione del significato delle evidenze neurali nel campo dei disturbi alimentari rimane ancora una sfida in quanto non sempre si riesce a discriminare quale sia la causa o l’effetto (è l’anomalia nel circuito cerebrale a determinare il disturbo o viceversa?).

Nonostante ciò, lo studio di Frank, DeGuzman, Shott, Pryor e colleghi (2018) ha tentato di investigare il ruolo del sistema dopaminergico del reward, già evidenziato come cruciale nei disturbi alimentari (Frank, Reynolds at al., 2012), durante un compito di condizionamento classico, nello stress e nell’ansia, nell’evitamento del danno (harm avoidance) e nella restrizione calorica.

Le risposte del sistema dopaminergico legato al reward sono state misurate tramite l’errore di predizione, cioè tramite quell’ informazione che segnala un avvenuto nuovo apprendimento nell’animale e nell’uomo, mentre le componenti legate all’ansia sono state ottenute tramite prelievo di una piccola quantità di cortisolo salivare, insieme alla somministrazione di alcuni test psicometrici come l’Eating Disorder Inventory-3, lo State-Trait Anxiety Inventory e il Temperament and Character Inventory.

Disturbi alimentari: la ricerca

Nello studio sui disturbi alimentari, alle partecipanti, un gruppo di 56 ragazze affette da anoressia nervosa tra i 12 e i 21 anni, venivano presentati diversi stimoli visivi alcuni dei quali associati ad un liquido dolce con la caratteristica che nel corso dei diversi trial l’associazione tra gli stimoli e il liquido diventava probabilistica, cioè l’associazione già appresa tra liquido e stimolo visivo veniva violata.

Ciò ha permesso di poter misurare l’errore di predizione in quanto le partecipanti erano “costrette” ha modificare le proprie aspettative circa l’associazione stimolo-liquido, a volte non presente o ricevuta in modo inaspettato e quindi ad apprenderne una nuova (Frank, DeGuzman, Shott, Pryor et al., 2018).

Tramite risonanza magnetica funzionale è stato possibile misurare i livelli di ossigenazione sanguigna di specifiche aree cerebrali, attive durante il compito, riflesso del segnale dopaminergico di errore che si verificava ad ogni violazione. Le immagini ottenute di fMRI venivano poi confrontate con quelle provenienti da un gruppo di controllo composto da 52 soggetti non affetti da patologia alimentare tra gli 11 e i 21 anni.

Le complesse analisi effettuate hanno mostrato una diretta associazione tra i segnali di errore di predizione, i punteggi legati all’evitamento del danno, in questo caso rappresentato dal liquido dolce che ha una rilevanza particolare nell’anoressia nervosa, e il BMI.

In particolare è stato rilevato un aumento dell’errore di predizione nelle aree dell’insula, del nucleo caudato e accumbens nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo, insieme ad un’associazione positiva tra le risposte della corteccia orbito frontale e l’harm avoidance e una negativa con  il circuito dell’ipotalamo preposto alla regolazione del senso di sazietà.

Disturbi alimentari: i risultati dello studio

È stato osservato come la restrizione dell’apporto calorico e la perdita di peso fossero associati ad una sensibilizzazione del sistema dopaminergico del reward, riflessa in un aumento dell’errore di predizione.

A parere degli autori dello studio, questo aumento riscontrato nei circuiti dopominergici potrebbe andare ad incidere nei meccanismi che alimentano lo stress e l’ansia andando a “sovrastare” i normali segnali omeostatici di fame provenienti dall’ipotalamo.

Nello spiegare queste evidenze, gli autori riferiscono che la perdita di peso, ottenuta tramite la restrizione calorica, sarebbe associata ad un’attivazione anomala del sistema del reward che alimenterebbe l’ansia, manifestata tramite la paura di prendere peso e l’insoddisfazione corporea, che a sua volta entrerebbe in conflitto con i segnali omeostatici di fame, per cui la persona alla fine si astiene dal mangiare.

Nel loro modello, si verrebbe a costituire un circolo vizioso che consentirebbe ai disturbi alimentari di persistere, mantenersi nel tempo attraverso la restrizione alimentare e la malnutrizione: infatti questa direzione dei risultati è stata osservata nel gruppo sperimentale ma non in quello di controllo.

Eating Problem Checklist (EPCL): un nuovo questionario per valutare la psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione e i suoi cambiamenti seduta dopo seduta

L’Unità di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda ha ideato e validato un nuovo questionario chiamato Eating Problem Checklist (EPCL) che ha lo scopo di identificare e valutare gli effetti dei sudden gains nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione.

 

Lo studio dei cambiamenti che si verificano durante i trattamenti psicologici è una delle grandi sfide nella ricerca clinica. Tuttavia, c’è una crescente evidenza che i sudden gains, cioè gli ampi, rapidi e stabili miglioramenti della sintomatologia tra due sedute consecutive di trattamento sembrano associarsi alla riduzione della sintomatologia e al miglioramento della relazione terapeutica e dell’esito, dopo la conclusione del trattamento.

Gli effetti positivi dei sudden gains sull’esito del trattamento sono stati dimostrati nella psicoterapia della depressione, dei disturbi d’ansia, del disturbo ossessivo-compulsivo, del disturbo post-traumatico da stress e del disturbo di panico.

Nel campo del trattamento psicologico dei disturbi dell’alimentazione è stata fatta poca ricerca sugli effetti dei sudden gains, a causa della mancanza di uno strumento adeguato in grado di identificarli. Infatti, mentre sono disponibili molti strumenti in grado di misurare i sintomi di ansia e depressione nei sette giorni precedenti (per es. Beck Depression Inventory e Beck Anxiety Inventory), la maggior parte degli strumenti disponibili e validati per la misurazione della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione (per es. Eating Disorder Examination interview (EDE) ed Eating Disorder Examination Questionnaire (EDE-Q)) coprono un periodo di 28 giorni e non sono stati progettati per rilevare i cambiamenti che si verificano da una seduta all’altra, ma solo per evidenziare una “risposta rapida” al trattamento, cioè un cambiamento clinicamente significativo dei sintomi specifici del disturbo entro la prima metà del percorso terapeutico.

Per far fronte a questo problema e per migliorare il trattamento dei pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione, il gruppo di ricerca clinica dell’Unità di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda ha ideato e validato un nuovo questionario, chiamato Eating Problem Checklist (EPCL).

Natura e utilizzo dell’Eating Problem Checklist (EPCL)

L’ Eating Problem Checklist (EPCL) è un questionario composto da 16 item, sviluppato per valutare la frequenza dei comportamenti e della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione negli ultimi 7 giorni.

Il questionario è suddiviso in due sezioni. La prima include 7 item che valutano il numero di episodi dei comportamenti legati al disturbo dell’alimentazione presenti negli ultimi 7 giorni, ed in particolare:

  • Abbuffate oggettive
  • Abbuffate soggettive
  • Vomito auto-indotto
  • Uso improprio di diuretici
  • Uso improprio di lassativi
  • Esercizio fisico eccessivo
  • Misurazione del peso

La seconda sezione si compone 11 item che valutano, su una scala Likert a 5 punti (0 = mai; 4 = sempre), la seguente psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, negli ultimi 7 giorni:

  • Evitamento del cibo
  • Riduzione delle porzioni
  • Check dell’alimentazione
  • Check della forma del corpo
  • Evitamento dell’esposizione del corpo
  • Preoccupazione per il peso
  • Preoccupazione per la forma del corpo
  • Preoccupazione per il controllo dell’alimentazione

L’analisi fattoriale condotta sugli item della seconda sezione ha prodotto due sottoscale:

  1. Preoccupazione per l’immagine corporea
  2. Preoccupazione per l’alimentazione

L’ Eating Problem Checklist può essere usato nella fase di assessment per valutare i comportamenti e la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione e durante il trattamento per valutare la loro modificazione. È adatto anche ad essere utilizzato nelle ricerche che valutano gli effetti del trattamento nei disturbi dell’alimentazione.

L’ EPCL è facilmente implementato nella pratica clinica perché è semplice da usare e richiede poco tempo per la sua compilazione. Attraverso la revisione dei punteggi di ogni singolo item, L’EPCL permette al terapeuta e al paziente di identificare eventuali cambiamenti che si verificano settimana dopo settimana, nelle specifiche e più importanti espressioni della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione. L’identificazione di eventuali miglioramenti e/o peggioramenti nei singoli item dell’ EPCL permette di focalizzare il trattamento su specifiche aree di lavoro. Inoltre, attraverso la valutazione dei punteggi delle due sottoscale, questo strumento consente la valutazione settimanale dei cambiamenti nella psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione.

Se usato durante la Terapia Cognitivo Comportamentale Migliorata (CBT-E) si consiglia di far compilare al paziente l’ Eating Problem Checklist una volta la settimana dopo la misurazione collaborativa del peso e poi rivedere con lui/lei ogni singolo item.

Questa revisione, se associata alla revisione delle schede di monitoraggio degli ultimi 7 giorni, aiuta ad evidenziare i cambiamenti avvenuti nelle varie espressioni della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione. Un cambiamento settimanale di almeno un punto in uno o più item dell’ EPCL può aiutare a identificare le espressioni comportamentali della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione del paziente da affrontare. Inoltre, registrando i dati settimanali dell’ EPCL su un foglio di calcolo, è possibile osservare se, come ipotizzato dalla CBT-E, la modificazione di determinati comportamenti (per esempio, l’adozione dell’alimentazione regolare, la riduzione della restrizione dietetica cognitiva, la misurazione collaborativa del peso, l’interruzione dei check disfunzionali della forma del corpo) si associ ad una riduzione successiva delle preoccupazioni per il peso, la forma del corpo e il controllo dell’alimentazione.

Validazione dell’ EPCL

La descrizione del questionario e della sua validazione è stata pubblicata sulla rivista Eating Disorders. Lo studio ha reclutato un campione di 161 pazienti con disturbo dell’alimentazione (87 pazienti erano ricoverati e 74 svolgevano una terapia ambulatoriale) e 379 controlli sani. Tutti i partecipanti allo studio hanno compilato l’ Eating Problem Checklist, inoltre i pazienti con disturbo dell’alimentazione hanno completato l’Eating Disorder Examination Questionnaire (EDE-Q) e il Brief Symptom Inventory (BSI).

L’analisi fattoriale, effettuata sugli 11 item che valutano la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione hanno evidenziato due sottoscale: “Preoccupazione per l’immagine corporea” e “Preoccupazione per l’alimentazione”, composte rispettivamente da 5 e 4 item.

La consistenza interna dello strumento è alta, con un Alpha di Cronbach di 0.89 e di 0.86 e 0.82 per le due sottoscale, rispettivamente.

La validità concorrente, misurata attraverso la correlazione di Pearson, ha indicato, come atteso, che lo strumento ha una forte associazione con l’EDE-Q, che misura la psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione e una più debole associazione con il BSI che, invece, valuta la psicopatologia generale.

Il confronto dei punteggi dell’ Eating Problem Checklist tra pazienti e controlli sani, indica che lo strumento è in grado di discriminare in maniera statisticamente significativa i due gruppi.

Infine, un’analisi effettuata su un sottogruppo di 75 pazienti (38 pazienti ricoverati e 37 in terapia ambulatoriale) che hanno completato almeno 20 sedute di CBT-E e compilato settimanalmente l’ EPCL, ha mostrato che lo strumento è in grado di identificare specifici miglioramenti o peggioramenti settimanali nella psicopatologia del disturbo dell’alimentazione. In particolare, nel campione ambulatoriale abbiamo osservato un cambiamento nel punteggio della sottoscala “Preoccupazioni per l’alimentazione” dalla seconda alla terza o quarta settimana, probabilmente come conseguenza della procedura dell’alimentazione regolare, mentre nel campione ricoverato il cambiamento è avvenuto dalla prima alla seconda settimana, probabilmente come risultato dell’alimentazione assistita.

Il cambiamento nel punteggio della sottoscala della “Preoccupazione per l’immagine corporea” è stato più graduale e un cambiamento significativo è stato osservato soltanto nel campione ospedaliero, nell’ultima parte del trattamento.

Assegnazione del Punteggio

Il punteggio totale è ottenuto sommando gli item della sezione due, mentre i punteggi delle due sottoscale sono ottenuti attraverso la somma dei seguenti item, sempre della seconda sezione: Preoccupazione per l’immagine corporea somma degli item 4, 5, 6, 7, 8; Preoccupazione per l’alimentazione somma degli item 1, 2, 3, 9.

Per saperne di più:

Versione italiana dell’Eating Problem Checklist (EPCL)
Scheda Riassuntiva dei cambiamenti settimanali dei punteggi dell’Eating Problem Checklist (EPCL)

Disturbi Specifici dell’Apprendimento, autostima e immagine di sé

In una scuola sempre più orientata al voto e alla performance, la prima realtà con la quale i bambini devono misurarsi è quella della valutazione, ma ciò può risultare molto difficile per un bambino con un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA) poiché, nonostante studi come o più dei suoi compagni, fatica ad arrivare ai medesimi risultati.

 

Prima di addentrarsi nei sentimenti e nelle percezioni di sé di un bambino con Disturbi Specifici dell’Apprendimento è utile ricordare che questi ultimi hanno una base neurobiologica, cioè rappresentano una diversa modalità di apprendere che si discosta dal modello dominante scolastico.

Il bambino è intelligente, non ha disfunzioni cognitive, tuttavia alcune alterazioni dei processi di automatizzazione fanno sì che prediligano apprendimenti di tipo spaziale-esperienziale piuttosto che verbale-mnemonico. Anche i tempi di apprendimento sono sensibilmente diversi da quelli standard imposti dal ritmo scolastico. Tutto ciò porta a delle serie difficoltà che il bambino si troverà a dover affrontare a scuola per raggiungere la tanto sognata sufficienza. Numerose evidenze scientifiche, infatti, hanno dimostrato che le differenze fra i bambini che falliscono o hanno successo a scuola non sono solo di tipo metacognitivo, ma anche di tipo emotivo-relazionale, un campo in cui la stima di sé ha un ruolo centrale.

Scuola ed immagine di sé

Il contesto scolastico, nel momento storico in cui viviamo adesso, è estremamente incentrato sulle performances. Ciò implica che la prima realtà con la quale i bambini devono misurarsi è quella della valutazione, ossia del voto. Questo meccanismo è terribile per un bambino che, nonostante studi come o più dei suoi compagni, non riesca ad arrivare ai medesimi risultati. L’ipotesi più plausibile è che il bambino, non avendo comprensione di questo fenomeno, inizi a pensare di non essere all’altezza dei suoi compagni, di essere mancante in qualcosa, mettendo in discussione la propria immagine di sé.

Spesso questa percezione di se stessi diventa talmente pregnante nell’organizzazione identitaria del bambino che può cominciare a generalizzarsi, manifestandosi non solo a scuola, ma anche in contesti extra-scolastici, allargandosi ad i vari contesti sociali. Quando ciò accade comincia a delinearsi un profilo caratterizzato da bassa autostima, in cui “io sono il voto che mi danno” diventa l’imperativo mentale dominante e la percezione di poter rimediare ad un insuccesso diventa sempre più sfocata.

È interessante notare, ad esempio, che i bambini con dislessia stimano talmente negativamente le proprie capacità e le loro possibilità di poter imparare a poter leggere più velocemente da adottare strategie che mirino ad “obiettivi di apprendimento” piuttosto che all’apprendimento in sé. Il più noto fra questi è la tendenza a completare le parole in base alla loro accessibilità dopo aver indentificato le prime sillabe, evitandone così la lettura completa (ad es. alla lettura di “Pan…” si completa automaticamente con “Panettiere”, quando magari la parola in questione era “pantofola”). I bambini dislessici diventano particolarmente abili ad utilizzare questo tipo di strategie compensatorie, aumentando così la loro tendenza ad attribuire all’esterno le cause dei loro successi e sperimentando sentimenti di disperazione e frustrazione ad ogni fallimento.

A completare il quadro di bassa autostima si aggiungono commenti di genitori ed insegnanti che, quando non hanno ben chiaro il quadro clinico del DSA, si lasciano andare a frasi come “Non si impegna”; “potrebbe fare di più”, etc. Queste affermazioni sono molto pesanti da metabolizzare per un bambino che ha imparato che anche il massimo dei suoi sforzi non è nemmeno lontanamente abbastanza per gli standard scolastici. Ciò accade perché anche queste frasi si muovono all’interno della semantica del giudizio, categoria che questi bambini hanno cominciato a temere. I bambini con DSA, infatti, mostrano alti livelli d’ansia per le situazioni che prevedono una valutazione (come un compito o un’interrogazione) tali da comprometterne la prestazione (Lufi, Okasha, Cohen, 2004).

Il vero nemico

Quando il bambino attiva un atteggiamento rinunciatario nei confronti della scuola, non tenta più di riuscire nei compiti giustificandosi con “tanto non sono capace”; è probabile che sia entrato nel circuito dell’impotenza appresa.

Seligman, psicologo statunitense, diede questo nome a quella sensazione di sfiducia che ci assale quando in passato siamo stati messi di fronte a situazioni simili a quella che stiamo affrontando al momento attuale, fallendo. L’equazione che scatta all’interno è qualcosa simile a “non dipende da me, non ci posso far nulla, non ci provo nemmeno”. Questa sensazione è il vero nemico dei DSA. Non le difficoltà di lettura, scrittura o calcolo (che ricordiamo, possono essere affrontante efficacemente con un buon potenziamento e con l’utilizzo degli strumenti compensativi–dispensativi), ma proprio la convinzione radicata che nulla potrà essere fatto per cambiare la situazione in cui ci si trova.

Inoltre quando questo tipo di atteggiamento porrà il bambino di fronte all’ennesimo insuccesso, questo verrà interpretato come prova della propria inadeguatezza e della propria incapacità, alimentando un circolo vizioso da cui è difficile per un bambino uscire da solo.

Cosa possiamo fare quindi?

Innanzitutto ricordiamoci che il voto ha un valore relativo. Un 7 ha un peso diverso se preso da un bambino che in matematica ha sempre avuto 10 rispetto ad un bambino che ha sempre preso 4. La prima cosa da fare, quindi, è uscire dalla gabbia dei voti, noi adulti per primi.

È importante che i bambini con DSA sentano che le loro difficoltà non minano il loro valore.

Insegniamo ai nostri bambini a riconoscere le loro abilità e ad individuare i loro limiti, riconosciamo i loro sforzi e la loro fatica anche quando i risultati non sono quelli che vorremmo e rinforziamo positivamente i loro successi.

Piano piano, riacquisita la fiducia in loro stessi, avranno risultati inediti, tali da mettere d’accordo le logiche del sistema scolastico e quelle del cuore.

Il disagio adolescenziale e il ruolo della scienza medica e psicologica – Report dal convegno di studi all’Aquila

Dalla precarietà della forma fisica al malessere psicologico, esistenziale, fino alle forme proprie del cyberbullismo, è chiaro il fatto che sono necessari interventi strutturati nel trattamento del disagio adolescenziale in cui psicologia, medicina e società agiscono in maniera sinergica sia in fase preventiva che riabilitativa.

 

Un intenso e aggiornato evento scientifico contraddistinto dall’alternarsi di esperti e relazioni che hanno riguardato vari aspetti della cura e della malattia degli adolescenti di oggi: dall’alimentazione alle malattie croniche fino alle conseguenze psicopatologiche del cyberbullismo.

Queste le caratteristiche salienti del V Corso Nazionale della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza, svoltosi lo scorso 20 Ottobre nella prestigiosa sede del Canadian Hotel della città dell’Aquila, in un momento in cui la ricostruzione della sofferenza patita da una città pareva a tratti riecheggiare la lenta e sofferta ricostruzione della traiettoria di vita di tanti adolescenti di oggi e delle loro famiglie.

Per malattia cronica ci si riferisce a tutte quelle condizioni patologiche che richiedono un’ospedalizzazione per più di un mese all’anno, come la paralisi cerebrale infantile, a cui si accompagna la disabilità, ovvero la perdita o la limitazione delle funzioni psicocorporee, e il disagio conseguente – apre i lavori Piernicola Garofalo, Dirigente medico dell’Unità operativa di Endocrinologia dell’Azienda Ospedali riuniti Villa Sofia-Cervello di Palermo – Da qui la necessità di un percorso assistenziale che definisca precisamente i professionisti, il setting, la tempistica e le procedure di cura del paziente. Il paziente con malattia cronica deve essere posto al centro dell’assistenza a lui dedicata, al fine di sviluppare le funzioni residue e promuovere la crescita del Sé, il benessere spirituale, la progettualità futura, il diritto a divenire persona adulta, meritevole di vita.

Il paziente grave esprime emozioni, anche se non visibili, che i professionisti hanno l’obbligo deontologico di captare, utilizzando l’empatia, formandosi adeguatamente sul corretto utilizzo dei presidi necessari in corso di patologia, sostenendo un percorso di cura che vada dall’ospedale alla casa, attraverso l’assistenza domiciliare, nel contempo sostenendo la famiglia, anche dopo la morte del figlio – continua Lorenzo Iughetti, Direttore UO Pediatria presso AOU Policlinico di Modena.

Adolescenti dalla salute precaria, dove sovente ciò si declina nelle forme dell’obesità, richiedendo terapie intensive, fondate, tra le altre, sull’attività sportiva.

È noto come l’attività sportiva contrasti l’obesità, inibendo il rilascio di cannabinoidi stimolanti l’assunzione di cibo, oltre che i fenomeni infiammatori dell’organismo. È altresì importante sottolineare come a durata crescente di esercizio fisico cresca l’utilizzazione dei grassi e che, in generale, l’esercizio fisico debba essere consigliato nelle malattie croniche, come il tumore e le cardiopatie, consigliando un’attività anaerobica una volta al giorno e fino a tre volte a settimana attività aerobica – commenta Giulia Cafiero, Direttore dello Studio Medico Polispecialistico A.S.A. di Roma – Ancora lo sport migliora il tono dell’umore, specialmente in età adolescenziale, caratterizzata da variabilità tipiche nell’espressione emotiva, contribuendo a formare l’identità corporea, l’affiliazione e l’aspirazione al successo.

Dalla precarietà della forma fisica al malessere psicologico, esistenziale, nelle forme proprie del cyberbullismo, un fenomeno preoccupante, dagli esiti potenzialmente fatali, e che richiede interventi strutturati, complessi, in cui psicologia, medicina e società non possono non collaborare, in fase preventiva e riabilitativa.

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Il disagio adolescenziale: tra medicina e psicologia - Convegno all'Aquila

Il cyberbullismo comprende tutte quelle forme di prevaricazione su una vittima che utilizzano la potenza degli strumenti mediatici e l’anonimato dell’aggressore, con la finalità di squalificare e aggredire un soggetto debole, vuoi per disabilità di tipo fisico che sociale – spiega Angela Ganci, psicologo psicoterapeuta di Palermo, specialista nel campo dell’abuso minorile – La violenza del cyberbullo non conosce confini temporali; per proteggersi la vittima spesso si rifugia nel Web, alla ricerca disperata di conforto, con il serio rischio di imbattersi in siti pro-suicidio, ricercando in alcuni casi attivamente metodi di autosoppressione per porre fine a un’angoscia radicata. Ecco l’attenzione elevata di famiglie e scuola, chiamate a informare l’adolescente circa le modalità di attacco del bullo, denunciando tempestivamente atteggiamenti sospetti, come la richiesta di foto intime, fonte di ricatto, prevenendo la caduta nella spirale della violenza online. Un compito delicato, in cui i professionisti della salute affiancano scuola e famiglia per il benessere mentale delle future generazioni.

Fumo di sigaretta: danneggia i figli attraverso modificazioni epigenetiche

I padri che fumano potrebbero recare danni al cervello dei loro figli causando deficit cognitivi. Le responsabilità di questi danni sono dovute alle modifiche genetiche che questo vizio comporta allo sperma dei padri. 

 

I padri che fumano possono causare deficit cognitivi ai figli e persino ai nipoti, secondo uno studio pubblicato sulla rivista PLOS Biology dei ricercatori della Florida State University di Tallahassee. Non a causa del fumo passivo, ma per i cambiamenti epigenetici nei geni dello sperma.

Come spigano i ricercatori del seguente studio, già studi precedenti hanno dimostrato come la nicotina e ad altri componenti presenti nel fumo di sigarette, sono riconosciuti come fattori di rischio significativi per lo sviluppo di disordini comportamentali, come il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD). Quello che ancora non risultava chiaro era come fosse possibile da parte dei padri, visto che risultava difficile distinguere i fattori genetici da quelli ambientali.

Fumo di sigaretta: la ricerca dimostra come danneggia la progenie

Per ottenere delle risposte a questi dubbi, Deirdre McCarthy, Pradeep Bhide e colleghi hanno esposto un gruppo di topi maschi a basse dosi di nicotina somministrate attraverso l’acqua durante il periodo di vita in cui i maschi di topo producono sperma. Di seguito gli scienziati hanno fatto accoppiare i topi (ai quali era stata somministrata la nicotina) con femmine mai esposte alla nicotina. Dai dati è emerso che, mentre i padri non mostravano alcun  problema comportamentale, i figli, di entrambi i sessi, risultavano iperattivi, avevano deficit di attenzione e inflessibilità cognitiva. Quando i topi femmina di questa generazione venivano fatte accoppiare con maschi che non erano mai entrati in contatto con la nicotina, i figli mostravano meno deficit cognitivi, ma pur sempre significativi.

Le analisi eseguite sugli spermatozoi dei topi esposti alla nicotina, hanno dimostrato modifiche a livello epigenetico, in modo particolare per quanto riguarda la dopamina D2, fondamentale per lo sviluppo del cervello e dell’apprendimento, suggerendo che queste modificazioni probabilmente, potrebbero aver contribuito ai deficit cognitivi evidenziati nei topi.

Come ha detto Bhide

Gli uomini fumano più delle donne e questo  potrebbe rappresentare una minaccia per la salute pubblica.

Queste scoperte sottolineano la necessità di ulteriori ricerche sugli effetti del fumo sull’essere mano.

Gli effetti della risposta allo stress sulla memoria

Il concetto di stress, la cui natura è primariamente fisiologica, ha oggigiorno assunto un significato multiforme ed è entrato a far parte della quotidianità della maggior parte degli individui, anche per le conseguenze su memoria e attenzione.

 

È indubbio che le richieste ambientali della nostra modernità abbiano condotto a stili di vita frenetici e spesso faticosi, sia dal punto di vista fisico che mentale, conducendo talvolta a conseguenze mediche rilevanti che necessitano una presa in carico; tale è l’importanza che lo stress riveste nella nostra società che diviene essenziale la comprensione di come esso agisca sul nostro organismo determinando in primo luogo la risposta fisiologica e successivamente gli effetti su funzioni cognitive fondamentali, quali attenzione e memoria.

Stress: distinzione tra quello assoluto e quello relativo

Innanzitutto è necessario precisare che lo stress, la cui risposta ha una valenza adattiva per gli animali, può essere considerato assoluto o relativo. Nel primo caso si tratta di reazioni fisiologiche che si attivano in presenza di minacce oggettive alla propria incolumità (un predatore, un incidente, una calamità naturale), mentre il secondo riguarda eventi la cui interpretazione suscita ugualmente sensazioni di minaccia ma che, proprio per la natura interpretativa della situazione, risultano soggettive. Sebbene la risposta allo stress, in entrambe le tipologie, sia per certi aspetti la medesima, la reazione fisiologica allo stress relativo è nella maggior parte dei casi più mite, poiché non si presenta come una reazione di sopravvivenza a una minaccia concreta, bensì la minaccia viene considerata tale a seguito di una valutazione cognitiva dell’evento/situazione. In breve, un evento oggettivamente minaccioso come un disastro naturale attiverà nella quasi totalità delle persone la stessa considerevole cascata neurochimica e gli stessi agiti, mentre in concomitanza di un evento soggettivamente stressante (un carico di lavoro considerato eccessivo, la fine di una relazione sentimentale importante, la percezione di non possedere abbastanza risorse per fronteggiare un problema ecc.) la reazione sarà mediata dalle caratteristiche individuali di ciascuno di noi, con effetti quindi variabili.

Stress: cosa scatena nel nostro corpo

Il meccanismo alla base della risposta fisiologica allo stress vede implicate strutture specifiche del cervello e viene chiamato Asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (HPA). In sintesi, un evento stressante (assoluto o relativo) attiva l’ipotalamo, che rilascia l’ormone di rilascio della corticotropina (CRH), il quale a sua volta innesca la secrezione di un altro ormone chiamato adrenocorticotropina (ACTH) dall’ipofisi; attraverso il sangue l’ACTH raggiunge le ghiandole surrenali che da ultimo rilasciano i cosiddetti ormoni dello stress. I prodotti finali di questa catena neurochimica sono appunto gli ormoni dello stress, i quali si dividono in due classi principali: glucocorticoidi (corticosterone negli animali e cortisolo negli esseri umani) e catecolamine (adrenalina e noradrenalina). Se l’attivazione dell’Asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene è considerata una risposta adattiva dell’organismo in quanto prepara il corpo a reazioni di attacco-fuga davanti a pericoli per la propria sopravvivenza (ad esempio la secrezione di catecolamine è uno dei meccanismi per mezzo dei quali il sistema nervoso simpatico opera in situazione di emergenza), il suo stato di attività prolungata può determinare conseguenze negative come ipertensione e più frequente esposizione ad infezioni in quanto l’HPA sopprime temporaneamente le funzioni immunitarie. Come in molti altri casi, la modalità di attivazione cronica di HPA deve ritenersi un fattore rilevante, che comporta varie compromissioni funzionali dell’organismo e dunque una variabile da tenere in considerazione e sui cui intervenire.

Stress: come incide sulla nostra attenzione

Nonostante non vi siano studi univoci su come e quanto la sovrabbondanza di glucorticoidi, causata da una attività protratta di HPA, arrechi effetti negativi sulla funzionalità del cervello (i glucorticoidi sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica agendo quindi direttamente sul sistema nervoso), molte ricerche considerano questi ormoni come responsabili del decremento in alcuni domini cognitivi, in particolare l’attenzione (inducendo una ipovigilanza a determinati stimoli) e la memoria; si ipotizza che gli effetti sulla memoria potrebbero essere causa di una possibile riduzione del volume dell’ippocampo, area del sistema limbico implicata nel materiale mnestico di tipo dichiarativo, con il risultato di un malfunzionamento nell’elaborazione delle informazioni esplicite.

Una meta-analisi condotta da Lupien e collaboratori (2007) espone una serie di numerosi risultati i cui ambiti di ricerca riguardano appunto gli effetti dei glucorticoidi esogeni ed endogeni sulla cognizione e sul volume dell’ippocampo, trovando differenze sostanziali tra i vari studi, spesso totalmente contrastanti. Dal momento che i risultati controversi impediscono di interpretare le scoperte in una sola direzione, è necessario essere cauti e frenare qualsiasi tentativo di oggettivare la relazione stress-glucorticoidi-cognizione, tenendo aperte le porte della ricerca sperimentale.

Stress: perchè influenza la nostra memoria

Per quanto riguarda la memoria si riporta la descrizione proposta da Siegel, alla quale da qui in poi si farà riferimento:il termine memoria si riferisce al modo in cui un evento del passato influenza un processo del futuro (Siegel, 2014).

Tale descrizione considera la memoria un processo mentale che comporta un’eccitazione neuronale a seguito di un evento che verrà codificato, immagazzinato e successivamente rievocato, il cui richiamo condurrà all’attivazione di pattern simili di attivazione neuronale in un secondo momento. Il ricordo di un’esperienza passata può essere sia di tipo esplicito che implicito, dando origine alla comune classificazione della memoria che conosciamo; nonostante a livello dei substrati neurobiologici si verifichi la stessa eccitazione neuronale, ovvero gli stessi stadi di codifica, immagazzinamento e richiamo, le modalità con cui il ricordo viene percepito sono diverse a seconda che si tratti di memoria esplicita o implicita. Nello specifico, mentre nella memoria esplicita (dichiarativa) si ha la sensazione interiore di star ricordando un evento del passato (Siegel definisce questa sensazione ecforia, ovvero l’atto di richiamare alla mente), in quella implicita manca questa sensazione a livello cosciente, per cui un evento (o eventi) codificati ed immagazzinati nel passato possono presentarsi ed influire sul proprio presente senza avere reale consapevolezza. Le origini delle distorsioni cognitive (bias), di pattern emozionali e di comportamento che portano a reazioni automatizzate, persino le percezioni legate al senso del corpo, potrebbero qui trovare una robusta spiegazione scientifica, in quanto stimoli precedentemente immagazzinati nella memoria implicita e che si ripropongono senza che l’individuo ne abbia piena coscienza sono in realtà il richiamo di esperienze avvenute nel passato.

Stress: cosa succede quando è estremo

Comprendere i meccanismi di codifica, immagazzinamento e richiamo di materiale all’interno dei circuiti della memoria, può avere enormi implicazioni cliniche, poiché capita spesso di incontrare persone che iniziano percorsi psicoterapeutici a causa di esperienze stressanti o francamente sconvolgenti come un trauma. Innanzitutto è bene tenere conto che l’ippocampo, considerato la struttura cerebrale in cui avviene l’immagazzinamento di materiale dichiarativo, codifica eventi e informazioni esclusivamente in presenza di attenzione focalizzata (volontaria), mentre la memoria implicita funziona anche senza l’attenzione consapevole. A livello neurochimico una risposta allo stress molto forte con produzione eccessiva di cortisolo (glucocorticoide) induce un’inibizione della funzione dell’ippocampo, impedendo la codifica di materiale in forma esplicita; inoltre le catecolamine, anch’esse prodotte a seguito della risposta allo stress, possono condurre a compromissioni della memoria dichiarativa, dal momento che intensificano la codifica implicita della paura che avviene nell’amigdala. Dunque un evento enormemente stressante come può essere un’aggressione fisica, può portare a un blocco della codifica esplicita a favore di quella implicita, causando inevitabilmente una mancata integrazione tra i due tipi di memoria. Queste reazioni neurofisiologiche sono utili per spiegare alcuni sintomi invalidanti che compaiono nel disturbo da stress post-traumatico come flashback o sensazioni corporee intrusive: eventi, emozioni e percezioni corporee codificate implicitamente (senza quindi attenzione focalizzata) impediscono un richiamo cosciente che può condurre ad un stato confusionale e non integrato.

Conoscere come opera la memoria ha un riscontro clinico importante, come già accennato, poiché la consapevolezza di come reagiamo a determinati stimoli, il perché proviamo certe sensazioni ed emozioni, è una base fondamentale da cui partire per un lavoro terapeutico volto al raggiungimento del benessere. La memoria fa parte di quelle funzioni del cervello indispensabili per l’adattamento e la sopravvivenza per cui fornire informazioni sulle modalità e i meccanismi soggiacenti è un’opportunità clinica non trascurabile; inoltre fornire spiegazioni su come lo stress può interagire con questa funzione e comprometterne l’efficienza diviene indispensabile per incrementare la conoscenza interiore e rendere le persone capaci di percepirsi esseri attivi nella risoluzione delle loro problematiche emotive.

Le basi neurali, l’integrazione, la consapevolezza dei nostri stati interni sono tutti fattori che possono incrementare la mindsight, ovvero la vista della mente, l’essere in grado cioè di osservare e comprendere il mondo interiore proprio e degli altri, senza basarsi esclusivamente sui comportamenti manifesti: l’allenamento alla mindsight è un atto terapeutico che concediamo a noi stessi e che può aiutarci a fronteggiare le sfide della vita: la nostra vita come singoli e quella con gli altri di cui le relazioni sono la massima espressione.

Diagnosi e destino (2018) di Vittorio Lingiardi: il valore della diagnosi nella relazione di cura – Recensione del libro

Un meraviglioso libro, Diagnosi e destino (Einaudi Editore) di Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, professore ordinario di Psicologia Dinamica presso l’Università La Sapienza di Roma, che si occupa di una tematica molto cara a tutti i professionisti del settore di cura: la diagnosi.

 

Perché succede così spesso che nonostante i più sinceri sforzi da entrambe le parti il rapporto tra medico e paziente è insoddisfacente e perfino causa d’infelicità?
Michele Balint

 

Diagnosi e destino è un libro diviso in tre capitoli. Il primo, Diagnosi e tormento, pone l’accento sulle sfumature emotive di chi fa diagnosi e di chi la riceve, facendo lunghe riflessioni sull’importanza delle parole e sul peso che esse hanno non solo nel definire ma anche nel delineare prospettive di speranza o di chiusura. Le parole come strumento per raccontare e per comprendere ma anche per ridurre la componente della disperazione. In questa prima parte si apre un’interessante riflessione tra metaforici della malattia e razionalisti, alla ricerca della verità nuda e cruda senza immaginari sociali.

Il secondo capitolo, Diagnosi e difese, tra immagini e citazioni ci conduce nel corpo e nell’anima della diagnosi ponendo l’attenzione su tutte le casse di risonanza emotiva che abitano il paziente e il medico o terapeuta. Qui l’autore, parlando dell’importanza della conoscenza di tali processi interiori, ci ricorda che spesso la cura sta nelle difese che il paziente mette in atto. Guardare alle difese ci consente di seguire l’evoluzione e la trasformazione della malattia nel tempo, attivando anche la prevenzione rispetto al “destino” che si sviluppa post diagnosi.

E infine il terzo capitolo, più complesso o semplicemente più interessante, in cui il terapeuta è spinto a farsi molte domande e a posizionarsi rispetto alle due grandi categorie di chi fa diagnosi e chi dice di non farla. Lingiardi sostiene che sia impossibile non fare diagnosi, perché essa stessa è la bussola per muoverci nel terreno complicato e complesso della psichiatria e delle psicopatologia.

L’importanza della diagnosi

Un libro pieno di richiami e riflessioni, affascinante e delicato che porta il lettore a conoscenza delle tesi e della complessità di una cosa apparentemente semplice e di fatto profondamente piena di insidie, tecniche e procedure.

Sigmund Freud nel 1915 sosteneva che il compito di uno psicoterapeuta non fosse solo quello di descrivere dei fenomeni e classificarli, quanto piuttosto concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolgono nella psiche e che diventano una modalità funzionale o disfunzionale a seconda della prospettive da cui le si guarda. I fenomeni psichici come espressione di tendenze dell’individuo orientate verso un fine e che operano insieme o in contrasto. Lo sforzo terapeutico è in tale ottica il raggiungimento di una concezione dinamica dei fenomeni psichici.

Tutti noi prima o poi nel corso della nostra vita riceviamo una diagnosi, un giorno arriva qualcuno seduto dalla parte della scrivania nella posizione di chi osserva che ci dirà qualcosa in termini diagnostici che cambierà la nostra vita in meglio o in peggio, ci farà una diagnosi che ci accompagnerà per un tratto della vita o per sempre, e che magari modificherà il nostro modo di guardare noi stessi o il futuro.

La parola diagnosi deriva dal greco e significa letteralmente “conoscere attraverso”, quindi essa è prima di tutto un processo di conoscenza che il diagnosticato vive insieme al diagnosticante, sia esso medico, psichiatra , psicoterapeuta , ecc. Tale processo di conoscenza implica fin dall’inizio uno spazio relazionale in cui tale processo si attiva e assieme ad esso si attivano molteplici processi che coinvolgono i due attori: un processo di conoscenza di se stessi, un processo di conoscenza tra l’esaminatore e l’esaminato, un processo di conoscenza tra il soggetto e i farmaci, un processo di conoscenza che implica l’incontro con diverse figure professionali, ma sopratutto l’incontro del soggetto con se stesso, con il suo corpo e tra esso e le sue reazioni alla cura. La stessa malattia può avere effetti diversi su soggetti diversi e questo lascerebbe pensare anche che è importante non sottovalutare, come diceva Ippocrate, quale malattia viene a quale paziente.

In tale ottica sembrerebbe chiaro che la persona, il suo mondo e la sua complessità debbano essere al centro dell’osservazione; non solo i suoi sintomi, che consentono la categorizzazione ma non la comprensione della complessità che abita quello specifico individuo in quanto unico e irripetibile.

La relazione medico-paziente

Perché molti medici o molti psicoterapeuti sembrano sottovalutare o trattare male questo prezioso alleato che è l’individuo con le sue mille sfumature? Perché, come dice Lingiardi: “quando si fa una tac ad un soggetto non ci si preoccupa che non prenda freddo???”

Jon Dhonne sosteneva “la miseria massima della malattia è la solitudine”, e viene naturale chiedersi come il clinico possa aiutare il paziente ad uscire da questa solitudine, determinata dalla presenza di “curatori” dimezzati, che guardano al soggetto senza guardare alle sue componenti psicologiche. Il clinico “intero” non è un medico o un terapeuta perfetto, ma è quello che comprende, che conosce e possiede delle caratteristiche che gli consentano un ascolto empatico del paziente, una visione olistica e la capacità di restituire al paziente e alla sua famiglia non solo una diagnosi e le sue procedure di cura, ma una relazione di alleanza alla quale aggrapparsi e nella quale trovare rifugio nei momenti di paura o di timore. Il medico stesso diventa in tale ottica, la cura e la relazione terapeutica che diventa un “atto terapeutico”.

Diceva Balint:

Il problema reale in un individuo è la malattia di tutta la persona, ed è la diagnosi che consente un passaggio da una situazione “non organizzata “ ad “una più organizzata”; il medico attraverso l’ascolto del paziente riconosce le sfumature anche dentro di sé, attivando una sorta di “controtransfert diagnostico”.

Spesso, sostiene Lingiardi

La malattia descritta nei trattati non coincide con la persona che ne soffre, la cosiddetta evidence-based medicine non basta a rappresentare la realtà clinica, che è più euristica che algoritmica.

avremmo bisogno, come sostiene Rugali “di una teorizzazione sulla medicina in assenza di evidenze”.

Nonostante il progresso e la tecnologia in ambito medico e terapeutico ci offrano infinite possibilità di miglioramento rispetto alla cura, noi non dobbiamo dimenticare quello che è il ruolo della semiotica nella malattia, perché, come dice Lingiardi

La fragilità a cui ci espone la diagnosi è ormai parte di noi, per poco tempo o per sempre. Con sé può portare la possibilità di ripensare la nostra storia e il nostro futuro, il nostro posto nel mondo.

In conclusione

Questo piccolo libro per dimensioni, ma enorme per contenuti, è un dono che ogni clinico dovrebbe ricevere, è uno strumento di lavoro ma anche di riflessione, che ci consente di fare un viaggio cognitivo ed emotivo personale, antropologico e sociale, in questo mondo della diagnosi che ci coinvolge e ci riguarda tutti, indipendentemente dalla posizione da cui osserviamo o siamo osservati.

L’inserimento in classe di un bambino figlio di una coppia omogenitoriale – Le risposte di FluIDsex

Sono un’insegnante della scuola dell’infanzia. A settembre mi occuperò dell’inserimento all’interno della classe di un bambino di una coppia gay. È La prima volta che mi trovo a vivere quest’esperienza. Mi potete consigliare una lettura che mi aiuti ad affrontare questa nuova avventura come insegnante e come persona? Grazie.

 

Buongiorno,

a questo proposito le consiglierei un libro appena uscito quest’anno “Incontrare persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale”.

Nella sezione 4, dal titolo Interventi in ambito scolastico: accogliere, insegnare, promuovere inclusione, può trovare informazioni riguardo le seguenti tematiche:

  • Attenzione a bullismo
  • Attenzione a includere certe tematiche all’interno della classe (non escludendo gli altri bambini e genitori)
  • Non patologizzare la situazione
  • Attenzione al vocabolario usato (es. consegne contenenti padre-madre declinarli a tutte le situazioni)
  • Riflettere sui propri eventuali pregiudizi e stereotipi a riguardo per poterne per lo meno esserne consapevoli

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Appisolarsi durante il giorno aiuta ad immagazzinare informazioni inconsce

Spesso si consiglia di fare un pisolino giornaliero per sentirsi meglio durante la giornata. Il perché ce lo spiegano gli esperti..

 

L’Università di Bristol ha indagato perché fare un pisolino può essere così utile nel promuovere uno stato di benessere. In particolare, è emerso che fare un pisolino ogni giorno può aiutare ad elaborare informazioni in maniera inconsapevole, con ricadute significative sul proprio comportamento e sui tempi di reazione.

La letteratura mostra diverse evidenze circa i benefici del fare un pisolino sulle funzioni cognitive e su come le informazioni vengano elaborate inconsciamente durante questi brevi momenti di sonno. Inoltre fare un pisolino sembra portare anche ad una migliore prestazione in compiti di problem solving, con un miglioramento delle funzioni cognitive al risveglio; in questo caso tuttavia ancora non è chiaro se ciò sia dovuto ad un’azione sui processi cognitivi durante o prima del sonno.

Lo studio

Nello studio condotto presso l’Università di Bristol, ai soggetti sono state presentate informazioni molto brevi per far sì che fossero elaborate inconsciamente attraverso il priming, una tecnica in cui l’esposizone ad uno stimolo influenza una risposta successiva senza che questa intenzione sia cosciente.

Allo studio hanno partecipato 16 soggetti di differenti età. Ogni partecipante doveva svolgere due compiti: il primo con informazioni presentate attraverso il priming ed il secondo, di controllo, in cui i soggetti dovevano dare determinate risposte dopo la visualizzazione sullo schermo di un riquadro rosso o blu.

Sono state realizzate due condizioni sperimentali, alcuni soggetti sono rimasti svegli mentre altri hanno fatto un pisolino di 90 minuti prima di ripetere i compiti. Con l’utilizzo di un EEG che misura l’attività cerebrale, i ricercatori hanno analizzato le differenze nelle risposte dei soggetti in relazione alla risposta prima e dopo il pisolino.

I soggetti assegnati alla condizione in cui era possibile dormire, presentavano un miglioramento nella velocità di elaborazione delle informazioni nel compito in cui le informazioni venivano presentate attraverso il priming ma non in quello di controllo. Di conseguenza, sembrerebbe che il sonno aiuti l’elaborazione delle informazioni implicite.

Dai risultati si evince quindi che ci sia un potenziamento dell’elaborazione mentale dettato dal sonno stesso e che ciò potrebbe ottimizzare le performance in tasks di problem-solving e di altra tipologia.

Concludendo, ciò che suggerisce questo studio è come le informazioni acquisite durante il periodo di veglia possano essere potenzialmente elaborate durate il sonno in modo qualitativamente migliore e più profondo, anche se in futuro per poter avere maggior conferme di questo fenomeno si dovranno effettuare ricerche con un campione più ampio, confrontando come ciò possa variare in relazione all’età, indagando cosi i meccanismi neurali sottostanti.

Si sdrai sul lettino e mi faccia un ABC: l’integrazione assimilativa in psicoterapia

L’ integrazione assimilativa è l’incorporazione di tecniche appartenenti a una terapia “ausiliaria” (in quanto non corrispondente a quella in cui il terapeuta si è formato) nella terapia primaria (quella in cui un terapeuta si è specializzato).

 

Sono diverse le variabili che portano uno psicoterapeuta a preferire uno specifico orientamento ad altri, tuttavia, compiuta la scelta, non si esclude la possibilità che il terapeuta possa rivolgere lo sguardo a tecniche provenienti da altri orientamenti con l’intento di proporle in seduta al paziente, soprattutto in quei casi in cui l’approccio psicoterapico di appartenenza si è rivelato poco efficace. Affinché ciò sia possibile, oltre alla scontata e adeguata formazione sulle tecniche che si desidera importare dagli altri orientamenti, ci sono dei precisi accorgimenti da rispettare, in virtù della tutela del paziente in primis ma anche della stessa Psicoterapia. E’ a questo proposito che l’ integrazione assimilativa entra in gioco.

Integrazione assimilativa

L’ integrazione assimilativa adotta una posizione contestualista (Pepper, 1942), in cui una tecnica terapeutica non resta scevra dalle influenze dell’approccio in cui viene importata: essa infatti deriva il suo significato all’interno delle teorie dell’orientamento terapeutico in cui è impegnata. Ad esempio, la tecnica delle due sedie, tecnica appartenente alla terapia gestaltica, impiegata da un terapeuta cognitivo-comportamentale può avvicinarsi più ad un allenamento di assertività che di risoluzione del conflitto esperienziale, scopo per cui è tipicamente impiegata nella terapia della Gestalt (Messer, in Lazarus & Messer, 1991).

Quindi, quando una procedura clinica che è stata concettualizzata e praticata all’interno di una terapia viene successivamente incorporata in una terapia di diverso orientamento, è importante considerare:

  1. la sua collocazione concettuale all’interno del nuovo quadro terapeutico (il suo aspetto accomodativo);
  2. il suo significato clinico all’interno del nuovo contesto (il suo aspetto assimilativo);
  3. e la validità empirica della sua efficacia (il suo aspetto scientifico) nel nuovo contesto.

Integrazione teorica, eclettismo tecnico e fattori comuni

Verrebbe quindi da chiederesi quale differenza ci sia tra l’utilizzo nel proprio studio di “tecniche importate”, magari da mettere nella cassettina dei nostri attrezzi pronte per essere tirare fuori all’occorrenza, e l’integrazione assimilativa. Per non creare confusione al lettore, è bene a questo riguardo, e prima di entrare nel vivo dell’argomento, distinguere tra integrazione teorica, eclettismo tecnico e fattori comuni.

  • L’integrazione teorica tenta una sintesi concettuale di diverse psicoterapie alla ricerca di un nuovo quadro teorico sovra-ordinato che può guidare significativamente la ricerca e la pratica. Lamproupolos (2001) ne sottolinea tre limiti: sebbene l’obiettivo finale e ideale dell’integrazione teorica sia l’unione di quante più teorie possibili (se non tutte), i tentativi esistenti sono riusciti ad integrare solo due o tre teorie al massimo. Un secondo limite è che, attraverso tale integrazione, ci si può concentrare solo su specifici disturbi psicologici e non su tutte le categorie diagnostiche. Una terza e maggiore debolezza dei modelli integrativi teorici esistenti è l’integrazione di solo quegli aspetti delle teorie pure che sono compatibili l’uno con l’altro. A tutto ciò vanno aggiunti gli scarsi riscontri empirici. Per questo motivo gli studiosi si sono via via spostati verso l’eclettismo tecnico.
  • L’eclettismo tecnico è un approccio empirico che mira alla combinazione delle tecniche più efficaci esistenti in terapia, indipendentemente dalla loro origine teorica, in modo tale da massimizzare i risultati terapeutici per uno specifico paziente nel minor tempo possibile. Eclettismo e abbinamento prescrittivo, basati sulla raccomandazione di ricerca di Paul (1967), secondo cui ci si deve sempre domandare “Quale trattamento, da parte di chi, è più efficace a livello individuale con quello specifico problema, e in quale serie di circostanze?“. Diverse ricerche hanno provato a fornire una struttura empiricamente validata dei criteri da seguire nell’abbinamenti prescrittivo. Un lavoro senza dubbio utile e auspicabile ma, come ricorda Lamproupolos (2001) molto difficile da realizzare e dal quale siamo ancora ben lontani.
  • L’approccio basato sui fattori comuni è la ricerca di elementi comuni in tutte le terapie efficaci indipendentemente dalla terminologia variabile. Questo approccio ha prodotto diverse liste di fattori comuni proposti (vedi Grencavage & Norcross, 1990), ha facilitato un riavvicinamento tra terapie diverse e ha dato vita a un filone di ricerca considerevole (Hubble, Duncan e Miller, 1999; Wiser, Goldfried, Raue e Vakoch, 1996). Tuttavia, ci sono molte importanti questioni metodologiche che oscurano il suo ulteriore sviluppo. Uno di questi punti deboli è che ciò che appare superficialmente essere comune tra due o più teorie, in realtà nasconde importanti differenze a uno sguardo teorico più attento (Messer & Winokur, 1980; Safran & Messer, 1997). L’approccio dei fattori comuni è dunque limitato in quanto rappresenta un consenso in un livello astratto e fornisce solo un quadro generale per l’integrazione in psicoterapia che non può guidare adeguatamente la pratica integrativa e la ricerca (Lampropoulos, 2000).

Integrazione assimilativa: un ponte tra integrazione teorica ed eclettismo tecnico

L’ integrazione assimilativa è stata suggerita da Messer (Lazarus & Messer, 1991; Messer, 1992) come alternativa all’eclettismo tecnico. Tale tipo di integrazione infatti prevede che, quando le tecniche derivanti da diversi approcci teorici sono incorporate nel proprio orientamento teorico principale, il loro significato interagisce con il significato della teoria ospitante. In questo modo sia la tecnica importata che la teoria preesistente si trasformano mutualmente e sono modellate nel prodotto finale, ovvero il nuovo modello integrativo assimilativo.

Messer spiega cosa potrebbe accadere nella mente del terapeuta che tende ad assumere la prospettiva dell’ assimilazione integrativa: “Sono stato formato e ha fatto pratica secondo uno specifico approccio teorico che mi piace e in cui credo, che è relativamente efficace con la maggior parte dei pazienti e con molte problematiche. Inoltre è piuttosto difficile, se non impossibile, integrare tutti gli aspetti della mia teoria a tutti gli aspetti di una o più delle altre teorie (come nel caso dell’integrazione teorica) o trattare scientificamente tutti i pazienti e tutte le problematiche in tutte le situazioni con il miglior intervento empiricamente validato (cioè, raggiungere l’eclettismo tecnico). Pertanto, manterrò la mia teoria originale incorporando anche quegli interventi empiricamente supportati nelle altre terapie: questo ripagherà le debolezze del mio orientamento attraverso quegli aspetti teorici compatibili con il mio orientamento ma previsti in esso, cercando di ottenere un risultato teoricamente coerente e clinicamente significativo”. In questo senso, l’ integrazione assimilativa può essere vista come un ponte tra due visioni principali ma contrastanti dell’integrazione in psicoterapia: l’integrazione teorica e l’eclettismo tecnico. L’ integrazione assimilativa può essere il modo migliore di integrare la teoria e le scoperte empiriche e di ottenere la massima flessibilità ed efficacia sotto un quadro teorico guida.

Integrazione assimilativa: i criteri a cui prestare attenzione

Tuttavia, anche nel caso dell’ integrazione assimilativa, ci sono degli criteri a cui prestare attenzione:

1. Il “dove” dell’ assimilazione: l’orientamento terapeutico di appartenenza del clinico dovrebbe avere numerose componenti empiricamente validate, prima di assimilare altre tecniche in esso.
2. Il “cosa” dell’ assimilazione: le tecniche da assimilare alla propria teoria devono essere supportate empiricamente. Ovviamente, la ragione per assimilare altre tecniche o interventi nella propria teoria dovrebbe essere quella di affrontare problemi specifici per i quali tali interventi o tecniche sono stati convalidati e per i quali la teoria primaria si è mostrata “carente” o non adeguata.
3. Il “quando” dell’ assimilazione: nella selezione delle tecniche appropriate da assimilare e utilizzare in seduta, bisogna prestare attenzione altresì al momento idoneo ad introdurre tali tecniche al paziente. Anche in questo caso, bisogna far riferimento ai dati empirici presenti in letteratura.
4. Il “come” dell’ assimilazione: il modo in cui viene effettuata l’ assimilazione richiede un’attenta riflessione da parte dei terapeuti di ciascun orientamento teorico. Non tutte le tecniche possono essere facilmente assimilate nella propria teoria, soprattutto se queste sono contraddittorie o addirittura contrarie alla visione proposta dall’approccio di riferimento (Messer, 1989).
5. La coerenza dell’ assimilazione: in linea col punto 4, il prodotto finale dell’ integrazione assimilativa messa in atto dal terapeuta deve essere teoricamente compatibile con i principi della teoria primaria, senza alterarla del tutto (Safran e Messer, 1997). In caso contrario, il risultato sarà o una nuova terapia teoricamente integrativa; o un eclettismo tecnico (Lazarus, 1992, 1995); oppure un guazzabuglio contraddittorio inutile o addirittura dannoso nella pratica.
6. L’efficacia dell’ assimilazione: le terapie effettuate tramite integrazione assimilativa vanno valutate empiricamente e (ri)validate. Il nuovo prodotto dell’ assimilazione deve essere testato in modo qualitativo e/o quantitativo attraverso nuovi studi, anche su caso singolo.

Sebbene gli interventi frutto di integrazione assimilativa possano dimostrarsi efficaci, è importante che il cambiamento di orientamento sia considerato attentamente dal terapeuta in modo tale che in seduta l’intervento avvenga nel modo più fluido e naturale possibile. Se crediamo che tale sforzo integrativo potrebbe cambiare la natura della relazione terapeutica o potrebbe compromettere il benessere del paziente in altri modi, è necessario spiegare a quest’ultimo il significato, nel nuovo contesto, della tecnica che intendiamo adoperare.

Vantaggi e svantaggi dell’ integrazione assimilativa

Il principale vantaggio dell’ integrazione assimilativa è il consentire ai terapeuti di continuare a praticare nel quadro del loro orientamento teorico senza rinunciare ai benefici delle tecniche appartenenti ad altri approcci.

Sebbene con la pratica assimilativa non vengano “minacciate” le convinzioni teoriche fondamentali dell’orientamento di appartenenza, questa aiuta a cambiare le idee periferiche in modo da adattare i propri schemi di terapia alle tecniche importate. Ovviamente, il terapeuta che opta per l’ integrazione assimilativa, non trova alcuna difficoltà in questo; ma anzi sarebbe più aperto a correggere le debolezze del proprio modello, sia nella teoria che nella pratica.

Un altro vantaggio dell’ integrazione assimilativa è quello di offrire un quadro teorico utile a guidare la pratica, in modo più rigoroso e meno dispersivo rispetto all’eclettismo tecnico.

Lo svantaggio principale dell’ integrazione assimilativa è il fatto che comporta il “rischio” di ulteriori aumenti nel numero di psicoterapie. Le 400 terapie diverse riportate da Karasu nel lontano 1986, possiamo facilmente immaginarle in continua crescita e a queste potrebbero aggiungersi i diversi approcci integrativi. Alcuni integrazionisti hanno già sottolineato i pericoli della proliferazione di psicoterapie integrative (ad es. Lazarus, in Lazarus & Messer, 1991): se contiamo i possibili interventi di integrazione assimilativa come modelli separati, i numeri diventerebbero piuttosto sconcertanti.

Avendo parlato di assimilazione il rimando teorico a Piaget viene facile. Secondo lo psicologo, negli individui la conoscenza procede in modo adeguato quando si stabilisce un buon equilibrio tra assimilazione e accomodamento. Potremmo dire lo stesso per il progredire della Psicoterapia?

Gli effetti psicologici della Brexit sugli immigrati europei

Giovedì 23 giugno 2016 la Gran Bretagna ha votato per lasciare l’Unione Europea (UE) con un referendum che ha visto la nazione divisa tra coloro che hanno votato per rimanere all’interno dell’Unione Europea (48%) e quelli che invece hanno optato per Brexit (52%).

Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Lo status dell’economia britannica, del sistema sanitario e dei leader politici si trova in un periodo di incertezza e il cambiamento è perciò inevitabile. Si sono già riscontrati molti cambiamenti da quando Brexit è stata annunciata. La sterlina è scesa al livello più basso dal 1985, David Cameron ha rassegnato le dimissioni da Primo Ministro e Theresa May è il nuovo leader politico del Paese.

Poiché la Gran Bretagna è divisa e l’economia oscilla, molti si preoccupano della futura sicurezza del lavoro e delle finanze. Non sarebbe inaspettato che durante questo periodo le persone provino sentimenti di ansia. L’ansia può svilupparsi infatti da una serie di cause, tra cui stress sul lavoro, tensioni finanziarie e persino cambiamenti politici.

Dopo Brexit, è stata inoltre segnalata un’ondata di crimini di odio e di xenofobia che secondo molti potrebbe essere spiegata come conseguenza del voto a favore di lasciare l’UE, che ha in un qualche modo legittimato un atteggiamento razzista. Le immagini negative di Nigel Farage davanti a un poster raffigurante un ammasso di immigrati e le parole “BREAKING POINT”, “L’UE ha fatto fallire tutti noi” hanno sicuramente contribuito ulteriormente all’aumento della discriminazione contro le minoranze etniche attraverso i media. Tuttavia, sebbene un obiettivo centrale della campagna a favore del “leave” è stato quello dell’anti-immigrazione, non tutti coloro che erano a favore di Brexit erano al contempo favorevoli ad una diminuzione del numero dei migranti. Nonostante ciò, questa vittoria ha determinato la crescita esponenziale di un’ostilità verso gli stranieri europei (e non) che risiedono nel Regno Unito.

Le conseguenze della Brexit sul benessere psicologico

Nel complesso, questo periodo incerto e piuttosto preoccupante può disturbare il benessere psicologico di una persona.

Negli studi degli psicologi in tutto il paese, proprio come nelle case, nei pub e negli uffici, le persone hanno cercato di venire a patti con la sorpresa e lo shock del risultato Brexit.

Molte persone si sentono trasportate in una Gran Bretagna distopica che “non riconoscono, non possono capire”. Sono migliaia gli studenti e i lavoratori europei che stanno pensando o pianificando di lasciare il paese.

I terapeuti di tutto il mondo riportano livelli di ansia e disperazione sorprendentemente elevati, con pochi pazienti che desiderano parlare di qualsiasi altra cosa.

Ma Perché il voto sulla Brexit ci riguarda così personalmente? E cosa ci dice questo sulla nostra psiche?

Lo strano e davvero inaspettato limbo di quel venerdì di Giugno mostra che le persone di entrambi i partiti sono ancora assolutamente incerte su ciò che è successo e che concretamente succederà. E l’incertezza è uno degli stati più difficili da vivere.

L’incertezza è spesso percepita dal cervello umano come una minaccia: più ci sentiamo incerti, più l’attività dell’amigdala aumenta (risposta alla minaccia) e diminuisce l’attività dello striato ventrale (risposta di ricompensa). Il nostro cervello si trova quindi in uno stato di malessere. Come esseri umani, facciamo del nostro meglio per trasformare l’incertezza in paura, cercando un oggetto da amare o da odiare, su cui dunque riversare le nostre emozioni. Così, dopo il referendum, si è cercato qualcuno da incolpare. Questo non è solo un riflesso di una reale preoccupazione politica, ma uno sforzo fondamentale per trasformare l’incertezza in paura, che è sempre più gestibile.

Sono preda di questa incertezza soprattuto gli immigrati europei nel Regno Unito. Nel 2015, gli europei residenti in UK erano circa tre milioni, il 5% della popolazione totale del Paese.

Senso di appartenenza, benessere psicologico e i sentimenti nati dopo la Brexit

Nel suo articolo del 1943 “Una teoria della motivazione umana”, lo psicologo americano Abraham Maslow citò l’appartenenza come il terzo più importante bisogno umano nella gerarchia dei bisogni umani, dopo solo ai bisogni fisiologici e di sicurezza.

Secondo uno studio dell’Università del Michigan (Williams, 2005), le persone con un maggiore sostegno sociale e che provano un senso di appartenenza più elevato riportano una minore quantità di sintomi depressivi.

È proprio il sentimento di non appartenenza, di sentirsi estranei, diversi e non più ben accetti in quello che si credeva un Paese propenso all’integrazione, che hanno provato e dichiarato per esempio numerosi italiani che vivono in UK.

Una settimana dopo il voto, il professor Martin Milton, della Regent’s University di Londra, ha suggerito che molti si sentivano “spaventati, confusi, feriti e feriti”. Dall’interno della Mental Health Foundation hanno aggiunto che i sentimenti più comuni che le persone hanno riportato sono stati una miscela di shock e rabbia, accompagnati da “tristezza, frustrazione e persino la disperazione”.

Il Dott. John McGowan, ad esempio, del Centro di Psicologia Applicata di Salomon, ha spiegato le cinque fasi del dolore, una teoria elaborata dalla psichiatra di origini svizzere e nordamericane Elisabeth Kübler-Ross. Secondo McGowan, in seguito al referendum molti si sono trovati nella prima fase della negazione (“Mi sento bene, questo non può accadere a me”) per poi passare al secondo stadio, caratterizzato dalla rabbia (“Perché io?” “Non è giusto!”). Per alcune persone le altre tre fasi di negoziazione, depressione e accettazione non si sono ancora verificate.

La realtà latinoamericana

All’interno degli uffici del Teléfono de la esperanza UK, nel sud di Londra, sono stati molto visbili gli effetti psicologici della Brexit.

All’inizio c’era un livello di angoscia, ansia e confusione tra le persone. Le frasi più frequenti di coloro che telefonavano alla nostra associazione erano “Non so cosa faremo, cosa succederà, cosa significherà, non capisco, non ci credo” “Ho fatto questo viaggio e mi sono dato una seconda possibilità” – racconta Nancy Liscano a The Prisma, presidentessa e fondatrice di questa organizzazione fondata 11 anni fa.

Con 38 volontari di lingua spagnola, di cui 14 addetti a ricevere chiamate della comunità ispano-americana residente nel Regno Unito, le ripercussioni del referendum sono davvero chiare.

Queste persone stanno ancora cercando di concentrarsi sulla loro prima migrazione in Spagna quando improvvisamente accade Brexit, senza alcuna informazione, e a peggiorare le cose, molti non parlano nemmeno l’inglese. Ciò ha portato ad una maggiore atmosfera di ansia. – spiega Liscano.

Con una media tra le 20 e le 25 chiamate di crisi ogni settimana, la maggior parte delle quali provenienti da colombiani, spagnoli ed ecuadoriani, il team di Teléfono de la esperanza UK ha percepito che l’idea di tornare in Spagna (il paese della prima migrazione) o direttamente in America Latina è attualmente considerata da molti.

Tutti i miei clienti cittadini dell’UE hanno problemi con il sonno e sono ansiosi – ha detto Emmy van Deurzen, terapeuta olandese con sede nel Regno Unito,e continua – Molti sono depressi o scoraggiati. Ho avuto diverse conversazioni con cittadini europei che hanno riportato pensieri suicidari. Altri hanno deciso di rinunciare alla Gran Bretagna e hanno già lasciato il Paese.

Le conseguenze di Brexit: psicologiche e non solo..

Nel Regno Unito, la principale causa di assenza per malattia dal lavoro è rappresentata da stress, ansia e depressione (che rappresentano quasi il 40% di tutte le assenze per malattia). Lo scorso anno più di 500.000 persone hanno sofferto di stress sul lavoro, con una media di 24 giorni lavorativi persi e una perdita annuale di oltre £ 5 miliardi. Il timore è che il conto aumenti sostanzialmente nei prossimi due anni o più, se si considerano le ripercussioni psicologiche che Brexit potrà causare sui lavoratori.

Le conseguenze psicologiche di Brexit si ripercuotono anche su altre aree del Paese, come l’economia. Questo è quanto crede ad esempio Jonathan Portes, esperto in immigrazione ed economia, docente presso il King’s College di Londra. Secondo il Professor Portes è necessario includere fattori psicologici quando si parla di analizzare i risultati degli effetti del referendum:

Ci sarà un lungo periodo di incertezza prima di sapere cosa Brexit significherà nel concreto per i cittadini dell’UE che sono già qui e per quelli nuovi che arriveranno. Se le persone non possono pianificare senza certezze è meno probabile che arrivino o restino.

Ma importanti preoccupazioni arrivano anche dall’Istat britannico. I dati pubblicati dall’Office for National Statistics (ONS) nel 2017 hanno mostrato che 122.000 europei hanno lasciato il Regno Unito entro Marzo, con un esodo senza precedenti che ha causato un calo della migrazione netta. Diversi sono i settori colpiti da questo fenomeno: il settore turistico e dell’accoglienza nel Regno Unito è composto da circa il 75% dei camerieri e dal 25% degli chef europei. Ogni anno servono 60.000 nuovi lavoratori per soddisfare la domanda di impiego. Invece Il settore sanitario e in particolare l’Nhs, il sistema sanitario nazionale, che impiega 60.000 europei, attualmente è alla ricerca di 40.000 infermieri, anche a causa della decisione di molti immigrati, in particolare dell’Europa dell’est, di tornare a casa.

Numerose Aziende hanno sollevato crescenti preoccupazioni sulla “fuga dei cervelli” da parte delle industrie del settore primario, mentre le organizzazioni che rappresentano i migranti dell’UE hanno sollecitato il governo a offrire solide garanzie sul loro status dopo Brexit.

In conclusione

Numerose sono anche le domande che i cittadini europei già residenti o che pianificano di trasferirsi si stanno chiedendo. Cosa succederà quando la Gran Bretagna uscirà definitivamente dall’UE nel 2019?

In questi due anni precedenti alla definitiva uscita del paese anglosassone, si sta verificando un susseguirsi di negoziazioni tra Regno Unito e Unione Europea. Il risultato di queste sarà l’accordo finale che decreterà il futuro delle relazioni commerciali, sociali e lavorative della UK con l’UE.

La cosa più importante per chi vive in Gran Bretagna è che per ora i cittadini europei residenti già da prima del voto potranno tranquillamente continuare ad abitarvi senza nessun pericolo di espulsione in virtù della Convenzione di Vienna stipulata nel 1969.

Incontrare le persone LGB (2018): recensione ed intervista alle autrici del libro sulla consulenza clinica per persone lesbiche, gay, bisessuali

Il libro Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale si propone di consegnare al lettore una serie di strumenti per agire in ambito clinico, educativo e legale con persone lesbiche, gay e bisessuali.

 

In un’intervista rilasciata per State of Mind, le autrici ci parlano proprio dello scopo del loro manuale Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale:

L’obiettivo che ci siamo poste nella realizzazione di questo libro è quello di fornire una guida, una mappa per i professionisti che operano in ambito psico-socio-sanitario, educativo e legale per orientarsi nel lavoro con persone lesbiche, gay e bisessuali. 
I profondi mutamenti sociali e culturali degli ultimi anni hanno reso ancora più evidente la necessità di una formazione specifica su questi temi e con questo libro abbiamo provato a rispondere a questa necessità raccogliendo e proponendo strumenti teorici e operativi per l’accoglienza e la consulenza con le persone lgb e i loro familiari. 
Il testo raccoglie i contributi di professionisti di differenti discipline che da anni si occupano di temi lgb. 
È dunque un testo pensato per psicologi, insegnanti, avvocati, assistenti sociali, medici, infermieri, educatori, ostetriche, ma abbiamo voluto utilizzare un linguaggio fruibile anche per i non addetti ai lavori perché pensiamo possa essere un utile testo di “auto-aiuto” e di conoscenza per chiunque sia interessato al tema.

Il linguaggio usato dalle autrici risulta infatti essere molto chiaro e capace di rendere la lettura di semplice comprensione. Particolare attenzione viene riservata all’uso del linguaggio e alle sue declinazioni per includere qualsiasi persona ed evitare discriminazioni veicolate dal lessico, perseguendo lo scopo di portare visibilità a diverse minoranze sessuali e alla donna, come soggetto ancora troppo spesso non riconosciuto in ogni sua manifestazione e/o attività.

Le autrici

Le autrici del libro Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale sono tre psicologhe che svolgono attività clinica privata e con un curriculum abbastanza differenziato da permettere loro la creazione di un volume multisfaccettato.

Chiara Cavina è psicologa dell’età evolutiva e psicoterapeuta, esperta in psicologia giuridica; il suo contributo si sofferma sui processi discriminatori e sulle esigenze di tutela di bambini, bambine e adolescenti, ed in particolare sulle competenze genitoriali;

Serena Cavina Gambin è psicologa e consulente sessuologa per problematiche della sfera relazionale e sessuale, ha inoltre collaborato all’apertura di uno sportello d’ascolto per persone lgbt e i loro familiari;

Daniela Ciriello, psicologa e psicoterapeuta, specializzata in arteterapia, si occupa in particolare di difficoltà relazionali, di problemi legati all’attaccamento e di elaborazione di memorie traumatiche. Da più di venticinque anni gran parte del suo interesse è rivolto all’identità sessuale, all’orientamento sessuale, all’omofobia sociale e interiorizzata e in modo specifico all’omogenitorialità. Ha collaborato con le principali associazioni lgbt del paese per la realizzazione di progetti di sostegno e di crescita personale delle persone lgbt e dei loro familiari.

La collaborazione tra Chiara Cavina e Daniela Ciriello risale al 2009 con il libro Crescere in famiglie omogenitoriali, primo testo in Italia a raccogliere contributi multidisciplinari attorno al tema delle bambine e dei bambini nati e cresciuti all’interno di coppie dello stesso sesso; Daniela Ciriello inoltre è autrice di Oltre il pregiudizio, primo testo italiano in ambito psicologico sul tema dell’omogenitorialità.

Struttura e argomenti del libro

Il libro Incontrare le persone LGB Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale è composto da quattro sezioni, di cui la prima e la seconda possono essere quelle di maggiore interesse per un pubblico di psicologi e psicoterapeuti. Una lettura globale del libro permette al lettore di cogliere alcuni degli aspetti rilevanti della vita delle persone LGB e dei loro familiari.

La prima sezione si occupa, in particolare, di chiarire alcuni concetti legati all’identità sessuale e ai peculiari stressor che caratterizzano la vita delle persone lgb e dei loro familiari, all’omofobia sociale e interiorizzata, al minority stress e al coming out.

Quali stressors accompagnano quotidianamente le vite delle persone lgb e dei quali gli psicologi dovrebbero essere informati?

Un fenomeno del quale gli psicologi dovrebbero essere informati è quello del minority stress, ossia una condizione di stress e disagio psicologico al quale le persone omosessuali sono sottoposte in quanto minoranza sessuale. Lo sviluppo psicologico di queste persone è spesso accompagnato da esperienza di discriminazione, dal contatto con ambienti ostili o eterosessisti, in alcuni casi da esperienze di violenza. Inoltre, vi è una differenza sostanziale rispetto al vissuto di stress di altre minoranze: nel caso ad esempio di una minoranza etnica o religiosa, queste persone possono contare sul supporto familiare e della comunità di riferimento, nel caso delle persone omosessuali spesso invece viene meno il supporto da parte dei familiari a causa di una visione negativa dell’omosessualità.

specificano le autrici durante l’intervista.

La seconda sezione entra nel merito della consulenza psico-socio-sanitaria rivolta a persone LGB.

Le autrici nonostante rilevino una maggiore informazione rispetto al passato di quelle che sono le caratteristiche peculiari della consulenza con persone LGB, riconoscono l’esistenza di una serie di pregiudizi che i professionisti della salute mentale nutrono nei confronti dei loro pazienti, considerando l’orientamento eterosessuale come ideale. In taluni casi i professionisti possono essere consapevoli di alcune idee e sono al corrente di come queste, secondo codice deontologico, non dovrebbero poter interferire con la consulenza. Ci sono anche coloro i quali non si sono mai nemmeno posti questioni a riguardo, in fondo nella nostra società è ancora diffusa la tendenza ad usare terminologie legate all’omosessualità per schernire o deridere qualcuno, o addirittura per insultare.

Nonostante la società stia facendo dei passi avanti, le persone LGB continuano ad arrivare in consulenza per una serie di disagi, come infatti la letteratura scientifica mostra, il benessere psicologico di persone omosessuali e bisessuali è inferiore rispetto a quello di persone eterosessuali a causa delle diverse spinte sociali e dell’adattabilità o reazioni ad essere dei vari soggetti.

Nel libro Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale vengono dati degli spunti sia per cogliere il punto di vista di una persona LGB e potersi immedesimare nelle piccole difficoltà quotidiane sia per avere spunti pratici su come poter rendere la consulenza uno spazio accogliente, non giudicante e di libertà espressiva.

In questa sezione, vengono inoltre raccolte le richieste ricorrenti portate in consulenza da pazienti LGB, quali, ad esempio, dubbi rispetto al proprio orientamento, tematiche legate alla difficoltà dell’uscire allo scoperto e far conoscere la propria identità sessuale alle persone, timori dei genitori delle persone LGB. Oltre ad indicare le tematiche portate dal paziente, vi è una sezione dedicata ai punti sui quali lo psicologo può lavorare (es. sul piano informativo, di valutazione del coping e delle risorse del soggetto, sull’elaborazione emotiva, etc.).

Nella nostra società è l’eterosessualità ad essere scontata: una persona eterosessuale difficilmente si ritroverà a doversi dichiarare eterosessuale; le persone gay, lesbiche e bisessuali, al contrario, debbono affrontare questa incombenza in ogni loro nuovo contesto. Questa premessa eteronormativa è presente quindi nella maggior parte dei genitori che conseguentemente avranno nel loro immaginario, riferito alla figlia o al figlio, un matrimonio con una persona del sesso opposto con la quale/il quale “metteranno su famiglia” nel più tradizionale dei modi. Nel momento in cui si introduce la prospettiva dell’omosessualità del proprio figlio, queste aspettative vengono a cadere: non esiste ad esempio la possibilità, attualmente, di un matrimonio per la chiesa cattolica, e la recente acquisizione delle unioni civili non si è ancora instaurata nell’immaginario comune. Inoltre lo stereotipo vuole la persona omosessuale “sterile”, senza una possibilità procreativa e di conseguenza genitoriale (…). Per i genitori di LGB spesso la scoperta dell’omosessualità di un figlio è accompagnata da vissuti di delusione nei confronti di queste aspettative che non verranno rispettate, probabilmente, nelle modalità immaginate e previste.

Comprendere i livelli di omofobia paternalistica sociale e interiorizzata che possono ostacolare i processi di svelamento e un contatto autentico con i propri vissuti di paura. Per tutelarsi dalle ricadute che i propri vissuti di paura possono avere sull’autostima e l’immagine di sé, può accadere che si ricorra ad argomentazioni del tipo “non lo dico per non ferire i miei genitori” oppure “io so chi sono, non c’è nessun bisogno di comunicarlo agli altri”, che permettono di mantenere intatta un’immagine positiva di sé invalidando però l’autenticità dei propri vissuti sia emotivi che relazionali.

Importante risalto viene dato anche alla consulenza sessuologica di persone LGB, sottolineando come, anche in questo caso, una spinta ad eguagliare i termini eterosessuale e omosessuale, se erroneamente usata porta a dare per scontati dettagli importanti, tra cui dare ad esempio per scontata una sessualità penetrativa, oppure, al contrario, escluderla a priori nel caso di una coppia femminile.

La letteratura mostra come, nonostante l’incidenza delle disfunzioni sessuali sia simile nella popolazione eterosessuale e omosessuale, raramente le persone LGB si rivolgano a sessuologi per timore di essere stigmatizzati per il proprio orientamento sessuale.

Ognuno di questi aspetti viene vissuto in modo amplificato durante l’adolescenza, per questo le autrici hanno dedicato un intero capitolo a questa fase importantissima dal punto di vista identitario.

Ed infine, ricordando l’esistenza di famiglie LGB, un ultimo capitolo della seconda sezione è dedicato alle coppie LGB, al desiderio di genitorialità, alle coppie omogenitoriali, al coming out dei genitori con figli e ai figli di genitori LGB.

Quest’ultima parte fa da ponte alla successiva sezione, la quale si occupa delle più o meno recenti concettualizzazioni di famiglia e genitorialità da un punto di vista legislativo.

Un excursus storico che ha condotto all’approvazione della legge italiana n.76/2016 sulle unioni civili, riconoscendo una pluralità di famiglie e aprendo così riflessioni sull’omogenitorialità. Il libro espone diverse modalità con le quali coppie di donne e coppie di uomini possono diventare genitori: procreazione medicalmente assistita (PMA) e gestazione per altri (GPA). Queste due pratiche non sono consentite in Italia: per quanto riguarda la PMA non è consentita ad una coppia di due donne, ma lo stato Italiano non ne vieta la pratica all’estero; per quanto riguarda la GPA è illegale a prescindere dal genere dei componenti della coppia e spesso le persone si recano in America per poter ricorrere a questa pratica.

Infine, si può leggere una panoramica degli istituti di tutela del minore, figlio di coppie omogenitoriali e dei suoi diritti.

L’ultima sezione si occupa di possibili interventi in ambito scolastico. Le coppie omogenitoriali individuano nell’inizio della scuola un momento di paure ed ansie, rispetto a pregiudizi, discriminazioni da parte di insegnanti, altri bambini e genitori, proprio nel momento in cui il figlio viene per la prima volta affidato ad un’agenzia educativa esterna alla famiglia.

Spesso a scuola la modulistica ed il materiale didattico sono incentrati su un modello eterosessuale binario che prevede un padre ed una madre. Un buon insegnante può svolgere un grosso lavoro per favorire ai membri delle famiglie LGB un’esperienza formativa serena e scevra da discriminazioni. Essi se debitamente informati possono favorire l’inclusione, la valorizzazione delle diversità in classe, la gestione di un eventuale disagio e favorire il dialogo rispetto a tematiche relative alla sessualità non eterosessuale e alle forme di famiglia e affetto derivanti. Oltre a suggerire una serie di letture e spunti per una maggiore comprensione del fenomeno da parte degli insegnanti vengono anche avanzate alcune proposte per la didattica, in particolare per quanto riguarda le materie letterarie (comprendendo alcuni spunti pratici di epica, antologia, letteratura).

Le autrici a conclusione del testo Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale, riportano l’attenzione sul pregiudizio, affermando:

Ci auguriamo che sia passato il messaggio che in una società complessa, sfaccettata, basata spesso sul valore dell’apparenza e al contempo globalizzata come quella odierna usare stereotipi e pregiudizi “per orientarsi” nel mondo, può solo che aumentare il disorientamento, le false sicurezze e il conflitto (in sé e con gli altri).

Un’interessante lettura italiana della situazione attuale, aggiornata e della quale è importante essere a conoscenza per relazionarsi e poter comprendere le problematiche e gli stressor di una persona lgb o di una famiglia omogenitoriale, sia che la consulenza sia orientata all’intero sistema, sia che sia orientata ai figli, ai genitori o altri parenti stretti.

Come riportato nell’excursus legale, dei passi avanti sono avvenuti, ma si rimane ancora in un contesto che tollera e talvolta incentiva battute omofobiche, in cui i rappresentanti delle istituzioni possono addirittura esprimere pubblicamente la propria avversione nei confronti dell’omosessualità. E tutte queste componenti socio-ambientali conducono a disagi psicologici: vivere serenamente le proprie relazioni (amorose e personali) diviene difficile, così come tollerare comportamenti discriminatori in famiglia, a scuola o al lavoro, doversi mascherare o “scremare il proprio racconto di sé”, cercare inoltre di eccellere in altri campi per compensare quel punto di riguardo che si crede il proprio orientamento possa generare negli altri.

Un altro passaggio importante che traspare in Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale è rispetto al concetto di uguaglianza e diversità, garantire uguale trattamento, diritti ed eliminare la discriminazione ed il pregiudizio non significa considerare uguali in termini di pratiche, modalità relazionali e stressor l’eterosessualità, l’omosessualità e la bisessualità. Le peculiari caratteristiche di ogni orientamento sessuale sono in costante evoluzione ed è importante che lo psicologo ne sia al corrente.

Per quanto riguarda futuri sviluppi, al termine dell’intervista le autrici aprono le porte a possibili altri progetti di collaborazione:

Abbiamo diverse idee rispetto ad alcuni temi che in questo testo tocchiamo solo tangenzialmente e che stimolano il nostro interesse. Ci piacerebbe sicuramente tradurre questi temi in un lavoro organico sempre attraverso l’impronta multidisciplinare che rappresenta il nostro modo di lavorare poiché consente di affrontare gli argomenti in un modo più ampio, trasversale alle diverse competenze, restituendo la complessità e la ricchezza dei fenomeni umani. Questo modello ci sembra particolarmente importante parlando di minoranze sessuali proprio perché ci permette di mostrare e di sottolineare come ciò che sembra riguardare solo un gruppo limitato di persone in realtà in un qualche modo e a qualche livello riguarda anche tutti gli altri.

 

LEGGI ANCHE LE ALTRE RECENSIONI DI QUESTO LIBRO:

Incontrare le persone LGB (2018) di Ciriello, Cavina e Cavina Gambin: una guida alla consulenza educativa, psicologica e legale – Recensione del libro

Incontrare le persone LGB (2018) di C. Cavina, S. Cavina Gambin, D. Ciriello – Recensione del libro

Scopiazzando dalla fisica – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 46

Quando non si hanno idee, non voglio dire buone e originali ma anche semplicemente discrete, la cosa migliore sarebbe tacere, seguendo il consiglio di Wittegestein ingenere, filosofo e logico vissuto nella prima metà del ‘900 che suggeriva: “Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Scopiazzando dalla fisica (Nr. 46)

 

Sull’opportunità del tacere ci sono tanti proverbi e ammonimenti che evidentemente cercano di contrastare l’innata tendenza ad aprir bocca e dargli fiato… per il piacere di ascoltarsi? Per vedere l’effetto che fa? Per farsi venir sete e giustificare un quartino? I motivi possibili sono molti.

Nel deserto delle idee l’alternativa all’auspicato silenzio è “il copiare”, oggi facilitato dai programmi di videoscrittura e da internet. Meno riprovevole della copiatura è quella che chiamo “traslazione”, ovvero prendere un’idea innovativa e affermata in un certo settore e provare ad applicarla ad un altro, il proprio. Ad esempio una volta che si è scoperto che la fermentazione produceva alcol e che esso era buono, quante cose saranno state messe a fermentare? Una volta scoperto che un frutto tostato e macinato produce una polvere con caratteristiche molto diverse dall’originale, quanti frutti saranno finiti dentro la moka? Insomma l’idea della traslazione è di astrarre al massimo un concetto sviluppato su uno specifico dominio ed applicarlo per riorganizzare i dati di un dominio completamente diverso. Spesso ne risulta solo mondezza, talvolta qualche interessante suggestione. Correttezza vuole tuttavia che le solide basi scientifiche e sperimentali su cui si fondava l’idea primigenia non vengano considerate un sostegno per le suggestioni derivate che restano metafore.

Allora, mosso dall’invidia per le scienze esatte (che appunto però hanno scientificamente scoperto di non essere così tanto esatte), ho preso lo spunto da alcuni dei teoremi e delle scoperte della fisica del ‘900, che prima con la rivoluzione di Eistein e poi con la fisica quantistica hanno ribaltato almeno un paio di volte la rassicurante prospettiva classica euclidea. Tali teoremi non li capisco neppure del tutto bene (ma proprio come molti film, meno li capisci più intuisci che sono profondi e belli) e certo la loro verità logico-matematica non la si può esportare nel nostro campo. Li ho utilizzati semplicemente come metafora o come una supposta (da intendere non come participio passato ma come sostantivo anale) stimolante, per ribadire idee mie e credo di molti altri colleghi.

Il teorema di Gödel

Il primo scienziato è Gödel un filosofo e matematico austriaco vissuto nella prima metà del ‘900 che formulò due teoremi di cui riportò l’essenza senza pretesa di comprensione. I teoremi di incompletezza di Gödel sono due:

Il primo teorema di Gödel sostiene che vi sono affermazioni vere ma non dimostrabili e che all’interno di un sistema coerente c’è comunque un’affermazione di cui non si può dimostrare né la verità né la falsità. In particolare Gödel dimostrò che l’aritmetica stessa risulta incompleta e vi sono dunque delle realtà vere ma non dimostrabili (il che dovrebbe farci riflettere da un lato sulla deferenza acritica verso tutto ciò che è “evidence-based” e sulla diffidenza scientista verso tutto ciò che appartiene evidentemente alla realtà ma ci rifiutiamo di accettare perché scientificamente inspiegabile mostrando la stessa cecità che condannò all’ostracismo e alla povertà Semmelweiss, per poi recuperarlo duecento anni dopo nel libro della memoria del mondo dell’Unesco). Insomma “Vero” e “Dimostrabile” non sono due insiemi sovrapponibili, essendo il secondo un sottoinsieme del primo, ed esistendo dunque un restante sottoinsieme che raccoglie ciò che è vero ma non dimostrabile, perlomeno con gli strumenti attuali.

Allo stesso modo credo che non possa esistere un sistema cognitivo completamente cosciente in quanto, perché una rappresentazione sia cosciente, deve esistere un punto di vista superordinato ad essa che a sua volta non è cosciente e ciò genera un regresso all’infinito perché se anch’esso può divenire cosciente è solo grazie alla creazione di un ulteriore punto di vista superordinato. Questo comporta due conseguenze pratiche importanti. La prima è che l’idea psicoanalitica di rendere cosciente tutto l’inconscio è un mito irrangiungibile (e non entro nel merito dell’opportunità o meno) e che anzi più si esplora se stessi e più si creano nuovi se stessi impegnati ricorsivamente ad auto osservarsi e si perde la presa diretta con l’esistenza. La seconda, tutta a nostro vantaggio, è che se qualora si ritenga utile una certa consapevolezza per risolvere un problema che fa soffrire, è indispensabile un terapeuta, un punto di vista esterno che faccia da specchio, perché in genere il problema del paziente si annida proprio nei suoi punti di vista superordinati, che appunto da solo non può vedere.

Lo ribadisco in altri termini. Così come in un sistema formale c’è sempre almeno una proposizione indimostrabile, così in un sistema cognitivo consapevole c’è sempre comunque un punto di vista (una prospettiva…) inconscio e qualora lo si renda cosciente se ne crea un altro in un regresso all’infinito secondo la regola che “io so che”>>>”io so che so”>>>>”io so che so che so” e via così in una piramide di omuncoli che si osservano litigando per chi sia il “vero io” per cui il mito dell’analisi completa e della consapevolezza piena, è appunto un mito senza senso.

Il lavoro di consapevolezza di sé è infinito generando continui nuovi livelli di auto osservazione a loro volta inconsci e dunque la conoscenza di sé è un processo sempre in atto che rischia di far perdere di vista la realtà concreta creando una spirale ricorsiva onanistica. Per conoscersi quel tanto che basta per superare delle sofferenze è indispensabile un esterno (terapeuta) che faccia da specchio, perché il problema si annida in genere proprio nella prospettiva in cui si valuta se stessi che è data per scontata, ovvia e dunque invisibile.

Il secondo teorema di Gödel sostiene che nessun sistema può dimostrare dal suo interno la propria coerenza. In ogni costruzione teorica c’è dunque un buco, una falla nella trama concettuale ed i tentativi di rammendarla con ipotesi ad hoc sono peggiori dello strappo in sé. La coerenza assoluta è solo un bisogno psicologico, talvolta, psicopatologico. Per la natura e la vita è importante solo che le cose funzionino.

Niels Bohr e il principio di corrispondenza

Il secondo grande scienziato è Niels Bohr un fisico e matematico danese vissuto anch’egli nella prima metà del secolo scorso che definì il principio di corrispondenza, secondo cui i risultati della meccanica quantistica devono ridursi a quelli della meccanica classica nelle situazioni in cui l’interpretazione classica può essere considerata valida. La fisica sembra infatti soggiacere a due diversi tipi di leggi: la meccanica classica, quando le dimensioni, le masse, i periodi e in generale tutte le grandezze, possono essere considerati “grandi”, e la meccanica quantistica, quando invece si ha a che fare con il mondo del “molto piccolo”.

Nel nostro campo una situazione analoga la troviamo nel rapporto tra le neuroscienze e la psicologia classica. Le neuroscienze come la meccanica quantistica osservano e descrivono l’infinitamente piccolo che sostiene ma non sostituisce la spiegazione in termini psicologici, che è quella utilizzabile in psicoterapia. Le due spiegazioni non sono alternative né riducibili l’una all’altra: sono linguaggi diversi che descrivono la stessa realtà per scopi diversi anche se ovviamente non possono essere in contraddizione.

Alla scoperta della fisica quantistica con Schrödinger

Infine Schrödinger che è stato un fisico e matematico austriaco vissuto nella prima metà del ‘900, noto soprattutto per il suo famoso esperimento mentale del gatto chiuso in una scatola di cui non si può stabilire se sia o meno vivo. Tra tutti i suoi contributi alla fisica quantistica due mi sembrano quelli più esportabili.

Il primo, riguardante la posizione e la velocità delle particelle elementari, afferma che più che stati diversi e discreti si possa giungere soltanto a descrizioni probabilistiche, il che nel nostro campo suggerisce, a mio avviso, l’abbandono di tutte le distinzioni categoriali e l’assunzione, rispetto a tutti i problemi psicologici e psicopatologici (ma forse più in generale di descrizione del mondo), di una prospettiva dimensionale e probabilistica.

La seconda affermazione empiricamente dimostrata da Schrödinger “l’osservatore modifica l’oggetto osservato” è cosa di cui ci riempiamo la bocca da quando i terapisti sistemici ci hanno mostrato l’importanza delle relazioni, ma che forse dovremmo definire meglio negli studi sulla relazione terapeutica da un lato, e sui meccanismi di mantenimento dall’altro.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Schizofrenia: verso una diagnosi oltre i sintomi

Thomas Wolfers e André Marquand del centro medico dell’Univesità di Radboud, hanno condotto uno studio sulla schizofrenia, e hanno voluto verificare quanto i cervelli dei soggetti con diagnosi di schizofrenia differissero dal gruppo di controllo, composto da soggetti sani.

 

Il campione utilizzato era di 218 soggetti affetti da schizofrenia e di 250 soggetti sani, entrambi i gruppi di soggetti erano stati reclutati nell’area di Oslo, Norvegia. Si è utilizzata la risonanza magnetica per scansionare il cervello sia dei soggetti affetti da schizofrenia, sia dei soggetti di controllo, sani.

Il gruppo composto da soggetti con schizofrenia differisce da quello di controllo per quanto riguarda le regioni frontali del cervello, il cervelletto e la corteccia temporale, dal momento che in queste regioni vi era una riduzione della materia grigia nel gruppo dei soggetti con schizofrenia.

Gli studiosi hanno osservato che attraverso la mappatura della struttura del cervello si verificavano differenze identiche solo nel 2% dei pazienti e il maggior numero di differenze erano osservate esclusivamente su un livello individuale. La schizofrenia è un disturbo cerebrale grave e complesso caratterizzato da una sostanziale eterogeneità clinica e biologica, spesso gli studi caso-controllo non considerano tale eterogeneità, poiché si concentrano sul paziente nella media. Questo comporta una mancanza di robusti biomarker indicativi della risposta al trattamento e del risultato di un individuo.

Schizofrenia: sintomi e base biologica

La schizofrenia è un disturbo psichiatrico estremamente variabile, il quale viene diagnosticato sulla base della presenza di sintomi specifici, quali allucinazioni, deliri, sintomi positivi (eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico) e sintomi negativi (diminuzione dell’espressione delle emozioni). Il metodo di una diagnosi per disturbi psichiatrici basata solo sui sintomi può presentare qualche problema: infatti, come si vede dallo studio, gli individui con schizofrenia hanno il loro personale profilo biologico, che è diverso da individuo a individuo e, sebbene il gruppo di schizofrenici sia accomunato dalla stessa diagnosi, presenta differenze significative nel cervello. Naturalmente è difficile comprendere a pieno la biologia alla base della schizofrenia semplicemente studiando il paziente di controllo.

Per quanto riguarda le prospettive future i ricercatori vorrebbero creare un’”impronta digitale” per il cervello di ciascun individuo, documentando le differenze rispetto al gruppo di controllo sano, il cui fine sarebbe quello di avere un disegno più completo per ogni paziente.

Per comprendere maggiormente l’individuo nel suo complesso bisognerebbe tenere in considerazione sia la sua patologia sia le caratteristiche individuali, che hanno una loro storia e una loro biologia, nonostante, oggi, si utilizzano modelli diagnostici che ignorano ampiamente queste differenze.

Gli studiosi auspicano che la ricerca nel futuro possa produrre risultati pratici e visibili, dal momento che loro hanno tenuto in considerazione sia i sintomi che la biologia e che possa portare a diagnosi migliori e terapie individualizzate per i pazienti.

ADHD: troppe diagnosi o processo diagnostico complesso?

I bambini con ADHD hanno un deficit evolutivo che interessa i circuiti cerebrali correlati all’ inibizione e all’autocontrollo. Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione dell’Iperattività (DDAI) meglio conosciuta come ADHD, è uno dei disturbi del neurosviluppo più frequenti e più studiati.

Ilaria Perrucci e Francesca Lazzerini – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Luigi ha 8 anni e frequenta la classe terza della scuola primaria. È stato segnalato dalla scuola poiché crea molte difficoltà in classe. In particolare le insegnanti riferiscono che il bambino è sempre irrequieto e questo non permette lo svolgimento sereno della lezione. Fa fatica a rimanere seduto, si alza e gira libero per la classe distraendo gli altri compagni. Quando finalmente riesce a sedersi, ha bisogno di giocherellare con le mani o muovere le gambe. Inoltre, ha bisogno di giocare con gli oggetti e lasciarli cadere sul pavimento. Fa fatica a rispettare i turni della conversazione e agisce spesso in modo avventato. Anche da piccolo era molto irrequieto, aveva scambiato il giorno per la notte. Faceva fatica ad addormentarsi e anche a svegliarsi. Di fronte alle frustrazioni reagiva con rabbia.

In questo breve racconto è descritta la storia di Luigi, un bambino al quale è stata diagnosticata l’ADHD. I bambini con tale disturbo, in particolare hanno un deficit evolutivo che interessa i circuiti cerebrali correlati all’ inibizione e all’autocontrollo.
Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione dell’Iperattività (DDAI) meglio conosciuta come ADHD, è uno dei disturbi del neurosviluppo più frequenti e studiati (Vitiello e Sherrill, 2007). Le manifestazioni cliniche di base dell’ADHD sono la difficoltà a prestare attenzione, comportamenti impulsivi e/o un livello di attività motoria accentuato (Reale L., Zanetti M.,Cartabia M., Fortinguerra F., Bonati M., 2014). I sintomi sono solitamente evidenti in età scolare, più frequentemente nei maschi rispetto alle femmine, infatti il rapporto è di 3 a 1, e possono persistere fino all’età adulta. Molto spesso si sente parlare dell’ADHD e tuttavia, esistono ancora numerosi pregiudizi rispetto a tale disturbo. In particolare, molto spesso si è soliti pensare che sia un disturbo definito e studiato solo di recente. In realtà l’ ADHD è un disturbo del neurosviluppo descritto da un pediatra inglese all’inizio del secolo scorso, (Still 1902). Durante il passare del tempo è stata identificata con diversi nomi, tra cui “sindrome ipercinetica”, “disfunzione cerebrale minima” (Zuddas A., Masi G., 2002). Durante gli anni ‘60, i criteri per i disturbi psichiatrici dell’età evolutiva sono stati inseriti nei diversi manuali diagnostici (ICD-8, 1966; DSM-II 1968). I continui cambiamenti nosografici nonché dei rispettivi criteri, hanno avuto come conseguenza dubbi a livello di classificazione. Tutto questo ha portato a differenze nazionali sia nell’epidemiologia del disturbo e sia nella definizione delle strategie terapeutiche.

Sulla base di evidenze genetiche e neuro-radiologiche è oggi giustificata la definizione psicopatologica del disturbo quale disturbo neurobiologico della corteccia prefrontale e dei nuclei della base che si manifesta come alterazione nell’elaborazione delle risposte agli stimoli ambientali.(Swanson 1998a, 1998b, in Zuddas A., Masi G., 2002).

In seguito alle diverse classificazioni e la poca coerenza nel corso del tempo tra i diversi manuali diagnostici, si è riscontrata una difficoltà nel processo diagnostico stesso del disturbo che ha avuto delle conseguenze anche sulle ricerche epidemiologiche.

ADHD: la prevalenza nazionale

La Consensus Conference italiana, nelle linee guida, ha ritenuto opportuno proporre l’attivazione di uno studio che indaghi la prevalenza nazionale dell’ADHD e, inoltre suggerisce la creazione di registri nazionali dei casi di ADHD. Questi studi, consentirebbero così di compiere una corretta diagnosi seguendo criteri non solo clinici ma soprattutto scientificamente validati. A tal proposito, è interessante citare uno studio condotto dal Gruppo Regionale Lombardo ADHD. Infatti, questo studio costituisce un tentativo di definire la prevalenza dei pazienti con ADHD e descrivere percorsi diagnostici e terapeutici condivisi tra i vari servizi, nella regione Lombardia, per l’identificazione e il trattamento di questo disturbo.

Dai risultati ottenuti si evince che la prevalenza è di 3,51%, inferiore rispetto ad altre ricerche a livello nazionale e internazionale che stimano circa dall’1% al 12 %. In questo caso specifico gli autori ipotizzano che questa differenza potrebbe essere correlata alla tipologia del campione. Infatti sono stati presi in considerazione solo i pazienti con una sintomatologia grave, i quali accedono dai centri di riferimento e che secondo i protocolli regionali e nazionali dovrebbero essere i pazienti che necessitano di terapia farmacologica o di interventi multimodali (Reale L., Zanetti M.,Cartabia M., Fortinguerra F., Bonati M., 2014).  Ad ogni modo va sottolineato che non esistono dati univoci relativi alla prevalenza del disturbo. Questo potrebbe dipendere da tre diversi motivi. Il primo è quello che è faticoso definire precisamente la soglia diagnostica (Scahill, 1999). Il secondo è che la valutazione di tale soglia, nonostante vi siano criteri diagnostici ben definiti, rimane relativamente soggettiva poiché la maggior parte dei test utilizzati per la valutazione del disturbo, sono di tipo osservativo e di autosomministrazione. Il terzo motivo è che l’ADHD è una patologia molto complessa. Infatti, nel corso del tempo, la sintomatologia può esplicarsi attraverso diverse traiettorie di sviluppo e quindi manifestarsi con caratteristiche completamente differenti da bambino a bambino.

Ciononstante grazie alla ricerca del gruppo della Lombardia, è possibile asserire che l’esperienza del registro ADHD ha rappresentato un essenziale strumento di monitoraggio contiuno e sistematico, il quale ha permesso di mettere in luce l’importanza di avere le risorse adeguate e di coinvolgere i pazienti, le famiglie gli insegnanti e gli operatori attraverso interventi di formazione e informazione con il fine di ridurre le sovradiagnosi e di evitare interventi tardivi su bambini che invece necessiterebbero di un’accurata diagnosi.

La diagnosi di ADHD

La domanda che spesso attanaglia le persone che si interfacciano con bambini molto vivaci è la seguente: come è possibile discriminare bambini con questi disturbi da bambini “esauberanti”?

Esistono, criteri diagnostici frutto di anni di lavoro di medici e psicologi che permettono di discernere ciò che è psicopatologico da ciò che invece risulta essere un temperamento più vivace. Secondo i criteri diagnostici del DSM-5 (2013), l’ ADHD mostra sintomi riguardanti la disattenzione, l’iperattività l’impulsività e una loro possibile combinazione. Ogni area è contraddistinta rispettivamente da 9 sintomi caratterizzanti. È necessario che tali sintomi siano di numero pari o maggiore a 6 nell’area riferita alla disattenzione o in quella dell’iperattività impulsività. Per gli adolescenti e gli adulti il numero previsto è di 5 sintomi. Per poter porre una diagnosi inoltre, è necessario che suddetti sintomi siano pervasivi, presenti in due o più contesti. L’esordio avviene prima dei 12 anni. Infine i sintomi devono interferire o ridurre la qualità e il funzionamento sociale, accademico o professionale, creando una grave disfunzionalità nella vita quotidiana del paziente. Essendo l’età di esordio identificata nell’infanzia è possibile che i sintomi possano prendere due strade differenti. La prima è quella di essere persistenti nel tempo. La seconda, al contrario, è quella che prevede che i sintomi vadano scemando in età adulta. Per questi motivi, la prevalenza è più alta nei bambini che negli adulti. Circa 1 su 6 bambini con ADHD manterrà la diagnosi completa, mentre la maggior parte dei bambini presenterà solo alcuni aspetti della patologia.

La Consensus Conference nelle sue linee guida per identificare i criteri distintivi dell’ADHD suggerisce:

[…] l’uso di strumenti quali questionari (es. Scale Conners e ADHD-RS, SCOD) e le interviste diagnostiche (es. Kiddie-SADS e PICS-IV), opportunamente standardizzati e validati, possibilmente su campioni italiani. Già a partire dal percorso diagnostico è essenziale la partecipazione-comunicazione del pediatra di famiglia referente per la salute del bambino.

Tuttavia, la diagnosi dell’ADHD, attualmente è prevalentemente di tipo clinico e quindi è basata sull’osservazione del comportamento del bambino in più contesti. Non esistono test diagnostici specifici che consentano di identificare con sicurezza la presenza del disturbo e un limite dei questionari autosomministrati è che talvolta potrebbero rivelarsi relativamente soggettivi in funzione di chi si trova a compilarli.

ADHD: verso le ricerche future

Alla luce di quanto detto, l’ ADHD si configura come una patologia eterogenea che riguarda fattori biopsicosociali disparati. Attualmente risulta molto difficile costruire una batteria ad hoc che possa determinare con maggiore sicurezza la presenza dell’ADHD. Nel panorama italiano un primo tentativo è quello compiuto da Marzocchi M., Re A., Cornoldi C.(2010), i quali hanno creato la BIA (Batteria Italiana per l’ADHD). Tale batteria offre diversi strumenti utili per la lettura dei problemi specifici presentati da bambini disattenti e iperattivi e/o con difficoltà nei processi esecutivi, nel controllo della risposta, dell’attenzione e della memoria. Questi strumenti possono essere usati per la diagnosi quando ci si trova di fronte ad un sospetto di ADHD.

Pertanto, sarebbe interessante orientare le ricerche future verso lo studio approfondito del ruolo che giocano le funzioni esecutive all’interno del profilo del disturbo al fine di creare batterie di test sempre più specifici per favorire diagnosi più accurate possibili evitando quindi falsi positivi o negativi e garantire, altresì, degli interventi terapeutici mirati.

 

Il lungo viaggio della cicogna (2012) di Pier Giorgio Crosignani – Recensione del libro

Programmare una gravidanza è un compito che affrontano diverse coppie. E più il desiderio si protrae nel tempo andando incontro ai vari fallimenti, più un figlio che non arriva mette a dura prova i partner, da un punto di vista psicologico e fisico.

 

Ci si interroga sui perché del mancato arrivo di un figlio e ci si affaccia sempre più intimoriti nella stanza dell’ennesimo medico con la speranza che questa volta sia quello giusto, che possa avere le risposte e magari la soluzione. Ma le difficoltà nel concepire sono molto diffuse e il più delle volte legate alla combinazione di diversi fattori che rendono una spiegazione univoca difficile se non impossibile.

Il lungo viaggio della cicogna: le possibilii cause dell’infertilità

Il libro Il lungo viaggio della cicogna di Pier Giorgio Crosignani, aiuta a far chiarezza sulle possibili variabili che impediscono il concepimento nella coppia.

Il manuale, di poche pagine, dopo un’iniziale spiegazione molto dettagliata dei meccanismi di riproduzione umana, si fa più scorrevole e si divide, in modo ben organizzato e utile al lettore, in diversi capitoli, ciascuno riferito a uno specifico problema che interferisce con la fertilità di coppia.

Si passa quindi da un primo sguardo all’infertilità (definizione, tempi e metodi per misurarla) alla disamina delle sue possibili cause, rivolgendo l’attenzione anche agli aspetti sociali che circondano la coppia e la loro decisione di avere un figlio.

La lettura de Il lungo viaggio della cicogna prosegue così abbracciando diverse tematiche: dalla neurofisiologia e dal ruolo di ipotalamo e ipofisi nell’infertilità, al fallimento ovarico; dagli effetti del sovrappeso della donna, all’ovaio policistico e ad altre anomalie anatomiche; dai problemi legati agli spermatozoi, alla possibilità di non poter trovare una convincente causa di infertilità della coppia.

Vengono fornite anche brevi note sui metodi di cura dell’ infertilità e sulle conseguenze di quando questi vanno a buon fine: alcuni paragrafi sono dedicati alla gravidanza gemellare, alle peculiarità del neonato da procreazione assistita, al futuro della famiglia (temi toccati soprattutto da un punto di vista medico).

Il libro si conclude mettendo per iscritto, sotto forma di domande, i dubbi che spesso le coppie con infertilità portano agli esperti, fornendo risposte e spiegazioni molto puntuali.

L’autore de Il lungo viaggio della cicogna, Pier Giorgio Crosignani, è Professore di Clinica Ostetrica e Ginecologica presso l’Università degli Studi di Milano, per 15 anni è stato Primario alla Clinica Mangiagalli. E’ coordinatore delle ricerche CNR sulla contraccezione, nonché uno dei fondatori della Società Europea di Riproduzione Umana (ESHRE). Attualmente è Deputy Editor di Human Reproduction (Oxford). La straordinaria competenza dell’autore è chiara sin dalle prime righe fino al punto conclusivo: definizioni e spiegazioni sono correlate dalle più recenti statistiche e dai più precisi dati di ricerca in letteratura.

Il lungo viaggio della cicogna: l’attesa necessita di supporto psicologico

Sarà colpa della mia deformazione professionale, ma ho trovato un po’ scarna l’analisi dell’argomento da un punto di vista psicologico che pure meriterebbe tanto spazio: ben sappiamo che anche i vissuti emotivi della coppia rivestono un ruolo fondamentale nel processo di procreazione. Il poterli conoscere e riconoscere è uno strumento in più per fornire un adeguato sostegno alla coppia durante il suo percorso, con l’obiettivo di consentire ai partner di sentirsi più accolti e compresi nella loro sofferenza.

Tuttavia, ad un’analisi più attenta, le conoscenze che l’autore mette a disposizione del lettore, anche se di natura prettamente medica, tornano ugualmente utili al raggiungimento di tale obiettivo. Nel libro, infatti, si illustrano le numerose cause all’origine dell’infertilità, la frequenza con cui si manifestano e si diffondono; si illustra anche la possibilità di un’eventuale mancanza di spiegazioni al problema che persiste; si riportano i dati che mostrano la diffusione su larga scala di queste difficoltà. Tutto ciò potrebbe consentire ai lettori, alle prese con l’attesa di un figlio, di fare il primo passo verso il non sentirsi soli nei loro dubbi. Uno sguardo medico, competente, consente di vedere il problema infertilità così come diffuso su scala mondiale e non solo esclusivo di poche coppie. Una lettura che aiuta a far luce sui tanti aspetti dell’infertilità e che aiuta le coppie a non sentirsi “diverse” nell’attesa che la cicogna concluda il suo lungo viaggio.

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