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Genitori si diventa: le dinamiche psicologiche individuali e di coppia che accompagnano la nascita di un figlio

Si sente spesso dire Presto saremo genitori come se il semplice fatto di aspettare un figlio equivalga all’essere genitori. Tale affermazione presenta un grave vizio di fondo: la maggior parte delle coppie non decide di diventare genitori ma “semplicemente” di avere un figlio.

 

Diventare genitore infatti vuol dire assumersi delle responsabilità, farsi carico dei bisogni del proprio figlio e soprattutto avere le capacità adeguate per appagare tali esigenze. Il mestiere del genitore, insomma, è qualcosa che richiede tempo, anni e anni di pratica, è un percorso complesso di adattamento, elaborazione e tolleranza delle frustrazioni.

Genitorialità: desiderio di gravidanza o desiderio di un figlio?

A tal proposito pare opportuno distinguere tra due concetti: desiderio di gravidanza e desiderio di un figlio come soggetto distinto da sé. Nel primo caso, nella donna, prevale il desiderio narcisistico di sperimentare sentimenti di pienezza e di mettere alla prova il proprio corpo per dimostrare a sé e agli altri che funziona bene tanto quanto quello della madre; nel secondo caso, l’interesse è spostato sul bambino considerato un oggetto separato da sé con cui stabilire una relazione in cui prevale dunque una disponibilità ad occuparsi e prendersi cura del bambino (Bydlowski, 1984, pag. 20 ; Pines, 1982, 1988).

Queste due componenti sono presenti contemporaneamente quasi in ogni progetto di genitorialità affrontato consapevolmente ma possono anche presentarsi disgiunte determinando quadri clinici diversi. Un esempio potrebbe essere quello delle coppie che decidono di sottoporsi a fecondazione assistita nel tentativo di superare l’ostacolo biologico dell’infertilità. Di fronte all’obiettivo primario, cioè realizzare la gravidanza nel suo significato puramente procreativo, potrebbe essere difficile per questi genitori confrontarsi emotivamente con il bambino reale in quanto il lavoro della genitorialità e dunque del diventare genitori, inteso come quel processo di elaborazioni intrapsichiche che l’acquisizione del nuovo ruolo impone alla coppia, può essere reso difficile da una costrizione affettiva che per molto tempo li ha protetti da quella vulnerabilità psicologica conseguente all’incapacità di procreare.

Inoltre non bisogna dimenticare che avere un bambino è un evento importante per la maturità e lo sviluppo sia personale che della coppia. A livello individuale significa acquisire una nuova identità, come madre o come padre, a livello di coppia può rappresentare invece la realizzazione di un progetto condiviso che può essere realizzato solo attraverso il legame con l’altro. L’arrivo di un figlio è un evento che assume importanti significati anche a livello sociale e intergenerazionale: consente all’essere umano di espletare il suo ruolo sociale conservando e garantendo la prosecuzione della specie. La nascita rappresenta infatti

L’opportunità di provare il senso di appartenenza alla stirpe e di stabilire “che cosa” delle famiglie d’origine verrà continuato (Cigoli, Galbusera Colombo, 1980 , pag. 37-53).

Secondo Anthony e Benedek (1970), ogni genitore rappresenta un anello nella catena delle generazioni e attraverso la funzione genitoriale mantiene il continuum biologico, psicologico e culturale del proprio patrimonio familiare. Per quanto riguarda l’esperienza della genitorialità, inoltre, è possibile distinguere due tipi di modelli di comportamento a cui ognuno di noi fa riferimento: il primo è quello basato sull’imitazione in cui si aderisce al modello proposto dai propri genitori e si cercano di riprodurre le condizioni, le relazioni e i modelli educativi della propria esperienza per mantenere attivo il proprio romanzo familiare; il secondo è quello basato sulla contrapposizione in cui ci si propone di modificare il modello genitoriale che appartiene alla propria storia familiare per evitare ai figli quelle esperienze che sono state fonte di conflitto e sofferenza. Diventare genitori quindi può essere considerato, da un punto di vista psicologico, un’esperienza che attiva un processo di sviluppo e cambiamento in ogni soggetto e lo mantiene lungo un percorso in cui i ruoli e le relazioni sono in continua trasformazione.

Maternità: dalla gravidanza alla nascita

Attraverso i nove mesi della gravidanza i futuri genitori hanno la possibilità di prepararsi sia fisicamente che psicologicamente al nuovo ruolo che li attende. Nell’ambito della letteratura psicoanalitica diversi autori si sono interessati al tema della gravidanza. Freud, per primo, parla di gravidanza riferendosi allo sviluppo infantile: il desiderio di maternità si presenta, inizialmente, nella fase edipica, in cui la bambina considera il figlio come frutto della relazione con il padre, successivamente questo desiderio di maternità viene attribuito all’attaccamento preedipico con la madre (Freud, 1915, 1931, 1932).

Successivamente, la Bibring (1959) parla di gravidanza immaginandola come un periodo di crisi maturativa in cui la donna sperimenta un punto di svolta irreversibile del proprio ciclo di vita in cui rivive conflitti ed esperienze passate riguardanti le prime relazioni e identificazioni con la propria madre. Questa crisi maturativa viene vissuta dalla donna come un momento cruciale del proprio ciclo di vita che la condurrà ad un livello di integrazione più maturo in cui potrà elaborare e risolvere tutti i precedenti conflitti. Il concetto di crisi assume quindi una doppia valenza: evolutiva, in base a quanto detto in precedenza, e di vulnerabilità in quanto la donna, attraverso un profondo periodo di destrutturazione e riorganizzazione della propria identità, potrebbe vivere i propri cambiamenti fisici come una minaccia alla propria integrità (Bibring, 1959). I cambiamenti prodotti dalla gravidanza possono essere paragonati, in quest’ottica, ai cambiamenti che si verificano in altri due periodi cruciali nello sviluppo di ogni donna ovvero la pubertà e la menopausa (Pazzagli, Benvenuti, Rossi Monti, 1981). Altri autori hanno invece ritenuto opportuno sottolineare l’importanza della relazione reale e fantasmatica che ogni donna ha avuto con la propria madre. L’esperienza di una “buona immagine materna” permetterà alla donna, durante la fase di regressione tipica della gravidanza,

di identificarsi con una madre onnipotente e fertile e contemporaneamente con sé stessa come bambina realizzando una maturazione e crescita di sé (Pines, 1982, pag. 311-319).

La regressione però può essere vissuta anche come esperienza dolorosa in quanto determina la riattivazione di desideri di fusione con la propria madre comportando il fallimento della propria differenziazione-separazione (Pines, 1982).

Genitorialità: la coppia nelle fasi psicologiche della gravidanza

La gravidanza, definito come quel processo psicologico di adattamento alla nuova realtà e di elaborazione dei cambiamenti rispetto alla vita precedente, può essere distinto in tre periodi ognuno dei quali corrisponde a tre diverse fasi dello sviluppo fetale (Brazelton, Cramer,1990).

Nel primo stadio, la novità della gravidanza è accompagnata dai mutamenti del corpo della madre ma non è ancora evidente l’esistenza del feto. In questo momento i genitori sanno di essere entrati in una nuova fase della loro vita nella quale la dipendenza dai loro genitori deve lasciare spazio alla responsabilità e il rapporto di coppia deve modificarsi in un rapporto a tre.

Nel secondo stadio i genitori cominciano a riconoscere il feto come un essere che alla fine verrà separato dalla madre. Attraverso la percezione dei movimentali fetali, la madre comincia a individuare il bambino come diverso da sé e come possibile oggetto di una relazione. È probabile che la donna in questa fase si identifichi con il feto e riviva l’esperienza di simbiosi con la propria madre attraverso la mediazione del bambino, giungendo a quella fase di regressioni di cui parlava Pines (1982). Se il bisogno di dipendenza dalla madre è troppo grande e inappagato, la donna può vivere il bambino come rivale e il ruolo materno come frustrazione dei suoi bisogni. Questa identificazione simbiotica con il bambino rappresenta una fonte di conoscenza empatica essenziale affinché si stabilisca una relazione “sufficientemente buona” tra madre e figlio dopo la nascita (Winnicott, 1958).

Nel terzo stadio i genitori iniziano a sperimentare il figlio come individuo e anche il feto contribuisce attivamente alla propria individuazione con ritmi e livelli di attività crescenti. È proprio in questa fase che i movimenti fetali, influenzati dai vari stimoli esterni, si fanno più assidui ed iniziano a essere riconosciuti dai genitori che gli attribuiscono intenzionalità e caratteristiche personali. In questo periodo i genitori iniziano a preparare la casa per accogliere il neonato, fanno progetti su come allevarlo e gli attribuiscono caratteristiche fisiche e caratteriali per renderlo meno estraneo. Prende forma a questo punto nella mente dei genitori il cosiddetto “bambino immaginario”, cioè un’immagine di un figlio che corrisponde alle fantasie coscienti dei genitori sul bambino non ancora conosciuto. Questa immagine si sovrappone a quella del “bambino fantasmatico” o “bambino del sogno” di cui parla Vegetti Finzi (1991), ovvero quell’immagine riparatrice di ogni solitudine e sofferenza che ogni bambino immagina, ricollegabile alle fantasie inconsce dell’infanzia in cui si intrecciano le relazioni oggettuali personali della madre e i conflitti con le sue immagini parentali.

Contemporaneamente può formarsi l’immagine del “bambino mitico” che corrisponde agli elementi culturali che rappresentano l’involucro della genitorialità e dell’educazione del bambino (Lebovici, 1989a, 1989b). Inoltre, nelle fantasie materne, il bambino può assolvere funzioni “messianiche” attraverso le quali la madre viene riscattata o può essere immaginato come un “parassita” che rimanda a tendenze orali che hanno lo scopo di svuotare il sé materno. Sono presenti anche delle fantasie relative a sé come madre: la donna può rappresentarsi come “madre salvifica”, disposta a tutto pur di salvare il proprio figlio; come “madre terra” capace di donare la vita e come “madre seduttiva” che tiene il figlio legato a sé (Ferenczi, 1914). Il lavoro della gravidanza corrisponde quindi a una riorganizzazione totale dell’immagine di sé, in cui si assiste ad una continua oscillazione tra realtà e fantasia in cui un preminente sbilanciamento nei confronti dell’uno o dell’altro polo può rendere difficoltoso l’adattamento alla realtà (quando prevale l’aspetto fantasmatico) o può determinare, viceversa, una negazione del processo della gravidanza (quando si verifica una limitazione delle fantasie). Dal canto suo Pines (1972, 1982) distingue quattro stadi all’interno del processo gravidico:

  1. il primo stadio va dal concepimento alla percezione dei movimenti fetali. Assistiamo ad una regressione e “passività” come conseguenza dei cambiamenti ormonali. Possono presentarsi anche sintomi psicosomatici come nausea e vomito che rappresentano il tentativo di “espellere” il bambino ritornando alla condizione precedente;
  2. il secondo stadio va dalla percezione dei movimenti fetali fino alle ultime fasi della gravidanza. Il feto, riconosciuto come soggetto indifferenziato, suscita nella donna ansie di perdita;
  3. il terzo stadio racchiude gli ultimi momenti della gravidanza prima di giungere al parto. In questa fase la donna può sperimentare ansie e paure riguardo il travaglio, il parto e la nascita. Non di rado, i giorni che precedono il parto sono accompagnati da ansie di morte come se la nascita di una nuova vita dovesse, per forza di cose, determinare la morte di un’altra persona. È curioso scoprire come tali fantasie non siano presenti solo nella donna ma anche nelle figure familiari e professionali che la circondano (Breen, 1992);
  4. il quarto e ultimo stadio è quello rappresentato dalle fasi successive alla nascita. Questo stadio è noto anche come “decimo mese” (Lebovici, 1983).

Maternità: quali sono le rappresentazioni in gravidanza

Per esplorare le rappresentazioni materne in gravidanza abbiamo a disposizione un’intervista semistrutturata, l’IRMAG (Intervista per le rappresentazioni materne in gravidanza; Ammaniti, Baumgartner, Candelori, Pola, Tambelli, Zampino, 1990) composta da circa quarantuno domande che viene somministrata alla donna in un periodo preferibilmente compreso tra la ventottesima e la trentaduesima settimana di gestazione. Tale periodo infatti rappresenta il giusto compromesso in quanto da una parte i movimenti fetali sono chiaramente percettibili permettendo alla madre di costruire uno spazio intrapsichico dedicato al bambino e dall’altra sono ancora lontane le ansie e le preoccupazioni legate al parto. Questa intervista propone di indagare alcune aree particolari tra cui il desiderio di maternità nella storia personale e della coppia; le emozioni personali, di coppia e familiari alla notizia della gravidanza; le emozioni e i cambiamenti nel corso della gravidanza nella vita personale, di coppia e nel rapporto con la propria madre; la prospettiva del parto; le percezioni, le emozioni e le fantasie relative al “bambino interno”; le aspettative future riguardanti le caratteristiche di sé come madre e le caratteristiche del bambino; la prospettiva storica della madre, riguardante il proprio ruolo attuale e passato di figlia. In base ai punteggi ottenuti all’intervista le donne possono corrispondere a tre diverse categorie di rappresentazioni (Ammaniti, in Ammaniti, Candelori, Pola, Tambelli, 1995):

  • rappresentazioni materne integrate/equilibrate: si tratta di donne che corrispondono alla madre facilitante di Raphael-Leff (1986); presentano un’identità piuttosto stabile e definita e la gravidanza si inscrive senza troppi problemi nella loro storia personale; vivono questa fase con una buona dose di trasporto affettivo. Hanno anche una buona capacità di adattarsi in modo flessibile ai cambiamenti che la gravidanza determina;
  • rappresentazioni materne ristrette/disinvestite: corrispondono perfettamente a tutte le caratteristiche che contraddistinguono la madre regolatrice (Raphael-Leff, 1986); queste donne mostrano una certa piattezza emotiva e tendono a immaginare il bambino come già adulto ignorando quindi la loro funzione accuditiva;
  • rappresentazioni materne non integrate/ambivalenti: sono proprie di quelle donne che vivono la gravidanza, da un punto di vista affettivo, in modo contradditorio mostrando in alcuni momenti eccessivo coinvolgimento ed emozioni di gioia e in altri rabbia e depressione. Anche il rapporto con il partner e con la propria madre è vissuto in modo poco coerente: la madre può apparire a volte come un punto di appoggio a cui aggrapparsi in modo infantile e altre come una figura da cui discostarsi totalmente mostrando una finta autonomia.

Emozioni (2018) di Antonio Scarinci e Giovanni Brunori – Recensione del libro

Il libro Emozioni è un piccolo manuale di auto aiuto per capire come gestire le proprie emozioni, in particolare quelle spiacevoli e “negative” come ad esempio la rabbia, e come evitare manifestazioni incongrue e dannose.

 

Le emozioni colorano la nostra vita e le danno sapore. Ogni giorno proviamo emozioni: possiamo arrabbiarci perché un ingorgo ci impedisce di arrivare in orario ad un appuntamento, siamo felici perché nostro figlio ha superato un difficile esame universitario

Ecco come gli autori introducono il lettore a riconoscere, distinguere e regolare le proprie emozioni.

Esprimere le emozioni e non soffocarle al nostro interno è senza dubbio una buona pratica ma esplodere di rabbia e travolgere cose o persone è una strategia con costi troppo elevati rispetto ai benefici! Che possiamo fare?

Lo raccontano Scarinci e Brunori in questo piacevole manuale di facile approccio e adatto a tutti.

Prima di tutto, gli autori propongono al lettore la compilazione di un breve test sulla propria vita emotiva: Emotion Regulation Questionnaire (ERQ). Si tratta di un facile questionario composto da 10 item che misurano la tendenza a regolare le proprie emozioni in due modi:

  1. Rivalutazione cognitiva dello stimolo
  2. Soppressione espressiva.

Si risponde a ciascun item scegliendo un valore su una scala di tipo Likert a 7 punti che va da 1 (fortemente in disaccordo) a 7 (fortemente d’accordo).

Compilare questo breve test favorisce nel lettore una prima riflessione su come percepisce la proprie emozioni. La lettura prosegue con la definizione delle emozioni, la descrizione delle teorie principali circa il loro funzionamento e quali sono le strutture anatomiche del sistema nervoso coinvolte.

Emozioni: cosa differenzia le primarie dalle secondarie

Secondo Scarinci e Brunori, la conoscenza delle emozioni primarie e secondarie e di come funziona il nostro cervello sono un primo passo per capire cosa proviamo ed imparare a gestire le nostre emozioni. Le cosiddette emozioni primarie sono innate, presenti in ogni popolazione e non dipendono dalla cultura d’appartenenza, l’espressione di queste emozioni è universalmente riconoscibile in ciascun luogo. Sono emozioni primarie rabbia- pauratristezza– felicità- disgusto e sorpresa.

Le emozioni secondarie sono invece culturalmente apprese attraverso le interazioni sociali e la loro manifestazione dipende da aspetti culturali. Sono secondarie le emozioni di vergogna, senso di colpa, umiliazione, disprezzo, pena, invidia, gelosia e nostalgia. Queste emozioni sono definite anche complesse poiché spesso generate dall’unione di due emozioni primarie. Ad esempio la nostalgia è data dal senso di perdita (tristezza) per qualcosa o qualcuno che non è più raggiungibile ma che abbiamo amato a gradito e che ci ha procurato gioia.

Si deve la distinzione tra emozioni primarie e secondarie agli studi di Paul Ekman che dal 1973 condusse su una popolazione indigena di Papua Nuova Guinea. Egli evidenziò e classificò numerose espressioni facciali relative a ciascuna emozione dimostrandone l’universalità. Tutti aggrottiamo le sopracciglia se siamo arrabbiati o apriamo leggermente la bocca in caso di sorpresa.

Le emozioni sono universali e non possiamo cancellarle, il loro scopo è adattivo volto a migliorare la qualità di vita.

Emozioni: spunti per gestire quelle difficili

Talvolta le emozioni possono generare disturbi emotivi. Scarinci e Brunori ne analizzano le cause. Qualcosa può non avere funzionato nello sviluppo delle competenze emotive, che inizia già nelle prime ore di vita di un neonato; o la persona subisce esperienze avverse che non elaborate adeguatamente; o si attribuisce un significato “non corretto” a situazioni ed esperienze e si formulano pensieri irrazionali. Sono moti i fattori che contribuiscono all’insorgere dei disturbi emotivi. Gli autori forniscono alcuni esempi di come ciò possa accadere, di come ad esempio un’emozione di vergogna possa condurre a un disturbo di ansia sociale che induce la persona a evitare situazioni sociali e non esporsi in pubblico. Nella seconda parte del testo gli autori hanno tracciato una vera e propria tabella di allenamento per imparare a gestire da soli le emozioni.

Sono qui presentate tre tipologie di strategie appartenenti al panorama della terapia cognitivo comportamentale.

  • Esercizi di autoterapia razionale emotiva

Essi si basano sulla terapia razionale emotiva di A. Ellis e inducono a individuare i pensieri irrazionali che causano emozioni disfunzionali e a sostituirli con pensieri più funzionali e razionali.

  • Strategie di distacco o di detached

Esse stimolano a distaccarsi e distanziarsi dall’attività cognitiva di pensiero attraverso la quale spesso si rimane intrappolati in un pervasivo rimuginio. Il distanziamento può avvenire attraverso un atteggiamento di osservazione e consapevolezza.

  • Tecniche immaginative per regolare le emozioni

Queste tecniche si basano sulla capacità immaginativa di ciascuno di noi. Il fine è di creare nuove cognizioni in grado di far sperimentare stati emotivi positivi. Immagini nuove e positive possono modulare il tono dell’umore e stimolare cambiamenti nel comportamento.

Brunori e Scarinci guidano il lettore ad applicare e sperimentare queste strategie e a monitorarne l’effetto. Ecco un esempio di esercizio tratto dal testo (pag. 106). Lo scopo dell’esercizio è imparare ad accogliere un’emozione, identificarla e viverla senza giudicarla o tentare di eliminarla.

Considera l’emozione come se fosse un’onda.
Prendi atto della sua esistenza
Lascia che l’emozione abbia il suo andamento, crescerà, poi diminuirà.
Non cercare di combatterla o di controllarla, di allontanarla.
Non la prolungare
Respirala
Smetti di lottare
Rilassati
Cavalca l’onda.

Il libro è ottimo strumento per capire le emozioni e migliorare l’abilità a gestirle, permettendo alla loro funzione adattiva di emergere. Questo manuale di auto aiuto è indicato a tutti! Tuttavia gli autori pongono l’accento su alcune raccomandazioni:

Naturalmente non sempre è possibile risolvere momenti di difficoltà che ci si presentano e in alcuni frangenti possiamo attraversare periodi particolarmente disagevoli che provocano un malessere persistente e invasivo. In questi casi è bene rivolgersi ad un esperto. I pazienti con disturbi emotivi rappresentano il 20% dei pazienti che si rivolgono ai Medici di Medicina Generale. Gli studi in questo ambito riferiscono che il 50% di essi non è riconosciuto né appropriatamente trattato. In questi casi è lo psicoterapeuta che può valutare l’esigenza di un lavoro psicologico più approfondito, e la necessità di un trattamento farmacologico appropriato.

Buona lettura e buona comprensione delle emozioni!

La curiosità di associare ad un approccio psicoeducazionale tecniche mind-body in ambito riabilitativo – Congresso SITCC 2018

La curiosità di associare ad un approccio psicoeducazionale tecniche mind-body in ambito riabilitativo

Antonia Pierobon, Martina Vigorè, Nicolò Granata, Elisa Covini, Laura Ranzini, Anna Giardini, Simona Callegari

 

Numerose ricerche negli ultimi anni hanno evidenziato come la valutazione psicologica del paziente con Obstructive Sleep Apnea Syndrome (OSAS) e in trattamento con terapia ventilatoria fornisca dati utili ad una comprensione più olistica del quadro clinico e ad una ottimizzazione della gestione a breve e a lungo termine di questi pazienti. Nonostante ciò, in letteratura, il numero di studi circa interventi specifici di tipo psicologico è ancora limitato.

Lo scopo del presente lavoro è di presentare un progetto di ricerca che valuti l’efficacia di un intervento multidisciplinare in ambito riabilitativo con l’aggiunta o meno di interventi psicologici clinici di supporto o psicoeducazionali comprensivi di tecniche mente-corpo. La relazione si focalizzarà in particolare sulla presentazione dell’intervento strutturato che fa riferimento al modello Information Motivation Strategy-IMS (Di Matteo et al., 2010) utilizzato per favorire e mantenere l’aderenza al trattamento e a tecniche di mind-body-MB derivate dal trattamento Mindfulness Based Stress Reduction (Jon Kabat-Zinn, 1990).

Il campione dello studio è composto da pazienti affetti da OSAS di età inferiore ai 75 anni, che non presentano gravi condizioni cliniche o gravi disturbi psichiatrici, reclutati presso Istituti Clinici Scientifici Maugeri Spa – SB – IRCCS, Montescano (PV). I partecipanti che seguono di routine l’intervento riabilitativo multidisciplinare verranno divisi in tre gruppi in base alla presenza o assenza di intervento psicologico. Verrà offerto: al primo gruppo (G1) supporto psicologico individuale; al secondo gruppo (G2) un supporto psicologico strutturato da un intervento psicoeducazionale individuale (IMS) e di gruppo (MB); al terzo gruppo definito di controllo (GC) solo l’attività di routine senza supporto psicologico.

Dati clinici, socio-anagrafici, psicologici e di qualità di vita dei pazienti OSAS verranno raccolti in tre tempi (basale, durante il ricovero post-adattamento alla terapia ventilatoria, nei follow-up ambulatoriali o ospedalieri annuali) al fine di descrivere il campione e di valutare l’efficacia dei diversi interventi. I dati clinici, funzionali e comportamentali riguardano: Apnea–Hypopnea Index (AHI), Epworth Sleepness Scale (ESS), Body Max Index (BMI) e abitudine tabagica. I test psicologici e di qualità di vita utilizzati sono: Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS), Life Orientation Test – Revised (LOT-R), Satisfaction Profile (8 Item SAT-P), EuroQol-5 Dimension (EQ-5D) e EuroQoL VAS.

Dai risultati di questo studio ci aspettiamo che un trattamento riabilitativo multidisciplinare unito a un intervento di supporto psicologico, psicoeducazionale e a tecniche mind-body (G2) sia maggiormente efficace rispetto a interventi di routine ospedaliera con l’assenza (GC) o la presenza di supporto psicologico non strutturato (G1) per quanto riguarda aspetti clinici e soggettivi dei pazienti con OSAS in terapia ventilatoria.

 

Il dono della terapia (2016) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

Per un giovane terapeuta l’incontro con Irvin Yalom non può che essere un momento apicale della propria crescita personale e professionale: il suo stile narrativo, ben evidente nel libro Il dono della terapia, lo rendono unico nel suo genere ed il modo in cui unisce il tecnicismo alla passione ed alla crudeltà della realtà è davvero spiazzante.

 

Irvin Yalom è un insegnante di psichiatria della Stanford University e vive a Palo Alto, in California. E’ l’autore di magnifici testi molto conosciuti come La cura Shopenhauer (2005), Le lacrime di Nietzsche (2006) e Sul lettino di Freud (2015), in cui si può rintracciare l’unione tra varie discipline come la filosofia e la psicologia e come risulta facilmente intuibile dai titoli stessi. Quando ci si imbatte in una scrittura così calda e contemporaneamente struggente, chi legge può ritrovarsi in alcune righe relative a stralci di vita comuni, di persone comuni, fatti personali che appartengono a tutti.

Il dono della terapia: l’importanza della relazione terapeutica

Il dono della terapia è un testo stampato in varie versioni, una delle ultime risale al 2016 e, nel leggerlo, ho pensato a quanto fosse di grande attualità. In questo momento storico in cui la psicologia e la psicoterapia sembrano letteralmente perdersi tra metodi, strumenti, protocolli, Irvin Yalom ci ricorda come, fin dalle origini, l’arte di curare le persone sia fondamentalmente unica ed in essa la relazione terapeutica è l’arma più potente. Stare nel qui ed ora con il paziente senza avere un occhio di riguardo a quello che sta accadendo nel vivo della seduta è come gettarsi in un’arena senza protezione. Il terapeuta può ben sapere come ristrutturare un pensiero, come favorire l’elaborazione di un ricordo traumatico, come aiutare il paziente a sbarazzarsi di un coping fastidioso e come imbattersi in una nuova versione di sé ma tutto ciò sembra davvero impensabile senza fare ricorso, continuamente, alla relazione terapeutica.

Irvin Yalom scrive Il dono della terapia dedicando piccoli capitoli a vari temi, eppure sembra che vi sia un fil rouge che accompagna il testo dalla prima all’ultima pagina. Questo è relativo al fatto che paziente e terapeuta non sono due entità divise e separate ma creano una squadra di lavoro. Lo sa bene chi, oltre a vedere pazienti, è anche stato paziente a sua volta. Se pensassimo ai successi terapeutici, saremmo sciocchi a dare unica responsabilità alla tecnica applicata o al protocollo seguito pedissequamente: sono tutti elementi fondamentali, sia chiaro, ma se ha funzionato è perché è esistito quel clima di fiducia e di comprensione. Già Bordin, nel 1979, ha concettualizzato l’alleanza terapeutica come un legame affettivo positivo tra paziente e terapeuta fatto di simpatia, stima e fiducia che comprende un accordo sugli scopi del trattamento e sui compiti reciproci. Irvin Yalom ci fornisce dei suggerimenti in tal senso e ci invita ad essere terapeuti aperti e sinceri e, per farlo, ad essere coraggiosi. Invita a lavorare su se stessi, a conoscersi a fondo, per poter essere consapevoli di quello che si muove dentro di noi nel tempo condiviso con il paziente e per essere più pronti a

condividere l’oscurità dell’ombra…e portare i pazienti più lontano di dove siete arrivati voi stessi

per citare l’autore.

Il dono della terapia e l’aprirsi del terapeuta

Inoltre sottolinea l’uso e l’utilità della rivelazione di sé, argomento ben approfondito da Safran e Muran (2000) i quali hanno descritto l’uso delle metacomunicazioni e delle self-disclosure come meccanismi di disciplina interiore per intervenire sulle rotture terapeutiche. Irvin Yalom, a tal proposito, ci dice di ponderare bene le proprie narrazioni, non per evitarle ma per valutarne l’utilità e il timing. Inoltre ci suggerisce come modulare le interazioni intime, quelle che riguardano temi particolari come il sesso e gli eventuali impulsi sessuali vissuti da uno dei due partecipanti alla terapia, oppure di temi crudi come la morte.

Vi è una sezione che si intitola “Rischi e privilegi del terapeuta” in cui leggiamo indicazioni pratiche: prendersi il giusto tempo tra una seduta e l’altra, non esagerare con il numero di pazienti ricevuti nell’arco della giornata invitando, in modo molto esplicito, a non essere avari e a non badare ai soldi. Come l’autore stesso dice, il nostro non è un lavoro che ci porta necessariamente ad essere ricchi, non possiamo permettercelo, in nome di quell’onestà di cui si parlava prima. Ancora, Irvin Yalom fa riflessioni rilevanti su come soffermarsi sul processo piuttosto che sul contenuto dei prodotti mentali, in termini di pensieri o immagini, non molto diversamente da come ha concettualizzato Wells (2009) nella sua terapia metacognitiva.

Chi scrive, scrive di questo già tempo fa, ma è tutto molto attuale. Più volte mi sono soffermata nel riflettere quanto quelle indicazioni e suggerimenti sono quello che ancora ad oggi mi affanno a ricercare e raggiungere, a studiare sui testi, a sperimentare nel vivo delle sedute. E poter condividere con il paziente la ricerca di un clima collaborativo e di sincera condivisione rende il nostro lavoro il più bello in assoluto. Il dono della terapia è un titolo emozionante, ci fa sentire persone speciali, probabilmente attiva il narcisismo che è in ognuno di noi. Ma in quei pochi giorni in cui ho letteralmente mangiato le pagine del testo, in cui la mia mente è stata assorbita, ho pensato che essere un terapeuta è difficile, sembra essere un percorso senza traguardo, ma si, ho pensato che è davvero un dono.

Il dono della terapia: perchè leggerlo

La lettura, rispetto ad altri romanzi, è molto tecnica quindi effettivamente di difficile comprensione per i non addetti ai lavori ma il fatto che sia suddivisa per aree tematiche ed in piccoli capitoli rende il tutto più scorrevole. Inoltre, Irvin Yalom arricchisce la narrazione, come nel suo stile, fornendo molti esempi di casi clinici ma, oltre a questo, possiamo leggere dei veri e propri suggerimenti, interventi, cose da dire o da fare (come nel capitolo “Stratagemmi per accelerare la terapia” oppure “Cronaca giornaliera del paziente”) e, sotto questo punto di vista, il libro entra di diritto nella categoria dei testi pratici, che può essere apprezzabile per il lettore interessato al concreto. Ad esempio ci mette in guardia dal dare direttive e per farlo, egli narra di un suo caso in cui aveva suggerito al paziente di lasciare una donna, con conseguenze rilevanti in futuro. La sezione relativa ai sogni è molto interessante, in primis perché narra di alcuni sogni di pazienti e di come sono stati interpretati durante la terapia ma, soprattutto, perché ci aiuta a capire cosa farne quando il paziente in seduta ce ne racconta uno ed inoltre, ci invita a fare attenzione non solo ai sogni dei pazienti ma anche a quelli nostri, del terapeuta.

Non meno importante, nel testo vi è un approfondimento circa l’utilità di spronare e spingere i pazienti ad andare oltre i sintomi, oltre alle rappresentazioni di sé come vulnerabili, indegni, inetti. Alcune parti sane devono essere davvero costruite da zero, ed in questo la terapia metacognitiva interpersonale (Dimaggio et al., 2013) ci viene in aiuto.

Come ultima considerazione, i titoli dei capitoli. Essi sono interessanti: alcuni sobri, altri irriverenti come “Evitare le diagnosi, tranne che le compagnie assicurative” oppure “Quali bugie mi ha raccontato?” altri ironici come “Guardate dal finestrino del paziente” per immetterci nel tema dell’empatia. Molti sono imperativi: “Siate coinvolgenti”, “Siate un sostegno”, “Siate reali, non uno schermo bianco”, “Siate gentili”.

Consiglio vivamente la lettura di questo testo a tutti i miei colleghi, per ricordare piccoli dettagli a cui a volte non facciamo più caso oppure per apprendere nuovi punti di vista, nuove direzioni da cui guardare il dono che ci è stato fatto.

Psicopatia, narcisismo e machiavellismo: il fattore D come comun denominatore

I tratti più “oscuri” della personalità, come la psicopatia, il narcisismo, il machiavellismo, a primo impatto possono sembrare diversi tra loro, ma una nuova ricerca danese-tedesca sostiene che in realtà sono strettamente collegati tra loro e si basano su una stessa tendenza dell’individuo: un estremo egoismo.

 

Il comune denominatore di questi dark traits, chiamato fattore D, è definito come la tendenza generale a massimizzare la propria utilità individuale a discapito degli altri. In altre parole, persone con questi tratti sono accomunate dal perseguire i propri obiettivi e interessi senza considerare il prossimo, fino al punto di provare piacere nel ferire gli altri. I comportamenti che mettono in atto sono giustificati da una serie di credenze a cui queste persone fanno riferimento per prevenire sensi di colpa, vergogna ed emozioni simili.

Cosa è stato scoperto?

Gli autori dello studio hanno dimostrato come il fattore D sia presente in diversi tratti “oscuri” della personalità, in particolare ne sono stati studiati nove (egoismo, machiavellismo, disimpegno morale, narcisismo, superiorità psicologica, psicopatia, sadismo, self-interest, malignità). Per esempio, nel narcisista c’è la tendenza ad essere completamente assorbiti da sé e ad avere un estremo bisogno dell’attenzione degli altri; nella psicopatia c’è mancanza di empatia e di self-control, combinati con comportamenti impulsivi; il machiavellico è manipolativo ed ha la convinzione che il fine giustifica i mezzi; il sadico desidera infliggere alle persone sofferenze mentali o fisiche per il proprio piacere.

Sono stati effettuati diversi studi in cui a circa 2500 persone è stato chiesto il grado di accordo con frasi del tipo “a volte vale la pena soffrire un po’ per vedere gli altri ricevere la punizione che meritano”, oppure “so di essere speciale perché tutti me lo dicono”, o ancora “è difficile andare avanti senza tagliare la strada a qualcuno”.

L’autore Zettler afferma:

Gli aspetti oscuri della personalità hanno un comune denominatore, si può dire quindi che sono espressioni diverse delle stessa tendenza.

Inoltre, aggiunge:

Per esempio in una persona il fattore D si può manifestare come narcisismo, o come psicopatia, o come una combinazione di questi. Con il nostro studio, però, si può semplicemente diagnosticare un alto livello di fattore D.

Avere il fattore D indica che in un individuo c’è la probabilità di mettere in atto una serie di comportamenti associati con uno o più tratti oscuri della personalità. Se una persona è propensa ad assumere un determinato comportamento, ad esempio umiliare gli altri, c’è una buona probabilità che ne metta in atto altri, come imbrogliare, mentire, rubare.

Gli autori precisano che i nove tratti di personalità non sono assolutamente uguali, ed ognuno ha un esatto schema di comportamento, ma il “cuore” di questi tratti è molto più simile di quanto si pensi. La conoscenza del fattore D può essere di aiuto per ricercatori e terapeuti che lavorano con queste personalità.

Job Satisfaction by Training: partecipa alla ricerca sulla soddisfazione lavorativa!

L’importanza dell’apprendimento in ambito lavorativo, inteso come un impegno che deve essere continuo nel corso della vita professionale di ciascuno, è per gli studenti come me, di un indirizzo formativo aziendale, una costante della maggior parte delle lezioni affrontate durante gli anni universitari.

 

Eppure, soprattutto in Italia, non si è ancora sviluppata una cultura della formazione adeguata alle esigenze che il mercato e il mondo del lavoro richiedono. Alcune organizzazioni, le Learning Organisation, sono le promotrici di una visione formativa basata sull’importanza di valorizzare le proprie risorse, intese come personale. Altre organizzazioni invece mirano ad una politica formativa basata esclusivamente su corsi meramente pratici, che riguardano ad esempio l’utilizzo di un determinato software, o comunque che racchiudono solo tutte quelle conoscenze e competenze rivolte ad un miglioramento manuale del lavoro del dipendente, senza tenere in considerazione la sua identità professionale.

Della necessità di un percorso formativo professionale per migliorare la condizione lavorativa individuale e dell’azienda, è convinto anche il Consiglio Europeo, tenutosi a Lisbona nel marzo 2000, che identifica l’apprendimento permanente come lo strumento preferenziale indicato per raggiungere l’obiettivo di sviluppare una società basata sulla conoscenza, sullo sviluppo economico sostenibile e su una maggiore coesione sociale. In uno dei suoi atti infatti recita:

“I sistemi europei di istruzione e formazione devono essere adeguati alle esigenze della società dei saperi e alla necessità di migliorare il livello e la qualità dell’occupazione. Dovranno offrire possibilità di apprendimento e formazione adeguate ai gruppi bersaglio nelle diverse fasi della vita: giovani, adulti disoccupati e persone occupate soggette al rischio che le loro competenze siano rese obsolete dai rapidi cambiamenti. Questo nuovo approccio dovrebbe avere tre componenti principali: lo sviluppo di centri locali di apprendimento, la promozione di nuove competenze di base, in particolare nelle tecnologie dell’informazione, e qualifiche più trasparenti.”

Poiché la formazione diventa sempre più una parte rilevante della carriera di un dipendente, la sua relazione con la soddisfazione lavorativa non può passare inosservata. Spetterà alle organizzazioni fornire ai dipendenti le competenze necessarie per svolgere il loro lavoro, sia rivolgendosi alle attività richieste nel presente, sia con uno sguardo alle prospettive di cambiamento futuro, in termini di collaborazione all’interno di un team con lo scopo di migliorare continuamente i processi e le tecniche professionali. I dipendenti avranno un legame sempre più forte con la formazione che potranno ricevere dai loro datori di lavoro. Ciò in quanto i ruoli professionali sono costantemente in cambiamento, e richiederanno una maggiore specializzazione delle attività peculiari per ogni figura professionale.

Le opportunità di formazione e sviluppo sono dunque fondamentali nelle decisioni riguardanti le scelte di carriera dei dipendenti. Nonostante questa consapevolezza, molti studi di ricerca sulla soddisfazione lavorativa non considerano la soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro come un elemento della soddisfazione complessiva del lavoro. Infatti molti strumenti di indagine sulla soddisfazione professionale, non includono la componente di “soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro“, soprattutto in Italia.

Alla base di questo studio vi è l’idea e la volontà di esaminare la relazione tra soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro fornita dal datore di lavoro e soddisfazione complessiva del lavoratore. I componenti della formazione professionale, compresi il tempo trascorso in formazione, le metodologie di formazione e il contenuto, sono stati considerati significativi nel loro rapporto con la soddisfazione nel job training. Principalmente dunque il sondaggio prodotto è stato costruito con lo scopo di rispondere a una domanda: qual è la relazione tra soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro e soddisfazione complessiva del lavoro?

 

Partecipa alla ricerca

Il questionario è rivolto a PERSONE CHE ABBIANO ALMENO UN’ESPERIENZA DI LAVORO COME DIPENDENTE.
I dati saranno raccolti in FORMA ANONIMA e verranno utilizzati solo a scopo di ricerca.
La compilazione del questionario NON richiede alcun costo e dura solo pochi minuti.

VAI AL QUESTIONARIO 9998

Dott.ssa Federica Rossi, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Ricerca per tesi magistrale in facoltà “Scienze Pedagogiche”, indirizzo “Formazione nelle organizzazioni”.

Relatore di tesi: Dott. Diego Boerchi

 

Educazione sessuale ed affettiva a scuola: Italia ed Europa a confronto

La sessualità include molti aspetti che vanno oltre il mero comportamento sessuale. Educazione affettiva ed emotiva dovrebbero accompagnare e completare l’educazione sessuale.

Elena Tonazzolli e Marta Venturini – Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

La sessualità è un aspetto centrale dell’essere umano lungo tutto l’arco della vita e comprende il sesso, le identità e i ruoli di genere, l’orientamento sessuale, l’erotismo, il piacere, l’intimità e la riproduzione. La sessualità viene sperimentata ed espressa in pensieri, fantasie, desideri, convinzioni, atteggiamenti, valori, comportamenti, pratiche, ruoli e relazioni. Sebbene la sessualità possa includere tutte queste dimensioni, non tutte sono sempre esperite o espresse. La sessualità è influenzata dall’interazione di fattori biologici, psicologici, sociali, economici, politici, etici, giuridici, storici, religiosi e spirituali.

Quando si vuole educare alla sessualità quindi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, non ci si deve confondere con l’educazione riguardante il solo “comportamento sessuale”, ma si devono comprendere molte aree (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

L’educazione affettiva ed emotiva dovrebbe accompagnare e completare l’ educazione sessuale. Le molteplici emozioni che esperiamo quotidianamente sono rappresentate dai desideri, dalle simpatie/antipatie, dagli innamoramenti e dagli amori che ci mettono in gioco. Risulta a nostro avviso di fondamentale importanza estendere l’educazione alla funzione relazionale della sessualità, che è rappresentata dall’impegno a stabilire un rapporto di ascolto di noi stessi e dalla capacità di riconoscere gli “altri” come persone, imparando il rispetto per l’altro/a sia nella dimensione dell’amicizia e dell’intimità, sia nell’esperienza dell’amore e dello scambio sessuale (Giommi, 2003).

Educazione sessuale: cos’è?

La definizione fornita dagli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa è la seguente:

Educazione sessuale significa apprendere relativamente agli aspetti cognitivi, emotivi, sociali, relazionali e fisici della sessualità. L’educazione sessuale inizia precocemente nell’infanzia e continua durante l’adolescenza e la vita adulta e mira a sostenere e proteggere lo sviluppo sessuale. Gradualmente essa aumenta l’empowerment di bambini e ragazzi, fornendo loro informazioni, competenze e valori positivi per comprendere la propria sessualità e goderne, intrattenere relazioni sicure e gratificanti, comportandosi responsabilmente rispetto a salute e benessere sessuale propri e altrui.

Tutti gli individui, durante lo sviluppo, hanno diritto ad accedere all’ educazione sessuale adeguata alla loro età come affermato dai diritti umani ratificati a livello internazionale in particolare dal diritto all’accesso a informazioni adeguate relative alla salute (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Educazione sessuale secondo una concezione olistica

Gli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa suggeriscono una concezione olistica dell’ educazione sessuale, che comprende non solo la semplice prevenzione dei problemi di salute, ma si focalizza anche sulla sessualità come elemento positivo (anziché principalmente “pericoloso”) del potenziale umano e come fonte di soddisfazione e arricchimento nelle relazioni intime. Tradizionalmente l’educazione sessuale si è concentrata sui potenziali rischi della sessualità, come le gravidanze indesiderate e le infezioni sessualmente trasmesse (IST). Un tale focus negativo suscita spesso delle paure in bambini e ragazzi e, per di più, non risponde al loro bisogno di essere informati e di acquisire competenze; ancora, fin troppo spesso il focus negativo semplicemente non è di alcuna rilevanza per la vita di bambini e ragazzi. Un approccio olistico, basato sul concetto di sessualità come un’area del potenziale umano, aiuta a far maturare in bambini e ragazzi quelle competenze che li renderanno capaci di determinare autonomamente la propria sessualità e le proprie relazioni nelle varie fasi dello sviluppo. L’ educazione sessuale fa anche parte dell’educazione più generale e influenza lo sviluppo della personalità del bambino. La natura preventiva dell’educazione sessuale non solo contribuisce a evitare possibili conseguenze negative legate della sessualità, ma può anche migliorare la qualità della vita, la salute ed il benessere, contribuendo, così, a promuovere la salute generale (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Educazione sessuale “informale”

Nel corso della crescita, gradualmente, bambini e adolescenti acquisiscono conoscenze e si formano immagini, valori, atteggiamenti e competenze riguardanti il corpo umano, le relazioni intime e la sessualità. Le principali fonti di apprendimento, in particolare nelle fasi più precoci dello sviluppo, sono quelle informali, tra le quali troviamo i genitori, che sono di importanza fondamentale. Solitamente il ruolo dei professionisti, che siano di area medica, pedagogica, sociale o psicologica, non è molto pronunciato in questo processo, poiché quasi sempre si ricerca un aiuto professionale solo in presenza di una problematica. Tra le fonti di informazione non manca internet, che se da un lato è un diffuso metodo per soddisfare velocemente le proprie curiosità, dall’altro può portare i giovani ad imbattersi in informazioni frammentarie e scorrette. Già negli anni ‘90 viene trattato il tema del rischio legato alla ricerca di informazioni riguardo ad argomenti che interessano ai giovani (Bertinato et al., 1995). Il rischio, nell’entrare in contatto con fonti non attendibili, è che i giovani vengano influenzati negativamente dalle stesse, con conseguente disagio. Riteniamo che questa affermazione sia molto attuale: anche altri autori, come Alberto Pellai, hanno gettato luce sulle conseguenze della ricerca di informazioni su internet e social network (Pellai, 2015). Come sostengono Giommi e Perrotta (1992)

I genitori e gli adulti hanno spesso scelto il silenzio su questo argomento, senza considerare che il silenzio è esso stesso un modo di comunicare, che, proprio per il fatto che “di sessualità non si può parlare”, crea censure e tabù e condiziona in senso negativo i processi di crescita. Approfittando del silenzio degli adulti, prendono voce, al contrario, i cento messaggi del mondo esterno che facilmente passa contenuti e informazioni sbagliate, paurose e straordinarie.

Accanto all’educazione informale è importante la presenza di un’educazione formalizzata le cui fonti principali sono: la scuola, i libri, i pieghevoli, i volantini, i siti internet educativi, i programmi educativi e le campagne promozionali per radio e televisione ed infine i servizi (sanitari). Educazione informale e formalizzata non sono in contrasto, l’una è complementare all’altra e viceversa e la scuola può svolgere un ruolo importante per l’educazione formalizzata, pur non essendo il principale medium o fonte di informazione dei ragazzi (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Educazione sessuale nelle scuole

Tuttavia, introdurre l’educazione sessuale nelle scuole non è sempre facile: molto spesso si incontrano resistenze basate principalmente su paure ed idee erronee. Emerge spesso il timore di affrontare l’argomento prematuramente, anche se come afferma Fabio Veglia:

Domandarsi se è troppo presto, significa quasi sempre arrivare a parlarne troppo tardi (Veglia 2004).

Anche dal documento “Piano Nazionale di interventi contro HIV e AIDS” del 2017 emerge la percezione di criticità nell’affrontare l’argomento sessualità a scuola, a causa di punti di vista che spesso entrano in conflitto con le proposte e le ostacolano. A nostro avviso però sarebbe importante considerare quanto affermato dall’Istituto Superiore di Sanità, ovvero che la scuola, essendo il luogo più frequentato da bambini e ragazzi, può essere il teatro ideale per dibattere questi argomenti e divulgare i modelli comportamentali sani. Essa può avere la funzione da mediatrice tra famiglie, mass media e servizi sanitari, con l’obiettivo di favorire scelte coscienti convertibili in modelli culturali da seguire (Bertinato, Poli, Caffarelli, & Mirandola, 1995).

Secondo i già citati Standard per l’ educazione sessuale in Europa dell’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA pubblicati nel 2010 sarebbe importante inserire l’ educazione sessuale come materia curricolare e considerarla materia d’esame. L’obiettivo di questo cambiamento è dare sufficiente attenzione ed importanza agli argomenti proposti, favorendo la motivazione degli studenti. Inoltre i programmi di educazione sessuale dovrebbero essere trattati in maniera multidisciplinare, ovvero da più insegnanti sotto diversi punti di vista, e non dovrebbero essere facoltativi per gli alunni.

Educazione sessuale: un processo di apprendimento che dura tutta la vita

L’OMS suggerisce che l’educazione affettiva e sessuale è un percorso continuativo e si basa sul concetto che lo sviluppo della sessualità è un processo che dura tutta la vita. L’ educazione sessuale non è un evento singolo, bensì è basata su un progetto, e risponde alle mutevoli situazioni di vita degli allievi. Un concetto strettamente correlato è quello di “adeguatezza rispetto all’età”: gli stessi argomenti si ripresentano nel tempo e le informazioni relative sono fornite secondo l’età e lo stadio evolutivo dello studente. Proprio per questo è auspicabile introdurre l’educazione affettiva e sessuale già dalla scuola primaria, adattando i contenuti e gli argomenti all’età dei ragazzi. Questo concetto è stato promosso anche da due autori italiani, Roberta Giommi e Marcello Perrotta, che con i loro libri, già più di 20 anni fa, hanno divulgato informazioni nel campo dell’ educazione sessuale. Il “Programma di educazione sessuale”, realizzato pensando alle diverse fasce d’età dei bambini, tiene in considerazione le curiosità degli stessi con l’obiettivo di inserire la sessualità nel progetto di vita degli individui, favorendone il benessere (Giommi & Perrotta, 1992).

In Europa l’età d’inizio dell’ educazione sessuale è molto varia. Secondo il rapporto SAFE si va dall’età di 5 anni in Portogallo ai 14 anni di Spagna, Italia e Cipro (The SAFE Project, 2006). Nel leggere questi dati va tenuta in considerazione la variabilità dei programmi educativi proposti e della differente definizione di educazione sessuale. Laddove inizia ufficialmente nella scuola secondaria, solitamente è utilizzata una definizione di educazione sessuale molto più ristretta, in termini di “contatti sessuali”, mentre nei paesi dove inizia prima, la definizione e i programmi vengono estesi e comprendono non solo gli aspetti fisici e relazionali della sessualità e dei contatti sessuali, ma anche una gamma di altri aspetti come l’amicizia o i sentimenti di sicurezza, protezione e attrazione. (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010)

Alla luce di questi dati, risulta importante interrogarsi e valutare l’efficacia dei programmi di educazione sessuale che vengono proposti solo nella scuola secondaria, senza essere stati introdotti o preceduti da programmi di educazione sessuale ed affettiva durante gli anni della scuola primaria.

I bambini già dalle prime classi della primaria, arrivano a scuola con una serie di preconoscenze anche sulla sessualità, ed è proprio in questo luogo che dovrebbero poter trovare risposte ai propri quesiti e l’opportunità di un confronto produttivo con adulti e pari, al fine di favorire la ristrutturazione delle personali conoscenze anche in questo ambito.

Adolescenti e sessualità in Italia: alcuni dati

Dai dati presenti nel Report Nazionale Dati HBSC Italia del 2014, emerge che a livello nazionale, il 28% dei maschi di 15 anni dichiara di aver avuto un rapporto sessuale completo, mentre la percentuale è più bassa tra le femmine (21%). Riguardo ai metodi contraccettivi che i ragazzi dichiarano di aver utilizzato durante l’ultimo rapporto sessuale emerge da questi dati come la maggior parte degli adolescenti di 15 anni che hanno già avuto un rapporto completo riferisca l’utilizzo del preservativo (oltre il 70% dei maschi e il 66,5% delle femmine), seguito dall’interruzione del rapporto, dichiarato da più del 50% delle ragazze e dal 37% dei coetanei maschi. Complessivamente, circa l’11% riferisce l’uso della pillola e poco meno del 12% altri metodi (conteggio dei giorni fertili o altri metodi naturali) (Health Behavior in School Aged Children, 2014).

Da questi numeri si evince che, seppur una buona percentuale di giovani utilizza come metodo contraccettivo un metodo “barriera” come il preservativo (che protegge inoltre dalle infezioni sessualmente trasmesse), molti ancora ricorrono all’utilizzo dell’interruzione del rapporto, nonostante la scarsa efficacia di tale metodo. Tale dato va certamente tenuto presente nella progettazione e nella proposta di un programma di educazione sessuale a scuola.

In Italia, inoltre, malgrado il tasso di natalità sia uno dei più bassi all’interno dell’UE, e l’età della madre al primo figlio sia tra le più alte, il numero di gravidanze in età adolescenziale (14-19) rimane alto rispetto ad altri Paesi. Secondo i dati ISTAT si è verificata una diminuzione del 39% nel ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza, rispetto al 2005, passando dal 7,1 % al 4,4% nel 2016 (Istituto nazionale di statistica, 2017). Questo dato è incoraggiante ma non significa che non si debba investire in progetti di prevenzione rispetto a pratiche che possiamo considerare di “emergenza”.

Uno spunto di riflessione può essere offerto dal confronto tra il periodo storico attuale con gli anni ‘90. Nel lavoro, precedentemente citato, di Bertinato e collaboratori (1995), si legge come l’epidemia nel nostro Paese fosse ancora in critica espansione. Ciò ha fornito le basi per motivare a prevenire quanto più possibile il contagio, in un’ottica di educazione alla salute. Gli autori affermano che, per essere efficace, la prevenzione debba essere caratterizzata non solo da informazione, ma anche educazione. Per questa ragione, sottolineano, dovrebbero essere formati e coinvolti gli insegnanti della scuola dell’obbligo. Questo articolo cita il fatto che studenti e famiglie si fossero dimostrati molto disponibili a ricevere informazioni in materia di prevenzione dell’AIDS. Gli autori del PNAIDS 2017 pongono l’attenzione sul fatto che, a dispetto dell’interesse che i giovani dimostrano per l’utilizzo di internet e social network, si rileva una scarsa tendenza degli stessi ad approfondire, con questi mezzi o all’interno di discussioni con gli amici, le informazioni riguardo a HIV/AIDS ed infezioni sessualmente trasmesse (Ministero della Salute, 2017). Questo potrebbe suggerire che l’argomento non sia più ritenuto interessante come invece poteva esserlo circa 20 anni fa. La soluzione indicata, per quanto riguarda l’abbassamento del rischio di contagio, è che vengano inseriti programmi di educazione sessuale e alla salute nelle attività scolastiche curricolari.

Educazione sessuale all’estero

Da una prospettiva storica generale, i programmi di educazione sessuale possono essere raggruppati fondamentalmente in tre categorie:

  • programmi di tipo 1, che si focalizzano principalmente o esclusivamente sull’astinenza dai rapporti sessuali prematrimoniali, conosciuti come programmi “how to say no” (“come dire no”) o “abstinence only” (“solo astinenza”);
  • programmi di tipo 2, che comprendono l’astinenza come una scelta possibile ma dedicano anche attenzione alla contraccezione e alle pratiche sessuali sicure, tali programmi sono spesso indicati come “educazione sessuale estensiva” rispetto all’educazione sessuale “solo astinenza”;
  • programmi di tipo 3 che comprendono gli elementi del programma di tipo 2 ma li collocano nella più ampia prospettiva della crescita e dell’evoluzione personale (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Negli Stati Uniti d’America spesso viene promossa l’astinenza come solo metodo contraccettivo, mentre in Europa occidentale sembra predominare il terzo tipo di programmi. Tuttavia, da uno studio comparato sui risultati di programmi di tipo 1 e 2 è emerso che, per gli adolescenti di età compresa tra i 15 e i 19 anni, i programmi “solo astinenza” non hanno alcun effetto positivo sui comportamenti sessuali o sul rischio gravidanza in adolescenza. Inoltre tale studio dimostra che tra gli studenti che ricevono insegnamenti di educazione sessuale, non aumenta la percentuale di frequenza di attività sessuale né di malattie sessualmente trasmesse. È risultato tuttavia che lo stesso gruppo aveva un tasso di gravidanze inferiore rispetto a coloro i quali non partecipavano ad alcun programma di educazione sessuale (Kohler, Manhart, & Lafferty, 2008).

A differenza di quanto è emerso per gli Stati Uniti, in Europa l’educazione sessuale è in primo luogo rivolta alla crescita personale. Nell’Europa occidentale la sessualità non è percepita principalmente come un problema o un pericolo, bensì come una preziosa fonte di arricchimento per la persona.

In Europa l’educazione sessuale come materia scolastica curricolare ha una storia di oltre mezzo secolo. È nata ufficialmente in Svezia, dove divenne obbligatoria in tutte le scuole nel 1955.

A partire dagli anni ‘70 del secolo scorso molti altri paesi dell’Europa occidentale introdussero l’educazione sessuale che, come emerge dal report “Sexuality Education in Europe”, dal 2003 è materia obbligatoria in 19 Stati membri (The SAFE Project, 2006). Solamente in pochi Stati tra quelli appartenenti alla vecchia Unione Europea, specialmente nell’Europa meridionale, l’ educazione sessuale non è ancora stata introdotta nelle scuole.

Nel cercare studi riguardanti l’efficacia dei programmi di educazione sessuale nelle scuole europee e conoscenze scientifiche in merito si incontrano diverse difficoltà. La maggior parte delle pubblicazioni sono redatte nelle lingue nazionali e risultano dunque poco accessibili. (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Tra la letteratura recente troviamo un interessante articolo, pubblicato nel 2017, che riporta i risultati di uno studio che ha coinvolto 3781 studenti di età compresa tra i 15 e i 16 anni, residenti in Galles (UK). Gli autori hanno preso in analisi i dati di 59 scuole raccolti attraverso questionari online che riguardavano l’ambiente scolastico e la salute sessuale dei ragazzi. Le domande riguardanti la salute sessuale erano solo 3 ed indagavano se la persona avesse mai avuto rapporti sessuali, a quale età risalisse il primo rapporto ed infine se durante l’ultimo rapporto avessero utilizzato il preservativo. Per quanto riguarda l’ambiente scolastico, le domande erano le seguenti:

Chi si occupa di insegnare educazione sessuale e alle relazioni? È presente, nella tua scuola, uno sportello di ascolto specifico per dare consigli legati alla salute sessuale? La tua scuola offre un servizio di distribuzione gratuita di preservativi?

Dallo studio è emersa un’interessante associazione tra migliori risultati di salute sessuale (tra questi, l’uso del preservativo) e la presenza di personale non docente come formatore per i percorsi di educazione sessuale e alle relazioni. Inoltre, l’uso del preservativo all’ultimo rapporto è risultato associato alla presenza dello sportello relativo alla salute sessuale ma non alla distribuzione gratuita di preservativi. Un’ipotetica spiegazione della maggiore efficacia offerta dal personale non docente è che la presenza di un estraneo modifichi le dinamiche del gruppo-classe, nel quale ogni partecipante dovrebbe auspicabilmente sentirsi al sicuro e che sono molto importanti perché il programma vada a buon fine (Young, Long, Hallingberg, Fletcher, Hewitt, Murphy and Moore, 2017).

Tali risultati possono offrire spunti interessanti nella progettazione di programmi di educazione sessuale anche per il nostro Paese.

Programmi di educazione sessuale in Italia

L’Italia, come accennato in precedenza, rientra tra i paesi dove l’ educazione sessuale viene introdotta più tardi. I programmi di prevenzione proposti dalle aziende sanitarie sono rivolti a ragazzi di età compresa tra i 13 e i 14 anni. Al momento attuale tali programmi non sono obbligatori e la scelta di aderirvi rimane dei singoli Istituti, determinando disomogeneità nell’educazione sul territorio nazionale. Il rapporto sull’educazione sessuale nelle scuole dell’Unione Europea (The SAFE Project, 2006) dedica un paragrafo al nostro Paese. Vi si legge che molte proposte di Legge per introdurre l’educazione sessuale obbligatoria a scuola sono state respinte, probabilmente a causa dell’influenza delle posizioni della Chiesa Cattolica. Viene inoltre descritto che l’argomento, se trattato, è dedicato agli alunni di età compresa tra i 14 e i 19 anni e trova solitamente lo spazio di una sola lezione all’anno. Gli autori del rapporto sottolineano come, in mancanza di leggi che uniformino l’offerta educativa, non è possibile avere dati ufficiali sull’applicazione dei programmi di educazione sessuale.

Alcuni più recenti piani regionali di prevenzione contengono obiettivi che fanno pensare ad un tipo di educazione sessuale olistica e prevedono interventi e contenuti da proporre già nella scuola primaria. Una proposta interessante viene, ad esempio, dalla Provincia Autonoma di Bolzano che, con il progetto “Educazione socio affettiva e sessuale” per classi quinte della scuola primaria e terze della secondaria di primo grado sembra molto in linea con gli obiettivi dell’OMS. Il Dipartimento della Prevenzione della Provincia rileva che, nel 2017, il 25% delle scuole ha deciso di aderire all’iniziativa (Regele, Borsoi, 2017).

Una nostra collega ha descritto la propria esperienza come conduttrice di un progetto di educazione sessuale proposto ad alcune classi quinte della scuola primaria. Dal suo lavoro emerge, in linea con ciò che abbiamo precedentemente trattato, che la scuola può fornire strumenti di integrazione tra le conoscenze che i bambini già possiedono, quelle che hanno discusso in famiglia, e quelle portate dagli esperti (Congedo, 2018). Pensiamo che sia interessante il fatto che fossero previsti due momenti di discussione con i genitori, uno iniziale e l’altro al termine del progetto. Questi incontri, come riporta l’autrice, sono stati utili in quanto i genitori si sono confrontati tra loro, scambiandosi esperienze e condividendo strategie efficaci.

Conclusioni

Alla luce di quanto emerge da questa ricerca sui programmi di educazione sessuale all’estero ed in Italia possiamo fare alcune considerazioni.

In primo luogo dall’esperienza estera emerge la necessità di proporre alle scuole programmi che si basino su un’educazione sessuale di tipo olistico, che accanto all’informazione prevedano spazi di riflessione e sviluppo delle competenze affettivo-emotive. L’esperienza di alcuni stati esteri, dove l’educazione sessuale viene introdotta già dalla scuola primaria come materia curricolare, potrebbero ispirare l’organizzazione e la progettazione di una formazione educativa scolastica anche in Italia. Il fatto che in alcune regioni italiane siano proposti progetti fa ben sperare che, in futuro, l’introduzione di programmi di educazione sessuale a scuola possa essere anticipata rispetto a quanto attualmente avviene.

Per capire quanto quello che finora viene proposto nelle scuole del nostro Paese sia utile, servirebbero più studi sull’efficacia dei programmi attualmente realizzati. Questo potrebbe aiutare a capire anche come poter personalizzare una proposta formativa, in modo che si possa adattare alla cultura del nostro Paese.

Come già citato, condividiamo la proposta degli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa e le linee guida OMS sostenendo che i progetti di educazione sessuale, se visti come integrazione a più ampi percorsi di educazione all’affettività, adeguati alle età dei destinatari, possano fornire strumenti molto utili allo sviluppo della persona.

A nostro avviso, è importante considerare gli effetti positivi che un’educazione all’affettività e alla sessualità può avere anche su comportamenti e situazioni a rischio, quali bullismo, cyberbullismo e omofobia. Infatti attualmente vengono spesso esclusi dai programmi di educazione affettiva e sessuale argomenti importanti per il benessere psicologico, come ad esempio l’orientamento sessuale, le questioni di genere e dei ruoli (Ganci, 2015). Come sostenuto in questo articolo, essere consapevoli che esistono diversi orientamenti sessuali e conoscere persone con esperienze diverse dalla nostra può avere un effetto normalizzante ed è una delle strategie utilizzabili all’interno di un’efficace educazione all’affettività e sessualità ad ampio raggio.

In conclusione, offrire ai bambini ed ai ragazzi l’opportunità di partecipare a programmi di educazione sessuale può permettere loro di maturare consapevolmente un progetto di vita che tenga conto del benessere anche sessuale ed affettivo.

 

Cannabis: lo stato dell’arte dalla legislazione ai dati relativi all’uso e all’abuso

L’uso di sostanze con proprietà psicotrope illegali, tra cui la cannabis, viene sperimentato da un terzo della popolazione italiana almeno una volta nell’arco della vita.

Silvana Zito

 

Molte cose sono state dette riguardo il fenomeno dell’abuso di sostanze psicostimolanti anche se l’argomento resta degno di attenzione e impegno al fine di fronteggiare il gioco domanda/offerta. Il quadro legislativo internazionale sulla cannabis presenta una notevole diversificazione e mantiene rilevante l’interesse politico, medico e sociale.

La droga più comunemente usata nel mondo è la cannabis, in Italia si stima che il 32% dei giovani fa uso di cannabis, mentre l’11% della spice cannabis sintetica (Politiche Antidroga, 2017).

Si ha prova che la massima parte dei sequestri di droga è rappresentata dai derivati della cannabis: è interessante osservare che tra gli interventi delle forze di polizia entro il 2016, l’80,4% dei casi sono stati posti all’accertamento del Prefetto poiché soggetti erano di età inferiore a 30 anni (di cui il 9,1% minorenni) in possesso di cannabinoidi (Politiche Antidroga, 2017).

Generalmente, con il termine cannabis si definisce una qualsiasi delle varie parti della pianta di canapa. Per esempio, dalla cannabis sativa vengono preparati marijuana, hashish e altri farmaci poco alteranti e allucinogeni. Inoltre, è di uso comune commutare i termini “cannabis” e “marijuana”.

Dal punto di vista diagnostico il Disturbo da uso di cannabis (CUD) richiede almeno due degli 11 criteri diagnostici riportati dal – Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi mentali (DSM5), entro il periodo di 12 mesi, per essere riconosciuto.

Legislazione nel “mondo” della Cannabis

L’uso consentito di proprietà gratificanti e motivazionali come la cannabis varia da paese a paese. L’assunzione della cannabis in Italia è illegale, solo l’utilizzo personale è depenalizzato, ma comunque punito con sanzioni amministrative. Allo stesso modo opera il Regno Unito, dove nonostante un decremento negli ultimi anni (Hajarizadeh, Grebely and Dore, 2013), l’entità dell’abuso si rivela essere in linea con i dati europei (Roderick et al., 2018).

Gli Stati Uniti presentano uno status normativo diversificato in cui molti stati approvano l’uso medico, altri hanno legalizzato la cannabis a scopo ricreativo (Hasin, 2018). Il 20 giugno 2018 il parlamento canadese ha legalizzato l’uso della cannabis sia per l’uso terapeutico sia ricreativo consentendo anche una coltivazione minima.

In Asia le leggi sul consumo sono molto severe e prevedono il divieto di usare sostanze. Sono considerate reato tutte le attività collegate al consumo di marijuana come lo spaccio o il trasporto. Fanno eccezione Nepal, Laos, Cambogia, Indonesia, India dove l’uso è regolato e sanzionato, ma più tollerato.

Singolare la Corea del Nord dove il governo non considera la cannabis una droga e ne consente l’uso liberamente. Un’altra singolarità si nota in Uruguay, primo Stato al mondo che nel 2013 ha reso la marijuana monopolio di Stato legalizzando sia la coltivazione sia la vendita.

Tra gli stati europei, in Portogallo è legale il possesso di marijuana fino a 25 grammi e 5 di hashish, mentre nei Paesi Bassi è consentito il possesso fino a 5 grammi. Alcuni Stati come la Spagna e la Giamaica, che hanno legalizzato la coltivazione a scopo personale, limitano l’uso consentito di cannabis entro luoghi definiti rispettivamente social club e di culto, mentre la Repubblica Ceca consente il possesso fino a 15 grammi di marijuana. In altri stati come Belgio, Israele, Nuova Zelanda, Polonia, Francia l’uso resta illegale e punito anche con la reclusione. Questi Paesi mantengono comunque un’apertura verso i programmi di ricerca e l’efficacia medica.

L’esempio di un provvedimento che va oltre l’indicazione della quantità di “essenza” posseduta e indica il limite superiore di potenza della sostanza giunge dalla Svizzera dove anche se l’uso di cannabis è illegale, è posto un limite al contenuto di delta-9-tetraidrocannabinolo THC inferiore al 1%, per le piante di coltivazione propria (cannabis light).

Effetti della depenalizzazione

I risultati di uno studio recente che ha coinvolto alcuni stati negli USA (Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, Vermont e Maryland) riportano una riduzione del 75% della quantità di arresti correlati ai giovani abusatori di cannabis, con effetti analoghi osservati per gli adulti, a seguito della depenalizzazione. Inoltre, in diversi studi, la depenalizzazione non è stata associata ad alcun aumento del consumo totale di cannabis in alcun Stato preso in esame da questo studio. (Grucza et al., 2018)

Dalla letteratura si evince che in molti Paesi in cui è avvenuta la depenalizzazione della cannabis, la detenzione di modiche quantità che superano i grammi previsti viene penalizzata con sanzioni amministrative mentre si connota di rilevanza penale un comportamento plurirecidivo, la produzione e la commercializzazione.

In Italia, l’effetto del riesame delle pene previste dall’art. 73 DPR 309/90 (rivisitato nel 2014 a seguito sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale) ha contribuito alla diminuzione dei nuovi giunti in carcere e di quelli presenti. Si assiste quindi ad un lieve spostamento a favore dell’aspetto etico. Se consideriamo l’impatto che l’arresto di un individuo utilizzatore di sostanze può avere sulla sua salute, sulle conseguenze della perdita del lavoro o conseguenze più gravi come la detenzione in carcere, non si può sottovalutare che un quarto della popolazione carceraria è composta da detenuti tossicodipendenti e per la quasi totalità di genere maschile.

La legalizzazione della cannabis consentirebbe invece di superare i limiti quantitativi di sostanza detenuta e di abbattere il mercato commerciale con l’interruzione del circolo vizioso domanda/offerta.

Assunzione di cannabis e trend stabile

La depenalizzazione ha portato a un decremento della criminalizzazione e ad una maggiore enfasi del valore etico favorendo la scelta personale di usare sostanze illecite o lecite (come il fumo delle sigarette e l’alcol). Allo stesso modo, la depenalizzazione ha mantenuto stabili gli indici di abuso sia per gli adulti sia per gli adolescenti, senza spostamenti significativi. Si osserva infatti che nonostante gli sforzi normativi l’entità del fenomeno resta nelle sue proporzioni (rapporto mondiale dell’ONU del 2017 sulle droghe), poiché il 3,8% della popolazione mondiale ha assunto cannabis nell’ultimo anno, mostrando una percentuale pressoché invariata rispetto l’ultimo decennio (UNODOC 2017).

Dati associati all’uso e all’abuso

L’uso di sostanze con proprietà psicotrope illegali viene sperimentato da un terzo della popolazione italiana almeno una volta nell’arco della vita.

Il fenomeno dell’abuso si è considerevolmente ampliato tra i giovani adolescenti. Infatti, l’abuso di sostanze è notevolmente aumentato negli ultimi anni e l’età del primo utilizzo di sostanze è drasticamente diminuita. Si stima una percentuale quasi del 45% di consumatori tra i 15 e i 34 anni. A volte l’“esperimento” del primo utilizzo non rimane unico, più di un terzo infatti ripete l’esperienza 10 o più volte con effetti prevedibili verso la dipendenza (Politiche Antidroga, 2017). Poco più di questi ultimi ha utilizzato almeno una volta nuove sostanze psicoattive. Questo fenomeno viene definito “gateway drug”, e indica come l’uso di cannabis costituisca un primo punto in una serie di eventi che conduce al consumo di sostanze composte da elementi chimici più potenti e nocivi rispetto alla cannabis. A tal proposito si riferisce l’osservazione di molti eroinomani che hanno assunto marjuana prima dell’eroina. È però vero che la sperimentazione di nuove droghe è spesso sollecitata dallo spacciatore, per assicurare che vengano assunte sostanze che causano maggiore dipendenza.

Tuttavia è importante ricordare che l’ipotesi della gateway drug non è stata comprovata da dati statistici mentre ci sono studi che suggeriscono come la sequenza inizi con droghe legali (quali alcol e tabacco) e poi continui con sostanze illegali (Kandel and Kandel n.d.).

Mentre altre ipotesi suggeriscono sequenze alternative come la probabilità di iniziare a usare marijuana prima e poi alcol o tabacco dipenda molto da fattori demografici come il sesso, età e l’etnia. Tuttavia, iniziare con la marijuana può aumentare la probabilità di uso pesante e problematico della stessa (Fairman, Debra Furr-Holden and Johnson, 2018).

In Italia, l’allarme per la comparsa di 43 nuove sostanze psicoattive segnalate ha sensibilizzato il Sistema Nazionale di Allerta Precoce poiché tra le sostanze che vengono sequestrate si registra un’enorme varietà di principio attivo di delta-9-tetraidrocannabinolo (THC). Si calcola che il 14% della popolazione studentesca italiana sono policonsumatori mentre per poco meno di un quarto di questa, il livello di abuso viene raccomandato come problematico (Politiche Antidroga, 2017).

Rischio di sviluppare abuso e dipendenza da cannabis

Studi recenti indicano l’abuso di cannabis durante l’adolescenza come precursore del rischio elevato a sviluppare sintomi di dipendenza in età adulta (Rioux et al,. 2018)

L’influenza della cannabis viene solitamente valutata in base alle concentrazioni di THC, uno dei maggiori e più noti principi attivi, considerato il più esemplare della famiglia dei fitocannabinoidi. (D’Souza et al., 2004)

Il sistema endocannabinoide è costituito da specifici recettori contenuti nelle cellule del corpo umano. Gli endocannabinoidi sono una classe di lipidi bioattivi che condividono la capacità di legarsi ai recettori cannabinoidi, i medesimi con cui lavorano i fitocannabinoidi.

I cannabinoidi sono diversi, in ordine temporale di identificazione sono: l’anandamide (AEA), seguito dal 2-arachidonoilglicerolo (2-AG) e da almeno altri tre cannabinoidi endogeni: il 2-arachidonil-gliceril-etere (noladin, 2-AGE), uno strutturale affine del 2-AG, la virodamina e la N-arachidonoildopamina (NADA). Più recente è il palmitoiletanolamide (PEA).
Tali mediatori lipidici, unitamente con i recettori dei cannabinoidi e i processi di sintesi collegati, il trasporto e la degradazione, rappresentano il sistema endocannabinoide. Questo sistema regola le sinapsi inibitorie ed eccitatorie. Il suo ruolo è attivo sin dalle fasi iniziali dello sviluppo e durante l’adolescenza, l’esposizione ai cannabinoidi esogeni può favorire una maggiore vulnerabilità ed esiti avversi a lungo termine sul rimodellamento cerebrale e sviluppo corticale, alla corteccia somatosensoriale e prefrontale.

Molte ricerche scientifiche evidenziano come l’uso di cannabis ad alta concentrazione di THC sia predittivo di esordi psicotici. (Freeman and Winstock, 2015; Colizzi and Murray, 2018; Minică et al., 2018; Gage, Hickman and Zammit, 2016; Davies, Sullivan and Zammit, 2018).

Tuttavia, la pianta di cannabis contiene molti altri cannabinoidi, nello specifico il cannabidiolo (CBD). insieme ad altre sostanze chimiche delle piante conosciute come terpenoidi, contribuiscono alla potenza moderando gli effetti del THC. La potenziale attività del CBD favorisce risultati terapeutici diversi sia in età infantile e sia in adulta nel trattamento delle patologie neurologiche e psichiatriche (Schonhofen et al., 2018; Mandolini et al., 2018).

Cura e prevenzione

Interessante notare come negli Stati Uniti dal 2004 al 2011 le visite ambulatoriali sono notevolmente aumentate per adolescenti (12-17 anni) che fanno uso di cannabis, rispetto ai ricoveri ospedalieri connessi alla droga per giovani adulti (21-24 anni) che usano cannabis e altri farmaci. Si osserva che il numero dei ricoveri cresce all’aumentare dell’età (Zhu and Wu, 2016), mentre si evidenzia una prevalenza di abuso maggiore per gli uomini (3,5%) rispetto alle donne (Kerridge et al., 2018).

Nel 2016 in Italia sono stati registrati circa 730 casi di ricoveri ospedalieri correlati alla cannabis a fronte di 6.083 che hanno interessato indistintamente tutte le droghe. Di questi ultimi, la punta dell’iceberg è rappresentata da soggetti di età compresa tra 25 e 44 anni, mentre viene segnalato trend significativamente crescente per le fasce di età comprese tra i 15 e 24 anni e tra i 45 e i 54 anni (Politiche Antidroga, 2017).

Esaminando la letteratura si evince un’ampia descrizione delle cause determinanti l’abuso di cannabis e sembrano condividere antecedenti comuni legati a varie forme come: avversità nell’infanzia, fattori relativi al gruppo dei pari e condizioni familiari. (Farmer et al., 2015).

Nello stesso tempo, gli effetti causali dell’abuso, indipendenti da questi fattori, determinano traiettorie di vita che implicano esiti negativi dal punto di vista psicofisico e psicosociale (Lynskey and Hall, 2000). Altri studi evidenziano la relazione tra a dipendenza da cannabis e la componente genetica che può sovrapporsi ai disturbi psichiatrici (Authier et al., 2003; Minică et al., 2018). Altri studi hanno considerato l’effetto devastante dell’abuso di sostanze sia a livello strutturale sia metabolico in caso d associazione alla patologia psichiatrica come il disturbo bipolare (Altamura et al., 2017).

Prevenzione e supporto

Tra le indicazioni del Piano di Azione Nazionale (PAN) sulle Droghe un forte accento viene posto sulla prevenzione in ambito scolastico con l’obiettivo prioritario di aumentare il livello di informazione sui rischi correlati al consumo di sostanze e garantire agli adolescenti, non aderenti a regime medico, lo sviluppo di abilità sociali e di life-skills attraverso progetti ampiamente diffusi.

I fattori alla base dell’impegno sportivo nell’età evolutiva

I giovani atleti passano gran parte del loro tempo libero nel contesto sportivo, dove si sottopongono ad attività estremamente impegnative dal punto di vista psicofisico (allenamento, ansia per la prestazione ecc.) è per questo importante indagare quali fattori li motivano e li tengono ingaggiati nelle diverse attività.

 

Diversi studi hanno messo in evidenza la stretta correlazione che esiste fra lo stile relazionale dell’allenatore e il provare piacere e benessere dall’esperienza sportiva da parte dei giovani atleti. È fondamentale stabilire quali possono essere i fattori che incrementano e fanno persistere l’impegno in una pratica sportiva nell’età evolutiva, visto il dilagare della vita sedentaria e del conseguente sovrappeso e obesità nelle giovani generazioni. Queste variabili sono lo stile relazionale dell’allenatore, che deve essere finalizzato a far acquisire il senso dell’autonomia, la percezione dell’autodeterminazione delle proprie azioni di gioco e la sensazione di benessere derivante dalla pratica sportiva.

Keywords: stile relazionale dell’allenatore, sport, età evolutiva, benessere.

Attualmente diversi studi (Duda, 2013; Reynolds e McDonough, 2015) hanno messo in evidenza la stretta correlazione che esiste fra lo stile relazionale dell’allenatore e il provare piacere e benessere dall’esperienza sportiva da parte dei giovani atleti. È fondamentale stabilire quali possono essere i fattori che incrementano e fanno persistere l’impegno in una pratica sportiva nell’età evolutiva, visto il dilagare della vita sedentaria e del conseguente sovrappeso e obesità nelle giovani generazioni (Bangsbo e al., 2016).

Importante, da questo punto di vista, è la motivazione che spinge i ragazzi ad impegnarsi nella pratica sportiva. Molte ricerche hanno avuto come focus concettuale da esplorare proprio i fattori motivazionali e i legami che si creano fra essi, lo stile relazionale dell’allenatore e il benessere percepito dai giovani sportivi (Mageau e Vallerand, 2003; Duda e Balaguer, 2007; Duda e al., 2018).

Fra le diverse componenti individuate, sembra che un ruolo di rilievo lo rivesta la figura dell’allenatore, che deve incrementare l’acquisizione dell’autonomia nei suoi piccoli allievi (Ryan e Deci, 2017). In altre parole, più il coach alimenta l’autodeterminazione e, quindi, l’autonomia nei giovani giocatori e più essi ricavano delle emozioni positive dalla pratica sportiva, che divengono il paradigma fondante del benessere percepito e del proseguimento dell’impegno sportivo (Adie e al., 2012; Gonzales e al., 2016).

Di capitale importanza è proprio il benessere vissuto, in quanto tale esperienza consente di superare l’impegno che la pratica sportiva, seppure a livello amatoriale, comporta. Ci si riferisce al fatto che i giovani atleti passano gran parte del loro tempo libero nel contesto sportivo, dove si sottopongono ad attività estremamente impegnative dal punto di vista psicofisico (allenamento, ansia per la prestazione ecc.).

Il costrutto di benessere, derivante dalla pratica sportiva, è stato esplorato da diverse angolazioni, che hanno avuto lo scopo di qualificarlo cognitivamente (Balaguer e al., 2018). La sensazione di benessere in ambito sportivo si collega ad una cognizione, ovvero il pensare di essere artefice delle proprie azioni di gioco, percepite come frutto del proprio impegno e della propria forma fisica (Ryan e Deci, 2000). La percezione della forma fisica è legata ad un altro costrutto, che è rappresentato dalla vitalità. In pratica, nello sport la persona pensa di poter essere in grado di compiere fisicamente un’azione di gioco nella misura in cui si sente vitale. In accordo con Ryan e Frederick (1997), si può definire la vitalità come l’esperienza cosciente di possedere energia e vigore.

In conclusione, i ragazzi persistono nel loro impegno sportivo, una volta cominciato, grazie ad una serie di fattori, ovvero lo stile relazionale dell’allenatore, che deve essere finalizzato a far acquisire il senso dell’autonomia, la percezione dell’autodeterminazione delle proprie azioni di gioco e la sensazione di benessere derivante dalla pratica sportiva.

Liking gap: ecco perché temiamo di non piacere molto agli altri

Conversando con nuove persone i nostri interlocutori godono della nostra compagnia più di quanto immaginiamo, tuttavia la maggior parte di noi pensa di non fare una bella impressione: i ricercatori chiamano questo fenomeno Liking Gap. Cerchiamo di capire perchè ciò avviene.

 

Nella vita sociale siamo costantemente impegnati in quel processo che viene chiamato “meta-percezione”, ovvero nella percezione di come gli altri ci vedono.

Liking Gap: lo studio

Un team di ricercatori ha definito questo fenomeno Liking Gap:

La nostra ricerca suggerisce che stimare con precisione quanto si piaccia a un nuovo interlocutore, anche se questa è una parte fondamentale della vita sociale e qualcosa di cui abbiamo ampia esperienza, è un compito molto più difficile di quello che immaginiamo.

I ricercatori hanno formato coppie di partecipanti che non si erano mai incontrati prima e li hanno incaricati di svolgere una conversazione di 5 minuti con domande rompighiaccio (ad esempio: Da dove vieni? Quali sono i tuoi hobby?). Al termine della conversazione, i partecipanti hanno valutato quanto apprezzassero il loro interlocutore e quanto pensassero che il loro interlocutore li avesse apprezzati.

Liking Gap: gli altri ci apprezzano di più di quello che pensiamo

Le valutazioni hanno dimostrato che i partecipanti hanno apprezzato il loro partner più di quanto questo pensasse, a prescindere dalla lunghezza delle conversazioni. Dalle analisi delle registrazioni video si evince che i partecipanti non si rendevano conto dei segnali comportamentali dei loro partner che indicavano interesse e divertimento, commettendo un errore di stima.

I partecipanti hanno in seguito riflettuto sulle conversazioni avute in base alle valutazioni ricevute: hanno creduto che i momenti salienti che hanno modellato i pensieri del loro partner su di loro fossero più negativi dei momenti che hanno modellato i loro propri pensieri sul partner.

Sembrano essere troppo presi dalle proprie preoccupazioni su ciò che dovrebbero dire, e questo gli impedisce di vedere i segnali di gradimento, visibili chiaramente invece dagli osservatori esterni.

Le persone sono spesso titubanti, incerte sull’impressione che stanno facendo sugli altri ed eccessivamente critiche nei confronti delle proprie prestazioni

affermano Boothby e Cooney.

Alla luce del grande ottimismo della gente in altri settori, quali intelligenza e capacità di guida, il pessimismo delle persone riguardo alle loro conversazioni è sorprendente!

I ricercatori ipotizzano che questa differenza possa discendere nel contesto in cui effettuiamo queste autovalutazioni. Quando c’è un’altra persona coinvolta, come un partner di conversazione, potremmo essere più cauti e autocritici rispetto a situazioni in cui valutiamo le nostre qualità senza altre fonti di feedback.

Siamo auto-protettivamente pessimisti e non vogliamo assumere che gli altri ci piacciano prima di scoprire se è proprio vero – ha detto Clark.

Gli autori ritengono che il Liking Gap può ostacolare la nostra capacità di sviluppare nuove relazioni, per questo ritengono importante portare avanti questo studio.

Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio (2018): come raccontare la malattia oncologica ai più piccoli? – Recensione del libro

La realizzazione del libro Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio rientra in un progetto, denominato “La malattia spiegata a mio figlio” ideato e realizzato, presso l’UOSC di Ematologia Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Napoli Fondazione G. Pascale.

 

Ci sono cose di cui è molto difficile parlare. Il tumore è una di queste. E se l’interlocutore a cui ci rivolgiamo è un bambino? Come si fa a spiegare a un bambino che il genitore si è ammalato e che deve curarsi?

Spesso noi adulti ci sentiamo impreparati e preferiamo tacere, nell’illusione di proteggere il bimbo da una realtà dolorosa e incomprensibile. Se, invece, ci fosse un modo per parlare di malattia oncologica, un modo a misura di bambino?

Il libro illustrato Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio prova a spiegare quello che sta succedendo. Con parole semplici, facendo attenzione all’emotività e alla sensibilità del bambino, viene detto al piccolo lettore che il papà ha una malattia particolare.

Per guarire da quella che viene chiamata “la malattia del papà” servono cure speciali, che si possono fare solo in ospedale; vengono illustrati in modo chiaro e veritiero, ma al tempo stesso delicato, gli effetti collaterali della chemioterapia, calando un evento tanto tremendo e fuori dall’ordinario come è la malattia oncologica nella quotidianità, per rassicurare il bimbo, accogliendo le sue emozioni e le sue paure.

Qual è l’obiettivo di questo libro?

La realizzazione del libro Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio rientra in un progetto, denominato “La malattia spiegata a mio figlio” ideato e realizzato, presso l’UOSC di Ematologia Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Napoli Fondazione G. Pascale, dalle psico-oncologhe Gabriella De Benedetta e Silvia D’Ovidio e dal direttore, il medico ematologo Antonio Pinto.

Il libro Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio mantiene i testi e le belle illustrazioni create dal fumettista Sergio Staino già presenti nel precedente Mamma Uovo. La malattia spiegata a mio figlio, pubblicato nel 2015.

È importante, anche se è tutt’altro che facile, riuscire a trovare il modo più opportuno per comunicare ai bambini quello che sta succedendo al genitore; se tacere potrebbe, a prima vista, sembrare la scelta migliore – per evitare di coinvolgere il bambino in ansie e preoccupazioni “da grandi” – di fatto, al contrario, l’impossibilità di parlare di quello che sta succedendo non fa che aumentare la difficoltà e l’isolamento, rendendo la situazione più difficile da affrontare di quanto già non sia.

Il progetto “La malattia spiegata a mio figlio” ha dato vita anche ad un cartone animato, che prende per mano lo spettatore e gli parla in modo dolce, in modo che possa comprendere, guardando alla malattia oncologica con gli occhi di un bambino. Uno sguardo sul mondo che aiuta anche noi adulti a ritrovare, nonostante il tema così doloroso, la leggerezza e la speranza.

Brevi riflessioni sul caso Dora di Sigmund Freud – Un articolo di Giancarlo Dimaggio

Stanley Kubrick si è mai chiesto se mettere in scena Doppio Sogno di Schnitzler, o Il caso Dora di Freud? Avrebbe comunque girato un gran film. Un racconto potente, torbido, sensuale: “La casa era in fiamme; mio padre, in piedi accanto al mio letto, mi diceva di alzarmi; mi vestii in fretta”.

Articolo scritto da Giancarlo Dimaggio per il Corriere della Sera il 25/08/18

 

Un sogno, una finestra su un quadrilatero amoroso sghembo, malato, perverso e quindi avvincente. Il padre di Dora ha una relazione con la signora K. Il signor K. di suo tenta di sedurre Dora quattordicenne.

Dora si presenta con sintomi isterici: afonia, tosse nervosa, emicrania. Si annoia. L’analisi fallì. Malgrado questo Freud ci costruì sopra teorie che purtroppo hanno rallentato il progresso della psicoterapia. Pierre Janet prima e Freud stesso fino ad allora attribuivano i sintomi isterici a eventi traumatici reali. Oggi sappiamo che è così e curiamo i pazienti di conseguenza. Freud invece insistette sulle fantasie sessuali di Dora, che immaginava necessariamente eccitata dalla corte del signor K. I sintomi isterici per lui nascevano da lì. Sono stati necessari decenni per tornare all’origine traumatica della sofferenza psichica. Oggi un terapeuta si concentrerebbe sull’impatto che la freddezza affettiva della madre e il comportamento ambiguo del padre avevano sulla ragazza. Cercherebbe di farle capire che i sintomi nascevano da motivi sensati: sei afona, non hai voce e chi non ha voce è perché sa che non viene ascoltato.

Eppure c’era del genio, me lo dice il mio amico Francesco Gazzillo, psicoanalista acuto. Il lavoro sui sogni: indagarli, perché offrono tracce del funzionamento intrapsichico e relazionale. Grande idea. E poi Freud capì che quello che chiamiamo transfert, ovvero il modo in cui il paziente vede il terapeuta, dipende sì dalla storia del paziente, dai suoi schemi relazionali. Ma in parte dalle caratteristiche reali del terapeuta. Siamo terapeuti ma anche umani, con la nostra storia e la nostra posizione del mondo. I pazienti si confrontano con questo.

Cannabis: come impatta sulle funzioni cognitive degli adolescenti

Un dato preoccupante presente in letteratura fa riferimento all’elevato tasso di utilizzo di droghe tra i giovani. La maggiore facilità attraverso cui è possibile reperire tali sostanze è accompagnata a un utilizzo sempre più precoce.

 

Nel 2017, il rapporto dell’Agenzia europea delle droghe ha pubblicato i dati relativi alle tossicodipendenze nel suo consueto rapporto annuale, relativo al 2015. Dai dati è emerso che il 19% dei ragazzi italiani, dunque quasi uno su cinque, ha fatto uso di cannabis nel corso degli ultimi dodici mesi: una percentuale inferiore solo a quella della Francia, che ha registrato il 22,1% di consumo nello stesso intervallo di età.

Sebbene molti studi abbiano evidenziato la correlazione esistente tra l’uso di cannabis e alcol e una maggiore compromissione dei processi cognitivi, un nuovo studio dei ricercatori di CHU Sainte-Justine e dell’Université de Montréal, pubblicato sull’American Journal of Psychiatry, ha sottolineato la relazione causale tra l’utilizzo di cannabis e i danni a carico di diverse funzioni cognitive. In più, secondo i ricercatori, gli effetti di questa sostanza sulle funzioni cognitive sono più pronunciati rispetto a quelli osservati per l’uso di alcol.

Cannabis e funzioni cognitive negli adolescenti: la ricerca

Lo studio ha preso in considerazione un ampio numero di studenti canadesi delle scuole superiori, precisamente 3.826, che sono stati suddivisi in tre gruppi: astinente, consumatore occasionale, consumatore abituale. Per comprendere la relazione tra alcol, uso di cannabis e sviluppo cognitivo tra gli adolescenti a tutti e tre i livelli di consumo, i ricercatori hanno seguito il campione di adolescenti per un periodo di quattro anni. Gli autori hanno studiato le variazioni durante gli anni nell’uso di sostanze in relazione allo sviluppo cognitivo. In particolare, i domini cognitivi presi in considerazione dai ricercatori erano: memoria di lavoro, ragionamento percettivo, controllo inibitorio, qualità del ricordo.

Cannabis e funzioni cognitive negli adolescenti: i risultati

Lo studio ha rilevato che l’utilizzo di cannabis e di alcol in adolescenza era associato a prestazioni generalmente inferiori su tutti i domini cognitivi presi in esame.

Tuttavia, Conrod ha messo in evidenza che l’aumento, negli anni, dell’uso di cannabis, al netto del consumo di alcol, comporta una compromissione delle stesse funzioni cognitive.

L’autore ha aggiunto:

Particolarmente preoccupante è stata la scoperta che l’uso di cannabis era associato a una compromissione duratura del controllo inibitorio. Questa relazione potrebbe spiegare perché l’uso precoce della sostanza è un fattore di rischio per altre dipendenze.

Infine, Morin ha aggiunto:

Alcuni di questi effetti sono ancora più pronunciati quando il consumo di cannabis inizia prima dell’adolescenza.

Questa ricerca sottolinea l’importanza di mettere in atto delle politiche di prevenzione nei contesti scolastici e sportivi, e una maggiore sensibilizzazione rivolta alle famiglie, rispetto ai danni che derivano dall’utilizzo della cannabis, ma anche di altre sostanze.

 

Mutismo Selettivo: caratteristiche generali, diagnosi e trattamento

Che cos’è il mutismo selettivo? Quali sono le sue caratteristiche? Che cosa comporta questo disturbo? E se fosse solo timidezza? Il mutismo selettivo è un comportamento oppositivo? Come si può intervenire?

 

Ottobre è il mese della sensibilizzazione sul mutismo selettivo, un disturbo caratterizzato dall’incapacità di parlare in determinate situazioni sociali nonostante lo sviluppo del linguaggio sia normale. Il disturbo è diffuso prevalentemente in età infantile ma può essere presente anche in età adulta. Riconoscere il disturbo, collaborare con la scuola e chiedere aiuto ad uno specialista qualificato sono elementi essenziali per aiutare il bambino.

Mutismo selettivo: definizione

Il mutismo selettivo (MS) è un disturbo d’ansia che impedisce al bambino di esprimersi attraverso una normale verbalizzazione: la caratteristica principale del disturbo è la costante incapacità di parlare in situazioni sociali nelle quali ci si aspetta che l’eloquio sia presente se pur questo sia normale e avvenga liberamente in altri contesti considerati familiari.

Il termine “selettivo” indica che il bambino riesce ad esprimersi solo con determinate persone delle quali si fida e in alcune circostanze nelle quali si sente sereno (solitamente l’ambiente familiare) ma mostra difficoltà in ambienti sociali in cui non si sente a proprio agio (in particolar modo nel contesto scolastico poiché è il luogo principale in cui il bambino è esposto a frequenti domande e richieste di prestazione). La selezione degli interlocutori può essere più o meno ampia fino ad arrivare anche ad un solo genitore.

Il grado di persistenza è variabile: può verificarsi per alcuni mesi oppure mantenersi per diversi anni. Una remissione completa del disturbo è presente nella maggior parte dei casi, tuttavia possono permanere difficoltà comunicative e relazionali.

Mutismo selettivo: storia e classificazione

I primi studi risalgono alla seconda metà dell’800 quando Kussmaul pubblicò un resoconto su tre soggetti incapaci di parlare in determinate situazioni pur avendone le capacità, definendolo con il termine “afasia volontaria” pensando quindi fosse causato da una decisione del soggetto. Tramer nel 1934 introduce per la prima volta il termine di “mutismo elettivo” per indicare la scelta del bambino che pur sapendo parlare rimaneva in silenzio; è solo nel 1983 con Hasselman che si inizia a parlare di “mutismo selettivo” per indicare la condizione del bambino incapace di esprimersi solo in determinate circostanze in risposta ad un ambiente vissuto come pauroso.

I primi manuali diagnostici DSM III-R e ICD 10 descrivono il disturbo come un persistente rifiuto di parlare da parte del bambino; nel DSM IV e nel DSM IV-TR il silenzio viene invece concettualizzato come “incapacità” di parlare. La vera rivoluzione è rappresentata dall’ultima versione del manuale americano (DSM 5) che elimina il disturbo dalla sezione “Altri disturbi dell’Infanzia, della fanciullezza o dell’adolescenza” inserendolo nella sezione “Disturbi d’ansia” in seguito alle diverse evidenze scientifiche che identificano l’ansia come una delle caratteristiche principali all’interno del quadro clinico del disturbo.

Mutismo selettivo: diffusione

Il Mutismo Selettivo è un disturbo relativamente raro: il tasso di prevalenza nei bambini oscilla tra lo 0,2% e lo 0,8% anche se negli ultimi anni la percentuale sembra in aumento. La difficoltà a stabilire con precisione una stima è dovuta alla mancanza di un modello univoco circa le cause e gli strumenti di valutazione.

Il disturbo si presenta in prevalenza nel sesso femminile probabilmente perché le bambine sono più inclini all’ansia, con un rapporto femmine-maschi di 2:1, rappresentando un’eccezione rispetto agli altri disturbi dell’età evolutiva nei quali si riscontra una prevalenza del sesso maschile.

Il Mutismo Selettivo ha un esordio precoce, tra i 2 e i 4 anni infatti emergono i primi sintomi quali timidezza, rifiuto di parlare in certe situazioni e comportamento riservato. Il disturbo è riconoscibile in modo chiaro solamente quando il bambino inizia a frequentare la scuola materna o la primaria poiché questi tendenzialmente rappresentano i primi contesti al di fuori dell’ambiente familiare in cui il bambino deve parlare.

Mutismo selettivo: cause e disturbi correlati

Le cause responsabili del Mutismo Selettivo sono ad oggi poco chiare poiché le spiegazioni presenti in letteratura sono varie e ampiamente diversificate. L’ipotesi più accreditata è che il disturbo sia una condizione eterogenea determinate da diversi fattori, in primis fattori genetici e ambientali.

Secondo il modello bio-psico-sociale, l’evidenza di tratti temperamentali costanti nei bambini con Mutismo Selettivo e la presenza di tratti simili nei genitori porta ad ipotizzare un ruolo dei fattori neurobiologici e genetico-familiari all’origine del disturbo. Accanto all’ipotesi neurobiologica risulta di fondamentale importanza il ruolo dei fattori psicologici e sociali, tuttavia contrariamente a quanto si potrebbe pensare ricerche recenti non supportano l’idea secondo la quale esperienze traumatiche vissute dai bambini siano da considerarsi potenziale causa d’insorgenza del disturbo. Un potenziale fattore di rischio è rappresentato dalla migrazione del nucleo familiare: il rischio di sviluppare la patologia in questi bambini è tre volte superiore rispetto alla popolazione nativa, tuttavia in questi casi la diagnosi è più complessa perché un periodo caratterizzato dall’assenza di comunicazione verbale è tipico in questi bambini.

Diversi modelli psicologici hanno cercato di rintracciare le cause del disturbo: secondo il modello psicodinamico l’origine del Mutismo Selettivo è da ricondursi a problematiche nell’ambito dell’oralità in rapporto ad un rigido legame con la madre. La prospettiva sistemico familiare dal canto suo chiama in causa rapporti familiari difficili, attribuendo grande peso alla relazione genitore-figlio. Il modello psicologico ad oggi maggiormente diffuso è quello cognitivo-comportamentale che vede il disturbo come il risultato di esperienze di apprendimento rinforzate negativamente: il silenzio è utilizzato come strumento per controllare e gestire l’ansia.

Il Mutismo Selettivo presenta diverse manifestazioni correlate ad altri disturbi dello sviluppo: alcuni soggetti presentano disturbi specifici o ritardi del linguaggio mentre altre ricerche hanno riscontrato difficoltà nella coordinazione motoria genarle e in quella manuale nonché deficit di processazione uditiva. La nuova categorizzazione diagnostica suggerisce comorbilità con i disturbi internalizzanti, in particolar modo la sintomatologia ansiosa risulta essere il pattern di disturbi maggiormente correlato.

Caratteristiche dei bambini con mutismo selettivo

L’idea comune a chi si trova di fronte ad un bambino selettivamente muto è che il suo comportamento sia provocatorio e di sfida, tuttavia è di fondamentale importanza comprendere che l’assenza della parola è dettata da un elevato livello d’ansia e una conseguente paura che il bambino riesce a controllare solamente tacendo.

Questi bambini sono consapevoli della loro difficoltà, provando molta sofferenza e frustrazione perché desiderano fortemente riuscire a parlare e giocare con gli amici. A causa della forte paura che le interazioni sociali suscitano in questi bambini le loro espressioni facciali risultano inespressive, vi è difficoltà a mantenere il contatto visivo con l’interlocutore e elevata sensibilità per l’ambiente circostante. Il linguaggio del corpo è impacciato e goffo quando si rivolge loro attenzione, è tipico di questi bambini voltare la testa o guardare a terra durante una conversazione, toccarsi i capelli (segnale di un elevato livello di ansia) oppure nascondersi.

Molto spesso i bambini lamentano sintomi fisici quali: mal di stomaco, mal di testa, nausea, manifestazioni di pianto o di collera; con l’aumentare dell’età i sintomi si modificano in palpitazioni cardiache, svenimenti, tremori e eccessiva sudorazione. A scuola molti bambini hanno difficoltà a chiedere di andare al bagno e a mangiare: i bambini rifiutano di nutrirsi, nascondono il cibo o attendono che i compagni abbiano terminato il pranzo e se ne siano andati.

Mutismo selettivo: valutazione diagnostica

La valutazione deve essere compiuta nel modo più completo possibile, ricorrendo ad un approccio diagnostico multimodale e considerando i possibili fattori di comorbilità. Compiere un’anamnesi dettagliata della storia di vita del bambino appare fondamentale perché alcuni segnali di allarme del disturbo possono essere rintracciati durante lo sviluppo: fattori biologici-temperamentali (difficoltà di addormentamento, disturbi del sonno, irrequietezza), fattori cognitivi-affettivi (vulnerabilità, vergogna) e fattori socio-culturali e familiari (stile educativo ansioso, scarse competenze sociali della famiglia).

Il primo passo da compiere è un colloquio approfondito con i genitori a cui seguirà l’incontro con il bambino. In questa fase l’osservazione dei disegni, del gioco libero e del linguaggio corporeo risulta molto utile. Uno strumento utile per valutare la capacità di comunicazione del bambino è la Selective Mutism Stages Communication Comfort Scale. La scala illustra in 3 livelli le diverse fasi che conducono alla comunicazione verbale. Al fine di attuare un intervento e valutarne i progressi è necessario collocare il bambino all’interno di uno di questi livelli.

Il clinico deve compiere un’analisi funzionale del comportamento del bambino per giungere alla formulazione di un percorso di trattamento il più idoneo possibile al bambino e all’ambiente in cui vive. Ciò che si può affermare con certezza è che quanto prima il disturbo viene diagnosticato e trattato nel modo corretto tanto maggiore sarà la possibilità di superare il problema.

Mutismo selettivo: il trattamento

Trovare un trattamento valido per tutti i bambini è un’impresa quasi impossibile, ogni bambino rappresenta un caso particolare e il trattamento deve essere individualizzato.

Sul versante della psicoterapia, negli ultimi anni l’approccio più citato in letteratura è sicuramente quello cognitivo-comportamentale. In questo caso lo scopo è quello di diminuire i livelli di ansia e incrementare la verbalizzazione. Le tecniche maggiormente utilizzate sono quelli di stampo comportamentale, visto che si lavora nella maggior parte di casi con bambini, spesso coinvolgendo anche altre figure significativi quali le insegnanti.

La terapia psicoanalitica sembra essere il trattamento più adatto per bambini in età prescolare (3-5 anni) perché utilizza primariamente come strumenti d’indagine il disegno e il gioco.

In alcuni casi, il supporto psicologico messo in atto precocemente solo con la coppia genitoriale si rivela molto utile conducendo ad ottimi risultati.

Recenti studi suggeriscono l’idea di considerare il trattamento farmacologico in aggiunta a quello terapeutico nel caso in cui quest’ultimo non conduca a risultati evidenti. I farmaci di prima scelta nel trattamento del MS sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), comunemente usati nel trattamento di disturbi d’ansia e dell’umore. Il meccanismo grazie al quale questi farmaci producono miglioramenti in questo disturbo non ad oggi del tutto chiaro, ad ogni modo sembrerebbero ridurre i livelli d’ansia provati dal bambino rendendo più facile il trattamento terapeutico.

Mutismo selettivo: il ruolo della famiglia e della scuola

Famiglia e scuola rappresentano i due ambienti principali in cui il bambino vive, affinché si possa realizzare un intervento efficace la psicoeducazione dei genitori e degli insegnanti è fondamentale.

Nella maggior parte dei casi, i bambini selettivamente muti intrattengono una normale conversazione nell’ambiente domestico provocando confusione nei genitori posti davanti al mutismo dei figli negli altri contesti. I genitori e i famigliari devono capire e accettare il disturbo, evitando di focalizzare l’attenzione sulla mancanza della parola. È necessario che i genitori comprendano il disagio del figlio e mettano in atto strategie per diminuire lo stato ansioso: avere una routine fissa può essere d’aiuto a questi bambini soprattutto in momenti particolari della giornata come la mattina prima della scuola. Per aiutare i propri figli i genitori dovrebbero incoraggiare le interazioni sociali, magari organizzando incontri con l’amico di scuola con cui il bambino si trova più a suo agio.

La scuola rappresenta per i bambini con MS un luogo in cui si sentono moto a disagio. Le maestre non devono forzare i bambini a parlare, ai docenti è richiesta una grande attenzione e preparazione nel saper cogliere i segnali di malessere del bambino. La maestra deve essere comprensiva e disponibile e permettere la comunicazione non verbale; è possibile e necessario valutare le conoscenze apprese come qualsiasi altro alunno ricordando però che l’ansia influenza la prestazione scolastica: è consigliabile utilizzare test non verbali senza limiti di tempo durante lo svolgimento delle prove di verifica.

Mutismo selettivo in età adulta

La maggior parte delle volte il mutismo selettivo si risolve prima dell’età adulta, tuttavia ci sono casi in cui il disturbo continua in adolescenza e oltre.

Un adolescente muto selettivo quasi certamente convive con il disturbo da molti anni nel corso dei quali ha sviluppato e rinforzato meccanismi di comportamento errato per gestire l’ansia, affrontando ogni situazione ansiogena con il silenzio. A differenza dei bambini più piccoli, i ragazzi con mutismo selettivo sono pienamente consapevoli della loro situazione e nel corso degli anni hanno imparato a mascherare i segnali d’ansia. I vissuti di questi ragazzi sono caratterizzati per la maggior parte da isolamento e solitudine.

Poca considerazione è stata riservata alla presenza del disturbo in età adulta. Dall’analisi dei dati presenti non è possibile ottenere una stima dell’incidenza del disturbo riferita a quest’età, si può ipotizzare però che la diffusione negli adulti sia inferiore all’1% in quanto, generalmente, il disturbo presenta completa risoluzione nell’infanzia. In linea generale si può affermare che soggetti adulta con una storia presente o passata di mutismo selettivo presentano disturbi principalmente legati alla sintomatologia ansiosa, in particolar modo disturbo d’ansia sociale e difficoltà relazionali.

 

Interazione Uomo-Robot e la Teoria della Mente – VIDEO

I robot, uscendo dalle fabbriche e interagendo con le persone ci hanno dato un nuovo modo di interpretare – non solo le relazioni ma – l’intera psicologia. Un campo emergente denominato Interazione Uomo-Robot (HRI) ci illumina sui meccanismi relazionali rispondendo alle domande più complesse: perché siamo portati a trattare il robot come un nostro simile, provvisto di emozioni e di una mente? Nel video ce lo spiega il dott. Claudio Lombardo

 

 

La robotica: cos’è un Robot e cosa può fare?

Ripensare la natura della cognizione: l’importanza del corpo in robotica

Tra von Neuman e Turing: verso la complessità computazionale. Le coordinate scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero

Perchè abbiamo paura dei robot? L’antropomorfismo e la teoria dell’uncanney valley. L’Interazione Uomo-Robot (HRI) secondo un’indagine freudiana.

“Non sono un algoritmo” – Book Trailer di Claudio Lombardo

Il Sé autentico – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 44

Come è possibile scoprire qual è il “vero, autentico me stesso”? E, soprattutto, è davvero utile farlo?

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il Sé autentico (Nr. 44)

 

In una trasmissione radio colta durante la presentazione di un libro si parlava di quanto fosse stato importante per la protagonista, una giovane donna 39enne, guardarsi sinceramente ora “allo specchio”, ora ancora più profondamente “dentro”, per capire chi fosse prima di compiere le scelte della sua vita.

Ascoltavo e annuivo compiaciuto, guidando, quasi leccandomi i baffi come quando si ascolta un’ovvietà confirmatoria che ci ribadisce la correttezza del nostro punto di vista. Ma ormai ho imparato a non fidarmi e quando provo quella sensazione di AJR (all just right “proprio tutto a posto”) è probabile che stia su una trappola o, come direbbe Montalbano “uno sfunnapedi”. Allora appizzo le orecchie e cerco di capire.

Il primo passo è sempre autoreferenziale e mi sono chiesto se io sappia chi sono, anche senza tutti quei rafforzativi tipo “veramente”, “profondamente”, “sinceramente”. La risposta forte e chiara è: assolutamente “no”! a cui seguono altre considerazioni circa il fatto che proprio per gli aspetti che mi riconosco cominciano i guai, e non solo per la bruttezza di ciò che scopro, ma per il processo in sé. Voglio sostenere che il tanto sbandierato “conosci te stesso” socratico sia contemporaneamente impossibile, inutile e spesso dannoso.

Naturalmente tutto ciò deve rimanere assolutamente segreto (e ad esso vincolo i lettori della presente) perché su questa palese cazzata la psicoterapia ha fatto la sua fortuna e la fine della crisi economica mondiale tarda ad arrivare e dunque per ora “la guerra è guerra!”

Ma andiamo per gradi dimostrandone intanto l’impossibilità, il che taglierebbe la testa al toro come nella storiella del tenente che ribatte al generale infuriato, che vuole spedirlo in corte marziale perché la sua postazione non risponde al cannonggiamento nemico, dicendo che ci sono almeno tre buone ragioni: “la prima è che non abbiamo i cannoni”.

Finchè io cerco di conoscere una mela o un altro dominio dell’esistente è tutto chiaro, c’è un osservato e un osservatore, un oggetto e un soggetto. Ciò vale ancora se l’oggetto dell’osservazione è una parte del mio corpo (esclusi gli occhi stessi) o un mio comportamento, si tratta di una mente che osserva degli oggetti e dei fatti. Ma che succede se la mente vuole guardare se stessa?

Qual è il famosissimo “vero, autentico me stesso” senza la cui conoscenza pare non si possa campare? Si finisce in un regresso all’infinito come quando due specchi ripetono all’infinito la stessa figura. L’“io” che osserva e giudica non è meno vero dell’“io” che agisce ed è giudicato e potrebbe essere a sua volta oggetto di osservazione di un terzo “io” e così via. Per fare un esempio concreto, quando mi disprezzo per dei miei comportamenti immorali, qual è il vero me stesso? Il ragazzino trasgressivo che fa ciò che non s’ha da fare o il moralista bacchettone che lo giudica tale, e chi è che giudica moralista quest’ultimo? Credo di aver dato un’idea dei problemi in cui si incorre.

Il secondo ragionamento riguarda l’utilità o la dannosità di tutto ciò. Perchè un metalivello di osservazione sul proprio funzionamento dovrebbe essere utile, se non indispensabile invece di essere magari semplicemente un intralcio? Non sarebbe meglio se la regola cui attenersi invece di essere “capisci chi sei” fosse più semplicemente “sii!” Dove sta scritto che la consapevolezza migliori l’efficacia del perseguimento dei propri scopi. Soprattutto in periodi in cui gli assetti interni ed il contesto ambientale sono sostanzialmente stabili non ce ne è alcun bisogno, come ci dimostrano gli animali con i loro istinti e le macchine con i loro programmi.

Per non parlare del fatto che il processo in sé probabilmente è peccato e certamente diminuisce la vista e rovina la pelle ma, soprattutto come diceva Quelo: “la risposta è dentro di te ed è SBAGLIATA”.

Sulla dannosità e la pesantezza che crea questo omunculo valutativo con sulle spalle un altro omunculo, fino ad averne una piramide degna degli equilibristi di un circo, non credo debba argomentare molto. La psicopatologia sta quasi tutta nelle liti condominiali tra loro. E non pensiate di cavarvela con la nomina di un amministratore: per carità, peggio!

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

L’altalena. Storia di un’anoressia (2017) di Ursula Vaniglia Orelli – Recensione del libro

«Mangia! Altrimenti ti prendi un’anoressia!», protestava mia nonna quando cercavo di negoziare con lei la quantità – esagerata – di cibo che mi metteva nel piatto. Lo diceva convinta e io, vent’anni fa, la guardavo perplessa, con il dubbio che se non avessi mangiato tutto mi sarei presa quella strana malattia. Oggi, quando ci ripenso, mi viene da sorridere.

 

Al tempo stesso si aprono nella mia testa una serie di riflessioni. Per nome, questo disturbo sembra abbastanza conosciuto (lo conosceva persino mia nonna che era nata all’inizio del secolo scorso) e nell’immaginario collettivo delle persone mi sembra ci sia un’idea molto chiara, ma stereotipata, di chi ne soffre: donne che di punto in bianco decidono di mangiare pochissimo, per avere corpi più magri, in linea con gli standard mediatici, a cui poi la situazione sfugge di mano.

Anoressia: una storia al di là dei luoghi comuni

Se si apre il manuale diagnostico dei disturbi mentali alla voce anoressia e ci si sofferma a leggere i principali criteri diagnostici (restrizione dell’apporto energetico, intesa paura di aumentare di peso, anomalia nel modo in cui si percepisce il proprio corpo) si potrebbe essere indotti a credere che quell’immagine di donna, ossessionata dalla magrezza, possa essere la giusta rappresentazione. Tuttavia, questo significa soffermarsi solo sui sintomi, perdendo l’occasione di comprendere realmente questa malattia. L’anoressia è una malattia che può essere fatale, le diagnosi nel nostro Paese sono in aumento ogni anno, i racconti di persone coraggiose, che affrontano con la penna il ricordo di quei giorni di sofferenza, sono una testimonianza importantissima, che possono aiutare questa società distratta e poco incline a guardare oltre l’apparenza. Le loro storie sono un canale per esplorare da vicino questo mondo, fatto di persone che cercano di reprimere dolore, disagio, sentimenti ed emozioni, fino a farli scomparire in un corpo sempre più piccino ed invisibile.

Anoressia: la trama del libro

L’altalena è uno straordinario romanzo d’amore, di ispirazione autobiografica, che associa al racconto della malattia e della guarigione, una trama coinvolgente. Sullo sfondo intricato del traffico illegale dei diamanti africani, in cui è coinvolta la ricca famiglia Rey, leggiamo la storia della figlia, Chiara, che, tradita dal padre e dall’uomo che amava, si ammala di anoressia ed inizia il difficile percorso di cura con il dottor Salvi. Attraverso i flashback, che emergono durante il percorso psicoterapico, al lettore verrà svelata l’intera trama della storia ma verrà anche mostrato l’evolversi e lo sviluppo dell’anoressia, imparando così a conoscerla. Nel suo racconto Ursula ci mostra come un’anoressica cerchi disperatamente di nascondere il proprio disturbo e come reagisca qualora venga scoperta. La mortificazione del corpo non è un semplice desiderio di magrezza ma il tentativo disperato di cancellare un dolore che non trova modo di uscire dal corpo. Allo stesso modo, ci viene fatta capire l’importanza della terapia per ritrovare un nuovo equilibrio e per tornare ad amare sé stessi.

L’altalena è un racconto molto interessante che non parla solo di sofferenza. È un inno all’amore, verso chi ci ama ma anche verso se stessi. È un invito a proteggere il nostro cuore, custode immaginario dei sentimenti, dalle aggressioni esterne e, soprattutto, da quelle interne perché, come scrive Ursula, possiamo essere vittime ma anche i carnefici: noi stessi possiamo diventare i mostri da combattere, poi da nascondere ed infine far sparire. Per questo è importante capire e sforzarsi di andare oltre le apparenze. Non distogliere lo sguardo da chi si nasconde può essere il primo grande passo che possiamo fare per aiutare il mondo a cancellare questa malattia.

Autostima bassa e uso di droghe: uno studio conferma l’elevata associazione

Secondo una nuova ricerca, condotta dall’Università di Binghamton, persone con bassa autostima tendono a fare un maggiore uso di oppioidi, per far fronte a situazioni di vita stressanti che incidono negativamente sulla loro vita.

 

La Threat Appraisal and Coping Theory, teoria di riferimento dello studio, suggerisce che queste persone in presenza di fattori stressanti mettano in atto comportamenti maladattivi, che nel breve termine alleviano l’angoscia ma nel lungo termine peggiorano la situazione.

Autostima bassa e droghe: lo studio

Nello studio sono state indagate tre variabili: cinque fattori potenzialmente stressanti della vita (salute, soldi, lavoro, famiglia, relazioni d’amore), autostima, uso di oppioidi. È stata prima analizzata l’associazione tra fattori stressanti e l’autostima, in seguito si è indagato sul ruolo da mediatore dell’autostima.

I soggetti della ricerca erano più di 1000 adulti statunitensi, di cui: 54% donne; 53% uomini; dai 45 anni in su; 76% bianchi; 60% con reddito uguale o superiore a 50.000$; 11% fa uso di oppioidi. I partecipanti hanno completato un sondaggio online.

Dallo studio si è evidenziata un’associazione tra bassa autostima e alto consumo di oppioidi. Inoltre, la bassa autostima è risultata essere un mediatore significativo tra fattori stressanti e uso di oppioidi. Questo indica quindi che gli eventi stressanti della vita incidono negativamente sulle persone con bassa autostima, le quali per stare meglio fanno uso di oppioidi.

Autostima bassa e droghe: ciò che resta da capire

La connessione tra queste variabili era stata riscontrata anche in ricerche passate. In questi studi era emerso che gli individui che manifestano un rifiuto sociale e che soffrono poi di depressione e bassa autostima (stati caratterizzati da una riduzione di serotonina e dopamina nel cervello) fanno un maggiore uso di oppioidi. Questo deriva dal fatto che il consumo di oppioidi permette di aumentare l’effetto della dopamina e della serotonina, attraverso un cambiamento rapido e potente nel funzionamento cerebrale.

Visti i risultati, i consumatori di oppioidi potrebbero cercare aiuto per imparare a gestire meglio queste situazioni stressanti, per aumentare la propria autostima, attraverso opportune strategie – afferma l’autore Aksen.

I risultati non sono da generalizzare a tutte le persone che affrontano periodi di vita stressanti. La ricerca presenta alcuni limiti:

  • La maggior parte del campione ha un’identità etnica bianca e reddito alto
  • La quantità di oppioidi utilizzata, la motivazione sottostante, la sequenza degli eventi che portano al consumo di oppioidi, l’esposizione ad un trattamento per uso di sostanze, potrebbero moderare l’associazione tra fattori stressanti e consumo degli oppioidi.

 

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