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Il bullismo non nasce da un unico seme. I diversi fattori implicati in questo fenomeno

I modelli educativi genitoriali hanno un ruolo fondamentale tra le possibili cause del bullismo sia che siano eccessivamente severi, sia che siano troppo permissivi.

 

Lo psicologo svedese Dan Olweus è stato il primo a usare, negli anni ’70, il termine inglese “bullying”, per indicare le prepotenze fra pari nelle sue ricerche pionieristiche sulla violenza scolare che portarono alla formulazione di un programma di antibullismo ampiamente adottato nelle scuole dei paesi nordici.

Olweus (1996), considerato, ad oggi, tra le massime autorità a livello mondiale in tema di aggressività e bullismo, identificò anche i primi criteri per individuare il problema del bullismo e poterlo differenziare da altre possibili interpretazioni come il gioco turbolento, gli atti distruttivi, le ragazzate, gli incidenti o scherzi e i giochi pesanti tra pari, tipici del processo di maturazione degli individui. La sua definizione di bullismo prevedeva, infatti, delle azioni offensive nei confronti di un compagno reiterate nel tempo:

uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni.

Per Olweus, quindi, è determinante per poter ascrivere un comportamento offensivo al bullismo, la ripetizione sistematica delle azioni ostili anche se meno gravi nel loro complesso di una sola azione isolata ma estremamente violenta, operate sia dal gruppo sia dal singolo individuo. In questa prima definizione ci si riferiva, in particolare, alle offese fisiche e verbali; solo successivamente si è riconosciuta l’importanza della prevaricazione indirette o psicologiche.

Cause e fattori all’origine del bullismo

Le cause alla base del fenomeno del bullismo sono plurime e riconducibili ad una serie di fattori individuali e di dinamiche di gruppo come per esempio il temperamento del bambino, i modelli familiari, gli stereotipi imposti dai mass media o l’educazione impartita dai genitori o da istituzioni scolastiche spesso disattente alle relazioni fra alunni e ad altre variabili collegate all’ambito scolastico e all’ambiente sociale.

I modelli educativi genitoriali hanno un ruolo fondamentale tra le possibili cause del bullismo sia che siano eccessivamente severi, sia che siano troppo permissivi. Se, infatti, si ricorre eccessivamente all’uso di punizioni fisiche il bambino percepirà che la violenza come l’unico mezzo per fare rispettare le proprie regole. Se, invece, si lascia un’eccessiva libertà ai propri figli, non percependo i limiti oltre i quali i comportamenti non sono più consentiti, essi agiscono di conseguenza in maniera prepotente e prevaricatrice.

Olweus (1996), ha individuato tre fattori nell’educazione familiare, che hanno un ruolo determinante nella predisposizione dei ruoli di bullo e più in generale dell’aggressività nei maschi e precisamente:

  • L’atteggiamento emotivo di indifferenza, di mancanza di calore e d’affetto della figura materna nei primi anni di vita;
  • Il permissivismo educativo nella fase dell’età evolutiva, specialmente verso comportamento aggressivi;
  • L’abuso di autorità punitiva fisica, sin dalla prima infanzia che non consente di elaborare appieno l’aggressività nel bambino.

Le vittime, invece, presentano quadri familiari molto coesi e iperprotettivi nei loro confronti. Specialmente una stretta dipendenza verso la figura di attaccamento principale che ritarda l’autonomia necessaria per la gestione delle relazioni con il gruppo dei pari.

Disfunzionalità di attaccamento e Comportamenti antisociali

In particolare Bowbly (1989) insieme a Winnicott (1981), sono stati i primi autori a collegare i comportamenti antisociali con le disfunzionalità di attaccamento.

In base alla teoria dell’attaccamento, infatti, sarebbero proprio le relazioni della prima infanzia a formare il comportamento relativo ai rapporti con gli altri. In particolare Bowbly (1989) sosteneva che

Nel corso delle esperienze ripetute con le figure di attaccamento i bambini si costruiscono immagini mentali delle interazioni sociali, che funzioneranno da guida delle future relazioni adulte.

Tassi (2001) ha riscontrato una correlazione tra vittimizzazione e attaccamento insicuro- ambivalente e tra prevaricazione e attaccamento insicuro-evitante. In particolare, i soggetti insicuri-evitanti, mancando di fiducia verso gli altri, per evitare possibili ostilità da questi, giustificherebbero il loro comportamento aggressivo verso i coetanei. I soggetti, invece insicuri-ambivalenti, mancando di autostima e di fiducia nelle proprie capacità, sarebbero più propensi a diventare facili prede dei compagni prevaricatori. Al contrario, i soggetti con attaccamento sicuro, esplorerebbero il mondo esterno con fiducia, certi di poter contare sull’aiuto della figura di attaccamento.

Diverse tipologie di famiglia

Genta (2002) ha individuato 3 tipologie di famiglia, in base alla coesione interna e all’indipendenza personale. La famiglia equilibrata presenta una coesione interna in armonia con l’indipendenza personale dei singoli membri, mentre una famiglia estremamente coesa nei suoi membri, vive l’ambiente esterno come pericoloso, invece una disaggregata tra i suoi membri non riesce a delineare i confini tra mondo esterno e il gruppo familiare. I bambini non coinvolti nel bullismo, apparterebbero a famiglie del primo tipo, le vittime a famiglie del secondo tipo e i bulli a quelle del terzo tipo.

In definitiva, l’aggressività del bullo o della vittima provocatrice, dipende anche da forme di violenza assistita in famiglia. Chi, infatti, subisce nell’infanzia forme di violenza fisica o psicologica, interpreterà in maniera disfunzionale i segnali del mondo esterno, e si sentirà legittimato a perpetuare violenza per ottenere quello che vuole.

Un altro fattore importante relativo alla famiglia riguarda i sistemi di valore. In questo caso, sarebbero i valori trasmessi dai genitori a condizionare i rapporti dei propri figli con i coetanei. Nelle famiglie dei bulli, i valori della vita, sarebbero improntati maggiormente all’individualismo e all’egoismo, diversamente da quanto si verifica nelle famiglie delle vittime, i cui valori sembrerebbero improntati, invece, alla solidarietà.

Altri dati importanti sull’origine del bullismo

Le convinzioni comuni che le prepotenze inferte alla vittima siano causate prevalentemente dai difetti fisici o da handicap o provocate dallo scarso rendimento scolastico sembrerebbero essere un luogo comune da sfatare, secondo Olweus. Dall’analisi sociologica di Vergati (2003) effettuata su un campione di 606 studenti di scuole medie ed elementari romane, tra i bersagli prescelti, risultano esserci gli studenti dai più bravi (32%) a quelli con rendimento “distinto” (27%). Tuttavia ciò non sempre è generalizzabile perché anche coloro che hanno un rendimento scarso sono oggetto di bullismo probabilmente perché diventano oggetto di invidia.

Il dato che stupisce maggiormente è che proprio tra gli studenti con rendimento elevato si celi il 12% dei bulli mentre tra chi ha un rendimento scolastico medio, la percentuale di bulli cala significativamente al 4,7% a favore, invece, di chi assume il ruolo di difensore della vittima (53%).

Dai dati di Olweus, emerge un aumento di episodi di bullismo in assenza di sorveglianza dell’adulto, specialmente durante il percorso tra la casa e la scuola o durante la ricreazione e la pausa pranzo.

Per De Ajuriaguerra e Marcelli (1984), le cause del bullismo dipenderebbero dalla mancanza di tolleranza verso qualsiasi tipo di ritardo nella soddisfazione delle proprie richieste. Di conseguenza, l’intolleranza alla frustrazione di fronte ad una qualsiasi negazione potrebbe scatenare una reazione aggressiva in maniera violenta ed esacerbata.

Per Ciucci e Fonzi (1999), invece, ciò che motiverebbe a mettere in pratica comportamenti prepotenti sarebbe la sensazione di controllo che aumenta la propria visibilità e gratifica il bisogno di attenzione sugli altri, ottenuto col potere e il dominio. Più specificatamente, a causare sofferenza negli altri dipenderebbe l’astio nei confronti dell’ambiente sociale che si è sviluppato in contesti familiari chiaramente inadeguati ma potrebbe essere dovuto anche a semplici disturbi della condotta, nel qual caso sarebbe finalizzato al puro gusto del contravvenire alle norme sociali.

Ancora giocano un ruolo chiave nel bullismo le difficoltà nelle capacità empatiche sia nel bullo che pare non accorgersi delle sofferenze indotte ma anche nella vittima probabilmente per mancanza di abilità affettive e relazionali verso i propri compagni.

Un altro meccanismo psicologico, quale il disimpegno morale, può influire sul bullismo, legittimando i propri comportamenti violenti (sono solo scherzi) se fatti a fin di giustizia (in fondo se lo meritano) o perché “non è così grave perché lo fanno tutti”.

Incontrare le persone LGB (2018) di Ciriello, Cavina e Cavina Gambin: una guida alla consulenza educativa, psicologica e legale – Recensione del libro

Quali strumenti e quali aree di intervento in ambito educativo, psicologico, legale, possono risultare determinanti nella consulenza con persone LGB? Incontrare le persone LGB prova a rispondere a questo interrogativo.

 

Daniela Ciriello, Chiara Cavina e Serena Cavina Gambin, curatrici di questo libro, forniscono una “cassetta degli attrezzi”, una guida teorico-pratica, agli operatori che più frequentemente incontrano, nella propria attività professionale, persone e famiglie LGB: ad esempio psicologi, medici, insegnanti, assistenti sociali, avvocati, infermieri.

Incontrare le persone LGB: identità sessuale e pregiudizi

Adottando un’ottica multidisciplinare (psicologica, educativa e legale) e ponendo attenzione anche al linguaggio utilizzato, il testo evidenzia le possibili specificità degli interventi professionali rivolti a persone lesbiche, gay, bisessuali, sottolineando la potenziale influenza negativa di fattori quali i modelli ideologici di riferimento, i pregiudizi (consapevoli o latenti), le ostilità e le discriminazioni (anche giuridiche) tuttora in essere, che non mancano di ripercuotersi sui vissuti personali.

Le parole per dire, le parole per fare: identità sessuale e pregiudizio è la prima delle quattro sezioni in cui è suddiviso il libro. Qui vengono delineate le componenti dell’identità sessuale ed affrontati temi importanti come l’omofobia, il coming out, il minority stress. Tematiche fondamentali, che possono determinare complessi vissuti psicologici e vulnerabilità specifiche, che il professionista chiamato a rispondere ha necessità di conoscere.

Incontrare le persone LGB: richieste ricorrenti

La consulenza psico-socio-sanitaria alle persone LGB: richieste ricorrenti e aree di intervento: nella seconda parte, dal mio punto di vista molto interessante, si entra nel vivo della consulenza psico-socio-sanitaria con l’individuo e con le famiglie. Accade attraverso una serie di casi clinici esemplificativi, tratti dall’esperienza degli autori, che inquadrano le richieste rivolte più frequentemente agli operatori e tratteggiano vissuti sottostanti ed ipotesi di intervento. Coming out, definizione del proprio orientamento sessuale, scoperta dell’omosessualità di un figlio, consulenza sessuologica, consulenza alla famiglia omosessuale (con o senza figli) sono alcuni esempi.

Una particolare attenzione è riservata anche alle differenti fasi e situazioni di vita: omosessualità e bisessualità vengono trattate relativamente a fasi delicate quali l’adolescenza e la terza età, ai progetti di genitorialità e ai percorsi di nascita, al parto e alla comunicazione all’interno della famiglia.

In Aspetti legali rilevanti nella consulenza, la terza parte del testo, il focus si sposta in ambito legale: unioni civili, procreazione e genitorialità, tutela dei minori. Per ciascun argomento, gli autori approfondiscono gli aspetti legislativi attuali e forniscono preziosi quadri informativi ed operativi.

Incontrare le persone LGB: un focus sull’intervento in ambito scolastico

La quarta sezione, Interventi in ambito scolastico: accogliere, insegnare, promuovere inclusione, è dedicata al contesto scolastico, a partire dal delicato momento dell’inserimento dei bambini di famiglie omogenitoriali al nido o alla scuola dell’infanzia (anche alla luce delle inevitabili difficoltà burocratiche).

Uno spazio ricco di spunti e riferimenti didattici ed operativi è riservato agli insegnanti, figure cardine nell’implementazione di una didattica inclusiva, nella gestione dei rapporti, nello stimolare i processi di condivisione.
Il testo si conclude con una interessante riflessione sull’influenza dei pregiudizi.

Complessivamente lo definirei un testo utile, chiaro, scorrevole, aggiornato.

In una società che assiste all’aumentata (e desiderata) visibilità di molte persone lgb, i servizi pubblici e privati dovrebbero, a mio avviso necessariamente, approntarsi ad accogliere le peculiarità di quelle richieste, necessità, problematiche che vengono portate all’operatore:

Storie e bisogni attraverso i quali gli operatori e le operatrici hanno una preziosa occasione, umana e professionale: quella di assistere tutta la propria utenza con rispetto e competenza e scoprire, nel contempo, la grande opportunità dell’incontro con l’altra e con l’altro.

LEGGI ANCHE LE ALTRE RECENSIONI DI QUESTO LIBRO:

Incontrare le persone LGB (2018): recensione ed intervista alle autrici del libro sulla consulenza clinica per persone lesbiche, gay, bisessuali

Incontrare le persone LGB (2018) di C. Cavina, S. Cavina Gambin, D. Ciriello – Recensione del libro

Uomini leader e psicopatia? Uno studio ne rivela l’associazione

Psicopatia e leadership sono aspetti in relazione tra loro? Quante volte ci è capitato di pensare che il nostro capo è uno psicopatico?

 

Secondo un recente studio le persone psicopatiche hanno più successo sul lavoro. Sembrerebbe infatti che la mancanza di empatia e l’agire d’impulso siano caratteristiche che portano al successo.

In realtà, le precedenti ricerche che hanno indagato questo legame, non hanno dimostrato una vera e propria associazione, lasciando molte domande in sospeso. Per questo motivo gli autori di un recente studio condotto presso l’University of Alabama in Tuscaloosa e l’Iowa State University in Ames, hanno voluto indagare più a fondo il rapporto che intercorre tra questi tratti della personalità e posizioni di leadership. Nello specifico, i ricercatori volevano comprendere come i tratti psicopatici aiutino un individuo a diventare un leader di successo.

Cosa s’intende per Psicopatia?

Per spiegare il concetto di psicopatia, gli autori hanno utilizzato la concettualizzazione sviluppata dallo psichiatra statunitense Cleckley nel testo The Mask of Sanity (1941), che raccoglie i dati raccolti attraverso interviste cliniche con pazienti detenuti: il lavoro di Cleckley è considerato fondamentale nella descrizione clinica della psicopatia nel XX secolo. Lo “psicopatico” da lui descritto presenterebbe le seguenti caratteristiche: fascino superficiale, mancanza di ansia, riluttanza ad accettare le proprie colpe, mancanza di controllo degli impulsi, mancanza di empatia.

Recentemente a questa definizione se ne è aggiunta un’altra che evidenzia tre fondamentali caratteristiche della personalità psicopatica: audacia (es. dominio interpersonale), disinibizione (es. impulsività); meschinità (es. mancanza di empatia) (Landay et al., 2018).

Psicopatia e Leadership: lo studio

Per quanto concerne il concetto di leadership, nello studio sono stati analizzati due aspetti in particolare:

  • Il primo riguardava il modo in cui un individuo ha raggiunto il ruolo di leader, cioè la sua capacità di emergere;
  • Il secondo, l’efficacia della leadership, invece, si riferiva alle prestazioni dell’intero team e alla percezione del proprio leader pertanto ha preso in considerazione il rapporto tra leader e collaboratori, il leader come persona e il clima generale dell’azienda.

Partendo da questi presupposti teorici, la ricerca ha preso avvio da una nuova analisi di 92 precedenti dataset che, nonostante in passato avessero riportato deboli correlazioni tra le variabili studiate, in questa fase, hanno permesso di raccogliere alcune informazioni rilevanti in merito alla relazione tra psicopatia e leadership; da questi dati emergeva infatti che persone con tratti psicopatici riescono più facilmente a distinguersi come leader, pur non risultando in conclusione leader realmente efficaci.

In un secondo momento, un’analisi più approfondita dei dati ha dimostrato l’esistenza di significative differenze di genere nell’associazione tra psicopatia e leadership. Ciò che è emerso è che i tratti psicopatici sembrerebbero essere di aiuto nel diventare leader soltanto agli uomini, mentre le donne che mostrano di possedere questi tratti rischiano di avere un impatto negativo sui colleghi. Secondo gli autori, questo risultato potrebbe essere spiegato dal fatto che i comportamenti psicopatici sono generalmente visti come una violazione delle norme dell’essere leader, ma soprattutto delle norme associate alla figura della donna leader (Landay et al., 2018).

Per concludere

La scoperta di questa differenza di genere fa sicuramente riflettere, è importante però secondo gli autori che venga approfondita da ricerche future al fine di comprendere più chiaramente i meccanismi all’origine di tale differenza e le diverse sfumature nei comportamenti di maschi e femmine che rivestono posizioni di leader.

Diversi inoltre sono i limiti di questo studio e che è importante colmare: le analisi innanzitutto si basano su un numero di studi empirici limitato; manca un metodo standard per misurare la psicopatia e questo rende difficile il confronto con gli studi precedenti; infine, nella maggior parte degli studi presi in esame, il successo del leader è stato valutato soggettivamente e non in maniera oggettiva, come per esempio attraverso il successo finanziario.

L’ empowerment del paziente

Negli ultimi anni il concetto di empowerment è passato attraverso molteplici e composite trasformazioni e, recentemente, ha acquisito un ruolo di crescente importanza all’interno della letteratura dedicata.

Giulia Marton, Laura Vergani – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

A partire dall’anno 2000, il termine empowerment è stato usato nella stesura di 800 articoli e già nel 2017 il numero degli articoli dedicati all’argomento superava i 2500. In ambito medico si è riscontrato un aumento dell’uso del costrutto che è andato di pari passo con una maggior fruibilità di nuove ed inedite definizioni.

Le numerose sfaccettature del concetto rendono difficoltoso lo sforzo degli autori nel trovare una definizione che sia al contempo onnicomprensiva e condivisibile. 
Nonostante queste evidenti difficoltà classificatorie, la World Health Organization (WHO) nel 2012 ha cercato di fornire una sua definizione del concetto di empowerment che fosse condivisibile dai diversi autori. Secondo la WHO, l’ empowerment è un processo attraverso il quale le persone possono acquisire un maggiore controllo sulle decisioni e sulle azioni che riguardano la loro salute (World Health Organization. Regional Office for Europe, 2012a).

Il concetto è meglio spiegato dalla frase pronunciata da Robert Johnstone in occasione della prima conferenza europea sull’ empowerment dei pazienti tenutasi a Copenaghen nell’aprile del 2012:

Ciò che deve accadere è che i dottori scendano dal loro piedistallo e che i pazienti si alzino dalle loro ginocchia.

La conferenza ha conseguito una notevole risonanza internazionale: ben 260 le persone partecipanti, provenienti da 35 diversi paesi.

Secondo la World Health Organization, il concetto di empowerment è di fondamentale importanza per quanto riguarda le malattie croniche, di cui è affetto il 77% dei pazienti appartenenti ai paesi europei rappresentati dall’organizzazione (World Health Organization. Regional Office for Europe, 2012b). La U.S. National Center for Health Statistics afferma che una patologia, per essere definita cronica, deve avere una durata maggiore di 3 mesi (Center for Health Statistics, 2013). Le malattie di questo tipo non possono essere soggette a prevenzione tramite l’utilizzo di vaccini, non possono essere curate con procedure mediche e se non curate non presentano un decorso naturale spontaneo. Le malattie croniche più diffuse comprendono l’artrite, le malattie cardiovascolari, i tumori, il diabete, l’epilessia, l’obesità e la salute orale (MedicineNet, 2016).

Essendo l’ empowerment rivolto in special modo a questo problema, la sua diffusione può portare ad un cambiamento significativo nell’organizzazione dei sistemi sanitari e nell’assistenza offerta al loro interno oltre che ad un ripensamento del ruolo ricoperto dal paziente.

In particolare, l’ empowerment ha un grande impatto sulla gestione della condizione dei pazienti oncologici. Infatti, una delle tematiche emerse durate il “Forum Internazionale Sull’empowerment Del Paziente Oncologico”, tenutosi nel 2017 e promosso dall’Università degli Studi di Milano in collaborazione con Fondazione Umberto Veronesi, è che i pazienti oncologici sono i primi ad esprimere un desiderio di essere maggiormente coinvolti nel processo di cura.

Il tema dell’ empowerment in oncologia può anche essere considerato nell’ambito della prevenzione. Un atteggiamento più proattivo da parte del paziente e un coinvolgimento maggiore nella propria salute, infatti, può portare ad un’attenzione maggiore al piano di prevenzione. In una ricerca condotta dall’Istituto di Ricerche SWG viene evidenziato un dato allarmante: solo il 4% dei pazienti oncologici riceve una diagnosi durante una visita di controllo.

Durante la conferenza, Guja Tacchi dell’Istituto Ricerche SWG, pone l’attenzione proprio su questo aspetto:

Alla comparsa dei sintomi 8 malati su 10 si rivolgono al medico, di cui il curante nel 60% dei casi è la prima figura di riferimento, mentre per il 47% l’oncologo è il professionista più adatto a comunicare la diagnosi. Riguardo l’ empowerment, la partecipazione attiva alla cura è percepita molto importante da 7 pazienti su 10, tuttavia meno della metà (47%) degli intervistati dichiara di essere pienamente consapevole del proprio percorso terapeutico, contro oltre un quarto che lo è poco o affatto.

È proprio questa mancanza di consapevolezza che evidenzia come il sistema sanitario in Italia e, insieme, l’atteggiamento dei pazienti debbano ancora essere coinvolti in una presa di consapevolezza.

La situazione italiana, in particolar modo, risulta preoccupante: l’Italia si classifica infatti solo penultima tra i paesi che affrontano in questo modo la malattia, seguita solo dalla Spagna. Il dato risulta particolarmente interessante se si considera che l’approccio ad una patologia diffusa come il cancro sta subendo importanti miglioramenti: in Italia la sopravvivenza è aumentata passando dal 39% negli anni ‘90 al 54% del ventennio successivo in un campione maschile di pazienti. Un incremento minore ma significativo è avvenuto nel campione di pazienti donne, dal 55% al 63% (AIOM, AIRTUM Fondazione, 2017). Questo accrescimento è dovuto a un incremento dei progressi scientifici che hanno alzato il tasso di sopravvivenza a 5 anni in più rispetto agli altri paesi europei.

Importanti, a questo proposito, le parole di Gabriella Pravettoni, direttore della divisione di psiconcologia all’Istituto Europeo di Oncologia e professore ordinario di psicologia delle decisioni presso l’Università degli Studi di Milano

Oggi, quando si intraprende un percorso di cura occorre condividerlo con la persona che si ha di fronte a prescindere dal sesso, dall’età e dalle sue conoscenze in ambito medico. Comunicare è fondamentale, anche perché sempre più spesso dal cancro si guarisce. L’essere ascoltati, seguiti e accuditi dai propri familiari favorisce l’autoefficacia e riduce i livelli di ansia e preoccupazione collegati alla malattia.

Questo profondo cambiamento, per la sua insita radicalità e per la natura stessa della procedura, è necessario che si compia gradualmente e in un arco temporale piuttosto lungo per permettere un adattamento progressivo del sistema e del personale coinvolto.

Il processo di empowerment

Una delle caratteristiche dell’ empowerment che trova d’accordo i diversi autori (Castro, Regenmortel, Vanhaecht, Sermeus, & Hecke, 2016) è che la partecipazione del paziente è l’elemento focale di questo cambiamento.

Tritter (2009) identifica cinque diversi livelli di partecipazione del paziente: (1) partecipazione del paziente a decisioni riguardanti il trattamento; (2) il paziente può essere coinvolto nello sviluppo dei servizi; (3) può integrare con la sua prospettiva le valutazioni dei servizi; (4) può partecipare al training e alla formazione e (5) può decidere di partecipare in modo attivo alle attività di ricerca proposte nell’istituto.

La partecipazione dei pazienti è inoltre caratterizzata da un coinvolgimento maggiore nel processo decisionale alla loro cura a loro prescritta. Le decisioni possono riguardare, nello specifico, la propria condizione di malato e quindi i trattamenti da seguire (processo che si svolge anche attraverso il consenso informato) o anche decisioni riguardanti il possibile sviluppo del servizio. La partecipazione del paziente al processo decisionale potrebbe portare ad un impegno attivo (Castro et al., 2016).

Un ruolo più attivo del paziente richiede un duplice impegno, sia da parte del paziente che da quella dei professionisti della salute. Molti autori della comunità scientifica, infatti, sostengono che per promuovere la partecipazione del paziente al processo di cura sia necessario un lavoro che coinvolga tutto il team medico che deve considerare il paziente come un esperto (Tambuyzer, Pieters & Van Audenhove, 2014). Anche nel dialogo e nella comunicazione questa considerazione del paziente non può essere messa da parte e le esperienze e la conoscenza del paziente devono essere considerate in modo tale da formare una relazione di rispetto e fiducia reciproca. Passare da una prospettiva fortemente incentrata sul ruolo predominante del medico ad un modello co-relazionale – dove anche la narrazione di malattia del paziente e le sue preferenze riescano a trovare una loro importanza nell’assegnazione della cura – è senza dubbio un grande passo verso nuove prospettive di rinforzo e valorizzazione del paziente stesso.

Ma come può un paziente, in modo attivo, aumentare la sua partecipazione al processo di cura? Lyons (2007) identifica diverse modalità in cui il paziente può essere più partecipe al processo di cura: il paziente può fornire informazioni sulla propria storia clinica, può dimostrarsi motivato e interessato al raggiungimento di un risultato positivo e per concludere, deve essere partecipe anche fisicamente durante ogni passo del processo di cura e dei suoi trattamenti.

La seconda componente del patient empowerment, secondo le linee guida imposte dalla WHO, sono le abilità del paziente, come l’autoefficacia e la health literacy (World Health Organisation (WHO), 2009).

Il concetto di autoefficacia viene trattato e definito per la prima volta da Bandura (1994) che lo definisce come “convinzione nelle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le situazioni che incontreremo in modo da raggiungere i risultati prefissati. Le convinzioni di efficacia influenzano il modo in cui le persone pensano, si sentono, trovano le motivazioni personali e agiscono”.

Il concetto di autoefficacia è utile perché i soggetti con un alto livello di autoefficacia per un determinato compito sono più predisposti ad intraprenderlo, sono più motivati e di solito svolgono compiti più impegnativi rispetto agli individui con bassa autoefficacia.

In una revisione della letteratura l’autoefficacia e l’ empowerment sono visti come concetti dalle caratteristiche molto simili, in parte sovrapponibili. Diversi autori considerano l’autoefficacia come un risultato del processo di empowerment mentre altri, tra cui le linee guida della WHO, propongono che sia acquisita durante il processo e in quanto elemento necessario per la partecipazione del paziente al processo decisionale, vista come il risultato finale dell’ empowerment (Cerezo, Juvé-Udina, & Delgado-Hito, 2016).

Essendo due concetti strettamente collegati risulta importante prestare attenzione a come migliorare questa componente. Bandura a questo scopo identifica quattro metodi: esperienze di mastery, l’esperienza vicaria, la persuasione sociale e stati fisiologici ed affettivi.

La prima esperienza, considerata come la più importante, si riferiscono al fatto che i precedenti successi aumentano l’autoefficacia. L’esperienza vicaria si riferisce all’aumento della propria autoefficacia grazie alla testimonianza di altre persone che hanno svolto il compito con successo. La terza fonte, la persuasione verbale, si riferisce all’impatto dell’incoraggiamento sulla percezione di efficacia di un individuo. Infine, anche risposte fisiologiche come stati d’animo, stati emotivi, reazioni fisiche e livelli di stress la influenzano (Bandura, 1994).

Oltre all’autoefficacia, risulta importante anche prestare attenzione ad un’altra componente relativa alle abilità del paziente: la Health Literacy. Questa è definita come la capacità di comprendere le informazioni sanitarie e di utilizzare tali informazioni per prendere decisioni sulla propria salute e assistenza medica (Nielsen-Bohlman, Panzer, Kindig, & Institute of Medicine (U.S.). Committee on Health Literacy., 2004).

Un esempio utile per capire meglio questo concetto è ciò che è accaduto presso l’ospedale di Baltimora. È il caso di una donna di 29 anni, afroamericana che viene portata in ospedale dopo aver passato tre giorni con dolori addominali e febbre. Dopo una breve valutazione, le venne comunicato che avrebbe avuto bisogno di una laparotomia esplorativa. Alla notizia, la donna reagì con una forte agitazione e con la richiesta di essere riportata a casa. Quando venne avvicinata dal personale sanitario, urlò “Sono venuta qui per il dolore e tutto quello che volete farmi è “esplorarmi” (in inglese “all you want is to do is an exploratory on me”) Non mi tratterete come una cavia da laboratorio”. Si rifiutò di acconsentire a qualsiasi procedura e in seguito morì di appendicite (Nielsen-Bohlman et al., 2004).

L’Health Literacy è fondamentale per l’ empowerment dei pazienti. Questa tematica è affrontata dagli autori che scrivono materiali di educazione sanitaria chiarendo la terminologia. Il tentativo di risolvere il problema non è stato risolutivo. L’Italia è stata individuata come uno dei paesi con minore alfabetizzazione sanitaria in Europa: un dato che potrebbe essere correlato al fatto che circa il 30% della popolazione italiana ha un limitato accesso al web, secondo una ricerca dell’ISTAT nel 2016. Ma l’intervento sulla health literacy non si riduce con la trasmissione dell’informazione.

Le abilità dei pazienti, in sintesi, sono collegate all’autoefficacia e alla Health literacy, entrambe attività che richiedono un cambiamento comportamentale.

Il terzo elemento che, secondo la WHO, compone il processo di empowerment dei pazienti è la creazione di un ambiente favorevole, cioè un ambiente che possa favorire nel paziente lo sviluppo dell’ empowerment. Diversi autori hanno cercato di enunciare una serie di caratteristiche che rendono un ambiente favorevole per l’ empowerment (World Health Organisation (WHO), 2009). Hawks (1992), ad esempio, in uno suo scritto risalente agli inizi degli anni ’90, evidenzia in particolare la fiducia, l’onestà, l’accettazione, il rispetto, il valore, la cortesia, la condivisione tra pazienti e professionisti: sono queste le peculiarità che deve avere un ambiente, che deve essere inoltre “alimentato e curato”. Parlando di ambiente favorevole, o facilitante, la WHO illustra in particolare il ruolo dei professionisti della salute. Tre i prerequisiti che lo staff deve avere in relazione a questo obiettivo: un ambiente di lavoro che abbia le strutture necessarie per favorire l’ empowerment, la fiducia nelle proprie capacità di essere empowered e la consapevolezza che la comunicazione e la relazione con i professionisti della salute possa essere uno strumento estremamente potente (World Health Organisation (WHO), 2009).

Gli operatori sanitari, però, non possono da soli rendere empowered i pazienti: non si può rendere empowered un altro individuo, è un processo che deve necessariamente partire dall’individuo stesso. La cooperazione tra i pazienti e gli operatori socio sanitari può aiutare a sviluppare il processo di empowerment. Secondo Gibson, infatti, gli operatori sociosanitari possono favorire un senso di autoefficacia e di controllo nei pazienti grazie ad un ambiente di mutuo rispetto e che li possa sostenere. Grazie a queste accortezze da parte dell’équipe, l’ambiente empowered si sviluppa.

Affiancata all’ambiente favorevole la WHO specifica un’altra componente dell’ empowerment: la “positive deviance” (World Health Organisation (WHO), 2009). La “positive deviance” spiega quel fenomeno per il quale, a volte, sembra che certi individui facciano esperienza di risultati più positivi rispetto agli altri. Infatti, nella maggior parte degli ambienti pochi individui a rischio sviluppano abitudini positive non comuni che portano appunto ad outcome più positivi paragonati a individui con rischio simile (Marsh & Schroeder, 2002; Marsh, Schroeder, Dearden, Sternin & Sternin, 2004). Il riconoscimento di questi individui e l’identificazione del loro raro comportamento consentono la progettazione di cambiamenti comportamentali che possono portare all’adozione di comportamenti benefici più diffusi. Un esempio di questo processo è l’aumento della compliance alle cure grazie ad un ambiente che possa identificare i problemi (mobilitazione sociale). Questo può essere fatto radunando gli individui che possano avere un interesse nel problema. Anche la raccolta di informazioni può offrire un’opportunità per trovare modalità con cui coinvolgere i pazienti e gli operatori sociosanitari (World Health Organisation (WHO), 2009).

Per concludere, appare sempre più evidente la necessità di operare un profondo ripensamento su più livelli dell’attuale concezione sottesa al sistema sociosanitario in modo da coinvolgere nel processo di epowerment gli operatori sanitari e i pazienti allo stesso modo.

L’area di Broca – Introduzione alla Psicologia

L’ area di Broca, che corrisponde alle aree citoarchitettoniche di Brodman 44 e 45, è definita area motoria del linguaggio ed è situata nella terza circonvoluzione frontale, avanti all’area motoria, che controlla i muscoli del volto, e sopra la scissura di Silvio.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

L’ area di Broca è una parte dell’emisfero sinistro del cervello ed è connessa all’area di Wernicke da un percorso neurale detto fascicolo arcuato.

Anatomicamente l’ area di Broca è costituita da due zone principali, con diversi ruoli nella comprensione e nella produzione del linguaggio:

Pars triangularis: parte anteriore associata all’interpretazione di varie modalità di stimoli e alla programmazione dei condotti verbali, ovvero “pensare a cosa dire”;

Pars opercularis: parte posteriore associata a un unico tipo di stimolo e presiede al coordinamento degli organi coinvolti nella riproduzione della parola. Essa è posta vicino alle aree del cervello dedicate al controllo dei movimenti e consente, dunque, di organizzare i movimenti verbali.

L’ area di Broca, inoltre, contribuisce alla formazione di caratteristiche linguistiche più astratte, come l’elaborazione grammaticale della lingua che permette di strutturare le frasi seguendo le regole grammaticali.

Storia

L’ area di Broca è stata studiata per la prima volta nel 1861 dal neurologo francese Paul Broca grazie ad un esame eseguito su un paziente non in grado di riprodurre parole, nonostante comprendesse quanto gli fosse detto. Tale paziente era solo capace di riprodurre la sillaba “tan”, da cui il nome Monsieur Tan con cui il paziente passò alla storia. All’esame obiettivo il cervello di questo paziente presentava una lesione nel lobo frontale sinistro. Così, nel 1863 Broca scrisse un articolo in cui parlava di 8 casi clinici caratterizzati dalla presenza di una lesione al lobo frontale sinistro. Tutti questi soggetti presentavano afasia, letteralmente assenza di linguaggio, che in questo caso riguarda la riproduzione dello stesso.

Broca, dunque, dedusse fosse l’emisfero sinistro a controllare la produzione di linguaggio.

In seguito, questa teoria è stata ripetutamente confermata attraverso la realizzazione di diversi esperimenti. Ad esempio, se si inietta nella carotide sinistra un barbiturico ad azione rapida (tecnica di Wada), si ottiene, nella maggior parte dei soggetti, un’ afasia transitoria, della durata di circa 10 minuti, accompagnata da altri effetti motori e sensoriali. L’iniezione, invece, nella carotide destra non produce effetti afasici, pur causando effetti motori e sensoriali. È stato stimato in questo modo che i centri di controllo del linguaggio sono situati nell’emisfero sinistro nel 96% delle persone destrimane e nel 70% dei soggetti mancini. Il rimanente 4% dei soggetti destrimani mostra le aree del linguaggio a destra, mentre del 30% dei soggetti mancini un 15% mostra le aree del linguaggio a destra e un 15% bilaterali (Kos, Vosse, Van Den Brink , Hagoort, 2010)

Funzionamento

L’ area di Broca è responsabile della produzione del linguaggio poiché mantiene la memoria di una serie di comandi motori necessari per articolare i suoni. Per questo, nel riprodurre delle parole ignote o straniere, si fatica maggiormente nella lettura.

Inoltre, in soggetti che apprendono una seconda lingua da adulti, si attiva un’area che non coincide con l’ area di Broca. Questo, suggerisce l’esistenza di circuiti per la pronuncia delle parole diverse da quelle utilizzate per la lingua appresa per prima. È noto, dunque, che altre aree del lobo frontale sinistro svolgono funzioni importanti nell’articolazione del linguaggio. In particolare, l’area motoria supplementare è coinvolta nella pianificazione delle sequenze necessarie per svolgere compiti motori anche linguistici. Infatti, lesioni a queste aree producono una forma di afasia.

Le differenze di attivazione fra l’area 44 e l’area 45 durante l’esecuzione di compiti linguistici e le differenti connessioni che queste aree intrattengono con l’area motoria, le aree prefrontali e le aree sensoriali, suggeriscono che possano svolgere ruoli funzionalmente diversi nell’uomo per quanto riguarda il riconoscimento e la comprensione dell’azione.

Afasia di Broca

Un danno all’ area di Broca, dovuto ad esempio ad ictus, atrofia, traumi, infezioni, neoplasie ed ischemia, può provocare la cosiddetta “afasia di Broca”, classificata tra le “afasie non fluenti”. I pazienti colpiti da afasia non fluente possono essere incapaci di comprendere o formulare frasi con una struttura grammaticale complessa.

Alcune forme di afasia legate a danni nell’ area di Broca possono colpire solo determinate aree del linguaggio, come i verbi o i sostantivi.

È interessante notare che, nel caso di pazienti sordi ci può essere un’inibizione della capacità di produrre quei segni corrispondenti al messaggio che essi vogliono comunicare, pur essendo in grado di muovere mani, dita e braccia come prima.

L’ afasia di Broca, detta anche afasia espressiva, consiste nella perdita parziale della capacità di comporre il linguaggio parlato e scritto, in presenza di una normale capacità di comprensione dello stesso.
 In altre parole, l’ afasia di Broca è un tipo di afasia in cui il paziente ha perso la capacità di parlare e di scrivere, ma non ha perso la capacità di comprendere ciò che sente e ciò che legge.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Istruzioni per l’uso del cervello (2017) di John Arden – Recensione del libro

Il libro Istruzioni per l’uso del cervello pone nel titolo tutto ciò che il lettore può trovarvi. È sia un testo con delle “istruzioni” per il paziente, sia un libro di neuroscienze.

 

Lo scopo del libro Istruzioni per l’uso del cervello è quello di spiegare ai pazienti cosa accade nel loro cervello quando soffrono di ansia e depressione e allo stesso tempo ha l’obiettivo di dare dei suggerimenti ai terapeuti su come integrare i domini della ricerca scientifica nel campo delle sempre più aggiornate neuroscienze.

Istruzioni per l’uso del cervello.. in psicoterapia

Al contenuto principale del testo sono affiancate da un lato, la spiegazione dettagliata degli aspetti neuro-correlati e delle ricerche che supportano il testo (paragrafi chiamati proprio Neuroscienze) e dall’altro la spiegazione (intitolata Educazione del paziente) in cui, in parole povere ed estremamente semplici, viene tradotto il linguaggio neuroscientico per poterlo utilizzare con il paziente. In questo modo il clinico ha un canovaccio da poter seguire che possa spiegare in modo accessibile a tutti cosa che c’è che non va nei loro circuiti cerebrali quando incontrano le sofferenze psicopatologiche e cosa, invece, può andare a modificare (sempre a livello neurobiologico) un percorso di psicoterapia.

Sicuramente Istruzioni per l’uso del cervello è un libro che mancava e ancor più certamente un libro al passo con i tempi in cui le scoperte di impostazione neuroscientifica hanno un ruolo importante nella psicopatologia dell’ansia e della depressione (sono le due grandi macro aree che vengono, difatti, trattate nel libro).

Durante gli ultimi 25 anni si sono accumulati molti dati a sostegno che la psicoterapia modifichi il cervello. È stata riscontrata una riduzione nelle attività dell’amigdala in pazienti trattati per fobie, una riduzione dell’ attività frontale in pazienti trattati per depressione, un aumento dell’attività cingolata anteriore in pazienti trattati per Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS) e un aumento dell’attività ippocampo le nelle persone con depressione e la diminuzione del caudato in pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC).

Oltre a questa suddivisione il libro di Arden si snoda in due arterie principali. La prima parte infatti è dedicata all’applicazione delle neuroscienze, la seconda prende in considerazione più da vicino i disturbi d’ansia, il Disturbo Post Traumatico da Stress, il Disturbo Ossessivo Compulsivo e la Depressione.

Istruzioni per l’uso del cervello.. il contributo delle neuroscienze

Nella prima metà del libro si affrontano temi che vanno dall’ epigenetica, alla neuro plasticità, alle differenze fra i due emisferi nella morfologia e nel funzionamento, alla spiegazione del default model networks (DMN) fino alla psico-neuroimmunologia.

Lo scopo di Istruzioni per l’uso del cervello è quello di rendere il paziente consapevole che il suo comportamento ha un impatto sul suo cervello. Si cerca di spiegare, per esempio, come far procedere il paziente verso una riorganizzazione delle connessioni cerebrali, disinnescando il DMN e riattivando la corteccia pre-frontale per incanalare il cambiamento nella direzione desiderata; viene spiegato perché ridere anche in assenza di gioia, ma come mero gesto comportamentale, possa essere un’ autentica medicina per andare a stimolare l’attivazione dell’emisfero sinistro o ancora come l’esercizio fisico, una corretta alimentazione e una corretta igiene del sonno, possano incidere sulle prestazioni del cervello. Sapevate per esempio che gli alimenti fritti e gli acidi grassi trans in essi contenuti impediscono di pensare con chiarezza? E che non conviene mai dormire arrabbiati? Infatti il sonno amplifica in maniera selettiva le memorie episodiche significative dal punto di vista emotivo e amplifica le memorie emotive fissando una rappresentazione duratura degli eventi stressanti.

Una parte importante di Istruzioni per l’uso del cervello è dedicata allo sviluppo dei sistemi della memoria. Questa si intreccia allo sviluppo, infatti la personalità, così come la psicopatologia, si forma attraverso il modo in cui il cervello si adatta alle interazioni con gli altri. Comprendere la memoria è fondamentale per comprendere il processo della psicoterapia. Una terapia efficace cambia la memoria attraverso processi interattivi modificati dal cambiamento del punto di vista del paziente. Il fatto che la memoria sia plastica rende la psicoterapia possibile.

Viene ampiamente raccontata la memoria nella sua forma dichiarativa e non dichiarativa, di come queste impattino nel reagire alle situazioni, vengono elencati i substrati biologici deputati alla memorizzazione toccando i punti principali e più salienti di ciò che occorre sapere in materia. Sia dal punto di vista delle teorie psicologiche, sia da quello biologico, sia da quello psicopatologico.

Arden spiega ai pazienti che esistono due vie di attivazione dell’amigdala. Quella lenta che fa in modo che pensiamo prima di sentire e quella veloce che funziona al contrario. In modo da lasciar comprendere come mai capita che si sentano ansiosi prima di aver pensieri o come queste vie non siano integrate nel caso del DPTS.

Nello spiegare l’importanza delle relazioni per la modifica dell’attività neuronale non si può prescindere dalle teorie relative alle relazioni precoci. Dal concetto di madre sufficientemente buona (e non perfetta, si specifica) di Winnicott alla teoria dell’Attaccamento (ampiamente dettagliata) con annessi dati rispetto alla neruobiologia nelle varie tipologie di attaccamento. L’obiettivo fondamentale di una psicoterapia può essere quindi quello di sviluppare nuovi sistemi di memoria integrati e adattivi in modo da aiutare il paziente alla costruzione di strutture in grado di aumentare il suo livello di tolleranza alla frustrazione e di reagire in modo regolato alle emozioni.

Istruzioni per l’uso del cervello nelle diverse psicopatologie

La seconda parte del libro Istruzioni per l’uso del cervello raccoglie tutto ciò che è stato seminato e prende in esame capitolo per capitolo i vari disturbi di ansia (suddivisi tra disturbi da auto stress, ansia focalizzata, ansia generalizzata, DPTS, DOC e depressione) per vedere più nel dettaglio e soprattutto nello specifico di ciascuna psicopatologia cosa non funziona a livello del cervello e quindi di come, con la psicoterapia, si possa andare a lavorare su questi aspetti.

La prima parte esamina il sempre più attuale concetto di stress, dalla teoria ormai nota di Seyle fino alle più importanti e recenti scoperte relative all’attivazione vagale di Porges e di tutto quello che succede all’organismo quando è sottoposto ad un carico di stress eccessivo e prolungato.

Arden distingue (dedicando due diversi capitoli) l’ansia generalizzata dall’ansia acuta proprio nelle specificità dei correlati neurobiologici.

In Istruzioni per l’uso del cervello si parla infatti di trovare il modo per il paziente di riequilibrare il sistema nervoso autonomo (che nel caso dell’ansia vede uno squilibrio a favore di una pressochè costante attivazione del Sistema Nervoso Simpatico). Di fatto i due sistemi legati all’ansia o al rilassamento si inibiscono reciprocamente per cui si prova a guidare il clinico e il paziente verso strategie volte proprio ad intervenire sul Sistema Nervoso Parasimpatico attraverso esercizi di respirazione, allenando l’attenzione a restare focalizzata sul presente, agendo sulla postura anche tramite lo yoga, imparando ad osservare pensieri, corpo e stati emotivi etichettandoli per ciò che sono in modo da stimolare la corteccia pre-frontale e distanziando dall’ansia stessa.

Viene preso in esame anche il concetto di evitamento (naturale protagonista della psicopatologia dell’ansia) sia comportamentale che cognitivo e di come questo sia uno dei maggiori fattori di mantenimento del problema. Si intrecciano concetti cognitivi come l’intolleranza all’incertezza e la sua speculare accettazione del rischio e dell’ambiguità, insieme a ciò che a livello del nostro cervello accade passando da uno stato all’altro. Esporsi all’incertezza infatti costruisce la capacità del cervello di neutralizzare le preoccupazioni. La terapia con pazienti con problemi di ansia generalizzata viene sintentizzata con l’acronimo REAL:

  • Relaxation (esercizi di meditazione, rilassamento, autoipnosi, training autogeno)
  • Exposure (programmare l’ora della preoccupazione per esempio in modo da dare alla corteccia orbito frontale la possibilità di lavorare sullo sviluppo della capacità di gestire le ambiguità)
  • Acceptance (dell’incertezza)
  • Labeling (etichettare i pensieri in modo da distanziarsene).

Anche nella sezione dedicata all’ansia focalizzata (sia fobie che attacchi di panico) si parla di nuovo di evitamento e dell’impatto di questo sul Sistema Nervoso ma l’acronimo che viene utilizzato per questo tipo di psicopatolohia è BEAT:

  • Body (in modo da imparare a conoscere e notare le proprie attivazioni corporee),
  • Exposure (esposizione enterocettiva per esempio per aumentare la tolleranza alle sintomatologie normali corporee)
  • Amigdala (e le sue due vie lenta e veloce)
  • Thinking (in modo da ricordare loro che ciò che pensano può influenzare ciò che sta accadendo).

Anche il DPTS ha un ampio spazio nel libro di Arden. La sua terapia prevede tre fasi, secondo l’autore. La prima di stabilizzazione da iniziare immediatamente dopo l’evento traumatico. Durante questa fase ci si occupa del sostegno della persona (un importante fattore di rischio è quello di non avere supporto sociale), ci si occupa di valutare quello che è il funzionamento globale della persona dopo l’essere stato esposto ad una situazione drammatica e si educa la persona anche da un punto di vista della normalizzazione dei sintomi che possono seguire un trauma. La seconda fase è quella di integrazione delle memorie e la terza è un lavoro sulla resilienza post traumatica. L’acronimico utilizzato per la terapia del DPTS è SAFE: Sharing (condividere in modo da lenire il senso di solitudine e di isolamento) Acceptance (dei sintomi del post trauma in modo da non evitarli incrementando la reattività dell’amigdala), Family (riattivare il cervello sociale stando con i propri cari), e infine Exposure (affrontando piano piano i sentimenti e le sensazioni che scatenano l’ansia).

Nel capitolo del DOC viene dato ampio spazio al funzionamento del cervello e sono molto dettagliate tutte le spiegazioni che hanno a che vedere con ciò che accade nella mente mentre si è nella trappola delle compulsioni e delle ossessioni. I circuiti che sottendono il doc sono associati alla corteccia pre frontale ventro-mediale, allo striato e al talamo dorsale. Complessivamente gli studi condotti con RM indicano che nel DOC ci sono delle anomalie nel funzionamento della corteccia orbito-frontale e della corteccia cingolata anteriore nonchè nell’attività del caudato.

Impossibile parlare della terapia del DOC senza cimentarsi nella spiegazione (sia per il paziente che per le neuroscienze) dell’Esposizione con Prevenzione della Risposta ERP. L’acronimo utilizzato per riassumere la terapia del DOC è ORDER:

  • Observing (osservare invece di rispondere automaticamente alle ossessioni con compulsioni in modo da uscire dal pilota automatico)
  • Remembering (ricordare che essere pieni di pensieri e sentirsi di dover compiere comportamenti compulsivi sono sintomi di un funzionamento cerebrale di chi soffre di DOC)
  • Doing (provare a mettere in atto qualcosa che sia diverso dai soliti comportamenti compulsivi in modo da costruire nuove abitudini), Exposure (esporsi imparando a tollerare il disagio)
  • Response Prevention (per astenersi dai comportamenti compulsivi).

Infine l’ultima parte è dedicata alla Depressione, quarta malattia per impatto a livello mondiale e che entro il 2030 sarà il disturbo con i costi più elevati di gestione nelle società ad alto reddito. La regione ipoattivata è quella della corteccia pre-frontale sinistra che può essere riattivata tramite comportamenti pratici. Viene sottolineata l’importanza di contrastare la normale tendenza all’isolamento contando sempre sul mantenere il cervello sociale attivato. Si considera il Default Mode Network poiché la ruminazione che si manifesta durante l’attività di questo sistema pare essere uno dei fattori più significativamente associati alla malattia. Le pratiche di consapevolezza servono proprio per imparare a disinnescare, portare l’attenzione al presente in modo non giudicante può avere il beneficio di tranquillizzare l’attività ruminativa. Per aiutare a ricordare ai pazienti di cosa hanno bisogno per uscire dalla depressione viene utilizzato l’acronimo TEAM:

  • Thinking (per allontanare il pensiero negativistico con tutti i suoi errori cognitivi)
  • Effort (“Sforzo” per riattivare la corteccia pre-frontale sinistra)
  • Acceptance (accettazione anche delle parti negative)
  • Mindfulness (consapevolezza).

Istruzioni per l’uso del cervello è un libro molto denso ma di facile e utile comprensione e utilizzo nonostante si addentri in modo specifico nel vortice della ricerca neuroscientifica. Edito da Astrolabio, è una panoramica utile sicuramente al paziente, ma anche al clinico che al giorno d’oggi non può più prescindere dalle scoperte del funzionamento del nostro cervello per quello che riguarda tanto la psicopatologia ma anche per la sua cura.

Selfie ritoccati? Se lo sappiamo cambia quello che pensiamo di noi e degli altri

L’autrice principale dello studio, Megan Vendemia, dottoranda dell’Ohio State University, mostra come diverse ricerche hanno evidenziato che la visione di immagini di modelli esili o sessualizzati può portare le donne a dare più valore all’essere snelle (interiorizzazione ideale) (Matusek, Wendt & Wiseman, 2004).

 

Tale interiorizzazione può contribuire insieme ad altri fattori alla predisposizione verso disturbi alimentari o altri problemi psicologici; eppure se le donne credono che tali immagini siano state modificate tramite appositi programmi o app l’impatto negativo si riduce, perché

sanno che le immagini online potrebbero non riflettere una realtà offline – afferma Vandemia.

Selfie ritoccati sui social media: lo studio per capire l’impatto

Lo studio, condotto dalla dottoranda insieme a David DeAndrea, docente di comunicazione dell’Ohio University, ha coinvolto 360 studentesse universitarie. Lo scopo dello studio presentato alle studentesse è quello di determinare in che modo le persone valutano le immagini e i selfie che appaiono su popolari social media, quali Instagram.

Le partecipanti hanno visto 45 selfie, di account pubblici su Instagram, di donne magre “sessualizzate” (cioe’ vestite con abiti “succinti”). Alcune di queste immagini mostravano a lato dei loghi di Photoshop o di filtri Instagram inseriti appositamente dai ricercatori per creare un’illusione di modifica.

Metà delle donne è stata informata che le immagini erano di altre studentesse del loro college, mentre all’altra metà è stato detto che le immagini raffiguravano modelle di New York.

È stato inoltre somministrato un questionario rispetto all’interiorizzazione ideale (della magrezza), compilando diversi item, tra cui: “le donne magre sono più attraenti delle altre donne“.

Selfie ritoccati: giudichiamo peggio chi li fa

È emerso che più le partecipanti percepivano le foto ed i selfie come modificati, meno interiorizzavano l’ideale di magrezza:

Le indicazioni che le immagini sono state alterate potrebbero potenzialmente ridurre gli effetti negativi delle immagini magre ideali.

Inoltre, più le spettatrici credevano che i selfie fossero modificati, più pensavano che le donne pubblicassero le foto per mettersi in mostra e vantarsi.

Hanno inoltre giudicato le donne con foto modificate come meno intelligenti e meno oneste, effetto in aumento quando si trattava di presunti pari, anziché di modelli.

Come ha affermato l’autrice:

I partecipanti, di fronte allo stesso comportamento, tendevano ad essere più indulgenti nei confronti dei modelli professionali rispetto ai loro coetanei sui siti di social media. Ritenevano che le modelle condividessero i selfie per ragioni più altruistiche, come motivare gli altri o promuovere la salute.

Si è anche notato come man mano che gli utenti dei social media si servono di un’osservazione più sofisticata nel consultare le foto postate sui social, più sono in grado di evitare alcune insidie. Ciò che rimane da indagare in futuri studi sono le cause che spingono a valutare in modo differente le foto modificate da quelle non modificate e come mai l’attribuzione di ruolo data al soggetto della foto influenzi anch’esso la valutazione in atto.

 

Maternità e disturbi dell’umore: osservate differenze nel riconoscimento delle espressioni emotive infantili

Una nuova ricerca presentata al Congresso European College of Neuropsychopharmacology ha rivelato che le donne che hanno sofferto di depressione o disturbo bipolare presentano un’alterazione nell’abilità di riconoscere le espressioni emotive dei bambini.

 

Quasi l’8% della popolazione europea ha sofferto in tempi recenti (negli ultimi 12 mesi) di depressione, con un tasso di prevalenza femminile intorno al 9,7% superiore di circa il 50% rispetto a quella maschile; la percentuale di presenza del disturbo bipolare invece è leggermente inferiore.

Ogni anno l’Europa assiste a oltre 5 milioni di nuove nascite.

Unendo questi dati si può notare come un numero significativo di donne in dolce attesa potrebbero soffrire o hanno sofferto in passato di depressione o disturbo bipolare.

Disturbi dell’umore: come influenzano l’esperienza materna?

Un recente studio presentato al Congresso di Barcellona ha mostrato che le donne incinte che hanno vissuto in passato periodi di depressione o disturbo bipolare riconoscono i volti dei bambini e le espressioni di pianto o riso in modo diverso rispetto alle donne sane. Quest’alterazione è presente anche se al momento dell’esperimento le donne non presentavano alcun sintomo psicopatologico.

Per lo studio i ricercatori hanno confrontato 57 donne in gravidanza: di queste, 22 presentavano nella storia passata episodi di depressione, 7 avevano sofferto di disturbo bipolare e la restante parte era rappresentata dal gruppo di controllo senza alcuna psicopatologia passata. Per ottenere ulteriore riprova dell’ipotesi sperimentale i ricercatori hanno previsto un gruppo di controllo composto da 18 donne non gravide e senza disturbi psicologici.

Tra il settimo e nono mese di gestazione, alle donne è stato chiesto di osservare una serie di facce felici o tristi ed espressioni di pianto o di riso sia di bambini che di adulti. In particolare il compito sperimentale prevedeva di valutare quanto i bambini fossero felici o angosciati in base all’espressione facciale e vocale delle emozioni; inoltre è stato chiesto di valutare l’intensità delle espressioni facciali di emozioni quali felicità, tristezza, paura e disgusto in soggetti adulti.

La ricercatrice principale Anne Bjertrup ha affermato:

Dai risultati degli esperimenti abbiamo scoperto che le donne incinte con storie di depressione o disturbo bipolare elaborano i segnali facciali e vocali delle emozioni in modo diverso, anche quando non stanno vivendo episodi depressivi o bipolari. Quest’alterazione potrebbe compromettere la capacità di queste donne di riconoscere, interpretare e rispondere appropriatamente ai segnali emotivi dei loro futuri bambini.

In particolare dallo studio è emerso che le donne che hanno esperito episodi bipolari nel passato hanno avuto difficoltà nel riconoscere tutte le espressioni facciali mostrando un “bias di elaborazione del volto positivo”, che significa un miglior riconoscimento e una valutazione più positiva dei volti felici sia degli adulti che dei neonati. Al contrario le donne con una precedente storia di depressione hanno mostrato un giudizio negativo nel riconoscimento delle espressioni facciali adulte e delle grida infantili che sono state valutate in modo maggiormente negativo.

La Bjertrup ha chiarito:

Questo è uno studio pilota per cui è necessario replicare i risultati in un campione più ampio. Sappiamo che la depressione e il disturbo bipolare sono altamente ereditabili a causa del ruolo dei fattori genetici, tuttavia appare estremamente importante anche la qualità dell’interazione precoce tra mamma e figlio. La diversa risposta cognitiva ai segnali emotivi dei bambini in queste donne può rendere più complesso il legame di attaccamento il che potrebbe rappresentare un precoce fattore di rischio per questi bambini.

In conclusione

I risultati trovati mostrano la presenza di un’alterazione nei giudizi emotivi delle persone con disturbi dell’umore anche se in remissione e, per la prima volta, pongono l’attenzione su una possibile difficoltà nell’interazione madre-bambino. Ciò non significa che queste donne non siano in grado di accudire i figli e non assume con certezza un possibile rischio per i loro bambini.

Appaiono necessari ulteriori studi per progettare programmi di screening e di intervento che possano aiutare le madri ad interpretare in modo più efficace i segnali emotivi dei loro figli. I lavori futuri potrebbero essere interessati a vedere se le evidenze emerse da questo studio mostrino veramente un effetto significativo sul rapporto mamma-bambino e se questo tipo di interazione possa avere un impatto negativo sullo sviluppo psicologico dei bambini.

Disturbi gravi di personalità: diagnosi differenziale e trattamento – Report dal Convegno Internazionale sui Disturbi di Personalità, Roma, 11 e 12 ottobre 2018

All’ultimo “Convegno Internazionale sui Disturbi di Personalità”, tenutosi a Roma l’11 e 12 ottobre 2018, tra i relatori c’era anche Otto Kernberg che ci ha raccontato cosa significa personalità sana e patologica. Il Prof. ha poi delineato le caratteristiche della personalità affetta da narcisismo patologico e il modo in cui tali caratteristiche si traducono a livello comportamentale, affettivo e di identità.

 

I disturbi gravi di personalità costituiscono un tema complesso da affrontare sia per quanto riguarda le procedure diagnostiche che per quanto concerne l’impostazione dei trattamenti psicoterapeutici e farmacologici.

Il convegno svoltosi a Roma lo scorso 11 e 12 ottobre presso il centro congressi Angelicum ha rappresentato un momento di riflessione e di confronto tra alcuni tra i massimi esperti del settore. Le relazioni presentate hanno esaminato i disturbi psicotici, il disturbo borderline, il disturbo narcisistico di personalità e il disturbo bipolare. Una delle premesse da cui i lavori hanno preso le mosse è che il disturbo bipolare viene solitamente considerato, nello scenario italiano, con due modalità differenti, da cui derivano diverse impostazioni del trattamento:

  • l’umore viene visto come un elemento sovraordinato rispetto alle funzioni mentali e relazionali; in questo quadro è l’umore a risultare agente determinante della sintomatologia;
  • la configurazione della personalità è prevalente nella genesi dei disturbi mentali, di conseguenza l’umore non è il fattore scatenante dei problemi, ma prodotto di un determinato assetto di personalità.

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Dopo l’inizio dei lavori con l’introduzione da parte del prof. Giuseppe Nicolò e del prof. Antonino Carcione, il primo intervento, effettuato dal prof. Michele Procacci, si concentra sulle similitudini e sulle differenze tra i disturbi psicotici e i disturbi gravi di personalità; viene messo l’accento sul fatto che i percorsi di trattamento di soggetti, adulti e adolescenti affetti da patologie psichiatriche, non possono esimersi dal intervenire, oltre che sull’aspetto sintomatologico, anche sulle difficoltà sociali e di adattamento osservabili negli stessi.

L’intervento successivo, effettuato dal prof. John Clarkin, ha per oggetto il disturbo bipolare, il disturbo borderline di personalità e la presenza di comorbilità tra i due disturbi; l’instabilità affettiva rappresenta una disposizione psicologica che accomuna sia il disturbo borderline che il disturbo bipolare. Viene sottolineato come nell’ambito dei disturbi psichiatrici la comorbilità sia molto elevata: metà degli individui che incontrano i criteri diagnostici per un disturbo incontrano i criteri per un secondo disturbo nello stesso tempo.

Le relazioni a seguire, effettuate dal prof. Antonio Semerari, dal prof. Giuseppe Nicolò e dal prof. Enrico Pompili, prendono in esame questioni legate al trattamento. I trattamenti, finalizzati sia a ridurre i sintomi che a migliorare la funzionalità a livello sociale, contemplano una vasta gamma di interventi tra cui l’utilizzo di farmaci, interventi di natura psicoeducativa, il coinvolgimento del contesto sociale di riferimento.

Otto Kernberg e la Transference Focused Therapy (TFC)

Dopo una fase di confronto tra esperti e pubblico, che conclude i lavori della mattinata, si riprende nel pomeriggio con la relazione del prof. Otto Kernberg, il quale si sofferma sulla definizione di personalità sana e patologica, andando poi a delineare le caratteristiche della personalità affetta dal narcisismo patologico e come tali caratteristiche si traducano a livello comportamentale, affettivo e di identità.

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Otto Kernberg al Convegno Internazionale sui Disturbi di Personalità 2018

Il prof. John Clarkin, nell’intervento a seguire, mette a fuoco le modalità di intervento sulle patologie gravi di personalità proposte dalla Transference Focused Therapy (TFC), elaborata da Otto Kernberg. L’approccio terapeutico proposto è di impostazione psicodinamica e contempla l’utilizzo del transfert, del controtransfert del terapeuta e di libere associazioni; particolare attenzione va posta nel trattare un transfert di tipo antisociale, nei pazienti in cui il tratto antisociale è più marcato.

Il transfert narcisistico è caratterizzato dall’incapacità, da parte del paziente, di dipendere dal terapeuta. Il paziente è portato a svalutare il processo terapeutico, attivando dinamiche inconsapevoli in cui esprime invidia per l’abilità del terapeuta e oscilla tra il senso di superiorità e il senso di inferiorità.

Structured Interview of Personality Organization (STIPO)

Il secondo giorno di lavori si apre con la relazione del prof. John Clarkin che descrive uno strumento diagnostico, l’intervista semistrutturata STIPO (Structured Interview of Personality Organization), disponibile nella versione inglese originale e nella traduzione italiana e tedesca.

Questo strumento diagnostico ha lo scopo di valutare la presenza e la gravità dei sintomi, indagare il funzionamento sociale e lavorativo del paziente, capire che rappresentazioni interne ha degli altri; viene valutata la motivazione al cambiamento in modo da discutere le opzioni terapeutiche più appropriate.

L’intervista aiuta ad ottenere informazioni a livello sia strutturale che dimensionale di personalità. Per quanto riguarda la struttura si distinguono quattro livelli di organizzazione di personalità: normale, nevrotica, borderline e psicotica; l’aspetto dimensionale viene valutato andando ad indagare l’identità, la qualità delle relazioni oggettuali (relazioni interpersonali, relazioni intime e sessuali, investimento negli altri), il tipo di meccanismi di difesa utilizzati (primitivi o maturi), l’aggressività (etero o autodiretta).

Otto Kernberg racconta l’approccio con il paziente narcisista

La restante parte dei lavori è affidata al prof. Otto Kernberg il quale, dopo essersi soffermato sul transfert del paziente con disturbo narcisistico, presenta una panoramica dei modi in cui la personalità narcisista si approccia alle relazioni amorose, attraverso l’esposizione di alcuni casi clinici; il narcisista arriva spesso a richiedere una terapia a causa del senso di vuoto relazionale che prova, determinato dalla sua difficoltà a strutturare relazioni profonde con persone significative.

Nell’intervento conclusivo il prof. Otto Kernberg delinea come alcune caratteristiche della personalità narcisistica giochino un ruolo importante nelle dinamiche osservabili all’interno dei grandi gruppi.

In conclusione

I disturbi gravi di personalità rappresentano un campo di indagine e di intervento molto complesso, rispetto al quale il confronto e lo scambio costante tra ricercatori e clinici è di vitale importanza al fine di sviluppare prassi terapeutiche sempre più efficaci.

Rendimento scolastico in adolescenza: metodo di studio, emozioni, dimensione relazionale

E’ bravo ma non si applica: è forse una delle affermazioni più tipiche che i genitori si sentono dire dagli insegnanti. Solitamente viene utilizzata quando lo studente, seppur dimostrando delle capacità intellettive nella norma, non riesce a portare a termine l’anno scolastico con valutazioni idonee.

 

Lo psicologo viene spesso interrogato sulle motivazioni che possono essere alla base di tale mancanza di risultati. A porre la domanda non sono soltanto i genitori, ma anche gli insegnanti, che continuamente si chiedono dove risiedano gli errori nel proprio metodo di insegnamento. Riassumendo, non esiste una risposta semplice alla domanda riguardo il rendimento degli studi degli adolescenti. I fattori sono molteplici, e attraverso l’analisi di questi si può giungere ad alcune soluzioni.

Rendimento scolastico: come funzionano metodo di studio, apprendimento e memoria

Una teoria da tenere in considerazione riguardante i processi di apprendimento e memoria, è quella di Craik e Lockhart (1972). Questi autori hanno affermato che il classico metodo della ripetizione meccanica degli argomenti di studio non è sufficiente per formare degli apprendimenti duraturi. In pratica non basterebbe leggere e ripetere un argomento per impararlo, bensì sarebbe fondamentale che si effettui un ripasso elaborativo e profondo. Gli studenti dovrebbero riflettere sui significati delle informazioni, creando associazioni con le informazioni più vecchie.

Secondo Gray (2002), le modalità di consolidamento dell’informazione nella memoria a lungo termine possono essere:

  • la ripetizione meccanica
  • l’elaborazione
  • l’organizzazione
  • la visualizzazione.

Il fine dell’elaborazione è quello di capire ciò che si sta studiando, comprenderne la logica (Craik e Tulving, 1975). L’organizzazione del materiale di studio è un altro passaggio fondamentale, ad esempio raggruppando informazioni simili tra loro, formando un discorso logico, soggettivo e non dispersivo. Come dimostrato dagli esperimenti di Halpern (1986), è molto utile l’organizzazione gerarchica, ovvero il raggruppamento delle informazioni in categorie, ed il raggruppamento delle categorie simili in categorie di ordine ancora superiore. Per fare un esempio, il processo è il medesimo che si utilizza in un libro di studio, dove vi è un capitolo che raccoglie paragrafi simili per argomento ed ogni paragrafo raccoglie sottoparagrafi simili tra di loro. In questo modo si garantisce un ordine, una prevedibilità ed una maggiore comprensione dello studio. Con la visualizzazione, invece, si può intendere la teoria della doppia codifica di Paivio (1986), in cui si sostiene la forte efficacia del processo di consolidamento della memoria se, questa è associata ad un’immagine. Negli esperimenti, infatti, se si associano immagini durante l’apprendimento di nuove nozioni aumenta l’efficacia di tale apprendimento, poiché i due codici (visivo e linguistico) sono interagenti.

Concludendo, si può iniziare a sostenere che un possibile errore dello studente riguarda il proprio metodo di studio e l’applicazione delle tecniche sbagliate di consolidamento della memoria. Cominciare modificando questi aspetti, sostituendo ad esempio la ripetizione meccanica passiva delle informazioni, può essere un inizio nel miglioramento dello studio.

Rendimento scolastico e metodo meta-cognitivo

Per Meta-Cognizione si intende

Qualsiasi conoscenza o processo cognitivo, che è coinvolto nella valutazione, nel monitoraggio o nel controllo della cognizione. (Wells, 2002).

È una sorta di cognizione della cognizione. La conoscenza metacognitiva include la consapevolezza delle proprie abilità cognitive (sono bravo in matematica) e delle strategie cognitive (devo prendere appunti per riuscirci). La regolazione metacognitiva ha la funzione di coordinare la cognizione e comprende due aspetti: il monitoraggio (monitorare costantemente la corretta esecuzione) e il controllo cognitivo (di inibire le altre attività inutili)( Koriat et al. 2006).

Il costrutto di metacognizione fu introdotto da Flavell negli anni ’70, indicando proprio la consapevolezza delle strategie riguardanti tutti i processi cognitivi, ovvero la memoria, l’apprendimento o l’attenzione.

Oggi il lavoro metacognitivo è utilizzato per tutti gli studenti che possiedono difficoltà di studio, e soprattutto sono stati scritti molti manuali per l’utilizzo di questa tecnica nelle disabilità intellettive lievi e moderate, nei disturbi specifici dell’apprendimento e nell’autismo ad alto funzionamento.

In Italia è stato studiato soprattutto dal gruppo MT di Padova, da cui scaturisce il Questionario metacognitivo per il metodo di studio. Il gruppo ha individuato diverse componenti importanti per l’apprendimento ed il rendimento scolastico, riguardanti: le strategie di apprendimento, gli stili cognitivi, la metacognizione e l’atteggiamento verso la scuola e lo studio (Cornoldi, De Beni, 2012). Secondo gli autori, in sintesi, per un buon metodo di studio bisogna prendere in considerazione i seguenti aspetti: la motivazione allo studio (coloro che studiano per se stessi e cercano di migliorarsi per soddisfazione personale hanno risultati migliori), l’organizzazione, l’elaborazione, la flessibilità e la partecipazione in classe. Dal punto di vista metacognitivo sono importanti la concentrazione, la selezione degli argomenti, la capacità di autovalutazione, le strategie di preparazione alle prove e la sensibilità metacognitiva. Infine è importante osservare il rapporto con i compagni, con gli insegnanti, la presenza di ansia durante l’orario scolastico, l’atteggiamento verso la scuola e l’impegno. Il manuale del gruppo MT, può essere un valido aiuto per fornire degli strumenti validi all’apprendimento scolastico.

Rendimento scolastico in adolescenza: fattori relazionali e sviluppo della personalità

L’adolescenza è un periodo fondamentale della crescita dell’individuo, sia dal punto di vista dello sviluppo cerebrale, sia per quanto riguarda la formazione delle personalità o per la maturazione delle funzioni esecutive. L’adolescenza è caratterizzata da alcune peculiarità che ne caratterizzano il comportamento come la ricerca di novità, il forte coinvolgimento sociale, la maggiore intensità delle emozioni, una forte componente di creatività (con lo sviluppo del pensiero concettuale e del ragionamento astratto), con una valorizzazione delle capacità del singolo ( Siegel, 2013). Si vive in questi anni lo sviluppo delle capacità di autoriflessione, della capacità morale, decisionale, di integrazione cerebrale. Gli studenti possono essere ancora troppo impulsivi per scegliere lo studio basandosi sui propri hobby o le amicizie, inoltre sono caratterizzati da quello che Siegel chiama pensiero iper-razionale, ovvero dalla ricerca del piacere, senza prendere in considerazione le conseguenze negative future del proprio comportamento. Le connessioni neurali aumentano in questi anni, e con queste le integrazioni tra le diverse aree cerebrali, garantendo lo sviluppo di nuove capacità e di grandi opportunità per quanto riguarda l’intervento clinico ed il miglioramento delle proprie capacità (Gogtay et al 2004; Ernst et al. 2015; Almed et al. 2015). Quando gli adolescenti non hanno un buon rendimento scolastico, si può andare ad osservare la loro motivazione allo studio, e l’effettiva quantità di tempo passato nello studio. Il dialogo è una componente fondamentale tra l’adulto e lo studente, per aiutarlo a comprendere l’importanza dello studio, considerando anche le grandi capacità cerebrali lungo quest’età, il cambiamento ed il miglioramento della propria razionalità e del rendimento scolastico, è sicuramente possibile.

L’adolescente si trova nel periodo della formazione della propria personalità, di cui è componente fondamentale l’Identità. Uno degli aspetti che si indaga per verificare lo sviluppo di un’Identità integrata, è proprio il rendimento scolastico. Una crisi d’identità, o la formazione di un’Organizzazione di Personalità patologica, si riflette nell’adolescenza anche attraverso l’oscillazione del rendimento scolastico, nella carente organizzazione allo studio, nella mancanza di interesse verso la scuola, sino anche all’abbandono scolastico (Ammaniti, Fontana, DiMarco, 2012). Alcuni possono sentirsi inadatti, troppo brutti, con una percezione di incompiutezza affettiva, relazionale ed erotica, tale da non permettergli di potersi presentare a scuola (Pietropolli Charmet, 2012) L’osservazione del rendimento scolastico può essere, quindi, un’indizio per lo psicologo di problematiche legate alla personalità, e può essere precursore anche possibili disturbi del comportamento alimentare (Montecchi, 2016), alla presenza di eventi stressanti nella vita dell’adolescente. In questi casi, solo la presenza di uno psicologo all’interno della scuola può garantire una corretta valutazione.

Aspetti relazionali

Per quello che riguardo le relazioni problematiche tra pari, viene riportata una correlazione tra il basso rendimento scolastico e vittime di bullismo, che per via di questa condizione non riescono ad applicarsi al meglio nello studio (Dazzi, Madeddu, 2009). Inoltre esistono innumerevoli esempi clinici di adolescenti con famiglie problematiche e basso rendimento scolastico. Ad esempio, Pietropolli Charmet e Riva (2001) descrivono alcuni casi di abbandono scolastico, di assenze ingiustificate o di mancanza di risultati positivi in termini di voti, come conseguenza di problematiche di tipo relazionale-emotivo con i propri genitori. Secondo Minuchin (2007), vi è un’impossibilità nel dividere la coppia individuo-famiglia che è in stretta interdipendenza, sia per quello che riguarda le relazioni problematiche, sia per quanto riguarda un eventuale processo di cambiamento, in cui è necessario un accordo tra entrambe le parti. Anche in questo caso lo psicologo potrebbe valutare la condizione familiare dello studente, ed un eventuale lavoro con tutti i componenti.

Un esempio diverso può essere quello di un ragazzo che lascia la scuola dopo aver subito un’umiliazione da parte di un insegnante (Pietropolli Charmet, 2009). Nella comunicazione tra adolescente e adulto è fondamentale che vi sia rispetto, con una valorizzazione e comprensione dei cambiamenti e delle decisioni che avvengono nei giovani. Questi dovrebbero sentirsi capiti dagli adulti, accettati anche quando commettono degli errori, così da potervi rimediare (Siegel, 2013). Una buona relazione con gli insegnanti si collega ad una maggiore motivazione nell’apprendimento scolastico ( Crosnoe, Johnson e Elder, 2004), quindi può risultare fondamentale anche l’osservazione ed il controllo di quest’ultimo aspetto.

Rendimento scolastico in adolescenza: fattori emotivi

Lo stretto collegamento tra emozioni e apprendimento viene fatto notare anche da Immordino-Yang (2016), osservando che i bambini orfani, cresciuti con una mancanza di interazioni sociali emotive soddisfacenti, mostravano anche minori capacità di apprendimento. In un altro esperimento, l’autrice ha dimostrato che coloro che apprendono meglio le strategie per risolvere alcuni problemi presentavano anche un’attivazione emotiva, osservata ad esempio tramite la sudorazione, a differenza di coloro che non mostravano questi aspetti fisiologici. In un terzo esperimento, venivano indotte delle emozioni ai partecipanti, raccontando alcune storie di carattere emotivo. Solo coloro in cui si verificava una maggiore attivazione dell’insula anteriore e del tronco encefalico mediale, mostravano in seguito le capacità di apprendimento da queste storie, dimostrando di essere in grado di prenderne spunto per le decisioni riguardo il proprio futuro. Queste aree cerebrali rappresentano un’attivazione inconsapevole e prettamente emotiva che si accompagna alla comprensione.

Apprendimento ed emozioni sono strettamente legate anche dal punto di vista neuroscientifico, anche se il soggetto non ne è consapevole; questo legame permette una maggiore flessibilità e generalizzazione di ciò che si impara.

Nelle scuole dovrebbe essere tenuto in considerazione che l’aspetto emotivo degli adolescenti è strettamente collegato al rendimento scolastico. Come abbiamo visto, le emozioni possono essere compromesse da uno sviluppo problematico della personalità, dalle relazioni con i pari, con i genitori, con gli insegnanti, oppure da eventi stressanti in generale poichè causano attivazioni di emozioni negative che possono compromettere la motivazione e l’apprendimento stesso. Osservare le emozioni degli studenti, cercare di curarne la relazione, e comprenderne le motivazioni, sono aspetti fondamentali per il rendimento scolastico, insieme all’acquisizione di un buon metodo di studio. Questi processi possono essere attivati con successo soltanto da una stretta collaborazione tra psicologi, insegnanti e la famiglia, elaborando insieme il miglior percorso di recupero tra quelli disponibili.

In morte della curiosità – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 45

Oggi l’avere a che fare con meccanismi spesso complessi e difficilmente comprensibili porta spesso a non incuriosirsi più, “è troppo complicato, l’importante è che funzioni!”. Il rischio ahimè è quello di restare fermi, stanziati in uno status quo che non sempre è sinonimo di benessere e che, sicuramente, non facilita il cambiamento e la nostra evoluzione.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – In morte della curiosità (Nr. 45)

 

Il ‘900 non è stato soltanto il secolo delle due guerre mondiali ma anche, forse proprio a motivo di esse, il secolo della straordinaria avanzata della scienza e della sua immediata trasformazione tecnologica sia per scopi bellici che civili che hanno cambiato radicalmente la nostra vita. Non solo la medicina e la chirurgia hanno allungato enormemente la vita media, ma elettrodomestici, radio televisione, automobili, aerei ed infine computer ne hanno modificato la qualità ed i ritmi.

In particolare l’elettronica e l’informatica hanno reso di facile utilizzo e accessibili a tutti strumenti complicatissimi di cui l’utente ignora assolutamente il funzionamento che sarebbe alla portata di una scimmia. Un esempio classico. Per lavorare alla cassa di un supermercato è sufficiente riuscire a distinguere la valuta nazionale e conoscere i numeri cardinali senza saper compiere alcuna operazione: infatti il lettore ottico legge i prezzi dal codice a barra e li somma direttamente. L’operatore deve solo digitare quanti soldi gli dà il cliente e la macchina gli dice il resto da restituirgli.

Come avvengano tutte queste cose sfugge alla conoscenza degli utilizzatori e lo stesso vale per tutti gli oggetti che ci circondano. Se un tempo, quando si lavavano i panni al pozzo, il meccanismo di come lo sfregamento con acqua e sapone rimuovesse lo sporco era piuttosto chiaro, oggi non lo è per la maggior parte delle cose. A parte ripetere qualche formuletta scolastica, chi tra la gente comune sa come funziona la televisione, la radio o più semplicemente un disco che sia di vinile o un compat a lettura laser (ma che è il laser?).

Se ci trovassimo a sbarcare in un pianeta uguale alla terra temo che dovremmo ripercorrere tutta l’evoluzione della conoscenza da capo. Chi sarebbe in grado di produrre energia elettrica e costruire una lampadina? Al massimo memori di qualche film sui pellerossa potremmo tentare di accendere un fuoco, senza peraltro riuscirci. Insomma siamo circondati da oggetti sconosciuti, portentosi, dal magico funzionamento, dai quali dipende la nostra esistenza e con i quali interagiamo, se e solo se il loro pannello di controllo è amichevole e docile.

Persino ai tecnici sfugge il reale funzionamento e i meccanismi interni sono inaccessibili al punto che le cose non si aggiustano più ma si sostituiscono, i circuiti stampati non si riparano. Un tempo i bambini giocavano a smontare le cose per vedere cosa ci fosse dentro e capirne il funzionamento, oggi non lo si fa più, dentro non c’è niente.

Persino il tempo dei grandi esploratori è finito. Nonostante i laboratori di tutto il mondo pullilino di ottimi scienziati e le scoperte innovative si susseguano a ritmo incalzante l’impressione della gente comune è che quello che si doveva sapere ormai si sappia, siamo nel mondo migliore possibile che resterà più o meno stabile solo con qualche prodotto in più: scenari totalmente diversi non sono neppure immaginati.

Questa sistematica impossibilità a capire meccanismi troppo complicati per la maggior parte delle persone genera una continua frustrazione della curiosità, per non provare la quale si smette di essere curiosi.

Un’interessante ricerca della Burt Ellison University del Sud Dakota (**La Burt Ellis University non esiste ma potrebbe) ha evidenziato come la durata della cosidetta età dei perché si sia ridotta di oltre il 50% e le domande quotidiane addirittura del 74,5%. I ricercatori ne concludono che i bambini comprendono rapidamente che nessuno sa come stiano effettivamente le cose e che dunque, come cantava De Gregori “non c’è niente da capire”.

Se ciò che accade è incomprensibile, è di conseguenza anche immodificabile e ciò comporta passività ed acquiescenza allo status quo. I bambini che aprivano i giocattoli per guardarci dentro, una volta ragazzi hanno pensato di cambiare il mondo. I bambini di oggi se vedono che il mondo non funziona si aspettano che gliene venga regalato uno nuovo. Alla resa della curiosità verso il mondo esterno si associa una perigliosa smania di capire effettivamente se stessi, di comprendere il proprio vero “IO”, ma questa è un altra storia.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Guarire la frammentazione del sé. Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma psicologico (2017) di Janina Fisher – Recensione del libro

Janina Fisher, autrice del libro Guarire la frammentazione del sé, è vicedirettore del Sensorimotor Psychotherapy Institute, ha lavorato presso il Trauma Center fondato da Bessel von der Kolk ed è stata presidente della England Society per il trattamento di traumi e dissociazioni.

 

Nel libro Guarire la frammentazione del sé. Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma psicologico l’autrice, attraverso undici capitoli (più le appendici), illustra il metodo di intervento che ha sviluppato e articolato nel corso della sua lunga esperienza con pazienti gravi.

Guarire la frammentazione del sé: anche quando il paziente è ad alto funzionamento

Il libro è rivolto non solo ai professionisti ma anche ai pazienti:

Il mio interesse nello scrivere questo libro è condividere un modo per comprendere i clienti più complessi e difficili che arrivano a noi, spesso con diagnosi “terminali” come disturbo di personalità, disturbo bipolare di tipo II, persino schizofrenia.

Nell’introduzione Janina Fisher racconta come in diverse occasioni sia stata consultata da clienti o colleghi che non si spiegavano come mai nonostante si fosse creata una buona relazione terapeutica, il paziente non facesse i progressi attesi, rimanendo bloccato in una condizione di sofferenza o impasse. La Fisher, analizzando questi casi, ha rilevato come di frequente fosse presente uno stato dissociativo che talvolta può risultare difficile da individuare perché il paziente apparentemente ‘funziona’ bene.

Mi accorsi che per ogni specifico cliente era più facile identificarsi con o ‘sentire proprie’ alcune parti, mentre altre parti erano più facili da ignorare o da disconoscere come ‘non me’. Internamente, inoltre, le parti erano in conflitto tra loro: era più sicuro congelarsi o combattere? Gridare aiuto o passare inosservati? Notai inoltre che le relazioni interne tra questi aspetti frammentati del sé rispecchiavano l’ambiente traumatico per cui un tempo erano state la soluzione.

Il nucleo centrale dell’intervento proposto nel libro Guarire la frammentazione del Sé è proprio il lavoro sulle parti del sé, per il quale vengono integrati diversi modelli terapeutici come la psicoterapia sensomotoria, gli Internal Family System, gli approcci basati sulla mindfulness e l’ipnosi clinica.

Guarire la frammentazione del sé: l’attaccamento di ieri determina la finestra di tolleranza di oggi

Janina Fisher spiega come a suo parere per lavorare con il trauma sia necessario basarsi su modelli teorici che traggono le loro origini dalle neuroscienze e dalla ricerca sull’attaccamento.

Nel periodo in cui svolge attività presso il Trauma Center inizia a considerare i disturbi correlati al trauma come disturbi del corpo, del cervello e del sistema nervoso. La crescente attenzione alla neurobiologia la porta a ritenere che le risposte al trauma rappresentino un tentativo di adattamento piuttosto che la prova di una patologia.

Facendo riferimento al modello della dissociazione strutturale di Van de Hart e altri, ritiene che

(…) la dissociazione strutturale rappresenta una risposta adattativa orientata alla sopravvivenza di fronte alle specifiche richieste provenienti dall’ambiente traumatico. Ciò favorisce una scissione tra emisfero destro ed emisfero sinistro che promuove il disconoscimento delle parti ‘non me’ connesse al trauma e la capacità di funzionare senza consapevolezza di essere stati traumatizzati. La scissione favorisce anche lo sviluppo di parti guidate da difese animali, che servono la causa della sopravvivenza di fronte al pericolo.

Per comprendere quali fattori possono determinare una frammentazione del sé è utile far riferimento alla relazione di attaccamento attraverso la quale il bambino impara a riconoscere e modulare gli stati emotivi interni e forma una sorta di ‘finestra di tolleranza’ alle attivazioni fisiologiche.

Il termine “finestra di tolleranza” fa riferimento al grado con cui si è capaci di tollerare emozioni intense a livello simpatico e sensazioni di noia, ottundimento o il “sentirsi giù” a livello parasimpatico. Dal momento che bambini traumatizzati hanno per lo più vissuto condizioni di minaccia ricorrenti o “perduranti” (Saakvitne et al. 2000), in genere hanno poche opportunità di sviluppare una finestra di tolleranza: per adattarsi, i loro corpi dovevano rimanere all’erta, pronti all’azione oppure mantenersi distaccati, intorpiditi, passivi, capaci di sopportare qualunque cosa.

Nelle situazioni psicopatologiche la finestra di tolleranza è molto piccola. In presenza di situazioni traumatiche durante l’infanzia possono determinarsi principalmente due tipi di risposte: una disposizione di allerta, di ipervigilanza o una condizione di passività, di ottundimento e di sopportazione. In entrambi i casi si può sviluppare uno stato dissociativo che viene considerato adattivo in quanto rappresenta il modo migliore che trova il bambino per rispondere a una situazione minacciosa, dove magari la ‘protezione’ sarebbe dovuta venire dalla stessa figura che lo metteva in pericolo (per esempio un genitore o un’altra figura che si occupa del bambino).

La scissione comporta, quindi, che in alcuni casi la parte traumatizzata viene tralasciata, non riconosciuta, e la persona va avanti nella sua vita grazie a una parte che viene definita ‘la parte della vita normale’.

Purtroppo molti eventi della vita quotidiana possono sollecitarci emotivamente facendo sì che la parte traumatizzata si ‘attivi’ a un livello non consapevole provocando nel soggetto uno stato emotivo negativo, di sfiducia, paura dell’abbandono, fallimento, come se il pericolo/trauma fosse attuale.

L’individuo può trovarsi in situazioni traumatiche anche in momenti successivi della vita e anche in questi frangenti la dissociazione è una possibile risposta all’evento.

Guarire la frammentazione del sé: occuparsi degli effetti odierni del trauma

Il modello proposto da Janina Fisher non si propone di ricostruire il trauma passato ma di lavorare sugli effetti di questo. L’intento è quello di modificare le memorie del trauma attraverso il lavoro con le parti nel qui e ora, nel presente; la persona deve imparare a sentirsi ‘al sicuro’ nel momento attuale. I capitoli 4 e 5 sono proprio dedicati al riconoscimento e all’accettazione delle parti del sé.

Il paziente, guidato dal terapeuta, dovrebbe trovare in sé stesso quella sicurezza che non ha ricevuto dalle figure genitoriali quando era bambino. Infatti i sintomi non sono causati solo dagli eventi traumatici, ma dal conseguente disturbo dell’attaccamento interno che si determina.

Le parti bambine (traumatizzate) tramite la mindfulness devono essere riconosciute e capite così che la parte adulta possa rassicurale e avere cura di loro. In questo modo lo stato di attivazione emotiva, che nasce dalla mancata differenziazione fra la situazione attuale e quella del trauma, si dovrebbe attenuare e la persona dovrebbe riuscire a far fronte al disagio che avverte. In sostanza il paziente dovrebbe ‘adottare’ le parti ferite e imparare a prendersi cura di loro.

Curare le ferite traumatiche e la frammentazione connessa al trauma dipende, in fin dei conti, dalla relazione che l’individuo ha con se stesso – o con i suoi ‘molteplici’ sé.

Guarire la frammentazione del sé comporta affrontare ostacoli nella relazione terapeutica

Janina Fisher nel 6 capitolo del libro Guarire la frammentazione del sé affronta un tema molto importante per la psicoterapia: le complicazioni del trattamento. Poiché una delle caratteristiche dell’attaccamento traumatico comporta che la figura che dovrebbe dare sicurezza al bambino invece provoca paura fino a poter costituire una potenziale minaccia per la sopravvivenza, qualsiasi relazione successiva, compresa quella terapeutica, rischia di evocare segnali di pericolo. Pertanto, la crescente vicinanza emotiva che si stabilisce in questo tipo di relazione può comunicare alternativamente un senso di sicurezza o una sorta di minaccia, creando una situazione difficile per il proseguimento di una terapia. In questi casi, se i terapeuti considerano le modalità relazionali ambivalenti del paziente come se fossero legate alla relazione terapeutica il problema può complicarsi. Infatti, le modalità citate andrebbero lette come aspetti interpersonali indicatori del disturbo dell’attaccamento; in questo modo il terapeuta può divenire un alleato del paziente e facilitare lo sviluppo di un‘ attaccamento sicuro guadagnato’.

Quanto proposto da Janina Fisher risulta particolarmente interessante perché permette di comprendere meglio quei clienti che pur decidendo di intraprendere una psicoterapia ne sembrano ‘spaventati’, perché magari oscillano tra un desiderio di vicinanza e la paura della relazione terapeutica; problematica analoga a quella che presentano in genere nei rapporti interpersonali. Pertanto, una difficoltà dell’intervento nasce in quanto la modalità relazionale del paziente, che in qualche modo è alla base della sua sofferenza, è la stessa che ostacola il processo di cura.

Risulta importante disporre di una cornice teorica che permetta di comprendere come aiutare i pazienti quando a causa dei vissuti emotivi complessi ed ambivalenti che questi avvertono può risultare difficile utilizzare lo strumento principale della psicoterapia: la relazione terapeutica.

Una delle sfide per ogni terapeuta dovrebbe essere provare a ricercare i motivi sottostanti alla mancanza di progressi e/o agli insuccessi che si possono verificare nell’ambito di una psicoterapia.

Sebbene in Guarire la frammentazione del sé Janina Fisher spieghi i passaggi per portare il paziente a dialogare con le parti bambine può risultare difficile comprendere come si può svolgere questo tipo di intervento (del resto la Fisher stessa illustra le difficoltà che possono avere i terapeuti e i pazienti); ma gli esiti positivi che vengono riferiti meritano di essere presi in esame.

L’autrice racconta, a questo proposito, come applicando lo schema di intervento presentato abbia ottenuto buoni successi anche con pazienti molto gravi seguiti presso i Dipartimenti di Salute Mentale del Massachusetts e del Connecticut rilevando che

(…) con un modello di trattamento organizzato attorno alla scissione e alla compartimentazione connesse al trauma questi pazienti riuscivano a iniziare a stabilizzarsi, a vivere fuori dalle mura istituzionali e a considerare i loro attacchi al corpo come l’intrepido tentativo di una parte di guadagnare un rapido e immediato sollievo dalle dolorose memorie implicite di altre parti.

Colore che vince non si cambia! – Psicologia dei colori e competizioni sportive

È possibile cambiare il risultato di una gara solo grazie al colore della maglia indossata o è pura scaramanzia? Il colore rosso aiuta a vincere? Scopriamo insieme quali sono i fattori che si nascondo sotto questo strano fenomeno..

Giulia Marton, Laura Vergani – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

La caldissima serata di Istanbul

È il 25 maggio del 2005. A Istanbul fa caldo. Molto caldo. 
Quella che sta per andare in scena allo stadio Atatürk non è una partita come le altre: è la finale di Champions League. Una sfida che, per ragioni che sfuggono a ogni spiegazione o considerazione puramente tecnico-tattica, sarà destinata a rimanere nella storia. 
Di fronte ci sono due delle squadre più blasonate in Europa: il Milan e il Liverpool. 
Gli inglesi arrivano da sfavoriti: il loro cammino non è stato privo di difficoltà, ma grazie ad una grande compattezza di squadra sono giunti in fondo. Ma dall’altra parte c’è uno squadrone: è semplicemente il miglior Milan del terzo millennio. Molto più forte di quello che due stagioni prima aveva vinto a Manchester la Champions contro la Juventus, più forte anche di quello che due anni dopo la rivincerà proprio contro il Liverpool.

Bianco contro rosso

Il Milan, come in ogni finale, gioca con la maglia bianca, mentre il Liverpool indossa la solita divisa rosso fuoco.

È quasi religioso il silenzio che accompagna gli istanti prima della partita. Una partita che ogni calciatore sogna di giocare; una partita che ogni tifoso sogna di guardare.

Ed è il fischio d’inizio.

Non è passato neanche un minuto quando Kakà si guadagna un calcio di punizione. Batte Pirlo, si inserisce Maldini da dietro e fa 1-0 col destro. Con 51 secondi, è il gol più veloce di sempre in una finale. Si mette tutto bene per il Milan, che gioca un calcio sublime: Kakà è imprendibile, Shevchenko incontenibile mentre Pirlo e Seedorf dominano il centrocampo. Dopo un gol regolare annullato a Shevchenko, il Milan trova comunque il raddoppio: da Kakà a Sheva a Crespo, che a due passi dalla porta deve solo appoggiare in rete. Al 43’ ecco la terza perla: Kakà dribbla un avversario con semplicità ed efficacia e trova il filtrante profondo per Crespo. L’argentino non la deve neanche controllare: con un delizioso tocco firma la doppietta personale. Più di cosi, era difficile fare: è l’apoteosi. Milan 3 e Liverpool 0. Finisce il primo tempo, e quando le squadre rientrano in campo dopo l’intervallo, la Coppa sembra davvero una formalità per il Milan. E invece, la ripresa mostra un’altra realtà.

I sei minuti più famosi della storia del calcio

Nei primi momenti il Milan controlla il ritmo, ma al 9’ iniziano i sei minuti più famosi della storia del calcio moderno. Sei minuti difficili da spiegare, impossibili da comprendere. Riise crossa dalla sinistra e un Gerrard solissimo trova il 3-1. Due giri di lancette e Dida non si fa trovare pronto sulla rasoiata da fuori di Smicer: 3-2. Il Milan – e ogni tifoso rossonero – inizia a preoccuparsi. Altri quattro minuti e si aprono le porte del baratro: Gattuso stende in area Gerrard. Dida para il rigore di Xabi Alonso, ma il centrocampista spagnolo segna sulla ribattuta e rimette il conto in parità.

3-3. 
Da lì in poi i rossoneri in bianco riprendono la partita in mano, senza però graffiare. Stessa storia anche nei tempi supplementari, con il Liverpool in difesa e il Milan stabilmente nella metacampo inglese. E ciò che succede al 117’ è il simbolo di tutta la serata: Sheva va di testa a botta sicura, Dudek compie il miracolo, e sulla ribattuta dello stesso Shevchenko, il tiro trova – non si sa come – il braccio del portiere polacco che si stava rialzando. Lì, probabilmente, il Milan perde la partita.

Una pioggia di coriandoli. Rossi.

Dopo, tutto quello che succede è quasi normale. Al fischio finale, sul 3 a 3, si va ai rigori. Il Milan ne sbaglia tre su cinque. Il Liverpool è campione d’Europa e festeggia sotto un tripudio di coriandoli rossi. 
Una rimonta pazzesca. Impronosticabile, leggendaria.

Come è stata possibile?

Tanti addetti ai lavori hanno cercato di dare una risposta a qualcosa che, dal punto di vista sportivo, tecnico e tattico, sfugge ad ogni spiegazione. E allora ci si appiglia ad altro. Chi, come Crespo, parla di destino. Dudek invece rivelò di aver chiesto l’aiuto dell’allora appena scomparso Papa Giovanni Paolo II.

Cosa è vero? Forse tutto, forse niente.

Ma forse una spiegazione c’è.

Le Olimpiadi di Atene

Russell Hill e Robert Barton sono due antropologi, professori e ricercatori dell’Università di Durham, nel Regno Unito. Secondo alcuni la patria del calcio ma, almeno all’inizio, il calcio non c’entra.

Il 19 maggio 2005, esattamente pochissimi giorni prima della finale di Istanbul, sulla rivista Nature viene pubblicato un articolo che riporta la loro firma (Hill & Barton, 2005). L’ipotesi è che l’abbigliamento di colore rosso possa influenzare il risultato nelle competizioni fisiche.

Come dicevamo, il pallone per il momento non c’entra nulla. C’entrano i Giochi Olimpici del 2004 che richiamano ad Atene gli sportivi professionisti più forti del mondo, compresi quelli delle categorie di lotta libera, lotta greco-romana, pugilato e teakwondo. A loro, prima di ogni incontro, viene casualmente assegnata una divisa, uguale ma di colore diverso: rosso o blu.

Se il colore non ha effetto sull’outcome delle competizioni, allora il numero dei vincitori che vestono il colore rosso dovrebbe essere statisticamente indistinguibile dal numero di vincitori che vestono di blu – scrivono Hill e Barton.

Nel paese che ha dato i natali alle Olimpiadi, i due antropologi, blocchetto dei risultati alla mano, analizzano i pattern di vittorie e sconfitte nelle quattro discipline.

E quello che scoprono ha un che di sorprendente.

Il rosso vince, alle Olimpiadi…

Sui campi da gioco illuminati dalla fiamma della torcia olimpica, gli atleti con indosso una casacca rossa ottengono – con un risultato statisticamente significativo – un maggior numero di vittorie rispetto a quante ne ottengono gli avversari vestiti di blu. Ciò è vero per tutti e quattro gli sport, nel corso di tutti i round e per tutte le categorie di peso.

Ed è vero anche per il pallone?

…e anche nel calcio

Sempre Hill e Barton presentarono i risultati di una ricerca svolta durante gli Europei di calcio del 2004 (Hill & Barton, n.d.). Si, quelli giocati in Portogallo e vinti, per la prima e storica volta, dalla nazionale greca. I due antropologi britannici analizzarono le partite di cinque squadre che per i loro match alternavano una divisa di colore rosso con una di colore diverso.

E quindi? Quando i giocatori di Croazia, Inghilterra, Lettonia, Repubblica Ceca e Spagna erano di rosso vestiti ottenevano risultati significativamente migliori nei loro match. Ma c’è di più. Hill e Barton notarono anche che segnavano più goal, costringendo i loro avversari a giocare in difesa.

Il rosso vince, dunque. Nei match di combattimento e nelle partite di calcio. Anzi, nei campionati.

Successo a lungo termine

Ad analizzare i risultati delle partite casalinghe dei team del campionato inglese di calcio, dalla seconda Guerra Mondiale fino al nuovo millennio, sono stati, ancora una volta, Barton e Hill insieme ad altri due studiosi, Attrill e Gresty (Attrill, Gresty, Hill & Barton, 2008). Le squadre vestite di rosso, nella storia del calcio inglese, hanno dunque migliori risultati casalinghi e si sono laureate campioni più spesso delle altre. Risultati che supportano l’ipotesi iniziale degli autori, cioè che divise di colore rosso influirebbero sul successo a lungo termine delle squadre.

Più e meno goal

Il rosso vince, in attacco e anche in difesa.

Questa volta il focus è sui portieri, che, secondo un articolo di Greenless, Eynon e Thelwell (Greenlees, Eynon & Thelwell, 2013), potrebbero avere un alleato nel colore della divisa indossata.

Nella loro ricerca, i tre autori hanno infatti esaminato ben 40 giocatori di calcio, pronti a battere un calcio di rigore. A difendere i pali, portieri con una divisa nera, blu, verde, gialla oppure rossa. E – ovviamente – i giocatori che fronteggiavano un portiere vestito con il colore della passione hanno segnato un numero minore di gol.

Campi reali e campi virtuali

Che il rosso faccia vincere, dunque, l’abbiamo capito. Ma l’effetto si esaurisce “solo” sui campi da gioco reali oppure si può estendere anche a quelli virtuali?

Si può sempre testare la propria abilità direttamente dal divano, con un “multiplayer first-person-shooter (FPS) computer game”. lie, Ioan, Zagrean e Moldovan (2008) hanno analizzato i risultati di più di mille match giocati “virtualmente”. E le squadre virtuali con una maglietta rossa hanno risultati realmente migliori rispetto a quelle vestite di blu.

Ma perché?

Negli anni sono numerosissimi gli studi che si sono susseguiti su questo argomento. Tanti gli autori che hanno cercato di approfondire il ruolo dei colori nelle performance sportive degli atleti, con diversi risultati e anche con diverse spiegazioni.

Dopo aver visto i risultati di questi studi, possiamo in particolare chiederci perché il rosso potrebbe influenzare il risultato delle competizioni. 
Hill e Barton citano alcuni studi che evidenziano il valore della colorazione rossa in alcuni animali, come legata al testosterone e alla dominanza maschile e anche come “segnale di qualità maschile”.

Negli uomini, inoltre, il rosso è associate alla rabbia: quando ci arrabbiamo, infatti, aumenta il flusso sanguigno e dunque la colorazione rossa. Dunque, secondo Hill e Barton, durante le competizioni aggressive, la colorazione rossa può essere associata ad una “dominanza relativa”.

Si pensa che il colore possa influenzare, nell’uomo, l’umore, l’emozione e l’aggressività espressa, ed è un elemento riconosciuto di segnalazione nelle interazioni competitive in molte specie non umane. Ma non è stato finora preso in considerazione come fattore nelle competizioni umane. Data l’ubiquità della competizione aggressiva nelle società e nella storia umane, i nostri risultati suggeriscono che la psicologia evolutiva del colore sarà probabilmente un campo fertile per ulteriori indagini. Anche le implicazioni per i regolamenti che regolano l’abbigliamento sportivo possono essere importanti – concludono Hill e Barton.

Psicologia e colori

Come accennato prima, negli ultimi anni sono numerosi gli studi che approfondiscono questo argomento e che, più in generale, si focalizzano sul legame tra colori e funzionamento psicologico.

In una recente review della letteratura, Elliot (2015) ha analizzato questo tema dal punto di vista teoretico ed empirico, citando anche tra le diverse aree di ricerca il colore e la performance atletica. Elliott sottolinea il fatto che colore e funzionamento psicologico è una tematica promettente, in cui la ricerca è ancora agli esordi con la necessità di proseguire il lavoro. Dall’altro lato, prosegue anche la ricerca sulla natura stessa del colore. Come spiegato dal professor Riccardo Manzotti, docente di Filosofia teoretica all’Università IULM di Milano, in un’intervista concessa qui su State of Mind: “oltre 300 anni dopo il testo di Newton (1704) non sappiamo ancora in modo definitivo che cosa sia il colore”.

Rosso vincente non si cambia, ma solo a volte

Mentre la ricerca prosegue il suo lavoro, possiamo ancora toglierci una curiosità.
Davvero il colore rosso è il colore della vittoria?

Basta indossare una maglietta rossa per ottenere una vittoria olimpica? Per rimontare tre gol in una finale e alzare al cielo la coppa di Champions League? O semplicemente per diventare il campione di un torneo virtuale giocato con gli amici?

Restando sulla ricerca di Hill e Barton (2005), pubblicata su Nature nel 2005, il rosso vince. Ma solo a volte.

Come scrivono gli stessi autori, e come riportano nel grafico allegato alla loro ricerca

Dato l’indubbio ruolo degli altri fattori, come abilità e forza, è vero simile che il vantaggio dato dal colore rosso determinerà il risultato solo nelle competizioni relativamente simmetriche.

Dunque, solo nelle condizioni di parità e simmetria, maglietta e pantaloncini rossi possono dare quel quid in più e portare alla vittoria.

Solo nelle competizioni tra individui di simile abilità ci sono stati significativamente più vincitori rossi che blu, con il vantaggio dato dal colore rosso che sembra declinare quando l’asimmetria tra l’abilità nelle competizioni aumenta – scrivono Hill e Barton.

Prima di correre a cambiare la divisa della propria squadra di calcetto, è meglio dunque continuare a riporre fiducia nel classico allenamento, nell’impegno e nello sforzo sul campo da gioco.

Attacchi di panico: la paura è reale, il pericolo non lo è

Non è raro, ancora oggi, che i disturbi mentali siano posti in secondo piano rispetto a quelli fisici, ma qualsiasi persona abbia vissuto uno o più attacchi di panico sa quanto possano essere spaventosi e invalidanti.

 

Saper riconoscere le emozioni

Quello che maggiormente contraddistingue la specie umana è l’incredibile naturalezza nella modalità d’interazione sociale e le emozioni ne rappresentano un aspetto basilare, permettendo la comunicazione degli stati d’animo, la classificazione e la valutazione delle situazioni. Nel corso dell’evoluzione, l’uomo ha imparato a manifestare le proprie emozioni mediante il linguaggio verbale pur mantenendo modalità espressive più arcaiche.

La paura e l’ansia possono essere esperite nello stesso momento, i sintomi si sovrappongono ma l’esperienza di tali emozioni si differenzia in base alla situazione. Sperimentiamo la paura di fronte una minaccia conosciuta o compresa, mentre l’ansia deriva da una minaccia sconosciuta o poco definita. Di fronte a un segnale di pericolo o di allerta il nostro corpo si prepara a fuggire o a rimanere per combattere. La paura genera ansia che a sua volta causa la paura (Siegel, 2013). In realtà, l’ansia può definirsi una forma più elaborata di paura, che fornisce all’individuo una maggiore capacità di adattamento e pianificazione per il futuro.

E quindi, quando l’ansia può definirsi patologica? Se interferisce con la capacità di fronteggiare al meglio le sfide quotidiane: se ci troviamo di fronte un ghepardo, l’istinto alla sopravvivenza ci fa mettere al sicuro o scappiamo; in ugual modo se proviamo la paura di fallire possiamo essere spinti a fare meglio, ma se la sensazione è troppo forte, possiamo persino smettere di provare (Steimer, 2002).

Come capire se si tratta di un disturbo di panico

Vi è mai capitato di provare all’improvviso un’intensa ansia e paura, in assenza di una vera minaccia esterna? Se la risposta é affermativa, probabilmente avete sperimentato un attacco di panico, il quale si verifica quando il normale meccanismo del cervello per reagire a una minaccia viene usato impropriamente.

Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5), un attacco di panico è caratterizzato da quattro o più dei seguenti sintomi: palpitazioni, battito cardiaco accelerato; sudorazione; tremori fini o grandi scosse; dispnea o senso di soffocamento; sensazione di asfissia; dolore o fastidio al petto; nausea o disturbi addominali; vertigine o svenimento; brividi o forte calore; sensazioni di torpore o di formicolio; sensazione di irrealtà o distacco da se stessi; paura di perdere il controllo o di impazzire; paura di morire. In seguito ad un attacco di panico, per un mese o più, il timore di poter rivivere tali sensazioni può indurre a una significativa variazione del comportamento abituale e/o all’evitamento di situazioni ritenute non familiari, quindi potenzialmente rischiose. Gli attacchi di panico possono essere attesi o situazionali se abbinati a un evidente elemento scatenante o al contrario essere inaspettati quando non è possibile rintracciare una chiara causa scatenante.

In generale, è possibile sperimentare anche un singolo attacco di panico isolato tale da non determinare un disturbo di panico (Asmundson et Al., 2014). La diagnosi di disturbo di panico deve poter escludere altre possibili cause mediche di sintomi quali il dolore toracico, la frequenza cardiaca elevata o la difficoltà a respirare senza trascurare il panico come una potenziale causa.

Attacchi di panico: le terapie

La perdita di sicurezza e protezione conseguente al disturbo di panico possono far sentire l’individuo privato della propria libertà.

Come per altri disturbi è importante comprendere lo sviluppo evolutivo del soggetto, al fine di avere un quadro diagnostico esaustivo.

Il trattamento raccomandato per gli attacchi di panico comprende la psicoterapia e i farmaci. Questi ultimi devono essere assunti in modo assiduo per almeno dodici mesi prima della riduzione, per evitare una possibile ricaduta (Locke et Al., 2015).

Come menzionato, gli attacchi di panico possono verificarsi in modo del tutto inaspettato procurando una risposta soggettiva di paura o impotenza. All’interno di una relazione terapeutica è possibile acquisire una maggiore consapevolezza di sé, dei pensieri e delle paure irrazionali (morire, svenire, imbarazzarsi) che emergono durante un attacco di panico. La psicoterapia è uno spazio mentale e fisico che permette la rielaborazione delle informazioni, dei pensieri e dei ricordi non elaborati. Le nostre emozioni e i nostri pensieri come le onde del mare sono in continuo movimento, provare a controllarli può essere un enorme dispendio di energia che di rado fornisce effettivi benefici. Possiamo, piuttosto, imparare a navigare ovvero a monitorare i nostri stati psichici mentre si presentano, mantenendo una piena consapevolezza (Chambless D. et Al, 2017).

Anche il camminare può avere un effetto positivo sull’ansia, sull’umore in generale e favorisce la riflessività. Uno studio giapponese ha scoperto che passeggiare nei boschi, farebbe diminuire i livelli di cortisolo e la frequenza cardiaca. Il tempo all’aperto può modificare il modo in cui percepiamo noi stessi e per usufruire di tali benefici non è necessario essere degli esperti escursionisti. Persino il guardare il verde attraverso una finestra, favorisce la produttività, diminuisce lo stress e l’aggressività (Yamaguchi et Al., 2006).

Netflix, SpaceX e start-up innovative: tra il timore e l’entusiasmo degli investitori

L’Università della California-Riverside e la School of Management di Rotterdam hanno messo appunto uno studio per comprendere le motivazioni ad investire nelle start-up con idee altamente innovative e visionarie.

 

Gli investitori possono essere categorizzati in relazione a due strategie di investimento. La prima si concentra sullo storico e sul successo agli esordi dell’azienda. La seconda invece si focalizza su cosa l’impresa potrebbe diventare e quindi i probabili guadagni che gli imprenditori potrebbero ottenere.

Netflix, Tesla e SpaceX: start-up visionarie

Le start-up altamente innovative, con vision che segnano il mercato e la società introducendo cambiamenti fondamentali, ricadono in questa categoria. Tra i vari esempi possiamo citare Netflix che ha stravolto il settore del noleggio video, oppure Elon Musk con i suoi progetti come Tesla e/o SpaceX con la probabile esplorazione su Marte.

Nonostante questa distinzione ben definita, ci sono stati pochi studi che hanno indagato se gli investitori sono ben disposti o meno al finanziamento verso il secondo tipo di start-up. Gli autori di questo studio appartenenti alle Università sopracitate, hanno coinvolto 918 start-up in Israele. Sono state altresì reclutate 203 persone con esperienze di investimenti pregresse al fine di intervistarle sulla loro disposizione e motivazione nell’investire su start-up altamente innovative.

Netflix, Tesla e SpaceX: per attrarre investitori è meglio non risultare troppo visionari

Dai risultati dello studio risulta che gli investitori hanno una maggiore tendenza ad investire in queste realtà anche se nel primo round di investimenti sono poco generose con basse cifre di partenza. Questo perché ciò che viene proposto dalle start-up altamente innovative, da una parte è entusiasmante per l’approccio visionario e innovativo del progetto, ma, dall’altra, risulta più rischioso e quindi si ha una maggiore cautela rispetto alla cifra da investire.

Concludendo, si può riflettere sul fatto che nel caso si sia alla ricerca di ingenti somme di denaro per realizzare un progetto in fase di start-up, i messaggi veicolati inerenti al progetto non dovrebbero risultare eccessivamente visionari e dirompenti.

 

Training di Intelligenza emotiva: efficaci nella prevenzione del burnout

Alcuni ricercatori della Loyola University di Chicago Stritch School of Medicine hanno dimostrato come una formazione dedicata agli studenti di medicina possa migliorare la loro intelligenza emotiva e ciò potrebbe aiutarli a prevenire il rischio di burnout.

 

L’intelligenza emotiva è la capacità di riconoscere e comprendere le emozioni in se stessi e negli altri e di usare questa consapevolezza per gestire il comportamento e le relazioni. Le persone con un’elevata intelligenza emotiva utilizzano strategie di coping più efficaci, che consentono loro di essere più resilienti e più capaci di gestire lo stress. A differenza del quoziente intellettivo (QI), l’intelligenza emotiva può essere insegnata e quindi incrementata (Salovey & Mayer, 1990; Goleman, 1996).

Il burnout indica un livello di stress provato durante l’attività lavorativa che determina un logorio psicofisico ed emotivo. Nel personale medico, il burnout può manifestarsi con senso di sfinimento, cinismo, distacco dal lavoro e sensazione di inefficacia; è un fenomeno sempre più frequente e oggi ha raggiunto livelli allarmanti: studi precedenti (Wessells, Kutscher, Seeland, Selder, Cherico, Clark, 2013) hanno riscontraro che il burnout colpisce almeno la metà dei medici.

Lo studio

Lo studio in questione ha incluso 11 medici in formazione dell’ospedale di Loyola che hanno completato un questionario sull’ intelligenza emotiva (Bar-On Emotional Quotient Inventory 2.0, EQ-i 2.0), prima e dopo aver frequentato un corso di formazione sulle sotto-abilità dell’ intelligenza emotiva. I medici erano professionisti già laureati, impegnati nello svolgimento del loro tirocinio post-lauream in un ospedale per periodi che variano dai 3 ai 4 anni.

In seguito alla formazione è stato notato un aumento significativo dei punteggi dei medici al questionario, compresi la gestione dello stress e il benessere generale.

Secondo i ricercatori quindi l’insegnamento delle abilità di intelligenza emotiva può migliorare le capacità di gestione dello stress, promuove il benessere e quindi può contribuire a prevenire il burnout nei medici.

I laboratori di intelligenza emotiva inseriti nel curriculum formativo dei medici tirocinanti sono focalizzati sulla consapevolezza di sé (essere consapevoli delle proprie emozioni), autogestione (capacità di raccogliere emozioni in altri) e abilità sociali. L’intervento educativo includeva inoltre insegnamento didattico, discussioni e materiale video sull’argomento.

Da questo studio ne deriva dunque un prototipo di laboratorio di promozione dell’ intelligenza emotiva tale da poter essere inserito nei programmi delle scuole di medicina per promuovere il benessere e prevenire il burnout.

Le conseguenze della separazione dalla famiglia in bambini istituzionalizzati e migranti

Molti bambini migranti sperimentano esperienze di abbandono, stress e una bassa stimolazione sociale e cognitiva. Le evidenze dimostrano un reale rischio in termini sociali e psicologici legato alla separazione a lungo termine dai caregivers in questi bambini.

 

Un recente studio, pubblicato su Jama Psychiatry, pone l’attenzione sulla possibilità di sviluppare disturbi psicopatologici associati alla separazione dai familiari, in particolar modo nel periodo di vita adolescenziale.

I risultati dello studio sono rilevanti anche per un aspetto sempre più importante nello scenario sociale contemporaneo: i flussi migratori. Molti bambini migranti sperimentano esperienze di abbandono, stress e una bassa stimolazione sociale e cognitiva. Le evidenze dimostrano un reale rischio in termini sociali e psicologici legato alla separazione a lungo termine dai caregivers in questi bambini.

I dati disponibili derivano dal Progetto di Intervento Precoce di Bucarest che coinvolge i bambini istituzionalizzati negli orfanotrofi rumeni. Il progetto, in inglese Bucharest Early Intervention Project (BEIP) è una collaborazione congiunta tra diverse Università e il Boston Children’s Hospital e si pone come obiettivo principale quello di esaminare gli effetti dell’istituzionalizzazione precoce sullo sviluppo infantile, con particolare attenzione alla crescita fisica, allo sviluppo cognitivo, socio-emotivo e ai legami di attaccamento.

Le prime evidenze mostrano che bambini cresciuti in ambienti istituzionali molto severi, con gravi privazioni sociali e condizioni di abbandono, risultano essere a rischio di problemi cognitivi, depressione, ansia e altri disturbi quali il disturbo della condotta e il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Tuttavia i dati del progetto hanno anche dimostrato che la situazione può migliorare qualora venga effettuato precocemente un intervento di adozione del bambino.

Gli ultimi dati raccolti

L’ultimo studio condotto dal BEIP ha indagato gli effetti dell’istituzionalizzazione sulla salute mentale dei bambini durante il periodo transizionale dall’infanzia all’adolescenza. I ricercatori hanno esaminato lo sviluppo di 220 bambini: 119 avevano una storia pregressa di istituzionalizzazione, di questi circa la metà è stata collocata poi in famiglie affidatarie.

Agli insegnanti e ai genitori affidatari è stato chiesto di completare un questionario riguardante la salute e il comportamento del bambino all’età di 8, 12 e 16 anni. In particolar modo le varie sottoscale indagavano aspetti quali la depressione, l’ansia, comportamenti oppositivi-provocatori, problemi di condotta, aggressività manifesta e relazionale e sintomi dell’ADHD.

I risultati trovati hanno rivelato che i bambini affidati alle famiglie, rispetto a quelli rimasti in istituto, presentavano meno sintomi psicopatologici e in particolar modo, un minor numero di comportamenti esternalizzanti quali violazioni delle regole, discussione con figure adulte, furto o aggressione tra pari. Queste differenze si riscontravano inizialmente all’età di 12 anni e diventavano maggiormente significative a 16 anni, in piena adolescenza.

Per concludere

Lo studio quindi suggerisce che esistono traiettorie divergenti nello sviluppo dei bambini rimasti in istituto rispetto a quelli collocati presso le famiglie affidatarie: queste differenze si traducono in un minor rischio d’insorgenza di psicopatologia e comportamenti problema durante l’adolescenza nei bambini cresciuti in famiglia.

Anche se le condizioni degli orfanatrofi non possono essere paragonate a quelle delle case di accoglienza per i migranti, i ricercatori ritengono che le evidenze trovate suggeriscano l’importanza dell’unione familiare durante i viaggi di migrazione. Durante i flussi migratori infatti molti bambini, giunti nel nuovo paese vengono separati dalla famiglia d’origine e collocati in comunità, sperimentando una condizione di abbandono.

Mark Wade autore dello studio ha affermato:

La nostra ricerca si aggiunge ad una letteratura, ormai lunga, che elenca i rischi correlati alla separazione a lungo termine, dalle figure di attaccamento. Anche se l’argomento è complesso, ciò che possiamo affermare con sicurezza è che un’esperienza precoce di abbandono comporta seri problemi psicopatologici che perdurano, come dimostra il nostro studio, anche in adolescenza.

e ha concluso:

La buona notizia è che se questi bambini vengono collocati in famiglie o comunità con un buon grado di assistenza, questo rischio si riduce. Ciò che appare necessario è che le politiche e i programmi sociali dei governi, in queste situazioni, impediscano la separazione dei bambini dalle figure di riferimento.

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