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Diagnosi e destino (2018) di Vittorio Lingiardi: il valore della diagnosi nella relazione di cura – Recensione del libro

Un meraviglioso libro, Diagnosi e destino (Einaudi Editore) di Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, professore ordinario di Psicologia Dinamica presso l’Università La Sapienza di Roma, che si occupa di una tematica molto cara a tutti i professionisti del settore di cura: la diagnosi.

 

Perché succede così spesso che nonostante i più sinceri sforzi da entrambe le parti il rapporto tra medico e paziente è insoddisfacente e perfino causa d’infelicità?
Michele Balint

 

Diagnosi e destino è un libro diviso in tre capitoli. Il primo, Diagnosi e tormento, pone l’accento sulle sfumature emotive di chi fa diagnosi e di chi la riceve, facendo lunghe riflessioni sull’importanza delle parole e sul peso che esse hanno non solo nel definire ma anche nel delineare prospettive di speranza o di chiusura. Le parole come strumento per raccontare e per comprendere ma anche per ridurre la componente della disperazione. In questa prima parte si apre un’interessante riflessione tra metaforici della malattia e razionalisti, alla ricerca della verità nuda e cruda senza immaginari sociali.

Il secondo capitolo, Diagnosi e difese, tra immagini e citazioni ci conduce nel corpo e nell’anima della diagnosi ponendo l’attenzione su tutte le casse di risonanza emotiva che abitano il paziente e il medico o terapeuta. Qui l’autore, parlando dell’importanza della conoscenza di tali processi interiori, ci ricorda che spesso la cura sta nelle difese che il paziente mette in atto. Guardare alle difese ci consente di seguire l’evoluzione e la trasformazione della malattia nel tempo, attivando anche la prevenzione rispetto al “destino” che si sviluppa post diagnosi.

E infine il terzo capitolo, più complesso o semplicemente più interessante, in cui il terapeuta è spinto a farsi molte domande e a posizionarsi rispetto alle due grandi categorie di chi fa diagnosi e chi dice di non farla. Lingiardi sostiene che sia impossibile non fare diagnosi, perché essa stessa è la bussola per muoverci nel terreno complicato e complesso della psichiatria e delle psicopatologia.

L’importanza della diagnosi

Un libro pieno di richiami e riflessioni, affascinante e delicato che porta il lettore a conoscenza delle tesi e della complessità di una cosa apparentemente semplice e di fatto profondamente piena di insidie, tecniche e procedure.

Sigmund Freud nel 1915 sosteneva che il compito di uno psicoterapeuta non fosse solo quello di descrivere dei fenomeni e classificarli, quanto piuttosto concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolgono nella psiche e che diventano una modalità funzionale o disfunzionale a seconda della prospettive da cui le si guarda. I fenomeni psichici come espressione di tendenze dell’individuo orientate verso un fine e che operano insieme o in contrasto. Lo sforzo terapeutico è in tale ottica il raggiungimento di una concezione dinamica dei fenomeni psichici.

Tutti noi prima o poi nel corso della nostra vita riceviamo una diagnosi, un giorno arriva qualcuno seduto dalla parte della scrivania nella posizione di chi osserva che ci dirà qualcosa in termini diagnostici che cambierà la nostra vita in meglio o in peggio, ci farà una diagnosi che ci accompagnerà per un tratto della vita o per sempre, e che magari modificherà il nostro modo di guardare noi stessi o il futuro.

La parola diagnosi deriva dal greco e significa letteralmente “conoscere attraverso”, quindi essa è prima di tutto un processo di conoscenza che il diagnosticato vive insieme al diagnosticante, sia esso medico, psichiatra , psicoterapeuta , ecc. Tale processo di conoscenza implica fin dall’inizio uno spazio relazionale in cui tale processo si attiva e assieme ad esso si attivano molteplici processi che coinvolgono i due attori: un processo di conoscenza di se stessi, un processo di conoscenza tra l’esaminatore e l’esaminato, un processo di conoscenza tra il soggetto e i farmaci, un processo di conoscenza che implica l’incontro con diverse figure professionali, ma sopratutto l’incontro del soggetto con se stesso, con il suo corpo e tra esso e le sue reazioni alla cura. La stessa malattia può avere effetti diversi su soggetti diversi e questo lascerebbe pensare anche che è importante non sottovalutare, come diceva Ippocrate, quale malattia viene a quale paziente.

In tale ottica sembrerebbe chiaro che la persona, il suo mondo e la sua complessità debbano essere al centro dell’osservazione; non solo i suoi sintomi, che consentono la categorizzazione ma non la comprensione della complessità che abita quello specifico individuo in quanto unico e irripetibile.

La relazione medico-paziente

Perché molti medici o molti psicoterapeuti sembrano sottovalutare o trattare male questo prezioso alleato che è l’individuo con le sue mille sfumature? Perché, come dice Lingiardi: “quando si fa una tac ad un soggetto non ci si preoccupa che non prenda freddo???”

Jon Dhonne sosteneva “la miseria massima della malattia è la solitudine”, e viene naturale chiedersi come il clinico possa aiutare il paziente ad uscire da questa solitudine, determinata dalla presenza di “curatori” dimezzati, che guardano al soggetto senza guardare alle sue componenti psicologiche. Il clinico “intero” non è un medico o un terapeuta perfetto, ma è quello che comprende, che conosce e possiede delle caratteristiche che gli consentano un ascolto empatico del paziente, una visione olistica e la capacità di restituire al paziente e alla sua famiglia non solo una diagnosi e le sue procedure di cura, ma una relazione di alleanza alla quale aggrapparsi e nella quale trovare rifugio nei momenti di paura o di timore. Il medico stesso diventa in tale ottica, la cura e la relazione terapeutica che diventa un “atto terapeutico”.

Diceva Balint:

Il problema reale in un individuo è la malattia di tutta la persona, ed è la diagnosi che consente un passaggio da una situazione “non organizzata “ ad “una più organizzata”; il medico attraverso l’ascolto del paziente riconosce le sfumature anche dentro di sé, attivando una sorta di “controtransfert diagnostico”.

Spesso, sostiene Lingiardi

La malattia descritta nei trattati non coincide con la persona che ne soffre, la cosiddetta evidence-based medicine non basta a rappresentare la realtà clinica, che è più euristica che algoritmica.

avremmo bisogno, come sostiene Rugali “di una teorizzazione sulla medicina in assenza di evidenze”.

Nonostante il progresso e la tecnologia in ambito medico e terapeutico ci offrano infinite possibilità di miglioramento rispetto alla cura, noi non dobbiamo dimenticare quello che è il ruolo della semiotica nella malattia, perché, come dice Lingiardi

La fragilità a cui ci espone la diagnosi è ormai parte di noi, per poco tempo o per sempre. Con sé può portare la possibilità di ripensare la nostra storia e il nostro futuro, il nostro posto nel mondo.

In conclusione

Questo piccolo libro per dimensioni, ma enorme per contenuti, è un dono che ogni clinico dovrebbe ricevere, è uno strumento di lavoro ma anche di riflessione, che ci consente di fare un viaggio cognitivo ed emotivo personale, antropologico e sociale, in questo mondo della diagnosi che ci coinvolge e ci riguarda tutti, indipendentemente dalla posizione da cui osserviamo o siamo osservati.

L’inserimento in classe di un bambino figlio di una coppia omogenitoriale – Le risposte di FluIDsex

Sono un’insegnante della scuola dell’infanzia. A settembre mi occuperò dell’inserimento all’interno della classe di un bambino di una coppia gay. È La prima volta che mi trovo a vivere quest’esperienza. Mi potete consigliare una lettura che mi aiuti ad affrontare questa nuova avventura come insegnante e come persona? Grazie.

 

Buongiorno,

a questo proposito le consiglierei un libro appena uscito quest’anno “Incontrare persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale”.

Nella sezione 4, dal titolo Interventi in ambito scolastico: accogliere, insegnare, promuovere inclusione, può trovare informazioni riguardo le seguenti tematiche:

  • Attenzione a bullismo
  • Attenzione a includere certe tematiche all’interno della classe (non escludendo gli altri bambini e genitori)
  • Non patologizzare la situazione
  • Attenzione al vocabolario usato (es. consegne contenenti padre-madre declinarli a tutte le situazioni)
  • Riflettere sui propri eventuali pregiudizi e stereotipi a riguardo per poterne per lo meno esserne consapevoli

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Appisolarsi durante il giorno aiuta ad immagazzinare informazioni inconsce

Spesso si consiglia di fare un pisolino giornaliero per sentirsi meglio durante la giornata. Il perché ce lo spiegano gli esperti..

 

L’Università di Bristol ha indagato perché fare un pisolino può essere così utile nel promuovere uno stato di benessere. In particolare, è emerso che fare un pisolino ogni giorno può aiutare ad elaborare informazioni in maniera inconsapevole, con ricadute significative sul proprio comportamento e sui tempi di reazione.

La letteratura mostra diverse evidenze circa i benefici del fare un pisolino sulle funzioni cognitive e su come le informazioni vengano elaborate inconsciamente durante questi brevi momenti di sonno. Inoltre fare un pisolino sembra portare anche ad una migliore prestazione in compiti di problem solving, con un miglioramento delle funzioni cognitive al risveglio; in questo caso tuttavia ancora non è chiaro se ciò sia dovuto ad un’azione sui processi cognitivi durante o prima del sonno.

Lo studio

Nello studio condotto presso l’Università di Bristol, ai soggetti sono state presentate informazioni molto brevi per far sì che fossero elaborate inconsciamente attraverso il priming, una tecnica in cui l’esposizone ad uno stimolo influenza una risposta successiva senza che questa intenzione sia cosciente.

Allo studio hanno partecipato 16 soggetti di differenti età. Ogni partecipante doveva svolgere due compiti: il primo con informazioni presentate attraverso il priming ed il secondo, di controllo, in cui i soggetti dovevano dare determinate risposte dopo la visualizzazione sullo schermo di un riquadro rosso o blu.

Sono state realizzate due condizioni sperimentali, alcuni soggetti sono rimasti svegli mentre altri hanno fatto un pisolino di 90 minuti prima di ripetere i compiti. Con l’utilizzo di un EEG che misura l’attività cerebrale, i ricercatori hanno analizzato le differenze nelle risposte dei soggetti in relazione alla risposta prima e dopo il pisolino.

I soggetti assegnati alla condizione in cui era possibile dormire, presentavano un miglioramento nella velocità di elaborazione delle informazioni nel compito in cui le informazioni venivano presentate attraverso il priming ma non in quello di controllo. Di conseguenza, sembrerebbe che il sonno aiuti l’elaborazione delle informazioni implicite.

Dai risultati si evince quindi che ci sia un potenziamento dell’elaborazione mentale dettato dal sonno stesso e che ciò potrebbe ottimizzare le performance in tasks di problem-solving e di altra tipologia.

Concludendo, ciò che suggerisce questo studio è come le informazioni acquisite durante il periodo di veglia possano essere potenzialmente elaborate durate il sonno in modo qualitativamente migliore e più profondo, anche se in futuro per poter avere maggior conferme di questo fenomeno si dovranno effettuare ricerche con un campione più ampio, confrontando come ciò possa variare in relazione all’età, indagando cosi i meccanismi neurali sottostanti.

Si sdrai sul lettino e mi faccia un ABC: l’integrazione assimilativa in psicoterapia

L’ integrazione assimilativa è l’incorporazione di tecniche appartenenti a una terapia “ausiliaria” (in quanto non corrispondente a quella in cui il terapeuta si è formato) nella terapia primaria (quella in cui un terapeuta si è specializzato).

 

Sono diverse le variabili che portano uno psicoterapeuta a preferire uno specifico orientamento ad altri, tuttavia, compiuta la scelta, non si esclude la possibilità che il terapeuta possa rivolgere lo sguardo a tecniche provenienti da altri orientamenti con l’intento di proporle in seduta al paziente, soprattutto in quei casi in cui l’approccio psicoterapico di appartenenza si è rivelato poco efficace. Affinché ciò sia possibile, oltre alla scontata e adeguata formazione sulle tecniche che si desidera importare dagli altri orientamenti, ci sono dei precisi accorgimenti da rispettare, in virtù della tutela del paziente in primis ma anche della stessa Psicoterapia. E’ a questo proposito che l’ integrazione assimilativa entra in gioco.

Integrazione assimilativa

L’ integrazione assimilativa adotta una posizione contestualista (Pepper, 1942), in cui una tecnica terapeutica non resta scevra dalle influenze dell’approccio in cui viene importata: essa infatti deriva il suo significato all’interno delle teorie dell’orientamento terapeutico in cui è impegnata. Ad esempio, la tecnica delle due sedie, tecnica appartenente alla terapia gestaltica, impiegata da un terapeuta cognitivo-comportamentale può avvicinarsi più ad un allenamento di assertività che di risoluzione del conflitto esperienziale, scopo per cui è tipicamente impiegata nella terapia della Gestalt (Messer, in Lazarus & Messer, 1991).

Quindi, quando una procedura clinica che è stata concettualizzata e praticata all’interno di una terapia viene successivamente incorporata in una terapia di diverso orientamento, è importante considerare:

  1. la sua collocazione concettuale all’interno del nuovo quadro terapeutico (il suo aspetto accomodativo);
  2. il suo significato clinico all’interno del nuovo contesto (il suo aspetto assimilativo);
  3. e la validità empirica della sua efficacia (il suo aspetto scientifico) nel nuovo contesto.

Integrazione teorica, eclettismo tecnico e fattori comuni

Verrebbe quindi da chiederesi quale differenza ci sia tra l’utilizzo nel proprio studio di “tecniche importate”, magari da mettere nella cassettina dei nostri attrezzi pronte per essere tirare fuori all’occorrenza, e l’integrazione assimilativa. Per non creare confusione al lettore, è bene a questo riguardo, e prima di entrare nel vivo dell’argomento, distinguere tra integrazione teorica, eclettismo tecnico e fattori comuni.

  • L’integrazione teorica tenta una sintesi concettuale di diverse psicoterapie alla ricerca di un nuovo quadro teorico sovra-ordinato che può guidare significativamente la ricerca e la pratica. Lamproupolos (2001) ne sottolinea tre limiti: sebbene l’obiettivo finale e ideale dell’integrazione teorica sia l’unione di quante più teorie possibili (se non tutte), i tentativi esistenti sono riusciti ad integrare solo due o tre teorie al massimo. Un secondo limite è che, attraverso tale integrazione, ci si può concentrare solo su specifici disturbi psicologici e non su tutte le categorie diagnostiche. Una terza e maggiore debolezza dei modelli integrativi teorici esistenti è l’integrazione di solo quegli aspetti delle teorie pure che sono compatibili l’uno con l’altro. A tutto ciò vanno aggiunti gli scarsi riscontri empirici. Per questo motivo gli studiosi si sono via via spostati verso l’eclettismo tecnico.
  • L’eclettismo tecnico è un approccio empirico che mira alla combinazione delle tecniche più efficaci esistenti in terapia, indipendentemente dalla loro origine teorica, in modo tale da massimizzare i risultati terapeutici per uno specifico paziente nel minor tempo possibile. Eclettismo e abbinamento prescrittivo, basati sulla raccomandazione di ricerca di Paul (1967), secondo cui ci si deve sempre domandare “Quale trattamento, da parte di chi, è più efficace a livello individuale con quello specifico problema, e in quale serie di circostanze?“. Diverse ricerche hanno provato a fornire una struttura empiricamente validata dei criteri da seguire nell’abbinamenti prescrittivo. Un lavoro senza dubbio utile e auspicabile ma, come ricorda Lamproupolos (2001) molto difficile da realizzare e dal quale siamo ancora ben lontani.
  • L’approccio basato sui fattori comuni è la ricerca di elementi comuni in tutte le terapie efficaci indipendentemente dalla terminologia variabile. Questo approccio ha prodotto diverse liste di fattori comuni proposti (vedi Grencavage & Norcross, 1990), ha facilitato un riavvicinamento tra terapie diverse e ha dato vita a un filone di ricerca considerevole (Hubble, Duncan e Miller, 1999; Wiser, Goldfried, Raue e Vakoch, 1996). Tuttavia, ci sono molte importanti questioni metodologiche che oscurano il suo ulteriore sviluppo. Uno di questi punti deboli è che ciò che appare superficialmente essere comune tra due o più teorie, in realtà nasconde importanti differenze a uno sguardo teorico più attento (Messer & Winokur, 1980; Safran & Messer, 1997). L’approccio dei fattori comuni è dunque limitato in quanto rappresenta un consenso in un livello astratto e fornisce solo un quadro generale per l’integrazione in psicoterapia che non può guidare adeguatamente la pratica integrativa e la ricerca (Lampropoulos, 2000).

Integrazione assimilativa: un ponte tra integrazione teorica ed eclettismo tecnico

L’ integrazione assimilativa è stata suggerita da Messer (Lazarus & Messer, 1991; Messer, 1992) come alternativa all’eclettismo tecnico. Tale tipo di integrazione infatti prevede che, quando le tecniche derivanti da diversi approcci teorici sono incorporate nel proprio orientamento teorico principale, il loro significato interagisce con il significato della teoria ospitante. In questo modo sia la tecnica importata che la teoria preesistente si trasformano mutualmente e sono modellate nel prodotto finale, ovvero il nuovo modello integrativo assimilativo.

Messer spiega cosa potrebbe accadere nella mente del terapeuta che tende ad assumere la prospettiva dell’ assimilazione integrativa: “Sono stato formato e ha fatto pratica secondo uno specifico approccio teorico che mi piace e in cui credo, che è relativamente efficace con la maggior parte dei pazienti e con molte problematiche. Inoltre è piuttosto difficile, se non impossibile, integrare tutti gli aspetti della mia teoria a tutti gli aspetti di una o più delle altre teorie (come nel caso dell’integrazione teorica) o trattare scientificamente tutti i pazienti e tutte le problematiche in tutte le situazioni con il miglior intervento empiricamente validato (cioè, raggiungere l’eclettismo tecnico). Pertanto, manterrò la mia teoria originale incorporando anche quegli interventi empiricamente supportati nelle altre terapie: questo ripagherà le debolezze del mio orientamento attraverso quegli aspetti teorici compatibili con il mio orientamento ma previsti in esso, cercando di ottenere un risultato teoricamente coerente e clinicamente significativo”. In questo senso, l’ integrazione assimilativa può essere vista come un ponte tra due visioni principali ma contrastanti dell’integrazione in psicoterapia: l’integrazione teorica e l’eclettismo tecnico. L’ integrazione assimilativa può essere il modo migliore di integrare la teoria e le scoperte empiriche e di ottenere la massima flessibilità ed efficacia sotto un quadro teorico guida.

Integrazione assimilativa: i criteri a cui prestare attenzione

Tuttavia, anche nel caso dell’ integrazione assimilativa, ci sono degli criteri a cui prestare attenzione:

1. Il “dove” dell’ assimilazione: l’orientamento terapeutico di appartenenza del clinico dovrebbe avere numerose componenti empiricamente validate, prima di assimilare altre tecniche in esso.
2. Il “cosa” dell’ assimilazione: le tecniche da assimilare alla propria teoria devono essere supportate empiricamente. Ovviamente, la ragione per assimilare altre tecniche o interventi nella propria teoria dovrebbe essere quella di affrontare problemi specifici per i quali tali interventi o tecniche sono stati convalidati e per i quali la teoria primaria si è mostrata “carente” o non adeguata.
3. Il “quando” dell’ assimilazione: nella selezione delle tecniche appropriate da assimilare e utilizzare in seduta, bisogna prestare attenzione altresì al momento idoneo ad introdurre tali tecniche al paziente. Anche in questo caso, bisogna far riferimento ai dati empirici presenti in letteratura.
4. Il “come” dell’ assimilazione: il modo in cui viene effettuata l’ assimilazione richiede un’attenta riflessione da parte dei terapeuti di ciascun orientamento teorico. Non tutte le tecniche possono essere facilmente assimilate nella propria teoria, soprattutto se queste sono contraddittorie o addirittura contrarie alla visione proposta dall’approccio di riferimento (Messer, 1989).
5. La coerenza dell’ assimilazione: in linea col punto 4, il prodotto finale dell’ integrazione assimilativa messa in atto dal terapeuta deve essere teoricamente compatibile con i principi della teoria primaria, senza alterarla del tutto (Safran e Messer, 1997). In caso contrario, il risultato sarà o una nuova terapia teoricamente integrativa; o un eclettismo tecnico (Lazarus, 1992, 1995); oppure un guazzabuglio contraddittorio inutile o addirittura dannoso nella pratica.
6. L’efficacia dell’ assimilazione: le terapie effettuate tramite integrazione assimilativa vanno valutate empiricamente e (ri)validate. Il nuovo prodotto dell’ assimilazione deve essere testato in modo qualitativo e/o quantitativo attraverso nuovi studi, anche su caso singolo.

Sebbene gli interventi frutto di integrazione assimilativa possano dimostrarsi efficaci, è importante che il cambiamento di orientamento sia considerato attentamente dal terapeuta in modo tale che in seduta l’intervento avvenga nel modo più fluido e naturale possibile. Se crediamo che tale sforzo integrativo potrebbe cambiare la natura della relazione terapeutica o potrebbe compromettere il benessere del paziente in altri modi, è necessario spiegare a quest’ultimo il significato, nel nuovo contesto, della tecnica che intendiamo adoperare.

Vantaggi e svantaggi dell’ integrazione assimilativa

Il principale vantaggio dell’ integrazione assimilativa è il consentire ai terapeuti di continuare a praticare nel quadro del loro orientamento teorico senza rinunciare ai benefici delle tecniche appartenenti ad altri approcci.

Sebbene con la pratica assimilativa non vengano “minacciate” le convinzioni teoriche fondamentali dell’orientamento di appartenenza, questa aiuta a cambiare le idee periferiche in modo da adattare i propri schemi di terapia alle tecniche importate. Ovviamente, il terapeuta che opta per l’ integrazione assimilativa, non trova alcuna difficoltà in questo; ma anzi sarebbe più aperto a correggere le debolezze del proprio modello, sia nella teoria che nella pratica.

Un altro vantaggio dell’ integrazione assimilativa è quello di offrire un quadro teorico utile a guidare la pratica, in modo più rigoroso e meno dispersivo rispetto all’eclettismo tecnico.

Lo svantaggio principale dell’ integrazione assimilativa è il fatto che comporta il “rischio” di ulteriori aumenti nel numero di psicoterapie. Le 400 terapie diverse riportate da Karasu nel lontano 1986, possiamo facilmente immaginarle in continua crescita e a queste potrebbero aggiungersi i diversi approcci integrativi. Alcuni integrazionisti hanno già sottolineato i pericoli della proliferazione di psicoterapie integrative (ad es. Lazarus, in Lazarus & Messer, 1991): se contiamo i possibili interventi di integrazione assimilativa come modelli separati, i numeri diventerebbero piuttosto sconcertanti.

Avendo parlato di assimilazione il rimando teorico a Piaget viene facile. Secondo lo psicologo, negli individui la conoscenza procede in modo adeguato quando si stabilisce un buon equilibrio tra assimilazione e accomodamento. Potremmo dire lo stesso per il progredire della Psicoterapia?

Gli effetti psicologici della Brexit sugli immigrati europei

Giovedì 23 giugno 2016 la Gran Bretagna ha votato per lasciare l’Unione Europea (UE) con un referendum che ha visto la nazione divisa tra coloro che hanno votato per rimanere all’interno dell’Unione Europea (48%) e quelli che invece hanno optato per Brexit (52%).

Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Lo status dell’economia britannica, del sistema sanitario e dei leader politici si trova in un periodo di incertezza e il cambiamento è perciò inevitabile. Si sono già riscontrati molti cambiamenti da quando Brexit è stata annunciata. La sterlina è scesa al livello più basso dal 1985, David Cameron ha rassegnato le dimissioni da Primo Ministro e Theresa May è il nuovo leader politico del Paese.

Poiché la Gran Bretagna è divisa e l’economia oscilla, molti si preoccupano della futura sicurezza del lavoro e delle finanze. Non sarebbe inaspettato che durante questo periodo le persone provino sentimenti di ansia. L’ansia può svilupparsi infatti da una serie di cause, tra cui stress sul lavoro, tensioni finanziarie e persino cambiamenti politici.

Dopo Brexit, è stata inoltre segnalata un’ondata di crimini di odio e di xenofobia che secondo molti potrebbe essere spiegata come conseguenza del voto a favore di lasciare l’UE, che ha in un qualche modo legittimato un atteggiamento razzista. Le immagini negative di Nigel Farage davanti a un poster raffigurante un ammasso di immigrati e le parole “BREAKING POINT”, “L’UE ha fatto fallire tutti noi” hanno sicuramente contribuito ulteriormente all’aumento della discriminazione contro le minoranze etniche attraverso i media. Tuttavia, sebbene un obiettivo centrale della campagna a favore del “leave” è stato quello dell’anti-immigrazione, non tutti coloro che erano a favore di Brexit erano al contempo favorevoli ad una diminuzione del numero dei migranti. Nonostante ciò, questa vittoria ha determinato la crescita esponenziale di un’ostilità verso gli stranieri europei (e non) che risiedono nel Regno Unito.

Le conseguenze della Brexit sul benessere psicologico

Nel complesso, questo periodo incerto e piuttosto preoccupante può disturbare il benessere psicologico di una persona.

Negli studi degli psicologi in tutto il paese, proprio come nelle case, nei pub e negli uffici, le persone hanno cercato di venire a patti con la sorpresa e lo shock del risultato Brexit.

Molte persone si sentono trasportate in una Gran Bretagna distopica che “non riconoscono, non possono capire”. Sono migliaia gli studenti e i lavoratori europei che stanno pensando o pianificando di lasciare il paese.

I terapeuti di tutto il mondo riportano livelli di ansia e disperazione sorprendentemente elevati, con pochi pazienti che desiderano parlare di qualsiasi altra cosa.

Ma Perché il voto sulla Brexit ci riguarda così personalmente? E cosa ci dice questo sulla nostra psiche?

Lo strano e davvero inaspettato limbo di quel venerdì di Giugno mostra che le persone di entrambi i partiti sono ancora assolutamente incerte su ciò che è successo e che concretamente succederà. E l’incertezza è uno degli stati più difficili da vivere.

L’incertezza è spesso percepita dal cervello umano come una minaccia: più ci sentiamo incerti, più l’attività dell’amigdala aumenta (risposta alla minaccia) e diminuisce l’attività dello striato ventrale (risposta di ricompensa). Il nostro cervello si trova quindi in uno stato di malessere. Come esseri umani, facciamo del nostro meglio per trasformare l’incertezza in paura, cercando un oggetto da amare o da odiare, su cui dunque riversare le nostre emozioni. Così, dopo il referendum, si è cercato qualcuno da incolpare. Questo non è solo un riflesso di una reale preoccupazione politica, ma uno sforzo fondamentale per trasformare l’incertezza in paura, che è sempre più gestibile.

Sono preda di questa incertezza soprattuto gli immigrati europei nel Regno Unito. Nel 2015, gli europei residenti in UK erano circa tre milioni, il 5% della popolazione totale del Paese.

Senso di appartenenza, benessere psicologico e i sentimenti nati dopo la Brexit

Nel suo articolo del 1943 “Una teoria della motivazione umana”, lo psicologo americano Abraham Maslow citò l’appartenenza come il terzo più importante bisogno umano nella gerarchia dei bisogni umani, dopo solo ai bisogni fisiologici e di sicurezza.

Secondo uno studio dell’Università del Michigan (Williams, 2005), le persone con un maggiore sostegno sociale e che provano un senso di appartenenza più elevato riportano una minore quantità di sintomi depressivi.

È proprio il sentimento di non appartenenza, di sentirsi estranei, diversi e non più ben accetti in quello che si credeva un Paese propenso all’integrazione, che hanno provato e dichiarato per esempio numerosi italiani che vivono in UK.

Una settimana dopo il voto, il professor Martin Milton, della Regent’s University di Londra, ha suggerito che molti si sentivano “spaventati, confusi, feriti e feriti”. Dall’interno della Mental Health Foundation hanno aggiunto che i sentimenti più comuni che le persone hanno riportato sono stati una miscela di shock e rabbia, accompagnati da “tristezza, frustrazione e persino la disperazione”.

Il Dott. John McGowan, ad esempio, del Centro di Psicologia Applicata di Salomon, ha spiegato le cinque fasi del dolore, una teoria elaborata dalla psichiatra di origini svizzere e nordamericane Elisabeth Kübler-Ross. Secondo McGowan, in seguito al referendum molti si sono trovati nella prima fase della negazione (“Mi sento bene, questo non può accadere a me”) per poi passare al secondo stadio, caratterizzato dalla rabbia (“Perché io?” “Non è giusto!”). Per alcune persone le altre tre fasi di negoziazione, depressione e accettazione non si sono ancora verificate.

La realtà latinoamericana

All’interno degli uffici del Teléfono de la esperanza UK, nel sud di Londra, sono stati molto visbili gli effetti psicologici della Brexit.

All’inizio c’era un livello di angoscia, ansia e confusione tra le persone. Le frasi più frequenti di coloro che telefonavano alla nostra associazione erano “Non so cosa faremo, cosa succederà, cosa significherà, non capisco, non ci credo” “Ho fatto questo viaggio e mi sono dato una seconda possibilità” – racconta Nancy Liscano a The Prisma, presidentessa e fondatrice di questa organizzazione fondata 11 anni fa.

Con 38 volontari di lingua spagnola, di cui 14 addetti a ricevere chiamate della comunità ispano-americana residente nel Regno Unito, le ripercussioni del referendum sono davvero chiare.

Queste persone stanno ancora cercando di concentrarsi sulla loro prima migrazione in Spagna quando improvvisamente accade Brexit, senza alcuna informazione, e a peggiorare le cose, molti non parlano nemmeno l’inglese. Ciò ha portato ad una maggiore atmosfera di ansia. – spiega Liscano.

Con una media tra le 20 e le 25 chiamate di crisi ogni settimana, la maggior parte delle quali provenienti da colombiani, spagnoli ed ecuadoriani, il team di Teléfono de la esperanza UK ha percepito che l’idea di tornare in Spagna (il paese della prima migrazione) o direttamente in America Latina è attualmente considerata da molti.

Tutti i miei clienti cittadini dell’UE hanno problemi con il sonno e sono ansiosi – ha detto Emmy van Deurzen, terapeuta olandese con sede nel Regno Unito,e continua – Molti sono depressi o scoraggiati. Ho avuto diverse conversazioni con cittadini europei che hanno riportato pensieri suicidari. Altri hanno deciso di rinunciare alla Gran Bretagna e hanno già lasciato il Paese.

Le conseguenze di Brexit: psicologiche e non solo..

Nel Regno Unito, la principale causa di assenza per malattia dal lavoro è rappresentata da stress, ansia e depressione (che rappresentano quasi il 40% di tutte le assenze per malattia). Lo scorso anno più di 500.000 persone hanno sofferto di stress sul lavoro, con una media di 24 giorni lavorativi persi e una perdita annuale di oltre £ 5 miliardi. Il timore è che il conto aumenti sostanzialmente nei prossimi due anni o più, se si considerano le ripercussioni psicologiche che Brexit potrà causare sui lavoratori.

Le conseguenze psicologiche di Brexit si ripercuotono anche su altre aree del Paese, come l’economia. Questo è quanto crede ad esempio Jonathan Portes, esperto in immigrazione ed economia, docente presso il King’s College di Londra. Secondo il Professor Portes è necessario includere fattori psicologici quando si parla di analizzare i risultati degli effetti del referendum:

Ci sarà un lungo periodo di incertezza prima di sapere cosa Brexit significherà nel concreto per i cittadini dell’UE che sono già qui e per quelli nuovi che arriveranno. Se le persone non possono pianificare senza certezze è meno probabile che arrivino o restino.

Ma importanti preoccupazioni arrivano anche dall’Istat britannico. I dati pubblicati dall’Office for National Statistics (ONS) nel 2017 hanno mostrato che 122.000 europei hanno lasciato il Regno Unito entro Marzo, con un esodo senza precedenti che ha causato un calo della migrazione netta. Diversi sono i settori colpiti da questo fenomeno: il settore turistico e dell’accoglienza nel Regno Unito è composto da circa il 75% dei camerieri e dal 25% degli chef europei. Ogni anno servono 60.000 nuovi lavoratori per soddisfare la domanda di impiego. Invece Il settore sanitario e in particolare l’Nhs, il sistema sanitario nazionale, che impiega 60.000 europei, attualmente è alla ricerca di 40.000 infermieri, anche a causa della decisione di molti immigrati, in particolare dell’Europa dell’est, di tornare a casa.

Numerose Aziende hanno sollevato crescenti preoccupazioni sulla “fuga dei cervelli” da parte delle industrie del settore primario, mentre le organizzazioni che rappresentano i migranti dell’UE hanno sollecitato il governo a offrire solide garanzie sul loro status dopo Brexit.

In conclusione

Numerose sono anche le domande che i cittadini europei già residenti o che pianificano di trasferirsi si stanno chiedendo. Cosa succederà quando la Gran Bretagna uscirà definitivamente dall’UE nel 2019?

In questi due anni precedenti alla definitiva uscita del paese anglosassone, si sta verificando un susseguirsi di negoziazioni tra Regno Unito e Unione Europea. Il risultato di queste sarà l’accordo finale che decreterà il futuro delle relazioni commerciali, sociali e lavorative della UK con l’UE.

La cosa più importante per chi vive in Gran Bretagna è che per ora i cittadini europei residenti già da prima del voto potranno tranquillamente continuare ad abitarvi senza nessun pericolo di espulsione in virtù della Convenzione di Vienna stipulata nel 1969.

Incontrare le persone LGB (2018): recensione ed intervista alle autrici del libro sulla consulenza clinica per persone lesbiche, gay, bisessuali

Il libro Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale si propone di consegnare al lettore una serie di strumenti per agire in ambito clinico, educativo e legale con persone lesbiche, gay e bisessuali.

 

In un’intervista rilasciata per State of Mind, le autrici ci parlano proprio dello scopo del loro manuale Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale:

L’obiettivo che ci siamo poste nella realizzazione di questo libro è quello di fornire una guida, una mappa per i professionisti che operano in ambito psico-socio-sanitario, educativo e legale per orientarsi nel lavoro con persone lesbiche, gay e bisessuali. 
I profondi mutamenti sociali e culturali degli ultimi anni hanno reso ancora più evidente la necessità di una formazione specifica su questi temi e con questo libro abbiamo provato a rispondere a questa necessità raccogliendo e proponendo strumenti teorici e operativi per l’accoglienza e la consulenza con le persone lgb e i loro familiari. 
Il testo raccoglie i contributi di professionisti di differenti discipline che da anni si occupano di temi lgb. 
È dunque un testo pensato per psicologi, insegnanti, avvocati, assistenti sociali, medici, infermieri, educatori, ostetriche, ma abbiamo voluto utilizzare un linguaggio fruibile anche per i non addetti ai lavori perché pensiamo possa essere un utile testo di “auto-aiuto” e di conoscenza per chiunque sia interessato al tema.

Il linguaggio usato dalle autrici risulta infatti essere molto chiaro e capace di rendere la lettura di semplice comprensione. Particolare attenzione viene riservata all’uso del linguaggio e alle sue declinazioni per includere qualsiasi persona ed evitare discriminazioni veicolate dal lessico, perseguendo lo scopo di portare visibilità a diverse minoranze sessuali e alla donna, come soggetto ancora troppo spesso non riconosciuto in ogni sua manifestazione e/o attività.

Le autrici

Le autrici del libro Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale sono tre psicologhe che svolgono attività clinica privata e con un curriculum abbastanza differenziato da permettere loro la creazione di un volume multisfaccettato.

Chiara Cavina è psicologa dell’età evolutiva e psicoterapeuta, esperta in psicologia giuridica; il suo contributo si sofferma sui processi discriminatori e sulle esigenze di tutela di bambini, bambine e adolescenti, ed in particolare sulle competenze genitoriali;

Serena Cavina Gambin è psicologa e consulente sessuologa per problematiche della sfera relazionale e sessuale, ha inoltre collaborato all’apertura di uno sportello d’ascolto per persone lgbt e i loro familiari;

Daniela Ciriello, psicologa e psicoterapeuta, specializzata in arteterapia, si occupa in particolare di difficoltà relazionali, di problemi legati all’attaccamento e di elaborazione di memorie traumatiche. Da più di venticinque anni gran parte del suo interesse è rivolto all’identità sessuale, all’orientamento sessuale, all’omofobia sociale e interiorizzata e in modo specifico all’omogenitorialità. Ha collaborato con le principali associazioni lgbt del paese per la realizzazione di progetti di sostegno e di crescita personale delle persone lgbt e dei loro familiari.

La collaborazione tra Chiara Cavina e Daniela Ciriello risale al 2009 con il libro Crescere in famiglie omogenitoriali, primo testo in Italia a raccogliere contributi multidisciplinari attorno al tema delle bambine e dei bambini nati e cresciuti all’interno di coppie dello stesso sesso; Daniela Ciriello inoltre è autrice di Oltre il pregiudizio, primo testo italiano in ambito psicologico sul tema dell’omogenitorialità.

Struttura e argomenti del libro

Il libro Incontrare le persone LGB Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale è composto da quattro sezioni, di cui la prima e la seconda possono essere quelle di maggiore interesse per un pubblico di psicologi e psicoterapeuti. Una lettura globale del libro permette al lettore di cogliere alcuni degli aspetti rilevanti della vita delle persone LGB e dei loro familiari.

La prima sezione si occupa, in particolare, di chiarire alcuni concetti legati all’identità sessuale e ai peculiari stressor che caratterizzano la vita delle persone lgb e dei loro familiari, all’omofobia sociale e interiorizzata, al minority stress e al coming out.

Quali stressors accompagnano quotidianamente le vite delle persone lgb e dei quali gli psicologi dovrebbero essere informati?

Un fenomeno del quale gli psicologi dovrebbero essere informati è quello del minority stress, ossia una condizione di stress e disagio psicologico al quale le persone omosessuali sono sottoposte in quanto minoranza sessuale. Lo sviluppo psicologico di queste persone è spesso accompagnato da esperienza di discriminazione, dal contatto con ambienti ostili o eterosessisti, in alcuni casi da esperienze di violenza. Inoltre, vi è una differenza sostanziale rispetto al vissuto di stress di altre minoranze: nel caso ad esempio di una minoranza etnica o religiosa, queste persone possono contare sul supporto familiare e della comunità di riferimento, nel caso delle persone omosessuali spesso invece viene meno il supporto da parte dei familiari a causa di una visione negativa dell’omosessualità.

specificano le autrici durante l’intervista.

La seconda sezione entra nel merito della consulenza psico-socio-sanitaria rivolta a persone LGB.

Le autrici nonostante rilevino una maggiore informazione rispetto al passato di quelle che sono le caratteristiche peculiari della consulenza con persone LGB, riconoscono l’esistenza di una serie di pregiudizi che i professionisti della salute mentale nutrono nei confronti dei loro pazienti, considerando l’orientamento eterosessuale come ideale. In taluni casi i professionisti possono essere consapevoli di alcune idee e sono al corrente di come queste, secondo codice deontologico, non dovrebbero poter interferire con la consulenza. Ci sono anche coloro i quali non si sono mai nemmeno posti questioni a riguardo, in fondo nella nostra società è ancora diffusa la tendenza ad usare terminologie legate all’omosessualità per schernire o deridere qualcuno, o addirittura per insultare.

Nonostante la società stia facendo dei passi avanti, le persone LGB continuano ad arrivare in consulenza per una serie di disagi, come infatti la letteratura scientifica mostra, il benessere psicologico di persone omosessuali e bisessuali è inferiore rispetto a quello di persone eterosessuali a causa delle diverse spinte sociali e dell’adattabilità o reazioni ad essere dei vari soggetti.

Nel libro Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale vengono dati degli spunti sia per cogliere il punto di vista di una persona LGB e potersi immedesimare nelle piccole difficoltà quotidiane sia per avere spunti pratici su come poter rendere la consulenza uno spazio accogliente, non giudicante e di libertà espressiva.

In questa sezione, vengono inoltre raccolte le richieste ricorrenti portate in consulenza da pazienti LGB, quali, ad esempio, dubbi rispetto al proprio orientamento, tematiche legate alla difficoltà dell’uscire allo scoperto e far conoscere la propria identità sessuale alle persone, timori dei genitori delle persone LGB. Oltre ad indicare le tematiche portate dal paziente, vi è una sezione dedicata ai punti sui quali lo psicologo può lavorare (es. sul piano informativo, di valutazione del coping e delle risorse del soggetto, sull’elaborazione emotiva, etc.).

Nella nostra società è l’eterosessualità ad essere scontata: una persona eterosessuale difficilmente si ritroverà a doversi dichiarare eterosessuale; le persone gay, lesbiche e bisessuali, al contrario, debbono affrontare questa incombenza in ogni loro nuovo contesto. Questa premessa eteronormativa è presente quindi nella maggior parte dei genitori che conseguentemente avranno nel loro immaginario, riferito alla figlia o al figlio, un matrimonio con una persona del sesso opposto con la quale/il quale “metteranno su famiglia” nel più tradizionale dei modi. Nel momento in cui si introduce la prospettiva dell’omosessualità del proprio figlio, queste aspettative vengono a cadere: non esiste ad esempio la possibilità, attualmente, di un matrimonio per la chiesa cattolica, e la recente acquisizione delle unioni civili non si è ancora instaurata nell’immaginario comune. Inoltre lo stereotipo vuole la persona omosessuale “sterile”, senza una possibilità procreativa e di conseguenza genitoriale (…). Per i genitori di LGB spesso la scoperta dell’omosessualità di un figlio è accompagnata da vissuti di delusione nei confronti di queste aspettative che non verranno rispettate, probabilmente, nelle modalità immaginate e previste.

Comprendere i livelli di omofobia paternalistica sociale e interiorizzata che possono ostacolare i processi di svelamento e un contatto autentico con i propri vissuti di paura. Per tutelarsi dalle ricadute che i propri vissuti di paura possono avere sull’autostima e l’immagine di sé, può accadere che si ricorra ad argomentazioni del tipo “non lo dico per non ferire i miei genitori” oppure “io so chi sono, non c’è nessun bisogno di comunicarlo agli altri”, che permettono di mantenere intatta un’immagine positiva di sé invalidando però l’autenticità dei propri vissuti sia emotivi che relazionali.

Importante risalto viene dato anche alla consulenza sessuologica di persone LGB, sottolineando come, anche in questo caso, una spinta ad eguagliare i termini eterosessuale e omosessuale, se erroneamente usata porta a dare per scontati dettagli importanti, tra cui dare ad esempio per scontata una sessualità penetrativa, oppure, al contrario, escluderla a priori nel caso di una coppia femminile.

La letteratura mostra come, nonostante l’incidenza delle disfunzioni sessuali sia simile nella popolazione eterosessuale e omosessuale, raramente le persone LGB si rivolgano a sessuologi per timore di essere stigmatizzati per il proprio orientamento sessuale.

Ognuno di questi aspetti viene vissuto in modo amplificato durante l’adolescenza, per questo le autrici hanno dedicato un intero capitolo a questa fase importantissima dal punto di vista identitario.

Ed infine, ricordando l’esistenza di famiglie LGB, un ultimo capitolo della seconda sezione è dedicato alle coppie LGB, al desiderio di genitorialità, alle coppie omogenitoriali, al coming out dei genitori con figli e ai figli di genitori LGB.

Quest’ultima parte fa da ponte alla successiva sezione, la quale si occupa delle più o meno recenti concettualizzazioni di famiglia e genitorialità da un punto di vista legislativo.

Un excursus storico che ha condotto all’approvazione della legge italiana n.76/2016 sulle unioni civili, riconoscendo una pluralità di famiglie e aprendo così riflessioni sull’omogenitorialità. Il libro espone diverse modalità con le quali coppie di donne e coppie di uomini possono diventare genitori: procreazione medicalmente assistita (PMA) e gestazione per altri (GPA). Queste due pratiche non sono consentite in Italia: per quanto riguarda la PMA non è consentita ad una coppia di due donne, ma lo stato Italiano non ne vieta la pratica all’estero; per quanto riguarda la GPA è illegale a prescindere dal genere dei componenti della coppia e spesso le persone si recano in America per poter ricorrere a questa pratica.

Infine, si può leggere una panoramica degli istituti di tutela del minore, figlio di coppie omogenitoriali e dei suoi diritti.

L’ultima sezione si occupa di possibili interventi in ambito scolastico. Le coppie omogenitoriali individuano nell’inizio della scuola un momento di paure ed ansie, rispetto a pregiudizi, discriminazioni da parte di insegnanti, altri bambini e genitori, proprio nel momento in cui il figlio viene per la prima volta affidato ad un’agenzia educativa esterna alla famiglia.

Spesso a scuola la modulistica ed il materiale didattico sono incentrati su un modello eterosessuale binario che prevede un padre ed una madre. Un buon insegnante può svolgere un grosso lavoro per favorire ai membri delle famiglie LGB un’esperienza formativa serena e scevra da discriminazioni. Essi se debitamente informati possono favorire l’inclusione, la valorizzazione delle diversità in classe, la gestione di un eventuale disagio e favorire il dialogo rispetto a tematiche relative alla sessualità non eterosessuale e alle forme di famiglia e affetto derivanti. Oltre a suggerire una serie di letture e spunti per una maggiore comprensione del fenomeno da parte degli insegnanti vengono anche avanzate alcune proposte per la didattica, in particolare per quanto riguarda le materie letterarie (comprendendo alcuni spunti pratici di epica, antologia, letteratura).

Le autrici a conclusione del testo Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale, riportano l’attenzione sul pregiudizio, affermando:

Ci auguriamo che sia passato il messaggio che in una società complessa, sfaccettata, basata spesso sul valore dell’apparenza e al contempo globalizzata come quella odierna usare stereotipi e pregiudizi “per orientarsi” nel mondo, può solo che aumentare il disorientamento, le false sicurezze e il conflitto (in sé e con gli altri).

Un’interessante lettura italiana della situazione attuale, aggiornata e della quale è importante essere a conoscenza per relazionarsi e poter comprendere le problematiche e gli stressor di una persona lgb o di una famiglia omogenitoriale, sia che la consulenza sia orientata all’intero sistema, sia che sia orientata ai figli, ai genitori o altri parenti stretti.

Come riportato nell’excursus legale, dei passi avanti sono avvenuti, ma si rimane ancora in un contesto che tollera e talvolta incentiva battute omofobiche, in cui i rappresentanti delle istituzioni possono addirittura esprimere pubblicamente la propria avversione nei confronti dell’omosessualità. E tutte queste componenti socio-ambientali conducono a disagi psicologici: vivere serenamente le proprie relazioni (amorose e personali) diviene difficile, così come tollerare comportamenti discriminatori in famiglia, a scuola o al lavoro, doversi mascherare o “scremare il proprio racconto di sé”, cercare inoltre di eccellere in altri campi per compensare quel punto di riguardo che si crede il proprio orientamento possa generare negli altri.

Un altro passaggio importante che traspare in Incontrare le persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale è rispetto al concetto di uguaglianza e diversità, garantire uguale trattamento, diritti ed eliminare la discriminazione ed il pregiudizio non significa considerare uguali in termini di pratiche, modalità relazionali e stressor l’eterosessualità, l’omosessualità e la bisessualità. Le peculiari caratteristiche di ogni orientamento sessuale sono in costante evoluzione ed è importante che lo psicologo ne sia al corrente.

Per quanto riguarda futuri sviluppi, al termine dell’intervista le autrici aprono le porte a possibili altri progetti di collaborazione:

Abbiamo diverse idee rispetto ad alcuni temi che in questo testo tocchiamo solo tangenzialmente e che stimolano il nostro interesse. Ci piacerebbe sicuramente tradurre questi temi in un lavoro organico sempre attraverso l’impronta multidisciplinare che rappresenta il nostro modo di lavorare poiché consente di affrontare gli argomenti in un modo più ampio, trasversale alle diverse competenze, restituendo la complessità e la ricchezza dei fenomeni umani. Questo modello ci sembra particolarmente importante parlando di minoranze sessuali proprio perché ci permette di mostrare e di sottolineare come ciò che sembra riguardare solo un gruppo limitato di persone in realtà in un qualche modo e a qualche livello riguarda anche tutti gli altri.

 

LEGGI ANCHE LE ALTRE RECENSIONI DI QUESTO LIBRO:

Incontrare le persone LGB (2018) di Ciriello, Cavina e Cavina Gambin: una guida alla consulenza educativa, psicologica e legale – Recensione del libro

Incontrare le persone LGB (2018) di C. Cavina, S. Cavina Gambin, D. Ciriello – Recensione del libro

Scopiazzando dalla fisica – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 46

Quando non si hanno idee, non voglio dire buone e originali ma anche semplicemente discrete, la cosa migliore sarebbe tacere, seguendo il consiglio di Wittegestein ingenere, filosofo e logico vissuto nella prima metà del ‘900 che suggeriva: “Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Scopiazzando dalla fisica (Nr. 46)

 

Sull’opportunità del tacere ci sono tanti proverbi e ammonimenti che evidentemente cercano di contrastare l’innata tendenza ad aprir bocca e dargli fiato… per il piacere di ascoltarsi? Per vedere l’effetto che fa? Per farsi venir sete e giustificare un quartino? I motivi possibili sono molti.

Nel deserto delle idee l’alternativa all’auspicato silenzio è “il copiare”, oggi facilitato dai programmi di videoscrittura e da internet. Meno riprovevole della copiatura è quella che chiamo “traslazione”, ovvero prendere un’idea innovativa e affermata in un certo settore e provare ad applicarla ad un altro, il proprio. Ad esempio una volta che si è scoperto che la fermentazione produceva alcol e che esso era buono, quante cose saranno state messe a fermentare? Una volta scoperto che un frutto tostato e macinato produce una polvere con caratteristiche molto diverse dall’originale, quanti frutti saranno finiti dentro la moka? Insomma l’idea della traslazione è di astrarre al massimo un concetto sviluppato su uno specifico dominio ed applicarlo per riorganizzare i dati di un dominio completamente diverso. Spesso ne risulta solo mondezza, talvolta qualche interessante suggestione. Correttezza vuole tuttavia che le solide basi scientifiche e sperimentali su cui si fondava l’idea primigenia non vengano considerate un sostegno per le suggestioni derivate che restano metafore.

Allora, mosso dall’invidia per le scienze esatte (che appunto però hanno scientificamente scoperto di non essere così tanto esatte), ho preso lo spunto da alcuni dei teoremi e delle scoperte della fisica del ‘900, che prima con la rivoluzione di Eistein e poi con la fisica quantistica hanno ribaltato almeno un paio di volte la rassicurante prospettiva classica euclidea. Tali teoremi non li capisco neppure del tutto bene (ma proprio come molti film, meno li capisci più intuisci che sono profondi e belli) e certo la loro verità logico-matematica non la si può esportare nel nostro campo. Li ho utilizzati semplicemente come metafora o come una supposta (da intendere non come participio passato ma come sostantivo anale) stimolante, per ribadire idee mie e credo di molti altri colleghi.

Il teorema di Gödel

Il primo scienziato è Gödel un filosofo e matematico austriaco vissuto nella prima metà del ‘900 che formulò due teoremi di cui riportò l’essenza senza pretesa di comprensione. I teoremi di incompletezza di Gödel sono due:

Il primo teorema di Gödel sostiene che vi sono affermazioni vere ma non dimostrabili e che all’interno di un sistema coerente c’è comunque un’affermazione di cui non si può dimostrare né la verità né la falsità. In particolare Gödel dimostrò che l’aritmetica stessa risulta incompleta e vi sono dunque delle realtà vere ma non dimostrabili (il che dovrebbe farci riflettere da un lato sulla deferenza acritica verso tutto ciò che è “evidence-based” e sulla diffidenza scientista verso tutto ciò che appartiene evidentemente alla realtà ma ci rifiutiamo di accettare perché scientificamente inspiegabile mostrando la stessa cecità che condannò all’ostracismo e alla povertà Semmelweiss, per poi recuperarlo duecento anni dopo nel libro della memoria del mondo dell’Unesco). Insomma “Vero” e “Dimostrabile” non sono due insiemi sovrapponibili, essendo il secondo un sottoinsieme del primo, ed esistendo dunque un restante sottoinsieme che raccoglie ciò che è vero ma non dimostrabile, perlomeno con gli strumenti attuali.

Allo stesso modo credo che non possa esistere un sistema cognitivo completamente cosciente in quanto, perché una rappresentazione sia cosciente, deve esistere un punto di vista superordinato ad essa che a sua volta non è cosciente e ciò genera un regresso all’infinito perché se anch’esso può divenire cosciente è solo grazie alla creazione di un ulteriore punto di vista superordinato. Questo comporta due conseguenze pratiche importanti. La prima è che l’idea psicoanalitica di rendere cosciente tutto l’inconscio è un mito irrangiungibile (e non entro nel merito dell’opportunità o meno) e che anzi più si esplora se stessi e più si creano nuovi se stessi impegnati ricorsivamente ad auto osservarsi e si perde la presa diretta con l’esistenza. La seconda, tutta a nostro vantaggio, è che se qualora si ritenga utile una certa consapevolezza per risolvere un problema che fa soffrire, è indispensabile un terapeuta, un punto di vista esterno che faccia da specchio, perché in genere il problema del paziente si annida proprio nei suoi punti di vista superordinati, che appunto da solo non può vedere.

Lo ribadisco in altri termini. Così come in un sistema formale c’è sempre almeno una proposizione indimostrabile, così in un sistema cognitivo consapevole c’è sempre comunque un punto di vista (una prospettiva…) inconscio e qualora lo si renda cosciente se ne crea un altro in un regresso all’infinito secondo la regola che “io so che”>>>”io so che so”>>>>”io so che so che so” e via così in una piramide di omuncoli che si osservano litigando per chi sia il “vero io” per cui il mito dell’analisi completa e della consapevolezza piena, è appunto un mito senza senso.

Il lavoro di consapevolezza di sé è infinito generando continui nuovi livelli di auto osservazione a loro volta inconsci e dunque la conoscenza di sé è un processo sempre in atto che rischia di far perdere di vista la realtà concreta creando una spirale ricorsiva onanistica. Per conoscersi quel tanto che basta per superare delle sofferenze è indispensabile un esterno (terapeuta) che faccia da specchio, perché il problema si annida in genere proprio nella prospettiva in cui si valuta se stessi che è data per scontata, ovvia e dunque invisibile.

Il secondo teorema di Gödel sostiene che nessun sistema può dimostrare dal suo interno la propria coerenza. In ogni costruzione teorica c’è dunque un buco, una falla nella trama concettuale ed i tentativi di rammendarla con ipotesi ad hoc sono peggiori dello strappo in sé. La coerenza assoluta è solo un bisogno psicologico, talvolta, psicopatologico. Per la natura e la vita è importante solo che le cose funzionino.

Niels Bohr e il principio di corrispondenza

Il secondo grande scienziato è Niels Bohr un fisico e matematico danese vissuto anch’egli nella prima metà del secolo scorso che definì il principio di corrispondenza, secondo cui i risultati della meccanica quantistica devono ridursi a quelli della meccanica classica nelle situazioni in cui l’interpretazione classica può essere considerata valida. La fisica sembra infatti soggiacere a due diversi tipi di leggi: la meccanica classica, quando le dimensioni, le masse, i periodi e in generale tutte le grandezze, possono essere considerati “grandi”, e la meccanica quantistica, quando invece si ha a che fare con il mondo del “molto piccolo”.

Nel nostro campo una situazione analoga la troviamo nel rapporto tra le neuroscienze e la psicologia classica. Le neuroscienze come la meccanica quantistica osservano e descrivono l’infinitamente piccolo che sostiene ma non sostituisce la spiegazione in termini psicologici, che è quella utilizzabile in psicoterapia. Le due spiegazioni non sono alternative né riducibili l’una all’altra: sono linguaggi diversi che descrivono la stessa realtà per scopi diversi anche se ovviamente non possono essere in contraddizione.

Alla scoperta della fisica quantistica con Schrödinger

Infine Schrödinger che è stato un fisico e matematico austriaco vissuto nella prima metà del ‘900, noto soprattutto per il suo famoso esperimento mentale del gatto chiuso in una scatola di cui non si può stabilire se sia o meno vivo. Tra tutti i suoi contributi alla fisica quantistica due mi sembrano quelli più esportabili.

Il primo, riguardante la posizione e la velocità delle particelle elementari, afferma che più che stati diversi e discreti si possa giungere soltanto a descrizioni probabilistiche, il che nel nostro campo suggerisce, a mio avviso, l’abbandono di tutte le distinzioni categoriali e l’assunzione, rispetto a tutti i problemi psicologici e psicopatologici (ma forse più in generale di descrizione del mondo), di una prospettiva dimensionale e probabilistica.

La seconda affermazione empiricamente dimostrata da Schrödinger “l’osservatore modifica l’oggetto osservato” è cosa di cui ci riempiamo la bocca da quando i terapisti sistemici ci hanno mostrato l’importanza delle relazioni, ma che forse dovremmo definire meglio negli studi sulla relazione terapeutica da un lato, e sui meccanismi di mantenimento dall’altro.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Schizofrenia: verso una diagnosi oltre i sintomi

Thomas Wolfers e André Marquand del centro medico dell’Univesità di Radboud, hanno condotto uno studio sulla schizofrenia, e hanno voluto verificare quanto i cervelli dei soggetti con diagnosi di schizofrenia differissero dal gruppo di controllo, composto da soggetti sani.

 

Il campione utilizzato era di 218 soggetti affetti da schizofrenia e di 250 soggetti sani, entrambi i gruppi di soggetti erano stati reclutati nell’area di Oslo, Norvegia. Si è utilizzata la risonanza magnetica per scansionare il cervello sia dei soggetti affetti da schizofrenia, sia dei soggetti di controllo, sani.

Il gruppo composto da soggetti con schizofrenia differisce da quello di controllo per quanto riguarda le regioni frontali del cervello, il cervelletto e la corteccia temporale, dal momento che in queste regioni vi era una riduzione della materia grigia nel gruppo dei soggetti con schizofrenia.

Gli studiosi hanno osservato che attraverso la mappatura della struttura del cervello si verificavano differenze identiche solo nel 2% dei pazienti e il maggior numero di differenze erano osservate esclusivamente su un livello individuale. La schizofrenia è un disturbo cerebrale grave e complesso caratterizzato da una sostanziale eterogeneità clinica e biologica, spesso gli studi caso-controllo non considerano tale eterogeneità, poiché si concentrano sul paziente nella media. Questo comporta una mancanza di robusti biomarker indicativi della risposta al trattamento e del risultato di un individuo.

Schizofrenia: sintomi e base biologica

La schizofrenia è un disturbo psichiatrico estremamente variabile, il quale viene diagnosticato sulla base della presenza di sintomi specifici, quali allucinazioni, deliri, sintomi positivi (eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico) e sintomi negativi (diminuzione dell’espressione delle emozioni). Il metodo di una diagnosi per disturbi psichiatrici basata solo sui sintomi può presentare qualche problema: infatti, come si vede dallo studio, gli individui con schizofrenia hanno il loro personale profilo biologico, che è diverso da individuo a individuo e, sebbene il gruppo di schizofrenici sia accomunato dalla stessa diagnosi, presenta differenze significative nel cervello. Naturalmente è difficile comprendere a pieno la biologia alla base della schizofrenia semplicemente studiando il paziente di controllo.

Per quanto riguarda le prospettive future i ricercatori vorrebbero creare un’”impronta digitale” per il cervello di ciascun individuo, documentando le differenze rispetto al gruppo di controllo sano, il cui fine sarebbe quello di avere un disegno più completo per ogni paziente.

Per comprendere maggiormente l’individuo nel suo complesso bisognerebbe tenere in considerazione sia la sua patologia sia le caratteristiche individuali, che hanno una loro storia e una loro biologia, nonostante, oggi, si utilizzano modelli diagnostici che ignorano ampiamente queste differenze.

Gli studiosi auspicano che la ricerca nel futuro possa produrre risultati pratici e visibili, dal momento che loro hanno tenuto in considerazione sia i sintomi che la biologia e che possa portare a diagnosi migliori e terapie individualizzate per i pazienti.

ADHD: troppe diagnosi o processo diagnostico complesso?

I bambini con ADHD hanno un deficit evolutivo che interessa i circuiti cerebrali correlati all’ inibizione e all’autocontrollo. Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione dell’Iperattività (DDAI) meglio conosciuta come ADHD, è uno dei disturbi del neurosviluppo più frequenti e più studiati.

Ilaria Perrucci e Francesca Lazzerini – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Luigi ha 8 anni e frequenta la classe terza della scuola primaria. È stato segnalato dalla scuola poiché crea molte difficoltà in classe. In particolare le insegnanti riferiscono che il bambino è sempre irrequieto e questo non permette lo svolgimento sereno della lezione. Fa fatica a rimanere seduto, si alza e gira libero per la classe distraendo gli altri compagni. Quando finalmente riesce a sedersi, ha bisogno di giocherellare con le mani o muovere le gambe. Inoltre, ha bisogno di giocare con gli oggetti e lasciarli cadere sul pavimento. Fa fatica a rispettare i turni della conversazione e agisce spesso in modo avventato. Anche da piccolo era molto irrequieto, aveva scambiato il giorno per la notte. Faceva fatica ad addormentarsi e anche a svegliarsi. Di fronte alle frustrazioni reagiva con rabbia.

In questo breve racconto è descritta la storia di Luigi, un bambino al quale è stata diagnosticata l’ADHD. I bambini con tale disturbo, in particolare hanno un deficit evolutivo che interessa i circuiti cerebrali correlati all’ inibizione e all’autocontrollo.
Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione dell’Iperattività (DDAI) meglio conosciuta come ADHD, è uno dei disturbi del neurosviluppo più frequenti e studiati (Vitiello e Sherrill, 2007). Le manifestazioni cliniche di base dell’ADHD sono la difficoltà a prestare attenzione, comportamenti impulsivi e/o un livello di attività motoria accentuato (Reale L., Zanetti M.,Cartabia M., Fortinguerra F., Bonati M., 2014). I sintomi sono solitamente evidenti in età scolare, più frequentemente nei maschi rispetto alle femmine, infatti il rapporto è di 3 a 1, e possono persistere fino all’età adulta. Molto spesso si sente parlare dell’ADHD e tuttavia, esistono ancora numerosi pregiudizi rispetto a tale disturbo. In particolare, molto spesso si è soliti pensare che sia un disturbo definito e studiato solo di recente. In realtà l’ ADHD è un disturbo del neurosviluppo descritto da un pediatra inglese all’inizio del secolo scorso, (Still 1902). Durante il passare del tempo è stata identificata con diversi nomi, tra cui “sindrome ipercinetica”, “disfunzione cerebrale minima” (Zuddas A., Masi G., 2002). Durante gli anni ‘60, i criteri per i disturbi psichiatrici dell’età evolutiva sono stati inseriti nei diversi manuali diagnostici (ICD-8, 1966; DSM-II 1968). I continui cambiamenti nosografici nonché dei rispettivi criteri, hanno avuto come conseguenza dubbi a livello di classificazione. Tutto questo ha portato a differenze nazionali sia nell’epidemiologia del disturbo e sia nella definizione delle strategie terapeutiche.

Sulla base di evidenze genetiche e neuro-radiologiche è oggi giustificata la definizione psicopatologica del disturbo quale disturbo neurobiologico della corteccia prefrontale e dei nuclei della base che si manifesta come alterazione nell’elaborazione delle risposte agli stimoli ambientali.(Swanson 1998a, 1998b, in Zuddas A., Masi G., 2002).

In seguito alle diverse classificazioni e la poca coerenza nel corso del tempo tra i diversi manuali diagnostici, si è riscontrata una difficoltà nel processo diagnostico stesso del disturbo che ha avuto delle conseguenze anche sulle ricerche epidemiologiche.

ADHD: la prevalenza nazionale

La Consensus Conference italiana, nelle linee guida, ha ritenuto opportuno proporre l’attivazione di uno studio che indaghi la prevalenza nazionale dell’ADHD e, inoltre suggerisce la creazione di registri nazionali dei casi di ADHD. Questi studi, consentirebbero così di compiere una corretta diagnosi seguendo criteri non solo clinici ma soprattutto scientificamente validati. A tal proposito, è interessante citare uno studio condotto dal Gruppo Regionale Lombardo ADHD. Infatti, questo studio costituisce un tentativo di definire la prevalenza dei pazienti con ADHD e descrivere percorsi diagnostici e terapeutici condivisi tra i vari servizi, nella regione Lombardia, per l’identificazione e il trattamento di questo disturbo.

Dai risultati ottenuti si evince che la prevalenza è di 3,51%, inferiore rispetto ad altre ricerche a livello nazionale e internazionale che stimano circa dall’1% al 12 %. In questo caso specifico gli autori ipotizzano che questa differenza potrebbe essere correlata alla tipologia del campione. Infatti sono stati presi in considerazione solo i pazienti con una sintomatologia grave, i quali accedono dai centri di riferimento e che secondo i protocolli regionali e nazionali dovrebbero essere i pazienti che necessitano di terapia farmacologica o di interventi multimodali (Reale L., Zanetti M.,Cartabia M., Fortinguerra F., Bonati M., 2014).  Ad ogni modo va sottolineato che non esistono dati univoci relativi alla prevalenza del disturbo. Questo potrebbe dipendere da tre diversi motivi. Il primo è quello che è faticoso definire precisamente la soglia diagnostica (Scahill, 1999). Il secondo è che la valutazione di tale soglia, nonostante vi siano criteri diagnostici ben definiti, rimane relativamente soggettiva poiché la maggior parte dei test utilizzati per la valutazione del disturbo, sono di tipo osservativo e di autosomministrazione. Il terzo motivo è che l’ADHD è una patologia molto complessa. Infatti, nel corso del tempo, la sintomatologia può esplicarsi attraverso diverse traiettorie di sviluppo e quindi manifestarsi con caratteristiche completamente differenti da bambino a bambino.

Ciononstante grazie alla ricerca del gruppo della Lombardia, è possibile asserire che l’esperienza del registro ADHD ha rappresentato un essenziale strumento di monitoraggio contiuno e sistematico, il quale ha permesso di mettere in luce l’importanza di avere le risorse adeguate e di coinvolgere i pazienti, le famiglie gli insegnanti e gli operatori attraverso interventi di formazione e informazione con il fine di ridurre le sovradiagnosi e di evitare interventi tardivi su bambini che invece necessiterebbero di un’accurata diagnosi.

La diagnosi di ADHD

La domanda che spesso attanaglia le persone che si interfacciano con bambini molto vivaci è la seguente: come è possibile discriminare bambini con questi disturbi da bambini “esauberanti”?

Esistono, criteri diagnostici frutto di anni di lavoro di medici e psicologi che permettono di discernere ciò che è psicopatologico da ciò che invece risulta essere un temperamento più vivace. Secondo i criteri diagnostici del DSM-5 (2013), l’ ADHD mostra sintomi riguardanti la disattenzione, l’iperattività l’impulsività e una loro possibile combinazione. Ogni area è contraddistinta rispettivamente da 9 sintomi caratterizzanti. È necessario che tali sintomi siano di numero pari o maggiore a 6 nell’area riferita alla disattenzione o in quella dell’iperattività impulsività. Per gli adolescenti e gli adulti il numero previsto è di 5 sintomi. Per poter porre una diagnosi inoltre, è necessario che suddetti sintomi siano pervasivi, presenti in due o più contesti. L’esordio avviene prima dei 12 anni. Infine i sintomi devono interferire o ridurre la qualità e il funzionamento sociale, accademico o professionale, creando una grave disfunzionalità nella vita quotidiana del paziente. Essendo l’età di esordio identificata nell’infanzia è possibile che i sintomi possano prendere due strade differenti. La prima è quella di essere persistenti nel tempo. La seconda, al contrario, è quella che prevede che i sintomi vadano scemando in età adulta. Per questi motivi, la prevalenza è più alta nei bambini che negli adulti. Circa 1 su 6 bambini con ADHD manterrà la diagnosi completa, mentre la maggior parte dei bambini presenterà solo alcuni aspetti della patologia.

La Consensus Conference nelle sue linee guida per identificare i criteri distintivi dell’ADHD suggerisce:

[…] l’uso di strumenti quali questionari (es. Scale Conners e ADHD-RS, SCOD) e le interviste diagnostiche (es. Kiddie-SADS e PICS-IV), opportunamente standardizzati e validati, possibilmente su campioni italiani. Già a partire dal percorso diagnostico è essenziale la partecipazione-comunicazione del pediatra di famiglia referente per la salute del bambino.

Tuttavia, la diagnosi dell’ADHD, attualmente è prevalentemente di tipo clinico e quindi è basata sull’osservazione del comportamento del bambino in più contesti. Non esistono test diagnostici specifici che consentano di identificare con sicurezza la presenza del disturbo e un limite dei questionari autosomministrati è che talvolta potrebbero rivelarsi relativamente soggettivi in funzione di chi si trova a compilarli.

ADHD: verso le ricerche future

Alla luce di quanto detto, l’ ADHD si configura come una patologia eterogenea che riguarda fattori biopsicosociali disparati. Attualmente risulta molto difficile costruire una batteria ad hoc che possa determinare con maggiore sicurezza la presenza dell’ADHD. Nel panorama italiano un primo tentativo è quello compiuto da Marzocchi M., Re A., Cornoldi C.(2010), i quali hanno creato la BIA (Batteria Italiana per l’ADHD). Tale batteria offre diversi strumenti utili per la lettura dei problemi specifici presentati da bambini disattenti e iperattivi e/o con difficoltà nei processi esecutivi, nel controllo della risposta, dell’attenzione e della memoria. Questi strumenti possono essere usati per la diagnosi quando ci si trova di fronte ad un sospetto di ADHD.

Pertanto, sarebbe interessante orientare le ricerche future verso lo studio approfondito del ruolo che giocano le funzioni esecutive all’interno del profilo del disturbo al fine di creare batterie di test sempre più specifici per favorire diagnosi più accurate possibili evitando quindi falsi positivi o negativi e garantire, altresì, degli interventi terapeutici mirati.

 

Il lungo viaggio della cicogna (2012) di Pier Giorgio Crosignani – Recensione del libro

Programmare una gravidanza è un compito che affrontano diverse coppie. E più il desiderio si protrae nel tempo andando incontro ai vari fallimenti, più un figlio che non arriva mette a dura prova i partner, da un punto di vista psicologico e fisico.

 

Ci si interroga sui perché del mancato arrivo di un figlio e ci si affaccia sempre più intimoriti nella stanza dell’ennesimo medico con la speranza che questa volta sia quello giusto, che possa avere le risposte e magari la soluzione. Ma le difficoltà nel concepire sono molto diffuse e il più delle volte legate alla combinazione di diversi fattori che rendono una spiegazione univoca difficile se non impossibile.

Il lungo viaggio della cicogna: le possibilii cause dell’infertilità

Il libro Il lungo viaggio della cicogna di Pier Giorgio Crosignani, aiuta a far chiarezza sulle possibili variabili che impediscono il concepimento nella coppia.

Il manuale, di poche pagine, dopo un’iniziale spiegazione molto dettagliata dei meccanismi di riproduzione umana, si fa più scorrevole e si divide, in modo ben organizzato e utile al lettore, in diversi capitoli, ciascuno riferito a uno specifico problema che interferisce con la fertilità di coppia.

Si passa quindi da un primo sguardo all’infertilità (definizione, tempi e metodi per misurarla) alla disamina delle sue possibili cause, rivolgendo l’attenzione anche agli aspetti sociali che circondano la coppia e la loro decisione di avere un figlio.

La lettura de Il lungo viaggio della cicogna prosegue così abbracciando diverse tematiche: dalla neurofisiologia e dal ruolo di ipotalamo e ipofisi nell’infertilità, al fallimento ovarico; dagli effetti del sovrappeso della donna, all’ovaio policistico e ad altre anomalie anatomiche; dai problemi legati agli spermatozoi, alla possibilità di non poter trovare una convincente causa di infertilità della coppia.

Vengono fornite anche brevi note sui metodi di cura dell’ infertilità e sulle conseguenze di quando questi vanno a buon fine: alcuni paragrafi sono dedicati alla gravidanza gemellare, alle peculiarità del neonato da procreazione assistita, al futuro della famiglia (temi toccati soprattutto da un punto di vista medico).

Il libro si conclude mettendo per iscritto, sotto forma di domande, i dubbi che spesso le coppie con infertilità portano agli esperti, fornendo risposte e spiegazioni molto puntuali.

L’autore de Il lungo viaggio della cicogna, Pier Giorgio Crosignani, è Professore di Clinica Ostetrica e Ginecologica presso l’Università degli Studi di Milano, per 15 anni è stato Primario alla Clinica Mangiagalli. E’ coordinatore delle ricerche CNR sulla contraccezione, nonché uno dei fondatori della Società Europea di Riproduzione Umana (ESHRE). Attualmente è Deputy Editor di Human Reproduction (Oxford). La straordinaria competenza dell’autore è chiara sin dalle prime righe fino al punto conclusivo: definizioni e spiegazioni sono correlate dalle più recenti statistiche e dai più precisi dati di ricerca in letteratura.

Il lungo viaggio della cicogna: l’attesa necessita di supporto psicologico

Sarà colpa della mia deformazione professionale, ma ho trovato un po’ scarna l’analisi dell’argomento da un punto di vista psicologico che pure meriterebbe tanto spazio: ben sappiamo che anche i vissuti emotivi della coppia rivestono un ruolo fondamentale nel processo di procreazione. Il poterli conoscere e riconoscere è uno strumento in più per fornire un adeguato sostegno alla coppia durante il suo percorso, con l’obiettivo di consentire ai partner di sentirsi più accolti e compresi nella loro sofferenza.

Tuttavia, ad un’analisi più attenta, le conoscenze che l’autore mette a disposizione del lettore, anche se di natura prettamente medica, tornano ugualmente utili al raggiungimento di tale obiettivo. Nel libro, infatti, si illustrano le numerose cause all’origine dell’infertilità, la frequenza con cui si manifestano e si diffondono; si illustra anche la possibilità di un’eventuale mancanza di spiegazioni al problema che persiste; si riportano i dati che mostrano la diffusione su larga scala di queste difficoltà. Tutto ciò potrebbe consentire ai lettori, alle prese con l’attesa di un figlio, di fare il primo passo verso il non sentirsi soli nei loro dubbi. Uno sguardo medico, competente, consente di vedere il problema infertilità così come diffuso su scala mondiale e non solo esclusivo di poche coppie. Una lettura che aiuta a far luce sui tanti aspetti dell’infertilità e che aiuta le coppie a non sentirsi “diverse” nell’attesa che la cicogna concluda il suo lungo viaggio.

Asperger, il nazismo e la diagnosi – Riflessioni sul libro: I bambini di Asperger (2018) di Edith Sheffer

Rivedremo Kevin Spacey recitare? Ci sarà un altro Frank Underwood, genio perverso? Difficile. Kevin Spacey, molestatore seriale, è ormai persona non gradita. Questo sminuisce il suo talento? No. Vedremo ancora Hans Asperger nelle classificazioni delle malattie mentali? Per un po’ sì, anche se è già relegato nelle note. Poi scomparirà, superato dalla scienza. Espulso con disonore?

Articolo apparso su Il Corriere della Sera il 05/10/2018

 

Chi era Asperger? Psichiatra infantile, operò nella Vienna dell’avvento del nazismo. Descrisse lo “psicopatico autistico”, da lui viene l’eponimo per gli autistici ad alto funzionamento, con intelligenza preservata, a volte con aree di funzionamento eccezionale. Faticano a capire i pensieri e le emozioni degli altri, sono quindi carenti nella cosiddetta “teoria della mente”. Una ricerca di Livia Colle, Università di Torino, con una autorità del campo, Simon Baron-Cohen, mostra che adulti con Asperger non riconoscono bene le emozioni negative nelle facce. Il loro comportamento è stereotipato, ripetitivo, trascurano le relazioni sociali, mancano di reciprocità e simpatia per chi soffre, monologano più che conversare. Faticano a cambiare rotta una volta iniziato un comportamento.

La psichiatria cancella Asperger dai manuali: l’eponimo è sparito dal DSM 5 (il manuale diagnostico più diffuso) ed è marginale nell’ICD-11 (OMS). Si parla ora di disturbi dello spettro autistico, problemi simili a livelli differenti di gravità e funzionamento.

Hans Asperger è stato solo uno psicopatologo acuto, superato dal progresso? Putroppo no. Edith Sheffer ne mostra il lato oscuro, ci accompagna nell’abisso: ha contribuito a usare diagnosi di autismo e disabilità per sostenere l’eugenetica nazista. È stato complice dell’orribile Erwin Jekelius, direttore della “Clinica di pedagogia curativa Spiegelgrund”. Si intuisce cosa vi accadesse? Riporto dal libro di Sheffer, in memoria della piccola Ulrike Mayerhofer, diagnosticata come “gravemente autistica, praticamente inaccessibile dall’esterno”. Trasferita allo Spiegelgrund, fu fatta richiesta di sopprimerla. Un mese e mezzo dopo morì, ufficialmente per polmonite.

Sheffer narra di decine di bambini disabili, prima etichettati, poi mandati a morire. Asperger era lì, operava dietro le quinte, mai esplicitamente nazista, sicuramente coinvolto. Dovevo verificare. Scopro che Herwig Czech, Università di Vienna, ha pubblicato la stessa tesi, in contemporanea a Sheffer, sulla prestigiosa rivista Molecolar Autism. Un editoriale, tra gli autori il già citato Baron-Cohen, ne conferma il valore: Asperger contribuì alla soppressione di bambini inadeguati al Volk, devianti dall’ideale ariano.

I fatti sono inequivocabili, Sheffer e Czech riscrivono una pagina di storia. Che conclusioni ne traggono? Divergenti. Sheffer ha un approccio antidiagnostico, che non condivido. Riduce le osservazioni di Asperger al contesto – oggettivamente mostruoso – nel quale le ha formulate. Non possiamo accettare il termine “psicopatia autistica”, che implica una devianza sociale, ma la descrizione della sindrome era valida. Oggi la si considera la forma meno grave dello spettro autistico, il DSM 5 parla di Livello 1, ovvero lieve ma comunque bisognoso di supporto.

Sheffer nega invece il valore scientifico di quelle osservazioni che, secondo lei, nate nella cultura nazista, riprendono vigore in una società votata “all’ansia di integrazione in un mondo perfezionista”. Psichiatri e psicologi che trattano le persone con autismo sarebbero guidati dall’ “obiettivo di inculcargli sentimenti, pensieri e interazioni con il mondo… C’è chi parla di ‘curare’ o ‘guarire’ i bambini”. Vede un mondo volto a etichettare e di conseguenza stigmatizzare.

Czech, al contrario, sostiene senza mezzi termini che le osservazioni scientifiche di Asperger erano valide, non contaminate dalla complicità col nazismo. La documentazione storica di Sheffer è preziosa, le sue deduzioni e conclusioni no. Intanto due autori che peraltro cita, Frankl e Weiss, ebrei, formularono le stesse osservazioni negli stessi luoghi di Asperger, prima di lui, lo ispirarono. In modo più compassionevole, ma descrivevano gli stessi fenomeni e i loro occhi non erano offuscati dal delirio razziale. Poi, chi ha davvero creato problemi a persone affette da autismo è Bruno Bettelheim, per altro sopravvissuto a Dachau, e noto per avere maltrattato bambini. S’inventò di sana pianta che l’autismo era causato dalle “madri frigofero”. Le ricadute di questa assurdità sulle famiglie sono state tremende. Le sue teorie erano insensate, non perché le ha formulate un ebreo scampate all’Olocausto, ma uno scienziato scadente.

Ridurre le scienze della mente al contesto storico dove nascono è rischioso. Così come lo è il considerare le diagnosi formulate da psichiatri e psicologi come figlie di una cultura che schiaccia l’individuo verso una sopposta norma. Sheffer, lo riconosco, segnala alcuni problemi reali: la diagnosi può essere usata per dare più medicine o diventare uno strumento al servizio dello stigma. Chi fa il mio lavoro può adottare una posizione paternalistica e trincerarsi dietro etichette per risparmiarsi la fatica di capire, empatizzare e curare: “È psicotico, autistico, non perdiamo tempo, un po’ di farmaci e via”. È un fatto, come nota Schaffer, che la diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività abbia portato all’aumento ingiustificato di prescrizioni di Ritalin.

Ma dare nomi alle malattie è inevitabile. Intanto la mente umana funziona categorizzando, si legga Kant e l’ornitorinco di Eco e si faccia pace con l’idea. Raggruppare concetti, oggetti, uomini in categorie è necessario per trasmettere conoscenza. Con la diagnosi identifichiamo fenomeni ricorrenti e così passiamo il sapere acquisito ai colleghi e alle generazioni future. Poi, il terapeuta saggio conosce categorie ma cura individui. Questo facciamo, e oggi, nelle riviste di psicologia e psichiatria, usiamo la formula: ‘persona affetta da… autismo, schizofrenia’ e non più ‘autistico’, ‘schizofrenico’.

Temple Grandin è la protagonista del libro di Oliver Sacks Un antropologo su Marte. Affetta da autismo ad alto funzionamento, ha inventato la macchina degli abbracci che calmava le mucche che allevava. Intervistata, non ha problemi a riconoscere di essere affetta da autismo. Ci tiene solo a essere considerata prima allevatrice di bestiame e poi affetta da autismo. La diagnosi non le ha peggiorato la vita.

Rivedremo House of cards sapendo che Kevin Spacey ha compiuto azioni esecrabili, ma resta un attore ineguagliabile. Leggeremo gli scritti di Asperger sapendo che osservazioni più accurate hanno superato le sue, e che lui ha anche agito servendo il male. Psichiatri e psicologi potranno sbagliare, ma in gran parte faranno diagnosi per capire. Al fine di curare meglio.

ADHD a scuola: l’utilizzo delle pagelle giornaliere per ridurre la procrastinazione e aumentare l’autostima

L’ ADHD è un disturbo che entra a far parte delle classificazioni internazionali nel 1980. La prevalenza mondiale della diagnosi di ADHD nei bambini e adolescenti è stimata intorno al 5,9-7,1%.

 

La prevalenza di ADHD in Italia si attesta intorno all’1% della popolazione di età compresa tra i sei e i diciassette anni. La diffusione della diagnosi ha creato molto allarme, in particolare negli USA, che presentano un’incidenza della diagnosi molto più elevata rispetto all’Italia e una frequenza maggiore nella prescrizione di farmaci.

ADHD: come interferisce con l’attività scolastica

Questi bambini/ragazzi incontrano diverse difficoltà nella vita quotidiana, e molte di queste si manifestano nei contesti scolastici. In particolare, tra i diversi fattori che interferiscono nell’attività accademica, vi sono:

  • Sensibilità alla noia
  • Difficoltà nello svolgere attività che richiedono concentrazione
  • Difficoltà a portare a termine le attività
  • Approccio dispersivo, senza priorità
  • Impulsività, scarsa pianificazione
  • Scarsa gestione del tempo
  • Incapacità di rispettare le scadenze
  • Tendenza a procrastinare

ADHD: l’ausilio delle pagelle giornaliere

A tal proposito, uno studio condotto dall’Università di Exeter, ha intrapreso una revisione sistematica al fine di analizzare, in tutte le ricerche disponibili, l’utilizzo di misure non terapeutiche a sostegno dei bambini con ADHD, implementate dalle scuole.

Dalla ricerca è emerso un risultato promettente rispetto all’utilizzo delle pagelle giornaliere. Queste avevano come fine quello di fissare degli obiettivi giornalieri, rispetto alle attività dei bambini con ADHD. Tale procedura, include anche l’utilizzo di alcuni premi che vengono assegnati per stimolare i ragazzi/e a raggiungere gli obiettivi prefissati. L’uso di una pagella giornaliera rappresenta un metodo economico e facile da implementare. Infine, tale metodo, può incoraggiare la collaborazione tra la famiglia e la scuola e offre la flessibilità necessaria per rispondere alle esigenze individuali di un bambino, attraverso obiettivi ad-hoc.

Questa procedura, rispetto alle difficoltà precedentemente menzionate dei bambini con ADHD, assume un ruolo molto importante. La presenza di obiettivi giornalieri incide positivamente rispetto alla tendenza alla procrastinazione, alla difficoltà di portare a termine le attività, a non rispettare le scadenze etc.. Il raggiungimento dei diversi obiettivi produrrebbe una serie di effetti positivi “a cascata” rispetto all’autostima, l’autoefficacia e l’autoregolazione e ridurebbe invece i vissuti di ansia, depressione e frustrazione che spesso accompagno questi ragazzi/e.

Tamsin Ford, professoressa di Child Psychiatry presso l’Università di Exeter Medical School, sostiene:

I bambini con ADHD sono ovviamente tutti unici, a tal proposito, non esiste un approccio valido per tutti, da utilizzare nelle scuole (..) Le ricerche hanno messo in evidenza che gli interventi non farmacologici implementati nelle scuole, possono aiutare i bambini a impiegare il loro potenziale, in termini di risultati accademici e di altro tipo. E’ necessaria una maggiore ricerca, ma nel frattempo le scuole dovrebbero provare a utilizzare le pagelle giornaliere.

Una società complessa: c’è posto per la fragilità? – Il caso di Desirée dovrebbe farci riflettere

La morte di Desirée, avvenuta nel quartiere di San Lorenzo a Roma, in questi giorni consegna alle coscienze di tutti noi un obbligo: quello di riflettere. Riflettere se la complessità di un evento così doloroso e ingiusto, debba trovare solo spettatori rabbiosi che cercano una sola causa a tutto ciò, dimenticando la complessità di cui questo evento si fa portavoce.

 

L’evento mette in luce: un atto di violenza, un nucleo familiare potenzialmente fragile, su cui ancora si sta cercando di far luce e un contesto in cui si intrecciano delinquenza, tossicodipendenza e mancata integrazione.

Può solo la legge e quindi la giustizia combattere tutto ciò?

Può una società così complessa, ignorare il valore del benessere psico-sociale degli individui che la compongono? Risuonano pregne di attualità le parole con cui Bauman descrive le società “moderne”, definendole liquide:

Come Beck ha acutamente e saggiamente osservato: ‘il modo in cui si vive diventa una soluzione biografica a contraddizioni sistemiche’. Rischi e contraddizioni continuano ad essere prodotti a livello sociale; sono solo il dovere e la necessità di affrontarli a essere stati individualizzati (Bauman, 2011).

Mi chiedo in che modo un adolescente oggi, in maniera individuale, possa trovare risorse per affrontare questa società liquida? Penso alle grandi istituzioni: alla famiglia, alla scuola, ai servizi territoriali. L’individualizzazione, ad oggi, è stata estremizzata ed è per questo che somiglia ad una fatiscente idea di libertà, ma che eventi come questi, disegnano sempre più simile alla solitudine.

Il benessere psicologico di un adolescente è una conquista difficile, lo è ancor di più quando le istituzioni che dovrebbero contenere fisiologiche spinte alla trasgressione non ci sono. Non possiamo ridurre la tutela dei cittadini ad un giustizialismo post-mortem, non è questo di cui la società ha bisogno.

La morte di Desirée è l’emblema di esigenze educative chiare, di accoglienza e cura della fragilità, è l’emblema della richiesta di un territorio affinché possa offrire spazi di vita e non di morte.

Se una società vuole veramente proteggere i suoi bambini, deve cominciare con l’occuparsi dei genitori, così affermava Bowlby, noto psicologo britannico che ha elaborato la teoria dell’attaccamento. La responsabilità genitoriale non esclude che gli stessi genitori possano compiere errori, che anch’essi possano vivere le loro “fragilità e contraddizioni”.

Dinanzi a ciò dobbiamo ripercorrere questa società, con un senso di responsabilità maggiore, con lo sviluppo di un’inclinazione che miri all’ascolto dell’altro.

Questa riflessione tiene altresì conto del potere che lo Stato e le sanzioni penali devono garantire ai fini dell’applicazione della giustizia e della tutela della cittadinanza, ma lo stesso Stato dovrebbe tornare ad offrire ai cittadini servizi per il benessere psicologico utili ad accogliere gli adolescenti con le loro fragilità e ad accompagnare le famiglie in quel percorso, tanto complesso, che è oggi la genitorialità.

La nostra è una società complessa, “liquida”, per usare l’aggettivo dello stesso Bauman, che in quanto tale richiede soluzioni complesse per far si che torni ad essere un promotore attivo di vita e non di morte.

Qual è il ruolo dell’impulsività nel Binge Eating Disorder?

In questo articolo ci soffermeremo in particolar modo a parlare del Binge Eating Disorder (BED), descriveremo le sue peculiarità e ci concentreremo sul ruolo che riveste la strategia dell’ impulsività in questo specifico disturbo.

Maria Obbedio e Ilaria Perrucci – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

I disturbi dell’alimentazione (DA) sono patologie caratterizzate da un’alterazione delle abitudini alimentari e da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per le forme del corpo.

Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e colpiscono soprattutto il sesso femminile. Tuttavia attualmente, come suggerisce la responsabile del Servizio Ambulatoriale Disturbi del Comportamento Alimentare – Umbertide, Dr.ssa Laura dalla Ragione, in un’intervista per Repubblica, in occasione della giornata dedicata ai disturbi alimentari, l’età di manifestazione dei DA si è abbassata notevolmente. Infatti, si ammalano anche bambini di 8-10 anni. Inoltre, anche il numero dei ragazzi di sesso maschile tra i 13-17 anni è aumentato e si aggira intorno al 20%.

Come si manifestano i disturbi dell’alimentazione e quali sono le loro caratterische

I comportamenti tipici di un disturbo dell’alimentazione sono: la diminuzione dell’introito di cibo, il digiuno, le crisi bulimiche (ingerire una notevole quantità di cibo in un breve lasso di tempo), il vomito per controllare il peso, l’uso di anoressizzanti, lassativi o diuretici allo scopo di controllare il peso, un’intensa attività fisica. Alcune persone possono ricorrere ad uno o più di questi comportamenti, ma ciò non vuol dire necessariamente che esse soffrano di un disturbo dell’alimentazione. Ci sono infatti dei criteri diagnostici ben precisi che chiariscono cosa debba intendersi come patologico e cosa invece non lo è.

Una caratteristica quasi sempre presente in chi soffre di un disturbo alimentare è l’alterazione dell’immagine corporea che può arrivare ad essere un vero e proprio disturbo. La percezione che la persona ha del proprio aspetto, ovvero il modo in cui nella sua mente si è formata l’idea del suo corpo e delle sue forme, sembrano influenzare la sua vita più della sua immagine reale. Il corpo diventa teatro di una sofferenza profonda vissuta dal soggetto. È il corpo che deve comunicare. Ad esempio, si può notare come spesso chi soffre di anoressia non riesce a giudicare il proprio corpo in modo obiettivo; l’immagine che rimanda lo specchio è ai loro occhi quella di una ragazza coi fianchi troppo larghi, con le cosce troppo grosse e con la pancia troppo “grande”.

Per le persone che soffrono di bulimia nervosa invece, vi è un’angoscia per la visibile perdita di controllo sul cibo. Sia nell’anoressia nervosa che nella bulimia nervosa, la valutazione di sé stessi dipende in modo eccessivo dal peso e dalla forma del proprio corpo. Il corpo si fa portatore di vissuti traumatici, difficili e insopportabili.

La bulimia nervosa e l’anoressia nervosa rappresentano solo due dei tanti disturbi alimentari. I manuali diagnostici aggiungono anche altri disturbi alimentari come l’obesità e il Binge Eating Disorder (BED).

In questo articolo ci soffermeremo in particolar modo a parlare del Binge Eating Disorder, descriveremo le sue peculiarità e ci concentreremo sul ruolo che riveste la strategia dell’ impulsività in questo specifico disturbo.

Binge Eating Disorder (BED)

Il Binge Eating Disorder (in italiano Disturbo da Alimentazione Incontrollata) è un disturbo multifattoriale che si caratterizza per la presenza di crisi bulimiche in assenza di comportamenti di compensazione inappropriati per il controllo del peso.

Rispetto agli altri pazienti con disturbi dell’alimentazione, i soggetti affetti da Binge Eating Disorder hanno mediamente un peso maggiore, una maggiore frequenza di sovrappeso o obesità, un’età di esordio più varia (che può essere a qualsiasi età, mentre per anoressia nervosa e bulimia nervosa è soprattutto in età adolescenziale), una maggiore prevalenza anche nelle persone di sesso maschile.

Spesso le persone con disturbo da alimentazione incontrollata si rivolgono ai centri per il trattamento dell’obesità, ma rispetto ai pazienti con obesità riportano una maggiore presenza di sintomi psichiatrici, in particolare depressione, disturbi d’ansia e di personalità. Come le persone con obesità, le persone con Binge Eating Disorder possono essere oggetto di discriminazione da parte degli altri a causa della loro condizione fisica.

A livello emotivo, anche chi soffre di Binge Eating Disorder prova un senso di vergogna e di insoddisfazione per il proprio corpo anche se non necessariamente viene perseguito un ideale di magrezza estremo. Essi avvertono un profondo senso di disagio nel perdere il controllo con il cibo, ma a differenza dei soggetti con bulimia nervosa, non sempre danno un’importanza eccessiva al peso o alla figura corporea per valutare se stessi.

Criteri Diagnostici del Binge Eating Disorder

Di seguito vengono riportati i Criteri diagnostici del Binge Eating Disorder secondo il DSM 5:

A. Ricorrenti crisi bulimiche. Una crisi bulimica è caratterizzata da entrambi gli aspetti seguenti:

  • Mangiare, in un periodo definito di tempo (es. 2 ore), una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili;
  • Sensazione di perdere il controllo durante l’episodio (es. sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o di non controllare che cosa o quanto si sta mangiando).

B. Le abbuffate sono associate con tre (o più) dei seguenti aspetti:

  • Mangiare molto più rapidamente del normale;
  • Mangiare fino a sentirsi spiacevolmente pieno;
  • Mangiare grandi quantità di cibo quando non ci si sente fisicamente affamati;
  • Mangiare da solo perché ci si sente imbarazzati dalla quantità di cibo che si sta mangiando;
  • Sentirsi disgustato di se stesso, depresso o assai in colpa dopo l’abbuffata.

C. È presente un marcato disagio in rapporto alle abbuffate

D. Le abbuffate si verificano, in media, almeno una volta a settimana per 3 mesi

E. Le abbuffate non sono associate all’attuazione ricorrente di condotte compensatorie inappropriate come nella bulimia nervosa e non si verificano esclusivamente durante il decorso della bulimia nervosa o dell’anoressia nervosa

Questi pazienti manifestano difficoltà in svariati ambiti della loro vita:

  • Disagio sociale e giovanile esteso alla maggior parte dei rapporti interpersonali;
  • Distorsione nella visione del proprio corpo che alimenta un senso di insicurezza e d’inadeguatezza;
  • Pressione e stress dovuti alla grande quantità di tempo trascorso sotto regime dietetico;
  • In alcuni casi abuso di alcol o droghe;
  • Difficoltà a gestire gli stati d’animo o a esprimere/manifestare le proprie emozioni, compresa la rabbia;
  • Senso di impotenza legato all’incapacità di controllare il proprio comportamento alimentare e il conseguente aumento di peso.

Binge Eating Disorder: il ruolo dell’ impulsività

Il 50% dei pazienti con Binge Eating Disorder soffre di depressione maggiore, disturbo di panico e di alcuni disturbi di personalità. Il sintomo dell’abbuffata infatti andrebbe a compensare una sensazione pervasiva di sconforto persistente presente nel momento della crisi. Un elevato sovrappeso può contribuire al mantenimento e all’accentuazione del sintomo compulsivo in quanto restituisce a chi ne soffre un senso di fallimento, di colpa e di vergogna che “alimenta” la condotta alimentare incontrollata. Durante gli episodi di abbuffata il soggetto è inconsapevole di quello che sta facendo, per cui c’è una perdita di controllo (Mannucci, Ricca, Rotella, 2001). In seguito, è in preda a sentimenti di disgusto.

Inoltre, i pazienti con Binge Eating Disorder presentano specifiche caratteristiche di personalità e proprio tali caratteristiche vengono considerate come fattori di vulnerabilità individuale, cioè fanno sì che coloro che ne sono portatori siano più esposti di altri a sviluppare tale disturbo. La considerazione dei tratti patologici di personalità nei DA e anche nei BED mette in luce il problema della comorbidità (ovvero l’associazione di due o più disturbi nello stesso soggetto), di particolare importanza sia per la ricerca che per la pratica clinica, soprattutto quando ci si interfaccia con quelli che vengono definiti da Fairburn “i casi complessi”. Non è raro, infatti, trovare la presenza di sintomi collegati ad uno o più disturbi aggiuntivi del vecchio Asse I del DSM IV, o sintomi che sono in linea con alcuni disturbi di personalità (Fairburn, Cooper, Waller, 2010).

A livello clinico, si osservano persone spesso impulsive e disregolate da un punto di vista emozionale. Il disturbo alimentare è un tentativo impulsivo-compulsivo di regolare sentimenti percepiti come intollerabili. In particolare, alcuni pazienti riportano sentimenti di disperazione, incapacità a tollerare lo stress e ricerca spasmodica di una sensazione immediata di gratificazione. L’assunzione incontrollata del cibo e la sua eliminazione viene così a costituirsi e rinforzarsi come fallimentare autocura.

Considerando che il Binge Eating Disorder è un disturbo riconosciuto solo di recente, la letteratura in merito a tale argomento non è molto copiosa. Tuttavia, alcuni studi rigurdanti la personalità si sono soffermati sulla dimensione dell’ impulsività – compulsività (in Leombruni, Fassino, 2009). Così come si può osservare nei disturbi che fanno parte del continuum ossessivo-compulsivo, allo stesso modo nel BED, per poter evitare l’emozione dell’ansia, si mette in atto un impulso che possa garantire una fallace sensazione di benessere. Il poter cedere all’impulso, infatti, genera una sorta di piacere soggettivo anche se le sue conseguenze possono essere estremamente dilanianti. La persona, pertanto, percepisce di non riuscire a resistere all’impulso di mangiare. Prima di commettere l’atto il soggetto avverte un aumentato senso di tensione (arousal). Solo mentre commette l’atto e quindi mangia, avverte piacere e gratificazione.

Tuttavia, questo meccanismo innesca un circolo vizioso per cui, in un secondo momento vengono alla luce vissuti negativi che si presentano per lo più sottoforma di sensi colpa e di vergogna (in Leombruni, Fassino, 2009).

BED e modello psicobiologico della personalità

Per poter ben comprendere il Binge Eating Disorder è interessante far riferimento al modello psicobiologico della personalità, il quale potrebbe rivelarsi un’ulteriore chiave di lettura del disturbo stesso e potrebbe rappresentare l’elemento di congiunzione tra i diversi costrutti teorici utili a spiegare un disturbo così peculiare.

Secondo questo approccio ci sono tre dimensioni temperamentali e caratteriali, le quali potrebbero costituire un pattern di personalità specifico del BED. In particolare ad un’alta ricerca della novità (Novelty Seeking, NS), corrisponderebbe la sfera dell’ impulsività e dell’aggressività. Ad un alto evitamento del danno (Harm Avoidance, HA), corrisponderebbe uno spettro ansioso-depressivo. Ad una bassa autodirettivià (Self Directeness, SD) corrisponderebbe un indicatore di fragilità, una difficoltà a contenere un temperamento caratterizzato da impulsività e una predisposizione a sviluppare un disturbo di personalità.

L’ impulsività e la compulsività, colonne portanti della personalità di questi pazienti, sono alla base di diversi comportamenti disfunzionali. Tali caratteristiche, inoltre, compaiono tra i criteri più comuni impiegati nel DSM. Sono presenti, per esempio, nella diagnosi del disturbo di personalità borderline ed antisociale, del deficit di attenzione/disturbo da iperattività, dei disturbi da discontrollo degli impulsi e dei DA, più in generale.

Dal punto di vista clinico la relazione tra scarsa autodirettività e condotte di binge eating potrebbe rivelarsi molto utile per stilare un progetto psicoterapeutico per il trattamento del BED (in Leombruni, Fassino, 2009).

Disturbi dell’alimentazione, BED e impulsività

Ad ogni modo, in generale, i disturbi dell’alimentazione e l’ impulsività sembrerebbero condividere le stesse basi biolgiche. Cosi come i disturbi alimentari potrebbero essere interpretati in un continuum di disfunzione serotoninergica (5HT), allo stesso modo è stato dimostrato che nei soggetti impulsivi esiste un’alterazione del metabolismo della serotonina ed una riduzione dell’attività di questo neurotrasmettitore (Vikkunen, 1987). È interessante notare come livelli elevati di 5HT indurrebbero condotte anoressiche e comportamenti ossessivo-compulsivi, mentre, bassi livelli di 5HT produrrebbero condotte impulsive, con perdita del controllo sul comportamento alimentare e quindi porterebbe ad abbuffate nei soggetti bulimici ed affetti da Binge Eating Disorder (Brewerton, 1995; Wurtman, 1990).

Come menzionato in precedenza, il BED è un disturbo multifattoriale. Pertanto, oltre che tener conto delle basi biologiche correlate al disturbo è interessante comprendere la percezione della realtà dei soggetti presi in analisi.

Secondo l’approccio cognitivista, è frequente nelle persone con Binge Eating Disorder la presenza del pensiero dicotomico: il paziente sarebbe soggetto a estremizzazioni ripetute ed oscillazioni nel giudizio di se stesso e dell’ambiente. La mancanza di una sufficiente consapevolezza di sé facilita l’insorgenza e il mantenimento di comportamenti estremizzati anche in ambito alimentare, producendo l’alternarsi di restrizioni ed abbuffate, tali da riproporre all’individuo la propria incapacità di condurre un’esistenza equilibrata e risultando pericolose poiché rafforzano il senso di fallimento di fronte anche ad una piccola “ricaduta” alimentare, favorendo l’insorgenza dei sensi di colpa, l’insinuarsi e il successivo perpetuarsi dei sintomi depressivi.

Ancora, è possibile rintracciare la presenza di un perfezionismo patologico con una valutazione di sé eccessivamente dipendente dall’inseguimento e dal raggiungimento di determinati standard personali esigenti ed autoimposti (Dalle Grave, 2003). La persona pensa che potrà essere accettata solo a condizione di dare il massimo delle proprie possibilità senza la minima smagliatura. Il giudizio altrui viene considerato l’unico modo per stimare il proprio valore. Vari studi, come quello di Fassino et al, 2002, si sono avvalsi del Temperament and Character Inventory (TCI) uno strumento specifico utilizzato per analizzare il profilo temperamentale e caratteriologico in pazienti con DA. Essi hanno evidenziato che i pazienti con Binge Eating Disorder confrontati con pazienti obesi senza BED ottengono alti punteggi nella scala HA (Harm Avoidance), per cui sono soggetti più insicuri, timidi, apprensivi, nervosi, irascibili e impulsivi, più passivi e che tendono a scoraggiarsi più facilmente.

In particolare, l’ impulsività riveste un ruolo importante soprattutto nel mantenimento del comportamento disfunzionale (Bousardt et al, 2015). Di fronte ad una potenziale minaccia, l’individuo con un forte tratto di impulsività sembra non avere le risorse cognitive necessarie a valutare adeguatamente l’evento e identificare la risposta più adeguata. Al contrario, vi è un’alta probabilità che vengano messi in atto comportamenti aggressivi volti a proteggersi o a evitare il dolore. Si tratta di mettere in atto una risposta repentina in reazione a uno stimolo proveniente dall’ambiente esterno tramite un agito comportamentale. Il soggetto usa come strategia di protezione il comportamento alimentare. Il metodo usato non solo nel BED ma anche negli altri disturbi alimentari sembra essere legato da un unico filo comune: illusoriamente si cerca di controllare e gestire il proprio vissuto emotivo in un tentativo che sembra voler riattivare il corpo con il cibo.

La condotta impulsiva non si limita esclusivamente al cibo. La letteratura recente conferma la multidimensionalità del costrutto dell’impulsività. Whiteside e Lynam, sottoponendo ad analisi fattoriale alcuni classici strumenti di valutazione della personalità e dell’ impulsività, evidenziano l’esistenza di quattro diversi fattori:

  • urgency (“urgenza” in italiano), che include componenti quali le difficoltà di controllo inibitorio e l’ impulsività attentiva;
  • difficoltà di pianificazione, che include componenti come impulsività motoria, difficoltà nel prendere decisioni;
  • difficoltà di perseveranza;
  • ricerca di sensazioni e di situazioni nuove o emotivamente attivanti.

Non solo nel BED ma la condotta impulsiva è presente in tutto il quadro alimentare. Fisher e colleghi, in una meta-analisi, evidenziano che in particolare è la prima di queste dimensioni ad associarsi ai sintomi bulimici. Inoltre, sembra che sia pazienti con anoressia nervosa che pazienti con bulimia abbiano una maggiore labilità e impulsività attentiva, mentre le pazienti con anoressia sembrano essere meno caratterizzate da impulsività motoria e impulsività non pianificata rispetto ai pazienti bulimici. Le pazienti con anoressia nervosa sembrano dunque aderire più a caratteristiche perfezionistiche che non impulsive (Davies, Campbell, Tchanturia).

Inoltre, alcuni studi hanno ampiamente dimostrato come l’ impulsività sia un forte predittore di esito negativo del trattamento della bulimia nervosa (Fisher, Smith, Cyders, Feltman, Ferraro). La letteratura, ad esempio, riporta elevati livelli di comorbilità psicopatologica con disturbi da abuso/dipendenza da alcol e/o droghe. In questo caso specifico, l’associazione più rilevante sembra esistere con i soggetti affetti da bulimia nervosa o da anoressia nervosa, sottotipo “con abbuffate/condotte di eliminazione”, sia per quanto riguarda l’abuso di alcool che di droghe (Bulik, 1987; Welch, Fairburn, 1996). L’abuso o la dipendenza da sostanze sono stati riportati con una frequenza del 55% nelle pazienti affette da bulimia nervosa e del 23% nelle pazienti anoressiche (Kessler, McGonagle, Zhao et al.,1994). Il meccanismo su cui si basa una così frequente associazione non appare del tutto chiaro giacchè il legame si mostra complesso ed è verosimilmente basato su un intreccio di fattori biologici e psicosociali (Baker, Mitchell, Neale, Kendler, 2010). Tuttavia, è stato evidenziato come accada di frequente che, nel momento della remissione sintomatologica, le pazienti possano “sostituire” al sintomo alimentare un uso marcato (o abuso) di sostanze (ibidem).

Oltre alla concomitante presenza di abuso e/o dipendenza da alcool e droghe, in alcuni soggetti con DA si osservano altre condotte connesse all’ impulsività come la promiscuità sessuale, la cleptomania, comportamenti autolesivi o tentativi di suicidio.

Alla luce di quanto detto si evidenzia che alcuni tratti e modalità potrebbero compromettere il trattamento già di per sè difficile di questi pazienti. In particolare, il perfezionismo e l’ impulsività possono incidere nel trattamento di questi disturbi ostacolando l’alleanza terapeutica.

In conclusione

Partendo dalle ricerche presenti in letteratura che asseriscono che l’alessitimia, conseguenza deficitaria o strategia messa in atto rispetto a una gestione emotiva disregolata o disfunzionale, è una delle caratteristiche principali dei disturbi dell’alimentazione (Speranza, Loas, Wallier, et al., 2007) e che a elevati livelli di alessitimia corrispondono una significativa difficoltà nell’identificare le emozioni e i sentimenti, specialmente rabbia e stati emotivi negativi, e nell’esprimerli verbalmente (Schimdt, Jiwany, Treasure, 1993), potrebbe essere interessante orientare le future ricerche sia sullo studio della polarizzazione del pensiero, sia sullo studio dello stato emotivo dei pazienti con Binge Eating Disorder.

Un trattamento psicoterapico integrato del disturbo Ossessivo-Compulsivo: Schema Therapy e Terapia Cognitiva

Tre articoli usciti di recente propongono un’integrazione tra la Schema Therapy e la Terapia Cognitiva nel trattamento psicoterapico del disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), dando molto risalto, sia a livello teorico che terapeutico, non solo ai sintomi ma anche alle esperienze precoci.

 

Recentemente è stata pubblicata una serie di tre articoli sulla rivista Psychology ad opera di Basile, Mancini, Luppino e Tenore (Luppino et al., 2018; Tenore et al., 2018; Basile et al., 2018) in cui è descritta un’integrazione tra la Schema Therapy e la Terapia Cognitiva nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo (DOC).

Disturbo ossessivo-compulsivo secondo il modello cognitivo

Il modello cognitivo del DOC analizzato in dettaglio è quello di Mancini (2016) in cui si mette in risalto che lo scopo perseguito del paziente ossessivo è quello di prevenire un’emozione di colpa per propria responsabilità, valutata inaccettabile e grave. Più precisamente, i pazienti con DOC temono un particolare tipo di emozione di colpa, quella che si origina dall’assunzione di aver violato una regola morale interiorizzata, ovvero la colpa deontologica.

In aggiunta all’obiettivo di prevenire questa emozione, ci sono altri due scopi attivi nel paziente con DOC:

  1. Prevenire o neutralizzare la contaminazione disgustosa (Rachman, 2006)
  2. Evitare l’esperienza emotiva che qualcosa non sia come dovrebbe essere definita la Not Just Right Experience che tutti proviamo, ad esempio, difronte un quadro storto (NJRE – Coles et al., 2003)

Entrambi sono fortemente collegati con il timore di colpa deontologico (D’Olimpo & Mancini, 2014; Mancini e collaboratori, 2008).

Disturbo ossessivo-compulsivo secondo la Schema Therapy

Un ulteriore aspetto particolarmente interessante è l’attenzione rivolta alle esperienze precoci che possono sensibilizzare alle emozioni di colpa e di disgusto. Rispetto alla prima, il clima familiare descritto dai pazienti ossessivi risulta essere molto attento alla moralità e al comportamento normativo, ed è tendente a disapprovare il comportamento del bambino. Più in particolare, la reazione genitoriale alla trasgressione di una regola risulta spesso ambigua e incongrua e talvolta si accompagna alla distanza affettiva e a una particolare espressione facciale rappresentata dal “muso” (Tenore, 2018). Un simile atteggiamento, di tipo passivo-aggressivo, da parte del genitore, non rimanda al bambino solo l’eventuale inappropriatezza di un suo comportamento, ma gli comunica un senso di globale inaccettabilità come persona, minacciando la continuità della relazione con la figura d’accudimento. Appare facile comprendere come una minaccia così grave possa spingere la persona ossessiva a comportarsi in maniera impeccabile, anticipando ogni eventuale mancanza e responsabilità.

A questo si aggiungono l’ipercontrollo, il criticismo e gli elevati standard genitoriali, responsabili dello sviluppo di credenze perfezionistiche, sulla base delle quali lo scostarsi dagli standard severi proposti determina la sensazione di essere colpevoli per non essere stati all’altezza, di avere deluso le aspettative causando sofferenza nel genitore. Rispetto al disgusto, sembrerebbe che la più frequente modalità con cui un bambino si sensibilizza a questa emozione sia attraverso una “trasmissione” genitore-bambino (Rozin et al., 2000). In uno studio di Rozin e collaboratori (2000) è emerso che i figli di genitori particolarmente reattivi agli stimoli elicitanti disgusto di base, si mostrano molto reattivi anche agli stimoli evocanti disgusto morale. Questo sostiene l’ipotesi che la sensibilità al disgusto del genitore svolga un ruolo determinante rispetto allo sviluppo di risposte inerenti stimoli morali, connessi al rischio di provare colpa deontologica. Il disgusto morale, rispetto a quello fisico, presenta maggiori connotazioni relazionali e il percepirsi moralmente disgustosi è connesso alla percezione di minaccia rispetto alla continuità della relazione con l’altro. Infatti, i pazienti con DOC riferiscano il timore di poter essere giudicati negativamente e più in particolare, di poter essere oggetto di disgusto e disprezzo da parte degli altri a causa dei propri errori. Tutto ciò mette in risalto come le esperienze precoci siano un punto molto importante non solo per comprendere lo sviluppo della sintomatologia ma anche un punto di azione terapeutica, dato che queste esperienze compongono un corpus di memorie sofferenti per il paziente.

Disturbo ossessivo-compulsivo secondo il modello integrato: approccio cognitivo e Schema Terapy

Per capire nel dettaglio il modello integrato proposto, è utile partire da un esempio clinico di un paziente ossessivo con il timore di essere omosessuale, descrivendo così il profilo interno del funzionamento del disturbo ossessivo-compulsivo di Mancini e collaboratori (2016) e rappresentato graficamente nella Figura 1.

Figura 1. Schema DOC secondo il modello di Mancini

Disturbo ossessivo-compulsivo un modello psicoterapico integrato 1

 

Dal modello di funzionamento del DOC di Mancini (Figura 1) deriva uno specifico intervento psicoterapico cognitivo. I due obiettivi principali del modello di intervento sono:

1) ridurre i circoli viziosi che sono alla base del mantenimento del DOC perseguendo l’accettazione del rischio percepito

2) abbassare la sensibilità alla colpa deontologica nei pazienti.

Spesso l’ordine di azione nel processo psicoterapeutico può essere quello sopra menzionato, ma ci sono dati in letteratura che mettono in risalto come un’azione diretta sulla vulnerabilità possa portare a risultati importanti in termini di riduzione sintomatica. Diversi lavori suggeriscono che l’intervento sulla vulnerabilità da solo, senza passare per il lavoro sui processi ricorsivi, sia in grado di produrre una riduzione clinicamente significativa della sintomatologia ossessiva. In linea con tale ottica, Veale e colleghi hanno mostrato l’efficacia, in termini di riduzione sintomatica, di un’unica seduta di Imagery with Rescripting (tecnica molto importante nella Schema Therapy) orientata verso ricordi di colpe connessi al dominio dei sintomi. Più recentemente una ricerca tutt’ora in corso e di cui si conoscono dati preliminari (Tenore et al., 2018) suggerisce come un lavoro esperienziale attraverso il solo utilizzo della tecnica dell’Imagery with Rescripting su episodi di colpevolizzazione precoce, produca una riduzione clinicamente significativa dei sintomi ossessivi in una buona percentuale di pazienti. La particolarità dei lavori di Basile, Mancini, Luppino e Tenore è stata quella di riportare la prospettiva del modello della Schema Therapy in chiave di Mode, sovrapponendola e integrandola con il modello cognitivista di Mancini (2016). Il suggerimento terapeutico è applicare il lavoro dei Mode in particolare per potenziare il Mode dell’adulto sano e favorire l’accettazione della minaccia posta dalle ossessioni. Entrando nello specifico del lavoro viene fatta una sovrapposizione minuziosa tra le fasi dello schema di Mancini e i Mode che si attivano (Figura 2).

Figura 2. Sovrapposizione tra il modello cognitivista (Mancini 2016) e il modello Schema Therapy applicati al DOC, in Tenore et al., 2018, pag 2284.

Disturbo ossessivo-compulsivo un modello psicoterapico integrato 2

Analizzando nel dettaglio i Mode, emerge che nel Mode Bambino vulnerabile, il paziente percepisce come intollerabile la possibilità di essere entrato in contatto con una sostanza disgustosa, o che questo sia potuto accadere. Lo scopo dell’intervento non riguarda la rassicurazione del paziente nel Mode Bambino, quanto piuttosto di accettare la possibilità dell’evento (reale o temuto). Quando il paziente è nel Mode Genitore Esigente e Punitivo, non tollera il minimo dubbio rispetto alla possibilità di essere omosessuale, e la possibilità di commettere un errore viene associata ad una punizione molto severa. L’internalizzazione e l’aderenza a questa voce punitiva va sostituita con la capacità di motivarsi in maniera sana e realistica, con standard e aspettative realistiche, imparando a sviluppare un atteggiamento compassionevole verso la possibilità di commettere degli errori. Nel Mode Bambino Arrabbiato è importante considerare che l’espressione della rabbia in sé non costituisce alcuna modalità problematica, ma una espressione particolarmente aggressiva, che oltre ad essere disfunzionale da un punto di vista relazionale, potrebbe riattivare il genitore Critico. A seguito dell’espressione rabbiosa per i rituali o per le critiche che le persone muovono al paziente, o per il riconoscimento autonomo dei costi del disturbo, il paziente ossessivo sperimenta una intensa emozione di colpa e timore di non accettazione. Il lavoro sul Mode arrabbiato verte sull’ aiutare il paziente a condividere i motivi della propria emozione in modo adulto e assertivo esprimendo la rabbia in modo sano. Considerando i Coping Mode è importante differenziare tra le strategie di evitamento (protettore distaccato e auto-consolatore) e le strategie di ipercompensazione (Perfezionista, Ipercontrollante). Nel primo caso le strategie servono a non entrare in contatto con le emozioni, mentre nel secondo caso le strategie sono tese a neutralizzare il rischio che un evento negativo possa realizzarsi, compensando e contrattaccando lo schema sottostante. L’intervento terapeutico sul coping Mode di evitamento include la sostituzione di questo con modalità cognitive, comportamentali e relazionali più funzionali che possano aiutare il paziente ad entrare in contatto con i propri bisogni, e a soddisfarli. Il razionale dell’intervento sul Mode Perfezionista ipercontrollante è l’abbandono delle strategie di neutralizzazione. L’obiettivo è favorire il mode dell’adulto sano sviluppando una accettazione consapevole, ovvero un Mode “Accettante”, in cui il paziente, guidato e sostenuto dal terapeuta, sceglie di tollerare le emozioni sgradevoli che accompagnano la prevenzione della compulsione.

Disturbo ossessivo-compulsivo secondo il modello integrato: le tecniche e la sequenza d’uso

Ampio risalto è dato all’integrazione delle tecniche cognitive e di quelle esperienziali della Schema Therapy (ST, Young, 2003) nel trattamento del paziente ossessivo. Le tecniche emotivo-esperienziali principali usate nella Schema Therapy inlcudono l’imagery with Rescripting (Arntz e Weertman, 1999) e il lavoro con le sedie (chairwork) (Kellogg, 2004). Da un recente studio in corso di pubblicazione (Basile et al., 2018), è emerso che le emozioni più frequentemente riportate dai pazienti DOC durante l’applicazione dell’ imagery with Rescripting includono il senso di colpa, solitamente associato a ricordi di rimprovero da parte di entrambi i genitori. In un’altra serie di lavori un’altra emozione frequentemente riferita dai pazienti ossessivi è relativa al timore di essere disgustosi (Tenore et al., 2016; Mancini, 2016). Conseguentemente, durante l’esercizio immaginativo lo scopo nella fase di Rescripting è quello di ridurre e rassicurare il bambino nell’evento rispetto alla sua accettabilità e rassicurazione. Quindi con l’uso dell’imagery si vanno a riscrivere tutte quello memorie relative ad eventi precoci di colpevolizzazione e rimproveri che caratterizzano l’infanzia di questi pazienti, producendo un abbassamento della sensibilità alla colpa nel paziente.

In parallelo con l’imagery viene svolto il lavoro con le sedie. L’obiettivo in questo caso è di identificare e confrontare il paziente con i propri Mode, con l’obiettivo di riconoscerli e gestirli in modo adeguato e funzionale, tramite l’adulto sano, e aumentandone la capacità di rispondere ai bisogni del Mode Bambino vulnerabile. Vengono descritti inoltre gli interventi cognitivi di accettazione. Accettazione significa passare da un mindset orientato al “perseguire un obiettivo che è impossibile raggiungere “, al punto di rinunciare e accettare la natura irrealistica di questo obiettivo. I pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo, considerano la colpa e il disgusto come vissuti inaccettabili che uno ha il potere e il dovere di controllare e prevenire, ad ogni costo.

Disturbo ossessivo-compulsivo: l’obiettivo accettazione

L’accettazione per i pazienti ossessivi significa tollerare la minaccia di essere responsabili per un danno futuro ed accettare di essere “moralmente imperfetti”. Analogamente, per i pazienti con compulsioni di lavaggio si impara a tollerare la possibilità di essere giudicati come disgustosi dagli altri, o di essere moralmente disprezzati. L’obiettivo è aiutare il paziente a distinguere tra ciò che-è e ciò che-non-è nel suo potere raggiungere. Ciò potrebbe essere fatto attraverso l’uso del dialogo socratico e della discussione “reductio ad absurdum” (Mancini, 2016). Un secondo passo è volto a modificare la convinzione di eludere, o ridurre, la minaccia. Questa convinzione potrebbe essere affrontata concentrandosi sui costi dei tentativi di soluzione rispetto ad altri obiettivi maggiormente rilevanti. Altre fasi, implicano il lavorare sulla credenza che il senso di colpa è nell’ordine naturale delle cose e decatastrofizzando la sua esperienza. Quest’ultimo può essere fatto attraverso il dialogo socratico, con esperimenti comportamentali, esercizi di distanziamento e de-fusione e aumentando nel contempo l’esperienza accettazione. Tutti questi aspetti, inseriti all’interno di questo mode, consentono il rafforzamento dell’Adulto sano. Gli interventi cognitivi possono essere adottati anche durante gli esercizi di immaginazione e nel contesto del lavoro con le sedie.

Questi tre articoli risultano essere una ottima guida rispetto al funzionamento del paziente ossessivo, fornendo una maggiore comprensione dei meccanismi cognitivi alla base del disturbo ossessivo-compulsivo e integrandoli all’interno di un quadro di funzionamento più allargato e dinamico, grazie alla cornice della Schema Therapy. In modo fine, acuto e scientificamente solido, vengono descritti la genesi, il mantenimento e la battaglia che il paziente conduce quotidianamente contro il suo DOC. Alla fine della lettura di questi articoli ho avuto una forte sensazione di sapere cosa fare, perché ho capito cosa sta accadendo nella mente di un paziente ossessivo ed ho pensato ad una vecchia frase di San Francesco che diceva:

Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile.

 

Michel Foucault in Soggettività e verità (2017): uno sguardo sconvolgente sulla società e su temi sempre attuali anche nella cultura moderna – Recensione del libro

Attraverso uno sguardo che sa essere sconvolgente, Michel Foucault ci guida in un’analisi capace di smontare alcune delle idee forza della società moderna.

 

Gli anni ‘60 sono ormai lontani ma hanno segnato indelebilmente l’immaginario occidentale e hanno contribuito in modo decisivo a plasmare la cultura ed il pensiero politico del nostro tempo. Si creò allora una peculiare alleanza tra ceti sociali estremamente eterogenei. Le menti più raffinate dell’intellighenzia si schierarono a fianco dei lavoratori. I rampolli delle famiglie borghesi che affollavano le aule universitarie sfilarono per qualche tempo assieme ad operai e muratori. Li univa un’acre avversione per le tradizionali istituzioni del potere: gli organi dello stato, la Chiesa, la banca, la fabbrica.

Alla testa di questo originale e complesso fenomeno sociale troviamo un drappello di agguerritissimi intellettuali militanti. Herbert Marcuse, Theodor W. Adorno, Jean-Paul Sartre e, naturalmente, Michel Foucault si ispiravano genericamente all’ideologia marxista. Ma avevano spostato il focus della loro indagine.

Sottoposero le strutture e le istituzioni sociali ad una analisi acutissima ed implacabile. Rivelarono i meccanismi occulti che sostengono e perpetuano il potere nei contesti sociali, e le strategie mediatiche che assicurano la gestione del consenso.

Michel Foucault: il suo pensiero e l’impatto sulla cultura moderna

L’opera di Michel Foucault svolse un ruolo centrale nello sviluppo della cultura radicale degli anni ‘60. Foucault rivolse la sua attenzione alle strutture implicite della società di massa. Svelò le idee forza attorno alle quali la cultura occidentale aveva costruito le sue pratiche di controllo e segregazione. In Storia della Follia nell’età classica analizzò il concetto di follia, inteso come rifiuto di sottoporsi alle regole sociali. In Nascita della clinica rivelò le implicite finalità del potere medico. In Sorvegliare e punire chiarì come l’istituzione carceraria nasconda dietro la rappresentazione della colpa e della pena una generale istanza di disciplina e controllo propria della società capitalistica.

Oggi, a distanza di ormai oltre trent’anni dalla sua scomparsa, l’impatto del pensiero di Foucault sulla cultura moderna rimane molto molto evidente. Perfino nella psichiatria del XXI spesso, egemonizzata da un riduzionismo materialista a volte sfrontato e cinico, la dimensione sociale conserva un ruolo rilevante ed istituzionalmente riconosciuto.

Negli ultimi anni della sua vita Michel Foucault rivolse i suoi interessi ad una dimensione più intima. Distolse il suo sguardo dagli spazi pubblici, dalle istituzioni, e decise di applicare la sua peculiare metodologia analitica alle interazioni corporee, propriamente sessuali, tra gli esseri umani. Nacque così un progetto colossale, che potè giungere alla pubblicazione solo in parte. Alla morte del grande filosofo francese ci resteranno i tre volumi de L’histoire della sexualite (1976-1984). Il terzo di questi testi nasce da uno dei famosi seminari che il maestro francese tenne per vari anni al College de France. È questo il testo che ci consegna Pier Aldo Rovatti nella traduzione di Deborah Borca e Carla Triolo.

Non c’è dubbio. Lo sguardo di Foucault sa essere sempre sconvolgente. Come abbiamo accennato più sopra, ha saputo smontare alcune delle idee forza della società occidentale come le polarità follia e ragione, salute e malattia, colpa e punizione, e svelarne la funzione discriminatoria e disumanizzante all’interno di un più generale sistema di controllo sociale operante in tutti i contesti ed a tutta i livelli della società.

Michel Foucault e l’approccio alla sessualità

L’approccio di Foucault alla sessualità non è meno sorprendente. La sessualità era in quegli anni al centro del dibattito e della proposta politica ed antropologica del movimento. Giovani e maestri intellettuali di quegli anni accusavano la cultura tradizionale di avere trasmesso un atteggiamento di generale inibizione e repressione della sessualità umana. Ritenevano tale fenomeno un prodotto precipuo della tradizione giudeo-cristiana che si presentava quindi come un implicito avversario di qualsiasi percorso di trasformazione e liberazione della società.

Le lezioni di Foucault qui pubblicate sottopongono ad una acuta critica proprio questo punto di vista, come sempre in una prospettiva rigorosamente storica. In questi seminari Michel Foucault si dedica anzitutto all’analisi di una serie di testi tardoantichi. La filosofia ellenistica e poi romana si allontana sempre più dalle problematiche metafisiche e si focalizza sullo sviluppo morale dell’uomo e del cittadino. Da Epitteto a Seneca il filosofo diventa una guida cognitiva ed etico-morale. Elabora spesso testi prescrittivi che foucault definisce “arti del vivere”, che mirano a “insegnare soprattutto come essere, come riuscire a essere” (p. 41).

Analizzando questo materiale, Michel Foucault scopre che la contrapposizione tra paganesimo libertario e carnale e cristianesimo rigido e repressivo è del tutto fittizia. “La distinzione, il passaggio o la discontinuità che ci sembravano così chiaramente evidenti non si sono affatto presentate come tali” (p. 49). Tutt’altro: la riflessione critica sulla sessualità e la scelta ascetica nascono proprio nel contesto della filosofia pagana tardoantica: “Che La sedicente ‘morale sessuale cristiana’ sia pre-esistente all’interno del pensiero e della morale cosiddetta pagana sembra certo” (p. 54). E questa posizione è comune alle varie scuole filosofiche, dagli stoici ai neopitagorici, ai cinici e persino agli epicurei.

Tra il I ed il II secolo d.C.- osserva Michel Foucault – “la valorizzazione del matrimonio come luogo unico del rapporto sessuale legittimo ci porta verso l’idea che può esistere solo il rapporto sessuale coniugale” (p. 114). Epiteto e altri stoici come Musonio Rufo definiscono il matrimonio un dovere morale, in netto contrasto con la posizione negativa di cinici e epicurei. Il matrimonio cessa anzi di essere un semplice fatto sociale, finalizzato alla generazione e all’allevamento della prole, L’amore privato personale dei coniugi diventa in alcuni pensatori una aspetto centrale e precipuo dell’istituzione matrimoniale.

Di fronte a quest’ultima evoluzione Foucault resta in verità un po’ spiazzato, quasi deluso. Cerca di spiegarla in termini sociologici. Menziona la diffusione dell’istituzione matrimoniale nel basso impero romano. Lamenta che l’interesse dei filosofi tardoantichi, da Musonio Rufo a Plutarco, per la vita di coppia comporta una valutazione sfavorevole, in qualche modo iniqua, verso all’amore omosessuale e pone fine alla particolare attenzione che a questa forma di interazione tra umani aveva tradizionalmente riservato il pensiero filosofico.

Certo questa competizione tra erotismi non ci interessa oggi. Osservo però che Foucault non ha saputo cogliere un aspetto molto importante di questa evoluzione tardoantica, destinata poi a travasarsi nell’etica cristiana. La coppia coniugale, la coppia umana che condivide la vita, la generazione, come l’allevamento dei figli non è un prodotto culturale o almeno non solo culturale. Corrisponde specificamente a comportamenti che hanno una precisa base eziologica. Dipende da sistemi motivazionali specie-specifici che sono trasmessi da una generazione all’altra, non solo dall’imitazione ma anche dallo specifico set genetico che caratterizza la razza umana e la differenzia da altri primati,

Su questo punto non concordo con Foucault. La sessualità, a differenza della follia del delitto e per certi versi anche della malattia, non è solo un fatto sociale. Per dirla con Freud: “anatomia è destino”.

L’uso moderato dei social network: i possibili effetti positivi sul cervello

Quali sono gli effetti dell’uso dei social media sul nostro cervello? Le conseguenze sono solo negative oppure l’uso dei social network potrebbe rivelarsi anche un utile strumento d’aiuto nel trattamento di alcune patologie?

 

Recenti studi di neuroimmagine evidenziano che un utilizzo moderato di Facebook sia associato ad un aumento del volume di materia grigia nelle strutture cerebrali coinvolte nel processamento di informazioni sociali (Turel, He, Brevers & Bechara, 2018).

Nell’era tecnologica, riflettere sull’effetto che i social media hanno sugli individui è diventata una necessità. Sempre più ricerche pongono al centro dell’attenzione l’uso eccessivo dei social media e le conseguenze negative che ciò ha sugli individui. Turel e i suoi colleghi della University of Southern California e della California State University di Fullerton hanno condotto una serie di studi proprio su questo tema.

Secondo i ricercatori, un uso esagerato dei social media è associato negativamente alla modificazione di alcune aree cerebrali. Gli individui che utilizzano in maniera eccessiva i social media sembra abbiano una struttura cerebrale con caratteristiche simili a quella di individui che utilizzano sostanze stupefacenti (Turel & Qahri-Saremi, 2016).

Ma se i social network avessero anche effetti positivi sul nostro cervello?

Indagare i possibili aspetti positivi di un normale uso dei social media in relazione ai cambiamenti a livello cerebrale può essere fondamentale per sviluppare interventi mirati a deficit in specifiche regioni cerebrali.

L’utilizzo dei siti di social network espone gli utenti a molte più situazioni sociali rispetto al passato. Negli ultimi decenni, le modalità di socializzazione sono enormemente cambiate: l’interazione virtuale richiede un continuo riconoscimento dei membri online di gruppi sociali, il recupero di associazioni semantiche e l’interpretazione dei loro stati e delle loro motivazioni. Tali mansioni socio-semantiche coinvolgono specifiche aree cerebrali.

A tal proposito, Turel e colleghi hanno recentemente indagato gli effetti di un uso moderato di social media sulla struttura cerebrale.

Lo studio

Lo studio iniziale comprendeva 276 utenti Facebook e ipotizzava che un uso limitato dei social media potesse apportare cambiamenti nella forma del cervello e comportare, infine, effetti positivi nella vita dell’individuo. In effetti, i risultati hanno indicato che gli utenti che trascorrono più ore sui siti di social network si trovano ad avere un numero maggiore di relazioni sociali, ad osservare sempre più facce e ad interpretare le espressioni facciali molto più spesso.

I ricercatori hanno poi utilizzato immagini di risonanza magnetica per esaminare la struttura cerebrale di 33 utenti Facebook. Ciò che è emerso è che, un uso controllato dei social media è positivamente correlato al volume della materia grigia nel giro temporale superiore e medio dell’emisfero destro e sinistro (Schneider-Hassloff et al., 2016), oltre che nel giro posteriore fusiforme sinistro (Greve et al., 2013). Questi risultati, dunque, suggeriscono che gli utenti che trascorrono del tempo su Facebook tendono ad aumentare il volume di materia grigia in suddette aree cerebrali. In altre parole, la grandezza di queste regioni cerebrali è positivamente associata al livello di utilizzo dei social media.

Conclusioni

È chiaro che va necessariamente stabilità la causalità diretta di tale associazione ma potrebbe essere possibile promuovere un utilizzo limitato dei social media per il recupero di specifiche aree cerebrali.

Se queste ipotesi fossero confermate, tali studi avrebbero implicazioni cliniche notevoli in quanto le regioni cerebrali coinvolte in tali mansioni socio-semantiche sono le stesse implicate in diverse psicopatologie. Un ridotto volume di queste aree cerebrali è, per esempio, associato alla schizofrenia, caratterizzata anche da disfunzioni nel comportamento sociale.

L’ipotesi portata avanti da Turel e colleghi è molto interessante ma, certamente, questo studio presenta dei limiti. Di fatto, non è stata riscontrata una causalità diretta tra l’utilizzo dei social media e i cambiamenti nella struttura cerebrale, pertanto non è possibile affermare che i social media comportano tali cambiamenti strutturali nel cervello.

Sarebbe però auspicabile approfondire questo tema vista l’evidente influenza che i social media esercitano su molteplici aspetti di vita degli individui.

Il pregiudizio omofobico come fonte di malessere per gay e lesbiche: cosa dice la scienza?

Il termine pregiudizio omofobico mette in luce una presa di posizione rispetto all’orientamento sessuale delle persone, più che una fobia, ovvero un disturbo d’ansia. E’ responsabile, insieme ad altre variabili, dell’insorgenza di sofferenza psicologica nelle persone omosessuali

 

A partire dalle fine degli anni ’60 del XX secolo, il pregiudizio omofobico, l’ atteggiamento di ostilità e di avversione nei confronti degli omosessuali e dell’omosessualità più in generale, diventa oggetto di studio e di ricerca scientifica. In ambito accademico, si è generalmente concordi sul fatto che la storia del termine omofobia abbia avuto inizio a partire dagli anni ’70 del XX secolo. K.T. Smith, che sembrerebbe essere stato il precursore dell’utilizzo di questa parola, in un suo celebre lavoro cercò di identificare i tratti distintivi della personalità cosiddetta omofobica (Smith, 1971). Sarà solo un anno più tardi che George Weinberg cercherà di delineare il costrutto in termini concettuali, definendo l’omofobia come il timore di essere con un omosessuale in un luogo chiuso, e per quello che riguarda gli omosessuali, l’odio verso se stessi (Weinberg, 1972). Nello specifico, Weinberg aveva notato che molti psicoanalisti eterosessuali manifestavano, fuori dal setting clinico, reazioni negative quando si relazionavano a persone omosessuali. Egli discusse questa sua idea con due amici, omosessuali attivisti, i quali la utilizzarono pubblicamente per la prima volta nell’edizione del Maggio 1969 della rivista Screw (cit. in Graglia, 2012).

Pregiudizio omofobico: alla base molta ideologia, non una fobia

Dalla lettura in chiave psicosociale, Weinberg sposta l’attenzione sul problema psicologico-individuale che caratterizza gli atteggiamenti avversivi e ostili verso l’omosessualità, annoverando l’omofobia all’interno del quadro delle “fobie classiche”(cit.in Lingiardi, 2007). Tuttavia, alcuni studi condotti successivamente hanno sottolineato a chiare lettere l’inappropriatezza del termine. Le indagini empiriche, infatti, non hanno confermato la classificazione degli atteggiamenti “anti-gay”, degli eterosessuali, come riferibili a una fobia in senso clinico; il suffisso “fobia”, rimandando implicitamente alla diagnosi psicologica di un tratto clinico individuale, trascura la natura funzionale dell’ideologia eterosessista come fenomeno sociale e politico, e come istituto culturale oppressivo (Herek, 1996). Il termine “omofobia”, infatti, focalizza l’ attenzione esclusivamente sulle cause individuali e irrazionali, trascurando la componente culturale e le radici sociali dell’intolleranza che fa si che l’omofobo, così come il razzista, si rifà ad un sistema codificato di credenze socialmente condivise, che ritiene di dover difendere dalla minaccia di soggetti che considera pericolosi (Lingiardi, 2007); agisce nei confronti di queste persone in base ad un pregiudizio omofobico.

Poiché il termine omofobia rimanda specificamente ad una concezione sociale negativa (Ross e Rosser, 1996), piuttosto che denotare una fobia in senso stretto o la paura degli omosessuali, alcuni autori proposero delle espressioni sostitutive, come “omonegativismo” (Hudson & Ricketts, 1980), “omosessismo” (Hansen, 1982), “eterosessismo” (Herek, 1996), per esprimere una designazione più ampia dell’intero universo di atteggiamenti negativi verso l’omosessualità e le persone omosessuali (dal pregiudizio individuale alla violenza personale -verbale o fisica-, alla discriminazione culturale e istituzionale).

L’eterosessismo, come il razzismo e il sessismo istituzionalizzato, penetra nelle tradizioni e nelle istituzioni; è una forma di pregiudizio omofobico che tende a svilupparsi sin dall’infanzia, dal momento che la maggior parte dei bambini cresce in contesti familiari, scolastici e sociali che, nel migliore dei casi, considerano l’omosessualità un argomento di cui non parlare o sul quale fare battute di spirito (Lingiardi, 2007). Lo stesso Herek (1984), afferma a più riprese il concetto secondo cui gli atteggiamenti nei confronti della sessualità e dell’orientamento sessuale vengono appresi durante la vita dell’individuo e sono un costrutto sociale.

In tal senso, la consapevolezza della radicalizzazione di questi atteggiamenti di pregiudizio omofobico nel tessuto storico-sociale, ci permette di identificare e definire, con una certa facilità, la caratterizzazione della società contemporanea per immagini socioculturali, delle comunità LGB, del tutto negative; immagini figlie di un sistema sociale nel quale tende a rafforzarsi in maniera sempre più dilagante una striscia non solo di pregiudizio omofobico ma anche di odio e di disprezzo che sembrerebbe incidere profondamente sulla qualità della vita di lesbiche e omosessuali.

Pregiudizio omofobico e minority stress

In una famosa indagine nazionale condotta negli Stati Uniti nel 1989, il 5% degli uomini gay intervistati e il 10% delle donne lesbiche riferivano di aver subito degli abusi fisici o di essere stati violentati nell’anno precedente a causa della propria omosessualità. Quasi la metà (47%) riferiva di aver vissuto una qualche forma di discriminazione nel corso della vita, come effetto del proprio orientamento sessuale (San Francisco Examiner, 1989).

In un altro famosissimo studio condotto da Ilan Mayer (1995), docente di Scienze Mediche e Sociali alla Columbia University, si cercò di comprendere e descrivere una particolare forma di stress psicologico derivante dall’appartenenza ad un gruppo minoritario e quali effetti psicologici potesse avere su gay e lesbiche; tale fenomeno viene generalmente identificato come minority stress. Il presupposto fondamentale da cui si parte è che gay e lesbiche, come anche altri membri di gruppi minoritari, siano costantemente sottoposti ad una forma cronica di stress, derivante dalla stigmatizzazione sociale che colpisce il proprio gruppo di appartenenza. Secondo Mayer le tre importanti dimensioni che costituiscono il minority stress sono:

  1. il pregiudizio omofobico interiorizzato (omofobia interiorizzata): accettazione, da parte di una persona omosessuale, di tutti i pregiudizi, le etichette, e gli stereotipi negativi, nonché gli atteggiamenti discriminatori nei confronti dell’omosessualità. L’interiorizzazione del pregiudizio, che può avvenire in maniera più o meno consapevole, porta a vivere in modo conflittuale il proprio orientamento sessuale sino al punto da rinnegarlo o nutrire sentimenti negativi nei confronti degli altri omosessuali.
  2. Lo stigma percepito: quanto maggiore è la percezione del rifiuto sociale, tanto maggiori saranno la sensibilità all’ambiente, il livello di vigilanza relativo alla paura di emarginazione, discriminazione e violenza (Allport 1954; cit. in Mayer, 1995) e il ricorso a strategie di coping inadeguate. Lo stress vissuto da una persona con così alti livelli di vigilanza porta ad una esperienza generale di paura e ad interazioni diffidenti e sfiduciate con la cultura dominante, oltre ad un senso di disarmonia e alienazione con la società in generale.
  3. Le esperienze vissute di discriminazione e violenza: secondo Garnets, Herek e Levy (1990) le principali fonti di minority stress sono il rigetto da parte della società, la discriminazione e le violenze -verbali o fisiche- che gay e lesbiche esperiscono a causa dello stigma che connota il loro status minoritario di appartenenza (cit in Mayer; 1995). A prescindere da ogni forma di classificazione teorica, un esempio concreto risulterebbe di certo più chiaro ed esplicativo: un’ esperienza di discriminazione acuta è quella di una ragazza che, dopo aver superato in modo brillante un colloquio di lavoro, ottiene una posizione professionale che le viene in seguito revocata, quando emerge che è lesbica. Ovviamente appartiene a questa dimensione del minority stress anche ogni forma di violenza esplicita, subita in quanto gay, lesbica, bisessuale, transessuale o queer (Lingiardi, 2007).

I risultati della ricerca ricerca di Mayer, condotta su un campione di 741 soggetti omosessuali, hanno rivelato che:

  • ciascuna delle tre componenti del minority stress predicono significativamente la manifestazione di cinque problematiche -o variabili dipendenti- di natura psicologica (depressione, senso di colpa, problematiche sessuali, pensieri/tentativi suicidari, approcci distorti e iper emotivi all’ AIDS), quando queste sono considerate simultaneamente (effetto di interazione);
  • lo stigma percepito e le esperienze vissute di discriminazione risultano associate significativamente a tutte le variabili dipendenti fatta eccezione per i problemi sessuali; in particolar modo è stato visto che esse hanno a che vedere principalmente con la qualità delle relazioni tra uomini omosessuali.

In sostanza, lo studio ha confermato l’ipotesi secondo cui l’omofobia interiorizzata, lo stigma percepito e il pregiudizio omofobico (esperienze vissute di discriminazione), risultano significativamente associate ad un generale malessere psicologico degli omosessuali, e smentiscono l’ipotesi alternativa secondo la quale gli effetti delle tre dimensioni del minority stress, sulla salute psicologica degli omosessuali, siano indiretti (cioè mediati dal minore o maggiore grado di identificazione dell’individuo con la comunità gay).

Pregiudizio omofobico e variabili legate alla salute psicosociale della comunità LGB: il contributo delle scienze psicologiche

Trattando più specificamente il tema del suicidio in relazione all’omosessualità e all’omofobia, Remafedi at al.(1998) condussero una ricerca con l’intento di trovare un’associazione o una correlazione fra orientamento bisessuale/omosessuale e rischio di suicidio. Lo studio fu condotto su un campione di 366 adolescenti (184 dichiaratisi bisessuali e 182 dichiaratisi omosessuali). Le analisi di regressione hanno rivelato che un orientamento bisessuale / omosessuale nei maschi risultava significativamente associato alle intenzioni suicidarie e al tentativo di suicidio, ma non all’ ideazione suicidaria. È stato inoltre visto che nelle donne, l’orientamento sessuale e l’ etnia non sono significativamente associate con alcuna dimensione suicidaria.

In una ricerca di Jay P. Paul et.al (2002), condotta attraverso intervista telefonica, su un campione di 2881 omosessuali in quattro diverse città statunitensi (Chicago, San Francisco, New York e Los Angeles), è emerso che il 21% del soggetti aveva ideato almeno una volta nella propria vita un piano suicidario; il 12% ha dichiarato di aver tentato il suicidio (inoltre la meta’ dei soggetti di questo 12% ha dichiarato tentativi multipli). Gran parte di coloro che hanno dichiarato il tentato suicidio hanno affermato che il primo tentativo ha avuto luogo prima dei 25 anni di età. Un aumento di pianificazione e tentativi suicidari è stato, inoltre, rilevato fra i soggetti omosessuali con minore grado di istruzione, basso reddito annuo e assenza di lavoro a tempo pieno. Infine è stata riscontrata una maggiore probabilità di pianificazione suicidaria fra i soggetti omosessuali con HIV, ma un numero di tentativi di suicidio che variava di poco rispetto alla restante parte del campione. Lo studio, dunque, ha rilevato un alto rischio di tentativi suicidari nel campione di omosessuali preso ad esame.

Una ricerca condotta da Hatzenbuehler et al. (2010) ha dimostrato che per le persone LGB, vivere negli Stati che hanno approvato leggi discriminatorie e in cui è diffuso il pregiudizio omofobico (come gli emendamenti che bandiscono il matrimonio fra partner dello stesso sesso), costituisce un fattore di rischio per la morbilità psichiatrica. In particolar modo, è stato rilevato che in questi Stati risulta quanto mai evidente un significativo incremento dei disturbi dell’umore (aumento del 36,6%), del disturbo d’ansia generalizzato (aumento del 248,2%), dei disordini da dipendenza per abuso di sostanze alcoliche (aumento del 41,9%) ed un aumento generale della comorbilità psichiatrica pari al 36,3%.

Anche Margherita Graglia (2012), psicologa-psicoterapeuta didatta di CIS (Centro Italiano di sessuologia) e FISS (Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica), opera una descrizione abbastanza esaustiva degli effetti dell’omofobia sociale sulle persone LGB:

  • L’intrusione di significati pre-costituiti: gli stereotipi sull’identità e sui comportamenti non eterosessuali forniscono delle chiavi di lettura su come si presuppone possa essere i mondo LGB. Come naturale conseguenza, si assiste alla formazione di rappresentazioni sociali (erronee) molto potenti, veicolate dai media e dal linguaggio e che vengono assimilate dagli individui omosessuali in maniera inconsapevole
  • Le invalidazioni e gli ostacoli all’autostima: il pregiudizio influenza l’immagine di sé. Le immagini socioculturali delle identità, dei comportamenti e delle comunità LGB sono perlopiù connotate negativamente. Ne consegue un inevitabile svilimento di tutto ciò che non è “eterosessuale” ed il mancato riconoscimento giuridico delle unioni LGB. Un altro effetto dell’omonegatività, che incide sull’ autostima, è l’ isolamento e l’emarginazione che le persone omosessuali sono costrette a subire in virtù della loro appartenenza ad un gruppo minoritario.
  • La minaccia al senso di sicurezza: la percezione di essere diversi può elicitare la sensazione di non essere al sicuro rispetto alle valutazioni e alle reazioni negative degli altri. La pervasività degli atteggiamenti antiomosessuali determina, di riflesso, la sensazione di essere sottoposti ad una costante minaccia da parte degli altri.
  • L’anticipazione del rifiuto: nelle interazioni quotidiane gay e lesbiche si chiedono spesso quale effetto avrà sugli altri il loro orientamento sessuale. La sensazione e il timore di non essere benvoluti si genera ed è nutrita principalmente dall’assunzione di eterosessualità, dalle rappresentazioni negative dell’omosessualità e dal silenzio sociale.
  • Celare il proprio orientamento sessuale.
  • Il monitoraggio del comportamento: in virtù dello stigma e della discriminazione, le persone LGB tendono a controllare tutti quei comportamenti che potrebbero rappresentare segnali rivelatori del proprio orientamento sessuale. Il controllo, in tal senso, è una modalità di coping che tuttavia contribuisce allo sviluppo e al mantenimento dell’ansia.
  • Lo stress dello svelamento: la maggior parte delle persone gay e lesbiche non è dichiarata in molti campi della propria vita (famiglia, lavoro, amici etc). Lo svelamento non è infatti uno stato discreto ma attraversa tutto l’arco di vita del soggetto. Essendo un evento potenzialmente critico, le persone trascorrono molto tempo chiedendosi se, come, quando e con chi fare coming out: in sostanza, questo fenomeno pone la persona in un costante stato di tensione.

Tendenzialmente, infatti, per un gay o per una lesbica svelare il proprio orientamento sessuale, significherebbe correre il rischio concreto di essere respinti dalla famiglia, di avere problemi con il lavoro, di essere esposti a stigmatizzazione e discriminazione, abusi verbali e atti di violenza anche fisica (D’Augelli, 1998; D’Augelli & Grossman, 2001). Tuttavia, come dimostrato in diversi studi e a riconferma delle intuizioni di Margherita Graglia, dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale può incidere positivamente sul benessere psicologico della persona stessa (Bell & Weinberg, 1978; Malyon, 1982; Zuckerman, 1997).

Alla luce dei contributi scientifici fin qui esaminati, risulta doveroso comprendere e definire in maniera chiara e condivisa, quali siano le responsabilità professionali degli psicologi, di tutti i professionisti della salute e delle istituzioni più in generale, riguardo al dilagante malessere sistemico (biopsicosociale) a cui il pregiudizio omofobico può dare luogo, sia in seno all’ esistenza del singolo che dell’intera comunità LGB.

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