expand_lessAPRI WIDGET

Lo stereotipo di Jezebel e l’oggettificazione del corpo della donna: come il colore della pelle continua ad influenzarci

Nonostante i pregiudizi e gli stereotipi si siano attenutati nel tempo (per fortuna!), lo stereotipo Jezebel è ancora vivo e vegeto.

 

Il dibattito circa l’evoluzione dei pregiudizi nei confronti delle persone di colore è ormai presente da moltissimo tempo. Secondo dei ricercatori, però, l’oggettificazione sessuale delle donne di colore è un argomento che non è stato indagato a sufficienza. Per questa ragione è stata condotta una ricerca a riguardo.

In particolare i ricercatori hanno voluto indagare un determinato tipo di stereotipo, chiamato lo stereotipo di Jezebel. Con questo nome si vuole indicare quel fenomeno per cui le donne di colore vengono viste come più promiscue rispetto alle donne bianche. Il fenomeno si è diffuso e sviluppato a partire dalle vecchie immagini in cui le donne di colore erano raffigurate come prostitute, donne disinibite, il cui unico valore era quello sessuale.

L’autore dello studio Joel Anderson riferisce:

È importante capire perché attribuiamo determinate caratteristiche ad alcuni gruppi e quali sono i meccanismi che guidano questi processi cercando di comprendere i fattori di rischio che rendono certi gruppi sociali più soggetti a stereotipizzazione.

Come è stato indagato lo stereotipo di Jezebel e quali conclusioni è possibile trarre da questa ricerca?

In un primo studio, 38 studenti bianchi sono stati sottoposti ad un esperimento di eye-tracking, nel quale è emerso che per le donne di colore l’attenzione era rivolta alle parti sessuali del corpo, cosa che non accadeva per le donne bianche.

In due esperimenti successivi, che ha coinvolto 251 individui bianchi, i ricercatori attraverso un compito chiamato Go/No-Go, hanno valutato come variava la valutazione delle donne sulla base delle associazioni fatte tra l’etnia e determinati concetti. Sebbene le associazioni rilevate tra donne nere e donne bianche ed attributi umani non differivano di molto, le donne nere sono state associate con una frequenza maggiore ad animali ed oggetti rispetto alle donne bianche.

Sulla base di questi risultati, secondo Anderson lo stereotipo Jezebel è ancora vivo e, sebbene i pregiudizi e gli stereotipi si siano attenutati nel tempo, essi esistono ancora. Dallo studio si rileva infatti che le donne nere sono maggiormente soggette a oggettificazione e disumanizzazione rispetto alle donne bianche.

Lo studio non è tuttavia privo di limiti. In particolare, sono state usate categorie di individui specifiche (visivamente bianchi o neri) e questo potrebbe aver portato a trascurare la complessità del problema, infatti gli stereotipi tra individui neri potrebbero presentare pattern differenti.

Cosa spinge i ragazzi ad intervenire quando assistono ad episodi di bullismo a scuola?

Sempre più spesso si sente parlare di bullismo a scuola, un tema che sta attirando l’attenzione di genitori, insegnanti, psicologi e di tutti coloro che lavorano con i bambini all’interno del contesto scolastico e di apprendimento.

 

Con il termine bullismo, ci si riferisce alla situazione in cui un bambino/a è esposto/a ripetutamente ad atti aggressivi e prepotenti, per un lungo periodo di tempo da parte di uno o più compagni/e.

Molte ricerche hanno messo in evidenza gli effetti negativi che tale fenomeno ha sugli attori coinvolti, non solo la vittima, ma anche sugli spettatori.

Lo scopo, invece, dello studio svolto da Kelly Lynn Mulvey, ricercatrice di psicologia presso la NC State University, e collaboratori è stato quello di indagare in che modo i fattori familiari e scolastici influenzano l’eventualità che gli spettatori intervengano se esposti a un episodio di bullismo.

Lo studio

A tal proposito, i ricercatori hanno condotto uno studio su un campione composto da 450 studenti al sixth-grade (corrispondente alla nostra prima media) e 446 studenti al ninth-grade (corrispondente al nostro primo anno di scuola superiore). A tutti i partecipanti è stato somministrato un sondaggio da compilare, volto a raccogliere informazioni riguardanti la qualità delle loro relazioni con familiari, colleghi e insegnanti.

Successivamente, sono stati presentati loro sei diversi scenari, ognuno dei quali era inerente a uno specifico atto di bullismo: aggressione fisica, cyber-bullismo, esclusione sociale o rifiuto da parte di un gruppo, violenza da parte del partner, aggressione sociale, come pettegolezzi, ed esclusione da parte di un vecchio amico. Per ognuno di questi scenari, agli studenti è stato chiesto di valutare l’atto aggressivo su una scala di sei punti, che andava da “davvero inaccettabile” (1) a “assolutamente accettabile” (6).

Infine, a ogni studente è stato chiesto di stimare probabilità che egli intervenisse rispetto a questi scenari; inoltre, un suo parere rispetto a quanto sarebbe stato corretto, per una vittima, vendicarsi contro il bullo e se fosse opportuno, anche in questo caso, intervenire per impedire la ritorsione.

Gönültas, tra gli autori dello studio, ha affermato:

Abbiamo scoperto che la famiglia assume un ruolo fondamentale. Gli studenti che avevano buone relazioni familiari, presentavano una maggiore probabilità, non solo di ritenere inaccettabili comportamenti aggressivi e ritorsioni, ma anche di intervenire in entrambi i casi.

Inoltre, dai risultati è emerso anche che quanto più gli studenti riferivano di sentirsi esclusi o trattati ingiustamente da compagni/insegnanti, tanto più era probabile che non intervenissero quando assistevano a episodi di bullismo.

In maniera speculare, gli studenti che invece riportavano buoni rapporti con gli insegnanti avevano più probabilità di intervenire.

Mulvey ha affermato:

Questo studio ha messo in evidenza che sia i fattori familiari che quelli scolastici sono importanti per motivare gli studenti, non solo a riconoscere il comportamento di bullismo come inappropriato, ma anche a prendere attivamente provvedimenti per intervenire.

In conclusione

Da questa ricerca, è evidente che, per affrontare il bullismo, una buona comunicazione tra la scuola (insegnati, dirigente etc.) e i genitori assume un ruolo centrale. Entrambi questi contesti, hanno il dovere di fornire degli esempi positivi di comportamento ai più giovani, soprattutto all’interno di un’ottica di prevenzione.

Per fare ciò, può essere utile una formazione specifica dei genitori, allo scopo di sensibilizzarli su questo tema, per evitare atteggiamenti minimizzatori e disinteressati, “Sono ragazzi”, “Stanno solo scherzando”.

ADHD ed esiti devianti: una rassegna della letteratura

Come descritto da ormai numerose ricerche, l’ADHD -Attention Deficit Hyperactivity Disorder- è un disturbo del neurosviluppo che include iperattività, impulsività e disattenzione: tali caratteristiche si mantengono dall’infanzia all’età adulta, per questo è definito “life-long” (Barkley, 2002).

Chiara Paris – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

L’età di esordio si colloca intorno ai 7 anni e per la diagnosi, i sintomi devono protrarsi per almeno sei mesi (Woicik et al., 2017). A livello comportamentale, chi soffre di questo disturbo presenta verbosità, difficoltà a stare seduto, irritabilità, tendenza a perdere o dimenticare le cose. A livello emotivo, invece, emergono spesso bassa autostima, ansia e umore depresso.

ADHD: gli studi che associano esiti devianti nell’età adulta

Sono frequenti diagnosi psichiatriche nei genitori, difficoltà famigliari (come problemi economici e litigi), un percorso scolastico caratterizzato da risultati scadenti o frequenti discussioni con gli insegnanti. Questi bambini e ragazzi vivono frequenti problematiche nel percorso scolastico e poi lavorativo, manifestano un elevato rischio di condotte sessualmente rischiose, con gravidanze indesiderate, utilizzo di sostanze, problemi relazionali e guida pericolosa, con frequenti incidenti stradali. Il disturbo si presenta spesso in comorbilità, ad esempio con disturbi d’ansia, tic, ritardo cognitivo, disturbo oppositivo provocatorio e il cosiddetto disruptive mood dysregulation disorder. Il fatto che ci sia comorbilità con disturbi esternalizzanti o internalizzanti cambia molto il modo in cui l’ADHD si presenta. In adolescenza, possono invece manifestarsi in modo concomitante disturbo della condotta, depressione maggiore, disturbo bipolare, dipendenza da sostanze e un iniziale sviluppo di disturbi di personalità (Usami; 2016).

Con una prevalenza del 5% nei minori di 18 anni e una persistenza dei sintomi in età adulta tra il 2,5 e il 5% (Polanczyk et al., 2007), l’ADHD determina frequentemente nei genitori di questi bambini distress, problematiche lavorative, sentimenti di tristezza e impotenza per la situazione del figlio, disagio nello svolgere insieme al minore attività pubbliche come lo shopping; sono frequenti le discussioni, le indicazioni del caregiver non vengono seguite creando un continuo “disturbo” della routine quotidiana (Anderson et al., 1987). In adolescenza, il disturbo rappresenta peraltro un rischio per altre problematiche psicosociali, con sintomi internalizzanti, alimentari o legati alle sostanze per le ragazze, di tipo antisociale nei ragazzi (Selinus et al. 2016)

Queste informazioni si associano al riscontro di comportamenti delinquenziali in giovane età (Giannotta & Rydell, 2015; Zeola et al., 2017), disturbi antisociali e correlati a sostanze (Hechtmann & Weiss, 1986) e ad un’elevata percentuale di diagnosi ADHD nella popolazione detenuta, sia adulta (Woicik, et al., 2017) che adolescente (Gosden et al., 2003). Barkley, Fisher, Smallish e Fletcher (2004) hanno valutato i registri degli arresti dello Stato del Wisconsin, riscontrando che le persone con diagnosi di ADHD erano un numero significativamente maggiore rispetto a quello di controllo. Altre patologie frequenti nella popolazione detenuta sarebbero disturbo della condotta, psicosi, abusi e dipendenze da sostanze e depressione (Hellenbach et al, 2017). Non tutti i reati però sembrano essere ugualmente commessi da chi ha questo tipo di diagnosi: infatti, la stima di reati sessuali commessi da persone ADHD è del tutto analoga a quella dei controlli (Mannuzza et al., 2008).

ADHD: non è associata a comportamenti devianti in età adulta

Esiste anche un filone di studi che afferma il contrario, ossia l’assenza di un’associazione tra comportamenti devianti in età adulta; tra gli altri, si rimanda a Mordre e colleghi (2011), i quali sostengono come l’unica connessione sarebbe quella con il disturbo della condotta, caratterizzato da comportamenti aggressivi, distruttivi, disonesti, non rispettosi dell’autorità e manipolatori, al massimo caratterizzato da sintomi di iperattività. Questa tesi troverebbe parziale conferma nei risultati di Giannotta e Rydell (2015), che legano l’antisocialità a sintomi impulsivi / iperattivi tra i 10 e 15 anni e problematiche più associate all’abbandono scolastico per quanto riguarda la disattenzione. Tale distinzione fa riferimento alle tre tipologie di ADHD comunemente riconosciute: disattento, iperattivo/impulsivo e combinato.

Giannotta e Rydell (2015) si sono occupati di capire perché non tutti i giovani con diagnosi di ADHD intraprendano una carriera delinquenziale, ipotizzando un ruolo dell’ambiente nel mediare tale esito. In particolare, l’esistenza di un parenting disfunzionale, la percezione di un rifiuto materno e una disciplina poco autorevole lo faciliterebbero. Un’ipotesi di questo tipo era stata avanzata già diversi anni prima da Rutter (1978), il quale spiegava come un parenting positivo, un mantenimento di contatto emotivo con il bambino e poi con l’adolescente, e l’evitamento del conflitto diminuivano di fatto il rischio di sviluppare un disturbo della condotta e agire comportamenti delinquenziali.

ADHD: gli studi longitudinali

Alcuni studi longitudinali evidenziano aspetti molto interessanti rispetto a queste traiettorie: il progetto di Satterfield e colleghi (2007) è iniziato con il riscontro in letteratura di percentuali molto elevate di personalità antisociali tra i giovani ADHD (fino al 18% rispetto al 2% dei controlli), indipendentemente dall’estrazione sociale della persona. Dopo aver seguito un gruppo di bambini con diagnosi di ADHD fino all’età adulta, gli autori hanno concluso che i sintomi di iperattività in anamnesi si riscontravano più facilmente in coloro che erano stati arrestati o reclusi o avevano commesso reati connessi alle sostanze. Nello studio di Dalsgaard e collaboratori (2013), il 47% del campione con ADHD commette reati con una probabilità cinque volte superiore rispetto ai controlli, con una netta disparità tra maschi (50%) e femmine (24%); il dato interessante è che una parte del campione deviante non aveva manifestato problematiche di condotta in giovane età (non si erano presentati, quindi, né il disturbo della condotta in comorbilità, né comportamenti affini ad esso).

In altri studi, gli autori si sono concentrati su un numero inferiore di soggetti, per poter valutare meglio gli effetti del contesto e dei vissuti: ad esempio, in quello di Young et al. (2009), sono stati presi in considerazione cinque pazienti con ADHD (da Scale Conners) istituzionalizzati e con un’età compresa tra i 14 anni e i 16 anni; gli autori sono partiti dal considerare che circa i due terzi dei minori in regime detentivo in seguito a reati avevano problematiche ascrivibili a questo disturbo, o almeno alla componente di iperattività. Questi cinque ragazzi manifestavano problematiche legate al senso di perdita, raccontavano di eventi traumatici che spesso utilizzavano come spiegazione delle loro traiettorie devianti, considerandosi “vittime delle circostanze” e lasciando poco spazio alla componente relativa alle proprie decisioni. Anche il desiderio di cambiare veniva espresso, ma non in associazione ad una consapevolezza circa le motivazioni che li avevano condotti ai reati, focalizzandosi solo sul qui ed ora (questi elementi ricordano peraltro molto le modalità antisociali). Un altro tema emerso era il “bisogno di appartenenza”: spesso si percepivano come diversi e rifiutati dalla società, senza radici. Riconoscevano l’utilità di essere in un luogo di contenimento, con regole e sanzioni chiare, in un piccolo gruppo, quindi inseriti in una situazione che consentiva di far emergere e lavorare su impulsività, rabbia e difficoltà comportamentali e percepivano la struttura come una protezione dal mondo esterno e da possibili rischi.

Per Sibley e colleghi (2010), gli outcome peggiori per età di esordio, gravità e varietà dei reati si verificano quando l’ADHD è in associazione con il disturbo della condotta; tuttavia, esaminando un ampio gruppo di soggetti con diagnosi ADHD diversi anni più tardi, è emerso che anche il disturbo puro e la variante con DOP rappresentano un forte fattore di rischio per successivi agiti delinquenziali.

Nonostante numerosi studi indichino una diminuzione degli agiti impulsivi con l’aumentare dell’età, la maggior parte dei bambini con diagnosi di ADHD mantiene questi sintomi – seppur con caratteristiche diverse – in adolescenza e in età adulta. In Corea, uno studio ha confrontato un gruppo di adolescenti autori di reato (violenza fisica e furto) con un gruppo di controllo, riscontrando una percentuale di ADHD del 42,4% nel primo, e dell’11,9% nel secondo: tra le persone con diagnosi, gli autori di reato mostravano risultati inferiori nei test di valutazione cognitiva, maggiori problematiche comportamentali e attentive, maggior perdita di controllo e bassa autostima. Quest’ultima viene associata in particolare alle difficoltà scolastiche, che creerebbero frustrazione e acting-out spesso agito contro i pari (Chae, Jung & Noh, 2001).

Mannuzza e colleghi (2008), seguendo i partecipanti al loro studio fino ai 38 anni, hanno verificato nel campione un’elevata percentuale di problematiche delinquenziali sia con ADHD in associazione al disturbo della condotta, sia nel caso di una diagnosi pura. L’aspetto delle comorbilità è ancora ampiamente inesplorato e prevede una serie di implicazioni a livello trattamentale: sono molte le diagnosi concomitanti che influenzano l’esito del disturbo a lungo termine, come nel caso dei disturbi dell’apprendimento associati ad ADHD, che aumenterebbero i rischi a livello sociale (Poona & Ho, 2015).

Dal punto di vista delle problematiche correlate a sostanze a cui l’ADHD si associa molto spesso sia in adolescenza che in età adulta, sembrerebbe che ciò sia legato in parte a comportamenti esternalizzanti più tipici del disturbo della condotta: questi si possono distinguere tra aggressivi (agiti nei confronti di animali e persone) e devianti (come mentire o compiere atti vandalici). Nello studio di Harty e colleghi (2013), infatti, sono stati esaminati dei bambini con diagnosi di ADHD a 9 anni e una decina d’anni dopo e gli autori sono arrivati a concludere che chi manifesta problemi legati a comportamenti devianti è a forte rischio di abuso di sostanze; al contrario, non sembrano predittivi di esiti simili gli impulsi aggressivi e il grado di compromissione attentiva. Masi et al. (2006) evidenziano la frequente sovrapposizione del disturbo con manifestazioni precoci e in seguito un franco esordio del disturbo bipolare, in particolare con una tipologia di questo disturbo che non rientrerebbe nel tipo I e II, oltre che con il DOP (e più tardi il disturbo della condotta).

ADHD: quando diventano vittime di comportamenti devianti

Il coinvolgimento in atteggiamenti devianti non è stato indagato solo dal punto di vista di chi li agisce, ma anche da quello di vittima: secondo Becker e collaboratori (2017), il 57% di minori con diagnosi ADHD subisce episodi di vittimizzazione, come esclusione dal gruppo, da eventi sociali o dalle conversazioni tra pari, con conseguenti sintomi ansiosi, depressione e bassa autostima. L’aspetto relativo al bullismo apre di fatto nuovamente il dibattito sul confine tra ADHD e disturbo oppositivo provocatorio / della condotta; se si parla di comorbilità, diversi studi fanno riferimento ad aspetti genere specifici, per cui sarebbe agito da maschi con connotazioni fisiche -vere e proprie aggressioni-, in contesti con ampia influenza da parte del gruppo dei pari (Fite et al., 2014).

In definitiva, il tema appare presente anche in culture molto diverse e comporta evidenti costi sociali; quali sono allora le possibilità di trattamento, a diversi livelli?

Il trattamento psicologico dovrebbe includere un lavoro sullo sviluppo di un coping più funzionale per la gestione delle manifestazioni dell’ADHD, in particolare il discontrollo e l’acting-out, inoltre lo screening dovrebbe essere svolto precocemente, per evitare un peggioramento della sintomatologia in seguito a provvedimenti giuridici e misure punitive in giovane età (Chae, Jung & Noh, 2001). Per chi invece già manifesta comportamenti devianti in giovane età, è necessario un intervento preventivo di presa in carico e numerosi follow-up, per evitare coping più disfunzionali come l’utilizzo di sostanze (Harty et al., 2013).

Nel caso di giovani che manifestino sia sintomatologia ADHD che DOP, o inseriti in contesti a rischio di devianza (per la presenza di gruppi di coetanei con problematiche affini), sarebbe importante un lavoro orientato alla prevenzione e un intervento specifico su bullismo e vittimizzazione (Satterfield et al., 2007).

Nel caso di giovani che hanno commesso un reato, viene sottolineata la necessità di continuare gli studi, che hanno funzione protettiva nel reinserimento, anche con modalità parzialmente diverse da quelle “canoniche”, secondo le necessità previste dalla situazione clinica del soggetto (Young et al.2009).

Allo scopo di ridurre la recidiva, cioè una ricaduta nel reato, Zeola e colleghi (2017) suggeriscono un miglioramento degli screening da effettuarsi quando i giovani sono coinvolti in procedimenti giuridici. Ciò avrebbe chiaramente lo scopo di differenziare il trattamento a seconda delle problematiche specifiche.

È evidente che un ambiente supportivo e buone capacità cognitive possano compensare la manifestazione di sintomi ADHD, ma ciò non è sufficiente in tutte le fasi della vita e soprattutto non lo è con l’aumento delle richieste in ambito accademico e sociale (Selinus et al., 2016): pare quindi essenziale, ma non sufficiente un intervento che includa la famiglia.

ADHD: i trattamenti di elezione

A dispetto di una serie di studi precedenti, che dimostravano come un trattamento prolungato e multimodale, comprensivo di psicoterapia e parent training, fosse la scelta migliore, in quello di Satterfield (2007) non sono emerse differenze rispetto alla sola assunzione del farmaco. Quest’ultimo appare comunque una scelta tutelante nei casi di forte iperattività, considerato che chi ha intrapreso una terapia con metilfenidato (Ritalin) corre un rischio significativamente inferiore di incorrere in comportamenti devianti (Lichtenstein et al., 2017). Anche Ginsberg e collaboratori (2012) ritengono che ricorrere al farmaco -anche in età adulta- sia una scelta funzionale: nel loro studio, la terapia effettuata su un gruppo di adulti in stato di detenzione ha consentito un miglioramento non solo della sintomatologia associata, ma anche delle funzioni cognitive (working memory, abilità visuospaziali e verbali), assenza di ricaduta nell’uso di sostanze e maggior aderenza ai trattamenti psicosociali.

Lo studio di Woicik e collaboratori (2017) sottolinea infine un aspetto fondamentale con questi pazienti, vale a dire il fenomeno del “treatment no-show”, cioè del “saltare l’appuntamento”, che crea ovvi ostacoli nel percorso terapeutico (e che è diverso dal drop-out, perché poi i pazienti si ripresentano). Questo è dovuto alle problematiche specifiche del disturbo e può determinare maggiori costi, rischi e più recidiva.

Respira insieme all’orso (2018): grandi e piccini alla scoperta della Mindfulness grazie all’aiuto di simpatici animaletti con cui imparare a rilassarsi – Recensione del libro

Respira insieme all’orso è un libro che racchiude tanti preziosi momenti di mindfulness dedicati ai bambini da praticare a casa, al parco, nel tempo libero.. insomma, quando e dove si vuole.

 

I bambini d’oggi vivono ormai in un mondo sempre più frenetico, dettato da ritmi molto veloci in cui spesso si trovano a vivere situazioni quotidiane molto stressanti, divisi tra impegni scolastici, sportivi o altri tipi di attività. Scritto da Kira Willey, con illustrazioni di Anni Betts e edito nell’edizione italiana da Editrice il Castoro, Respira insieme all’orso è un ottimo libro per avvicinare i bambini alla pratica della mindfulness, attraverso esercizi semplici e coinvolgimenti che divertono grandi e piccoli e creano un momento di rilassamento condiviso.

Perché praticare mindfulness è importante per i bambini?

La pratica della mindfulness, l’accettazione consapevole delle esperienze che si vivono nel presente, si sta diffondendo sempre di più nel panorama della psicologia contemporanea, riscuotendo molti successi. La ricerca sugli interventi mindfulness nei bambini è ancora poco sviluppata, tuttavia i primi risultati hanno mostrato un aumento di benessere psicoemotivo nei bambini che coltivano la consapevolezza.

La mindfulness può essere utile per aumentare la regolazione comportamentale e emotiva, sviluppare l’autocompassione e gestire lo stress e l’ansia.

Alcuni ricerche recenti hanno indagato i benefici della tecnica in contesti scolastici ottenendo risultati promettenti, altre ricerche hanno indagato l’utilizzo della mindfulness con popolazioni cliniche quali bambini con ADHD e soggetti autistici ad alto funzionamento.

È possibile scoprire (divertendosi) come esercitare la calma, la concentrazione e il rilassamento

Respira insieme all’orso appare una novità interessante all’interno del panorama della letteratura infantile, proponendo diverse strategie per allenare la calma e la concentrazione dei nostri bambini. Un libro pensato per i piccoli che può essere letto e osservato insieme a loro. Grazie alle illustrazioni di vari animaletti dai colori vivaci i bambini vengono guidati lungo un percorso composto da trenta esercizi che permettono di viaggiare con la fantasia.

L’autrice del libro, Kira Willey, produce musica che utilizza nei suoi programmi dedicati ai bambini. Insegnante di yoga e di pratiche mindfulness è da sempre interessata alla diffusione della pratica di consapevolezza nei più piccoli. Premiata con prestigiosi riconoscimenti per il suo lavoro, organizza incontri di formazione e educazione con i genitori e i insegnanti oltre a scrivere e produrre canzoni che conducono i bambini alla scoperta della mindfulness.

Il libro è diviso in cinque sezioni principali che propongono pratiche diverse sotto forma di gioco per sviluppare e aumentale la calma, la concentrazione, l’immaginazione, l’energia e il relax.

Un coniglietto seduto con gli occhi chiusi introduce la sezione dedicata alla calma, suggerendoci la posizione da adottare per svolgere i sei esercizi proposti. In questa sezione la fantasia ci trasporta tra candele e cioccolate calde, fiori profumati e orsi addormentati. Le storielle proposte aiutano il bambino a controllare il respiro per gestire emozioni negative come la rabbia e la tristezza.

La concentrazione viene sviluppata grazie a delle api ballerine, questa sezione prevede esercizi che coinvolgono vari movimenti del corpo unito al respiro lento imparato nella sezione precedente. I bambini sono aiutati a concentrarsi nell’ascolto del proprio respiro che segue percorsi immaginari all’interno del corpo da seguire con il pensiero.

Il potere dell’immaginazione, si sa, è infinito sopratutto nei bambini, ecco quindi che un tasso aiuta i nostri piccoli ad allenarla ancora di più. Nuvole che riflettono il nostro umore, radici degli alberi al posto dei piedi, invenzioni straordinarie e aumento della consapevolezza di sé e dell’empatia verso gli altri in una sezione fantasiosa tutta da scoprire.

Per questa sezione è proprio il caso di dire che si devono avere energie da leone. Sei esercizi divertenti e corporei che allenano a percepire i muscoli che si contraggono e rilassano ad ogni respiro allenando lo sviluppo della propriocezione. Una sezione in movimento per recuperare e ritrovare le energie all’inizio o alla fine di una giornata.

Il libro si conclude con uno spazio dedicato al relax: ogni tanto serve soffiare via come si fa con le bolle di sapone lo stress e il nervosismo che a volte capita di sentire durante una giornata fitta di impegni. Gatti, lemuri e gorilla ci mostrano come sia possibile rilassare i nostri muscoli mentre un castoro dormiglione insegna che alla fine di tutti i nostri impegni è bello respirare e non pensare a nulla.

In conclusione..

Un libro che incuriosirà sicuramente i bambini che, spronati dagli animaletti, desidereranno provare gli esercizi proposti in qualsiasi luogo. Dedicato ai genitori, alle insegnanti o anche ai terapeuti, Respira insieme all’orso aiuta i piccoli ad aumentare il controllo delle proprie sensazioni corporee, dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Proporre qualsiasi di questi esercizi in un clima positivo e rilassato può aumentare il legame genitore-bambino, il benessere generale della classe e la relazione terapeutica.

Respira insieme all’orso è la prova che rilassarsi divertendosi e sviluppando una maggior consapevolezza di sé, degli altri e del mondo che ci circonda è una sfida possibile da cogliere. Perciò mettiamoci seduti e.. respiriamo insieme all’orso!

Minidictionary (2018): quale legame esiste tra Psicologia, Criminologia e Neuroscienze? Un pratico dizionario ci aiuta a fare luce sulla questione – Recensione

Angela Gangi e Melchiorre Calvaruso sono gli autori di Minidictionary, un pratico dizionario scritto in inglese attraverso il quale si accede alla spiegazione dei più frequenti termini usati in psicologia, criminologia e neuroscienze.

 

Come riportato nella presentazione del testo, i vocaboli presenti sono stati scelti sulla base del desiderio di diffondere le informazioni di base dei tre campi trattati (psicologia, criminologia e neuroscienze) attraverso una modalità consultativa facile ed efficace.

Nella lettura del Minidictionary emerge la dimensione neuroanatomica/neurofisiologica come elemento che coniuga la psicopatologia ai danni cerebrali, chiave di lettura che rende accessibile un migliore accesso alla formulazione corrente della spiegazione della natura del funzionamento umano.

Contenuti e struttura del libro

Minidictionary si struttura in tre parti, la dimensione della psicologia e della psicopatologia precede i termini che compongono il campo della criminologia e neuroscienze, per terminare con la dimensione delle patologie strane e con incidenza ridotta.

Resilience è un termine presente nella sezione dedicata alla psicologia e psicopatologia.

The ability to “repair oneself, after a damage or hurt, to “resist”, “cope with”. By a similar perspective, resilience implies to be able to positively reorganize the own life despite of negative situations which make think to negative outcomes. Among the factors that promote resilience, there are a positive attitude, optimism, the ability to regulate emotions, and to see failure as a form of helpful feedback.

Come si evince dall’esempio riportato, la spiegazione dei termini è semplice e inserita nell’idea di ridurre al minimo le parole necessarie a comprendere i fenomeni, talora difficili da trattare in poche righe. Ecco il grosso vantaggio che ho colto e che determina la motivazione all’acquisto del testo, indispensabile nella scrivania dello studente, di estremo aiuto in quella del professionista.

Numerosi sono i link diretti a fonti esterne con lo scopo di fornire al lettore contenuti specifici per l’approfondimento, i quali validano il lavoro degli autori e nello stesso tempo ampliano lo scenario bibliografico all’utente.

Come ulteriore esempio dello stile proposto, nella voce Signature presente nella seconda sezione (criminologia e neuroscienze) si trova una scheda di approfondimento e collegamenti a siti web esterni.

Specific behaviour of a serial killer which serves his/her emotional or psychological needs and comes from his/her deep fantasy. It is not necessary for the occurrence of crime, like a particular way of destroy body. It is very important for criminal profiler because it is stable over time, reflecting long-term killer’s emotional needs starting from infancy.

Signature: from Medieval Latin “signatura”. A serial killer’s signature is a sign that identifies a certain criminal has been at the scene of the crime. Some killers leave there various objects the most romantic rose petals or flowers.

But some killers had not a sense of romanticism and they signed their crimes in terrifying ways.
1) Playing God by killing patients – The angels of death; Lainz General Hospital, Vienna, Austria.
2) Mutilating the bodies of his child victims – Albert Fish, “The Brooklyn vampire”; New York City, New York and Washington D.C.
3) Mutilating the bodies of his young victims, including gouging out their eyes – Andrei Chikatilo, “The Rostov ripper”; Soviet Union.
4) Murdering men between the ages of 13 and 35 – Randy Kraft, “The scorecard killer”; West Coast and Michigan, United States.
5) Murdering illegitimate children via baby farming [1] – Amelia Dyer, “The reading baby farmer”; England, United Kingdom. [2]

[1] http://pages.uoregon.edu/adoption/topics/babyfarming.html
[2] https://www.crimetraveller.org/2016/02/5-terrifying-serial-killersignatures/

La formattazione grafica creativa arricchita dall’accurata scelta di immagini evocative, incrementano la comprensione delle voci. Il riduzionismo espressivo e i colori accrescono l’esperienza sensoriale. Durante la lettura o studio, il lettore viene così come trasportato in un museo d’arte contemporanea.

L’autrice sostiene che la scelta delle voci trattate deriva dalla propria esperienza professionale, accresciuta negli anni attraverso la partecipazione a vari congressi e corsi di formazione, i quali le hanno permesso di acquisire confidenza con diversi campi della psicologia, come la criminologia, l’omosessualità e i maltrattamenti ai minori.

Per concludere la recensione, e come conclusione del Minidictionary, uno spazio è dedicato all’appendice finale, scritta in italiano. Si trova l’elenco dei congressi ed eventi dove Angela Ganci è intervenuta trattando tematiche quali lo stalking, il mobbing e il bullismo.

In ultimo la rassegna di eventi e congressi pianificati dall’autrice, oltre i numerosi testi pubblicati e disponibili in commercio; collegamenti a siti esterni garantiscono l’accesso alle informazioni necessarie peri vari eventi formativi pianificati o per accedere all’acquisto dei libri.

Si può essere gentili nelle grandi città?

I ricercatori dell’Università di Miami hanno condotto un recente studio sulle interazioni umane, evidenziando come l’inclinazione alla cooperazione e ad essere gentili per reciprocità tende a venir meno quando si ha a che fare con estranei.

 

Studiando l’evoluzione del comportamento umano, possiamo ritenere che la nostra specie abbia appreso molto tempo addietro ad essere istintivamente generosa, gentile e leale verso gli altri. Questo perché nel nostro passato evolutivo, vivendo in piccoli gruppi, quindi conoscendo ogni persona nella nostra cerchia sociale e non sapendo chi avrebbe potuto o meno aver bisogno di aiuto, era importante manifestare gentilezza verso i membri della propria comunità in vista della possibile necessità di aver bisogno di un aiuto. Così facendo, questo comportamento di cooperazione reciproca si è automatizzato senza portar con sé un reale interesse personale.

Diversi studi hanno però evidenziato come questo comportamento cooperativo non si manifesti quando sappiamo di non trarre beneficio dalle nostre azioni nell’interazione con sconosciuti.

Lo studio e i suoi risultati

In particolare, i ricercatori dell’Università di Miami hanno recentemente messo appunto una ricerca che ha coinvolto 200 volontari nella quale era previsto che i soggetti fossero esposti ad ambienti sociali privi di incentivi o punizioni per il modo in cui trattavano gli altri; è stato poi monitorato il cambiamento del loro comportamento nel tempo.

In laboratorio i volontari sono stati divisi in diversi gruppi in due occasioni distinte in cui è stato chiesto loro di svolgere dei giochi basati sull’investire del denaro e condividere o meno le vincite con altri.

Nel primo round si sono manifestati comportamenti per lo più cooperativi, agendo secondo le abitudini modellate nell’esperienza quotidiana. Nel secondo, invece, nel momento in cui i soggetti capivano che ciò che avrebbero fatto non avrebbe riportato conseguenze sociali cercavano di massimizzare soggettivamente le vincite non utilizzando più la scorciatoia cognitiva della “gentilezza”, mettendo così in atto una nuova regola.

Alcune riflessioni finali

I ricercatori ritengono che esaminando il passato evolutivo si potrebbe così spiegare perché le persone nelle grandi città hanno la reputazione di essere frettolose e meno amichevoli con gli estranei: vivendo in luoghi con migliaia di persone è altamente probabile di incontrare sconosciuti, quindi le persone tenderebbero a non applicare la regola standard della “gentilezza” dato che non avranno nessun ritorno personale o conseguenze sociali.

 

Terapia EMDR e Mindfulness: ridefinire il paradigma delle terapie basate sul trauma – Report dal workshop con Jamie Marich

Il 17 e 18 novembre, a Milano, presso l’auditorio San Paolo, la dr.ssa Jamie Marich ha tenuto il workshop su EMDR e Mindfulness.

 

Il titolo è piuttosto interessante, ci sono ben tre tra le parole chiave più in voga del momento, nel campo della ricerca scientifica psicologica e sicuramente della clinica: Mindfulness, Trauma e Emdr, in un tentativo di integrazione.

La curiosità non deve essere stata solo della sottoscritta vista la numerosissima affluenza di persone all’evento organizzato dalla Società internazionale di Scienze Cognitive ISC.

EMDR e Mindfulness:

I lavori cominciano puntuali al mattino del sabato dove Jamie Marich si presenta. E’ fondatrice e direttrice del Mindful Ohio, e dell’Institute for creative mindfulness, oltre ad essere consulente e trainer EMDR certificato dalla EMDRIA, con 17 anni di esperienza nel campo dei servizi sociali e del counseling, compresi anni spesi in Bosnia Erzegovina in aiuti umanitari.

Ha tra i titoli quello di LPCC-S (Licensed supervising Professional Clinical Counselor) e LICDC (Licensed Independent Chemical Dependency Counselor) e REAT (Registered Expressive Arts Therapist). È insegnante di yoga e meditazione con una lista di libri di sua pubblicazione tra cui EMDR Made it simple e EMDR & Mindfulness for Trauma Focused Care. Il workshop è aperto anche a chi non ha alcuna formazione EMDR, ma per alzata di mano circa l’80% degli auditori era formato.

EMDR e Mindfulness: integrabili?

L’obiettivo delle giornate pare essere quello di capire, e spiegare, l’EMDR con le lenti della Mindfulness.

Sono state numerose le volte infatti, in cui è stato sottolineato come le due prospettive non siano in alcun modo slegate, a partire dal fatto che Francine Shapiro, fondatrice dell’approccio terapeutico EMDR, è stata da sempre estremamente interessata alla medicina mente e corpo e alla meditazione Mindfulness. Fu per caso, anzi per serendipità, che comprese il potere della stimolazione bilaterale su sé stessa mentre passeggiava (sarà stata una meditazione camminata?).

Proprio in questo spirito la mattina, così come durante tutti e due i giorni, vengono guidate diverse pratiche di Mindfuless.

La prima è per i 5 sensi, una pratica volta a coinvolgere vista, udito, tatto, odori e sapori prima di fermarsi sul respiro. La pratica è condotta in modo molto caldo e accogliente. Si ricorda spesso che si è “invitati” a fare la pratica, ma solo se ce la sentiamo, con gli occhi aperti o chiusi, come preferiamo nel pieno rispetto di noi. E direi in pieno stile Mindfull. Così avviene anche per la pratica in movimento, e gli esercizi di stretching. Vanno bene da seduti, vanno bene da in piedi, vanno bene comunque. Il pubblico partecipa volentieri a tutto quanto e viene ben coinvolto e accompagnato tra le pratiche.

Mindfulness: gli studi sull’efficacia

Si comincia dunque a parlare di Mindfulness, che cos’è e da dove viene, il numero esponenziale di ricerche negli ultimi anni, le sue origini buddiste e l‘importanza di praticarla prima di insegnarla. Brevi accenni che davano giustamente per scontato che il pubblico fosse abbastanza erudito in tal senso. Viene ribadito come non si tratti di una pratica volta necessariamente a trovare calma benessere, ma al contrario, come possa essere, a volte, estremamente sfidante soprattutto per persone che hanno subìto traumi e ai quali si chiede di provare a fermarsi e “stare con”.

Rispetto a questo, numerose volte viene ribadita l’importanza di adattare e modificare tutto sulla base del paziente. Non è importante stare seduti a respirare, la Mindfulness si può praticare in ogni attività purché si comprendano gli specifici bisogni della persona che abbiamo di fronte, soprattutto con pazienti traumatizzati.

La prima definizione fornita non è quella di Kabat Zinn, che viene comunque doverosamente citato, ma ha a che vedere proprio con la traduzione della parola Mindfulness dal sanscrito: più che consapevolezza significa “tornare alla consapevolezza” contribuendo effettivamente a dare il senso dell’intenzionalità di riportare la mente al qui ed ora.

Ampio spazio viene dato alla definizione di Bishop, Lau e Shapiro, (2014) che vedono la Mindfulness come

Autoregolazione dell’attenzione che l’individuo volge alla consapevolezza conscia delle proprie esperienze immediate, adottando un atteggiamento di curiosità, apertura e accettazione.

Gli studi sulla Mindfulness attualmente si stanno moltiplicando anno dopo anno: sono circa 500 dal 2012 quelli peer-reviewed con l’unanime tendenza di sottolineare numerosi effetti benefici a livello fisiologico e psicologico. In particolare: per la riduzione della reattività emotiva (Keng, Smoski, & Robbins 2011) o per la riduzione dei livelli di ansia, depressione e stress, al pari, come minimo degli interventi CBT (Khoury, Lecomte, Fortin et al. 2013). In crescita anche la ricerca nel campo della psicologia evolutiva che comincia a produrre importanti risultati per quanto riguarda soprattutto il miglioramento delle capacità cognitive e della resilienza allo stress (Zenner, Herrnleben-Kurz, Walach, 2014.)

Un accenno anche ai vari tipi di protocolli che hanno integrato la Mindfulness nelle procedure cliniche dall’ MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction), all’ MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy) al MBRP (Mindfulness Based Relapse Prevention) fino alla DBT (Dialectical Behavior Therapy) e all’ACT (Aceptance and Commitment Therapy).

A momenti didattici (se così si vuol dire poiché restano molto interattivi) vengono intervallati momenti decisamente più prolungati di pratica.

EMDR e mindfulness con le persone traumatizzate

In un tentativo di integrare i due approcci vengono citati studiosi di trauma e Mindfulness. E’ Van der Kolk ( 2014) che parla di Mindfulness come essere in grado di osservare dall’alto, in modo calmo e oggettivo, i nostri pensieri, le nostre sensazioni e le nostre emozioni, prendendoci il tempo necessario per rispondere. Tale processo concede al nostro cervello esecutivo la possibilità di inibire, organizzare, e modulare le reazioni automatiche innate pre-programmate all’interno del cervello emotivo.

I soggetti traumatizzatI hanno spesso paura di sentire; le pratiche della Mindfulness, amplificando la loro esperienza sensoriale possono orientarli a questo processo e aiutarli ad affrontarlo con calma, inoltre favoriscono la tolleranza alla sofferenza in quanto aumenta la consapevolezza della mutevolezza degli stati emotivi. lnfine la mindfulness calma il sistema parasimpatico, riducendo le risposte distruttive del sistema attacco/fuga (Van Der Kolk, 2014)

Vengono proposte in forma esperenziale alcune abilità (skills) che vanno dalla pratica di Esercitare la consapevolezza (con la pratica sui sensi e sul respiro respiro), al Body Scan (seconda abilità), fino alla Tecnica del Flusso di Luce (terza).

Di interesse rilevante è la possibilità di utilizzare la tecnica del flusso di luce con un fine simile al “posto sicuro” dell’EMDR. Spesso infatti quest’ultimo può risultare difficile da identificare o evocare mentre la suddetta tecnica prevede la visualizzazione di un fascio di luce, appunto, in grado di calmarci. Una luce di qualunque colore purché calmante o associato a felicità e benessere. E’ tramite questa luce che si segue una scansione del corpo fino a liberarlo da qualsiasi stato tensivo negativo. In aggiunta, da un punto di vista mindfull, il fascio di luce, al contrario del “posto sicuro” è molto più radicato nel qui ed ora dell’esperienza.

Interessante è che ogni pratica viene proposta in molte delle sue varianti, e anche nel materiale consegnato ampio spazio viene dato alla possibilità di modificare gli esercizi, soprattutto in popolazioni particolari come possono essere i pazienti con traumi, abusi o stati dissociativi.

La quarta abilità è “contra e rilassa”; viene proposto un esercizio di contrazione e rilassamento dei muscoli delle braccia (ma è possibile effettuarlo su qualunque altro muscolo del corpo) da effettuare in modo mindful dapprima ognuno con i suoi tempi, e poi bilateralmente, integrando i benefici propri dell’EMDR. L’abilità quarta è la meditazione camminata la quale vanta una tradizione millenaria nella cultura buddista.

EMDR: le origini

Il pomeriggio della prima giornata prosegue con un altro esercizio di respirazione diaframmatica per poi proseguire in un’altra abilità che è la respirazione UjJay (respiro del suono dell’oceano, della vittoria o di Dart Fenerer proprio per la qualità del suono emesso che ricorda effettivamente il personaggio di Guerre Stellari).

In questo respiro sia l’inspirazione che l’espirazione avvengono attraverso il naso e se la bocca e la gola vengono messe in un modo particolare (estremamente difficile renderlo in scrittura, molto più semplice seguire lei durante la dimostrazione) si può riproporre il suono dell’oceano. Le labbra sono non totalmente serrare con la gola contratta leggermente chiusa. Si inspira con il naso con la pancia che si gonfia e si espira nuovamente con il naso (anche se uscirà un po’ anche dalla bocca l’idea è che il flusso passi solo dalle narici).

Il pomeriggio è maggiormente trauma-orientato pertanto viene presentata una breve infarinatura sull’ EMDR soprattutto per la minoranza degli auditori senza formazione specifica. Si parla della sua nascita e del suo nome (Eye Movement Desensitizaion Reprocessing) che tuttavia, specifica, essere fuorviante poiché non è soltanto la stimolazione con gli occhi a poter apportare benefici ma anche quella tattile così come quella uditiva.

La storia nasce con la scoperta di Francine Shapiro e del suo primo studio protocollo sistematizzato (EMD) e pubblicato nel1989. Anno in cui sa EMD si passa a EMDR. Ad oggi è uno dei trattamenti più oggetti a ricerca nell’ambito del PTSD e viene considerato da Shapiro come un trattamento distino dalla psicoterapia.

Durante le ore pomeridiane viene effettuata una simulata di seduta EMDR con una volontaria del pubblico, seduta lunga al seguito della quale non viene aperto nessun dibattito anche nel rispetto della persona ma si riprenderanno i commenti l’indomani. La richiesta è quella di provare a notare (tanto per citare un linguaggio comune ad entrambi) quali sono le skill mindful che possono essere ritrovate nella seduta EMDR (come il body scan di chiusura e i numerosi “prenda un respiro” al termine di ogni set di stimolazione) e la grande affinità di forme verbali utilizzate “cosa nota adesso?” o ancora “vai con questo” frase tipica durante le sessioni di EMDR. È derivante dalla meditazione Vipassana che etiomologicamente significa “visione chiara”. Molti la considerano una forma di EMDR senza movimenti oculari.

EMDR e mindfulness: come personalizzare le sedute

Il giorno dopo è molto dinamico e meno teorico. Si aprono i dibattiti e le pratiche. Più tempo per la consapevolezza del respiro e del corpo in movimento e tempo per le domande circa la seduta del giorno precedente. L’invito era, da un lato notare quanto i due approcci potessero apparire integrati o integrabili, dall’altro quanto la seduta EMDR condotta da Jamie potesse, invece, essere diversa dalla formazione “europea” se così la possiamo definire.

Emergono alcuni concetti chiave rispetto a queste differenze: primo fra tutti l’importanza di cucire addosso al paziente la seduta stessa. Non c’è una stimolazione migliore, non c’è da cambiarla se al paziente sta bene, si può ricorrere alla meditazione camminata e al grounding purchè funzioni bene alla persona che abbiamo di fronte.

Alcune pratiche della mindfulness sono ideali come lavoro di preparazione poiché preparano il cervello a compiere il suo lavoro, così come può essere utile ricorrervi per chiudere la seduta per regolare le emozioni anche tra sessione e sessione. Si torna a praticare un body scan in una delle sue forme varianti. Ci tocchiamo ogni parte del corpo oggetto di scansione portandovi consapevolezza.

A seguito viene presentata l’ultima abilità che è la tapping meditation altro non è che l’abbraccio a farfalla dell’EMDR dove viene ribadita l’importanza di trovare il ritmo giusto perché ognuno di noi possa trovarlo calmante.

EMDR e Minfulness: la dancing mindfulness

Una nuova seduta di EMDR viene proposta nella giornata di domenica con un’altra persona volontaria al seguito della quale si prova a tracciare le fila di unione tra i due approcci.

La terapia EMDR è concettualizzata anche come estensione della pratica Mindfulbess soprattutto tenendo presente che il pensiero di F. Shapiro ha avuto origine dalla meditazione mente e corpo (Marich & Dansiger, 2017).

Infine si parla di Dancing Mindfulness, pratica ideata da Jamie stessa. L’obiettivo è quello di fare in modo che i pazienti si muovano in modo naturale e organico. Lei ha scoperto che qualsiasi invito a compiere movimenti naturali, che la persona veda come danza o no, possono essere un invito per integrare la mindfulness nella vita quotidiana. Negli interventi sul trauma lavorare sui movimenti può essere utile quando la persona si trova bloccata.

Due giornate senza dubbio piacevoli dove sicuramente aver avuto conoscenze di entrambi gli approcci ha aiutato a comprenderne maggiormente gli aspetti interni integrabili e di vicinanza che altrimenti sarebbero potuti apparire forse poco chiari.

L’alessitimia è correlata a scarsa aderenza ai regimi terapeutici prescritti. Studio condotto su una coorte di pazienti HIV-positivi

Sembra possibile che i pazienti HIV – positivi con un deficit della capacità di riconoscere le proprie emozioni, denominato alessitimia, potrebbero dimenticarsi di assumere farmaci quando sono fortemente turbati, o possono decidere che l’assunzione di farmaci non è una priorità in quel momento.

 

Diversi studi stimano la non-aderenza ai trattamenti prescritti in misura variabile dal 20 all’82%; quando si parla di terapie antiretrovirali per l’ HIV, sono stati riportati valori che vanno dal 26 al 94%. Questi dati non possono essere ignorati, quando di parla di terapia antiretrovirale, poiché il successo di questi trattamenti è legato alla regolarità dell’assunzione. Ciascuna dose di terapia saltata permette al virus di riprodursi e di compiere mutazioni, responsabili dell’insorgenza di resistenze alla terapia.

Sono stati identificati diversi fattori che influenzano negativamente l’aderenza alla terapia antiretrovirale in pazienti HIV – positivi. In particolare la depressione, i gravi disturbi d’ansia, il disturbo post-traumatico da stress e l’uso di alcol e sostanze stupefacenti riducono la capacità di adottare e mantenere assunzioni regolari dei farmaci prescritti.

Tuttavia, questi fattori non spiegano la complessità del fenomeno della non aderenza e non permettono di capire come i singoli processi psicologici influenzino le decisioni delle persone di aderire al trattamento.

Una serie di fattori psicologici che potrebbero essere alla base dell’aderenza alla terapia antiretrovirale, su cui si è spostata recentemente l’attenzione dei ricercatori, è rappresentata dai fattori di funzionalità sociale cognitiva o metacognitiva. Ci riferiamo, in particolare alla capacità di identificare le proprie emozioni e quelle degli altri.

La compromissione della capacità di riconoscimento delle proprie emozioni, denominata alessitimia, può rendere più difficile saper identificare il bisogno di supporto emotivo o la necessità di stabilire un’alleanza con il proprio medico, portando conseguentemente ad un minore coinvolgimento terapeutico.

Alessitimia in pazienti HIV – positivi

A conferma di quanto detto, in numerosi studi l’ alessitimia è risultata prevalente nei pazienti affetti da HIV ed è associata a un minore sostegno sociale, minore coinvolgimento attivo del paziente e scarsa aderenza terapeutica.

Lysaker e colleghi hanno riscontrato deficit diffusi nel riconoscimento delle emozioni in pazienti HIV – positivi simili a quelli osservati nella schizofrenia. Clark e colleghi hanno scoperto che i pazienti con HIV hanno difficoltà a riconoscere la paura e il disgusto, mentre deficit nel riconoscimento della rabbia sono stati associati a livelli di CD4 più bassi (sottopopolazioni linfocitarie colpite dal virus HIV). Tra l’altro, lo specifico tropismo del virus per il Sistema Nervoso Centrale è spesso all’origine di numerosi deficit cognitivi per via della particolare azione del virus sulle strutture limbiche.

L’azione del virus, infatti, ha delle ripercussioni sull’integrità dei sistemi frontostriatali, con il riscontro di volumi della corteccia cingolata più piccoli e volumi più grandi di amigdala. Una riduzione del volume della corteccia cingolata anteriore è stata correlata a difficoltà nel riconoscimento delle emozioni facciali e sarebbe coinvolta anche nella elaborazione delle interazioni sociali e nella teoria della mente.

Infine, sia l’inibizione emotiva che la disregolazione emotiva potrebbero influenzare l’aderenza. L’inibizione dell’emozione si riferisce alla tendenza a non esprimere le proprie emozioni e i propri bisogni, a non esserne consapevoli, e quindi le persone con inibizione emotiva potrebbero non riuscire a cercare il tipo di sostegno che facilita l’aderenza ai trattamenti, inclusa la psicoterapia. L’inibizione emotiva può anche comportare una minore consapevolezza della propria sofferenza e quindi potrebbe essere meno probabile focalizzarsi su comportamenti adattivi come l’assunzione di farmaci. Al contrario, la disregolazione emotiva si riferisce all’incapacità di gestire le emozioni, in particolare le emozioni negative.

Sembra possibile che i pazienti con HIV che non riescono a regolare le proprie emozioni potrebbero dimenticarsi di assumere farmaci quando sono fortemente turbati, o possono decidere che l’assunzione di farmaci non è una priorità in quel momento.

Uno studio

Per esplorare queste possibilità, abbiamo testato l’ipotesi che i pazienti arruolati che aderivano o non aderivano alla terapia antiretrovirale potessero presentare diversi gradi di alessitimia, capacità di riconoscimento delle emozioni degli altri e regolazione emotiva.

Abbiamo classificato i partecipanti come aderenti alla terapia antiretrovirale usando due metodi diversi: aderenza autoriferita in un questionario self-report e aderenza valutata attraverso la rilevazione della carica virale nel sangue e poi li abbiamo suddivisi in quattro gruppi: aderenti ad entrambe le misure, aderenti solo in base al dato della carica virale, aderenti solo in riferimento al questionario self-report e non aderenti ad entrambe le misurazioni.

La nostra ipotesi principale era che i partecipanti valutati come aderenti ad entrambe le misure avessero risultati migliori al test sull’ alessitimia, al test di riconoscimento emotivo e regolazione emotiva rispetto ai partecipanti che segnalavano la non aderenza ad entrambe le misure. Per scopi esplorativi, dato che la depressione è stata correlata ad una minore compliance in diversi studi, abbiamo incluso la misura della depressione da utilizzare come potenziale covariata.

Lo studio è stato proposto a tutti i pazienti consecutivamente afferenti all’ambulatorio di Malattie Infettive di Catania nell’arco di un anno. Sono stati inclusi 100 individui HIV positivi in corso di terapia antiretrovirale con le seguenti caratteristiche: età > 18 anni; infezione cronica confermata da HIV; assenza di infezioni opportunistiche acute, neoplasie attive o gravidanza; adeguata conoscenza della lingua italiana per la comprensione dei test psicologici; volontà e capacità di fornire adeguato consenso informato scritto; assenza di deterioramento cognitivo, valutata attraverso i test MMSE e IHDS. Sono state escluse malattie psichiatriche gravi quali schizofrenia e disturbo bipolare, malattie neurologiche che colpiscono il sistema nervoso centrale; pazienti con recenti traumi cranici con perdita di coscienza superiore a 10 minuti e l’uso attivo di sostanze come eroina, cocaina, oppiacei ed alcol.

Il costrutto alessitimia è stato misurato utilizzando la TAS-20 (Toronto Alexithymia Scale-20, Bagby, Parker, Taylor, 1994). La capacità di riconoscimento delle emozioni altrui è stata valutata con il test Reading the Mind in the Eyes (Baron-Cohen, 2001).
La depressione è stata valutata attraverso il BDI-II (Beck Depression Inventory II, Beck, Steer, Brown, 1996). L’inibizione emotiva è stata misurata attraverso lo strumento EIS (Emotional Inhibition Scale, Kellner, 1986), una scala self-report a 16 item. La disregolazione emotiva è stata valutata attraverso la DERS (Difficulties in Emotion Regulation Scale, Gratz, Romer, 2004), strumento self-report utilizzato per valutare la difficoltà nella regolazione delle emozioni negative.

Dal punto di vista laboratoristico è stata effettuata l’analisi citofluorimetrica delle sottopopolazioni linfocitarie T CD4+, CD3+, CD8+, CD38 e la valutazione dei livelli plasmatici di HIV-RNA (metodologia di Cobas Taqman, Roche Molecular Diagnostics, limite di detenzione di 20 copie/ml).

L’aderenza alla terapia HAART è stata valutata anche mediante il questionario self-report PMAQ-7 (Patient Medication Adherence Questionnaire 7). Attraverso il questionario, ai pazienti è stato chiesto di indicare il numero di dosi dimenticate durante ciascuno dei 7 giorni della settimana precedente, delle 2-4 settimane precedenti e del mese precedente.

I risultati hanno rilevato che non sono state trovate differenze significative per i punteggi alle scale EIS o DERS. Sono state rilevate differenze significative, invece, tra i due gruppi, e cioè tra il gruppo che è stato classificato come non aderente ad entrambe le misure e che presentava una performance inferiore nei punteggi TAS-20 e RME ed il gruppo che è stato classificato come aderente ad entrambe le misure.

Quindi, coerentemente con quanto da noi ipotizzato, i partecipanti classificati come aderenti ad entrambe le misure avevano maggiori capacità di riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri. Allo stesso modo, sia la capacità di riconoscere le proprie emozioni sia quelle degli altri prevedeva in modo significativo se un partecipante fosse o meno aderente sulla base della propria dichiarazione al self-report. Al contrario, i livelli di alessitimia erano significativamente più alti tra i partecipanti classificati come non aderenti sulla base della replicazione virale sul plasma.

Conclusioni dello studio

I risultati suggeriscono ipotesi potenzialmente importanti per comprendere i meccanismi psicologici alla base della scarsa aderenza. Un’ipotesi possibile è che l’ alessitimia e l’incapacità di riconoscere le emozioni altrui riducano l’aderenza per diversi motivi. Nel caso dell’ alessitimia, le persone che sono meno abili ad identificare e descrivere le proprie emozioni possono essere meno consapevoli dei loro obiettivi e dei loro scopi, quindi non in grado di comprendere le ragioni per seguire correttamente le prescrizioni mediche.

Potrebbero, inoltre, anche essere meno propensi a prevedere il grado di sofferenza fisica e psicologica che comporta una mancata aderenza.

L’incapacità di trovare un legame tra aderenza e disregolazione emotiva è, invece, in contrasto con quanto emerso da studi precedenti secondo cui le persone che agiscono impulsivamente sono portati ad abbandonare i comportamenti adattivi validi quando si trovano in stati di disregolazione emotiva (Sofia et al., 2017).

Lo studio possiede delle limitazioni. Ad esempio, altri fattori non valutati qui, potrebbero interagire con uno scarso riconoscimento delle emozioni nel predire l’aderenza. Questi includono gli stili di attaccamento, stili interpersonali disadattivi come quelli caratterizzati da ostilità, così come i disturbi della personalità. Inoltre, tre delle quattro misure di riconoscimento delle emozioni erano auto-riferite, quindi possono essere soggette a pregiudizi personali.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale promuove il riconoscimento delle emozioni

Tra le terapie di ultima generazione adatte a promuovere il riconoscimento delle emozioni citiamo la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2015) che è già stata applicata con successo in un caso di una paziente con disturbo post-traumatico da stress (Dimaggio et al., 2016) e anche ad un paziente con disturbo paranoide di personalità, non aderente ai regimi terapeutici prescritti dall’infettivologo e con sarcoma di Kaposi ingravescente. I risultati ottenuti dalla psicoterapia sono stati la completa aderenza terapeutica con remissione del sarcoma di Kaposi e la riduzione dei criteri diagnostici del disturbo di personalità (Sofia et al., 2017).

Il trattamento basato sulla mentalizzazione (Bateman e Fonagy, 2004) è un altro candidato probabile, specialmente per le persone con disturbi di personalità borderline e modelli come la Metacognitive Reflective and Insight Therapy (Lysaker & Klion, 2017; Vohs et al., In stampa) potrebbero aiutare i pazienti con HIV a diventare più consapevoli dei loro bisogni e, di conseguenza, prendere decisioni adattive su quali trattamenti, inclusi i farmaci, potrebbero aiutarli a vivere una piena progettualità di vita.

Confessioni di un satiro, l’ultimo spettacolo dei Corti da Legare tratta il tema della dipendenza sessuale

L’ultimo spettacolo dei Corti da Legare ci ha trasportato nella psiche tormentata di un uomo precipitato nel vortice della dipendenza sessuale attraverso il monologo scritto da Claudio Romano Politi e interpretato con intensità da Igor Petrotto.

 

Cosa succede se la psicologia incontra il teatro? Succede che nasce un’associazione, Corti da Legare, che vuole sfatare i luoghi comuni sul disagio psichico, prevenire i pregiudizi e trasmettere informazioni utili per guardare a temi psicologici da un punto di vista nuovo attraverso l’arte teatrale.

Un’idea originale che reinterpreta in modo attuale la funzione aggregativa, creatrice di incontro e alla base del senso di appartenenza della comunità, che il teatro ha da sempre, dai tempi del teatro greco, il quale metteva in scena i mille volti dell’animo umano attraverso la potenza evocativa delle sue maschere.

Partendo dal motto “Dalla maschera alla persona!” hanno preso vita degli spettacoli teatrali incentrati su varie forme di malessere psichico; la rassegna è arrivata quest’anno alla sua seconda edizione e il primo evento ha avuto luogo lo scorso venerdì 23 novembre presso il nuovo Teatro Orione di Roma.

L’ultimo spettacolo dei Corti da Legare ha portato in scena il tema della dipendenza sessuale

Lo spettacolo era “Confessioni di un satiro”, diretto da Carlo Oldani. Il monologo, scritto da Claudio Romano Politi e interpretato con intensità da Igor Petrotto, ci ha trasportato nella psiche tormentata di un uomo precipitato nel vortice della dipendenza sessuale.

Si tratta di una forma di dipendenza in cui il comportamento sessuale diventa come una droga in cui la persona dipendente cerca conforto per sottrarsi a pensieri e sentimenti dolorosi. La dipendenza sessuale, così come altri tipi di dipendenze comportamentali e di dipendenze da sostanze, è implacabile nell’esigere da chi ne è affetto un tributo feroce in termini di vita, di tempo e di energie. Ogni pensiero, ogni azione sono avvelenati dalla spinta costante a soddisfare una fame che non si placa mai. La conseguenza è che il sesso diventa, da piacere e slancio vitale, una schiavitù che, al contrario, nel suo continuo reiterarsi svuota la vita di significato.

Il lavoro, le relazioni affettive e il tempo vengono fagocitati dal bisogno di mettere in atto comportamenti sessuali che hanno il solo scopo di essere un provvisorio sollievo da un’ansia di vivere mai sazia, una forma di bulimia del sesso.

Dopo lo spettacolo si è tenuto un dibattito moderato da Caudio Romano Politi, autore del monologo e dalla dott.ssa Federica Sorino, psicologa clinica esperta in dipendenze comportamentali e presidentessa dell’Associazione Corti da Legare. Sono intervenute come ospiti, in qualità di psicologhe cliniche esperte sul tema, la dott.ssa Mariangela Treglia e la dott.ssa Elena Cavalieri, la quale ha letto un breve scritto, testimonianza in forma anonima di un partecipante ad un gruppo di terapia in cura per dipendenza sessuale.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Dipendenza sessuale. L'ultimo tema dello spettacolo dei Corti da Legare

Tanti gli spunti di riflessione emersi anche grazie alle domande di un pubblico attento e partecipe. Ci si è interrogati sul senso delle dipendenze, non solo della dipendenza sessuale, la quale, rispetto ad altre forme di dipendenza, sembra essere più difficile da individuare essendo, nella nostra società, il sesso non più circondato dai tabù di un tempo. Come capire fino a che punto un comportamento è normale? Cosa determina l’insorgere di un comportamento patologico? Cosa fare per aiutare chi soffre? Domande comuni a vari tipi di malessere ai quali le dottoresse hanno risposto in modo chiaro, comprensibile anche ai non addetti ai lavori, e puntuale al tempo stesso.

La rassegna riprenderà a gennaio con nuovi appuntamenti che prenderanno in esame altre forme di disagio psichico come l’ansia e il panico, il disturbo dissociativo dell’identità, il disturbo borderline e la dipendenza da Internet.

Violenza in TV e nei social: è un fattore di rischio per lo sviluppo dell’aggressività negli adolescenti?

Quotidianamente siamo esposti a notizie che riguardano episodi di aggressione, o di vero e proprio bullismo, da parte di singoli o di baby gang, spesso composte da ragazzi/e adolescenti. Tali episodi avvengono spesso tra coetanei, ma non solo.

 

Vi sono diversi elementi che favoriscono o contrastano la messa in atto di comportamenti aggressivi. Tra questi fattori a livello individuale si considera ad esempio la personalità; al livello familiare, uno stile genitoriale autoritario; a livello sociale, ad esempio vivere in un contesto considerato “a rischio”. A riguardo, è utile distinguere tra fattori di protezione, ovvero le risorse presenti nella vita dell’individuo che favoriscono uno stato di benessere e salute e i fattori di rischio, che invece incidono negativamente rispetto al funzionamento dell’individuo, favorendo l’esordio di condizioni psicopatologiche.

Fattori di rischio per lo sviluppo dei comportamenti aggressivi negli adolescenti: lo studio

Il Dr. Khurana, professore dell’Università dell’Oregon ed i suoi collaboratori, hanno condotto una ricerca allo scopo di esaminare gli effetti che l’esposizione a programmi TV violenti e alti livelli di conflittualità familiare, hanno sulla messa in atto di comportamenti aggressivi da parte degli adolescenti.

I ricercatori hanno condotto un sondaggio online che è stato somministrato a un campione di circa 2000 adolescenti, di età compresa tra i 14 e i 17 anni. L’obiettivo era quello di indagare quali film e spettacoli avessero visto e quante volte, se fossero stati recentemente coinvolti in una lotta fisica, in atti di bullismo o di cyberbullismo. Rispetto al conflitto familiare, agli adolescenti è stato chiesto, con quale frequenza, nelle loro famiglie, avvenissero episodi di critica, litigi e scontri fisici.

Altre domande erano inerenti a quanto tempo i genitori trascorressero a dialogare con loro, a svolgere attività insieme, ma indagavano anche la supervisione dei genitori rispetto all’utilizzo dei media, come limitare o vietare la visione di contenuti violenti. Per quanto riguarda i livelli di impulsività e ricerca di sensazioni forti, sono stati misurati mediante l’utilizzo di questionari self report.

Khurana ha affermato

La violenza dei media è un noto fattore di rischio per l’aggressività in adolescenza. Lo scopo, in questo studio, era osservare il grado d’incidenza unico di questo fattore rispetto agli altri e in interazione con gli altri.

TV e social: andrebbero visti con mamma e papà

I ricercatori hanno evidenziato che l’osservazione ripetuta nel tempo di episodi di violenza attraverso i media, da sola, rappresenta un rilevante fattore di rischio per i comportamenti aggressivi, anche in presenza di punteggi bassi per gli altri fattori di rischio.

Khurana ha aggiunto

L’effetto è senza dubbio maggiore se sono presenti anche altri fattori di rischio, come i conflitti familiari e l’impulsività, ma resta significativo anche in assenza delle altre categorie.

I ricercatori hanno inoltre rilevato che la supervisione genitoriale si configura come un importante fattore di protezione. A tal proposito, Khurana ha detto:

E’ stato interessante osservare che, anche per gli adolescenti che presentavano elevati punteggi in tutte le dimensioni, il monitoraggio dei genitori ha continuato a fornire un effetto protettivo contro le tendenze aggressive.

Questo studio mette in evidenza l’importanza di monitorare le attività dei propri figli, non solo rispetto alla scuola e alle amicizie, ma anche rispetto ai contenuti con cui vengono in contatto mediante l’utilizzo dei media, come TV e social. I genitori dovrebbero assicurarsi, per quanto possibile, che la visione dei media sia appropriata all’età. E’ importante specificare che solo la condizione in cui l’esposizione avviene in maniera ripetuta nel tempo, può rappresentare un fattore di rischio.

Concettualizzazione del caso con l’Inflexahex nei clienti affetti da trauma – Report della terza giornata del Congresso 3G Ponti fra Isole

Daniel J. Moran parte dalla descrizione del modello esagonale dell’hexaflex per addentrarsi poi nella concettualizzazione del caso secondo l’ ACT (Acceptance Committente Therapy) con il racconto dell’uso dell’Inflexahex in alcuni casi clinici.

Terzo giorno di congresso: ultima tavola rotonda

Ultimo dialogo tra isole, sì perché in questo congresso è stato evidente come siano importanti le isole quanto i ponti che le collegano. Le prospettive come i punti di contatto tra le diverse prospettive.

L’ultimo dialogo tra isole di questo congresso è stato affidato al dottor D.J. Moran, Ph.D., BCBA-D, e past-president dell’Association for Contextual and Behavioral Sciences – ACBS. È stato coautore del primo manuale di formulazione del caso ACT e membro del primo comitato sulla formazione in ACT. È peer reviewed ACT Trainer e ha contribuito alla diffusione dell’utilizzo di ACT con l’amministrazione dei veterani. Ha fondato a Chicago il Mid American Psychological Institute e inoltre ha fondato Pickslyde Consulting al fine di portare consapevolezza e comportamenti impegnati orientati ai valori sul posto di lavoro.

Cos’è la concettualizzazione del caso?

Cos’è la concettualizzazione del caso? È la domanda postagli da Paolo Moderato

Per me, spiega il relatore

La concettualizzazione è un modo per capire com’è il paziente e perché è così. La si ottiene dall’integrazione di dati di valutazione con il focus sui comportamenti rilevanti dal punto di vista clinico mediante il modello esagonale dell’ ACT.

Il relatore illustra i punti chiave del modello esagonale dell’hexaflex, che riportiamo di seguito.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

ACT: il contributo di D.J. Moran il terzo giorno del Congresso Ponti fra isole

Imm. 1 – Modello dell’Hexaflex – ACT

 

  1. Accettazione versus evitamento esperienziale (che non sempre è segno di patologia, ci rammenta il relatore);
  2. Defusione versus fusione cognitiva (anche qui, può essere utile vivere un’esperienza di fusione ad esempio se leggiamo la nostra poesia preferita, vogliamo fonderci con essa e sentirci commossi, non vogliamo dire che sono soltanto parole bene scritte);
  3. Sé come contesto versus concettualizzazione del sé;
  4. Azione impegnata versus persistenza nell’inattività o impulsività o eccitamento;
  5. Valori versus mancanza di valori. Ecco come Il dottor Moran presenta il tema dei valori ai pazienti:

    Se la vita fosse un viaggio come vorreste che fosse questo viaggio? Quale direzione vorreste scegliere? Una volta chiarita la direzione, si potranno selezionare gli obiettivi specifici, quindi stabiliti in base ai valori. Se non abbiamo valori, siamo soggetti a vagabondaggio senza meta.

  6. Contatto con il momento presente versus scarsa autoconoscenza (in questo polo domina il passato e preoccupa il futuro).

L’Inflexahex come strumento di lavoro. Alcuni esempi clinici

L’Inflexahex Foglio è un foglio di lavoro – spiega D.J. Moranche consente al terapeuta di concettualizzare il caso clinico direttamente con il paziente mentre racconta di sé e della sua sofferenza. Nella mia clinica i clinici prendono appunti direttamente su questo foglio di lavoro per classificare le informazioni e categorizzare le sei aree e passare alla fase terapeutica; Questo consente in pochi minuti una concettualizzazione.

Il relatore ci mostra i dialoghi di casi reali di persone con trauma e dolore reale. Si tratta di trascritti di sessioni di terapia con pazienti con PTSD.

Ci presenta come primo caso, un paziente che ha subito un abuso da un clericale. Ha un comportamento di evitamento esperienziale e dice di essere senza speranza. Il “sono senza speranza” del paziente è un sé concettualizzato sulla base della sua disabilità e rispetto ciò che la moglie gli ha rimandato. Non è su questo che il terapeuta dovrebbe concentrarsi, ci indica il relatore. Moran fa notare al pubblico come il terapeuta nel dialogo con il paziente non si sia agganciato al contenuto (“sono senza speranza”) ma ha opportunamente praticato la defusione, non cadendo nella trappola del contenuto e validando il paziente:

Capisco e voglio aiutarti a individuare i tuoi valori e fare azioni di valori.

In questa battuta c’è la formulazione del contratto terapeutico con il paziente e lo scopo della terapia stessa.

Ci raccomanda Moran di analizzare quale sia per il paziente la maggiore inflessibilità psicologica per poi, mediante la matrice ACT, dirigere il lavoro per ampliare la flessibilità psicologica del paziente anche se in presenza di trauma grave.

Il relatore presenta poi un’altra concettualizzazione clinica mediante l’Inflexahex. Si tratta di un veterano di guerra, che a seguito di un ferimento durante una missione critica ha riportato disabilità fisica agli arti inferiori. Al rientro a casa la moglie lo lascia con la seguente motivazione: “Non sei più lo stesso”. Frase che il veterano si fa tatuare sul braccio. Non esce da casa ed è gravemente depresso. Al terapeuta racconta: “Sono arrabbiato, non sono più me stesso, non sono più un maratoneta, sono solo una debole prostituta!”. Nell’ascoltare le parole del paziente, il terapeuta già compila l’Inflexahex, inserendo le parole negli opportuni box che si riferiscono a ciascun punto specifico dell’esagono. Il relatore ci illustra come mostrare quindi al paziente, attraverso il diagramma esagonale, il suo attaccamento al sé concettualizzato e lo stimola a vedere il sé contestuale.

Conclusioni e un “desiderato” Arrivederci!

E poi c’è il Suggestaflex, mediante lo stesso processo e la medesima rappresentazione grafica fornisco i suggerimenti al paziente, ma questa è un’altra storia e un’altra relazione! Arrivederci a Dublino!

Moran si congeda così. Il relatore salutato da un forte applauso del pubblico, che ha apprezzato la chiarezza con la quale ci ha mostrato il suo modo di concettualizzare e lavorare con il paziente.

Come gli organizzatori hanno spiegato nell’introduzione al congresso per L’ Acceptance Committment Therapy, saper assumere prospettive diverse in modo flessibile e portare i propri valori con leggerezza sono abilità psicologiche fondamentali per la salute e l’adattamento.

Questo congresso si è definito come una buona opportunità per allenare queste importanti abilità e per la comunità scientifica è stata occasione feconda di confronto sui temi cardini della psicopatologia.

La terza generazione di psicoterapia cognitivo comportamentale nell’intenzione degli organizzatori non è una nuova isola ma un ponte straordinario che arricchisce il dialogo e il confronto e, lo sappiamo, dialogo, confronto e ricerca alimentano la conoscenza.

Il congresso si chiude formalmente alle 17h40 con l’invito a partecipare alla XVII conferenza mondiale ACBS a Dublino dal 25 al 30 giugno 2019.

Arrivederci!

Non sono un algoritmo. Cosa rivela di noi l’interazione uomo-robot? (2018) di Claudio Lombardo – Recensione del libro

Non siamo algoritmi. Non lo siamo noi umani, non lo sono i robot. O, almeno, non sono solo quello. E, soprattutto, lo saranno sempre meno..

 

Per definizione un robot è una macchina in grado di svolgere un compito. Può essere o meno antropomorfa e può avere diversi gradi di autonomia rispetto all’uomo. Se inizialmente con i robot di prima generazione si aveva a che fare con macchine in grado solamente di eseguire sequenze prestabilite di operazioni, si è passati poi a quelli cosiddetti di seconda generazione capaci non solo di eseguire ciò per cui erano stati programmati, ma anche di farlo in presenza di fenomeni non previsti a priori, attuando quindi una prima rudimentale forma di problem solving autonomo.

Non sono un algoritmo – i robot di terza generazione

Attualmente siamo nella terza generazione, definita così perché si tratta di robot che possiedono un’intelligenza artificiale, capaci quindi di risolvere nuovi problemi su differenti domini in maniera molto più raffinata e potente. Può trattarsi di compiti che l’uomo non vuole più svolgere, come quelli meccanici e ripetitivi, fino ad arrivare a compiti complessi che l’uomo da solo non può compiere (si pensi alla potenza di calcolo in tempi rapidissimi dei moderni calcolatori).

Le speculazioni sull’interazione uomo robot (HRI) sono sorte di pari passo con la nascita dei primi modelli della cibernetica nella metà del Novecento, quando era già chiaro che lo sviluppo di queste macchine avrebbe posto nuove domande tra gli scienziati, non solo di natura prettamente matematica ma anche filosofica, etica, psicologica. Cosa pensiamo e come reagiamo quando interagiamo con un robot? E quali aspetti vanno sviluppati e come per arrivare a un livello ottimale di interazione?
Questa interazione non può interessare solo l’ algoritmo perché, come tutte le interazioni, è fatta di riconoscimento e riproduzione di emozioni adeguate, sguardo, prossemica, di verbale e non verbale.

Se classicamente la cibernetica e lo studio delle intelligenze artificiali si sono focalizzati sulla modularità e su aspetti oggettivi del comportamento nella sua interazione con l’ambiente, adesso si sottolinea l’importanza di ampliare la ricerca su fattori soggettivi, interni al sistema stesso, nello sviluppo di una teoria della mente nel robot.

La mente come ripartita in moduli e come tale studiata e riprodotta nelle intelligenze artificiali. La cibernetica e i primi studi in questo ambito sono partiti da qui, dallo studio e dallo sviluppo di ‘sezioni’ di intelligenze, tipicamente logico-matematiche, per sviluppare per comparazione modelli del funzionamento cognitivo nell’uomo. E’ stata questa un’esigenza e una prerogativa calata nel contesto culturale dell’epoca e nello sviluppo tecnologico allora disponibile. Ma col passare del tempo e con l’evolversi delle tecnologie i computer si sono sempre più raffinati non solo nell’ambito della potenza di calcolo e della risoluzione di specifici task ma anche in una visione olistica di macchina come robot, come riproduzione del sistema-uomo nella sua interezza. Come Lombardo sottolinea diverse volte, la chiave di lettura che si mostra più efficace è leggere gli sviluppi tecnologici alla luce di cosa caratterizza l’interazione umana e partendo da questo andare a costruire un sistema robotico credibile, che non sia solo cognitivamente potente ma anche in grado di avere qualcosa che si avvicini molto alla coscienza così come noi la intendiamo.

Non sono un algoritmo: l’interazione uomo-robot (HRI)

Perché l’interazione risulti naturale è necessaria la comprensione di qualcosa di più profondo dei pattern delle espressioni facciali o di indici fisiologici alla base di manifestazioni corporee. E’ necessaria una comprensione degli scopi e delle motivazioni delle persone, qualcosa che l’umano coglie mettendo insieme il proprio patrimonio genetico, cognitivo, culturale. E’ necessaria una teoria della mente (ToM).

La ricerca quindi si muoverà nella direzione di uno sviluppo parallelo su diversi piani, andando ad integrare il mentale ed il sociale, il linguaggio e la cultura.

In primis, andrebbe sviluppata una robotica interna. Essa rappresenta la riproduzione dei sistemi interni: così come nell’uomo sistemi interni generano e producono risposte fisiologiche (es. produzione di ormoni) così il robot dovrebbe essere in grado di generare dei propri stati interni. A questa si dovrebbe affiancare una robotica mentale, ovvero la riproduzione della vita mentale interna, tutto ciò che riguarda immagini e rappresentazioni mentali, ricordi, pensieri, sogni, allucinazioni, previsioni, pianificazione a livello consapevole e cosciente, insomma tutto ciò che viene generato ed esperito internamente. Ancora, bisognerebbe creare robot in grado di sviluppare relazioni soddisfacenti con l’ambiente e gli organismi viventi (robotica sociale). La robotica linguistica invece riguarda lo sviluppo di linguaggio e di attribuzione di senso delle parole in relazione al contesto. Infine, la robotica culturale. Essa rappresenta l’altro nell’apprendimento e tutto ciò che si impara nel confronto con gli altri in relazione all’ambiente.

Le nuove tecnologie diverranno presto parte integrante della nostra vita quotidiana. La riflessione sulla teoria della mente (ToM) e su quali aspetti evolutivamente, geneticamente e culturalmente risultano determinanti per una interazione efficace e significativa ci fornisce anche la risposta su come rendere la relazione uomo robot efficace.

Non da ultimo il contributo di Lombardo è anche quello di aver largamente attinto a diversi lavori provenienti da diverse discipline (ingegneria, informatica, scienze sociali e umanistiche), fornendo molti spunti per approfondire specifiche tematiche, mettendo insieme diverse voci che dirige lungo il filo conduttore e l’obiettivo del suo lavoro: ricordarci da dove parte la ricerca nell’ambito dell’interazione uomo robot, dove siamo adesso e cosa ci aspetta in futuro.

Digital biomarker: si potrà prevedere l’umore con la tecnologia?

Digital biomarker: sono ormai numerosi e sempre più accurati i device, gli strumenti tecnologici indossabili come braccialetti e smartwatch, le applicazioni e i software utilizzati per raccogliere e registrare in tempo reale e in modo continuo e simultaneo informazioni circa gli stati emotivi e fisiologici, i comportamenti e i pensieri che naturalmente e nel quotidiano si presentano.

 

Basti pensare allo smartwach embrace 2, sviluppato dalla compagnia EMPATICA e approvato dalla FDA, in grado di analizzare dati fisiologici come l’attività elettrotermica per prevedere l’avvento di una crisi convulsiva in persone che soffrono di attacchi epilettici e poter preavvertire i loro caregiver in tempo reale.

Lo sviluppo di questo tipo di device che rilevano i digital biomarker e l’applicazione di sistemi di machine learning in dispositivi come lo smartphone stanno aprendo nuovi orizzonti che non riguardano esclusivamente il monitoraggio delle crisi convulsive ma che apre alla valutazione in tempo reale del benessere psicofisiologico degli individui che fanno uso di questi, tramite la registrazione di informazioni emotive, comportamentali, cognitive, sociali con un grado sempre maggiore di accuratezza (Kaplan, 2018), con l’idea di poter costruire un modello di funzionamento dei soggetti analizzati e prevedere di conseguenza eventuali abbassamenti del tono dell’umore, episodi di vulnerabilità o malessere emotivo o condizioni di stress prolungati.

Digital biomarker: lo studio del gruppo Affecting Computing del MIT

Il gruppo di lavoro dell’Affecting Computing del Massachussets Institute of Techonology, in associazione con l’Harvard Medical School, dal 2013, è infatti impegnato nell’ incremento e nell’evoluzione di nuovi software installati sugli smartphone di 300 studenti in grado di misurare la loro attività fisica, la quantità di luce alla quale giornalmente sono esposti, la loro temperatura corporea e l’attività elettrotermica per circa 30 giorni.

Oltre a ciò, il dispositivo ha registrato e integrato dati relativi alla frequenza delle loro chiamate telefoniche, dei messaggi inviati, dell’uso di internet, delle interazioni tramite social network e dati relativi alla qualità e alla quantità di ore di sonno giornaliere, allo stress autoriportato, all’eventuale irrequietezza o agitazione notturna, al loro consumo giornaliero di caffeina e alcol (Sano, Picard et al., 2015).

Affinché sia possibile utilizzare i dati psicofisiologici – digital biomarker – registrati e poterli utilizzare in un ambito prettamente clinico per identificare e prevenire episodi depressivi o rischi suicidari in soggetti emotivamente vulnerabili, la compagnia di Palo Alto, la Mindstrong Health, ha riportato dati relativi a come le persone toccano, digitano e scorrono sui propri smartphone per individuare i cambiamenti nelle loro funzioni neurocognitive identificando i digital biomarker da poter utilizzare come indici affidabili e accurati per una misurazione cognitiva e determinare un “fenotipo digitale” della persona caratterizzato da informazioni su cognizione, comportamento e umore (Dagum, 2018).

Digital biomarker: il potenziale futuro

A parere della compagnia, in futuro, sarà possibile tramite trial clinici utilizzare i digital biomarker per la valutazione e la diagnosi di schizofrenia e forme di depressione resistenti al trattamento, partendo dall’idea audace di incorporare la misurazione delle interazioni con il touchscreen all’interno del sistema digitale di cura e salute mentale (Kaplan, 2018).

Tuttavia vi sono anche nascenti preoccupazioni sull’impatto psicologico che queste tecnologie che forniscono digital biomarker potrebbero avere sull’esistenza delle persone in quanto l’eventuale previsione dell’umore potrebbe avere conseguenze sull’umore stesso, come affermato dalla psicologa Barbara Fredrickson dell’Università del North Carolina, per la quale una previsione negativa del proprio umore potrebbe in qualche modo determinare un suo ipermonitoraggio da parte della persona e attivare così tutta una serie di processi emotivi e di credenze che potrebbero ulteriormente acuire il malessere, senza un’adeguata e opportuna gestione da parte di un professionista (Kaplan, 2018).

Nonostante ciò, questi supporti tecnologici possono

[…] aiutarci a identificare e prevedere per tempo molte piccole cose che, accumulandosi, possono appesantirci e farci cadere in uno stato doloroso; con queste tecnologie possiamo fare la differenza.

(Rosalind Picard, ingegnere informatico al MIT, direttrice del dipartimento di Affecting Computing)

Depressione e social media: esiste una relazione?

Depressione e social media: che esista una relazione è oggetto di discussione da molto tempo, ma per la prima volta i ricercatori dell’Università della Pennsylvania hanno trovato dei riscontri tra Facebook, Snapchat e Instagram connessi ad una diminuzione del benessere.

 

In letteratura solitamente gli studi che hanno cercato di validare ed indagare questo fenomeno sono sempre stati soggetti a forti limitazioni come l’utilizzo di partecipanti in situazioni poco realistiche di rinuncia completa ai social network e facendo affidamento solo a dati self-report.

Depressione e social media: lo studio

Un team di ricerca dell’Università della Pennsylvania ha portato avanti uno studio coinvolgendo una coorte di studenti universitari, includendo tutte e tre le principali piattaforme social raccogliendo dati di utilizzo oggettivi tracciati automaticamente dalle app attive sugli smartphone. Tutti i partecipanti allo studio in una prima fase hanno completato un questionario per determinare l’umore e il benessere, inoltre hanno condiviso con i ricercatori informazioni circa l’utilizzo settimanale delle varie app. Sono stati strutturati due gruppi con assegnazione casuale; quello di controllo in cui l’utilizzo degli smartphone non variava rispetto all’uso precedentemente rilevato, e quello sperimentale in cui i soggetti avevano un tempo limitato di utilizzo all’incirca 10 minuti al giorno per piattaforma. Per tre settimane hanno condiviso questi dati essenziali con i ricercatori ottenendo cosi una database solido. Il benessere è stato valutato includendo una serie di variabili tra cui l’ansia, la depressione, la solitudine e la paura di essere esclusi.

Social media: se usati meno, aumenta il benessere

Dai risultati emerge che un minore utilizzo è connesso ad un maggiore benessere; anche se questo non comporta automaticamente uno stop dei social network, però potrebbero essere realizzati dei programmi che possano limitare l’utilizzo.

Nonostante questi risultati, ci sono molti interrogativi a cui questo studio non è riuscito a dare una risposta, come per esempio il tempo ottimale di utilizzo; nonostante ciò questo resta un primo passo verso una ricerca sempre più approfondita di questo fenomeno.

Congresso 3G: Ponti fra isole – Dove nasce la psicopatologia tra trauma, attaccamento e storia interazionale – Report dal Simposio

La terza giornata del Congresso 3G “Ponti fra isole: mindfulness, acceptance, compassion”, tenutosi dal 14 al 16 Novembre, ha visto l’alternarsi di diversi esperti e delle loro relazioni nel Simposio dal titolo “Dove nasce la psicopatologia tra trauma, attaccamento e storia interazionale”

 

Introduce e modera il Professor Paolo Moderato.

Robin D. Walser: life after trauma

Il primo intervento di questa tavola rotonda è affidato a Robin D. Walser che ascoltiamo in videoconferenza. PhD, psicologa clinica, direttrice di TL Consultation Services e co-direttrice del Bay Area Trauma Recovery Center. Lavora presso il National Center per il PTSD sviluppando e diffondendo metodi innovativi per tradurre la scienza in interventi applicati, e svolge il ruolo di assistente professore presso il dipartimento di psicologia dell’Università della California, a Berkeley. È co-autrice di vari libri sull’ACT e il PTSD.

Life after trauma, il titolo della sua presentazione. “Il primo punto che vorrei trattare con voi è considerare la perdita dell’ordine dopo il trauma” così la relatrice introduce il suo intervento.

La relatrice mostra immagini concernenti lo tzunami e ricorda che dopo l’evento era stata costituita una linea telefonica di aiuto per prevenire il suicidio dei sopravvissuti, proprio a conferma degli effetti psicologici degli eventi traumatici. L’intensa sofferenza può condurre a suicidio. Talvolta, prosegue, è difficile calcolare gli effetti nel tempo di questi disastri: 230 sono state le persone morte in unico evento, il terremoto in Haiti, ma non si possono calcolare gli esiti a lungo termine di questi traumi sui sopravvissuti. Viviamo in un tempo e in un mondo che sottopone l’uomo a continui traumi, ci sono milioni di persone migranti che durante il loro percorso subiscono esperienze traumatiche.

Il trauma dunque ha un impatto, ma le conseguenze del trauma continuano a impattare nella vita delle persone: immagini e pensieri intrusivi.

La relatrice pone quindi una domanda in merito:

Cosa dunque possiamo fare per le persone che vivono traumi cosi gravi, come facciamo a ridare il senso di vivere a queste persone, dove si trova la vitalità dopo esperienze di questo genere? Come esseri umani dovremmo lasciare andare questi eventi, per andare avanti, e abbiamo trattato queste persone con ordine e metodo, ci creiamo delle storie su come la vita dovrebbe essere in una cornice di coerenza e sicurezza. Ma la vita umana non è ordinata, nel mondo non vanno così le cose ora e non è mai andato così. Tuttavia pensando al trauma non solo è scarso l’ordine che c’è fuori, ma anche dentro di noi le cose non sono ordinate.

Quando lavora con i sopravvissuti, la dottoressa cerca di riportarli sull’obiettivo di fare esperienze di vita di qualità, non necessariamente esperienze ordinate in una cornice di sicurezza e coerenza, la rigidità di questa cornice ci crea pensieri ed evitamenti esperienziali.

L’accettazione delle esperienze traumatiche è processo complesso e doloroso ed è importante prima di tutto cercare di capire cosa significa questo processo per chi ha vissuto esperienze traumatiche. Come spiega la relatrice:

Che cosa significa avere disordine dentro? Le persone vengono da noi nell’idea che la guarigione comporti un controllo, si sentono spezzati dal trauma e per potersi ricostruire e reintegrarsi fanno molti sforzi per controllare i pensieri e i sentimenti che sopraggiungono improvvisamente. Diventano vittime di se stessi perché cercano ad esempio di bloccare tutto per sperimentare di vivere senza dolore.

Le persone traumatizzate si ripetono costantemente nella loro mente di voler tornare indietro nel tempo, prima del trauma. Questo non è possibile ma come terapeuti li indirizziamo a una soluzione e ed essa sta nell’accettazione dell’accaduto. Possiamo condurre i pazienti a creare uno spazio dove possano entrare in contatto con il dolore, possiamo far capire loro che non è il dolore che muove la loro vita, e riconducendoli a guardare il mondo così com’è realmente, non ordinato e prevedibile come ci illude che sia.

La persona che ha subito traumi prova emozioni intense e negative: vergogna, tristezza, colpa, rabbia e ritiene che il mondo sia ingiusto. Lavorare sull’accettazione comporta il creare spazio per sentire queste emozioni, ciò diminuisce l’impulso a evitare e a usare sostanze per anestetizzarsi dinanzi a queste emozioni dolorose.

Attraverso compassione e flessibilità possiamo ridare un modo per vedere le cose – termina la relatrice.

Sandra Sassaroli: il ruolo della storia evolutiva del paziente

La tavola rotonda prosegue con l’intervento della dottoressa Sandra Sassaroli, direttore delle scuole di psicoterapia Studi Cognitivi Network e pilastro del cognitivismo italiano. Il suo intervento si avvia proprio da alcuni momenti della storia del cognitivismo in Italia.

Nella tradizione cognitivista italiana c’è sempre stata una grande attenzione a come alcune esperienze di vita importanti orientano comportamenti tardivi, la dottoressa Sassaroli ricorda come il suo incontro con J. Bowlby ha stimolato la sua attenzione allo studio della relazione tra pattern di attaccamento e psicopatologia.

Tuttavia non è sempre il momento di trattare la storia evolutiva del paziente ma non è neanche sempre il momento di trattare i processi di funzionamento del paziente stesso o il contenuto dei suoi processi stessi. Inoltre come afferma la dottoressa:

Il modello liottiano considera il trauma dell’attaccamento deficit relazionale e della coscienza e propone un intervento terapeutico come relazione cooperativa di compenso affettivo e ripartivo.

Ricorda inoltre il modello di Semerari e collaboratori che formula una teoria del deficit metacognitivo e secondo questa teoria concettualizza il caso.

Con Roberto Lorenzini, prosegue la relatrice, nel 1987 ho concettualizzato il caso ponendo in relazione gli stili di attaccamento con gli stili di personalità e il funzionamento del paziente, ora come sapete lavoro sul modello Libet, che non è una nuova terapia ma un modo per concettualizzare il caso e comprendere il funzionamento del paziente.

Al tema centrale di questa tavola rotonda tradotto nella domanda: ”Quale potrebbe essere un modello ideale che spieghi il funzionamento di un paziente?” la dottoressa Sassaroli risponde quindi proponendo il modello Libet, al quale già si riferì nella scorsa edizione di questo congresso.

LIBET è l’acronimo di Life themes and plans implications of biased beliefs: elicitation and a treatment. Il modello Libet è attenzionale, metacognitivo ed evolutivo, descrive la sofferenza secondo due coordinate: temi e piani.

  • Tema: è uno stato mentale doloroso emotivamente intenso, evolutivamente appreso nella storia di vita personale, rigido, inflessibile e giudicato intollerabile. I temi individuati sono tre: minaccia terrifica, inadeguatezza /disamore e infine tema dell’indegnità personale.
  • Piani: strategie semi adattive e di meta controllo che hanno funzionato e che hanno in parte permesso a un ritorno alla dimensione di sicurezza. I piani individuati sono i seguenti:
    • Prudenziale: la persona non pensa ai temi dolorosi, li evita e non esplora.
    • Prescrittivo: qui la persona monitora la minaccia e si sforza di prevenirla con comportamenti rigidi e d’iper-controllo.
    • Immunizzante: il soggetto ignora la minaccia sforzandosi di tenere uno stato desiderato, la ricerca di possibilità estrema.

Secondo la dottoressa Sassaroli dunque, sensibilità (tema) apprese nell’infanzia sono correlate con il malfunzionamento e la sofferenza attuale che il paziente gestisce mediante strategie (piani). Infatti, spiega Sassaroli:

Quando si è instaurato il circuito meta controllo, si autoalimenta ma la soluzione funziona solo in quella finestra spazio temporale e solo in quella famiglia solo in quel periodo. Hanno senso in quell’ambiente ma poi si cristallizzano e generano inflessibilità e rifiuto, diventano piani rigidi e inflessibili e m’impediscono di vedere quello che posso vedere. I miei piani si possono rompere e produrre l’emersione del sintomo reattivo e un circuito di mantenimento sintomatico.

Secondo il modello Libet, l’intervento è basato principalmente sull’analisi approfondita del contenuto doloroso del tema, sul compenso emotivo nella relazione terapeutica ed ha come scopo la riduzione del condizionamento e della dolorosità del proprio tema e inoltre punta ad aumentare il distacco del paziente dal proprio piano.

Sandra Sassoroli, termina il suo intervento rammentando che:

E’ importante dunque accettare che quella storia è dolorosa ma non la posso riscrivere!

Giovambattista Presti: la concettualizzazione contestualista della psicopatologia

Il terzo relatore, Giovambattista Presti, MD, Ph.D, è professore di Psicologia presso l’università di Enna e presso IULM, Milano. Peer Reviewed ACT trainer, IESCUM, ACT Italia e past president di ACBS.

Nanni Presti interviene alla tavola rotonda con un contributo sul tema della concettualizzazione contestualista della psicopatologia, tracciando un filo rosso che lega la clinica alla ricerca ovvero l’ambulatorio al laboratorio.

Il modello dell’Acceptance and commitment therapy (ACT) spiega la psicopatologia secondo un approccio contestualista, poiché nasce da una matrice comportamentismo.

I teorici della Relational Frame Theory (RFT), mediante l’approfondimento dello studio del linguaggio e della cognizione hanno fornito una chiave di spiegazione dell’insorgenza e del mantenimento della psicopatologia: l’inflessibilità psicologica.

I Relational frames ci consentono di pianificare, valutare, confrontare e ricordare, ma se rigidi e inflessibili possono sviluppare o alimentare la sofferenza attraverso tre modalità:

  • Ubiquità del dolore
  • Fusione cognitiva
  • Evitamento esperienziale

Nanni Presti ci presenta studi e ricerche effettuate per illustrarci in che modo la RFT può offrire un modello esplicativo dell’eziopatogenesi. La Relational Frame Theory, spiega il relatore:

Può essere modello esplicativo della psicopatologia collegandosi alla tradizione operante e ampliando quando scoperto e formalizzato da Skinner.

Ripercorre la storia del comportamentismo partendo da questi momenti e punti di studio:

Come rispondiamo R, prima a una cosa che indichiamo con S, poi rispondiamo ad aspetti simbolici della stessa cosa e infine rispondiamo allo stesso stimolo con la mediazione del linguaggio e dei significati. Rispondiamo ai nomi che diamo a quello stimolo S. La RFT concettualizza un se deittico: io-tu qui-li adesso prima e adesso dopo e un se gerarchico: inclusione di storia e di elementi in un gran contenitore che chiamo io. Ognuno di noi cerca continuamente coerenza e integrazione di significati.

Dagli studi della RFT deriva l’acceptance and commitment therapy (ACT). Obiettivo principale dell’ACT è incrementare la flessibilità psicologica ovvero la capacità della persona di mettere in atto o persistere in comportamenti che siano in linea con i propri valori. Il relatore ci presenta ricerche che hanno approfondito il ruolo dell’evitamento esperienziale. L’impegno pluridecennale di Presti nelle scienze del comportamento è noto al pubblico che applaude il suo intervento, importante per il raccordo tra clinica e ricerca.

La tavola rotonda si conclude con la seguente domanda posta dal moderatore Professor Paolo Moderato:

Gli studi della RFT, gli studi processuali dell’ACT e il modello di concettualizzazione LIBET ci stanno spingendo forse verso una CBT di quarta generazione: la generazione di processi in terapia?

Una scuola plurale e multiculturale di fronte alle difficoltà di apprendimento degli alunni non italofoni

Le rilevazioni sull’ apprendimento evidenziano significative differenze di successo scolastico tra alunni italiani e alunni non italofoni, anche se ci sono segnali di miglioramento nelle “seconde generazioni” (Invalsi 2016).

Elisabetta Morelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Venezia-Mestre

 

La scuola italiana sta affrontando una profonda trasformazione nella composizione della sua popolazione scolastica in relazione alla progressiva ed elevata presenza di alunni di origine straniera in tutti gli ordini e gradi. Questa nuova realtà consta oltre 800 mila alunni non italofoni provenienti da 190 Paesi (Sud America, Africa, Asia e Europa dell’Est) che iniziano il loro cammino all’interno delle nostre scuole confrontandosi con molte difficoltà, tra cui quelle nel processo di apprendimento scolastico.

Alunni non italofoni nelle scuole italiane: una realtà in forte crescita

Alla notevole crescita della popolazione straniera non poteva che corrispondere un sensibile aumento degli alunni non italofoni nelle scuole del nostro paese. Con i suoi 815.000 alunni di cittadinanza non italiana (a.s. 2015/2016, MIUR), dall’infanzia alla secondaria di II grado, e un’incidenza del 9,2% sulla popolazione scolastica complessiva, la scuola italiana è di fatto una realtà multiculturale.

Uno degli aspetti di maggior rilievo è l’aumento di studenti non italofoni iscritti nella scuola secondaria di secondo grado, il cui afflusso è, in percentuale, superiore a quello degli altri gradi d’istruzione. Infatti, in dieci anni, dall’a.s. 2006/2007 all’a.s. 2015/2016, gli studenti di tale ordine di scuola sono cresciuti dell’82%, a confronto con un valore del 45% nella scuola secondaria di I grado, del 56% nella scuola primaria e del 76% nella scuola dell’infanzia (Rapporto MIUR, 2017).

All’interno di questa percentuale, vanno distinti i bambini e ragazzi stranieri non nati in Italia dagli alunni di origine straniera ma nati e cresciuti nel territorio italiano, quindi cittadini italiani a tutti gli effetti, che tuttavia vengono definiti “stranieri o immigrati di seconda generazione” perché incontrano difficoltà scolastiche simili a quelle dei loro compagni stranieri.

Il fenomeno degli alunni di cittadinanza non italiana, unito a quello delle seconde generazioni, pone la scuola di fronte a molteplici interrogativi: perché gli alunni di origine straniera, più degli altri, hanno difficoltà nell’ apprendimento scolastico e raggiungono raramente livelli ottimali di apprendimento? Qual è la vera natura di queste difficoltà?

Per capire come far fronte in maniera efficace a questa realtà in forte crescita, il presente lavoro ha lo scopo di esplorare l’ambito delle difficoltà d’ apprendimento negli studenti non italofoni, anche al fine di individuare azioni didattiche che possano facilitare sia l’ apprendimento sia l’insegnamento.

Alunni non italofoni e apprendimento scolastico

La presenza degli alunni non italofoni in tutti gli ordini scolastici è un dato strutturale e significativo del sistema scolastico italiano, così come le difficoltà che spesso questi ragazzi incontrano nel loro cammino scolastico. Dall’osservazione dell’esito scolastico degli alunni italiani a confronto con quello degli alunni non italofoni, si rileva come sia costante il minore successo scolastico degli studenti non italofoni, nei diversi ordini di scuola.

Questa realtà costituisce per gli insegnanti, che si trovano a dover assolvere il difficile compito di essere “agenti” d’integrazione, una vera e propria sfida educativa accentuata dal fatto che le difficoltà scolastiche degli studenti non italofoni appaiono spesso complesse e di difficile comprensione.

Ogni bambino porta con sé un bagaglio pieno di bisogni, desideri, caratteristiche individuali, esperienza scolastica e conoscenza della lingua. Le dinamiche che interessano i figli di migranti sono, infatti, diverse a seconda dei casi, del tempo trascorso nel Paese, ma soprattutto della qualità dell’esperienza di integrazione (Colombo, 2010).

Numerosi studi e ricerche (Favaro e Napoli, 2004) hanno messo in luce come l’età di migrazione sia uno degli elementi più incisivi sulle modalità con cui il percorso migratorio verrà vissuto e rielaborato: i bambini e gli adulti sono in qualche modo facilitati, dal punto di vista affettivo e psicologico rispetto agli adolescenti e ai pre-adolescenti, che per il particolare periodo di crescita in cui si trovano, devono accettare a priori l’esigenza di lasciare la propria terra e i propri affetti per trasferirsi in un altro paese o ritrovare la famiglia migrata. Al contempo diviene necessario per i ragazzi e le ragazze neo-arrivate conoscere un contesto socio-culturale altro, acquisire una nuova lingua, affrontare la scuola, superare le difficoltà tipiche dell’adolescenza. Tutto ciò influisce in modo rilevante sulla costruzione dell’identità e l’organizzazione della personalità e, parallelamente, rende più difficoltoso il percorso di apprendimento scolastico (Zuppiroli, 2008).

Nonostante il sistema scolastico italiano sia ormai a tutti gli effetti inclusivo (Landri et al., 2012; Ongini, 2016), permangono ancora difficoltà nel garantire un’uguaglianza sostanziale in termini di opportunità di riuscita scolastica e il quadro appare tuttora problematico.

Le rilevazioni sull’ apprendimento, infatti, evidenziano significative differenze di successo scolastico tra alunni italiani e non italofoni, anche se con segnali di miglioramento nelle “seconde generazioni” (Invalsi 2016). I dati MIUR (2017) mostrano come la percentuale di alunni in ritardo e di ripetenti è tra gli studenti non italofoni sistematicamente maggiore di quella dei compagni italiani. A livello nazionale, infatti, gli studenti italiani in ritardo nella frequenza scolastica sono circa il 10,5% contro il 32,9% degli studenti non italofoni; analizzando i singoli ordini scolastici si osserva che: la distanza a sfavore degli studenti stranieri nella percentuale dei ritardatari (cioè degli studenti la cui età anagrafica è maggiore di quella degli studenti regolari in ciascuna classe) è di 11 punti percentuali nella scuola primaria (1,8% contro 13,2%), di 29 punti percentuali nella secondaria di I grado (6,6% contro 35,4%) e di circa 40 punti percentuali nella secondaria di II grado (21,9 % contro 61,3%). Inoltre, nell’iscrizione alla scuola secondaria di II grado, gli studenti non italofoni scelgono prevalentemente percorsi formativi a carattere tecnico-professionale.

Questo fenomeno sta destando sempre più l’interesse della ricerca scientifica e del mondo della scuola, ma, in realtà, ha origini lontane. In passato, in molti Paesi occidentali, le difficoltà che i bambini immigrati incontravano in ambito scolastico erano attribuite a deficit strutturali di natura cognitiva, con la conseguenza di un loro inserimento in classi di “educazione speciale” (Cummins, 1984; 1989). Da allora fortunatamente si è cercato di far luce sulla vera natura di queste difficoltà.

Marie Rose Moro, etnopsichiatra infantile (1998), ha condotto in Francia un’interessante analisi delle difficoltà scolastiche incontrate dagli alunni migranti e figli di immigrati. I risultati mostrano una diffusa condizione di svantaggio fra i bambini figli di immigrati relativamente ai problemi scolastici: rispetto ai bambini autoctoni essi hanno il doppio delle difficoltà di calcolo; una probabilità maggiore di essere bocciati; difficoltà nettamente superiori nel comportamento e adattamento a scuola. A tutto ciò si accompagna una distanza profonda tra scuola e famiglia.

Per quanto concerne il contesto scolastico italiano, uno studio condotto da Folgheraiter e Tressoldi (2003) ha dimostrato che, le variabili più importanti per distinguere i ragazzi non italofoni con e senza difficoltà scolastiche, ma anche per predire il presentarsi di difficoltà, sono il numero di anni di permanenza in Italia e di frequenza della scuola, l’intelligenza non verbale, la lingua usata nella comunicazione con i familiari e l’ampiezza del vocabolario.

Un’altra ricerca (Murineddu et al., 2006) ha preso in considerazione alcune abilità di tipo linguistico, matematico e di memoria visuo-spaziale in bambini non italofoni dalla seconda classe primaria alla terza della secondaria di primo grado. I risultati mostrano che il gruppo degli alunni non italofoni si distingue dal gruppo degli alunni italiani solo per le prove di lettura e quindi per l’aspetto linguistico, in particolare nella lettura di parole. Questo risultato è importante perché mette in discussione l’idea che i bambini stranieri presentino difficoltà cognitive e scolastiche generalizzate. Un’ipotesi parzialmente confermata in tale studio è quella che il livello di apprendimento degli alunni non italofoni sia influenzato dall’esposizione all’italiano. La spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che, indipendentemente dal tempo trascorso in Italia, i ragazzi parlano, almeno in famiglia, la lingua d’origine e ciò non facilita l’acquisizione di una buona padronanza della lingua italiana. A tal proposito appare importante la possibilità di disporre di spazi extrafamiliari ed extrascolastici dove i ragazzi siano esposti all’italiano.

Questi risultati sono stati, in parte, confermati da un altro studio che ha illustrato per la prima volta in modo sistematico le difficoltà di scrittura di ragazzi della scuola secondaria di II grado nati all’estero (Cornoldi et al., 2018). Tale indagine ha interessato 3714 studenti, di cui 3583 italiani e 131 stranieri (tutti gli stranieri sono nati all’estero e in famiglia parlano una lingua diversa dall’italiano); i due gruppi sono stati confrontati su 14 misure di scrittura previste dalla nuova batteria di Prove MT Avanzate-3-Clinica per il biennio della Scuola Secondaria di II grado (Cornoldi, Pra Baldi e Giofrè, 2017). I risultati dimostrano che i ragazzi nati all’estero risultano più deboli in tutti gli aspetti della scrittura, con maggiori difficoltà rispetto ai ragazzi italiani nelle prove di competenza ortografica, in particolar modo nel Dettato di parole, ma anche nel Dettato di brano (soprattutto nella scrittura di doppie e accenti) e nel Dettato di non-parole. I differenti punteggi tra parole e non-parole confermano, sia pur in misura meno accentuata, l’effetto riscontrato da Murineddu e colleghi (2006), ma mostrano che, nel caso della scrittura, il problema è ben presente anche con le non-parole. La differenza tra i due gruppi si riduce nella Produzione del testo, probabilmente perché quando i ragazzi scrivono un testo, scelgono parole che conoscono bene e ritengono di saper scrivere correttamente. Le differenze sono meno evidenti nella qualità dell’espressione scritta e nel grafismo, dove le abilità linguistiche hanno un peso minore. Queste difficoltà riscontrate nei ragazzi nati all’estero, tuttavia, non sembrano imputabili a un problema generale di apprendimento in quanto sono scarsamente presenti in una prova di tipo matematico legata alla sensibilità numerica.

Una possibile spiegazione delle difficoltà emerse in questi studi potrebbe risiedere nel fatto che gli alunni non italofoni utilizzano principalmente la via fonologica, ossia quella che prevede la conversione grafema-fonema, poiché posseggono un lessico italiano ridotto. Ciò potrebbe significare che lo studente non ha ancora acquisito le rappresentazioni lessicali delle parole (ossia la rappresentazione della parola intera), rendendo necessario l’utilizzo della via fonologica anche per le parole. Tali difficoltà hanno inevitabilmente una ricaduta sulla capacità di comprensione del testo con effetti negativi sulle capacità di studio in generale. Infatti, spesso si osserva che, quando non sono presenti difficoltà specifiche o disturbi di altro genere, le difficoltà maggiori per i bambini di origine non italiana consistono nel raggiungimento della terza fase dell’ apprendimento della lingua, ovvero l’ apprendimento dell’italiano per comprendere i testi scolastici delle diverse materie e poterli studiare.

Quali azioni didattiche può mettere in atto la scuola?

La scuola ha l’importante compito di individuare tempestivamente e segnalare quei casi in cui le difficoltà incontrate dal bambino sono tali da non poter essere giustificate da uno svantaggio linguistico. In tutti gli altri casi in cui le difficoltà sono conseguenti all’aspetto linguistico, è importante comprendere come evolve il processo di apprendimento dell’L2, in modo da agire in maniera più funzionale alla buona riuscita scolastica dei bambini non italofoni, ridurre il divario tra il loro successo scolastico e quello dei compagni italiani, e trovare modalità didattiche che facilitino l’accesso ai contenuti disciplinari, potenziando allo stesso tempo la conoscenza dell’italiano e la comprensione profonda della lingua scritta.

L’insegnamento della lingua italiana rappresenta una questione importante e costituisce una misura fondamentale sia per l’ apprendimento delle abilità scolastiche sul versante della buona riuscita sia per l’ apprendimento delle competenze sociali sul versante dell’integrazione sociale.

A tal fine è importante procedere gradualmente da aspetti più semplici, ad esempio esercitando il riconoscimento diretto di parole al fine di arricchire il lessico e migliorare le abilità strumentali, verso aspetti più complessi per favorire la comprensione profonda del testo scritto.

Si sta rivelando molto utile un lavoro mirato sui linguaggi specifici delle singole materie, evitando però di semplificare eccessivamente i testi e le attività didattiche. Infatti, l’uso di testi semplificati risulta molto utile e spesso indispensabile nella fase dell’accoglienza e dell’inserimento, ma successivamente è necessario esporre gli alunni non italofoni a un livello linguistico più complesso, seppur gradualmente e con un costante appoggio dell’insegnante. Il lavoro sulla comprensione del testo dovrebbe avere l’obiettivo di migliorare le aree della comprensione in cui i bambini non italofoni sono in maggiore difficoltà, ovvero la comprensione sintattica e la comprensione di frasi idiomatiche (Dosso, 2008). Parallelamente a questo, per migliorare le competenze linguistiche risulta molto utile per i bambini non italofoni far sperimentare una full immersion linguistica attraverso la creazione di spazi e momenti pomeridiani scolastici ed extrascolastici.

L’integrazione si costruisce, soprattutto, uscendo dall’ottica emergenziale come se il fenomeno migratorio fosse ancora una realtà imprevista e transitoria, e promuovendo una didattica inclusiva che rinforzi la normalità con strumenti e risorse necessarie alla costruzione di una scuola plurale e multiculturale a tutti gli effetti.

Coping familiare: come la famiglia fronteggia gli eventi stressanti

Il coping è uno dei concetti centrali dell’approccio psicologico allo studio dello stress in generale e di quello organizzativo-familiare in particolare. Il termine inglese di coping, “far fronte, fronteggiare”,  fa riferimento all’insieme dei comportamenti e delle strategie cognitive adottate dagli individui in situazioni stressanti.

 

Il termine coping è entrato in uso negli Stati Uniti nella letteratura psicologica degli anni ’40 e ’50. Il concetto di coping familiare può essere meglio compreso, come sostiene Menaghan (1983), attraverso alcune distinzioni: risorse di coping, stili di coping e tendenze comportamentali.

Coping famigliare: le componenti fondamentali

Le risorse familiari comprendono l’immagine che la famiglia ha di se stessa in termini di stima, coesione, atteggiamenti nei confronti della realtà, realismo e fiducia nelle proprie capacità. A questi elementi, Lazarus e Folkman (1985), aggiungono anche l’energia, lo stato di salute, le convinzioni esistenziali, il coinvolgimento nelle cose e anche le risorse materiali.

Nell’ambito degli stili di coping familiare, vengono prese in considerazione soprattutto strategie di tipo cognitivo, per affrontare o risolvere un evento stressante. Tali strategie possono essere considerate come metodologie psicologiche preferite dalla famiglia nel misurarsi con i problemi che quotidianamente affronta. Può considerarsi stile di coping quello di una famiglia che si avvale dell’aiuto delle persone, degli enti che le stanno intorno, per la soluzione di un problema, attraverso la richiesta di collaborazione o di informazioni. Uno stile di coping familiare adeguato, potrebbe essere anche la capacità di fare un’analisi dettagliata dell’evento stressante, raccogliere informazioni, classificare, fare una sintesi e ipotizzare alcuni possibili scenari conseguenti alle varie soluzioni. Anche i comportamenti familiari che tendono ad anticipare il sorgere di un evento, piuttosto che attendere il presentarsi di difficoltà, possono identificarsi come stili di coping familiare.

Quando, invece, si parla di tendenze comportamentali, si fa riferimento a quei comportamenti specifici che la famiglia mette in atto per arginare o per contenere i potenziali effetti negativi di un evento stressante. Gli sforzi comportamentali tendono ad essere specifici rispetto al tipo di attività, per cui esisteranno tendenze comportamentali di coping familiare orientate a eventi singoli, quali svolgere un certo tipo di ruolo, affrontare un esame o far fronte ad una critica negativa in ambito lavorativo.

Il processo di coping famigliare pertanto prende le mosse da una situazione disarmonica, squilibrata o addirittura di minaccia come risultato di un problema che viene a porsi (Favretto 1994).

Coping famigliare e senso di coerenza

Al processo di coping, Antonowsky e Sagy, collegano il concetto di “senso di coerenza” che definiscono come

un orientamento globale che esprime fino a che punto una persona possiede un senso di fiducia pervasivo, duraturo, anche se dinamico (1986, p.214).

Esso consente di comprendere gli stimoli che derivano dagli ambienti esterni ed interni e di organizzare gli eventi in modi strutturati, prevedibili e spiegabili; di gestire gli stimoli, cioè avere a disposizione le risorse per far fronte alle esigenze e richieste poste da questi eventi; infine, di dare significatività all’evento, considerandolo come opportunità e sfida che richiede impegno e coinvolgimento. Dunque, le abilità di coping famigliare o di un individuo di fronte agli eventi stressanti sono, secondo Antonovsky e Sagy (1986), rinforzate da un elevato senso di coerenza.

Coping famigliare e comportamenti

Secondo Cooper (1981), esistono diversi comportamenti di coping familiare (e individuale) per ogni tipo di causa stressogena, che sono suddivisi dall’autore in due categorie:

  • i comportamenti di adattamento, ovvero tutti quei comportamenti che aiutano la famiglia e i singoli individui a diminuire lo stress;
  • i comportamenti disadattivi, ossia quei comportamenti familiari e individuali che in risposta allo stress, non tendono a diminuirlo ma ad aumentarlo.

Ad esempio, se lo stress deriva dall’incompatibilità di compiti lavorativi e familiari, un comportamento adattivo potrebbe essere una vacanza o parlare delle difficoltà incontrate con i colleghi o con i membri della famiglia; viceversa, un comportamento non adattivo, potrebbe essere quello di attribuire esclusivamente le cause del malessere alla famiglia o al lavoro.

Cooper e Marshall (1980), hanno evidenziato determinate strategie di coping familiare riguardo la gestione dello stress. Fra queste, vi sono quelle fisiologiche che consistono in attività fisiche quali jogging, competizioni sportive, attività sessuali, lavori in campagna, tecniche corporee quali rilassamento, yoga. Le strategie psicologiche consistono, invece, nello sviluppo di atteggiamenti positivi verso la vita o nell’adozione di filosofie di pensiero costruttive e positive, nell’ammissione dei propri limiti oggettivi, o nell’uso dell’umorismo e del senso dell’ironia come metodo di gestione dello stress. Tra le strategie psicologiche che le famiglie utilizzano per far fronte agli eventi stressanti, gli autori citano anche il sostegno che può derivare dai principi religiosi, in particolare, nella nostra società, dal cristianesimo.

Un’altra variabile che ha ricevuto una particolare attenzione come strategia di coping, è il sostegno sociale. I sentimenti di amicizia, la vicinanza emotiva, il conforto, il sostegno morale e materiale derivanti dai rapporti con gli altri, sembrano avere effetti benefici sulla salute della famiglia. Riconoscere il sostegno e le risorse che gli altri potrebbero fornirci, potrebbe indurre a rivalutare l’intera situazione come non minacciosa (Cohen, Wills, 1985).

Giornata contro la violenza sulle donne: che nessuna donna sia più lasciata indietro e sola – Comunicato Stampa

Coordinamento nazionale dei docenti della disciplina “diritti umani”

Comunicato stampa

 

Il Coordinamento Nazionale Docenti della Disciplina Diritti Umani in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, che si celebra il 25 novembre, vuole porre la sua attenzione su una tematica dolorosa e, purtroppo, sempre attuale che è quella della violenza sulle donne.

Questa importantissima ricorrenza è stata istituita dall’assemblea dell’Onu nel 1999. La data è stata scelta per ricordare il sacrificio di Patria, Minerva e Maria Teresa, tre sorelle che, a causa della loro militanza politica contro il regime del dittatore dominicano Rafael Leonida Trujillo, furono brutalmente trucidate nel 1960. Le sorelle Mirabal, fervide attiviste politiche della Repubblica Dominicana e sostenitrici del “Movimento 14 giugno”, mentre stavano andando in auto a far visita ai loro mariti (anch’essi incarcerati per la loro militanza politica), furono fermate dalla polizia, condotte in una piantagione di canna da zucchero e, dopo indicibili torture, gettate in un precipizio per simulare un incidente. L’opinione pubblica comprese subito che si trattò di un efferato assassinio. L’eco di tale tragedia si diffuse, però, solo dopo la morte del dittatore. E il sacrificio delle donne fu noto al mondo intero solo nel 1999, quando questa storia intrisa di violenza e di disuguaglianza di genere giunse sul tavolo dell’assemblea dell’Onu.

Anche l’Italia, dal 2005, celebra il ricordo di tutte le donne vittime di violenza. Perché ancora oggi, a distanza di cinquantotto anni dall’assassinio delle sorelle Mirabal, a casa, a scuola, a lavoro, per strada, su internet, una donna su tre (secondo i dati forniti dall’Onu) subisce violenza fisica e psicologica.

L’Assemblea generale Onu, l’Unione Europea e le Nazioni Unite, nel settembre scorso, hanno unito le forze per porre fine al Femminicidio, piaga sociale, soprattutto in America latina. Per questo motivo hanno lanciato l’iniziativa Spotlight, finanziando 50 milioni di euro, per attuare programmi globali volti all’eliminazione di tutte le forme di violenza contro le donne, come la violenza sessuale e di genere, il traffico di esseri umani e lo sfruttamento economico, la violenza domestica e familiare.

I dati forniti dalle Nazioni Unite, relativi al periodo 2005-2016 per 87 paesi, sono decisamente allarmanti: il 19% delle donne tra i 15 e i 49 anni ha dichiarato di aver subito violenze fisiche e/o sessuali da parte di un partner intimo nei 12 mesi precedenti al sondaggio. Ecco quindi che per l’Onu e per ogni paese che il 25 novembre porta avanti la sua battaglia in difesa delle vittime, la Giornata contro la violenza sulle donne è anche un monito per raggiungere un traguardo fondamentale nell’ambito dei Diritti Umani: non lasciare più nessuna donna indietro e sola. E soprattutto, mettere finalmente fine alla violenza, di qualsiasi tipo essa sia.

In Italia sono stati inizialmente i Centri Antiviolenza e le Case delle Donne sparse sul territorio, a celebrare questa giornata. In seguito, si è sviluppato in modo graduale l’interesse anche da parte delle istituzioni locali e nazionali che hanno sostenuto iniziative e progetti per divulgare e diffondere la necessità di essere vicini alle donne che subiscono ogni giorno abusi e violenze di ogni tipo, violenze che sempre più spesso portano a drammatici epiloghi. Anche quest’anno, quindi, il nostro Paese ha organizzato programmi a tema nelle maggiori città italiane.

Il Comune di Milano celebra la Giornata Internazionale con un concerto in piazza che vedrà la partecipazione attiva degli studenti del IV e V anno delle scuole superiori. Ci sarà, inoltre, la posa della celebre panchina rossa con targa celebrativa.

A Torino, presso Spazio Donne, il 23 novembre, ci sarà l’inaugurazione delle “Panchine d’artista” contro la violenza sulle donne.

Un’interessante mostra intitolata Violate e uno spettacolo teatrale, Voci di donne, sono in programma nella città di Firenze, nella giornata del 25 novembre.

La capitale, invece, attraverso la Casa Internazionale della Donna, scende in campo con un concerto dal titolo decisamente evocativo: Orme in rivolte. Il canto sociale e popolare italiano sosterrà con la bellezza e la forza del canto polifonico, la nobilissima e giusta causa in favore delle donne violate.

A Faenza, infine, il Museo Internazionale delle Ceramiche esporrà una selezione di scarpette rosse, realizzate dai ceramisti faentini, per dire NO alla violenza sulle donne.

L’Italia spesso all’arancione, colore simbolo della lotta contro la violenza sulle donne, preferisce il rosso. Infatti, si sta diffondendo sempre più l’usanza di lasciare in tante piazze delle nostre città, scarpette rosse per sensibilizzare l’opinione pubblica. Non a caso, Los Zapatos rojos, lanciato dall’artista messicana Elina Chauvet attraverso la sua installazione, è diventato ormai uno dei modi più immediati e popolari per denunciare i femminicidi.

Il Coordinamento Nazionale Docenti Diritti Umani, non intende rimanere cristallizzato sull’ormai triste e superata formula secondo la quale “La violenza sulle donne è antica come il mondo”, ma al contrario vuole ribadire con tutta la sua forza che in una società avanzata, civile e democratica non debbano trovare posto alcuno i soprusi e i maltrattamenti alle donne. Pe tali ragioni, il CNDDU è sostenitore attivo di tutte le manifestazioni e/o attività volte alla tutela dei diritti femminili, tra questi vanno ricordati, perché si legano molto spesso ai casi di violenza femminile, anche e soprattutto il diritto all’integrità e all’autonomia corporea, di essere liberi dalla paura di violenza sessuale e i diritti riproduttivi.

Il Coordinamento Nazionale Docenti Diritti Umani, rivolge come sempre un appello al mondo della Scuola affinché si faccia portavoce e garante dei diritti calpestati, in questo caso, delle donne che riguardano tutta la società civile. Ai docenti/formatori, punto di riferimento fondamentale dei nostri giovani, chiediamo ancora una volta, di celebrare questa importante Giornata con una piccola attività simbolica che possa accendere negli studenti il desiderio della conoscenza della tematica in questione, e che possa soprattutto favorire e incentivare i valori di uguaglianza di genere.

È doveroso ricordare che tra le donne che hanno subito violenza (sessuale, fisica, psicologica) nel corso della storia, spiccano certamente personaggi di rilievo del panorama artistico, storico e culturale italiano. Basti citare Artemisia Gentileschi, straordinaria pittrice caravaggesca italiana del 1600, la quale non fu solo la prima donna ammessa all’Accademia del Disegno di Firenze, ma fu anche la prima donna/coraggio a denunciare una violenza sessuale, accettando di subire la tortura della Sibilla alle dita (supplizio che avrebbe potuto impedirle per sempre di dipingere) pur di rivelare la deflorazione subita della quale chiedeva giustizia. Quello di Artemisia fu il primo processo storico in Italia per stupro. Processo lunghissimo e doloroso che alla fine condannò il colpevole e terminò secondo i dettami dell’epoca: lo stupro era, purtroppo, un reato contro l’onore, non contro la persona. Proprio Artemisia potrebbe essere la figura femminile giusta per affrontare la tematica a scuola e per raccontare attraverso le sue straordinarie opere, come Giuditta decapita Oloferne e Susanna e i vecchioni, il dramma delle donne che hanno subito violenza. L’obiettivo è la piena consapevolezza che nella nostra storia donne come Artemisia, le sorelle Mirabal, e tutte le donne di ieri e di oggi maltrattate, violate e uccise sono state vittime dell’ignoranza, del pregiudizio, della prepotenza, del silenzio e della solitudine. Tutte queste cose insieme tolgono la dignità e qualche volta la vita. La strada per porre fine alla violenza contro le donne richiederà sforzi più vigorosi, per contrastare una discriminazione bastata sul genere profondamente radicata, spesso derivante da norme sociali correlate.

Il CNDDU, attraverso questo Comunicato, intende consegnare un messaggio positivo, un messaggio di speranza, perché i progetti di promozione e sensibilizzazione dei Diritti femminili, se nascono da un sentire comune, possono realmente portare ad una nuova presa di coscienza della dignità della donna. E questo è un traguardo auspicabile. Perché la storia DEVE insegnare, perché dagli errori si DEVE imparare, perché il mondo DEVE andare avanti e non indietro. Solo in questo modo ci saranno i presupposti per cambiare. Se lo vogliamo veramente, se lo vogliamo tutti insieme.

 

Prof.ssa Rosa Manco
Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani

cancel