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Idoli, identità e ruolo: come scegliamo i nostri idoli e perché ne siamo ispirati

L’arrivo di Ronaldo in Italia ha portato un entusiasmo incontenibile. Ufficializzato l’acquisto, la Juve ha guadagnato centinaia di migliaia di nuovi iscritti ai suoi canali social; la maglietta dell’attaccante portoghese, subito mesa in vendita alla ragguardevole cifra di 130 euro, è andata letteralmente a ruba tanto da mandare in tilt il sito di vendite per i troppi accessi

 

Come ci spieghiamo tutto questo?

Idoli sportivi: il caso Ronaldo

Cerchiamo di capire il motivo. Ronaldo è quello che possiamo definire un idolo. Nel mondo del pallone (che già sforna decine di idoli) è probabilmente il calciatore più forte del momento ed è sicuramente il più pagato. Ha vinto tutto. Per contro non appare come un predestinato. Non è nato ricco, i genitori non sono famosi, non era quello che possiamo definire un privilegiato. Sicuramente possiamo pensare che avesse delle doti calcistiche fuori dalla media ma il suo successo è anche frutto di un’abnegazione totale. Di lui sappiamo che si allena più degli altri, che conduce una vita regolare, che cura l’alimentazione in modo quasi maniacale. Tutto è subordinato all’obiettivo che vuole raggiungere: essere il numero uno.

Quando il successo è frutto di volontà e sacrificio ci risulta più facile identificarci perché siamo portati a pensare che tutto dipenda da noi e non da un destino più o meno benevolo.

Gli ideali sono come la stella polare, è irraggiungibile ma indica la retta via (Anonimo)

Ma perché sentiamo il bisogno di avere degli idoli? Perché ci capita di sentirci insoddisfatti di noi, di quello che facciamo, dei risultati che otteniamo. Abbiamo l’impressione di non essere all’altezza delle aspettative che gli altri, ma anche noi stessi, nutrono su di noi. Ci sentiamo inadeguati alle richieste che ci arrivano dal mondo che ci circonda. E’ la società, infatti, a dettarci i requisiti e i modelli di comportamento che vengono considerati “vincenti” e che vengono ricompensati con l’approvazione sociale. Possedere questi requisiti eleva a modello e suscita, in chi non li possiede, ammirazione mista ad invidia.

Idoli: come li scegliamo?

Smelser nel suo Manuale di sociologia, illustra dettagliatamente l’influenza della società sugli individui ed evidenzia come non tutti scelgano gli stessi idoli. Ciascuno infatti crea il suo modello sulla base di quelle che sono le sue necessità e gli obiettivi che si è posto. Esistono però delle condizioni comuni nelle relazioni che costruiamo con il nostro idolo e sono che questo deve basarsi su un duplice rapporto di vicinanza e di lontananza.

Come spiegato dal professor Mirieu, la vicinanza serve a farci sentire che abbiamo una base comune, i nostri valori, idee, aspettative devono essere in linea con quelle che percepiamo essere le sue. Solo in questo caso ci possiamo sentire autorizzati a credere che un giorno potremo arrivare ad essere come lui.

La lontananza, per contro, serve a motivare l’impegno che ci viene richiesto nel tentativo di diventare come lui. Pensare “posso riuscirci” ci da la spinta emotiva a metterci in gioco, ma la considerazione che “non ci sono ancora riuscito” ci spinge a moltiplicare gli sforzi per raggiungere l’obiettivo.

Non dobbiamo pensare che un idolo ci attiri solo per valori più o meno effimeri come fama, successo, soldi. Molto spesso in lui vediamo il paladino di ideali ben più nobili che sentiamo di condividere: amicizia, uguaglianza, impegno sociale… magari semplicemente perché l’abbiamo visto ospite a qualche evento benefico o per le frasi di qualche sua canzone, o per una scritta su una maglietta che ha indossato…

Va detto che spesso l’idea che ci facciamo dell’idolo non corrisponde alla realtà e lui/lei stesso/a stenterebbe a riconoscersi nell’immagine che ci simo costruiti di lui. Ma questo poco importa. L’importante è che risponda alle nostre necessità del momento. Che impersonifichi il suo ruolo di motivatore e di mentore.

Raramente si migliora se non si ha altro modello da imitare che sé stessi. (Oliver Goldsmith)

Idoli buoni e idoli cattivi

Da quanto detto finora, alla figura dell’idolo viene attribuita una valenza positiva: la sua presenza è in grado di stimolare e incoraggiare la nostra voglia di migliorarci e credere in noi stessi. Demetrio ci mette però in guardia sull’esistenza di due tipi contrapposti di idoli: gli idoli buoni, che sono di sostegno alla nostra crescita personale, e gli idoli cattivi che, al contrario, ci alienano dalla realtà.

Se con i primi stabiliamo una forma di imitazione positiva, il discorso cambia con i secondi, quando si mette in atto una forma di identificazione che rischia di diventare pericolosa. Ma vediamo di definire questi due concetti.

Si parla di imitazione quando il modello viene scelto consapevolmente e, in generale, presenta caratteristiche apprezzate dalla società. E’ una scelta che presuppone consapevolezza di quello che volgiamo ottenere e disponibilità ad impegnarci per raggiungere questo risultato. C’è una certa autonomia e fiducia in sé stessi. L’imitazione non riguarda il modello in quanto tale ma ciò che rappresenta.

Al contrario, nell’identificazione, si affrontano i conflitti emozionali attribuendo ad altri i propri pensieri, sentimenti o impulsi che spesso ci risultano inaccettabili. L’identificazione porta a fare dell’idolo il nostro unico interesse e la nostra unica fonte di gioia, trascurando tutto il resto e immedesimandoci a tal punto in lui da inorgoglirci per i suoi successi e soffrire per i suoi insuccessi come se fossero i nostri. E’ un rapporto sbagliato, vissuto come una forma di disimpegno che indica insicurezza e sfiducia in sé da parte di chi lo manifesta.

Qualunque sia il rapporto che abbiamo costruito con il nostro idolo, questo è nato, come abbiamo già visto, per rispondere ad una nostra esigenza. Con il passare del tempo le esigenze cambiano, cambiano i nostri interessi e i nostri obiettivi, così anche il nostro idolo ad un certo punto risulterà inevitabilmente superato. La sua funzione si esaurirà e il suo ruolo verrà meno. Tutti gli idoli sono destinati a morire, prima o poi, e quando cadono riusciamo generalmente a vederli per quello che realmente sono.

Le forme vitali (2011) di Daniel Stern – Recensione del libro

Come bene esplicita negli ultimi passaggi del suo volumetto Le forme vitali, Daniel Stern teme di spingersi “troppo oltre”, senza un adeguato supporto empirico a sostegno delle affascinanti ipotesi, e nel contempo esprime il forte desiderio di farsi comprendere in maniera fedele e autentica, complessa.

 

Il testo in oggetto si legge tutto d’un fiato. Si potrebbe definire come una musa, in quanto, oltre ad essere fonte di ispirazione, si rivela capace di condurre in posti lontani dalla stanza d’analisi.

Anzitutto, colpisce il sottotitolo in copertina: Psicologia, psicoterapia, sviluppo ed espressione artistica dell’esperienza dinamica. Mi è parso subito richiamare un libro trasversale, eclettico, in grado di estendere le proprietà essenziali della mente a tutti i processi culturali che gli uomini plasmano e da cui sono plasmati. Esiste forse un collante in grado di legare la psicoterapia alla musica, al teatro o al cinema? Hanno forse questi domini – apparentemente lontani – la stessa consistenza?

Con queste premesse come avrei potuto resistere?

Vi lascio al succo che ho estratto dalle pagine di Le Forme Vitali: L’esperienza dinamica in psicologia, nell’arte, in psicoterapia e nello sviluppo di Daniel Stern (2011).

Le forme vitali: impressioni implicite che costruiscono e decostruiscono il sintomo

Movimento, tempo, forma, spazio, intenzione/direzionalità sono i parametri in grado di descrivere quelle che l’autore definisce Le Forme Vitali. Le caratteristiche sopra riportate sono amodali, difatti non descrivono mai il “cosa”, ma hanno a che fare con il “come”. Sono solitamente verbalizzabili sotto forma di aggettivi o di avverbi, percepibili (di solito in maniera inconsapevole) come sensazioni viscerali, impressioni d’un attimo. Se descrivessimo qualcosa come intenso, crescente, forte e di breve durata ci riferiremmo alla qualità di una esperienza o di una emozione, non di certo al suo contenuto. Diremmo, in altre parole, molto della sua dinamica, del suo comportamento ma niente circa il suo nome. E’ questo l’approccio che caratterizza e sintetizza la visione dell’autore: secondo Daniel Stern queste caratteristiche sono il fulcro della fenomenologia percettiva umana, la forma più irriflessiva e precoce che l’uomo dispone per conoscere e valutare. Esse sono ciò che precede il mondo dell’informazione e che dunque coincidono con il nostro modo implicito di elaborare il mondo sin dai primi istanti dell’esistenza. Stiamo parlando di impressioni inconsce, grezze e poco strutturate; difatti solo una piccola parte di esse diviene da noi dichiarabile ed esperibile sotto forma di vissuto emozionale. Buona parte di esse è accessibile da più linguaggi quali l’arte, il cinema, il teatro, quello della metafora e – aggiungerei – della costruzione e della decostruzione del sintomo.

L’ ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Le forme vitali di Daniel Stern - Recensione del libro fig1

Imm. 1 – Le forme vitali: intensità e tempo

Ricordiamo che il neonato valuta la familiarità del caregiver tramite la visione periferica, questa micro abilità, apprezzabile al livello di millisecondi, guida le più disparate abilità intuitive adulte quali anche quella dei musicisti jazz nelle jam session, così da permettere loro d’essere a tempo l’un l’altro, sebbene in mancanza di un particolare accordo esplicito preventivo. Sono dunque più proprietà, queste, che concorrono a risolversi in una totalità Gestaltica. Proprietà che concernono con le modalità che utilizziamo nel quotidiano per relazionarci con gli altri, in gergo: conoscenza relazione implicita (Lyons-Ruth, 2007).

Forme vitali: sono il nostro sesto senso

Non appartengono a nessun senso le Forme Vitali, anzi, si potrebbe immaginare come esse fungano da sesto senso in grado di rilevare e definire quelle tipologie di profili dinamici che hanno a che fare con lo stile di una persona, col modo in cui si muove, col ritmo e col volume con cui parla, ecc. A favore delle sue ipotesi, Daniel Stern, chiama in causa la teoria del campo sensoro-tonico secondo la quale all’inizio dell’esperienza vitale le modalità sensoriali sarebbero indifferenziate, solo in seguito diverrebbero discrete, separate e specializzate. Così la visione di una linea spigolosa, decisa e dentellata può evocare ansia, forza, energia, mentre una curva progressiva può associarsi a calma, gentilezza, tranquillità (fig.1). Sono vere e proprie sinestesie, non rare nei primi mesi di vita. Recentemente alcuni neuroscienziati hanno scoperto in diverse aree cerebrali dei neuroni multisensoriali. L’informazione riguardante le Forme Vitali è dunque estraibile e utilizzabile in più aree integrative corticali, è traducibile, trasponibile. Rappresenta una sorta di linguaggio universale, molto simile a una musicalità, irrazionale e coinvolgente, che si esprime a livello corporeo, incarnato e cinestetico. Meglio colta dal movimento Decadentista ottocentesco sotto il nome di ‘corrispondenze’ e dallo stesso autore come ‘sintonizzazione affettiva’. L’autore insiste nell’attribuire suddette forme vitali al concetto di arousal. E’ l’arousal che coincide e performa queste logiche emotive, fatte di picchi crescenti e decrescenti. Per chiarire meglio il mondo invisibile delle forme vitali, centrale e potente (in particolare) nel mondo interpersonale del bambino, l’autore sottolinea e ribadisce come tali notazioni sono letteralmente necessarie al musicista al fine di cogliere ed eseguire correttamente l’espressività e l’anima di una composizione. E’ utile, infatti, precisare come negli spartiti musicali sono riportati, secondo appositi segni convenzionali, indicazioni (dettagli cruciali) circa l’intensità, la pausa, la cadenza, il ritmo. Ciò si complica ancora di più nel teatro e nel cinema ove più linguaggi sono soliti incrociarsi in maniera cross-modale, esclusivamente secondo coordinazioni funzionali, sincroniche.

Forme vitali: sono il nostro sesto senso

Nell’ultima parte del libro Le forme vitali l’autore si rivolge al campo psicoterapeutico, chiarisce – a mio parere secondo un’impronta Loewaldiana (Loewald, 1962) – come l’identificazione sia un meccanismo più semplice e pragmatico di quanto si è soliti pensare; essa consisterebbe, infatti, in una investimento affettivo di forme vitali di una persona, in qualche modo, per noi significativa (interiorizzazione).

E’ l’esperienza emotiva [delle Forme Vitali] dell’interazione che viene identificata, non gli oggetti.

Quantomeno interessante sarebbe, alla luce di ciò, ripensare concetti quale quelli di Transfert e Controtransfert. Pertanto, il cuore pulsante della psicoterapia sarebbero proprio queste Forme Vitali in interazione. Personalmente ho sempre pensato che l’arte e la poesia siano parte della nostra visione periferica, così radicata in noi, così tanto sotto il nostro naso, da non essere vista, da sembrarci affascinante e mai del tutto afferrabile o comprensibile secondo le consuete norme del razionale.

E se davvero fosse questo il nostro modo di codificare la realtà? Se fosse questo il modo con cui ci riesce facile intenderci coi nostri gatti e i nostri cani? Se si esprimesse in quest’ordine il linguaggio dei nostri sogni e delle nostre paure? Se non fossero poi le pennellate di Van Gogh così lontane dai brividi che abbiamo sulle spalle di fronte a una ‘Notte Stellata’? Sono forse le Forme Vitali che ci fanno ballare secondo pattern inesprimibili nella danza e talvolta sublimi nella musica?

Un libro, questa operetta di nicchia psiconalitica (e non solo) che è destinato a far riflettere. Molto utile anche agli artisti e agli eclettici. Interessante per lo psicologo, necessario per chi lavora nel cinema.

 

 

L’importanza della natura per il nostro benessere

È risaputo che essere a contatto con la natura ha un notevole effetto sulla nostra salute e sul nostro benessere. Tuttavia oggi circa la metà della popolazione vive in centri urbani, riducendo drasticamente il tempo che passa a contatto con la natura.

 

Sebbene la connessione tra natura e benessere sia evidente, meno chiari sono i meccanismi alla base di questa associazione.

In un recente studio si è appunto indagato questi meccanismi, nello specifico è stata analizzata l’influenza che la natura ha sulla riduzione dell’impulsività nei processi decisionali. Lo studio si è svolto in due fasi distinte.

Prima fase dello studio

In una prima fase si è cercato di capire se l’esposizione alla natura fosse predittiva di un miglioramento della salute e se una ridotta impulsività nel processo decisionale fosse un mediatore di questo effetto.

I soggetti coinvolti sono stati 609 adulti statunitensi, reclutati attraverso Mechanical Turk, un servizio internet di Amazon, il 60% di loro erano donne e il 40% uomini, con un’età media di 36 anni. A ciascuno dei partecipanti è stato somministrato un questionario.

I risultati hanno dimostrato che essere esposti alla natura, in particolare poter vedere dalla propria casa paesaggi naturali, avere accesso a parchi o zone verdi, è associato a benefici per la salute, infatti i punteggi di depressione, ansia e stress erano ridotti. L’effetto è stato dimostrato essere presente a prescindere dal livello di istruzione e dal reddito.

Inoltre, poter essere a contatto con la natura è risultato essere associato a una ridotta impulsività nei processi decisionali. Quindi questi primi risultati sembrano confermare che l’essere esposti alla natura riduce l’impulsività nei processi decisionali e una minore impulsività porterebbe ad un miglioramento dello stato di salute.

Seconda fase dello studio

In seguito si sono voluti indagare maggiormente i meccanismi attraverso cui la natura riduce l’impulsività. Sembrerebbe che la natura provochi delle modifiche nella percezione spazio-temporale.

Per percezione dello spazio e del tempo si intende per esempio quando nelle situazioni di tutti i giorni usiamo espressioni come “non ho tempo, l’incontro deve essere più breve” o “siamo vicini alla data di scadenza”, frasi che esprimono come noi percepiamo la dimensione spazio-temporale. Queste variabili potrebbero avere un effetto sull’impulsività.

I risultati hanno dimostrato che l’esposizione alla natura estende la percezione spaziale, che a sua volta predice un decremento dell’impulsività nei processi decisionali.

In conclusione

Questi dati possono avere importanti conseguenze in quanto suggeriscono che una maggiore esposizione alla natura può portare ad una diminuzione dell’impulsività e plausibilmente, di conseguenza, a minori livelli di stress, ansia, depressione e ad un maggiore benessere in generale.

Dalla comunicazione preintenzionale alla comunicazione intenzionale del bambino

Si parla di intenzione comunicativa quando il bambino sa produrre comportamenti che hanno per lui il valore di segnale e li produce al fine di soddisfare i propri scopi o di raggiungere particolari obiettivi.

Raffaella Mancini e Monica Mascolo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Sin dalla nascita il bambino si relaziona con il mondo circostante mettendo in atto comportamenti che sono l’automatica conseguenza di uno stato interno. Tali comportamenti, dunque, non sono ancora eseguiti allo scopo di raggiungere un certo effetto su chi vede o ascolta, ma sono gli adulti ad interpretarli come comunicativi. Questa fase viene definita preintenzionale: il bambino indica che ha bisogno di qualcosa ma non è ancora in grado di indicare quello di cui ha bisogno, sono le abilità interpretative della madre ad individuare quello di cui necessita. Ad esempio, quando il neonato piange disperato perché ha fame o sonno, l’adulto non ha dubbi nell’interpretare il pianto come segnale di disagio e nell’agire di conseguenza.

Inoltre, tra i 2 e i 6 mesi, il bambino, oltre a segnalare a chi si prende cura di lui bisogni di ordine fisiologico attraverso il pianto, gli sbadigli e i sorrisi, inizia le sue prime vocalizzazioni, le quali si inseriscono nei turni verbali del genitore (proto conversazioni), in cui ciò che viene condiviso è l’emozionalità e l’affetto.

Verso l’ intenzione comunicativa: dalla comunicazione preintenzionale alla comunicazione intenzionale

Se fino all’età di 4 mesi gli scambi comunicativi avvengono in contesti diadici, progressivamente, intorno alla metà del primo anno di vita, il bambino comincia ad interessarsi ad oggetti/eventi esterni alla diade ed è intorno ai 9 mesi che iniziano a verificarsi episodi di attenzione condivisa, in cui sia la sua attenzione che quella della madre è rivolta ad un oggetto/evento esterno alla diade.

È in questo periodo che vi è il passaggio dalla comunicazione preintenzionale a quella intenzionale: il bambino comunica intenzionalmente ovvero, sa di produrre comportamenti che hanno per lui il valore di segnale e li produce al fine di soddisfare i propri scopi o di raggiungere particolari obiettivi. Egli, dunque, comprende di essere un agente attivo nel mondo circostante, si serve di mezzi per raggiungere i propri scopi e sa distinguere i mezzi dai fini.

Inoltre è in grado di comprendere che anche gli altri sono agenti autonomi, possessori di intenzioni diverse dalle proprie, le quali possono essere condivise. Il bambino, in questo periodo, non avendo ancora raggiunto abilità linguistiche si serve dei mezzi che ha a propria disposizione per comunicare intenzionalmente con gli altri (Camaioni, 2001), nello specifico si serve dei gesti comunicativi.

I gesti

Tra i 9 e i 12 mesi i bambini iniziano produrre i primi gesti, i quali hanno una natura triadica e vengono utilizzati per indirizzare l’interlocutore verso un’entità esterna e non verso il bambino stesso. I primi gesti a presentarsi sono quelli deittici che comprendono l’indicare, il mostrare e il dare. Essi esprimono un’ intenzione comunicativa, si riferiscono ad un oggetto o ad un evento esterno, sono fortemente legati al contesto e bisogna riferirsi ad esso per interpretarli. L’ intenzione comunicativa è segnalata principalmente dall’uso dello sguardo rivolto all’interlocutore, prima, durante e dopo l’emissione del gesto.

I gesti deittici possono essere prodotti con due intenzioni comunicative:

  • richiestiva: per richiedere un oggetto desiderato, ad esempio il bambino indica il biberon quando ha sete
  • dichiarativa: per condividere con l’interlocutore l’interesse o l’attenzione su un evento esterno, ad esempio il bambino indica un’immagine sul libro per condividerla con la mamma

Tra i gesti deittici quello più studiato e rilevante è il gesto dell’indicare. È un gesto universale che non viene abbandonato nemmeno dopo l’acquisizione del linguaggio verbale ed è uno dei mezzi più efficaci, in assenza del linguaggio, per comunicare intenzionalmente con gli altri. Tale gesto deve essere accompagnato da altri comportamenti che segnalino la volontà comunicativa, ad esempio, lo sguardo diretto all’interlocutore e allo stimolo o la produzione di vocalizzi.

Intenzione comunicativa richiestiva vs intenzione comunicativa dichiarativa

Secondo Camaioni (1993,1997) fra l’ intenzione comunicativa richiestiva e l’ intenzione comunicativa dichiarativa, vi è una differenza di tipo sia strutturale che funzionale. L’autrice ritiene che per produrre una richiesta il bambino deve acquisire diverse competenze, prima tra tutte è la capacità di alternanza dello sguardo tra la persona e l’oggetto durante la sequenza comunicativa, ed è fondamentale che comprenda l’intenzionalità delle proprie azioni, ma soprattutto che anche le azioni degli altri sono guidate da intenzioni, ovvero deve saper distinguere i mezzi dai fini ed utilizzare intenzionalmente strumenti per raggiungere i propri obiettivi (agentività). Mentre, per produrre il gesto con valore dichiarativo, il bambino deve possedere oltre le capacità che gli permettono di produrre il gesto richiestivo, anche la comprensione che l’individuo è dotato di stati psicologici che possono essere condivisi o influenzati.

Dunque, mentre con l’ intenzione comunicativa richiestiva il bambino vuole modificare un aspetto del mondo attraverso l’adulto ed è sufficiente la comprensione dell’agentività, con l’ intenzione comunicativa dichiarativa il bambino vuole influenzare lo stato interno dell’altro, per far ciò è necessario che si rappresenti l’interlocutore come dotato di stati psicologici.

Relativamente all’età di comparsa della funzione richiestiva e dichiarativa del gesto di indicare Paola Perucchini (1997), in uno studio condotto su 14 bambini osservati dall’età di 11 mesi all’età di 14 mesi, ha rivelato che i bambini a 11 mesi comprendono e producono un numero maggiore di gesti con funzione richiestiva, piuttosto che con funzione dichiarativa. Tuttavia ha osservato che con l’aumentare dell’età cresce il numero di bambini che produce e comprende la funzione dichiarativa.

Relativamente all’età di comparsa del gesto dell’indicare, invece, Camaioni e Perucchini (1999, citato in Camaioni, 2001) in un loro studio condotto su 47 bambini hanno rilevato che l’89% dei bambini ha iniziato ad indicare entro i 12 mesi di età, nello specifico, il 53% tra i 10 e gli 11 mesi e il 94% tra i 9 e i 13 mesi.

Intorno ai 12 mesi il bambino inizia a produrre i gesti referenziali o rappresentativi i quali, oltre a esprimere un’ intenzione comunicativa, rappresentano anche un referente specifico (aprire e chiudere la mano per “ciao”), a differenza di quelli deittici che, invece, indicano un referente. Vengono appresi in situazioni di routine o giochi con l’adulto e prevalentemente per imitazione, per poi decontestualizzarsi ed essere utilizzati più per scopi comunicativi. Essi sono predittivi del linguaggio in quanto rappresentano il simbolo e il referente così come le parole.

Le prime parole

Intorno agli 11-13 mesi, contemporaneamente alla comparsa dei gesti referenziali, il bambino inizia a produrre le sue prime parole. Tale fase, tuttavia, è preceduta da una fase preparatoria in cui il bambino produce prima i vocalizzi, per poi passare alla lallazione canonica, intorno ai 6-7 mesi, in cui produce sequenze consonante-vocale con le stesse caratteristiche delle sillabe, spesso ripetute due o più volte (“mamama”), e successivamente, tra i 9-10 mesi, alla lallazione variata o babbling, in cui produce delle sequenze sillabiche complesse (“bada”).

Dopo le vocalizzazioni emergono quelle produzioni che non rientrano più nella categoria dei vocalizzi ma nella categoria del linguaggio, nello specifico le protoparole, le onomatopee e le prime parole. Con le onomatopee il bambino produce la forma più somigliante al referente che è il suono, piuttosto che l’etichetta verbale, la quale verrà acquisita successivamente, ad esempio dice “brum-brum” per indicare la macchina oppure “ciuf-ciuf” quando vede un treno. Vengono usate spesso dal bambino in quanto prodotte dal genitore quando si rivolge a lui sin dalle prime interazioni.

Le onomatopee sono seguite dalle protoparole, le quali sono simili fonologicamente alle parole originarie ma non corrette grammaticalmente, ad esempio il bambino dice “aua” per acqua.

Intorno agli 11-13 mesi il bambino produce le sue prime parole, le quali si riferiscono ad oggetti o nomi di persone familiari, e sono fortemente contestualizzate. In questa fase egli comprende molte più parole di quelle che produce.

Verso i 18-24 mesi vi è un incremento rapido del lessico, definito anche “esplosione del vocabolario”. In questa fase il ritmo di espansione del vocabolario è di 5 o più nuove parole (fino anche 40) per settimana, cosicché alla fine del periodo in questione il vocabolario complessivo si attesta mediamente sulle 300 parole, ma può raggiungere anche 600. Si ritiene che ciò accade quando il bambino diventa capace di attribuire alle parole uno status propriamente simbolico e di capire non soltanto che tutte le cose hanno un nome, ma anche che c’è un nome per qualsiasi cosa. La capacità di attribuire piena autonomia simbolica alla parola fa sì che il bambino, non soltanto apprenda nuovi vocaboli con grande rapidità, ma impari anche ad usare flessibilmente le parole che già conosce in una varietà di contesti comunicativi (Camaioni, 2001). Con l’incremento del vocabolario il bambino, dunque, attribuisce referenzialità alla parola, la stacca dal contesto di azione nel quale la produceva inizialmente e la applica in altri contesti decontestualizzandola, ad esempio se prima diceva “cane” solo quando giocava con il proprio peluche, ora dirà “cane” anche quando vede un’immagine nel libro.

Egli, inoltre, nella fase in cui non è ancora in grado di produrre le prime frasi ma anche durante le prime fasi dello sviluppo lessicale, accompagna spesso la parola con il gesto deittico o referenziale, riuscendo così ad esprimere una relazione complessa tra due elementi, ad esempio indica un bicchiere dicendo “acqua” quando ha sete. Man a mano che acquisisce queste abilità i gesti referenziali, in particolare, diminuiscono lasciando spazio alla produzione verbale.

Dalla singola parola alle prime frasi

La combinazione da parte del bambino di due o più parole in frasi avviene intorno all’età di 20 mesi. Si tratta prevalentemente di enunciati telegrafici composti inizialmente da nomi prodotti in successione con l’omissione del verbo, ad esempio “mamma pappa”, in cui è importante il contesto situazionale per la loro comprensione.

Cipriani, Chilosi, Bottari e Pfanner (1993, citato in Caselli e Casadio, 2002) a tal proposito hanno identificato quattro fasi che il bambino attraversa prima di arrivare alla produzione di un enunciato completo, corretto morfologicamente e sintatticamente, partendo dalla produzione di prime combinazioni di parole. Le fasi individuate sono le seguenti:

  • Fase presintattica (19-26 mesi): caratterizzata da enunciati telegrafici, costituiti per lo più da parole singole prodotte in successione e privi di verbo (“pappa più”, “bimbo dà”). Ci sono pochi enunciati semplici nucleari con funzione dichiarativa e richiestiva. Inoltre vi è una prima concordanza tra nome e aggettivo.
  • Fase sintattica primitiva (20-29 mesi): caratterizzata ancora da enunciati telegrafici, da un graduale ma altrettanto consistente aumento degli enunciati nucleari semplici, spesso ancora incompleti ma, a differenza del periodo precedente, iniziano ad essere prodotte frasi complesse anche se prive di connettivi interfrasali e morfemi liberi, come articoli e preposizioni (“bimbo prende cucchiaio mangia minestra”).
  • Fase di completamento della frase nucleare (24-33 mesi): non è più presente il linguaggio telegrafico; prevalgono ancora sugli altri tipi di frase le nucleari, prodotte con morfemi liberi, e le frasi ampliate con espansioni del nucleo (“il bambino mangia col cucchiaio”). Le frasi complesse aumentano e si diversificano per tipologia: coordinate, subordinate e inserite implicite con la comparsa anche di frasi inserite esplicite. Una parte significativa delle frasi complesse è prodotta in forma completa (“il bambino prende il cucchiaio e mangia la minestra”).
  • Fase di consolidamento e generalizzazione delle regole in strutture combinatorie complesse (27-38 mesi): gli enunciati complessi sono per la maggior parte completi da un punto di vista morfologico. Comparsa di diversi connettivi interfrasali di tipo temporale e causale (“dopo”, “allora”, “invece”, “perché”..) usati in modo stabile all’interno di frasi coordinate e subordinate. Infine sono prodotte anche le frasi relative (“ma io ho visto Peggy che correva”).

In conclusione

È necessario precisare che lo sviluppo comunicativo e linguistico del bambino avviene secondo una serie di fasi che si succedono in un determinato ordine, condiviso da molti bambini ma al tempo stesso è caratterizzato da grandissime variabili individuali che riguardano non solo i tempi ma anche i modi e le strategie di apprendimento, componenti che devono sempre essere prese in considerazione quando si osserva e si valuta lo sviluppo infantile.

Cocaina: sostanza specchio della società moderna?

Ogni epoca ha le proprie caratteristiche: gli usi e i costumi, le tradizioni, gli stili di vita, le relazioni, le arti, cambiano e si trasformano nel tempo. Anche lo sviluppo e il proliferarsi di una specifica sostanza psicoattiva diviene il riflesso del modo di vivere dell’uomo, delle sue aspettative e dei suoi bisogni legati a quelli della società.

 

Nell’Ottocento ci fu l’hashish che divenne il simbolo delle avanguardie artistiche; in tempi più recenti, come gli anni Sessanta e Settanta, l’eroina, le amfetamine e LSD simbolo delle contestazioni giovanili. Oggi la droga che sembra essere dominante e che meglio riflette la società consumistica e frenetica nella quale viviamo è la cocaina.

Cocaina: come vuole apparire chi la assume?

Infatti se l’eroinomane era visto come lo sconfitto, l’inetto, il vinto dalla vita, il cocainomane è invece è colui che supera i propri limiti, è il vincitore. Chi fa uso di cocaina sembra aprirsi al mondo e agli altri, al più sfrenato edonismo e sembra essere circondato da un alone di potenza. Ovviamente questi falsi miti legati al consumo di cocaina, che servono ad idealizzarla come sostanza, sono ideati e mantenuti da spacciatori e consumatori. Infatti i primi hanno bisogno che si parli bene della sostanza per venderla il più possibile, nascondendo i seri pericoli e le controindicazioni, chi ne fa uso invece cerca di negare il profondo disagio che si cela dietro il consumo di cocaina.

In una società in cui la tristezza non è concessa e dove la prestazione, l’essere superiori e il dominare sono valori fondamentali, dove c’è spazio solo per ciò che sfavilla e che attiri l’attenzione, e dove ognuno di noi si mostra come la pubblicità di se stesso, il consumo di cocaina e il consumarsi nella sostanza vengono normalizzati ed esaltati.

Cocaina e immagine di Sé richiesta dalla società odierna

La cocaina infatti è usata dalle più svariate classi sociali e in soggetti con differente fascia d’età e il suo uso viene legittimato e valorizzato dal contesto sociale. Sollecitati continuamente da modelli che vorrebbero imporre cosa dobbiamo essere e cosa si deve essere la cocaina dà al soggetto la sensazione di superare il proprio Sé Reale e avvicinarsi sempre di più a quello Ideale, quello trionfante; ma una volta finito l’effetto della sostanza ecco che si riprecipita nella quotidianità e in quello che viene percepito un Sé manchevole di qualcosa. Se ci si percepisce sempre mancati di qualcosa si tenderà ovviamente a ricercare e a desiderare sempre qualcosa di esterno che avrà la funzione di darci più valore, nella compulsività di un desiderio che non è realmente nostro e nella sua sfrenatezza; la ricerca incostante di essere sempre di più tramite beni materiali e le sostanze. La cocaina è lo specchio della società capitalista e consumista dove apparire è più importante che essere, dove il potere e l’essere migliore sono le uniche cose che contano e che porta l’essere umano ad essere un eterno adolescente, senza inibizioni e senza regole.

La mente adolescente (2014) di Daniel Siegel – Recensione del libro

Il libro La mente adolescente di Daniel Siegel è un viaggio all’interno della psicologia dei ragazzi dai 14 fino ai 24 anni, affrontato da più punti di vista, con importanti contributi neuroscientifici che si sommano a una lettura il più possibile umana, costante di un po’ tutti i libri di Siegel.

 

Nel libro sono presenti molti esempi tratti dalla pratica clinica dell’autore, così come riferimenti alla sua vita personale. Inoltre, ricompaiono dei punti fermi del suo lavoro divulgativo, per esempio la teoria del cervello tripartito di MacLean, su cui si fonda in pratica tutto il suo razionale di intervento clinico, che mira a uno stato di integrazione totale delle diverse parti del cervello (istintuali, emotive, neo-corticali, gli emisferi destro e sinistro del cervello).

La mente adolescente ed il processo di potatura

Il libro La mente adolescente alterna sezioni teoriche a pagine che contengono esercizi applicabili in senso clinico, ma anche utilizzabili dal lettore senza una preparazione clinica professionale.

L’adolescenza, Daniel Siegel ci spiega, è un periodo di trasformazioni, in senso sia fisico (la pubertà), che psicologico (l’adolescenza in sé). Qualcosa cambia nel cervello e nei pensieri del giovane, in parallelo a una trasformazione fisica così rapida da poter essere paragonabile, come “velocità” di metamorfosi, a quella che avviene nei primi anni di vita di un neonato. Inoltre, anche a livello psichico, accadono così tante cose, da consentirci di mettere a paragone il periodo adolescenziale con i primi tre anni di sviluppo del bambino (i famosi 1000 giorni, che un po’ tutti concordano nel ritenere gli anni della fondazione della personalità, costruita intorno a un temperamento innato).

Se i primi anni sono anni di “imprinting”, gli anni dell’adolescenza sono estremamente fertili e questo per il processo di sfoltimento (“potatura”, o “pruning”) delle sinapsi neuronali, che concorre a creare e a rimarcare reti neuronali che rimarranno “marchiate” a fuoco nella mente dell’individuo per tutta la vita. Per questo è importante che, per esempio, chi voglia insegnare ai propri figli a suonare il pianoforte, ve lo introduca in infanzia, ma si assicuri che il ragazzino continui a suonarlo negli anni dai 13/14 fino ai 20, anni insomma grandemente influenti su tutta la via futura.

La mente adolescente: quali cambiamenti avvengono

Daniel Siegel in La mente adolescente ci illustra i quattro grandi cambiamenti che avvengono in età adolescenziale:

  • Aumenta la ricerca di novità. Siegel qui fa riferimento alla questione dopaminergica che, come è noto, sta alla base del meccanismo che ci porta a buttarci su cose nuove, a cercare sensazioni diverse, nuove, per mezzo di quello che viene chiamato circuito di reward -che premia il cervello con scariche di dopamina, e in questo modo aumenta l’appetibilità (l’affordance) dell’esperienza stessa, che verrà ricercata nuovamente. Siegel parla anche di un livello di dopamina tendenzialmente più basso negli anni dell’adolescenza, ma con picchi più alti quando vi siano sensazioni nuove e potenti, che producono un comportamento più “impulsivo”. Questi sono anche gli anni della strutturazione delle dipendenze più difficili da sradicare, proprio in ragione di questo particolare panorama neurochimico in cui è centrale il ruolo della dopamina, sempre coinvolta in tutto ciò che riguarda il problema “addiction”.
  • Vi è la ricerca di un maggior coinvolgimento sociale. Se l’adolescenza rappresenta l’arco temporale che consente a un individuo di sperimentarsi e di attraversare un periodo, per usare delle parole mutuate dalla psicologia dello sviluppo, di “separazione/individuazione”, ciò significa che l’investimento iniziale effettuato dal bambino, in senso affettivo, verso la coppia genitoriale, lascia il posto a un progressivo distacco e a un investimento questa volta verso l’esterno, verso il gruppo dei pari, che come un magnete trascina a forza il ragazzo al di fuori del contesto di origine. Questo processo avviene per gradi, e con tempi diversi: quel che è certo è che contiene in sé un lutto reciproco vissuto da genitori e figli, che in questo modo, inevitabilmente, si allontanano.
  • Le emozioni vengono esperite con maggiore intensità. Su questo punto Daniel Siegel fa riferimento alla questione già citata della dopamina, e in più parla di una sorta di “iper-razionalità” che caratterizza in questa fase della vita il pensiero dei ragazzi. Per iper-razionalità, Siegel intende una specifica forma del pensiero che certo si complessifica in ragione dello sviluppo cerebrale, che in questa fase assume particolare rilevanza, ma che tuttavia rimane per certi versi “limitato” a delle considerazioni parziali a riguardo della realtà. Questo vuol dire, in altre parole, che l’adolescente esegue delle valutazioni parziali sulle esperienze che vive e di ciò che intende fare, in particolare con uno sbilanciamento tra quelli che sono i “pro” e i “contro” relativi alle diverse esperienze. Siegel fa l’esempio della roulette russa, per un adulto gioco rischiosissimo e assurdo, per un adolescente invece gioco “con alte probabilità di vincere”, vista la possibilità di non trovare il proiettile in canna 5 volte su 6 (Siegel usa questo esempio estremo per cercare di far capire al lettore che l’adolescente estremizza e assolutizza la valutazione dell’esperienza, negando o non integrando alcune parti o certi rischi connessi ad un’esperienza: è infatti noto che in questa fase avviene il maggior numero di decessi per comportamenti a rischio, che in questi anni non sono valutati a fondo, ma vissuti con velocità e non ponderati). Questo pensiero iper-razionale ha quindi la “colpa” di accendere nell’adolescente quegli slanci all’azione che a volte possono metterlo a rischio
  • Aumenta l’esplorazione creativa. In questa fase aumenta potentemente la spinta dell’individuo a vedere e sperimentare cose nuove: questo ha una funzione anche evolutiva (senza la spinta a uscire dal nucleo famigliare, la famiglia stessa rischierebbe di ripiegarsi su sé stessa, evitando di fatto quei “salti” evolutivi che sono alla base della buona riuscita dell’evoluzione della specie umana, che per evolvere bene deve mischiarsi). Inoltre, lo sviluppo cerebrale porta l’individuo a complessificare il suo stesso pensiero, in grado ora di astrarre e mettere i discussione le cose, approfondendole. Sono anni, Daniel Siegel ci spiega, di grande maturazione intellettuale e di maggiore consapevolezza, pur sempre però minacciata dal senso di confusione e di diffusione identitaria che con sé porta. Per questo resta così importante la “presenza” di figure stabili che traghettino, come “sacerdoti del passaggio”, il ragazzo verso uno stato di maggiore fermezza identitaria.

In adolescenza è forte lo scollamento tra quello che il/la ragazzo/a dice di volere, e quello di cui invece ha bisogno. Assecondare le spinte di un adolescente senza mettergli limiti, è lasciarlo in balìa di sé stesso, perso in una libertà sconfinata che è solo caos. Daniel Siegel in La mente adolescente mette l’accento sul fatto che, in ogni caso, in questa fase resta forte il bisogno di accudimento e di “guida” da parte di persone autorevoli, nel mare della complessità di una fase di transizione così delicata per l’individuo che la vive.

Gli effetti della discriminazione razziale su bambini e adolescenti

Un recente studio condotto presso l’Università di Riverside evidenzia il forte impatto che la discriminazione razziale ha sui bambini di 7 anni.

 

In casa, a scuola o al centro di programmi politici, il tema della discriminazione è più attuale che mai. Ma ci siamo mai chiesti quali conseguenze la discriminazione può avere sui bambini?

Precedenti ricerche avevano già messo in risalto il fatto che tale fenomeno possa avere delle conseguenze su bambini al di sotto dei 10 anni e che un forte senso di identità etnico-razziale sia un fattore protettivo contro gli effetti negativi della discriminazione razziale. Altre ricerche, ancora, hanno studiato a lungo le conseguenze che comporta l’essere discriminati in adolescenza; in particolare uno studio ha dimostrato che tra adolescenti di etnia Latina e Afroamericana le conseguenze della discriminazione razziale sono riferibili ad abuso di sostanze, depressione e comportamenti sessuali rischiosi (Kao & Caldwell, 2017).

Discriminazione razziale e bambini: lo studio

L’etnia è, oltre ogni dubbio, un’importante parte dell’identità e dello sviluppo stesso degli individui. Riconoscendo tale importanza, Yates e Marcelo, recentemente hanno indagato l’esperienza della discriminazione razziale in un campione di 172 bambini di 7 anni (86 femmine e 86 maschi). Il 56% del campione era composto da bambini di etnia latina, il 19% afroamericani e il resto multietnici.

I ricercatori hanno dapprima fornito ai partecipanti la seguente definizione di discriminazione razziale:

Discriminare vuol dire maltrattare o non rispettare l’altra persona solamente per il colore della pelle, perché parla una lingua diversa o ha un accento diverso, o perché proviene da un altro paese o un’altra cultura.

Successivamente, è stato chiesto ai bambini se avessero mai percepito di essere stati discriminati per il colore delle pelle, la lingua-madre o per la cultura d’origine (Yates & Marcelo, 2018). Un anno dopo, I ricercatori hanno indagato l’importanza data dai bambini alla propria etnia, i sentimenti maturati verso di essa e quanto il loro comportamento fosse influenzato dalla stessa. Infine, è stata estrapolata l’identità etnico-raziale (ERI) che riflette credenze e attitudini che gli individui hanno circa i propri gruppi etnici.

Ciò che emerso dallo studio è che, tra i bambini con un senso di identità etnica al di sotto della media, l’esperire discriminazione predice un aumento di problemi comportamentali internalizzati ed esternalizzati (ansia, depressione, comportamenti oppositivi). Al contrario, la stessa esperienza non predice suddetti problemi tra i bambini con un’identità etnica fortemente sviluppata (Yates & Marcelo, 2018).

A confermare ciò, la letteratura sul tema ha precedentemente indicato che gli adolescenti con maggior interesse verso la propria cultura d’origine e con un maggior senso di appartenenza al gruppo etnico d’origine dimostrano maggior benessere psicologico e meno effetti negativi sul comportamento rispetto ai coetanei meno informati e connessi al proprio gruppo d’appartenenza (Nuttall & Valentino, 2017).

Conclusioni

Il recente studio di Yates e Marcelo è utile perchè pone l’accento sull’importanza di promuovere e sostenere la conoscenza riguardo il proprio gruppo etnico e il senso di appartenenza sin dai primi anni di vita, per ridurre la discriminazione razziale e i suoi effetti negativi sui bambini.

I genitori dovrebbero sapere che etnicità, razza e cultura sono elementi chiave nella vita di un bambino, per cui parlare con loro della propria etnia e di come viene soggettivamente vissuta è importante, anche ai fini preventivi.

La madre simbolica e la sua funzione

La funzione materna non conosce cure anonime in quanto queste non danno senso alla vita, la madre è colei che sa rendere e fa sentire ogni figlio unico e insostituibile.

In nome del padre: si inaugura il segno della croce. In nome della madre s’inaugura la vita. (De Luca, 2006)

 

Per madre dobbiamo intendere non solo colei che genera biologicamente, piuttosto è bene mettere in risalto anche la sua funzione simbolica, che non si consuma solamente in quella biologica. Freud (2009) vede nella madre la prima soccorritrice, colei che accoglie le prime urla del bambino; la madre è dunque accoglienza pura. Recalcati fa coincidere simbolicamente la funzione materna all’immagine delle mani che sostengo, accolgono e si prendono cura dei primi anni dell’esistenza, che abbracciano la vita, successivamente riconosciuta dal padre.

Il bambino nel vedere lo sguardo della madre guarda il mondo, egli non solo vede l’Altro nello sguardo materno, ma vede anche se stesso. Lo sguardo della madre può avere diverse valenze, infatti non c’è un modo univoco di essere madre ma esistono diversi modi di esserlo. Lo sguardo che incontra il bambino nei primi anni di vita può essere sereno, aperto, soddisfatto, che mostra quanto quel bambino esistesse già nel desiderio materno; oppure può essere uno sguardo depresso, dove il mondo e l’Altro verranno rappresentati come cupi, spenti e che rimanderà al bambino un’immagine di sé come non degno di amore.

L’essere umano cresce nel vero senso della parola, quindi si sviluppa, si umanizza, quando si sente nel desiderio della madre, essendo oggetto di cure particolareggiate e non di una maternità che segue regole e comportamenti standard.

La funzione materna non conosce cure anonime in quanto queste non danno senso alla vita, la madre è colei che sa rendere e fa sentire ogni figlio unico e insostituibile.

Basti pensare alla madre per antonomasia, Maria, madre di Gesù, abitata dal desiderio puro, colei che mostra la potenza della vita e della sua generatività. Questa donna porta la vita nella vita ed è avvolta dal mistero, dalla contraddizione in quanto la vita che genera non è di sua proprietà, è responsabile di questa vita ma non è un suo possesso. Madre è infatti colei che ti genera, ti insegna a camminare per poi lasciarti andare, che vede l’insostituibilità nella vita del figlio ma allo stesso tempo deve saperla lasciare andare. Il rischio che si corre nel non lasciar correre da solo il proprio figlio è quello di negargli la vita, di tenerlo bloccato ed atrofizzarlo.

La storia del re Salomone, nel primo libro dei Re, rende ancora più chiaro quanto appena detto. Un giorno andarono dal re due donne che abitavano nella stessa dimora e che da poco erano diventate madri entrambe, si presentarono dinnanzi a lui e una disse che il figlio della ragazza che l’accompagnava era morto durante la notte perché questa vi si era addormentata sopra e che questa aveva posto su di lei, mentre dormiva, il figlio morto, prendendo invece quello vivo. L’altra donna replicò che non era vero, che il figlio morto non era dell’altra e che non vi era stato alcuno scambio. Allora il re ordinò di farsi portare una spada e disse che avrebbe tagliato a metà il figlio vivo e che avrebbe dato una parte all’una e un’altra parte all’altra. La madre del bambino si rivolse al re dicendo in lacrime di dare il bambino all’altra donna, mentre l’altra rispose che il bambino non doveva essere di nessuna delle due e doveva essere diviso a metà. Il re disse: “Date alla prima il bambino vivo. Questa è sua madre.

Questo racconto spiega come la funzione materna, non patologica, preferisca la vita del figlio senza proprietà rispetto alla morte di questo. Questi sono due aspetti della maternità, una madre che soffoca, schiaccia il figlio e il suo desiderio, quella che si definisce la mamma chioccia che vuole sempre i suoi figli con sé, o quella che Lacan definisce la mamma coccodrillo, che finisce per ingoiare suo figlio. Il rischio della maternità è questo, la completa fusione, l’assenza di identità. È proprio in questa fase che occorre il padre, con la sua funzione di porre delle regole. Il bastone che va messo tra le fauci del coccodrillo è il Nome del Padre che impedisce al figlio di morire, evita l’incesto, ed impedisce che questo venga completamente assorbito dal materno.

Essere madre, continuando ad essere donna

Non solo serve il padre per evitare la morte matricida del figlio, ma occorre che la madre si ricordi di essere anche donna, la funzione materna non può uccidere l’essere donna. Lo scontro sembra essere un po’ quello tra Maria, madre per eccellenza nella visione patriarcale, una versione socialmente accettata, benefica e positiva, ed Eva, incarnazione per l’ideologia patriarcale di una donna cattiva, peccaminosa, lussuriosa. Dominava dunque una visione della donna schizoide e manichea, dove la donna era il male e la madre era il bene.

Ora questa visione, con la libertà sociale e sessuale acquisita dalle donne, è venuta meno, anzi è stata radicalmente sovvertita; le donne oggi lavorano e hanno sempre meno tempo da dedicare ai propri figli (propria l’assetto sociale attuale sancisce questa bipartizione tra donna e madre e la loro completa scissione), nell’ipermodernità la maternità è vissuta come un handicap alla propria affermazione sociale.

L’integrazione di queste due anime del femminile, della donna e della madre è necessaria, poiché l’una senza l’altra sono destinate a fallire e a non essere. La loro convivenza dinamica rende la funzione materna attiva nel processo di affiliazione e di umanizzazione della vita.

Nel suo desiderio la donna salva il bambino, non nell’essere in completa simbiosi e fusione, ma nel fatto che, non solo la madre, ma anche la donna abbia un desiderio che vada al di là della maternità; il bambino ha bisogno della presenza ma allo stesso tempo dell’assenza della madre. La vita del figlio unica e insostituibile nel desiderio della madre ha bisogno di essere accolta, desiderata e amata e allo stesso tempo essere lasciata libera di sperimentarsi, di scoprirsi.

Le Triptamine – Introduzione alla Psicologia

Le triptamine sono dei composti naturali che derivano dalla decarbossilazione dell’aminoacido triptofano, ovvero un alcaloide naturale. Si trovano in alcune piante, funghi, animali, microbi e anfibi, come la bufotenina presente sulla pelle e ghiandole di vari rospi del genere Bufo. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Nell’Uomo è localizzata per il 90% circa nel tratto gastrointestinale, dove è sintetizzata dalle cellule cromaffini, ed è presente anche nel sistema nervoso centrale, in alcuni neurotrasemttitori come la serotonina e la melatonina, e nelle piastrine, delle quali rappresenta il principio vasocostrittore.

Essa è nota per le sue proprietà allucinogene simili a quelle della psilocibina, presente in alcuni funghi allucinogeni, o della dilmetil-triptamania, un componente dei decotti di Ayahuasca, utilizzati da alcune popolazioni dell’Amazzonia per le note proprietà allucinogene.
 Le triptamine agiscono principalmente in maniera agonista sui recettori serotoninergici ma anche su molti canali ionici.

La ghiandola pineale situata nell’encefalo è in grado di produrre più o meno blande quantità di triptamina, durante la fase REM dei sogni, specialmente intorno alle ore 3, 4 del mattino. Questa sostanza, quindi, potrebbe essere la chiave per spiegare le particolari caratteristiche di alcuni sogni.

Le triptamine possono essere divise in 2 grandi gruppi:

  • Le triptamine semplici, da cui derivano dei composti per varie sostituzioni e le ergoline, di cui fa parte LSD. Le triptamine naturali circolano come preparazioni vegetali essiccate, per esempio i funghi secchi.
  • Le triptamine sintetiche, al contrario, possono trovarsi sotto forma di capsule, compresse, polveri o in forma liquida. Generalmente sono ingerite, sniffate, fumate o iniettate.

Le triptamine di sintesi comprendono un gruppo di composti derivati dalle triptamine classiche con proprietà principalmente allucinogene.

Alcune triptamine sintetiche sono state progettate e sintetizzate per la ricerca, altre, invece, sono in circolazione come nuove sostanze psicoattive.

Alcune delle triptamine riscontrate nel mercato delle droghe sono la 5-MeO-DMT, 5-MeO-DPT, AMT, 4-AcO-DMT, 4-AcODiPT, 5-HTP, psilocin, psilocybin, DET, DMT, etriptamina, 5-MeO-DALT, 5-MeOMiPT, 4-AcO-DMT.

Tra le triptamine più conosciute e diffuse: la DMT

Le triptamine sintetiche, diffusesi a partire dagli anni 90’, sono rimaste in voga sul mercato delle droghe, fino al 2007 quando furono inserite all’interno della lista dei narcotici o designer drugs e successivamente rimpiazzate dai catinoni, dalle fenetilamine e dalle piperazine.

La più conosciuta tra le triptamine è la DMT ovvero Dimetiltriptamina o 4-AcO-DMT

La DMT è una triptamina sintetica psichedelica, che deriva della acetilatazione della psilocina, in condizioni fortemente acide o alcaline, e per questo altamente allucinogena.

Nonostante sia simile alla psilocibina, essa risulta più resistente all’ossidazione in condizioni basiche.

Storia della DMT

La DMT fu sintetizzata per la prima volta nel 1931 da Richard Manske nella grande ondata di sperimentazione chimica che portò alla scoperta della mescalina alla fine del diciannovesimo secolo. In quel momento non si conoscevano i suoi effetti sulla psiche e così fu dimenticata fino a quando, circa quindici anni dopo, le pozioni degli sciamani sudamericani divennero di grande interesse per la psicofarmacologia.

La prima testimonianza registrata dell’uso di un preparato a base di DMT si ha da un frate impiegato nella seconda spedizione di Colombo nelle Americhe nel 1496, sull’isola di Hispaniola, che osservò gli indiani Taino inalare una potente polvere chiamata ‘kohhobba’, forte al punto che chi la assumeva perdeva coscienza.

Goncalves, un chimico, nel 1946 è riuscito a isolare per la prima volta DMT da una Mimosa Hostilis  e ulteriori ricerche successive portarono alla individuazione di DMT nella Piptadenia macrocarpa e nella Peregrina.

Soltanto nel 1956, però, si specificarono gli effetti psicoattivi della DMT. Fu Stephen Szára, chimico ungherese e psichiatra, che non riuscendo a procurarsi l’LSD o la mescalina sintetizzò da una pianta DMT, sperando fosse una sostanza abbastanza psichedelica.

Successivamente, Szára fuggì dall’Ungheria emigrando negli Stati Uniti dove lavorò al National Institutes of Health a Bethesda, nel Maryland, per oltre trent’anni e come direttore della ricerca preclinica presso l’Istituto nazionale per l’abuso di droghe per molti anni fino al suo ritiro nel 1991.

Nel 1965, una squadra tedesca ha annunciato di aver isolato DMT da sangue umano e nel 1972 fu individuata nel tessuto cerebrale umano, e successivamente nell’urina e nel liquido cerebrospinale. Una volta scoperti i percorsi attraverso i quali il corpo umano genera DMT, essa fu designata come il primo psichedelico umano endogeno.

La DMT sintetica è ricavata a partire da solventi come alcol o gasolio, oppure attraverso dei processi di distillazione.

Meccanismo di azione

Gli effetti psichedelici della DMT si possono attribuire in gran parte alla attivazione del recettore serotoinergico 5-HT2A, anche se non si può escludere che altri recettori possano giocare un ruolo importante. Quando la DMT arriva al sistema nervoso centrale si lega ai recettori adrenergici causando un aumento della pressione e una diminuzione della produzione di noradrenalina e di acetilcolina. Successivamente entra in competizione con la serotonina e con la dopamina sui recettori della dopamina causando così una diminuzione degli stessi a livello postsinaptico, ma senza cessarne la produzione. Quando successivamente la sostanza è metabolizzata, i neurotrasmettitori ritornano tutti al loro posto. In questo modo non si creano né alterazioni chimiche né dipendenze per la DMT.

Modalità di assunzione

La DMT è assunta con diverse modalità che differiscono per effetti e durata. Può essere fumata producendo effetti immediati ma meno duraturi; inalata, e gli effetti sono caratterizzati da un incremento della durata e da una diminuzione dell’euforia; iniettata e produce effetti simili all’inalazione; ingerito, produce affetti più duraturi.

Effetti ed esperienze

I principali effetti della DMT sono:

  • allucinazioni visive vivide;
  • maggiore nitidezza dei colori;
  • brillantezza dei colori aumentata;
  • alterazione di tutte le percezioni, specie visive, tattili ed uditive;
  • presenza di un ronzio/fischio ad alte frequenze, ricorrente in tutte le esperienze

Da questa fase si passa a una seconda in cui si genera un caleidoscopio della coscienza nel quale si muovono dei frattali coloratissimi e fluorescenti.

Nel giro di una decina di minuti le allucinazioni perdono vividezza, si ripassa alla fase di “semi-coscienza” per poi tornare nel giro di altri 10-20 minuti alla normalità.

Effetti collaterali

La DMT genera la comparsa di allucinazioni visive, dispercezioni uditive, intensificazione dei colori, la distorsione dell’immagine corporea, la depersonalizzazione, la marcata labilità emotiva, euforia, rilassamento, proprietà entactogene, sintomatologia dello spettro ansioso, agitazione, tachiaritmia, iperpiressia, neurotossicità serotoninergica.

Quindi, dopo l’assunzione si presentano pensieri confusi, difficoltà nell’articolare le parole, difficoltà a deambulare.

Successivamente si ha un miglioramento dello stato emotivo e la sensazione che tutto intorno sia piacevole. I colori iniziano a cambiare e a rendere l’ambiente come quello di un cartone animato o di un film di fantascienza. L’ambiente sembra modificarsi, restringersi o ampliarsi, sembra diventare un mondo magico dove gli oggetti prendono vita. Poi, d’un tratto si verifica un vuoto assoluto e una sensazione di apatia totale, a volte unita a terrore e sensazione di morte imminente.

Stato legale

In Italia la molecola DMT non risulta inclusa nelle Tabelle del D.P.R. 309/90 e s.m.i. La molecola non risulta essere posta sotto controllo in Ungheria, Lituania e Portogallo. Non risulta essere posta sotto controllo in Bulgaria. Non si hanno informazioni sullo stato legale della molecola negli altri Paesi europei.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La differenza invisibile (2018) di C. Mademoiselle, J. Dachez, F. Vaslet – Recensione del libro

Julie Dachez prende ispirazione dal proprio vissuto personale per raccontarci, nel libro La differenza invisibile, la storia di Marguerite, giovane donna Asperger che affronta le sfide del vivere in un mondo fisico e sociale costruito su misura delle caratteristiche della popolazione neurotipica.

 

Ne esce un graphic novel in cui le illustrazioni di Madamoiselle Caroline, meravigliose nel loro uso del colore, rendono pienamente giustizia al vissuto psicologico ed emotivo della protagonista.

La differenza invisibile: la storia di Marguerite che si sente inadeguata

Marguerite si presenta ai lettori de La differenza invisibile come una giovane donna che, inizialmente inconsapevole della sua neurodiversità, si sforza di condurre una vita “normale”: ha un lavoro, un fidanzato e degli amici eppure prende gradualmente consapevolezza del fatto che la sua quotidianità è una continua lotta tra l’impulso a rifugiarsi nelle cose che le danno piacere e lo sforzo di rispondere a tutte quelle richieste sociali che le permettono di riconoscersi uguale agli altri, quindi “giusta”.

Il primo ostacolo nel raggiungimento di tale obiettivo è dato dal fatto che Marguerite non vive nello stesso ambiente percettivo in cui vivono i neurotipici. La sua iperuditività le rende difficoltoso lavorare nell’ambiente caotico dell’open space, in cui mille suoni diversi raggiungono la sua attenzione e le impediscono di concentrarsi sul compito.

L’ipersensibilità tattile le procura dolore nel sopportare un abbigliamento che rispetti i dress code imposti dai diversi ambienti sociali che, nonostante ella si impegni, le rimandano di non essere  mai sufficientemente adeguata.

La differenza invisibile: le mille variabili dell’autismo

Per queste stesse ragioni Marguerite non riesce a condividere il letto con il fidanzato e fatica a partecipare insieme a lui alle “normali” attività di svago, in particolare modo quando le richieste giungono inaspettate e sconvolgono le routine quotidiane, unica garanzia di tranquillità all’interno di una giornata dominata dall’ansia.

Il suo profilo cognitivo fa sì che coltivi con interesse assorbente le sue passioni, che mai incontrano quindi la necessaria disponibilità all’ascolto da parte degli altri. La comprensione letterale non le causa solo qualche momento di imbarazzo, ma, unita alla scarsa comprensione delle intenzioni altrui, la rendono incapace di mentire e, cosa più grave, vulnerabile all’abuso.

Esasperata dalla fatica di convivere con  tutte queste difficoltà, Marguerite si mette alla ricerca di risposte su internet e scopre che molte delle sue caratteristiche sono riconducibili alla sindrome di Asperger. Da qui inizia il lungo percorso di ricerca di una conferma che, come spesso accade, prende avvio dal contatto con specialisti che non sono in grado di riconoscere in lei alcuna forma di neurodiversità, ancora troppo ancorati al pregiudizio che di autismo si possa parlare solo in presenza di sintomi eclatanti quali una netta chiusura sociale simboleggiata dall’assenza di contatto oculare. Oggi si sa invece che l’autismo è una condizione che contempla al suo interno una grande variabilità di manifestazioni, spesso molto distanti da questo stereotipo. Nelle femmine diventa spesso una condizione invisibile poichè i sintomi sono generalmente meno pronunciati e alcuni di essi finiscono spesso per essere normalizzati da fattori culturali legati al genere sessuale.

Quando finalmente Marguerite incontra i professionisti giusti, accoglienti e preparati, le viene proposto il percorso diagnostico che la condurrà verso il riconoscimento di una condizione autistica lieve, l’Asperger.

La differenza invisibile: ciò che ci rende uguali

Da quel momento Marguerite cesserà di sentirsi sbagliata e imparerà ad accettare se stessa, si riapproprierà gradualmente del diritto di riconoscersi in bisogni legittimi anche se differenti dalla maggior parte della popolazione. Non tutte le persone che ruotavano intorno a lei si riveleranno capaci di crederle e di rispettarla ma Marguerite non è più disposta ad essere l’unica a sforzarsi di fare dei passi nella direzione dell’altro: da quando ha scoperto di essere Asperger sa fermarsi a metà strada, consapevole che solo una maggior conoscenza dell’autismo da parte della popolazione neurotipica potrà favorire questo reciproco avvicinamento. Forse con questo obiettivo è nato questo bellissimo libro.

Il dolore di un cuore spezzato da un lutto: le conseguenze per la salute fisica

La morte del proprio coniuge, di quello che è stato il proprio compagno o compagna di vita, è spesso causa di importanti conseguenze psicologiche, ma anche il corpo e la salute fisica sembrano subire l’impatto di questa perdita in maniera maggiore di quanto finora pensato.

 

La perdita di un coniuge può avere effetti devastanti non solo sulla salute psicologica, ma anche su quella fisica, o almeno questo è quanto afferma un recentissimo studio effettuato dalla Rice University di Houston, Texas (Fagundes et al., 2018).

Il campione oggetto di studio ha coinvolto 99 soggetti (sia uomini che donne) che avevano perso il compagno o la compagna nei 3-4 mesi precedenti all’indagine.

La procedura sperimentale prevedeva che, in seguito ad un’intervista preliminare, fossero prelevati a ciascun soggetto dei campioni di sangue. Successivamente i ricercatori hanno diviso la totalità dei partecipanti in due sottogruppi: il primo gruppo era costituito da coloro che mostravano maggiori comportamenti di sofferenza a seguito del decesso del coniuge (ad esempio difficoltà a superare l’accaduto, incapacità di accettare il lutto, presenza di flashback di episodi vissuti con il coniuge seguiti da umore negativo, etc.); il secondo gruppo invece raccoglieva i soggetti che, al contrario, non presentavano tali sintomi.

Tramite il prelievo ed il successivo confronto dei campioni di sangue è stato possibile dimostrare come i soggetti del gruppo che soffriva maggiormente il lutto mostravano un livello di infiammazioni corporee generalizzate più alto del 17% rispetto ai membri dell’altro gruppo. In questo modo sembrerebbe che la sofferenza vissuta a causa del lutto correli positivamente con il livello di infiammazioni corporee.

Nell’esame dei campioni di sangue sono stati esaminati i livelli di varie citochine: interferone gamma (IFN-γ), inter-leuchina (IL)-6, TNF-α. Gli autori dello studio hanno riscontrato che nel gruppo di persone che mostrava più sofferenza per la perdita del coniuge, i livelli di IFN-γ, IL-6 e TNF-α erano più elevati rispetto a quanto riscontrato nell’altro gruppo. La presenza di un alto livello di queste citochine favorisce le infiammazioni a livello corporeo ed è un fattore di rischio per moltissime complicazioni mediche che insorgono durante l’età adulta (compresi i tumori e gli infarti).

Conclusioni

Secondo gli autori dello studio, si tratta della prima volta in cui è possibile confermare grazie ad uno studio sperimentale che il dolore di un lutto, indipendentemente dai sintomi depressivi che il soggetto che vive la perdita può provare, conduce ad una maggiore probabilità di incorrere in infiammazioni corporee di diversa natura, che a loro volta possono essere causa di problemi di salute ancora più gravi.

Da un punto di vista pratico, la principale implicazione che ne consegue è che si delinea la possibilità di poter individuare poco dopo il lutto i soggetti nei quali la sofferenza psicologica può portare ad un’aumentata probabilità di incorrere in problemi di salute quali attacchi cardiaci e ictus. La possibilità di individuare la popolazione a rischio implica anche la possibilità di poter intervenire tempestivamente, tramite interventi comportamentali o farmacologici, per ridurre la sofferenza e quindi i rischi per la salute.

Non dimenticarmi – Don’t forget me (2018) – Recensione del film vincitore del Torino Film Festival 2017

Non dimenticarmi – Don’t forget me è un film diretto da Ram Nehari in cui si intrecciano anoressia e fuga d’amore. Il film, vincitore del Torino Film Festival 2017 esce nelle sale dal 15 Novembre.

 

Il film narra in maniera cruda, drammatica ed ironica l’intreccio amoroso tra Tom (Moon Shavit), affetta da anoressia nervosa e ricoverata in una clinica per il trattamento dei disturbi alimentari, e il sensibile Neil (Nitai Gvirtz), musicista affetto da disturbi psichiatrici.

Non dimenticarmi: l’inizio in una clinica per disturbi alimentari

La storia è quella del toccante incontro fra la giovane e fragile Tom, ricoverata in una clinica per il trattamento dei disturbi alimentari che si rivolge alla vita con durezza, cinismo e disillusione e Neil, sensibile suonatore di tuba affetto da problemi psichiatrici che entra ed esce da un ospedale all’altro e sogna di girare il mondo in tournée con la propria band.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Non dimenticarmi - Don’t forget me - Recensione del film prot2

Non dimenticarmi racconta in maniera cruda e commovente, seppur con un pizzico di ironia, il dramma vissuto da Tom la quale, ricoverata in una clinica per il trattamento dei disturbi alimentari, vive in simbiosi con la propria ossessione per il cibo e si rivolge alla vita con cinismo, freddezza e rigidità.

Quando la triste e monotona routine della clinica, scandita da frustranti controlli medici e disperati tentativi di nascondere il cibo e smaltire le calorie di troppo, viene stravolta dal ritorno del ciclo mestruale, Tom, ossessionata dalla propria immagine corporea ed imprigionata nella sua visione così rigida ed intimamente distorta della realtà, sprofonda nel panico. Invece di gioire di fronte a un chiaro sintomo che il proprio organismo sta finalmente tornando in salute, lo stato d’animo che prende il sopravvento ha a che fare con l’umiliazione e la disperazione relativa agli sforzi che si renderanno necessari per tornare “in forma” ed eliminare i chili acquisiti.

Quella sarebbe senza alcuna ombra di dubbio una giornata da dimenticare, se non fosse per la conoscenza del sensibile Neil, giovane psicotico capitato per caso nella clinica che fantastica di partire in tournée per coronare il suo sogno di musicista.

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Non dimenticarmi: la fuga alla ricerca della normalità

Il loro incontro, per nulla banale, a tratti goffo ed ironico, si traduce presto in una vera e propria fuga d’amore per le strade di Tel Aviv. Scappati nel cuore dalla notte da una finestra, una finestra sul mondo e sulla vita, i due ragazzi vagano per la città senza meta condividendo sogni, speranze e desideri riconoscendosi, seppur nella loro diversità, sempre più vicini.

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La loro follia e le loro fantasie alimentano il loro amore, un sentimento sincero per la vita e per la libertà. È così che, forse dopo molto tempo, la gelida e cinica Tom abbassa le difese svelando il suo mondo e le sue paure a un degno compagno di avventura. Il loro cammino, così naturalmente folle e squilibrato, così drammaticamente in collisione con la nuda e cruda realtà che non può fare a meno di rivelarsi in tutta la sua amarezza ad ogni loro fermata, si traduce in un vero e proprio viaggio verso la ricerca della normalità, quella normalità che sino ad ora quel mondo, così severo e poco empatico, gli ha negato.

Finalmente Tom e Neil, anche se evidentemente troppo vulnerabili per sorreggersi davvero, hanno trovato tutto ciò di cui hanno bisogno: la possibilità di evadere dalla loro solitudine e condividere sogni fatti di tenere illusioni.

Non dimenticarmi è un film toccante, insolito e senza filtri che si rivolge a un pubblico sensibile ed acuto, che sappia leggere il dramma di due protagonisti decisamente folli ed innamorati della vita che si rifugiano, insieme, nelle rispettive fantasie dalle quale sanno costruire, seppur a modo loro, un sentimento naturale e sincero, per nulla scontato e così singolarmente fuori dagli schemi.

 

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Lesioni frontali e disturbi comportamentali nella sindrome disesecutiva

Una persona a seguito di una lesione in sede frontale, sia unilaterale che bilaterale, può manifestare disturbi del comportamento. I lobi frontali infatti hanno un ruolo cruciale nel modulare e controllare i meccanismi emozionali sottesi al sistema limbico (Natua, 1971).

Simona Pappacena – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Vi è una fitta rete di connessioni con diverse aree (ipotalamo, amigdala, aree associative visive, uditivi e somato-sensoriali) grazie alle quali i lobi frontali ricevono sia informazioni relative agli stati motivazionali ed emozionali sia informazioni relative al mondo esterno. Attraverso queste interconnessioni i lobi frontali regolano gli stati emotivi in base alle condizioni esterne ed interne alla persona al fine di consentire un adattamento funzionale all’ambiente. Lesioni in tali aree possono condurre ad una mancata integrazione di tali informazioni che potrebbero spiegare da un lato le condotte emozionali e sociali inappropriate e dall altro l’incapacità di anticipazione presente in lesioni frontali. (Stuss, Gow e Hetherington, 1992).

Lesioni frontali: il primo caso in letteratura

Harlow (1848) riporta il primo caso di rilevante cambiamento nella personalità e nel comportamento; si strattava di un paziente con una lesione bilaterale dei lobi frontali, che coinvolsero soprattutto le aree orbitomediali. Tale paziente, Phineas Gage, ormai divenuto emblematico nel mondo della neuropsicologia, prima della lesione descritto come equilibrato e paziente, divenne successivamente irriverente, ostinato ed incostante.

La manifestazione fenomenologica dei disturbi del comportamento dipende da vari fattori: la sede della lesione, l’estensione e la localizzazione. Pertanto, tali disturbi risultano essere molto eterogenei.

Oltre alla componente biologica, legata, ad esempio, al tipo di eziologia (traumatica, degenerativa, tumorale), è importante tenere in considerazione alcuni fattori che non hanno una diretta relazione con il danno cerebrale (Gainotti, 1996) e possono essere:

  • Personalità premorbosa
  • Variabili psicologiche ed ambientali

Inoltre, i disturbi comportamentali possono essere complicati anche da deficit cognitivi associati alle lesioni frontali. Si rende pertanto opportuna una valutazione neuropsicologica che tenga conto dell’intreccio di entrambi gli aspetti.

Nonostante la variabilità delle manifestazioni cliniche, è possibile individuare e descrivere tre principali aree problematiche: i disturbi della motivazione, i disturbi della disinibizione frontale e i disturbi affettivi.

Lesioni frontali e disturbi della motivazione

Per motivazione si intende uno stato interno che implica processi sia di natura consapevole che di natura non consapevole, che spingono un soggetto ad agire (Marin, 1990). Lo stato motivazionale porta ad elaborare informazioni ambientali al fine di selezionare stimoli e comportamenti rilevanti o che conducono ad un maggior vantaggio per un soggetto.

Apatia 

L’apatia è una riduzione dei comportamenti finalizzati al raggiungimento di uno scopo, sul versante cognitivo (come la riduzione dei contenuti del pensiero legati al raggiungimento di un obiettivo), comportamentale (non impegnarsi in attività sociali e ricreative) ed emotivo (perdita della reattività emotiva sia a stimoli positivi che negativi e mancanza di spontaneità), per mancanza di motivazione (Marin, 1990).

La mancanza di motivazione può essere presente:

  • Nella sindrome apatica, dove vi è un deficit motivazionale primario
  • Come manifestazione sintomatologica secondaria a disturbi internistici, psichiatrici e neurologici (es. demenza). I pazienti apatici neurologici, non manifestano disagio per il loro stato e non sembrano preoccuparsene. Vengono descritti dai familiari come disimpegnati ed inibiti, meno attenti agli altri, indifferenti a qualsiasi attività. L’apatia è associata ad una disfunzione del circuito cingolato anteriore, definito come circuito della motivazione, che integra informazioni cognitive ed emozionali nei processi motivazionali, e può manifestarsi sia in pazienti con patologia degenerativa corticale (Alzheimer) e sia in pazienti con patologia sottocorticale (Parkinson).

Altra condizione che porta ad una riduzione nel comportamento e nella motivazione a ricercare piacere, è l’anedonia. Per anedonia si intende un’incapacità nel provare piacere in ogni tipo di situazione che di norma dovrebbe procurarne (attività sessuali, attività relazionali o sociali). L’anedonia, quindi si riferisce ad un’incapacità nel desiderare e ricercare stimoli gratificanti. L’anedonia, nei pazienti neurologici, sembra essere associata ad una iposensibilità dei maccanismi cerebrali di ricompensa a causa di una disfunzione dopaminergica mesolimbica. E tale aspetto è stato osservato ad esempio in pazienti con Parkinson.

Lesioni frontali e disturbi della disinibizione

Un aspetto frequentemente presente in pazienti con danno frontale è la cosiddetta “sindrome da disinibizione”. Per capire la fenomenologia di tale sindrome è utile la descrizione che ne fa Damasio (1994). Tali pazienti, infatti, secondo Damasio, “sanno” come dovrebbero agire, ma non “sentono” il loro agire. Questo aspetto può essere spiegato in questi pazienti da una preservata intelligenza cognitiva ma da una compromissione dell’intelligenza sociale ed emozionale: conoscono le norme sociali ma non riesco a rispettarle nella vita quotidiana.

Tale sindrome è correlata ad una disfunzione della corteccia orbitofrontale, sede del controllo, della modulazione e dell’inibizione di azioni ed emozioni. Alcuni aspetti legati ai disturbi della disinibizione sono:

  • Impulsività, ovvero l’attuazione di risposte immediate, senza una pianificazione ed una valutazione dei possibili effetti su di sé e sugli altri. Nei pazienti con danno frontale, soprattutto a carico delle regioni orbitomediali, è possibile ricontrare una impulsività motoria, cioè la tendenza a produrre una risposta immediata in presenza di uno stimolo, ed un’impulsività cognitiva, cioè un’incapacità nel ritardare una gratificazione.
  • Comportamenti inappropriati, ovvero un’incapacità di adeguare il proprio comportamento alle richieste ambientali, caratterizzato da una violazione delle norme sociali ed interpersonali. Tali comportamenti sono legati, dunque, ad una varietà di alterazioni della condotta che sono ritenute anomale, indipendentemente dal contesto (Rosen et al., 2002). Tra le manifestazioni di tali comportamenti, in pazienti neurologici con danno frontale, vi sono: l’iperoralità, cioè disturbi del comportamento alimentare sia in senso quantitativo (bulimia) che in senso qualitativo (alimentazione caotica) o aumento del fumo e dell’alcol; iperattività motoria sia vocale che motoria. Tra questi aspetti vi sono la dromomania, cioè una deambulazione eccessiva caratterizzata da pedinamento (shadowing) di qualunque oggetto animato in movimento; camminare su percorsi fissi e stretti (pacing), il vagabondaggio (wandering), e l’affaccendamento afinalistico, cioè quando i pazienti sembrano indaffarati in attività che non hanno un fine logico (come fare e disfare il letto). Tra i disturbi legati ai comportamenti inappropriati, vi sono anche i disturbi ossessivo compulsivi (DOC), che sono correlati ad una disfunzione della corteccia frontale. Si differenziano dai disturbi ossessivo-compulsivi di natura psichiatrica, in quanto nei pazienti neurologici i comportamenti ripetitivi complessi non sono finalizzati al neutralizzare vissuti d’ansia. In particolare è stato osservato la presenza di DOC in casi di disfunzioni del circuito orbitofrontale laterale e del circuito cingolato anteriore. Tali circuiti, non andrebbero, in caso di disfunzione, ad esercitare il controllo inibitorio sul talamo dorsolaterale, con conseguente attivazione di schemi motori inappropriati, perseverazione di pensieri e condotte ripetitive. Un esempio di manifestazione del DOC è la tendenza all’accumulo di oggetti inutili (Damasio 2005).
  • Sociopatia Acquisita, ovvero una grave alterazione del comportamento sociale che si caratterizza per insensibilità, mancanza di sensi di colpa, non comprensione delle conseguenze dei propri atti sugli altri. Vi è una mancanza di comprensione degli stati emotivi degli altri. Questa aspetto si presenta soprattutto in pazienti con lesioni bilaterali in sede orbitofrontale.
  • Aggressività e comparsa di comportamenti violenti, soprattutto in seguito a traumi cranici. Le aree danneggiate che portano ad una disfunzione della regolazione delle emozioni negative e che portano all’aggressività impulsiva sono quelle orbitofrontali e temporale anteriore (Davidson, Katherine, Larson, 2000).

Lesioni frontali e disturbi dell’affettività

Le alterazioni del tono dell’umore, presenti in diverse patologie sia psichiatriche che neurologiche, sono legate ad una non funzionale esperienza soggettiva ed espressione delle emozioni.

La depressione è presente in diverse condizioni cliniche. Nei pazienti con lesioni cerebrali, è necessario distinguere i sintomi depressivi causati da un effetto diretto del danno della lesione sull’umore, dai sintomi reattivi, di natura psicologica, legate alle conseguenze fisiche e sociali della malattia neurologica.

Peculiare di alcuni pazienti con lesioni frontali è la presenza di “labilità emotiva”, che si caratterizza per un repentino e brusco cambiamento del tono emozionale (es. dal riso al pianto). Gli stati depressivi sembrerebbero associati maggiormente a lesioni a carico delle aree frontali dell’emisfero sinistro. Invece, lesioni frontali all’emisfero destro, sembrerebbero maggiormente associati ad episodi di mania. (Starkstain e Robinson, 1997).

Lesioni frontali e riabilitazione dei disturbi comportamentali

Un approccio riabilitativo per i disturbi del comportamento è la terapia di modifica comportamentale (Behavior Modification Therapy). Una tecnica utilizzata per la riabilitazione dei comportamenti indesiderati in eccesso (quali la disinibizione e l’impulsività) è la “token economy”. Tale tecnica prevede l’erogazione di gettoni al paziente quando questi mette in atto un comportamento appropriato (rinforzo positivo) e la sottrazione di tali gettoni in caso di comportamento non appropriato (rinforzo negativo). I gettoni hanno un valore per il paziente perché vengono attribuiti a premi, pattuiti con lo stesso paziente.

Altra tecnica utile per i disturbi in eccesso, è la sospensione (time-out) dell’attività che si sta svolgendo ogni volta che si mette in atto un comportamento indesiderato. Entrambe le tecniche hanno scopo di rinforzare le capacità riflessive del paziente. In caso di sintomi in difetto (apatia e anedonia), si erogano rinforzi positivi (oggetti, cibo ecc..) ogni volta che il paziente mette in atto dei comportamenti desiderati. In una revisione sugli studi riabilitativi dei disturbi del comportamento (Cattelani, Zettin, Zoccolotti, 2010), è stato messo in evidenza l’efficacia dei trattamenti della terapia di modifica comportamentale. Inoltre, anche la terapia cognitivo-comportamentale, in cui si cerca di modificare gli stili di pensiero e le strategie di adattamento non funzionali, e le terapie olistiche e multidisciplinari, che prevedono una presa incarico totale del paziente e dei suoi familiari, rilevano dei dati promettenti in termini di efficacia riabilitativa dei disturbi acquisiti del comportamento.

La fallacia delle autovalutazioni e l’autocaratterizzazione – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 47

Alcuni affermano con certezza e malcelato orgoglio di avere una soglia del dolore molto alta, intendendo con ciò che resistono bene al dolore e sottintendendo che se si lamentano allora deve essere proprio molto intenso se non insopportabile. 

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La fallacia delle autovalutazioni e l’autocaratterizzazione (Nr. 47)

 

La questione sarebbe davvero di poco conto se le riflessioni che suscita non fossero estendibili a tutto ciò che uno può dire di sé non fondandosi su dati oggettivi di raffronto con un campione omogeneo ma sulla comparazione di presunti vissuti soggettivi.

Quando affermo che ho una soglia del dolore molto alta è perché valuto molto forte quel dolore che provo e riesco a tollerare, e non è forse questo l’indicatore di una bassa soglia del dolore? Insomma l’“io” soggetto che valuta che il “me” oggetto ha una alta soglia del dolore è solo perché lui ce l’ha molto bassa.

È il solito discorso per cui qualsiasi valutazione su se stessi, considerato che il soggetto è allo stesso tempo un “io” valutatore ed un “me” valutato, ci dice poco di oggettivo sul “me” e molto sull’“io” valutatore.

Un altro esempio viene dalla mia personale esperienza di direttore di una struttura con trecento psicoperatori che ogni anno deve valutare con l’ausilio dei suoi collaboratori ciascun dipendente. Regolarmente i migliori a cui venivano attribuiti dei riconoscimenti li reputavano sinceramente immeritati avendo, a loro parere, fatto solo il loro dovere e neppure sempre al meglio. Al contrario quelli che meno si impegnavano sul lavoro ritenevano di meritare premi essendosi sforzati all’inverosimile. Anche in questo caso tutto ciò è comprensibile. Un buon lavoratore ha alti standard, si valuta da quel punto di vista e si ritiene appena sufficiente. Al contrario uno sfaticato pensa che lo stipendio sia un diritto acquisito per il fatto di essere stato assunto e null’altro debba fare, talvolta neppure essere presente affidando ad altri il proprio cartellino segna presenze.

Ancora, un vero narcisista pensa di essere incredibilmente modesto rispetto alle sue potenzialità e una personalità ossessiva può percepirsi come tendente alla sciatteria.

Attenzione questo non è un invito a diffidare sistematicamente delle affermazioni che una persona ed anche un paziente fa su di sé. Ci dicono molto di lui soprattutto se poniamo l’attenzione sul punto di vista dal quale tale affermazione è fatta (per capirci sull’“io” che la fa, sul descrittore piuttosto che sul “me” che è descritto).

Quanto detto dunque non è in contraddizione con l’invito del cognitivismo ad ascoltare e prendere per buono quanto ci dice il paziente, piuttosto che spiegarcelo con le nostre teorie giustificando il suo disaccordo come una resistenza confermante la nostra ipotesi. Al contrario si tratta di ascoltarlo molto attentamente chiedendosi e chiedendogli rispetto all’affermazione che fa su di sé (sono fragile, sono generoso, sono coraggioso, ecc ecc.):

Da quale punto di vista fa questa affermazione?
A cosa gli è utile pensarsi così?
A cosa gli serve dire a me che si pensa così?

Dunque di fronte a quello strumento duttile, semplice e poco impegnativo che è l’autocaratterizzazione dobbiamo ricordarci che non è “come il paziente è” ma, in parte “come il paziente crede di essere” e soprattutto “come il paziente vuole che io creda che lui si vede”.

Tralascio il caso particolare di coloro che esordiscono con “perché io sono sincero, dico sempre ciò che penso in ogni occasione, senza peli sulla lingua” che mi accendono la scala “L” del mio interno MMPI, mi sollecitano regolarmente a rispondere con un “Io invece tendo sistematicamente a mentire e a cambiare versione a seconda del contesto e delle convenienze” e soprattutto mi fanno partire con violenza il ginocchio destro in avanti con destinazione testicolare.

 

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Le lacrime di Nietzsche (2006) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

Le lacrime di Nietzsche di Yalom è stato una conferma. Senza dubbio. Narrazione affascinante, ritmo incalzante, stesura fluida. Niente da dire. Ma quando una fredda mattina di settembre ho concluso la lettura di questo libro non ho potuto fare a meno di provare una emozione strana.

 

Ho già avuto modo di leggere Yalom. Ho letto La cura Shopenahuer, Il dono della terapia ed ora Le lacrime di Nietzsche.

Mi sono sentita “sospesa”. Nel monitorare quello che sentivo ho rintracciato la tristezza, la mia, quella di Breuer e Nietzsche, ed un senso misterioso di speranza ed appagamento.

Le lacrime descritte non appartengono soltanto a Nietzsche ma ad ogni essere umano che si confronta con il dolore ed il dispiacere della realtà terrena, che a volte è magica e speciale ma altre volte cruda e terrorizzante. Anche Breuer, dopo un viaggio guidato nella sua mente, comprende la pienezza di quello che ha nella sua vita, mentre prima se ne sentiva appesantito: accettandone i limiti riconosce di non volere altro, di non volere più quello che credeva di volere.

Le lacrime di Nietzsche: Nietzsche e Breuer in psicoanalisi in incognito

Non potendo svelare i dettagli di questo incontro, per non anticipare troppo ai lettori, mi limito a descrivere in linee generali quello che accade.

Josef Breuer, il medico del momento, uno psichiatra che ha in cura nomi illustri viennesi, incontra Lou Salomé, una donna bellissima e affascinante che gli chiede di aiutare il suo amico Nietzsche, entrato in una profonda crisi. Il tutto, senza che quest’ultimo se ne possa rendere conto. Cosa ardua, direte. Effettivamente come si fa a curare una persona senza che questa capisca di essere un paziente in terapia? L’enigma viene risolto in modo eccellente da Breuer ed i due iniziano a scambiarsi spesso e volentieri il ruolo di paziente e terapeuta in un clima molto simile a quello che è un setting terapeutico come lo intendiamo oggi.

In Le lacrime di Nietzsche si legge anche di tecnica, di ipnosi, dell’attenzione alla relazione che noi oggi chiamiamo terapeutica. Loro parlano di “spazzare il camino” per riferirsi alle libere associazioni, parlano di tecniche comportamentali e anti-ruminatorie che troviamo nei protocolli cognitivo-comportamentlai del DOC, come la dilazione, l’esposizione con prevenzione della risposta e poi troviamo, in un modo molto grezzo e approssimativo, un accenno a quello che si intende per “narrazione vs teoria”. Breuer, infatti, scrive:

…le vostre parole sono cariche di bellezza ed efficacia, tuttavia, quando me le leggete, non mi pare che tra noi esista un rapporto personale. Il senso di ciò che dite lo capisco dal punto di vista intellettuale…ma per potermi aiutare tutto questo deve arrivare dove ha le sue radici…altrimenti non avverto nessuna crescita, non genera alcuna stella danzante! Ho unicamente confusione e caos.

In questo stralcio Breuer invita Nietzsche ad entrare nello specifico di un momento di vita ben preciso, in modo da poterne osservare insieme i dettagli piuttosto che perdersi in un racconto globale e fattuale.

In modo molto velato, questo introduce i due in una dimensione relazionale improntata alla condivisione e tale dimensione segna il punto di inizio di una esperienza in cui entrambi si aprono all’altro, al punto di risolvere alcuni sintomi che li affliggevano.

Le lacrime di Nietzsche: un dipinto sulla cura del parlare

Quella che loro chiamano “la cura del parlare” ha i suoi frutti soltanto in una relazione in cui uno sente di spostare determinate cose nella mente dell’altro e soltanto in questa modalità si realizza una conoscenza che lascia spazio agli aspetti emotivi. Proprio queste considerazioni, sperimentate realmente, fanno sì che i due si rendano conto di essere davvero paziente e terapeuta e non più solo per gioco.

È molto interessante la vicenda che riguarda Bertha Pappenheim e Breuer, che si innamora della giovane isterica passata alla storia come Anna O. A tal proposito compare la figura di Freud, come amico e confidente del professore viennese, con cui scrisse “Studi sull’isteria” in cui descrissero proprio il caso di Anna O. L’eccessiva attenzione di Breuer verso la giovane donna fu causa della crisi matrimoniale con Mathilde, evento abbondantemente conosciuto nella biografia del dottore. Allo stesso tempo, vengono sviscerate le vicissitudini che vedono Nietzsche impegnato in un rapporto pseudo-sentimentale con Lou Salomé ed il loro amico Paul Rée.

A tal proposito, l’attendibilità storica delle vicende è discutibile. Certamente alcune informazioni storico-culturali sono vere, come ad esempio il fatto che la relazione tra Nietzsche e Lou Salomé era contrastata dalla sorella di lui, Elisabeth, e che fu questo a dare avvio alla profonda depressione, con tendenze suicide, del filosofo. Di lui si parla spesso degli atroci attacchi di emicrania, che lo costrinsero a girare l’Europa alla ricerca di un trattamento efficace. Yalom sottolinea che nel 1882 la psicoanalisi ancora non era nata ma crede profondamente che Nietzsche fosse molto indirizzato allo studio dell’io e alle turbe della personalità. Per il resto, Breuer e Nietzsche non si sono mai realmente incontrati. Altri personaggi, però, sono davvero esistiti, pochi sono frutto di fantasia. Inoltre leggiamo di un backgroud storico culturale ben preciso, con le ideologie del momento. Le lacrime di Nietzsche è ambientato nel 1882, Nietzsche non aveva ancora scritto “Così parlò Zarathustra” ma Yalom lo ha più volte citato in quanto credeva che il filosofo avesse già delineato le linee di tale progetto nella sua mente.

Le lacrime di Nietzsche: perchè leggerlo

Oltre alla narrazione della storia principale, nel testo Le lacrime di Nietzsche ci sono delle lettere, alcune vere, tra i vari personaggi chiamati in causa. Quelle più intense riguardano Nietzsche e la donna verso cui provava sentimenti poco chiari. Altre parti, ugualmente notevoli, riguardano gli appunti che Breuer e Nietzsche scrivevano sull’altro dopo ogni loro incontro. Questa stesura, così dinamica, rende la lettura del testo dalle dimensioni notevoli più semplice e scorrevole.

Le lacrime di Nietzsche è un testo commovente, crudamente vicino alla realtà e spunto di riflessione sulla realtà terapeutica e clinica, all’epoca ad uno stato embrionale. Esprime, in molti tratti, la bellezza di una prosa poetica e drammatica, che interseca l’intensità delle esperienze umane a livello sentimentale e corporeo affrontando, ad esempio, aspetti legati al tradimento, alla passione intellettuale che spesso spinge al desiderio sessuale, costringendo a dare significati diversi ai ruoli che la società ci impone.

Per comprenderlo, ma soprattutto per viverlo, consiglio la lettura del testo con uno spirito di apertura e di curiosità anche se, a tratti, richiede un certo impegno intellettuale.

 

LEGGI ANCHE LE ALTRE RECENSIONI DEI LIBRI DI IRVIN YALOM:

Il dono della terapia (2016) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

 

Creature di un Giorno (2015) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

Sul lettino di Freud di Irvin D. Yalom (2015) – Recensione

Le lacrime di Nietzche di Irvin Yalom (2006) – Recensione

Stile genitoriale e sviluppo di comportamenti antisociali nei figli

Uno stile genitoriale più severo e autoritario si è osservato essere in relazione a un maggior rischio di sviluppo di comportamenti antisociali nei figli.

 

Un nuovo studio, pubblicato sul Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, ha rivelato che l’ambiente domestico influenza il carattere aggressivo dei figli, fungendo da fattore di rischio per lo sviluppo dei così detti Callous Unemotional (CU) ovvero i tratti legati allo sviluppo della coscienza che portano a uno stile interpersonale caratterizzato da mancanza di emotività.

Stile genitoriale: influirebbe più del fattore genetico

La ricerca, condotta presso diverse università americane, ha analizzato la presenza di piccole differenze nello stile parentale in famiglie con gemelli omozigoti per determinare se le differenze nella genitorialità sperimentata da ciascun gemello potessero predire la probabilità di comparsa di atteggiamenti antisociali.

Questo studio è l’ultimo di una serie di lavori condotti per valutare vari aspetti legati alla genitorialità. In particolare i primi studi hanno mostrato che la qualità della relazione tra i genitori biologici e i loro figli assume un ruolo decisivo nello sviluppo o meno di problemi comportamentali; risultati analoghi sono stati osservati anche in studi riguardanti genitori e figli adottivi.

L’autrice dello studio Rebecca Waller ha spiegato

Alcuni dei primi lavori sui tratti CU si sono concentrati sulle basi biologiche e genetiche, ipotizzando che questi tratti si sviluppassero in modo indipendente dal contesto di vita del bambino. Gli studi sulle adozioni però smentiscono il ruolo esclusivo della genetica, aprendo la strada alla possibilità che l’ambiente possa funzionare da fattore protettivo e impedire ad un bambino a rischio di mostrare problemi comportamentali sempre più gravi.

Il team di ricerca ha chiesto ai genitori di 227 coppie di gemelli omozigoti, con un’età compresa tra i 6 e gli 11 anni, di compilare un questionario riguardante il proprio stile educativo e il clima domestico: possibili items erano rappresentati da affermazioni quali “Mi capita spesso di perdere la pazienza con mio figlio” oppure “Mio figlio sa che lo amo”. Inoltre i ricercatori hanno valutato il comportamento del bambino tramite le risposte, fornite dalle madri, riguardanti comportamenti aggressivi e tratti CU.

Stile genitoriale e tratti antisociali nei figli: i risultati della ricerca

Dai risultati è emerso che i gemelli che avevano sperimentato un atteggiamento genitoriale severo e poco empatico erano maggiormente soggetti allo sviluppo di comportamenti aggressivi e, in generale, di tratti antisociali. 

Luke Hyde, professore del Dipartimento di Psicologia dell’Università del Michigan ha affermato

Lo studio dimostra in modo convincente che lo stile genitoriale e non solo i geni, contribuiscono allo sviluppo di tratti problematici fondamentali per lo sviluppo futuro della personalità dei figli.

Il desiderio della Waller sarebbe quello di utilizzare le evidenze emerse dalla ricerca per sviluppare interventi familiari volti a controllare lo sviluppo di questi tratti problematici, tuttavia l’autrice afferma

Nella vita quotidiana, la creazione di interventi che funzionino realmente e che siano effettivamente in grado di modificare i comportanti nei diversi ambienti familiari è complicata. Tuttavia lo studio dimostra che il modo in cui i genitori si approcciano ai figli conta molto, il nostro obiettivo a breve termine quindi è quello di adattare i programmi rivolti ai genitori affinché vengano inclusi interventi specifici relativi ai così detti tratti CU.

Il lavoro presentato amplia la comprensione del modo in cui diverse forme di comportamento antisociale emergono, tuttavia è da specificare che il lavoro non incolpa esclusivamente i genitori per l’eventuale condotta antisociale dei figli. Ciò che appare evidente è che i trattamenti possono aiutare i genitori ad arginare questi pericolosi tratti nei figli e che per tale ragione questi trattamenti appaiono d’aiuto soprattutto per i bambini più a rischio.

I ricercatori ammettono alcuni limiti presenti all’interno della ricerca, uno su tutti il fatto di aver considerato primariamente le famiglie in cui sono presenti entrambi i genitori, questo significa che i risultati potrebbero non essere generalizzabili ai nuclei monoparentali.

Non dimenticarmi (2018) di Ram Nehari: l’amore nella sofferenza psichica – Recensione del film

Non dimenticarmi uscirà nelle sale il 15 Novembre. In anteprima, per i lettori di State of Mind, la recensione del film:

 

Non dimenticarminon dimenticarminon dimenticarmi…”, finisce così, nel canto di un menestrello di ospedale psichiatrico, il film di Sam Nehari, autore israeliano alla sua opera prima.

 

E finisce, senza la certezza del lieto fine ma con la speranza ironica e leggera di poterlo immaginare, il racconto di una storia d’amore fra due mondi irrimediabilmente lontani e inesorabilmente vicini.

Tom è una ragazza anoressica ricoverata in clinica, Neil un ragazzo psicotico che entra ed esce da un centro di cura. Il primo incontro è casuale, in campo neutro, e Tom lo vince d’imperio, quasi costringendo Neil a ricevere del sesso e a scappare con lei. Neil si lascia scorrere, fluttua, accetta il piglio della ragazza seguendolo come si seguirebbe un destino che solleva il morale per il solo fatto di essere imprevedibile e diverso dal presente.

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Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 4

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 3

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 5

Non dimenticarmi: un amore che affronta il mondo

Nel loro girovagare per Tel Aviv si abbandonano a una libertà pura, ingenua, condividendo paure adulte alla maniera dei bambini, affrontando quella porzione di mondo che si presenta ai loro occhi senza darsi alcun criterio di obbedienza. E rischiano, si giocano tutto sempre all’attacco; a Tom viene in mente che sarebbe interessante tornare dalla famiglia e far vivere a Neil un “Ti presento i miei” in salsa israeliana, peccato che il padre, uomo tutto d’un pezzo che in quel pezzo concentra tutta la durezza di cui è capace, e la madre, sergente del focolare impantanata nei traumi della storia, non siano dello stesso avviso.

La permanenza a casa non s’ha da fare. Allora Neil rilancia, vorrebbe portare Tom con sé nella tournée europea di un gruppo musicale alle cui fortune dovrebbe contribuire suonando la tuba, ma forse si è inventato tutto. Forse la sua mente ha di nuovo immaginato cose che non esistono, ha di nuovo creato speranze che non possono essere sostenute dalla realtà. Fine dei sogni, rissa violenta con l’amico che non lo riconosce, ritorno in ospedale. Per Neil, e per Tom, che non ha più ragioni autosufficienti verso la libertà.

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Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 1

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 2

Non dimenticarmi: gli aspetti del film

Unisce molti aspetti differenti questo interessantissimo film: è preciso, rigoroso nel dipingere la sofferenza psichica, specie quando mostra senza enfasi ma con puntuale nitidezza la vita da anoressica di una ragazza così sensibile e insieme quasi autoritaria; è creativo nell’immaginare scenari diversi per due persone che non possono oggettivamente cambiare la loro vita, non adesso, ma possono legittimamente aspirare a farlo; è realistico quando descrive la fine del viaggio come una tappa quasi inevitabile, ed è poetico quando affida agli sguardi silenziosi dei due ragazzi, al sorriso tenero appena accennato nel rivedersi, alle parole di lei che abbozza immagini del matrimonio sognato per loro con il candore di una creatura risoluta, infine ai versi del trovatore picchiatello, il significato più intimo di una storia che non si conclude con l’ultima scena ma continua nella nostra fantasia attraverso i sentimenti più liberi a cui vogliamo partecipare.

NON DIMENTICARMI – I VIDEOCLIP DEL FILM:

 

 

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La guerra fredda nei social network: meccanismi psicodinamici tra stati di WhatsApp e provocazioni su Facebook

Appare ormai evidente che il mondo dei social network attraversa sempre più le persone e le relazioni. I “mi piace” su Facebook nonché i “follower” su instagram, hanno di gran lunga messo da parte l’importanza dell’amico del cuore, degli incontri al muretto, delle serenate notturne, per non parlare delle lettere inviate per corrispondenza.

 

Cambiano i modi di porsi, di relazionarsi, ma (forse ancora per poco!) non cambiano del tutto i sentimenti provati ma semplicemente la modalità attraverso la quale vengono espressi.

Se da una parte le dichiarazioni d’amore si caratterizzano per la ripetizione compulsiva di cuori di ogni colore, le malcelate dichiarazioni di odio e risentimento appaiono molto interessanti dal punto di vista psicologico. Introduco il concetto di “guerra fredda” perché proprio come lo scontro tra Stati Uniti ed Unione Sovietica non si è mai combattuto su un fronte, sentimenti di conflitto interpersonale oggi non si traducono necessariamente in scontri veri e propri ma in post e condivisioni apparentemente fini a se stessi sui social. Ma niente di pubblicato su un social è fino in fondo fine a se stesso: qualcuno dovrebbe sostituire l’indicazione della home di Facebook “A cosa stai pensando” con “Cosa vuoi mostrare”.

Quando si ha una rottura relazionale importante, indipendentemente dalla qualità del rapporto di tipo sentimentale o amicale, è fisiologico avvertire un senso di perdita, di solitudine. Questo vissuto emotivo, caro a molte teorie psicoanalitiche sullo sviluppo infantile (Lis et al., 1999) appartiene universalmente e precocemente all’esperienza umana: il bambino piccolo infatti, che vive le prime esperienze di separazione dalla madre, percepisce l’angoscia dell’abbandono. In età adulta, la perdita più o meno intenzionale di una persona cara determina una regressione (ritorno ad uno stadio precedente dello sviluppo dell’Io a seguito di una frustrazione libidica), che giustifica quindi comportamenti infantili e meccanismi di difesa primitivi.

Vediamo cosa spesso accade al giorno d’oggi, nell’utilizzo dei social network, dopo una chiusura relazionale.

Social network e gestione della mancanza

In molti casi impostare uno stato di whatsapp, una foto su instagram o un pensiero su facebook, sono azioni che sottendono palesemente (anche se indirettamente) alla necessità di comunicare con la persona persa. Necessità che il mondo dei social consente di soddisfare senza costi materiali o emotivi e soprattutto senza tempi di attesa: per una persona in piena fase regressiva questo significa soddisfare il principio del piacere (“voglio tutte le gratificazioni, comprese quelle che si contraddicono, adesso!”). Inoltre la comunicazione impersonale dei social consente l’invio di messaggi comunicativi senza entrare direttamente in relazione con l’interlocutore di rifermento, abbatte le barriere dello spazio, pone l’individuo al centro di una rete che riattiva processi di controllo onnipotente della primissima infanzia, meccanismo di difesa che pone in essere l’idea secondo cui se controllo me stesso controllerò tutta la realtà, perché la fonte di tutti gli eventi è interna (McWilliams, 1999): è possibile dunque dire tutto, subito ed a chiunque, anche a chi non abita più nel cuore, in maniera continua e reiterando le pratiche indirette tra “mi piace” e condivisione di post ambigui.

Social Network e formazione reattiva

Se, molto spesso, una prima fase dell’elaborazione della rottura può essere caratterizzata da uno sforzo intellettuale nell’esprimere riflessioni prese in prestito dalla filosofia o alla psicologia, le evidenze sembrano mostrare che quando non si fa strada una buona elaborazione della perdita si può passare ad un livello successivo, quello della più o meno consapevole formazione reattiva: si ostentano livelli di gioia e serenità che appaiono inversamente proporzionali alla sofferenza vissuta. I social diventano più che mai il nostro palcoscenico e, mentre si impiegano grandi risorse nell’indossare la maschera più bella, non ci si accorge che non si parla più, non ci si emoziona più, l’attenzione è esclusivamente concentrata sul numero di feedback ricevuti, inconsapevoli del fatto che possono anche sfiorare il centinaio per ogni post ma non avranno mail il valore dell’apprezzamento della “persona X”. Così ci si accontenta di una gratificazione a metà, che diventa di fatto il modus vivendi esteso alla vita di tutti i giorni. Questa condizione, di durata variabile, può sfociare verso le catarsi (e si riesce realmente a cambiare pagina) oppure può condurre all’espressione indiretta di rabbia ed aggressività indiretta. Cosa succede?

Social Network e attacco indiretto

Avviene un vero e proprio attacco al sistema di credenze, di valori, della persona persa, che si manifesta prendendo posizioni forti in completa antitesi.

Sentimenti di intolleranza, pensieri incorreggibili, opinioni che mirano alla creazione di muri piuttosto che di ponti, possono sottendere ad un mero processo di spostamento dei sentimenti di odio che prima erano diretti verso la persona adesso sono diretti verso le sue passioni. Probabilmente il desiderio inconscio che muove questo comportamento è quello di riuscire a farsi notare, di avere un scontro, di “essere finalmente visti”, che però purtroppo è destinato a fallire o peggio ancora nel non riuscire ad ottenere i risultati sperati. Anzi, la ricerca continua di una sua reazione può sfociare nel controllo compulsivo del suo profilo, che aumenta l’angoscia (Fiore, 2013) e la rabbia.

Le evidenze recenti in letteratura suggeriscono che l’uso dei social non è necessariamente un comportamento disfunzionale (Griffith et al., 2018) ma determinate circostanze di utilizzo possono compromettere significativamente la qualità della vita determinando ansia e depressione (Griffiths e Kuss, 2017; Marino et al., 2018). Quando si perde la vicinanza interpersonale di una persona cara, inevitabilmente si perde una parte di se stessi. L’elaborazione della perdita andrebbe affrontata attraverso lo scambio comunicativo diretto con le persona di riferimento, con le persone vicine, e soprattutto con uno psicologo quando si manifesta la forte o persistente difficoltà a gestire le emozioni, tralasciando in questo caso l’uso strumentale dei social in maniera più o meno consapevole. La regressione che scaturisce dal rammarico potrebbe consentire la messa a fuoco delle proprie responsabilità interpersonali, trasformando così la sofferenza in uno strumento utile per la crescita personale.

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