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Le punizioni corporali a scuola e a casa influenzerebbero l’incidenza di fenomeni di violenza da parte dei minori? 

Rifacendosi agli assunti di Bandura (Bandura, Ross & Ross, 1961) secondo i quali l’aggressività è appresa, si potrebbe dire che il divieto di usare punizioni corporali sui bambini porti gli stessi a non apprendere comportamenti violenti e pertanto ad agirne un numero inferiore.

 

Un recente studio della McGill University in Canada (Elgar et al., 2018) effettuato su adolescenti provenienti da 88 paesi, diversi per caratteristiche socio-economiche, ha evidenziato come negli stati dove le punizioni corporali sono state abolite in qualsiasi setting (sia scolastico che familiare) gli episodi di violenza giovanile siano significativamente inferiori rispetto ai paesi dove tali punizioni sono ancora permesse.

A livello di percentuali, la ricerca mostra che negli stati con abolizione totale delle punizioni fisiche, la prevalenza degli episodi violenti che riguardando minori di sesso sia maschile che femminile sia inferiore, rispettivamente, del 31% e del 42% rispetto allo stesso parametro misurato negli altri stati studiati.

L’analisi dell’università canadese divide gli 88 paesi studiati in tre gruppi:

  • Paesi con abolizione totale delle punizioni corporali (ad esempio Mongolia e Finlandia)
  • Paesi con abolizione parziale, legale in ambiente familiare ed illegale in ambiente scolastico (ad esempio Italia o Cambogia)
  • Paesi che permetto le punizioni corporali sia in ambito scolastico che familiare (come il Qatar e Myanmar)

La ricerca

Estraendo i dati dal report 2014 della World Health Organization (WHO) sui comportamenti legati alla salute nelle scuole, i ricercatori hanno confrontato la prevalenza di giovani di entrambi i sessi (con un’età compresa tra i 13 e i 17 anni) che sono stati coinvolti in più di 4 scontri fisici durante i 12 mesi precedenti l’intervista.

Per quanto esista una grande variabilità intra-gruppo, a livello di differenze tra i gruppi, la ricerca ha evidenziato come, nei paesi dove le punizioni corporali sono rese illegali dalla legge in ogni ambito, la prevalenza degli episodi di violenza che vedono coinvolti un minore sia significativamente inferiore rispetto a quello dei paesi non o parzialmente abolizionisti.

Inoltre, sebbene per quanto riguarda la prevalenza degli eventi violenti riguardanti minori di sesso maschile non sembrano esserci differenze significative tra le nazioni con abolizione parziale delle punizioni corporali e quelli senza alcun tipo di normative, la prevalenza di fenomeni simili che vedono coinvolte giovani donne risulta essere significativamente inferiore in paesi con abolizione parziale.

Inoltre, sebbene lo studio ipotizzasse anche che gli stati con un PIL pro capite maggiore fossero quelli che presentavano livelli di violenza inferiori, i risultati ottenuti non hanno confermato tale associazione. Al contrario i paesi che mostrano il minor numero in assoluto di episodi violenti sono anche alcuni tra i paesi più poveri del mondo (Malawi, Myanmar, Cambogia).

Sono stati testati anche altri possibili predittori, ad esempio la presenza o meno di programmi per l’educazione dei genitori o il numero di omicidi, ma non sembrano esserci associazioni significative tra queste caratteristiche e il livello di violenza giovanile.

In conclusione

Possiamo riassumere questo lavoro usando le parole di Frank Elgar, a capo dell’equipe di ricerca:

A questo punto, tutto quello che possiamo dire è che le nazioni che proibiscono l’uso di punizioni corporali sono dei contesti meno violenti, in cui i bambini possono crescere, rispetto agli stati che non lo fanno.

Rifacendosi agli assunti di Bandura (Bandura, Ross & Ross, 1961) secondo i quali l’aggressività è appresa, potremmo concludere che il divieto di usare punizioni di tipo fisico sui bambini porti gli stessi a non apprendere comportamenti violenti e pertanto ad agirne un numero inferiore.

Purtroppo, basandosi solamente su questa ricerca non è possibile confermare un’affermazione simile in quanto lo studio in questione presenta il grande limite della mancanza di informazioni sull’utilizzo effettivo di punizioni corporali da parte dei genitori e di altri adulti significativi (dato che nonostante il divieto è comunque possibile che i genitori agiscano comportamenti violenti sui figli). Mancando tale dato, e data la natura non-sperimentale dello studio in questione, è impossibile affermare l’esistenza di una relazione causale tra divieto di punizioni corporali e bassi livelli di violenza.

Certo è che è importante proseguire nello studio di questo tema per investigare se i divieti nazionali riguardanti le punizioni fisiche portino a dei cambiamenti effettivi e positivi nel modo di educare i bambini o se siano semplicemente delle caratteristiche di società meno violente.

Conoscere l’uomo. Il suo sentire, il suo agire, il suo evolversi – Report dal Simposio di Firenze

Si è concluso da poco il Simposio tenutosi il 10 novembre a Firenze, organizzato dal Centro di Terapia Strategica fondato e diretto dal Prof. Giorgio Nardone ed in partnership con l’Università degli Studi Link Campus University, dal titolo Conoscere l’uomo. Il suo sentire, il suo agire, il suo evolversi, che ha visto come relatori sette notevoli professionisti che da prospettive diverse hanno illustrato ed argomentato come l’essere umano, come sostenuto dallo stesso Prof. Giorgio Nardone, “costruisce la realtà che poi subisce o gestisce

 

I relatori partecipanti sono stati lo stesso Prof. Giorgio Nardone, psicologo e psicoterapeuta, fondatore e direttore del Centro di Terapia Strategica di Arezzo e terapista di fama mondiale; Michel Bitbol filosofo della scienza, fisico quantistico e consulente del Dalai Lama; Umberto Galimberti, filosofo, scrittore e giornalista; Igor Sibaldi, scrittore, studioso di teologia, filosofia e filologia; padre Guidalberto Bormolini, monaco, esperto di antropologia teologica; David Corsini, ingegnere, scienziato, esperto di robotica e Nicoletta Berardi, Professore ordinario di Psicobiologia Psicologia Fisiologica.

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RELATORI Conoscere l’uomo. Il suo sentire, il suo agire, il suo evolversi - ReportImm 1 – I relatori del Simposio “Conoscere l’uomo”

Michel Bitbol – Oggettivare il soggettivo

Il Simposio attraverso i suoi sette relatori, ha offerto la possibilità di confrontarsi con saperi differenti spaziando dalla conoscenza della mente attraverso la fisica quantistica con Michel Bitbol, che mette in luce come la ricerca dell’oggettività delle scienze della natura per studiare la coscienza sia un sintomo della sofferenza dell’uomo nel voler contenere e controllare le proprie angosce, e come sia impossibile oggettivare qualcosa che nasce dalla soggettività; Afferma M. Bitbol che “la coscienza non è dissociabile da ciò che viviamo per la semplice ragione che essa si identifica con ciò che viviamo”.

L’invito di Bitbol si muove nel cambiare il significato attribuito al concetto di capire, di conoscere, ed in questo la fisica quantistica può rappresentare una più vantaggiosa soluzione al problema poiché questa branca della fisica ha incontrato le stesse difficoltà quando ha realizzato che:

le è impossibile generalizzare il suo sogno di uno sguardo da nessuna parte –  lo stesso aggiunge inoltre che – la teoria quantistica non ci dà una rappresentazione del mondo ma una mappa su come noi possiamo orientarci nel mondo, non com’è il mondo ma una guida e questo rappresenterebbe un’interessante rivoluzione scientifica.

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BITBOL 2 Conoscere l’uomo. Il suo sentire, il suo agire, il suo evolversi - Report

BITBOL 6 Conoscere l’uomo. Il suo sentire, il suo agire, il suo evolversi - ReportImm. 2 e 3 – L’intervento di Michel Bitbol al Simposio “Conoscere l’uomo”

Davide Corsini e Umberto Galimberti: il rapporto dell’uomo con la tecnologia

Ed ancora il contributo dell’ingegnere, scienziato ed esperto di robotica Davide Corsini che ha illustrato lo stato dell’arte rispetto all’avanzare della Tecnologia, dell’intelligenza artificiale e del rapporto dell’uomo con la stessa.

E sempre sul tema della tecnologia è intervenuto magistralmente il Prof. Umberto Galimberti avanzando la sua riflessione in merito al dominio della tecnologia sull’era moderna. La tecnica infatti nell’era moderna riuscirebbe ad imporsi portando avanti suoi valori che sarebbero solo e soltanto produttività ed efficienza. In questo modo però secondo il Prof. U. Galimberti, l’uomo nella sua soggettività verrebbe gradualmente emarginato dalla storia e riprendendo il pensiero di Heidegger:

ciò che veramente inquietante non è che il mondo si trasforma in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero mediante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.

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GALIMBERTI 1 Conoscere l’uomo. Il suo sentire, il suo agire, il suo evolversi - ReportImm. 4 – L’intervento di Umberto Galimberti al Simposio “Conoscere l’uomo”

Padre Guidalberto Bormolini e Igor Sibaldi: conoscenza mistica e misterica

E non sono mancati contributi di padre Guidalberto Bormolini che ha offerto la sua visione mistica sulla conoscenza dell’uomo e di Dio, una strada infinita fatta di cose invisibili che non può essere ridotta, ridimensionata, capita e compresa dalla ragione, una ragione influenzata dalla cultura, della nostra esperienza e dalla nostra educazione che limita il sapere, come sostiene Igor Sibaldi.

Conoscenza mistica e conoscenza misterica, si incontrano forse, in una strada indefinita ancora una volta non dimostrabile, che non si può capire, conoscere, comprendere ma scoprire andando oltre, una conoscenza che va vissuta, sentita in un percorso di continuità tra vita e morte, passato e futuro.

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BORMOLINI Conoscere l’uomo. Il suo sentire, il suo agire, il suo evolversi - Report

SIBALDI Conoscere l’uomo. Il suo sentire, il suo agire, il suo evolversi - ReportImm. 5 e 6 – Gli interventi di padre Guidalberto Bormolini e Igor Sibaldi al Simposio “Conoscere l’uomo”

Giorgio Nardone: l’uomo come soggetto attivo

E l’andare oltre, per favorire il cambiamento (che sia esso terapeutico in senso stretto o semplicemente personale) sono concetti importanti e centrali anche all’interno degli interventi del Prof. Giorgio Nardone, che offre una visione dell’uomo come soggetto attivo e non passivo. E nel suo essere attivo è invitato ad assumersi la responsabilità del suo riuscire a cambiare. Lo stesso M. Gandhi affermava:

Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo.

Ma come avviene il cambiamento nell’uomo? Tenendo presente l’immancabile resistenza al cambiamento che l’uomo agisce in modo inconsapevole, il cambiamento può essere favorito se si riesce a modificare il suo sentire, in quanto il nostro cervello percepisce per contrasti, argomenta il Prof. G. Nardone che riprende il paradigma di F. Alexander sulla teoria dell’esperienza emozionale correttiva, condiviso in maniera univoca all’interno dei diversi approcci psicoterapeutici.

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NARDONE 1 Conoscere l’uomo. Il suo sentire, il suo agire, il suo evolversi - ReportImm. 7 – L’intervento di Giorgio Nardone al Simposio “Conoscere l’uomo”

Nicoletta Berardi: l’esperienza che modifica il cervello

Ed in riferimento all’importanza del fare e dell’esperienza, come processo essenziale del conoscere, dell’apprendere e dell’entrata in contatto con l’ambiente, la Prof. Nicoletta Berardi ha sottolineato come l’esperienza cambi il cervello:

Il nostro comportamento è modificabile perché il nostro cervello è modificabile

e questo è visibile anche a livello morfologico grazie alle nuove tecniche dei neuroimmagine. La capacità del nostro cervello di cambiare in risposta all’esperienza inoltre contribuisce le diversità tra individui. Afferma Nicoletta Berardi:

Individui diversi hanno capacità di memoria, di decisione, di intuizione, di azione diverse perché hanno cervelli diversi.

Tutte le nostre capacità, da quelle percettive e cognitive come il pensiero, la memoria, il ragionamento, a quelle motorie e a quello emotivo infatti dipendono dal cervello e compiti diversi attivano aree cerebrali diverse.

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BERARDI 5 Conoscere l’uomo. Il suo sentire, il suo agire, il suo evolversi - Report

BERARDI 1 Conoscere l’uomo. Il suo sentire, il suo agire, il suo evolversi - ReportImm. 8 e 9 – L’intervento di Nicoletta Berardi al Simposio “Conoscere l’uomo”

Il nostro cervello continuamente riceve, elabora, connette e risponde attraverso la funzione dei nostri neuroni che comunicano attraverso le sinapsi; molteplici circuiti nervosi determinano come noi percepiamo il nostro ambiente, come noi lo giudichiamo e commentiamo. La realtà è una costruzione del nostro cervello sottolinea la professoressa.

Il nostro comportamento, la realtà che percepiamo, dipende quindi da come si sono formati diversi circuiti nervosi durante lo sviluppo e da come si modificano in risposta all’esperienza durante tutto l’arco della vita. I circuiti neurali che sono alla base del comportamento del vedere, sentire ad esempio, sono gli stessi nei negli individui ma non tutti trovano piacere, interesse o attrazione per le stesse cose e ciò che determina tale diversità sono le esperienze individuali; esperienze diverse dunque, creano cervelli diversi e tale capacità del cervello di cambiare risposta all’esperienza prende il nome di neuroplasticità. Predisposizione genetica, esperienze di vita, ambiente più o meno stimolante, cure materne, sono aspetti che non possono essere visti singolarmente ma che sono in stresso rapporto fra loro contribuendo e favorendo lo sviluppo di un soggetto resiliente o di un soggetto più vulnerabile.

Diversi punti di vista che convergono forse sull’importanza di usare la conoscenza come strumento e non come fine, di allargare la mente per comprenderne la sua complessità senza cadere in un riduttivismo sterile in virtù del concetto di scienza in senso stretto, ma di farne di quest’ultima un sano strumento a favore dell’uomo.

Mi sembra molto a tema concludere con un pensiero di K. Popper che recita:

Ogni teoria razionale, non importa se scientifica o filosofica, è tale nella misura in cui cerca di risolvere determinati problemi.

Congresso 3G: Ponti fra isole – L’impatto crescente della scienza contestuale nell’evoluzione culturale – Report dall’evento

La seconda plenaria della giornata ha come relatore in videoconferenza Anthony Biglan. Come terapeuti ci focalizziamo sul benessere individuale, sulle difficoltà e sui valori personali del singolo; talvolta può essere utile invece volgere la nostra attenzione anche ad interventi e azioni che possono determinare cambiamenti su intere popolazioni e sul benessere globale del genere umano.

Federica Rossi

 

La seconda plenaria della giornata di apertura dal congresso 3G “Ponti fra isole: mindfulness, acceptance, compassion”, tenutosi dal 14 al 16 Novembre, ha come relatore in videoconferenza Anthony Biglan.

Come terapeuti ci focalizziamo sul benessere individuale, sulle difficoltà e sui valori personali del singolo; talvolta può essere utile invece volgere la nostra attenzione anche ad interventi e azioni che possono determinare cambiamenti su intere popolazioni e sul benessere globale del genere umano. Società e individuo sono strettamente connessi: interventi di prevenzione del disagio e di promozione del benessere su larga scala sono altrettanto importanti degli interventi terapeutici su pazienti singoli.

Il Dott. Anthony Biglan, ricercatore presso l’Oregon Reserach Institute, con il suo intervento ha illustrato quanto ciò che ciascuno fa è importante per l’intera società. Il suo lavoro è basato sulla considerazione che le scienze comportamentali potrebbero avere un potere enorme nel risolvere la maggior parte dei problemi delle diverse nazioni. Le sue considerazioni sono racchiuse nel libro The Nurture Effect: How the Science of Human Behavior Can Improve Our Lives and Our World, in cui illustra interventi efficaci nella famiglia, nella scuola e nella comunità per prevenire i problemi dell’infanzia e dell’adolescenza più comuni e più costosi nel mondo.

Anthony Biglan al Congresso 3G: gli effetti dello stress

Nella sua presentazione è partito dalle conclusioni di un recente studio americano che ha indagato le cause di morta prematura; la più frequente rilevata è stato il comportamento umano disfunzionale (es. fumo, inattività fisica, elevato stress, ecc.) causa del 40 % dei casi, seguita da predisposizione genetica (30%), circostanze sociali ( 15%), assistenza medica inappropriata (10%) ed esposizioni ambientali ( 5%).

Il Dott. Anthony Biglan ha ripreso diversi studi che hanno dimostrato come bambini che crescono in contesti con più di quattro Esperienze avverse, misurabili con il questionario ACE (che valuta la presenza di variabili quali trascuratezza fisica ed emotiva, abuso fisico, verbale, separazione, ecc. ), hanno maggiori probabilità di mostrare comportamenti problematici (abitudine al fumo e utilizzo di stupefacenti, gravidanza in adolescenza, broncopatie e patologie cardiovascolari, problemi psichiatrici, ecc.). Questo dato è stato legato alla fisiologia della risposta allo stress, che se prolungata determina una serie di effetti negativi a cascata su diverse funzionalità biologiche.

Come i terapeuti cognitivi sanno bene, le determinanti dello stress nell’uomo possono essere semplicemente pensieri, a differenza degli animali che invece provano stress solo di fronte a pericoli reali. Questi pensieri si formano nel contesto di relazioni umane, in particolare basate sulla coercizione, partendo da quelle genitoriali, arrivando a quelle affettive, amicali, sentimentali, filiali, alla miriade di rapporti significativi in cui ci ritroviamo ogni giorno immersi.

Sono stati analizzati studi nei quali i bambini traumatizzati nell’infanzia avevano mostrato una maggiore sensibilità allo stress lungo tutto l’arco della vita, determinando una maggiore probabilità di mostrare un’autoregolazione compromessa; in età adulta questi bambini erano maggiormente a rischio di sviluppare obesità, disagio cardiovascolare, depressione ed ansia, ipervigilanza, diffidenza verso gli altri, comportamenti devianti e povere relazioni sociali.

Il Dott. Anthony Biglan ha evidenziato l’esistenza di due percorsi evolutivi opposti, che portano rispettivamente a circoli viziosi o virtuosi:

  • Bambini con scarsa autoregolazione hanno maggiore probabilità di mostrare fallimento scolastico e comportamenti aggressivi e non cooperativi, che determinano rifiuto da parte dei pari e conseguente formazione di gruppi devianti;
  • Bambini con buona autoregolazione hanno maggiori probabilità di mostrare buon rendimento scolastico e comportamenti cooperativi/ pro sociali che determinano un buon inserimento nel gruppo dei pari simili per caratteristiche psicologiche.

Alla luce di queste traiettorie evolutive diventa fondamentale implementare forme d’intervento che agiscano sugli ambienti familiari “nurturing”. Con questo termine si intende l’insieme di tutti quegli atteggiamenti genitoriali “nutrienti”, amorevoli, stimolanti, positivi, accoglienti che potrebbero determinare un attaccamento sicuro e conseguentemente buone abilità di autoregolazione nei bambini.

Lo scopo degli interventi mirati al benessere psicologico dovrebbe, infatti, essere quello di creare una società con bambini che arrivano ad essere adulti con capacità, interessi, abitudini sociali e di vita sani, che a loro volta crescono bambini con queste caratteristiche; bisogna quindi progettare e implementare forme di assistenza che vadano in questa direzione.

Forme di intervento evidence-based sulla famiglia

Il Dott. Biglan ci ha illustrato brevemente alcune delle più diffuse forme di intervento evidence-based sulla famiglia utilizzate negli Stati Uniti, che hanno lo scopo di rafforzare le competenze genitoriali e migliorare la qualità delle interazioni con il bambino:

  • Oregon Model of Parent Management Training (PMTO);
  • Incredible Years, applicato su 2 milioni di famiglie;
  • Posistive Parenting Program, applicato su 7 milioni di famiglie;
  • Triple – P program;
  • Parent – Child Interaction Therapy.

Il realatore ha sottolineato anche l’importanza di uno degli interventi più diffusi nelle scuole americane, il Positive Action, un programma educativo che promuove un interesse intrinseco per l’apprendimento e promuove la cooperazione tra gli studenti, applicato su circa 5 milioni di studenti americani.

Lo scopo ultimo di tutte questi interventi è la creazione di una società basata su valori condivisi che vanno nella direzione di un’evoluzione positiva sia del singolo, sia dei gruppi ai quali apparteniamo. Questi valori sono alla base di alcuni recenti studi di suo interesse; a questo proposito il Dott. Anthony Biglan ci ha coinvolto in un’attività che sta conducendo in ogni nazione per individuare i valori che la popolazione vorrebbe fondassero la propria società.

Per parteciparvi basta accedere al sito https://www.menti.com. Nella pagina è richiesto di compilare in inglese un form in cui bisogna semplicemente riportare le 3 qualità che vorremmo fossero alla base della nostra collettività ( es. gentilezza, onestà, gratitudine, rispetto, ecc.); al termine c’è anche la possibilità di vedere i risultati attuali che indicano i valori indicati dai partecipanti di ogni singolo paese. Il suo scopo tramite queste ricerche è quello di raccogliere i desideri della gente rispetto a ciò che ritiene importante per una migliore società, al fine di implementare e sviluppare programmi d’azione che rafforzino questi valori.

Il Dott. Biglan nella sua presentazione ha ricordato che tutti abbiamo nelle nostre mani il potere di far prosperare le esistenze degli altri, rafforzare lo sviluppo cognitivo dei bambini, incrementare l’educazione, ridurre la violenza e prevenire il crimine; coltivando ambienti “nutrienti”, positivi, compassionevoli, in tutti gli aspetti della società – casa, scuola, lavoro – possiamo posare le fondamenta per un cambiamento nella vita di molte persone, e in ultimo, per creare un mondo migliore.

Roy F. Baumeister: psicologo sociale contemporaneo, tra i più influenti al mondo – Introduzione alla psicologia

Roy F. Baumeister è nato il 16 maggio del 1953 a Cleveland ed è uno dei più citati psicologi sociali contemporanei.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Roy F. Baumeister: vita

Baumeister è il figlio maggiore di un insegnante e uomo d’affari immigrato ed ha studiato alla Princeton University, dove ha conseguito anche il dottorato. Successivamente, ha trascorso l’anno del post dottorato presso l’ Università della California a Berkeley e nel 1984 è diventato professore associato presso la Case Western Reserve University, dove ha lavorato fino al 1989. Durante questo periodo, è stato professore per un anno presso l’ Università del Texas ad Austin dal 1986 al 1987.

In seguito ha lavorato presso la Florida State University al dipartimento di psicologia sociale. Nel 2016 si è trasferito alla School of Psychology in Australia, dove attualmente insegna ancora.

Roy Baumeister è membro della Society for Personality and Social Psychology e dell’Association for Psychological Science. E’ stato nominato il ricercatore più citato nel 2003 e nel 2014.

La ricerca di Baumeister comprende molteplici ambiti, tra cui il sé e l’identità, l’autoregolamentazione, il rifiuto interpersonale e il bisogno di appartenere, la sessualità e il genere, l’aggressività, l’autostima, il significato e l’auto-presentazione.

Ha ricevuto borse di ricerca dal National Institutes of Health e dalla Templeton Foundation. Egli vanta oltre 500 pubblicazioni e 31 libri. Ha ottenuto diversi premi alla carriera dalla Società per la personalità e la psicologia sociale e dall’International Society for Self and Identity, e più recentemente il William James Award, il più alto riconoscimento assegnato dall’Association for psycological science.

L’Institute for Scientific Information lo elenca tra i pochi psicologi più influenti del mondo.

Baumeister: teoria e ricerca su autostima e dimensione di appartenenza

Roy Baumeister sin da sempre si è dedicato alla psicologia sociale e la sua ricerca si concentra su sei temi: l’autocontrollo, il processo decisionale, la necessità di appartenere e il rifiuto interpersonale, la sessualità umana, il comportamento irrazionale e autodistruttivo e il libero arbitrio.

Innanzitutto, Baumeister è partito dalla definizione del concetto di sé, basandosi sugli aspetti relativi alla percezione degli altri e come ci si relaziona e si agisce nelle relazioni sociali. Da questi concetti parte e si articola tutta la ricerca sull’autostima che è riassunta in un capitolo di libro intitolato “The Self” in The Handbook of Social Psychology .

Secondo Roy Baumeister, la lettura del mondo esterno si amplia dalla dimensione individuale a quella del proprio gruppo sociale, e di conseguenza l’ autostima deriva da un confronto con gli altri facenti parte del gruppo e può raggiungere anche condizioni estreme, sia in eccesso sia in difetto. Quando, infatti, si crede che la propria dimensione di appartenenza non abbia ricevuto il giusto assenso, può sfociare in episodi di rabbia e aggressività manifesta verso gli altri.

Secondo l’ipotesi di appartenenza, dunque, le persone creano prontamente delle relazioni sociali in più condizioni e resistono alla dissoluzione dei legami esistenti.

Roy Baumeister afferma che il bisogno di appartenenza è naturale negli esseri umani che tendono a creare delle relazioni sociali. Si tratta di una spinta normale che aiuta a distinguere un bisogno da un desiderio.

Sostanzialmente, le persone lottano per evitare la disintegrazione di queste relazioni sociali, per cui la mancanza di appartenenza avrebbe un impatto negativo a lungo termine sull’umore e sulla salute, e coloro che non riescono a soddisfare il loro bisogno di appartenenza potrebbero soffrire di problemi comportamentali e psicologici.

Secondo questa teoria dell’appartenenza, gran parte delle relazioni si basano e derivano dal legame di attaccamento e, in genere, sono prive di conflitti. Da qui nasce il concetto di relazione continua e continuata da cui genera qualsivoglia tipo di legame.

In fine, se una relazione finisce, il legame può essere spesso sostituito dalla creazione di un nuovo legame con un’altra persona. Baumeister inoltre dimostra come le persone cercano l’appartenenza in maniera diversa. Infatti, le donne preferiscono relazioni intime e strette, mentre gli uomini preferiscono molte relazioni, ma meno profonde. Gli uomini espletano il loro bisogno di appartenenza tramite un gruppo sociale di persone, piuttosto che in strette relazioni interpersonali.

L’ipotesi di appartenenza presuppone:

  • Elementi quantitativi: ovvero un numero di connessioni sociali significative che sia maggiore di 1;
  • Elementi qualitativi: non basta solo il numero delle connessioni sociali. Queste devono essere positive e durature.
  • La mancanza di relazioni sociali significative è correlata a vari effetti negativi sia sul piano della salute, sia dell’autoregolazione e del benessere. Nei casi più gravi, l’individuo può sperimentare sulla sua pelle l’esclusione sociale, ovvero l’esperienza di essere messo da parte fisicamente o emotivamente.

L’esclusione sociale si divide in:

  • Rejection, ovvero esperienze in cui l’individuo viene rifiutato attivamente e direttamente dal gruppo;
  • Ostracism, ossia un rifiuto sociale passivo, in cui si è semplicemente ignorati.
  • Quando l’ostracismo persiste nel tempo si parlerà di esclusione sociale cronica.

Di conseguenza, l’ostracismo risulta essere molto più dannoso e doloroso a livello psicologico del rifiuto sociale, perché l’individuo si sente disumanizzato. Coloro che subiscono l’ostracismo tendono a giudicare loro stessi come meno umani, o meno dotati di quelle caratteristiche e attributi giudicati fondamentali nel definire l’idea di natura umana stessa.

Baumeister: teoria e ricerca sull’autoregolazione

Roy Baumeister ha studiato anche l’autoregolazione e ha coniato il termine “depletion ego” per descrivere la capacità degli esseri umani di autoregolarsi.

Questa teoria è stata elaborata da Baumeister e Dianne Tice, sua moglie, dopo aver conseguito un test destinato a diventare famoso come l’esperimento dei biscotti al cioccolato.

L’esperimento consisteva nel mettere in laboratorio biscotti al cioccolato e altre leccornie a base di cacao. Individuarono, di conseguenza, due gruppi di persone: il primo fu invitato a mangiare a piacimento dolci e cioccolatini e al secondo fu ordinato di guardare, di resistere alla tentazione del cioccolato e di accontentarsi, per mettere a tacere lo stomaco, di ravanelli.

Poi, entrambi i gruppi erano stati invitati a risolvere un problema che non aveva una soluzione. Si ottenne che i componenti del gruppo che aveva mangiato a piacimento il cioccolato resistettero 19 minuti, in media, prima di cedere alla frustrazione e di arrendersi. I componenti del secondo gruppo cedettero alla frustrazione molto prima, in media dopo appena 8 minuti. In base a quanto emerso dall’esperimento Baumeister concluse che tutti possiedono dell’autocontrollo che si rinnova ogni giorno, ma è esauribile. Quindi, trattandosi di una specie di tesoretto, deve essere costantemente rinnovato, altrimenti finisce.

Ulteriori ricerche di Baumeister e colleghi hanno portato allo sviluppo del modello di forza dell’autocontrollo, che paragona l’impoverimento dell’ego alla stanchezza che deriva dall’esercizio fisico. Quindi, l’autocontrollo può essere rafforzato nel tempo, proprio come un muscolo.

Nel 2010 un gruppo di ricercatori guidati da Martin Hagger ha effettuato una meta-analisi su 83 studi che riferiscono i risultati di 198 diversi esperimenti indipendenti, i quali confermarono quanto già sostenuto da Roy Baumeister nella teoria dell’ego depletion. Successivamente, lo psicologo pubblica insieme a John Tierney un libro che in pochi giorni si afferma come un autentico best-seller: Willpower: Rediscovering the Greatest Human Strength. Oltre ai diritti d’autore, Roy Baumeister si guadagna un assegno di un milione di dollari messo a disposizione dalla Templeton Foundation.

Baumeister: teoria e ricerca su sessualità, pulsioni e libero arbitrio

Una serie di studi sulla sessualità umana hanno portato Baumeister ad affermare che l’influenza della cultura e della natura sulla sessualità varia per genere. La sessualità femminile è più culturale e la sessualità maschile è più naturale. Inoltre, esiste una differenza di genere che influenza la gestione dell’impulso sessuale. Gli uomini, in media, vogliono più sesso delle donne e le interazioni sessuali possono essere analizzate in termini di analisi costi-benefici.

Baumeister affronta, inoltre, il tema del libero arbitrio dal punto di vista della psicologia evolutiva. Egli sostiene che il libero arbitrio è una forma avanzata di autocontrollo dell’azione che consente agli esseri umani di agire in modo pro-sociale verso il loro interesse personale, poiché agire in questo ambito equivale a rispondere a pulsioni o istinti evolutivamente più antichi. Baumeister e colleghi hanno dimostrato che l’incredulità applicata al libero arbitrio può indurre le persone ad agire in modi dannosi per se stessi e per la società.

Roy Baumeister ha coniato, dunque, il termine plasticità erotica, che rappresenta la misura in cui il proprio desiderio sessuale può essere modellato da fattori culturali, sociali e situazionali. Egli sostiene che le donne hanno un’alta plasticità erotica, il che significa che il loro desiderio sessuale può cambiare più facilmente in risposta a influenze esterne. Invece, gli uomini hanno una bassa plasticità erotica e quindi hanno impulsi sessuali relativamente rigidi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Il diniego nei sex offender (2018). Lavorare sul diniego per favorire il reinserimento e il trattamento clinico dei sex offenders – Recensione

Il recente saggio di Georgia Zara, Il diniego nei Sex Offender, dalla valutazione al trattamento con la versione integrale italiana del CID-SO© Comprehensive Inventory of Denial Sex Offender Version, edito da Raffaello Cortina, mette insieme una pluralità di voci provenienti dal mondo del diritto processuale e della psicologia criminologica e forense.

 

Il libro tratta in modo completo e aggiornato, il complesso argomento del diniego nell’ambito dei reati a sfondo sessuale sia da un punto di vista giurdico-penale ma soprattutto clinico-psicocriminologico, dalla sua valutazione ai possibili interventi da implementare per favorire una maggiore consapevolezza del reato sessuale e della sua gravità.

Il trattamento clinico e il successivo reinserimento, soprattutto sociale, dei sex offenders, aggressori sessuali e molestatori di bambini, che né accettano né si assumono le proprie responsabilità e negano quanto commesso, ha comprensibili ripercussioni e risonanze esterne che impattano negativamente sia da un punto di vista sociale che giuridico.

Infatti gli aggressori sessuali che negano o minimizzano le conseguenze del reato e la gravità del danno arrecato alla vittima, che non riconoscono il loro problema come devianza sessuale né il bisogno di essere presi in carico, tendono ad essere percepiti come poco collaborativi o addirittura più pericolosi e gravi, socialmente meno meritevoli di essere aiutati e reinseriti. Clinicamente vengono ritenuti più problematici in quanto la mancata consapevolezza o deresponsabilizzazione riguardo il reato messo in atto viene considerato un ostacolo alla compliance trattamentale e impedimento all’aderenza terapeutica.

Georgia Zara racconta le conseguenze sul trattamento del diniego nei sex offender

Il complesso lavoro di Georgia Zara, integrando nuove evidenze provenienti dalla ricerca scientifica e modelli in ambito psicocriminologico e clinico, pone l’attenzione giuridica, scientifica e clinica sull’esplorazione del concetto di diniego nei sex offender considerandolo non tanto un ostacolo al trattamento quanto uno degli obiettivi fondamentali di qualsiasi intervento da implementare sui sex offenders per la loro rieducazione.

Il diniego, la non ammissione della condotta criminale, infatti, è stato per molto tempo erroneamente equiparato al concetto di intrattabilità e non motivazione al trattamento, comportando l’esclusione di questi individui da qualsiasi programma di reinserimento e generando un contesto giudicante, non clinicamente orientato.

Per tale ragione, dopo aver delineato la cornice giuridica e processuale grazie all’intervento di Lavarini, Quattroccolo e Scomparin, il saggio di Georgia Zara pone l’attenzione sulla necessità di una corretta e amplia individuazione e valutazione dei bisogni criminogenici – i fattori di rischio che spingono a commettere l’aggressione o che ne sostengono la persistenza aumentando il rischio di recidiva come la carriera criminale dell’individuo, le cognizioni distorte pro-criminali, i problemi ricorrenti riscontrati nel contesto personale-affettivo, sociale, scolastico, occupazionale e di rispondenza – fattori psicologici che promuovono la compliance e l’interesse a intraprendere attivamente un percorso di cambiamento.

A parere dell’autrice, una valutazione a 360° multidimensionale di tali bisogni consentirebbe di adeguare il trattamento al livello di problematicità che l’individuo esprime, di esplorare i bisogni criminologici da trattare, comprenderne la funzione all’interno del quadro di vita, cognitivo-affettivo, intimo-sessuale dell’aggressore, per ridurre il rischio di relapse criminale e per organizzare di conseguenza il trattamento (stabilire i tempi, la durata e l’esito).

Per tale ragione, il volume contiene la versione integrale italiana del Comprehensive Inventory of Denial, Sex Offender Version (CID-SO©) comprendente 18 item, per una valutazione clinica e psicocriminologica strutturata del diniego in tutte le sue componenti (diniego dell’arousal e dei comportamenti sessuali devianti, diniego della necessità di trattamento/gestione dell’aggressione sessuale, diniego della responsabilità, minimizzazione del danno).

In conclusione

Numerosi sono gli elementi e le ragioni da analizzare che portano ad utilizzare il diniego nei sex offender, in modo self-serving, spesso autopretettivo per ridurre, reindirizzare, gestire una dissonanza cognitiva ed emozionale, oppure una cognizione ansiogena o un autoinganno inconsapevole.

La realtà psicocriminologica proveniente dai resoconti narrativi degli aggressori è complessa, difficile e sfaccettata, pertanto necessita di una valutazione il più possibile oggettiva e omnicomprensiva per evitare credenze pregiudizievoli e giudizi, sia giuridici per la determinazione della pena che clinici, rifiutanti e troppo influenzati dal reato commesso, abusante l’infanzia dei minori e violante la libertà sessuale delle vittime.

Senza pregiudizi e con professionalità, il saggio Il diniego nei sex offender di Georgia Zara ci aiuta in questo difficile processo.

Tecnologia e DOC: una nuova applicazione per ridurre le compulsioni

I ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Cambridge hanno sviluppato un’applicazione per smartphone che sembra possa aiutare a ridurre le compulsioni nel Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC)

 

Tra i sintomi più comuni del Disturbo Ossessivo Compulsivo, il 46% dei pazienti presenta la compulsione che riguarda il lavarsi le mani, oltre ad un’eccessiva paura di contaminazione (Jalal, Brühl, O’Callaghan, Piercy, Cardinal, Ramachandran & Sahakian, 2018).

Non c’è dubbio che questi comportamenti abbiano un impatto decisivo sulla vita del paziente, sulle sue relazioni e sulla sua vita lavorativa. I comportamenti ripetitivi sono associati ad una “rigidità cognitiva”, cioè all’incapacità di adattarsi a nuove situazioni o a sottostare a nuove regole.

Pertanto, porre fine alle compulsioni richiede una flessibilità cognitiva che rende il paziente in grado di dedicarsi ad altre attività (Vaghi, Vértes, Kitzbichler, Apergis-Schoute, Van Der Flier, Fineberg, & Bullmore, 2017).

Una nuova modalità di trattamento

Molto spesso i pazienti affetti da DOC ricevono la diagnosi dopo anni e anni di sofferenza e, di conseguenza, iniziano tardi il trattamento che, perciò, può risultare poco efficace.

Il trattamento tradizionale del Disturbo Ossessivo Compulsivo consiste in una combinazione di terapia farmacologica e una forma di psicoterapia cognitivo-comportamentale denominata ERP- Esposizione con Prevenzione della Risposta. Questa tecnica richiede ai soggetti un enorme sacrificio e sforzo emotivo, in quanto essi vengono sottoposti ad elevato stress.

Per via delle difficoltà al trattamento di alcuni pazienti DOC, i ricercatori hanno ideato una tecnica alternativa per trattare le compulsioni riguardanti il lavarsi le mani e la paura della contaminazione (Jalal & Ramachandran, 2017). L’intervento può essere effettuato tramite un’applicazione dello smartphone e consiste nel far guardare ai pazienti video di loro stessi mentre si lavano le mani o toccano superfici contaminate.

Lo studio

Lo studio condotto dai ricercatori di Cambridge ha coinvolto 93 partecipanti non patologici che hanno ottenuto un punteggio alto nella paura della contaminazione secondo il Padua Inventory Contamination Fears Subscale. Non è stato utilizzato un campione composto da pazienti con diagnosi DOC per evitare che l’intervento potesse potenzialmente peggiorare i sintomi.

I 93 partecipanti sono poi stati suddivisi in tre gruppi: i soggetti del primo gruppo hanno guardato video nello smartphone in cui venivano ripresi durante il rituale di lavarsi le mani; il secondo gruppo ha guardato video in cui venivano ripresi mentre toccavano delle superfici contaminate e il gruppo di controllo ha guardato video in cui venivano messi in atto movimenti neutrali con le mani.

I video sono stati visti per 30 secondi, per 4 volte al giorno. Dopo una settimana, i partecipanti del primo e del secondo gruppo sono migliorati, mostrando una riduzione dei sintomi e una maggiore flessibilità cognitiva rispetto al gruppo di controllo. Nella media, il gruppo uno e il gruppo due hanno migliorato del 21% i punteggi alla Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (YBOCS), la scala più usata nell’assessment clinico per la gravità dei sintomi ossessivo-compulsivi.

Alcuni dei soggetti hanno riferito che, durante il giorno, riuscivano a ritardare la compulsione di lavarsi le mani anche per più di due ore, utilizzando in sostituzione i video dell’applicazione.

In conclusione

Questa nuova applicazione potrebbe essere utile a stimolare nei pazienti il coinvolgimento in attività quotidiane piuttosto che imbattersi in rituali e comportamenti compulsivi (Jalal et al., 2018).

Nonostante i risultati siano incoraggianti e le previsioni dell’utilizzo di questo tipo di tecnologia siano entusiasmanti, il concetto richiede ulteriori ricerche e, soprattutto, va esaminato l’utilizzo dell’intervento con lo smartphone su pazienti con diagnosi di DOC.

Immagine corporea e sentirsi grassi: due variabili interconnesse nei disturbi alimentari

La rappresentazione della propria immagine corporea è considerata come un costrutto multidimensionale che include aspetti cognitivi e affettivi (preoccupazione e sentimenti sul corpo), percettivi (stima delle dimensioni del proprio corpo) ed infine comportamentali.

Manuela Capolongo e Martina Croci – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Secondo il modello cognitivo-comportamentale, la psicopatologia nucleare dei Disturbi Alimentari è caratterizzata da preoccupazioni eccessive e patologiche rispetto alla forma ed alle dimensioni del corpo. In particolare, la distorsione dell’immagine corporea viene definita come un disturbo nel modo in cui un soggetto percepisce il peso e la forma del proprio corpo; questa dimensione psicopatologica è molto frequente sia nell’anoressia che nella bulimia nervosa.

Immagine corporea: definizione e storia del costrutto

Il primo autore a parlare di Immagine Corporea è stato Paul Shilder nel 1935, il quale sottolinea la necessità di esaminare gli elementi neurologici, psicologici e socioculturali che concorrono alla definizione di tale concetto.

Dal 1958 al 1968 anche Fisher e Cleveland si occupano del concetto di immagine corporea, inizialmente in una prospettiva psicodinamica, dando origine alla teoria dei “Confini dell’immagine corporea” (Body Image Boundaries).

Successivamente, nel 1987, viene fatta propria una prospettiva ad indirizzo psicologico-fenomenologica, che considera l’immagine corporea. come una serie di sensazioni e atteggiamenti rivolti al proprio corpo (Fisher, 1986).

Queste teorie sono state in parte eclissate negli anni successivi dallo sviluppo delle teorie Cognitivo-Comportamentali sull’immagine corporea.

Quest’ultime hanno portato alla costruzione di un modello cognitivo-comportamentale dello sviluppo dell’immagine corporea, in cui si distinguono fattori storici e fattori prossimali. I fattori storici si riferiscono ad eventi ed esperienze del passato che influenzano il modo in cui un individuo pensa, sente e agisce in relazione al proprio corpo. Fra questi i principali sono: la cultura sociale, le esperienze interpersonali, le caratteristiche fisiche ed i tratti di personalità. Attraverso diversi tipi di apprendimento sociale, i fattori storici infondono all’individuo gli schemi e le attitudini fondamentali dell’immagine corporea, incluso la disposizione alla valutazione e diversi gradi di investimento sulla stessa.

La valutazione dell’immagine corporea si riferisce alla soddisfazione o insoddisfazione per il proprio corpo, mentre con investimento si intende l’importanza del corpo, sul piano cognitivo, comportamentale ed emotivo, in relazione all’auto-valutazione.
I fattori prossimali sono rappresentati dagli eventi di vita recenti, ed hanno un ruolo precipitante o di mantenimento sull’esperienze della propria immagine corporea, incluso il dialogo interno, le emozioni riguardanti la propria immagine, le strategie, i meccanismi di auto-regolazione e di coping.

Esistono specifici eventi attivanti, tra i quali l’esposizione del corpo, l’esposizione allo specchio, i feedback sociali, le situazioni di confronto con gli altri, l’indossare alcuni vestiti, il pesarsi, fare attività fisica, stati d’animo negativi, cambiamenti corporei ecc., che attivano l’elaborazione di schemi relativi all’apparenza. Questi eventi risultano poi in dialoghi interni (pensieri, interpretazioni, conclusioni, etc. riguardo il proprio aspetto), che riflettono errori e distorsioni, come il pensiero dicotomico, il ragionamento emozionale, confronti inadeguati con modelli sociali, inferenze arbitrarie, generalizzazioni eccessive, personalizzazioni eccessive, amplificazione dei difetti, minimizzazione delle risorse; a questi seguono le emozioni, che generalmente sono disforiche, caratterizzate da vergogna e senso di colpa.
Per far fronte a questi pensieri ed emozioni che generano stati d’animo negativi, la persona attiva dei comportamenti adattivi e delle strategie cognitive, ad esempio comportamenti di evitamento e negazione del corpo, rituali di controllo della propria apparenza (body checking) e strategie compensatorie.

Immagine corporea: il ruolo nell’anoressia e nei Disturbi Alimentari

Come precedentemente accennato, la distorsione dell’immagine corporea gioca un ruolo determinante nel favorire la restrizione alimentare nell’Anoressia Nervosa.

Secondo il modello cognitivo comportamentale (Fairburn et al., 1993), altri sintomi caratteristici dei Disturbi Alimentari, come ad esempio le abbuffate, sarebbero associati ad un circolo vizioso di mantenimento basato su preoccupazioni legate al corpo e su aspettative irrealistiche rispetto al proprio peso.

Negli ultimi decenni c’è stato un aumento dell’attenzione al ruolo giocato dall’immagine corporea anche in disturbi diversi rispetto all’Anoressia Nervosa, associati a condizioni multifattoriali come l’obesità, quali ad esempio il Disturbo d’Alimentazione Incontrollata (DAI), in virtù della diffusione, nel mondo occidentale industrializzato, di un ideale di bellezza che privilegia la magrezza e che squalifica il sovrappeso (Garner et al., 1980; Wieseman et al., 1992, Treasure et al, 2010).

Il modello cognitivo comportamentale (Fairburn et al., 1993) prevede che il meccanismo dell’abbuffata sia principalmente legato alla restrizione alimentare, che a sua volta è strettamente legata a convinzioni distorte rispetto al proprio corpo (Garner e Garfinkel, 1988). Questo modello suggerisce che l’individuo possa sviluppare preoccupazioni per l’aspetto fisico come risultato di bassi livelli di autostima, e la restrizione del consumo di cibo rappresenti lo sforzo compensatorio per modificare la forma corporea. L’abbuffata nascerebbe dalla suscettibilità psicologica e fisiologica che consegue alla restrizione alimentare, e i meccanismi di compenso (vomito, lassativi, esercizio fisico, ecc.) sarebbero impiegati per ridurre l’impatto dell’abbuffata sul peso corporeo. Restrizione e perdita di controllo, con successive pratiche compensatorie, risultano poi strettamente collegate da una serie di circoli viziosi che tendono ad automantenere il quadro clinico completo.

Un classico esempio di distorsione dell’immagine corporea è la persona anoressica che ritiene fermamente di apparire grassa, oppure quella bulimica che, nonostante la precedente perdita di peso, continua a vedersi grassa.

Almeno la metà dei pazienti con disturbi del comportamento alimentare sovrastimano significativamente la propria taglia corporea; questo solitamente è provocato da stati d’animo negativi, dal consumo di cibi ritenuti ipercalorici, dal vedere immagini di donne magre attraverso i mass media, dal periodo premestruale o dall’indicazione di valutare la propria taglia sulla base dei sentimenti.

Chi presenta un’immagine corporea negativa si sentirà maggiormente preoccupato nelle situazioni sociali, durante le quali si aspetta di essere attentamente scrutato dalle altre persone; questa sensazione genera ansia, imbarazzo e vergogna poiché la persona teme che il suo aspetto fisico esteriore possa rivelare agli altri alcune sue inadeguatezze personali.

Sentirsi grassi: il ruolo della percezione

La sensazione di sentirsi grassi, invece, è una percezione del proprio stato corporeo che accomuna una grandissima percentuale di donne (meno di uomini), anche se non è stata ancora studiata approfonditamente. Questa sensazione è collegata ad alcune variabili, che caratterizzano il nucleo centrale dei disturbi alimentari, in particolare ad un’immagine corporea negativa, sia in caso di sottopeso, normopeso e sovrappeso.

Infatti il peso effettivo della persona non influisce significativamente su questa sensazione, perché interessa anche donne normopeso: è l’avere un’immagine corporea negativa che ne aumenta la frequenza e l’intensità.

Uno studio interessante sull’argomento e che ha confermato quanto appena spiegato, è quello condotto da Myra J. Cooper e il suo team, presso l’Università di Oxford in Inghilterra, che ha fornito una preliminare e sistematica esplorazione delle caratteristiche associate alla sensazione di sentirsi grassi: gli autori ricordano che essa è una sensazione comune tra le donne in generale, in particolare quelle che sono attente al peso e alla forma del corpo, ma anche tra le donne che non sono eccessivamente interessate al peso e alla forma del corpo.

Nonostante questi risultati, si sa ancora poco di come il sentirsi grassi differisca tra la popolazione clinica e non clinica: ricerche hanno confermato che questa sensazione è più intensa nella popolazione clinica, ma non assente in quella non clinica. Gli studiosi infatti sono concordi nel dire che il sentirsi grassi è qualcosa di più che pensare di essere ingrassati: Anderson (2000) per esempio nota che è spesso una metafora della disforia.

L’implicazione che il “sentirsi grassi” può essere considerato più di una sensazione, includendolo in un range di componenti emotive e cognitive, è particolarmente significativo per la terapia cognitiva. I trattamenti recenti però non si sono spesso indirizzati verso questa variabile, ad eccezione del trattamento transdiagnostico di Fairburn per i disturbi alimentari, che vede il sentirsi grassi come un aspetto dell’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo.

Sentirsi grassi: il trattamento CBT-E

In Italia, i contributi più consistenti sul tema provengono dalle ricerche del dottor Riccardo Dalle Grave, che la include nel suo trattamento CBT-E (Enhanced Cognitive Behaviour Therapy).

Egli spiega che il sentirsi grassi non è un’emozione né una percezione del corpo, ma, come è stata definita da studi recenti, è una conseguenza di “etichettare” in modo inaccurato alcune esperienze: per esempio dopo che si è mangiato si può etichettare l’esperienza del gonfiore fisiologico e temporaneo dello stomaco come prova dell’essere grassi. Più precisamente le esperienze che vengono etichettate in questo modo sono le emozioni “negative” (come tristezza, depressione, noia e ansia), aumentata consapevolezza del corpo, come appunto sentirsi pieni, gonfi, sudati, percepire i vestiti che stringono, o sentire il corpo che balla, e infine i check della forma del corpo (guardarsi allo specchio, misurare il peso corporeo e confrontare il proprio corpo con quello di altre persone).

Inoltre questa variabile, oltre che essere influenzata dall’immagine corporea negativa, allo stesso tempo la mantiene, innescando un circolo vizioso: avere un’immagine del proprio corpo negativa favorisce la sensazione di sentirsi grassi, e mantiene questa sensazione perché si associa all’”essere grassi”, che a sua volta può innescare strategie disfunzionali come la restrizione calorica, abbuffate e aumento di check del corpo. Infatti questa sensazione alimenta l’insoddisfazione corporea e la restrizione dietetica.

Nella CBT-E il “sentirsi grassi” viene inserito nella fase 3 del trattamento, nella quale si affrontano i meccanismi residui e che mantengono il disturbo alimentare: nello specifico viene inserita tra le altre espressioni del nucleo psicopatologico del disturbo alimentare, insieme al check del corpo, all’evitamento dell’esposizione del corpo e alla marginalizzazione delle altre aree di vita.

Fairburn e Dalle Grave sottolineano il fatto che questo fenomeno fluttua di giorno in giorno e anche nello stesso giorno, pur rimanendo invariato il peso corporeo, differenziandosi così dalla maggior parte degli altri aspetti del nucleo psicopatologico, che tendono invece ad essere relativamente stabili, come lo sono il peso corporeo e la reale “grassezza”.

Un altro aspetto fondamentale su cui si soffermano gli autori è il fatto che spesso il sentirsi grasse coincide con l’essere grasse.

Secondo il trattamento di Fairburn, su cui si è ispirato Dalle Grave, occorre prima di tutto chiedere alle pazienti se a volte si sentono grasse, specificando che non si sta parlando dell’eventualità che esse credono di essere oggettivamente grasse, ma se si sentono in questo modo. Un secondo passo consiste nel sottolineare alle pazienti che l’esperienza di sentirsi grasse potrebbe nascondere altri elementi, come emozioni e sensazioni negative e aiutarle a identificare i picchi di questa sensazione, ossia i momenti in cui essa è particolarmente intensa.

A questo punto il trattamento in questione prevede che le pazienti monitorino questi momenti in cui la sensazione è più intensa e pensare a cos’altro stanno provando in quella stessa occasione. Nella seduta successiva si rivedrà con il terapeuta il monitoraggio fatto dalle pazienti, focalizzando l’attenzione sul contesto in cui questa sensazione si è verificata, ossia quali emozioni, pensieri, sensazioni sono ad essa associate, che però precedentemente venivano mascherate.

Di conseguenza le pazienti dovrebbero essere più consapevoli che l’esperienza di sentirsi grasse tende ad essere causata da certi stati emotivi negativi (sentirsi annoiate, depresse, sole, ecc…), da forme di comportamento o da sensazioni fisiche che aumentano la consapevolezza corporea (fare check del corpo, confrontarsi con altri, sentirsi piene, gonfie, sudate, sentire la pancia che esce dai pantaloni o le cosce che sfregano tra loro).

L’obiettivo finale prevede che le pazienti capiscano che queste sono normali sensazioni corporee e che si verificano in alcune circostanze, che vengono da loro male etichettate: le pazienti dovrebbero identificare quando hanno questa sensazione intensa, focalizzarsi su cosa stanno provando in quel momento, identificando i fattori scatenanti e affrontarli utilizzando metodi come il problem solving.

Sicuramente questo appena descritto è un approccio efficace alla problematica, ma la speranza è quella che le ricerche future si concentrino maggiormente su questa variabile, che sì è più intensa nelle persone con disturbo alimentare, ma interessa anche la popolazione non clinica, che può vivere questa esperienza come un problema difficile da gestire.

Primo colloquio: sintonizzarsi col paziente senza cadere in cicli interpersonali

Alzi la mano chi, in attesa di incontrare per la prima volta un paziente, con cui magari fino a quel momento vi è stato soltanto un breve contatto telefonico o via mail, non è mai entrato in uno stato mentale particolare.

 

Se tarda qualche minuto subito si può pensare Ecco, non verrà e non mi ha neppure avvisata. Avrei potuto fare altro in questo tempo….ma che maleducazione… e nel bel mezzo di questo squilla il telefono: il paziente, semplicemente, non riesce a trovare il civico. Ed ecco, allora, che ci diciamo qualcosa tipo: ho sbagliato a pensare questo…ora mi sentirò in colpa. In entrambi casi, ci andiamo giù pesante.

Primo colloquio: chi entrerà dalla porta?

Altro scenario. Al telefono sembra adulto. So per certo che quando aprirò la porta e mi vedrà bassa, giovane, penserà che sono la segretaria e chiederà “dov’è la dottoressa?”. A quel punto io arrossirò, e penserò di dover fare di tutto per dimostrare il mio valore. Meno male che oggi mi sono vestita bene e che ho indossato le scarpe alte. Arriva il paziente, si siede e sembra non interessarsi proprio ai nostri dati anagrafici, alla nostra altezza, né alla marca delle nostre scarpe. Quasi quasi, ci restiamo male.

Altra possibilità, che spesso mi capita di vivere. Il paziente arriva a studio, si siede, e con fare curioso proviamo a capire il motivo della sua richiesta di aiuto. Lui/lei parla, parla, parla ancora e questo motivo sembra non esserci. A casa tutto bene, a lavoro anche, con gli amici uguale…e quindi? Proviamo a chiedere, con la frase passepartout, Che cosa potrei fare per lei? e segue una risposta vaga, confusa, incerta.

Primo colloquio: le emozioni del terapeuta

Questi sono soltanto degli esempi ma nella realtà capita di frequente di viversi il primo appuntamento con il nuovo ipotetico paziente con delle emozioni attive come ansia, paura, vergogna. Il terapeuta può sentirsi demotivato, sfidato, incerto, gli sembra di non aver capito nulla del colloquio, gli sembra di essere sotto esame e si entra in stati mentali difficilmente regolabili. La prima cosa che, però, rende ostica la risoluzione degli stessi, è che siamo davvero poco consapevoli di quello che sta capitando e ci troviamo ad agire, spesso in modo disfunzionale, piuttosto che regolare la relazione. Allora ci arrabbiamo, ci distanziamo, ci mettiamo a discutere circa posizioni e punti di vista con il rischio che il paziente si senta non accolto, non capito oppure che scelga di non intraprendere proprio la terapia.

La difficoltà principale è che da stati mentali di questo tipo si scivola facilmente in cicli interpersonali negativi che influenzano la seduta. Questo è dannoso in ogni fase della terapia ma, capiamo bene che, se accade in fase iniziale, può minare tutto il percorso se non addirittura, bloccarlo. Infatti, quante volte capita che il paziente dopo il primo colloquio disdice il secondo appuntamento congedandosi con un “la richiamo io quando posso, ora è un periodo in cui sono molto impegnato”. È il caso, però, di sottolineare che questo può accadere per altri motivi, anche se il primo incontro viene condotto bene e l’esplorazione è condivisa in un clima caldo e collaborativo. Possono esserci tante spiegazioni, quindi, che non dipendono dalla dimensione interpersonale.

Primo colloquio: la pericolosità dei cicli interpersonali

Ricordiamo che un ciclo interpersonale (Safran e Muran, 2000) ha avvio quando l’incontro con l’altro viene letto attraverso la lente del proprio schema patogeno e l’altro, per l’appunto, reagisce. Infatti, ad esempio, se il terapeuta con il proprio schema di inadeguatezza, si mostra più preoccupato di cosa e come fare o dire, il paziente può sentirsi poco accolto; il terapeuta a sua volta legge questo come un fallimento personale, e può disinvestire, ritirarsi, oppure impegnarsi ancora di più nel riprendere una dimensione basata sulla performance. Bisogna, allora, ricordare che

Non si tratta di reazioni oggettive, ma di modi soggettivi di entrare in relazione con quella specifica persona. La reazione soggettiva del terapeuta informa sulla realtà interna del paziente, ma non completamente (Dimaggio et al., 2013, p.95).

Per concludere, le infinite combinazioni tra schemi interpersonali patogeni e disfunzioni metacognitive tra paziente e terapeuta giustificano una quantità pressoché infinita di problemi di sintonizzazione. È dovere del clinico, quindi, riconoscere le proprie vulnerabilità sotto questo punto di vista e tentare di agirle il meno possibile. Pur comprendendo quanto questo possa essere difficile nel vivo dell’incontro con l’altro, siamo responsabili della cura e della modulazione della relazione terapeutica nelle sue componenti esplicite ed implicite, verbali e non.

Io, intanto, per precauzione, indosso spesso le scarpe alte, non si mai.

Il diniego nei sex offender. Dalla valutazione al trattamento (2018) – Recensione del libro

Il diniego nei sex offender di Georgia Zara è un’opera che ha il duplice obiettivo di analizzare il ruolo del diniego nei sex offender e di introdurre in Italia il Comprehensive Inventory of Denial -
Sex Offender Version (CID-SO), un prezioso strumento di valutazione capace di cogliere i diversi aspetti dellla minimizzazione e del diniego nei sex offender.

 

Parlare di reati di natura sessuale e dei loro autori evoca sempre forti reazioni: a livello sociale, giuridico e anche clinico.

Quanti clinici sono disposti a lavorare con queste persone riuscendo a mantenere la professionalità necessaria senza farsi condizionare, nel loro operato valutativo e trattamentale, da giudizi personali?

È certamente una grande sfida riuscire ad andare oltre le emozioni intense che certe azioni suscitano e riuscire ad operare a un livello davvero trasformativo.

E lo è ancora di più quando l’autore del reato sessuale nega, totalmente o in parte, il reato, la propria responsabilità, la gravità dello stesso o le sue conseguenze. E se il lavoro clinico passa attraverso la relazione, che per essere davvero terapeutica deve essere autentica, come riuscire a entrare in empatia con persone che minimizzano la lesività dei reati per cui sono stati condannati, o attribuiscono parte delle responsabilità alle loro vittime o giustificano le loro azioni con teorie autoassolutorie?

Il diniego è, infatti, un aspetto ricorrente nei sex offender che alimenta reazioni sociali punitive ed esercita pressione sul sistema giuridico affinché siano stabilite pene sempre più severe.

Gli autori di reati sessuali che negano o minimizzano sono percepiti come poco collaborativi, più a rischio di ricadute criminali e clinicamente più problematici.

Il diniego nei sex offender

Ed è proprio sul diniego che si focalizza il lavoro di Georgia Zara: un’opera che ha il duplice obiettivo di analizzare il ruolo del diniego nella psicologia dei sex offender, esplorando la realtà clinica, psicocriminologica e giuridico-forense e, partendo da uno studio effettuato su un campione di sex offender inseriti in trattamenti specifici, di introdurre in Italia il Comprehensive Inventory of Denial -
Sex Offender Version (CID-SO), un prezioso strumento di valutazione capace di cogliere i diversi aspetti del diniego e della minimizzazione.

Il diniego non è certamente esclusivo degli autori di reato sessuale: tutti gli esseri umani utilizzano quotidianamente nella loro vita una quota di diniego e minimizzazione. È un meccanismo psicologico autoprotettivo messo in atto quando è impossibile per una persona comprendere e accettare alcuni aspetti della propria esperienza vissuti come particolarmente dolorosi, umilianti, inaccettabili, disturbanti.

Ma tutti i sex offender negano, almeno in certa quota, il reato, le responsabilità o le conseguenze ad esso correlate, e questo viene percepito come un elemento di ulteriore gravità, alimentando la convinzione che queste persone siano a rischio di ricaduta criminale proprio perché incapaci di assumersi la responsabilità dell’accaduto.

Infatti, nonostante la ricerca scientifica abbia faticosamente ma indubbiamente evidenziato come il diniego non possa essere né ridotto a una strategia strumentale al fine di evitare o alleviare la pena, né direttamente correlato al rischio di recidiva, esso alimenta le reazioni negative della comunità e la sospettosità del sistema giuridico, avendo di fatto un effetto sfavorevole sull’accesso a benefici processuali, penali e penitenziari.

Sebbene l’eventuale atteggiamento di diniego di responsabilità non precluda di per sé l’accesso a riti premiali, misure di detenzione attenuate, pene alternative alla detenzione o altri benefici, la sua presenza nella prassi incide certamente in senso avverso, gravando su una posizione giuridica già di per sé onerosa per via della natura del reato.

Ulteriore aggravante è data dal fatto che il diniego spesso rappresenta un fattore di esclusione dal trattamento, privando così la persona di una grande e importante occasione di messa in discussione e cambiamento.

Tuttavia, fa notare l’autrice, se il diniego nei sex offender è una costante, non può essere di per sé un fattore discriminante il livello di rischio di continuazione antisociale e non dovrebbe dunque incidere sulla determinazione della pena e della sua esecuzione.

La ricerca ha dato ampia dimostrazione del fatto che da un lato il diniego non sia un fattore di rischio di ricaduta criminale e dall’altro l’ammissione di colpevolezza e l’assunzione delle responsabilità non sia necessariamente correlato ad una diminuzione del rischio. La storia di Gerardo Morris, uno dei casi illustrati a titolo esemplificativo nel volume, è una testimonianza importante di come l’ammissione di responsabilità per i reati commessi possa talvolta nascondere un alto rischio di recidiva.

Il legame fra diniego nei sex offender, rischio di recidiva e attivazione del cambiamento è complesso, non lineare: la direzione che Georgia Zara propone è dunque quella dell’esplorazione di come, intervenendo sul diniego, si possa promuovere l’aderenza trattamentale e favorire una maggiore consapevolezza del reato e delle sue conseguenze.

È importante, infatti, discriminare i bisogni criminogenici, ovvero quei bisogni che sono all’origine del comportamento deviante e incidono sulla carriera criminale, dai bisogni di rispondenza, che non hanno un ruolo nella messa in atto della violenza sessuale, ma incidono invece sul trattamento e dai quali dipende l’assunzione di responsabilità.

Il diniego è un bisogno di rispondenza e dunque capire il suo ruolo nei sex offender è di fondamentale importanza, considerato che l’esito del trattamento incide in maniera molto significativa sul rischio di ricaduta criminale.

Ma cosa alimenta il diniego?

Il diniego spesso è il risultato di pensieri distorti, credenze e atteggiamenti che condonano la violenza sessuale favorendo spiegazioni giustificatorie, discolpanti del proprio agito. Le teorie implicite dei sex offender fanno riferimento all’inconoscibilità delle donne, all’oggettivazione sessuale delle donne, all’incontrollabilità degli impulsi, all’assolutizzazione dei diritti sessuali maschili o alla priorizzazione dei propri diritti sessuali, alla pericolosità del mondo, alla sessualizzazione infantile, ecc.

Ma questi pensieri distorti hanno un ruolo di causa o conseguenza nelle dinamiche sessualmente abusanti? Ad oggi non è ancora chiaro se queste affermazioni riflettano teorie presenti a monte della condotta antisociale e dunque agiscano da “anticamera criminale” facilitante il passaggio all’atto violento, o se, per i sex offender, rappresentino dei tentativi discolpanti, con finalità di autoprotezione e riduzione della dissonanza cognitiva emersa dalla violenza agita.

Certamente il diniego nei sex offender è una strategia autoprotettiva di fronte al mondo e a se stessi, non solo strumentale ma psicologica.

Ciò che quest’opera vuole evidenziare è la sua natura multidimensionale, dinamica e complessa. Comprendere le sue diverse sfaccettature è un compito essenziale per strutturare un trattamento efficace, calibrato sulla singola persona e orientato ad una reale riabilitazione.

Per molto tempo i programmi di trattamento rivolti ai sex offender prevedevano (e molti prevedono tuttora) l’esclusione di soggetti deneganti, considerando la mancata assunzione di responsabilità come un indicatore prognostico negativo e di difficoltosa trattabilità. La ricerca più recente ha dimostrato come questo non sia vero; inoltre, questa presa di posizione fa sì che molti autori di reati sessuali siano rimessi in libertà senza trattamento, e questo rappresenta un fattore di rischio molto concreto.

La proposta che emerge da questo volume va in una direzione opposta: coinvolgere l’autore di reato sessuale denegante senza cercare di mettere in discussione quest’aspetto, ma tentando un primo aggancio terapeutico identificando almeno un obiettivo condiviso (lavorare sulla disregolazione emotiva, per esempio), che potrebbe aprire un dialogo e permettergli di sperimentare i benefici di questo lavoro, promuovendo il riconoscimento dell’utilità trattamentale.

L’introduzione della versione italiana del Comprehensive Inventory of Denial-
Sex Offender Version (CID-SO)

L’introduzione della versione italiana del Comprehensive Inventory of Denial-
Sex Offender Version (CID-SO) nasce dunque dall’esigenza di avere uno strumento di valutazione specifico e accurato in grado di cogliere le diverse dimensioni del costrutto, per individuare le aree di rispondenza.

Il CID-SO è composto da 18 item, raggruppati in 4 cluster:

  • Diniego dell’arousal e dei comportamenti sessuali devianti
  • Diniego della necessità di trattamento/gestione dell’aggressione sessuale
  • Diniego della responsabilità
  • Minimizzazione del danno

Nonostante alcune complicazioni interpretative di qualche item, dovute alla necessità di rapportare le dimensioni del diniego al caso specifico e che dunque richiedono l’acquisizione di informazioni dettagliate sulla vita della persona, il CID-SO è uno strumento con un’elevata validità, completo, di facile somministrazione e fornisce indicazioni fondamentali per l’inserimento e il lavoro clinico nel trattamento riabilitativo.

Attraverso questo strumento è possibile valutare l’impatto che un trattamento, mirato all’iniziale e graduale presa di consapevolezza, possa contribuire a rendere la persona più recettiva rispetto alla necessità di farsi aiutare, non solo durante la detenzione, ma anche nel più delicato momento del reinserimento nella società.

Nel volume sono riportati 3 casi esemplificativi di sex offender valutati durante la loro partecipazione ad un trattamento penitenziario e vengono presentati i risultati della somministrazione del CID-SO ad un campione di 35 soggetti (facenti parte di uno studio più ampio ancora in fase di preparazione).

I dati presentati in questo lavoro mostrano come un trattamento, dedicato alla graduale presa di consapevolezza, possa contribuire a creare apertura e accettazione rispetto alla necessità di essere aiutati, riducendo il livello di diniego.

Dall’approfondimento delle 3 storie emerge l’assoluta eterogeneità sia dei bisogni criminogenici scatenanti i reati sia dei bisogni di rispondenza che hanno caratterizzato la loro partecipazione al programma di trattamento. Diventa evidente, esplorando insieme all’autrice le vicende di queste persone, come solo attraverso l’individuazione di queste specificità sia possibile strutturare un intervento personalizzato ed efficace, in grado innanzi tutto di agganciare la persona e successivamente di attivare un cambiamento.

Conclusioni per il trattamento

Negli ultimi anni la giurisprudenza ha riconosciuto il valore e le necessità di attivare specifici percorsi di recupero e sostegno psicologico per i sex offender, nell’ottica di una maggiore prevenzione, leggendo dunque il reato come espressione di un problema multidimensionale, e ha individuato nell’osservazione scientifica della personalità ad opera di esperti lo strumento per poter progettare un trattamento personalizzato.

Tuttavia, se si escludono da questo percorso i soggetti con un alto grado di diniego, si perde un’importante occasione di fare prevenzione: per quanto lunga, la pena prima o poi finisce e l’autore di reato sessuale si ritrova reimmesso nella società senza aver avuto l’occasione di aprire uno spazio di riflessione su di sé e senza aver affrontato i problemi all’origine del proprio comportamento deviante.

A conferma di quanto già emerso in altri studi, questi risultati indicano come la riduzione del rischio non dipenda dall’intervento in sé, ma da quanto esso sia focalizzato sui bisogni criminogenici: su questi occorre agire per diminuire il rischio di recidiva criminale.

Merito di quest’opera è portare l’attenzione del lettore sul fatto che, se pur il lavoro sul diniego nei sex offender abbia un obiettivo diverso rispetto alla riduzione del rischio, è tuttavia una parte importante del trattamento e contribuisce al suo successo, poiché permette agli autori di reati sessuali di essere protagonisti attivi, rinforzando la motivazione e l’interesse al cambiamento, e, aspetto assolutamente da non sottovalutare, favorisce una maggiore rispondenza sociale e giuridica nei loro confronti.

Spigolare – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 48

Una teoria fisica non può avere la pretesa di essere una “teoria del tutto” ed ha un preciso campo di esistenza, che la rende applicabile a un certo numero di fenomeni.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Spigolare (Nr. 48)

 

Il Primo Teorema di incompletezza di Gödel dice che:

In ogni teoria matematica T sufficientemente espressiva da contenere l’aritmetica, esiste una formula tale che, se T è coerente, allora   \varphi né la sua negazione \lnot \varphi sono dimostrabili in T.

Con qualche semplificazione, il primo teorema afferma che:

In ogni formalizzazione coerente della matematica che sia sufficientemente potente da poter assiomatizzare la teoria elementare dei numeri naturali — vale a dire, sufficientemente potente da definire la struttura dei numeri naturali dotati delle operazioni di somma e prodotto — è possibile costruire una proposizione sintatticamente corretta che non può essere né dimostrata né confutata all’interno dello stesso sistema.

Intuitivamente, la dimostrazione del primo teorema ruota attorno alla possibilità di definire una formula logica che nega la propria dimostrabilità. È dunque cruciale che T consenta di codificare formule autoreferenziali, che parlano cioè di se stesse: questa richiesta è garantita dal fatto che T è espressiva almeno quanto l’aritmetica o più in generale che T sia in grado di rappresentare tutte le funzioni ricorsive primitive.

Merito di Gödel fu dunque l’aver esibito tale proposizione e la vera potenza di tale teorema è che vale “per ogni teoria affine”, cioè per qualsiasi teoria formalizzata, forte quanto l’aritmetica elementare.

In particolare Gödel dimostrò che l’aritmetica stessa risulta incompleta: vi sono dunque delle realtà vere ma non dimostrabili.

Questo teorema, che esprime uno dei più discussi limiti della matematica, è uno dei più frequentemente fraintesi. È un teorema proprio della logica formale e, se estrapolato da questo contesto, può prestarsi facilmente a interpretazioni erronee. Ci sono diversi enunciati apparentemente simili al primo teorema di incompletezza di Gödel, ma che non sono in realtà veri.

 

Leggi anche Scopiazzando dalla fisica – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 46

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Junk food addiction: gli aspetti in comune con la dipendenza da nicotina e marijuana

Negli ultimi decenni, si è assistito ad un incremento del consumo del cosiddetto “cibo spazzatura”. Patatine fritte, hamburger grassi e pollo fritto sono sempre più presenti nelle diete quotidiane di grandi e bambini. Chi ne consuma in grandi quantità sostiene di non poterne più farne a meno e di volerne sempre di più.

Adriano Mauro Ellena

 

Uno studio pubblicato nel settembre 2018 afferma che le persone che riducono drasticamente il consumo di cibi altamente processati, sperimentano alcuni sintomi fisici e psicologici tipici di chi si trova in crisi d’astinenza da nicotina o marijuana.

Al fine di procedere con l’esperimento i ricercatori hanno sviluppato uno strumento costruito a partire dalle scale utilizzate per valutare i sintomi di astinenza che sopraggiungono a seguito dell’interruzione del consumo di nicotina e marijuana. Questo nuovo questionario è stato poi somministrato a 231 adulti che, nell’ultimo anno, si sono impeganti a smettere di mangiare “cibo spazzatura”.

I risultati hanno messo in evidenza quanto i sintomi siano simili a quelli esperiti da ex fumatori di sigarette e marijuana.

Conclusioni e importanza clinica

Erica Shulte, autrice dello studio, afferma che si tratta di un grande passo avanti, essendo i sintomi di astinenza un punto chiave nella diagnosi di dipendenza, questo va nella direzione di supporre che il “cibo spazzatura” sia una vera e propria dipendenza patologica.

Nicole Avena, una neuroscienzata che si è sempre occupata di ricerca sulla food addiction, afferma che questo studio ha colmato una forte mancanza nell’ambito scientifico. Fino a questo momento, infatti, non c’era modo di riuscire a misurare i sintomi d’astinenza da “cibo spazzatura”, adesso invece questo nuovo strumento fornisce una valida misurazione di questi sintomi.

Sostiene inoltre, che ciò che mangiamo contiene elevate quantità di zuccheri. Questo composto modifica le reazioni nel nostro cervello in maniera analoga ad altre sostanze quale tabacco ed alcool.

Nonostante l’impatto scientifico di questo studio, sono stati riscontrati alcuni limiti. Primo tra tutti, il fatto che il questionatio self report misurasse il percepito a distanza di tempo dei sintomi e non riuscisse a misurarli nel qui ed ora, mentre si manifestano. Inoltre, non si è tenuto conto della modalità con cui i partecipanti hanno interrotto l’assunzione di “cibo spazzatura” (se gradualmente o bruscamente).

Sicuramente però, questo studio apre le porte ad ulteriori ed approfondite ricerche fornendo una prima spiegazione al perché sia così difficile iniziare a mangiare sano.

I costi di una società depressa: gli aspetti socio-economici della depressione

Nel mondo si stima che circa 340 milioni di persone soffrano di depressione. Nel corso degli ultimi anni la prevalenza della depressione è aumentata costantemente e allo stesso tempo l’età di insorgenza è diminuita.

 

Diffusione della depressione

Nel mondo si stima che circa 340 milioni di persone soffrano di depressione. La fascia di età più colpita è quella compresa tra i 30 e i 49 anni. Il disturbo depressivo è circa due volte più frequente tra le donne. Nel corso degli ultimi anni la prevalenza della depressione è aumentata costantemente e allo stesso tempo l’età di insorgenza è diminuita.

Secondo lo studio ESEMeD (European Study of the Epidemiology of Mental Disorders) del 2004, in Italia la prevalenza della depressione maggiore e della distimia nell’arco della vita è dell’11,2% (14,9% nelle donne e 7,2% negli uomini). Nelle persone ultra 65enni la depressione maggiore e la distimia hanno una prevalenza pari al 4.5% (ma tra le persone istituzionalizzate di questa età la prevalenza è molto più elevata, in alcune casistiche arriva fino al 40%). Da numerose indagini epidemiologiche risulta che il 2% dei bambini e il 4% degli adolescenti ha in un anno un episodio di depressione che dura almeno 2 settimane.

Secondo l’ultimo rapporto ISTAT (2018), sono oltre 2,8 milioni (il 5,4% della popolazione con oltre 15 anni) gli italiani che soffrono di depressione e la malattia è in aumento tra gli anziani. Nonostante  l’Italia sia uno dei paesi dell’Unione Europea con il minor numero di individui depressi (5,5% contro il 7,1% la media Ue), tra gli over 65 il valore raddoppia (l’11,6% contro l’8,8%).

La depressione, in generale, colpisce di più le donne (9,1% contro 4,8%) e soprattutto chi non lavora. In effetti, ben l’8,9% dei disoccupati e il 10,8% degli inattivi, fra 34 e i 64 anni, mostrano disturbi depressivi e stati d’ansia.

CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Infografica - La Depressione (Istat, 2018)Imm.1- Infografica – La Depressione (Istat, 2018)

La diffusione del disturbo e l’impatto altamente negativo che questo esercita nella vita di chi ne soffre è così evidente che la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha previsto che nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di invalidità per malattia, subito dopo le malattie cardiovascolari.

Costi sociali e umani, perdita di produttività e costi sul sistema sanitario

Nel 2014 sono stati ben novantadue i miliardi di euro persi in un anno, nella sola Europa, a causa della depressione. I costi della depressione, infatti, non sono solo quelli più immediati da intuire, vale a dire ricoveri e terapie, vi sono anche costi sommersi, più nascosti: assenza dal lavoro, sussidi, perdita di produttività. Dei novantadue miliardi di cui sopra, ben cinquantaquattro sono quelli correlati a costi indiretti per assenza lavorativa. Non a caso la depressione si è “meritata” il titolo di “Crisi globale”, datole dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan (Cicerone, 2015).

Tale crisi colpisce anche l’Italia: nel 2014 il consumo di antidepressivi è stata una delle principali componenti della spesa farmaceutica, con un aumento del 4,5 per cento circa in dieci anni. Eppure solo un italiano su tre è consapevole di soffrire di depressione e si cura in modo adeguato. Il Servizio sanitario nazionale spende in media oltre 4 mila euro l’anno a paziente. Il costo sociale della Depressione, inteso come ore lavorative perse, a livello nazionale è pari a 4 miliardi di euro l’anno.

Ma se parliamo di depressione in termini economici e sociali, come già anticipato, il problema maggiore non è il costo delle terapie e neanche la difficoltà di individuare interventi opportuni.

Il vero peso economico della depressione è rappresentato dai costi indiretti, di cui le imprese pubbliche e private sopportano una quota tra il 30 e il 50 per cento: il disturbo incide pesantemente sulla produttività di chi ne soffre, aumentando i costi per le politiche sociali e di welfare.

In Europa un lavoratore su dieci si assenta dal lavoro a causa della depressione, per un totale di 21mila giorni di lavoro persi. Mentre chi tiene duro deve fare i conti con mancanza di concentrazione, indecisione, perdite di memoria che possono rendere la giornata di lavoro un vero incubo. È quello che gli esperti chiamano presenteeism, ovvero la presenza sul luogo di lavoro in condizioni di salute non ottimali: un fenomeno che secondo alcune stime potrebbe avere costi anche cinque volte superiori a quelli dell’assenteismo vero e proprio. Secondo la recente ricerca “IDEA” (Impact of Depression in the Workplace in Europe Audit), che ha coinvolto in tutta Europa oltre 7 mila adulti fra i 16 e i 64 anni, lavoratori e dirigenti, ben il 20% degli intervistati aveva avuto una diagnosi di depressione e il numero medio di giornate di congedo dal lavoro durante l’ultimo episodio di depressione è stato di 36 giorni. Un manager su 3 tra quelli intervistati ha ammesso di non avere risorse economiche o strumenti formali per affrontare il problema. (Di Frischia, 2005)

A questo vanno aggiunti i dati relativi all’impatto sociale, soprattutto tenendo conto che in Italia per ogni paziente sono toccati almeno 2-3 familiari, coinvolgendo dunque indirettamente 4-5 milioni di persone nel disturbo.

Nel tunnel della depressione: uno sguardo alle principali spiegazioni biologiche e psicologiche dell’insorgenza del disturbo

La percentuale di persone che soffrono di depressione sembra aumentare costantemente nel tempo e, non a caso, l’OMS ha previsto che nel giro di pochi anni la depressione sarà la seconda causa di invalidità per malattia, subito dopo le malattie cardiovascolari.

 

La depressione è uno dei disturbi psichici più comuni e invalidanti, derivante spesso a seguito di una sensazione di perdita o di una perdita effettiva. La percentuale di persone che soffrono di depressione sembra aumentare costantemente nel tempo e, non a caso, l’OMS ha previsto che nel giro di pochi anni la depressione sarà la seconda causa di invalidità per malattia, subito dopo le malattie cardiovascolari.

La depressione può colpire chiunque. La letteratura è concorde nel dichiarare che è spesso un sentimento di perdita a causare il manifestarsi del disturbo. Tuttavia le cause della depressione restano molteplici e diverse da persona a persona (ereditarietà, ambiente sociale, lutti familiari, problemi di lavoro,…). Le ricerche mostrano la presenza di due fattori di rischio principali come cause della depressione:

  • il fattore biologico: alcune persone nascono con una maggiore predisposizione genetica verso la depressione;
  • il fattore psicologico: le esperienze e i comportamenti appresi nel corso della propria storia di vita (es: la ruminazione mentale) possono rendere vulnerabili alla depressione.

Cause biologiche

Diversi sembrano essere i meccanismi biologici e neurobiologici coinvolti nella depressione (Torta, 2008).

  • Ipotesi aminergica della depressione: il disturbo dell’umore sarebbe causato da una carenza di neurotrasmettitori a livello sinaptico, in particolare per quanto riguarda serotonina, noradrenalina (NA) e dopamina (DA). In tale ottica i sintomi della depressione possono essere migliorati da un recupero della funzionalità sinaptica, e quindi trasmettitoriale, attraverso l’impiego di farmaci antidepressivi
  • Ipotesi ormonale della depressione: molteplici assi ormonali sarebbero potenzialmente coinvolti nella regolazione del tono dell’umore, tra cui:
    • l’asse HPG (ipotalamo-ipofisi-gonadi), nell’ambito del quale è opportuno considerare l’importanza dell’azione antidepressiva degli estrogeni e del testosterone. Gli estrogeni, per esempio, oltre all’azione squisitamente ormonale, sono in grado di modulare l’asse HPA ed esercitare un effetto attivante anche a livello comportamentale. Alla caduta dei livelli estrogenici sono imputabili alcune depressioni, anche gravi, correlate ad alterazioni di tale asse ormonale, come nel caso della depressione post-partum.
    • Anche l’asse HPT (ipotalamo-ipofisi-tiroide) è coinvolto nella regolazione dell’umore: basti considerare le diverse caratteristiche del tono dell’umore nei soggetti iper- ed ipo-tiroidei. Nello specifico, gli ormoni tiroidei, per i quali sono presenti recettori cerebrali, esercitano una funzione modulatoria positiva sulla risposta neurotrasmettitoriale serotoninergica e noradrenergica.
    • L’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene), ampiamente correlato nella regolazione dei meccanismi dello stress ed i rapporti fra CRH (ormone di rilascio della corticotropina), cortisolo, sistema immunitario, sistema neurovegetativo ed eccitossicità. Il circuito si attiva a seguito di una valutazione cognitiva dello stimolo, a cui consegue un aumentato rilascio di CRH a livello ipotalamico, che aumenta la liberazione di ACTH (ormone adreno-corticotropo) ipofisario, che, a cascata, stimola il surrene a rilasciare vasopressina (AVP) e cortisolo. L’ iperfunzione dell’Asse HPA e in particolare, l’incrementato rilascio di CRH attiva una cascata di risposte autonomiche e metaboliche che sono correlate clinicamente al quadro ansioso e depressivo.
  • Esiste anche un’ipotesi immunologica della depressione che coinvolge le citochine proinfiammatorie. Le citochine proinfiammatorie possono esercitare un effetto negativo sul tono dell’umore attraverso molteplici meccanismi, ad esempio aumentando l’attività dell’asse HPA, favorendo l’ipersecrezione di CRH e quindi un aumentato rilascio di cortisolo
  • Una ulteriore ipotesi patogenetica della depressione è quella neurotrofica. L’ipotrofia dell’ippocampo è presente in svariate patologie (ad es. in corso di malattia di Cushing, disturbo bipolare, schizofrenia, Alzheimer) che condividono una iperattività dell’asse HPA, e quindi una produzione aumentata e cronica di cortisolo. Questo determina un aumento di citochine pro-infiammatorie e di glutamato che causano neurotossicità. In alcune aree cerebrali come quella ippocampale, si genera così una sofferenza neuronale che determina una progressiva perdita cellulare, non compensata da meccanismi gliogenetici e neurogenetici (a loro volta inibiti dall’iperfunzione HPA)

Cause psicosociali e tre tipi di teorie a confronto

Gli eventi stressanti che favoriscono lo sviluppo della depressione vengono vissuti dal soggetto come perdite irreversibili, irreparabili e totali.

La depressione può essere causata da un evento scatenante o da una serie di eventi stressanti che possono indurre un senso di sconforto, come ad esempio:

  • Malattie fisiche (sia proprie che dei propri cari)
  • Separazioni e difficoltà nei rapporti con gli altri
  • Cambiamenti importanti di ruolo, di casa, di lavoro,
  • Licenziamenti e fallimenti economici
  • Morte di una persona cara
  • Anche la presenza di esperienze traumatiche infantili poi può generare una sofferenza emotiva che porterà a un umore depresso, con disperazione e senso di impotenza.

Tra le diverse teorie che hanno cercato di spiegare cosa porti a sviluppare una depressione, troviamo le teorie di matrice comportamentista, teorie psicoanalitiche e teorie cognitiviste.

Teorie comportamentiste

Tra i comportamentisti che hanno avanzato una spiegazione della depressione troviamo Seligman (1970, 1974). Egli scopre che quando i cani vengono addestrati a evitare un pericolo (piccole scosse elettriche), essi tenderanno a mettere in atto questo comportamento di evitamento per non provare il dolore derivante dallo shock elettrico. Tuttavia, nonostante la preparazione all’evitamento, quando ai cani si dà uno shock elettrico inevitabile, invece di tentare la fuga, questi si arrendono e accettano passivamente la scossa elettrica. Egli ha utilizzato queste osservazioni per spiegare come a volte si può apprendere che non può essere fatto nulla per controllare o migliorare una data situazione. A questo fenomeno Seligman ha dato il nome di “impotenza appresa” e tramite questo spiega quanto accade nelle persone depresse: una “punizione” ineludibile, inevitabile, potrebbe essere un fattore scatenante per la depressione. Tuttavia questa, come altre teorie comportamentiste, risultano insufficienti: i soli fattori comportamentali, è stato dimostrato, non riescono a indurre una depressione clinica (Beck, 2009).

Teorie psicoanalitiche

Nei suoi documenti del 1911 e 1916, Abraham sostiene che gli scopi sessuali non raggiunti generano sentimenti di odio e ostilità che riducono la capacità di amore del paziente depresso. Il paziente proietta questo odio esternamente e l’ostilità repressa si manifesta in comportamenti anormali, tra cui idee di colpa e nell’impoverimento emotivo. Freud (1917) invece vede le autoaccuse del malinconico come manifestazioni di ostilità verso l’oggetto amato perduto. Freud ha spiegato questo fenomeno come l’identificazione narcisistica dell’ego con l’oggetto perso attraverso l’introiezione. Rado (1928) invece, esaminando quali siano i fattori che consentono lo sviluppo della depressione, afferma che i depressi sono persone con bisogni narcisistici intensi e autostima precaria che, quando perdono il loro oggetto d’amore, reagiscono con ribellione e poi cercano di ripristinare la loro autostima con la punizione del loro ego (che include la parte cattiva introiettata dell’oggetto) da parte del Super-io.

Teorie cognitiviste

Tra i cognitivisti che hanno dato un maggior contributo allo studio della depressione e alle sue cause, troviamo Aaron T. Beck. Secondo il modello di Beck si ritiene che i fattori cognitivi siano gli elementi centrali del disturbo, in quanto l’attivazione dei pattern cognitivi disfunzionali determina l’insorgenza degli altri segni e sintomi della sindrome depressiva. I pensieri del depresso si contraddistinguono per essere negativi e il loro contenuto si riferisce al tema della perdita, intesa come fallimento, autocritica, incapacità e non amabilità; la perdita è vista come irreversibile, irreparabile e inaccettabile. Secondo Beck i temi principali presenti nella persona depressa sono dunque fallimento, incapacità e mancanza di speranza. Tre sono gli schemi cognitivi depressogeni sottolineati da Beck i cui temi principali sono: la perdita (loss), la disperazione (hopeless) e l’autocritica (self-blame). Questi temi saranno poi chiamati “aspettative negative su di sé, sul mondo e sul futuro”, concetti appartenenti a quella che verrà successivamente definita la “triade cognitiva” della depressione.

 

Psicoterapia della depressione: dai primi approcci psicoterapici agli attuali interventi

La psicoterapia della depressione ha subito importanti cambiamenti nel corso degli anni. Oggi esistono diversi approcci terapeutici che aiutano i pazienti che soffrono di depressione a ritrovare il proprio benessere.

 

La terapia con antidepressivi è unicamente sintomatica, agisce cioè sui sintomi ed è necessaria quando la loro gravità inibisce la vita sociale, lavorativa e affettiva.

Intervenire solo con i farmaci però molte volte non basta: va ricordato infatti che le cause della depressione non sono soltanto di tipo biologico e che il disturbo può insorgere anche per motivi di natura psicosociale.

D’altro canto, in molti casi, proprio quando la gravità dei sintomi inibisce la vita sociale, relazionale e professionale dei pazienti, ricorrere alla sola psicoterapia potrebbe non rivelarsi una scelta sempre corretta: è bene, infatti, intervenire farmacologicamente sui sintomi, in modo da ridurne la gravità e iniziare così un percorso psicoterapico.

Farmaci e psicoterapia sono dunque alleati nel trattamento della depressione.

Psicoterapia della depressione: i primi approcci

Tra i primi approcci più strutturati per la cura della depressione, troviamo la proposta di Campbell (1953) per la terapia della malattia maniaco-depressiva, un intervento composto da una serie di passi, tra cui una corretta diagnosi, la spiegazione dei sintomi somatici al paziente, la riduzione (o eliminazione) dei fattori ambientali precipitanti o aggravanti, la psicoterapia, l’informare parenti e amici sui bisogni del paziente, il riposo e il rilassamento, la terapia occupazionale e la biblioterapia.

Sono stati successivamente descritti altri approcci per la cura della depressione, tra cui la proposta di Kraines (1957) avanzata in “Mental Depressions and Their Treatment” in cui sottolinea, come ha fatto anche Campbell, le basi biologiche della malattia maniaco-depressiva, ma considera la psicoterapia essenziale per abbreviare la malattia, alleviare la sofferenza del paziente e prevenire le complicanze.

Dall’ approccio di Kraines deriva la Psicoterapia supportiva: ai pazienti vengono date lunghe spiegazioni, sia sui fattori coinvolti nella depressione, sia sul decorso della malattia, e conclude gli interventi dicendo loro: “La cosa che devi ricordare è che questa stanchezza può e sarà superata. Avrai bisogno di pazienza e di desiderio di collaborare. Non sarà facile, ci vorrà tempo, ma tu recupererai (pagina 409)”. Dichiarazioni ottimistiche sul risultato, secondo Kraines, possono incoraggiare il paziente a diventare più attivo e a neutralizzare il suo pessimismo. Tuttavia i pazienti gravemente depressi possono vedere queste dichiarazioni con scetticismo e potrebbero non esserne influenzati. Un’altra tecnica che, secondo Kraines, è spesso utile nel contrastare la bassa autostima dei pazienti e la sensazione di non avere speranza è la discussione centrata sui loro successi, sulle loro realizzazioni. In questo modo il terapeuta, focalizzando la discussione sugli aspetti positivi, tende a evitare che i pazienti si soffermino sui propri fallimenti e sulle proprie esperienze invalidanti e traumatiche. Nell’ intervento di Kraines per la depressione, è sottolineata anche la necessità di apporre alcuni cambiamenti nelle attività dei pazienti: il terapeuta può sfruttare la relazione terapeutica per indurre il paziente a modificare la propria routine, suggerendo magari forme appropriate di attività ricreative, manuali o intellettuali.

In un successivo approccio, formulato da Arieti (1962), la depressione è vista come una reazione alla perdita e il paziente deve riorganizzare il suo pensiero “In diverse costellazioni che non provocano tristezza”. La depressione, secondo Arieti, cambia i processi mentali, apparentemente per diminuire la quantità di pensieri “al fine di diminuire la quantità di sofferenza.” Il terapeuta deve alterare l’ambiente, in particolare la relazione con l’altro dominante; alleviare il senso di colpa del paziente, il suo senso di responsabilità, la mancanza di realizzazione e il vissuto di perdita; e non consentire ai pensieri depressivi di espandersi aumentando la negatività dell’umore.

Molte delle strategie messe appunto nei primi approcci sono state incorporate nei trattamenti oggi più utilizzati nella psicoterapia della depressione (Beck, 2009).

Psicoanalisi e Psicoterapia psicoanalitica per la cura della depressione

La psicoanalisi e la psicoterapia psicoanalitica sono terapie a cui si ricorre spesso in caso di depressione: queste mirano soprattutto alla ricostruzione globale della personalità e sono più focalizzate alla risoluzione delle nevrosi infantili (Ursano et al., 1999).

Attraverso l’interazione diretta con il terapeuta, il paziente diventa attivo nella propria cura: entrambi sono coinvolti nella comprensione della malattia attraverso l’esplorazione delle radici intrapsichiche, familiari ed ambientali del disturbo. Il paziente fornisce al terapeuta il materiale da analizzare: racconti, sogni, narrazioni di eventi che informano sullo stato affettivo ed emozionale del paziente. Il terapeuta attraverso gli strumenti della tecnica analitica aiuta a venir fuori dal tunnel dell’isolamento, del dolore, della fatica di vivere, dell’insonnia e di ciò che man mano emerge di seduta in seduta. Fondamentale nel percorso analitico è la relazione, in particolare l’analisi dei processi di transfert e controtransfert che costituiscono una delle resistenze più importanti al cambiamento. Attraverso la comprensione empatica e l’ascolto non giudicante, gli interventi interpretativi, ricostruttivi, esplicativi, chiarificatori o di sostegno vengono effettutati in maniera non intrusiva, permettendo gradualmente al paziente di entrare in contatto con una modalità di trattamento nuova al fine di promuovere un modo di rapportarsi a se stesso ed alla malattia in maniera differente, più funzionale (Spagnolo, 2015).

La Psicoterapia Interpersonale della Depressione (IPT)

La Psicoterapia Interpersonale della Depressione (IPT), pur riconoscendo il ruolo di fattori genetici, biochimici e di personalità nel determinare l’insorgenza della depressione, pone in primo piano le relazioni interpersonali attuali del paziente depresso.

La IPT è una psicoterapia di durata limitata (12-20 settimane), che esamina la correlazione tra depressione e problematiche del paziente in ambito interpersonale: i problemi interpersonali possono rappresentare la causa del disturbo depressivo o essere da questo causati.

L’obiettivo iniziale della terapia è ridurre i sintomi depressivi ma lo scopo più generale è quello di migliorare la qualità delle relazioni interpersonali ed il funzionamento sociale del paziente. La tecnica attraverso cui definire l’area problematica primaria d’intervento è l’inventario interpersonale: una rassegna delle relazioni interpersonali, passate e presenti, importanti per il paziente. Secondo la IPT le problematiche interpersonali possono essere divise in 4 aree:

  • Contrasti interpersonali (contrasti con coniuge, famiglia, amici, ecc);
  • Transizioni di ruolo (trasloco, cambio di lavoro, gravidanza, pensionamento, ecc);
  • Lutto (morte di una persona cara)
  • Deficit interpersonali (solitudine, isolamento sociale).

Dopo aver valutato quale area è maggiormente correlata all’insorgere della depressione, ci si avvale di tecniche proprie di altre psicoterapie, tra cui quelle psicodinamiche, cognitivo-comportamentale e sistemico-relazionale. La IPT non si distingue quindi per le tecniche, ma per le strategie terapeutiche (Maggi L., 2016)

La psicoterapia cognitivo-comportamentale per la cura della depressione

Il più grande contributo alla psicoterapia della depressione in ambito cognitivo, lo si deve a Aaron T. Beck. Egli, lavorando con i pazienti depressi, scoprì l’esistenza di pensieri negativi che sembrano emergere spontaneamente. Beck ha definito queste cognizioni “pensieri automatici” e il loro contenuto è ascrivibile in tre categorie: idee negative su se stessi, sul mondo e sul futuro. Inoltre, se in età precoce si è esposti a eventi critici, è possibile che si possano instaurare credenze disfunzionali generate dai pensieri che, nel lungo periodo, diventano per l’appunto automatici. Queste credenze portano dunque a delle distorsioni cognitive che inducono sofferenza emotiva.

Sulla base di quanto sopra delineato, l’intervento psicoterapeutico rispetto al Disturbo Depressivo Maggiore si focalizza soprattutto sull’attenta valutazione e correzione delle cognizioni attraverso cui il soggetto costruisce l’interpretazione degli eventi passati, presenti o futuri e la valutazione di se stesso e della sua vita, aiutando la persona a individuare e modificare le convinzioni disfunzionali che contribuiscono a creare, mantenere ed esacerbare la sofferenza emotiva.

Per fare ciò, in terapia cognitiva, si ricorre al metodo dell’ABC di Ellis, attraverso cui, partendo da una situazione o un evento attivante (A), si può esaminare quale pensiero disfunzionale (B) abbia portato allo stato di sofferenza emotiva (C). Individuati i pensieri automatici disfunzionali, si passa alla messa in discussione degli stessi attraverso il dialogo socratico, una tecnica utilizzata all’interno della terapia cognitivo comportamentale, che consente di mettere in discussione le false credenze del paziente e i propri errori di pensiero, attraverso un approccio dialogico tra paziente e terapeuta, caratterizzato da domande e risposte che tendono a disconfermare quanto sostenuto fino a quel momento dal paziente stesso.

Lo scopo finale della terapia consiste nella ristrutturazione cognitiva, ovvero riuscire a modificare il modo in cui si interpretano e si valutano le situazioni. Quindi, si deve incoraggiare il paziente a modificare i pensieri automatici e le credenze disfunzionali per sostituirli con altri più realistici e adattivi.

In relazione a ciò, si rileva come la correzione delle valutazioni distorte relative a se stessi, alla propria vita o al proprio futuro conduce ad un graduale cambiamento sul piano emotivo e comportamentale.

Parallelamente all’aspetto cognitivo, nella psicoterapia cognitivo-comportamentale, si inserisce l’intervento terapeutico rispetto al comportamento quotidiano del paziente, attuando in maniera graduale specifici cambiamenti e procedendo in direzione inversa rispetto alla tendenza all’inattività e all’isolamento sociale indotta dal disturbo.

In tale direzione, il cambiamento dei comportamenti depressivi consente di giungere a cambiamenti cognitivi, ovvero sul piano dei pensieri, della visione di se stesso e delle proprie capacità, della propria vita attuale e del proprio futuro.

Depressione e Terapia Metacognitiva

La psicoterapia cognitivo-comportamentale negli anni si è evoluta e da essa sono derivati degli approcci terapeutici innovativi e di comprovata efficacia clinica. Tra questi va annoverata la Terapia Metacognitiva di Adrian Wells (MCT), terapia particolarmente efficace contro i disturbi d’ansia e la depressione.

Il modello metacognitivo prevede infatti che vi siano alcuni fattori che favoriscono lo sviluppo e il mantenimento dei sintomi depressivi. Questo è particolarmente rivelante se pensiamo alla quota di pazienti che presentano depressioni gravi e croniche, non rispondenti ai trattamenti farmacologici e/o alla combinazione di questi con la psicoterapia.

L’approccio metacognitivo riconosce un ruolo centrale al pensiero perseverativo nell’eziopatolgenesi della depressione (Wells e Matthews, 1994), e più nello specifico alla ruminazione. In questo quadro per ruminazione si intende una modalità di pensiero ripetitivo e passivo proprio riguardo i sintomi della depressione, le relative conseguenze e le possibili cause: in altre parole significa pensare continuamente al fatto che si è depressi, ai propri sintomi, nonché analizzare le cause, i significati e le conseguenze di tali sintomi depressivi (Nolen-Hoeksema 1991, p. 569). Vi sarebbero dunque una serie di conseguenze negative della ruminazione tra cui l’ulteriore decremento del tono dell’umore e aumento dei sintomi depressivi. Secondo il modello metacognitivo la ruminazione è mantenuta da un’insieme di credenze metacognitive maladattive (Wells e Matthews, 1994) che possono avere sia natura positiva per il paziente (“se riesco a trovare tutte le cause del mio malessere, allora posso trovare le soluzioni”, portando così il paziente a ruminare in misura via via maggiore), che negativa (“non ho il controllo su tutti questi pensieri”, quindi il paziente anche in questo sarà più portato a pensarci di più).

Dunque la complessa interdipendenza tra metacognizioni e ruminazione sarebbe un fattore determinante nella depressione.

Secondo la Terapia Metacognitiva, l’unico modo per smettere di rimuginare non è quello di affannarsi nel trovare soluzioni, ma raggiungere una posizione distaccata rispetto ai propri pensieri e ai propri eventi mentali. In questo caso, dunque, la soluzione consiste nel vedere la ruminazione come atto volontario che riduce le possibilità nell’individuo di operare scelte diverse.

Affinché però questa consapevolezza sia raggiunta bisogna intervenire sul livello metacognitivo appunto, che in quest’ottica non è altro che la capacità di raggiungere una posizione distaccata rispetto ai propri stati interni. La funzione metacognitiva si riduce così alla capacità di valutare i propri stati interni come eventi mentali, indipendentemente dal fatto che si riferiscano a idee su di sé, sugli altri o sul futuro (Caselli et al., 2017).

Secondo la Terapia MetaCognitiva (MCT), questa capacità non è frutto di una “rara dote” che solo alcuni individui posseggono, ma è una funzione che tutti hanno, ma che è spesso utilizzata solo su certi pensieri e non su altri. Obiettivo della terapia metacognitiva non è quindi sviluppare specifiche funzioni metacognitive, ma mostrare ai pazienti che questa capacità già appartiene loro e che, usandola normalmente su alcuni pensieri, si può imparare a utilizzarla anche in risposta ai pensieri per loro particolarmente disturbanti.

Tra gli strumenti maggiormente utilizzati nella terapia metacognitiva troviamo l’ Analisi Meta Cognitiva o AMC. Con essa si identifica un pensiero iniziale, una valutazione o una sensazione corporea (A) e le conseguenze emotive (C), per passare all’identificazione delle metacognizioni o credenze metacognitive disfunzionali (M). Rispetto al modello ABC della terapia cognitiva standard, con l’analisi dell’AMC è possibile identificare le metacognizioni implicite o esplicite con cui il paziente risponde a uno stimolo attivante interno. Con l’ AMC si individuano le metacognizioni (M) che sostengono la ruminazione.

Nella Terapia Metacognitiva, la sofferenza, dunque non è data da valutazioni errate che si effettuano sulla realtà, come avviene nella terapia cognitiva, ma da una valutazione errata sul meccanismo che regola l’attività mentale. Quindi, l’errore principale si effettua nel ritenere indispensabile rimuginare sui problemi e non riuscire a smettere di farlo. Queste strategie disadattive creano depressione e sofferenza emotiva.

I trattamenti efficaci nella cura della depressione

Data l’importanza e la gravità del disturbo, come abbiamo visto, diversi interventi psicoterapeutici sono stati sviluppati per il trattamento della depressione, tra cui approcci cognitivo-comportamentali, interpersonali e terapie psicodinamiche.

Mentre vi è un ampio consenso sul fatto che gli interventi psicoterapeutici siano benefici per i pazienti depressi, c’è un dibattito ancora in corso circa il diverso grado di efficacia dei vari orientamenti.

I risultati di precedenti meta-analisi appaiono abbastanza discordi: mentre in alcuni casi si è riscontrato il primato di efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (Dobson, 1989; Gloaguen, Cottraux, Cucherat et al., 1998), ulteriori meta-analisi hanno stabilito come non vi sia alcuna differenza, in termini di efficacia, tra la CBT e altre forme di terapia, per es. la terapia psicodinamica breve (Leichsenring, 2001).

Per cercare di giungere a una risposta univoca, Barth e colleghi (2013), autori di una meta-analisi pubblicata pochi anni fa, hanno confrontato ben 198 studi sull’efficacia dei vari tipi di psicoterapia nel trattamento del disturbo, per un totale di 15118 pazienti adulti con diagnosi di depressione.

Per la meta-analisi in questione sono stati selezionati solo gli studi con un disegno randomizzato: trattasi di studi condotti su soggetti adulti con un disturbo depressivo, o con un’elevata presenza di sintomi depressivi, in cui sono stati confrontati due diversi approcci terapeutici tra loro o gli effetti di un intervento psicoterapeutico con una condizione di controllo (es. liste d’attesa o trattamenti placebo).

Sulla base di una precisa tassinomia, sono stati classificati sette tipi differenti di interventi terapeutici: terapia interpersonale, interventi di attivazione comportamentale, terapia cognitivo-comportamentale, terapia centrata sul problem solving, social skills training, terapia psicodinamica, e counselling di supporto.

Quale tra questi sia risultato più efficace, è difficile dirlo: dall’analisi dei dati è emerso che i vari tipi di intervento presentano effetti comparabili sui sintomi depressivi, e che tutti gli approcci terapeutici portano a un significativo miglioramento dei pazienti depressi, rispetto agli individui appartenenti ai gruppi di controllo.

Dovendo contrastare gli effetti degli studi di piccole dimensioni sull’intera meta-analisi, sono state condotte ulteriori analisi sulle ricerche di medie e grandi dimensioni. Dall’analisi dei dati sono così emersi effetti notevolmente positivi per la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia interpersonale e la terapia centrata sul problem-solving, mentre gli effetti sono stati meno robusti per la terapia psicodinamica, il counselling di supporto, e gli interventi di attivazione comportamentale.

Sebbene la ricerca sia ancora lontana da conclusione univoca su quale psicoterapia sia più efficace nella cura della depressione, un importante risultato emerge tra le righe: gli interventi psicoterapeutici risultano essere più efficaci del “non curarsi”, questo sottolinea come sia necessario, per chi soffre di depressione, rivolgersi in modo tempestivo ad uno psicoterapeuta esperto, qualunque sia la sua formazione.

Oltre la psicoterapia: il trattamento della depressione dalla TEC alla mindfulness

Nel trattamento della depressione, la CBT, la terapia psicodinamica, la terapia metacognitiva sono gli approcci a cui oggi più spesso si ricorre e dei quali si hanno più dati a disposizione per valutare gli effetti e i benefici per i pazienti. Vi sono però altre tecniche, psicoterapiche e non solo, alle quali si può ricorrere nel trattamento della depressione.

 

Depressione e Terapia ElettroConvulsivante

A dispetto dell’immaginario collettivo che la associa alle disumane pratiche dei manicomi degli anni ‘30, la Terapia ElettroConvulsivante (TEC – ai tempi nota come Elettroshock) è oggi tuttora in uso, soprattutto nel trattamento delle depressioni più gravi.

La TEC rilascia, mediante elettrodi applicati sullo scalpo, una corrente elettrica altamente controllata sulla corteccia prefrontale del cervello, che risulta ipoattivata nelle persone che soffrono di depressione. Intervenire con la TEC comporta tuttavia dei rischi soprattutto a livello cognitivo.

Per questo motivo alcuni ricercatori (Tor, Bautovich, Wang, Martin, Harvey e Loo, 2015) stanno valutando gli effetti di una stimolazione con impulsi ultra-brevi. La stimolazione ultra-breve rilascia impulsi di elettricità con una durata più breve di quella standard e separati da delle piccole pause, in questo modo la stimolazione del tessuto cerebrale viene ridotta di un terzo rispetto alla stimolazione standard. Dalle analisi è emerso che la TEC standard è leggermente più efficace per il trattamento della depressione, richiedendo in media una seduta in meno di trattamento rispetto alla terapia ad impulsi ultra-brevi, ma porta con sé una maggior incidenza di effetti collaterali sul versante cognitivo, in particolare sulle funzioni mnestiche.

La stimolazione ultra-breve invece diminuisce significativamente il rischio potenziale di distruzione delle memorie formate prima del trattamento ed è efficace quasi allo stesso livello della TEC standard. Per questo motivo questo nuovo trattamento, che si sta gradualmente inserendo nella pratica clinica in Australia, costituisce uno dei più significativi sviluppi nel trattamento clinico della depressione severa degli ultimi 20 anni. Nonostante i benefici della stimolazione ultra-breve siano significativi, i ricercatori sottolineano come la TEC standard non possa essere accantonata, ma va considerata come via terapeutica nei casi che richiedono una risposta più veloce al trattamento in condizioni di urgenza ed emergenza.

Depressione e stimolazione transcranica a corrente diretta continua

Tra gli ulteriori strumenti a cui si può ricorrere nel trattamento della depressione, va ricordata anche la stimolazione transcranica a corrente diretta continua (tDCS). La Transcranial Direct Current Stimulation (tDCS) è una forma di stimolazione cerebrale non invasiva e consiste nel far passare una debole corrente elettrica depolarizzante nella parte anteriore del cervello con l’uso di elettrodi posti sul cuoio capelluto, durante la procedura i pazienti rimangono svegli e vigili.

La tDCS, nata in Italia e oggi usata in tutto il mondo, è una tecnica di facile applicazione con cui è possibile stimolare diverse parti del cervello in modo non invasivo, efficace, indolore e senza effetti collaterali significativi (le più frequenti percezioni riscontrate sono un leggero pizzicorio/prurito/calore all’inizio della stimolazione nei punti in cui sono posizionati gli elettrodi). Nonostante sia una tecnica “giovane”, molti studi la indicherebbero come un possibile prezioso strumento anche per il trattamento di altre condizioni neuropsichiatriche oltre la depressione, quali ansia, morbo di Parkinson, demenza di Alzheimer, dolore cronico, dipendenze, riabilitazione post ictus o traumi.

La tDCS permette due tipi di stimolazioni: anodica e catodica. La stimolazione anodica provoca un’eccitazione dell’attività neuronale e quella catodica la inibisce o la riduce. La stimolazione tDCS consiste in una debole corrente elettrica continua all’intensità costante di 1-2 mA, non percepibile dalla persona, che viene applicata allo scalpo tramite una coppia di elettrodi (uno eccitatorio, l’anodo, e uno inibitorio, il catodo) di 35 cm² di superficie. Gli elettrodi sono rivestiti da una spugna sintetica imbevuta di una soluzione salina per aumentare la conduttività (consentendo di attraversare le ossa craniche e raggiungere l’area cerebrale d’interesse) ed evitare possibili effetti fastidiosi causati dall’applicazione diretta di corrente.

A questo punto vengono inseriti all’interno di una cuffia di gomma (non conduttiva) che ne facilita il fissaggio sulla testa. Generalmente viene utilizzato un montaggio in cui l’elettrodo attivo viene posizionato sull’area che si intende stimolare mentre l’elettrodo di riferimento viene posizionato sull’area sovraorbitale controlaterale o in un’area non cefalica (ad esempio sulla spalla).

Questa tecnica, attraverso il flusso di corrente da un elettrodo all’altro, modifica i potenziali di membrana dei neuroni permettendo di modulare l’eccitabilità della corteccia cerebrale e quindi l’attività neuronale del cervello, aumentando o diminuendo la funzionalità dell’area stimolata (producendo effetti a livello cognitivo e comportamentale) per un tempo che permane oltre la durata della stimolazione. In particolare, la stimolazione anodica depolarizza i neuroni aumentando l’eccitabilità corticale dell’area stimolata, mentre la stimolazione catodica iperpolarizza i neuroni con effetti inibitori. Se la stimolazione viene ripetuta più volte è possibile rendere tali modificazioni più stabili e durature (Bolognini et al. 2009).

La differenza tra tDCS e terapia elettroconvulsiva, sta nel fatto che quest’ultima prevede una corrente molto più forte – tipicamente 800 milliampere, o 800 volte la corrente utilizzata nella tDCS – ed è progettata per produrre una scarica controllata. Altre differenze includono il fatto che la TEC fornisce un breve impulso piuttosto che una corrente costante.

Nei soggetti con depressione, gli elettrodi vengono posizionati sulle loro tempie in modo che la corrente possa attraversare la corteccia prefrontale dorsolaterale (un’area con attività diminuita in tali soggetti). Le persone con depressione mostrano l’ipoattività cerebrale in diverse aree cerebrali, ma soprattutto in questa regione; si pensa che il meccanismo d’azione della stimolazione possa aumentare l’attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale, ma ancora non è stato dimostrato nessun effetto di questo tipo.

Esistono ulteriori tecniche progettate per modificare l’attività elettrica del cervello: la stimolazione magnetica transcranica, la stimolazione transcranica a corrente alternata, la stimolazione profonda del cervello e gli ultrasuoni focalizzati.

Depressione e pratiche meditative: la mindfulness

Ma le tecniche di stimolazione cerebrale non sono le sole a essere applicate nella cura della depressione, molto utilizzate risultano anche le pratiche meditative, in particolare la Mindfulness.

La mindfulness è una forma di meditazione applicabile all’attività clinica. Essa è una pratica di attenzione al momento presente, attenzione consapevole, intenzionale e non-giudicante. Jon Kabat-Zinn è stato il primo a portare la mindfulness nel contesto psicoterapico. Per Kabat-Zinn, per nutrire il terreno del nostro atteggiamento e affinché la nostra pratica della consapevolezza possa crescere rigogliosa e fiorire, dobbiamo coltivare sette atteggiamenti: non giudizio, pazienza, la “mente del principiante” (essere disposti a guardare ogni cosa come se la vedessimo per la prima volta), fiducia, non cercare risultati, accettazione, lasciare andare, impegno nella pratica e visione di ciò che si desidera per se stessi.

Jon Kabat-Zinn, sostiene che meditare possa trasformare in modo duraturo la sofferenza e lo stress.

L’obiettivo della Mindfulness è di eliminare quindi la sofferenza inutile, coltivando una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada attraverso un lavoro attivo con i propri stati mentali. Quindi, la pratica della Mindfulness consente di passare da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore percezione soggettiva di benessere, grazie ad una conoscenza profonda degli stati e dei processi mentali.

Kabat-Zinn ha reso la Mindfulness accessibile alle possibilità psicologiche e fisiche dei pazienti e facilmente adattabile a condizioni mediche particolari: nel 1979 avvia il programma per la riduzione dello stress basato sulla coltivazione della consapevolezza. Il programma MBSR creato e messo a punto da Kabat-Zinn è caratterizzato da tempi limitati e limiti di movimenti e spazi; è un percorso strutturato, in cui si unisce la tecnica Mindfulness agli aspetti scientifici e psicoeducativi.

Negli ultimi venticinque anni la mindfulness è stata efficacemente applicata su diverse psicopatologie tra cui la depressione, ma anche su disturbi d’ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo da stress post-traumatico, dipendenze, dolore cronico e molto altro.

Gli effetti della disoccupazione su tre dimensioni: socio-psico-fisiologica

Quali sono gli effetti della disoccupazione sulla salute psicologica e fisica delle persone? Quai altri aspetti influiscono nel determinare il comportamento delle persone di fronte a questi eventi?

 

Lo scopo principale di quest’articolo è quello di evidenziare risultati provenienti da studi più recenti sugli effetti della disoccupazione nella salute psichica e fisica dell’individuo. Saranno indagati inoltre altri aspetti come quello economico e sociale, nonché i meccanismi psicologici e di personalità sottostanti al comportamento degli individui di fronte a determinate situazioni sfavorevoli. Verranno inoltre esposti alcuni progetti ed ipotesi di intervento pensati per affrontare tale problematica.

Gli effetti della disoccupazione sullo stato d’animo

Disoccupato: chi o che non ha o non trova un’occupazione; in senso ristretto, chi è stato privato della sua abituale occupazione”. Questa è la definizione che ci dà il vocabolario Treccani, ma la disoccupazione è più che una mera perdita di occupazione, più dell’esser privati di un lavoro. Il disoccupato non è solo privato della sua occupazione, infatti, ma della sua stessa identità. Il lavoro, oltre a un compenso remunerativo e all’introito mensile che ci permette di ‘’tirare avanti’’, di pagare le bollette (sarebbe meglio dire tasse), pagare l’affitto o fare la spesa e fornendoci una “base sicura”, detta la sua influenza su tutte altre sfere che non sono prettamente economiche. Parliamo dell’aspetto psicologico, sociale e fisico. Quando una persona si trova senza un’occupazione, soprattutto se ciò non è dipeso dalla sua volontà, entra in un circolo vizioso: lo stato d’animo negativo è tale da incidere sull’autostima e rende ancora più difficile trovare un nuovo impiego, i soggetti in questione innescano una sorta di loop: a casa soffrono, si sentono in colpa, addirittura smettono di cercare un’alternativa lavorativa, tanto è il carico emotivo e il senso di sfiducia che li accompagna. Esso assolve anche tutta una serie di altre funzioni di tipo psicologico: riconoscimento, gratificazione, competenze. E, infine, permette di sentirsi utili e di costruire legami. Quando il lavoro manca, quindi, viene lesa a tutti i livelli la dignità dell’essere umano.

In linea con queste posizioni anche Warr (1987) ha affermato che il lavoro è necessario per l’affermazione del proprio ruolo sociale, per sperimentare il controllo personale e per allargare i propri contatti sociali.

Disoccupazione e locus of control

La letteratura più recente dimostra come ci sia una netta correlazione tra diversi aspetti di personalità, locus of control, strategie di coping, ansia, depressione  e disoccupazione (Navarro et. al 2018). Rott (1966), nei suoi studi, descrisse il locus of control come la percezione del controllo degli eventi che ognuno possiede ed esso può essere attribuito a sè stessi o a fattori esterni. Coloro che presentano un locus of control interno tendono ad attribuire i risultati ottenuti a capacità personali, credono che ogni azione abbia delle conseguenze e quindi per cambiare gli esiti è necessario esercitare un controllo serrato. Al contrario, chi presenta un locus of control esterno ritiene che le conseguenze di alcune azioni siano dovute a circostanze esteriori, per questo le cose che accadono nella vita sono fuori dal loro controllo e le azioni messe in atto sono il risultato di fattori non gestibili, come il destino e la fortuna. Tale teoria ha avuto una grande rilevanza nella storia della psicologia, soprattutto per quanto riguarda le nostre modalità di adattamento e fronteggiamento alle situazioni, ovvero le strategie di coping. Pertanto, riflettere sul “locus of control” e sulle “strategie di coping” messe in atto, in esperienze come la perdita del lavoro, risulta di fondamentale importanza.

Gli studi sulla disoccupazione evidenziano come il disagio sia in grado di generare nell’individuo una spirale di learned-helplessness, la cosiddetta “impotenza appresa”, generando un progressivo isolamento sociale e una sempre più evidente tensione nei rapporti familiari. La ricerca attiva di lavoro può essere considerata un fattore di protezione, infatti livelli elevati di benessere sono stati riscontrati fra coloro che hanno cercato di controllare direttamente la loro condizione e di agire in prima persona per risolverla (Kinicki et. al, 2000). Secondo diversi autori, l’individuo attribuisce al lavoro significati differenti. Per alcuni può rappresentare il reddito, per altri il prestigio, per altri la possibilità di auto-realizzarsi e per altri opportunità di contatti sociali o di condividere valori (ad es., Askildsen et al., 2005).

Disoccupazione: le indagini recenti

Per molti il lavoro è una delle dimensioni fondamentali dell’identità. Il lavoro mantiene in attività: può contribuire a rafforzare le energie fisiche e psichiche e permette di esercitare ed ampliare le doti, le caratteristiche e le attitudini individuali (Saks & Ashforth, 2000). Anche altri studi longitudinali hanno dimostrato che eventi di disoccupazione di massa o fenomeni come la recessione possono avere delle notevoli ripercussioni sulla salute generale, e l’impatto sembra maggiore dove le politiche sociali economiche e della salute non sono protettive e supportanti (Davies, 2018).

Lo sviluppo sostenibile nazionale ed internazionale riconosce l’importanza di supportare gli individui stimolando la resilienza verso shock esterni al fine di raggiungere un buono stato di salute. Mentre esistono piani di emergenza per eventi naturali, al momento non esistono piani di emergenza che hanno lo scopo di fornire un quadro di risposta costruttivo ed adeguato a fenomeni come la disoccupazione (Davies 2018).

Diverse ricerche, infatti, hanno studiato l’interazione tra la mancanza di lavoro e la salute ma poche hanno affrontato il problema in termini di costi della salute pubblica. In Austria, sono state effettuate indagini sui redditi dei lavoratori ed informazioni dettagliate di pagamenti da parte dell’assicurazione sanitaria pubblica (Andreas, 2009). È di nuovo confermato che gli effetti immediati sulla disoccupazione potrebbero non solo avere dei risvolti sulle condizioni di salute fisica ma più probabilmente sulla salute mentale. Infatti, più per i maschi, sono stati rilevati costi significativamente più elevati sulla la salute pubblica associati agli acquisti di farmaci psicotropi e anche per le ospedalizzazioni a causa di problemi di salute mentale (Andreas, 2009). In alcune interviste, le persone disoccupate, dichiaravano che la disoccupazione allarga le disuguaglianze e il supporto, oltre alla persona colpita, dovrebbe essere esteso anche agli altri membri della famiglia che risentono di queste problematiche.

Disoccupazione: la prevenzione del disagio

A partire da queste indagini, uno studio di Davies ha individuato 8 punti chiave su cui focalizzarsi per definire un quadro di risposta in termini di prevenzione (Davies 2018).

  1. Identificazione delle aree a rischio;
  2. Prevenzione precoce;
  3. Mobilitare una risposta multisettoriale;
  4. Sostegno proporzionato ai bisogni;
  5. Sostegno esteso alla famiglia;
  6. Consulenza e supporto per l’occupazione;
  7. Sostenere e sfruttare le risorse proprie della comunità;
  8. Monitorare e valutare le azioni.

Ancora una volta si evidenza la necessità di supportare l’individuo e la comunità, in particolare la popolazione più vulnerabile in modo da prevenire disuguaglianze sociali (Davies, 2018).

Disoccupazione: quali effetti sul sonno?

Un altro studio di Palmes (2017) ha recentemente affrontato le conseguenze  della disoccupazione sugli individui, ma in questo caso gli effetti negativi si ripercuotono sul sonno, comportando alterazioni dette parasonnie, come ad es. l’insonnia.  Sono stati somministrati questionari ad adulti tra i 50-64 anni che valutavano la presenza di insonnia ed è emersa un’associazione tra l’insonnia e i soggetti che presentavano varie problematiche, tra cui obesità, dipendenza da fumo, solitudine, perdita del lavoro e insoddisfazione sui luoghi di lavoro. In misura maggiore nelle donne, in questo studio. Tali risultati sembrano meno prevalenti nei soggetti con un’istruzione più alta. Alla luce di queste evidenze gli autori suggeriscono una ristrutturazione delle politiche del lavoro in favore degli individui, sia per quanto concerne la sicurezza lavorativa che per la qualità nell’ambiente di lavoro ( Palmes 2017).

Oltre alle associazioni trovate tra disoccupazione e disturbi del sonno, un altro studio di Patel (2010) conferma che la scarsa qualità del sonno è correlata con il fattore socio economico, in particolare nelle popolazioni più povere, definendo tale fenomeno ‘’disparità del sonno” sul piano gerarchico della popolazione. Queste ultime considerazioni potrebbero rappresentare un input per pianificare degli interventi mirati in determinati gruppi cosi da ridurre anche le conseguenze negative sul sonno (Patel et al. 2010).

Disoccupazione: progetti a Milano

Alcuni Psicologi, nel comune di Buccinasco (MI), in collaborazione con la Banca del tempo, hanno messo a punto un interessante progetto intitolato “Lavoro: come occuparsene senza preoccuparsene” . Questo esperimento sul territorio – realizzato con successo nel 2016 – è stato presentato dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia in occasione della giornata mondiale della psicologia. Ammettere che la componente psicologica ha un ruolo importante nella ricerca di lavoro e ribadire che il ruolo dello psicologo va oltre l’aspetto clinico e patologico ed è utile per la qualità della vita delle persone, soprattutto in ambito lavorativo e sociale, è un aspetto da non trascurare. Il progetto consisteva in cinque incontri di gruppo (con una fase individuale di bilancio delle competenze) nei quali, con un approccio psico-educativo, si cercava di ricostruire le condizioni mentali adatte a rimettersi sul mercato in modo efficace.

Alcune persone che hanno frequentato questi incontri, avevano aspettative del tutto irrealistiche, che non facevano i conti con variabili come il momento storico, l’età o la concorrenza, e questa visione non calibrata causava una chiusura testarda che li destinava inevitabilmente alla delusione. Altri ancora si erano lasciati andare a un atteggiamento vittimistico e quindi, controproducente. Per una Signora di 49 anni, di origine argentina, frequentare il corso è stato decisivo, ed ha affermato

Mi ha dato una grossa spinta, facendomi sentire molto più determinata (Carli, 2017)

Questa review della letteratura, indica chiaramente come i risultati degli studi qui esposti mettono in accordo tutti gli autori sulla stessa teoria, confermando l’ipotesi secondo cui la mancanza o la perdita di un’occupazione incide fortemente sullo stato di salute mentale delle persone sia sulla dimensione sociale, sia su quella psicologica che fisiologica, come descritto nelle ultime ricerche che riportavano disturbi del sonno. Il fine principale degli studi psicologici sulla disoccupazione non è certo quello, per altro impossibile, di eliminare il problema ma è piuttosto quello di far emergere una vasta gamma di conseguenze, in modo da riconoscere e spiegare i costi personali e sociali sperimentati dai soggetti disoccupati e possibilmente promuovere degli interventi volti ad attutirne le ripercussioni sulla salute psichica del soggetto, oltre al miglioramento sul piano finanziario. L’assenza di lavoro può toglierci molteplici cose: il sonno, la sicurezza, la fiducia, la forza, la serenità… Ma una cosa non potrà toglierci mai, l’amore. L’amore per se stessi e per coloro che ti circondano, il motore che alimenta la volontà, l’ingrediente indispensabile per quella ricetta che chiamiamo vita.

Anche giocare a Tetris può dare sollievo a una mente preoccupata

Secondo un recente studio dell’University of California Riverside (UCR), giocare a Tetris può indurre uno stato di flow. I partecipanti che a seguito dell’esperimento affermavano di trovarsi in uno stato di flow riferivano di sentirsi meno preoccupati, di sentire meno emozioni negative (tristezza, rabbia, ansia) e più emozioni positive (gioia).

 

Spesso nella vita le persone si trovano davanti a periodi più o meno lunghi di incertezza e preoccupazioni, che solitamente precedono eventi rilevanti per l’individuo in questione. Tutti impieghiamo delle strategie di coping per fronteggiare questi periodi, non tutte però si rivelano efficaci.

Una recente ricerca condotta presso l’UCR (University of California Riverside) ha dimostrato che giocare a Tetris, un leggendario videogioco sviluppato negli anni ’80, può creare uno stato di flow nei giocatori. In questa accezione il termine flow viene usato per descrivere uno stato mentale totalmente focalizzato sul gioco e disimpegnato, libero da preoccupazioni ed anticipazioni su possibili eventi futuri individualmente rilevanti.

I soggetti che hanno partecipato all’esperimento dell’UCR erano tutti individui in attesa di ricevere risultati importanti e significativi per il futuro delle proprie vite (un campione di studenti di legge in attesa dei risultati dell’esame di stato per avvocati, e un altro di dottorandi in attesa di risposte a varie candidature per differenti posti di lavoro). I partecipanti che a seguito dell’esperimento affermavano di trovarsi in uno stato di flow riferivano di sentirsi meno preoccupati, di sentire meno emozioni negative (tristezza, rabbia, ansia) e più emozioni positive (gioia).

A partire da questi risultati i ricercatori californiani sono giunti alle conclusioni che uno stato di flow, quando raggiunto, può portare dei benefici durante periodi di preoccupazioni o d’attesa di notizie importanti (ad esempio i risultati di esami medici). Gli autori, pertanto, considerano la distrazione che consegue al flow, una strategia di coping che, seppure imperfetta e difficile da raggiungere, può essere funzionale ed adattiva in alcuni momenti della vita.

Come è possibile raggiungere uno stato di flow?

Questo stato di flow può essere raggiunto anche attraverso numerose altre attività oltre ai videogiochi, ad esempio l’arrampicata oppure il nuoto. Non è però immediato trovare un’attività che possa condurre un individuo a raggiungere questo stato: occorre infatti trovare un compito che non sia né troppo facile (si rischierebbe di cadere nella noia), né troppo difficile (ove vi sarebbe il rischio frustrazione). Per raggiungere uno stato di flow bisogna che l’attività in questione vada leggermente oltre i limiti del soggetto, ma non troppo né troppo poco.

Riassumendo…

Utilizzando le parole di Sweeny, ricercatrice a capo del team che ha condotto questo studio, potremmo definire i risultati raggiunti come un importante momento di svolta nel campo della ricerca in quanto si è riuscito a mettere in relazione il concetto di flow e di stato di benessere durante i periodi di attesa, provando che i due fenomeni non soltanto correlano ma che effettivamente il flow determina e promuove il benessere almeno nel brevissimo termine.

Le implicazioni pratiche di questo studio sono enormi e lo stato di flow può essere usato attivamente da chiunque nella propria vita quotidiana, rappresentando una tra le strategie utili per poter fronteggiare meglio le attese ansiogene.

Come le nostre aspettative influenzano percezione, attenzione e apprendimento

È ormai noto e conosciuto il principio per cui impariamo dall’esperienza e costruiamo aspettative circa il nostro futuro. Tuttavia esse sono in grado di influenzare il nostro apprendimento dando priorità a informazioni ambientali che le vanno a confermare in un circolo distorto che si autoalimenta.

 

Le aspettative inoltre influenzano il nostro giudizio sul dolore intensificandolo, come evidenzia il nuovo studio di Jepma e colleghi, del dipartimento di Psicologia dell’Università del Colorado, apparso recentemente su Nature Human Behaviour.

Aspettative: la nostra quotidianità ne è colma

Quante volte ci è capitato di sentire il suono tipico della ricezione di una notifica tanto attesa sul cellulare senza che questo suono ci sia però mai stato, oppure sentiamo dolore in un’area del nostro corpo senza che vi sia una visibile causa specifica sulla stessa? Quante volte cioè ci è capitato di avere delle aspettative o delle credenze che contrastano con l’evidenza?

Seguendo la classificazione nosografica della psicopatologia classica, potremmo etichettare questi fenomeni come anormali in quanto si tratterebbe dell’avvenuta percezione di stimoli (uditivi e sensoriali ad esempio) che nella realtà non si sono mai verificati, e in questo caso si legherebbe al concetto di allucinazioni per cui si rileva uno stimolo che non esiste; tuttavia un nuovo studio, recentemente pubblicato su Nature Human Behaviour, di Jepma, Koban, van Doorn e colleghi (2018) mostra come le nostre aspettative possano direttamente influenzare e modulare non solo i processi percettivi, come già evidenziato da Sterzer, Frith & Petrovic (2008), ma anche generare dei bias nell’apprendimento che le mantengono in modo persistente nel tempo e le sostengono, anche se ripetutamente disconfermate dall’esterno.

Aspettative: lo studio per capire se e come influenzano percezione e apprendimento

Gli autori dello studio preso in considerazione (Jepma, Koban et al., 2018) hanno infatti esplorato l’influenza della generazione delle aspettative sia nella percezione che nell’apprendimento in due esperimenti, associando modelli computazionali cosiddetti trial-by-trial circa le aspettative sul dolore, con i punteggi relativi alla sua intensità; i soggetti sperimentali, 28 volontari nel primo esperimento e 34 nel secondo, hanno seguito una prima fase di apprendimento in cui hanno imparato ad associare un primo indizio visivo ad una simbolica rappresentazione del dolore, l’immagine di un termometro, indicante una temperatura alta (l’aspettativa di un dolore ad intensità alta) o bassa (l’aspettativa di un dolore a bassa intensità).

Nella seconda fase, quella di test, per ogni trial, i soggetti, all’interno dello scanner della risonanza magnetica funzionale, hanno dovuto indicare quanto dolore si sarebbero aspettati a seguito della visione dell’indizio, precedentemente appreso, su una scala da 0 a 100, a cui seguiva però un’ulteriore fase in cui essi ricevevano effettivamente uno stimolo doloroso all’avambraccio o sulla gamba tramite una punta termoriscaldata da 32°C a 49°C.

I risultati ottenuti hanno sottolineato come l’avere alte aspettative circa il dolore aumentava i giudizi circa l’intensità del dolore come riportato dai punteggi self-report dei soggetti e attivava una robusta risposta nei network cerebrali coinvolti nel processamento del dolore, confermando così un effetto diretto delle aspettative su di esso sia a livello di dolore percepito che di attivazione neurale, generando un loop tra aspettative e dolore.

Aspettative: influenzano l’attenzione

Inoltre, e questo può essere considerato l’apporto maggiore proveniente dalla ricerca di Jepma e colleghi (2018), i partecipanti allo studio si sono mostrati altamente selettivi nel modo in cui trattavano le prove fornite dal trial che stavano svolgendo per predire gli outcome dei trial successivi: infatti se l’intensità del dolore percepita era maggiore rispetto alla previsione fatta dal soggetto, quest’ultimo tendeva ad aumentare le proprie aspettative circa la presenza di una maggiore intensità del dolore anche nel trial successivo soprattutto se gli veniva presentato quell’indizio a cui aveva imparato ad associare una “temperatura” alta e quindi un’alta intensità di dolore; tendeva altresì a disconfermare la propria credenza sull’intensità del dolore prevista se gli venivano poi presentati cue associati ad una “temperatura” bassa (Jepma, Koban et al., 2018).

I punteggi riportati dai soggetti sperimentali hanno così confermato la tendenza ad apprendere, utilizzare e a prestare attenzione in modo selettivo alle informazioni ambientali che sono in linea con le proprie credenze e aspettative e ad ignorare le prove, anche concrete, che possono disconfermarle.

Ogni discrepanza tra ciò che il soggetto si aspetta, sulla base del suo bagaglio conoscitivo e di apprendimento, e ciò che si verifica ed esperisce nella realtà, dovrebbe “costringerlo” a riformulare e rivedere le sue previsione e aspettative stesse; tuttavia le evidenze riportate da Jepma e colleghi (2018) mostrano come non tutte le informazioni concrete che ci vengono fornite a disconferma delle nostre aspettative vengono soppesate ed utilizzate allo stesso modo, per cui di conseguenza si tende a confermare i propri bias.

Gli individui attivamente, sebbene non ne siano pienamente consapevoli, creano un percetto, un’informazione che viene modulata sulla base delle proprie aspettative come in una profezia che si auto-avvera, dove una falsa interpretazione di una situazione di fatto attiva un comportamento che va a confermare l’originale falsa concezione.

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