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La mente fragile. L’enigma dell’Alzheimer (2018) di Arnaldo Benini – Recensione del libro

Il libro del Prof. Benini, neurochirurgo, spiega con un linguaggio semplice ed una narrazione accattivante, l’enigma della sindrome di Alzheimer e della demenza. Che sia un enigma lo si scopre già dalle prime pagine, allorquando è esposta la probabile origine della malattia, ancora oggi oggetto di ricerca.

 

Per lungo tempo si sono considerati la formazione delle placche di beta – amiloidi fra un neurone e l’altro e il deposito di proteine tau all’interno dei neuroni come la causa dell’Alzheimer. In realtà, queste alterazioni, che sono una conseguenza dell’invecchiamento, si trovano anche nel cervello di anziani che non soffrono di demenza e di sindrome di Alzheimer.

La mente fragile: gli stadi della malattia

La demenza altera nell’individuo “il pensiero astratto, il rapporto con la realtà, la memoria, l’orientamento spaziale, la capacità di giudizio e le funzioni sociali e professionali. Possono essere compromessi linguaggio e vista” [pag. 41]. Negli stadi finali la malattia determina deliri e soprattutto di sera e di notte, degli atroci attacchi di panico.

La demenza e la sindrome di Alzheimer sono inquadrate nel libro con uno sviluppo stadiale, che va dallo stadio 1, caratterizzato dal deterioramento cognitivo, che si riscontra in quasi tutti gli anziani, fino allo stadio 6, contraddistinto dalla demenza e sindrome di Alzheimer grave. Nel corso di questo stadio sopraggiunge la morte o per problemi respiratori o per infezioni delle piaghe da decubito, prodotte dal continuo allettamento.

La mente fragile: sempre più persone anziane che si ammaleranno

Negli ultimi anni la durata della vita si è allungata e, come il Prof. Benini afferma, l’allungamento riguarda la durata della senescenza. Questa dilatazione temporale della vecchiaia crea un numero elevato di pazienti affetti da demenza e Alzheimer. “Attualmente le persone che soffrono di demenza sono cinquanta milioni in tutto il mondo. Diventeranno settantacinque milioni nel 2030 e centoventi milioni nel 2050″ [pag. 47 – 48].

Sembra che ci sia una predisposizione genetica alla demenza e alla sindrome di Alzheimer, che può manifestarsi laddove il ciclo di vita dell’individuo è stato caratterizzato da uno stile di vita poco salutare. Fattori di rischio aspecifici per la demenza e l’Alzheimer possono essere l’ipertensione arteriosa, i disturbi cardiocircolatori, le sindromi metaboliche, l’alcolismo, il tabagismo, un’insufficiente attività fisica, un basso livello culturale.

Dalla demenza e dalla sindrome di Alzheimer non si guarisce. La patologia può essere alleviata dalle misure palliative, che come il prof. Benini spiega “non sono cure, ma aiutano gli ammalati a vivere meglio e a utilizzare il più a lungo possibile le capacità mentali e fisiche residue. Il principio dell’assistenza palliativa è quello di lasciar vivere la persona come il cervello alterato le permette, senza pretendere quello che non può fare o capire e senza ferirne la dignità” [pag. 84].

L’intervento sulla famiglia a rischio: come cambia il cervello del bambino

Molte famiglie vivono in una condizione socio-economica che potrebbe essere definita “a rischio”. Tale condizione non ha solo degli effetti negativi diretti sui figli, che spesso non hanno uguali opportunità rispetto ai coetanei, ma anche indiretti, in quanto incidono sulla qualità delle cure genitoriali.

 

Nella maggior parte di questi casi le cure genitoriali saranno carenti a causa della moltitudine di problemi “più gravi” che catturano l’attenzione dei genitori.

Ad esempio, questi genitori metteranno in atto un minor monitoraggio e controllo delle attività del figlio, rispetto a famiglie che vivono in un contesto più sereno, con una maggiore possibilità d’interazione.

Famiglia a rischio e danni sui bambini: lo studio

Contesti familiari stressanti sono spesso associati a esperienze di vita sfavorevoli per i bambini di quelle famiglie, e a un funzionamento socioemotivo disfunzionale più tardi nella vita. A tal proposito, molte ricerche hanno messo in evidenza che gli interventi focalizzati sulla famiglia assumono un ruolo importante nella prevenzione della psicopatologia, con benefici che si manifestano per un lungo periodo di tempo.

Jamie Hanson, professore di psicologia all’Università di Pittsburgh, insieme ad alcuni collaboratori, ha svolto uno studio allo scopo di verificare se la partecipazione ai programmi focalizzati sulla famiglia può avere un impatto sul cervello dei bambini.

Il campione era costituito da famiglie afroamericane, reclutate da comunità rurali, a basso reddito negli Stati Uniti sud-orientali. Quando i bambini avevano compiuto undici anni, metà delle famiglie è stata invitata, in modo casuale, a partecipare al programma Strong African American Families (SAAF), mentre l’altra metà costituiva il gruppo di controllo, che non ha ricevuto alcun tipo di intervento.

Il programma, ricevuto solo dalla metà del campione, si è concentrato sul rafforzamento delle risorse nei giovani, sul miglioramento del supporto emotivo dei genitori, sull’incoraggiamento della comunicazione genitore-figlio e sull’aiutare i giovani a fissare obiettivi futuri.

Successivamente, quando avevano compiuto 25 anni, i giovani di entrambi i gruppi sono stati sottoposti a imaging cerebrale “a riposo”, allo scopo di indagare l’organizzazione cerebrale.

Famiglie a rischio e intervento precoce: i risultati

Dalle tecniche di neuroimaging, i ricercatori hanno riscontrato che coloro che avevano partecipato all’intervento presentavano connessioni più forti (più interazioni) tra l’ippocampo e la corteccia prefrontale, aree coinvolte nella memoria e nel processo decisionale, rispetto al gruppo di controllo. In più il gruppo sperimentale, che aveva ricevuto l’intervento, presentava con una probabilità minore, problemi comportamentali distruttivi dettati dall’aggressività e dalla rabbia.
A tal proposito, Hanson ha affermato:

Questo intervento, focalizzato sulla famiglia, può essere un modo economicamente efficace per affrontare le disparità sociali e promuovere il benessere dei bambini in situazioni a rischio.

Le esperienze avverse in infanzia sono collegate a burnout e depressione in un campione di infermieri

Il numero di esperienze avverse vissute durante l’infanzia sembra essere collegato in maniera significativa ai livelli di burnout e alla gravità dei sintomi depressivi riscontrati nei giovani infermieri.

 

Presso l’Università del Texas è stato effettuato uno studio nel dipartimento della scuola di infermieristica di El Paso in cui è stato rilevato che gli studenti di infermieristica che durante l’infanzia hanno vissuto con maggiore frequenza esperienze avverse, tra cui abuso, abbandono, trascuratezza, nel presente hanno maggiori livelli di burnout e depressione rispetto ai colleghi che non hanno vissuto tali esperienze o che le hanno vissute in frequenza minore.

La scelta del campione da parte dei ricercatori è stata dettata dal fatto che la letteratura mostra come gli infermieri appartengono ad una categoria professionale altamente soggetta a rischio di burnout (Van Bogaert, Timmermans, Weeks, Van Heusden, Wouters & Franck, 2014).

Come confermato da innumerevoli studi, gli ACE (Adverse Childhood Experience) possono avere effetti negativi e duraturi sulla salute fisica e mentale degli adulti, predisponendo le persone allo sviluppo di una maggiore sensibilità allo stress (Anda, Felitti, Bremner Walker, Whitfield, Perry & Giles, 2006; Dube, Felitti, Dong, Chapman, Giles & Anda, 2003).

Lo studio

Tra gli autori dello studio ritroviamo i docenti della facoltà di infermieristica UTEP Gloria McKee-Lopez, Leslie K. Robbins, Elias Provencio-Vasquez, ex preside della scuola infermieristica e attuale preside della University of Colorado College of Nursing presso l’Anschutz Medical Campus e Hector A. Olvera, direttore della ricerca presso la School of Nursing.

Il campione oggetto della ricerca era composto da 211 studenti iscritti al primo semestre dei corsi di infermieristica del programma BSN (Bachelor of Science in Nursing), ai quali è stato chiesto di compilare una serie di questionari deputati a misurare il numero di ACE, il livello di depressione e il livello di burnout.

Il numero di esperienze avversive infantili riportati dai partecipanti ha mostrato una relazione significativa sui livelli di burnout e sulla gravità dei sintomi depressivi.

Inoltre, le studentesse con un numero più elevato di ACE avevano più probabilità di riportare livelli più elevati di burnout di tipo A (Emotional Exhaustion) e burnout di tipo B (Depersonalizzazione), oltre a punteggi di gravità della depressione più alti rispetto agli studenti di genere maschile.

Conclusioni

Lo studio supporta gli sforzi dei programmi di assistenza infermieristica in tutto il paese per preparare al meglio una nuova generazione di infermieri alle esigenze della professione.

I ricercatori raccomandano di istruire la facoltà infermieristica sulla frequenza e la gamma di ACE sperimentate dagli studenti infermieri in arrivo, che potrebbero metterli a maggior rischio di sviluppare stress, burnout e depressione mentre sono nel programma. Raccomandano inoltre di fornire ai docenti le risorse per fornire informazioni agli studenti sui servizi di consulenza e supporto psicologico.

Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare – Report dal Convegno di Roma, 10 e 11 novembre 2018

Il convegno organizzato presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica dell’Università Sapienza di Roma lo scorso 10 e 11 ottobre ha avuto l’obiettivo di promuovere un confronto tra i diversi professionisti che operano nel settore dell’assistenza ai bambini prematuri e ai loro genitori.

 

Il parto prematuro rappresenta un evento molto critico da affrontare, sia per il bimbo che per la coppia genitoriale e per il contesto familiare allargato.

Il livello di sopravvivenza dei bimbi nati pretermine è aumentato grazie ai progressi in ambito medico, come pure la qualità dell’assistenza prestata ai neonati. Detto questo, il modo in cui una nascita traumatica (che implica il ricovero in terapia intensiva del neonato, il rischio per la sua sopravvivenza e per lo sviluppo futuro) condiziona fortemente l’esperienza genitoriale viene spesso sottovalutato.

Il convegno organizzato presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica dell’Università Sapienza di Roma lo scorso 10 e 11 ottobre ha rappresentato un momento di riflessione su queste tematiche. L’obiettivo dichiarato è quello di promuovere un confronto tra i diversi professionisti che operano nel settore dell’assistenza ai bambini prematuri e ai loro genitori.

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Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report - Imm.3Imm. 1 – Immagine dal Convegno “Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare”

I bambini prematuri e i loro genitori: la prima giornata del convegno

La premessa di fondo si identifica con il fatto che un intervento multidisciplinare, finalizzato a sostenere sia lo sviluppo del bambino che le competenze genitoriali, ha un impatto positivo sulla gestione a breve e lungo termine degli aspetti sociali e sanitari legati alla salute e allo sviluppo del nato pretermine.

I lavori prendono il via con i saluti introduttivi di Renata Tambelli (direttrice del Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica- Sapienza Università di Roma), Massimo Volpe (preside della Facoltà di Medicina e Psicologia- Sapienza Università di Roma), Fabio Lucidi (vice preside della Facoltà di Medicina e Psicologia- Sapienza Università di Roma) e Mirta Mattina (Coordinatrice del gruppo di Lavoro su Salute e Psicologia Perinatale dell’Ordine Psicologi del Lazio).

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Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report Imm5Imm. 2 – Prof.ssa Renata Tambelli

La relazioni della prima parte della mattinata sono incentrate sugli aspetti epidemiologici legati alla nascita prematura. Roberto Bellù (neonatologo presso la TIN dell’Ospedale di Lecco e appartenente all’Italian Neonatal Network) presenta una panoramica dell’epidemiologia e delle cure prestate al neonato pretermine nel contesto italiano; a seguire Serena Donati (responsabile del Reparto Salute della donna e dell’età evolutiva presso il CNPMP -Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la promozione della Salute- dell’’Istituto Superiore di Sanità), parla del progetto pilota di “Sorveglianza della mortalità perinatale”, finalizzato a rilevare la mortalità tardiva in utero e la morte perinatale, individuando i fattori di rischio.

Nella seconda parte della mattinata Chiara Cattaneo (del CNPMP dell’Istituto Superiore di Sanità) prende in esame che tipo di interventi precoci andrebbero attuati nelle TIN, le unità di Terapia Intensiva Neonatale, a sostegno della diade madre-bambino, della coppia genitoriale e del neonato. In modo particolare, si riscontrano nelle madri dei bambini prematuri maggiori livelli -rispetto alle madri di bambini nati a termine- di ansia, stress e depressione, sui quali sarebbe opportuno intervenire.

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Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report - Imm1Imm. 3 – Dott.ssa Chiara Cattaneo

Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report - Imm4Imm. 4 – Dott.ssa Michela Di Trani

Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report Imm.2Imm. 5 – Relatori durante il convegno

La mattinata si conclude con le testimonianze di due associazioni no profit costituite da genitori di bambini pretermine: l’associazione “Nati Prima” di Ferrara e l’associazione “La Cicogna Frettolosa” di Roma. Entrambi gli interventi mettono l’accento su quanto sia importante dare ai genitori supporto a livello emotivo per riuscire ad affrontare la nascita pretermine, la fase di ricovero del neonato e la fase che segue le dimissioni e il termine dell’ospedalizzazione.

I lavori del pomeriggio sono incentrati selle testimonianze delle Terapie Intensive Neonatali; i relatori, psicologi e operatori sanitari provenienti dalla TIN dell’Ospedale di Cesena, dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma e dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma, relazionano le proprie esperienze rispetto alla presa in carico del neonato pretermine e del contesto familiare.

Risulta importantissimo che le TIN siano aperte h24 in modo da consentire ai genitori di vedere il bambino ed essere il più possibile coinvolti nella fase di ricovero e terapia. I genitori vanno aiutati a sviluppare delle competenze genitoriali mirate, valorizzando la relazione precoce con il bimbo, ad esempio con il contatto pelle a pelle.

Il contenimento cutaneo, attraverso interventi come l’accarezzare il bimbo nell’incubatrice e la Marsupioterapia, rappresenta un’esperienza protettiva e stabilizzante sia per il bambino che per i genitori. È, inoltre, importante favorire, nella misura in cui è possibile, l’allattamento esclusivo al seno; il nutrire il bimbo restituisce alla madre competenza rispetto alla cura del proprio figlio, contrastando il vissuto di inadeguatezza che di frequente le madri di bambini prematuri provano.

Vengono proposti anche interventi di lettura ai bimbi, sia per aiutare i genitori a stabilire un legame con i piccoli, che per favorire il contatto dei bimbi con il mondo esterno, attraverso la voce dei loro cari.

I genitori dei bambini prematuri sono portatori di molteplici bisogni perché si trovano, in modo del tutto inaspettato, a vivere una genitorialità molto distante dai modelli idealizzati e da quella che credevano sarebbe stata la nuova realtà di padre e madre a cui si stavano preparando. La coppia ha enorme bisogno di essere sostenuta in questo difficile cammino in cui si rischia di sentirsi isolati nella propria esperienza.

Le relazioni della seconda parte del pomeriggio mettono l’accento su queste tematiche, riportando le testimonianze di professionisti che effettuano interventi di supporto alla genitorialità attraverso progetti come il “Progetto Distacchi Dolorosi alla Nascita”, condotto dall’Associazione “Il Melograno” di Roma.

La seconda giornata del convegno: il follow up dei bambini nati pretermine

I lavori del secondo giorno di convegno si concentrano sul tema delle cure post-ricovero e del follow up e sono affidati alle relazioni di Alessanda Sansavini (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Bologna), Anna Maria Dall’Oglio (Psicologia clinica, Ospedale Bambino Gesù di Roma), Barbara Caravale (Dipartimento Psicologia Sviluppo e Socializzazione, Sapienza Università di Roma) e Fiorella Monti (Università degli Studi di Bologna).

Viene ricordato che il diritto all’assistenza post ricovero e al follow up è menzionato nella Carta dei diritti del Bambino nato prematuro dato che è importante continuare a dare al bambino tutto il supporto di cui necessita per il suo sviluppo anche quando la fase di ricovero si è conclusa.

In sintesi, la promozione del benessere del bimbo pretermine e dei genitori rappresenta un tema su cui molto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare; in modo particolare è importante valorizzare maggiormente la necessità di un adeguato supporto psicologico sia dei genitori che anche degli operatori che lavorano nelle unità di Terapia Intensiva Neonatale. Attualmente, la presenza di psicologi all’interno delle TIN non è prevista in termini di necessità, ma è a discrezione della singola unità di terapia intensiva; si verifica di frequente che il servizio venga attivato grazie ai fondi raccolti dalle associazioni di supporto create dai genitori.

 

Per consultare il programma dell’evento clicca qui 

Regolazione emotiva: la diade madre-bambino tra psicoanalisi e neuroscienze

La capacità dell’individuo di regolare le proprie emozioni è una componente fondamentale per lo sviluppo adattivo ed è una capacità che emerge nella relazione madre-bambino, attraverso gli scambi fisici e preverbali. Influisce sul benessere psicofisico e sulle prestazioni in vari ambiti dello sviluppo.

 

Infatti, un individuo in grado di regolare le proprie emozioni avrà a disposizione più risorse per affrontare le situazioni positive e conflittuali, sarà un individuo capace di comprendere le emozioni proprie e altrui e quindi sarà capace di usufruire del supporto sociale, considerato una forma di regolazione emozionale che consente all’individuo di consolidare i contatti sociali e di conseguenza, di favorire la progressiva formazione di un’identità sociale (Renzetti, Tripicchio, 2010; Bonfiglioli, Ricci Bitti, 2013).

Regolazione emotiva: l’importanza del contatto corporeo tra mamma e bambino

L’importanza del contatto corporeo tra madre e bambino è evidenziata dal ruolo fondamentale che assume sullo sviluppo del sistema nervoso centrale e del sistema endocrino; in particolare la madre è in grado di innescare alti livelli di oppioidi endogeni, responsabili della piacevolezza delle interazioni. A loro volta, gli oppioidi endogeni innescano la produzione del fattore di rilascio di corticotropina nell’ipotalamo del bambino che, controllando la produzione di endorfina e ACTH nell’ipofisi anteriore, stimola la produzione di dopamina. La cascata biochimica che si attiva nelle interazioni tra madre e bambino favorisce la nascita di nuovi neuroni, la sintesi proteica e quindi mediante la disponibilità emotiva dei caregivers, viene attivata la crescita del cervello e favorita la formazione di un tono vagale positivo che, a sua volta, conferisce la forza dell’Io e la salute fisica (Cozolino, 2008).

Le esperienze corporee sono quindi il veicolo primario per le relazioni con gli altri; infatti, il più arcaico senso del Sé è tessuto, in cui il contatto corporeo permette i processi di separazione tra il “me” e il “non-me”, oltre ai processi di sviluppo neurobiologico. La pelle, sostiene la Bick (1968), è l’oggetto primario di contenimento ed è percepita dal bambino come un confine, come qualcosa che tiene insieme le parti della personalità, ancora non differenziate dalle parti del corpo. La funzione contenitiva della pelle si sviluppa però grazie all’esperienza di una relazione di accudimento adeguata che, permette di introiettare la funzione contenitiva materna. Anzieu (1985) prosegue gli studi della Bick e sottolinea come l’Io sia principalmente strutturato come un Io-pelle che si presenta come una rappresentazione mentale; l’Io del bambino lo usa per rappresentare se stesso come un Io che contiene i contenuti psichici, partendo dalle esperienze che compie attraverso la superficie corporea. In particolare, sostiene che il bambino acquisisce la percezione di una superficie corporea attraverso il contatto con la pelle della madre, mentre questa lo accudisce. L’Io-pelle ha quindi origine dalla pelle condivisa tra madre e bambino, quella che Anzieu definisce “pelle comune” (Lemma, 2011).

Regolazione emotiva: il modello neuropsicobiologico di Schore

Allan Schore ha sottolineato l’importanza della diade madre-bambino, nel determinare la formazione di una funzione fondamentale per lo sviluppo emotivo del bambino, ovvero la regolazione emotiva (Ardito, Adenzato, 2012).

La regolazione emotiva fa riferimento ai processi cognitivi e comportamentali che influenzano il verificarsi, l’intensità, la durata e l’espressione delle emozioni e si definisce come la capacità individuale di regolare le proprie emozioni, negative e positive, attenuandole, intensificandole o mantenendole semplicemente. È un costrutto multidimensionale caratterizzato dalla consapevolezza, comprensione e accettazione delle emozioni; dalla capacità di impegnarsi in comportamenti diretti verso l’obiettivo in risposta alle emozioni; dalla capacità di modulare l’intensità e/o durata della risposta emotiva e dalla disponibilità a sperimentare emozioni negative. Carenze o deficit in queste capacità sono correlate positivamente con la psicopatologia e negativamente con il benessere individuale e il funzionamento interpersonale (Infantino, 2012).

Beebe e Lachmann (2002) ritengono che la diade madre-bambino sia caratterizzata da due tipi di processi di regolazione che si influenzano reciprocamente, ovvero la regolazione interattiva, in cui i comportamenti di un partner sono influenzati da quelli dell’altro, e l’autoregolazione cioè la capacità di ogni individuo di auto-organizzarsi grazie al controllo del livello di attivazione ed espressività emozionale. Sin dai primi mesi di vita infatti il bambino, grazie ai neuroni specchio e alle capacità materne affrontate nel paragrafo precedente, entra in connessione con la madre di modo che attraverso una co-regolazione, gli stati fisiologici e le emozioni possano essere regolati ed elaborati, passando poi ad una regolazione autonoma (Renzetti, Tripicchio, 2010). Quindi le differenze individuali nei processi regolatori sono il risultato, nei primi tre anni di vita, dell’effetto combinato delle strategie di accudimento dei genitori e delle componenti biologiche e temperamentali dell’autoregolazione; l’apprendimento, all’interno della diade, delle prime strategie di regolazione, pone le basi per lo sviluppo futuro di capacità complesse come l’empatia e la lettura della mente dell’altro (Renzetti, Tripicchio, 2010).

Il modello psiconeurobiologico di Schore ha rilevato un chiaro legame tra attaccamento sicuro, sviluppo efficace delle funzioni regolatorie del cervello destro e salute mentale del bambino (Benvenuti, 2007). Ha sottolineato, in particolare, il ruolo centrale nella regolazione emotiva del sistema limbico dell’emisfero destro in quanto tale sistema è implicato nell’integrazione delle informazioni proveniente dall’ambiente sociale esterno con quelle corporee ed è formato inoltre da numerose strutture cerebrali tra cui la corteccia orbitofrontale. Quest’ultima riceve informazioni da tutto il corpo e svolge il ruolo di centro di controllo del sistema nervoso centrale sui sistemi simpatico e parasimpatico. Lo sviluppo della corteccia orbitofrontale è influenzata sia da fattori genetici che ambientali ed in particolare un attaccamento sicuro con il caregiver è la base per uno sviluppo adeguato di tali strutture che si occupano della regolazione emotiva (Ardito, Adenzato, 2012).

Regolazione emotiva, vergogna e invalidazione

L’acquisizione della capacità di regolare le emozioni dipende inoltre dal raggiungimento di due importanti traguardi. Il primo, la capacità di mantenere stati di attivazione positiva, è raggiunto attraverso le esperienze di sintonizzazione emotiva con il caregiver, possibili grazie al fatto che l’emisfero destro del bambino viene psicobiologicamente sintonizzato all’output dell’emisfero destro della madre, regolandone le emozioni. Per il raggiungimento del secondo traguardo, la capacità di modulare e recuperare stati di attivazione negativa, è fondamentale il ruolo del genitore di “agente socializzante” ovvero la capacità di proibire i comportamenti del bambino per permettergli lo sviluppo della socializzazione ma ciò comporta l’emergere del vissuto della vergogna. Questa è vissuta dal bambino come un momento di non sintonizzazione con il genitore ma la vergona e i momenti di rottura seguiti da riparazione, consentono al bambino di imparare a regolare gli affetti negativi (Benvenuti, 2007).

Oltre agli scambi tattili e alla funzione del rispecchiamento, anche la voce materna assume un ruolo importante nella regolazione emotiva e nello sviluppo psicofisico del bambino che è capace, fin dall’inizio, di processare la qualità delle componenti linguistiche. In particolare, il linguaggio materno, definito “motherese”, è in grado di attivare il flusso nella zona orbitofrontale destra del cervello, collegata allo sviluppo dell’intelligenza emotiva, tanto che le madri depresse, non essendo in grado di usare il motherese, espongono i figli ad un più alto rischio di sviluppare la depressione o altri problemi di sviluppo. L’intonazione della voce materna assume, come gli scambi fisici, una funzione contenitiva, infatti Stern (1998) sostiene che il monologo che la madre compie con il proprio bambino, permette di costruire un forte legame affettivo e con la sua lentezza consente al bambino di elaborarlo e farlo proprio. Risulta chiaro quindi che non sono fondamentali i contenuti ma il modo con cui vengono espressi. La voce materna, oltre a contribuire alla formazione della relazione e a svolgere la funzione contenitiva, permette anche la regolazione emotiva; infatti Stern (1998) sottolinea l’importante funzione dei “profili di intonazione” del linguaggio materno che permettono di regolare il grado di attivazione e il tono affettivo del bambino (Causa, Moschetti, Volta, Luchino, Brunelli, Manetti, 2007).

Il corpo diventa quindi il terreno su cui possono emergere problematiche nella relazione e conseguentemente nella regolazione emotiva e nelle capacità che permettono di costruire il benessere individuale e, allo stesso tempo, si propone come mezzo di espressione di tali dinamiche patologiche. Numerose ricerche, in ambito clinico, hanno messo in relazione la disregolazione emotiva con diverse forme di psicopatologia nei bambini. Infatti, una eccessiva inibizione nella regolazione delle emozioni è correlata a problemi di internalizzazione, connessi ad ansia, depressione, vergogna, bassa autostima, paura e tristezza mentre una scarsa regolazione delle emozioni è risultata essere associata a problemi esternalizzanti (Renzetti, Tripicchio, 2010).

Comunicazione assertiva. Come farsi rispettare in ogni occasione senza prevaricare (2016) di Alessandro Ferrari – Recensione del libro

Comunicazione assertiva di A. Ferrari è un manuale che raccoglie l’esperienza dell’autore come manager e formatore in diverse multinazionali che, nel corso degli anni, gli hanno permesso di sviluppare le sue abilità nella gestione delle risorse umane e delle pubbliche relazioni.

 

Un no pronunciato con convinzione è molto migliore di un sì pronunciato unicamente per compiacere o, ancora peggio, per evitare problemi. (Mahatma Ghandi)

 

Alessandro Ferrari è un manager italiano che grazie alle sue capacità comunicative ha avuto successo come formatore, scrivendo ebook, organizzando corsi sui diversi tipi di comunicazione e girando l’Italia con il suo roadshow in cui spiega il suo metodo. Ha formato il personale di numerose aziende, sviluppando un’esperienza trentennale sul tema della comunicazione efficace e la leadership.

Comunicazione assertiva: struttura del libro

L’opera, divisa in capitoli, parte dall’approfondimento del concetto di assertività e dell’importanza di sviluppare questa abilità per vivere meglio con se stessi, per raggiungere i propri obiettivi e comunicarli efficacemente agli altri. Si passa poi all’analisi di strategie relazionali come quella passiva e aggressiva, mettendone in luce i limiti e gli svantaggi.

Diversi capitoli sono dedicati al modo migliore di valorizzare se stessi e focalizzarsi sul pensiero positivo per migliorare la propria autostima e sicurezza nel rapporto con se stessi e gli altri e per raggiungere il successo desiderato.

Nella seconda parte del libro si passa al vedere come l’ assertività venga declinata nel mondo del lavoro con i propri pari e superiori, per imparare a farsi valere e a gestire i rapporti al meglio. Il ruolo dell’ assertività viene evidenziato soprattutto quando si devono affrontare conflitti ed è necessario mettere in atto delle negoziazioni.

Gli ultimi capitoli, infine, affrontano l’importanza dell’essere assertivi quando ci si trova a parlare in pubblico e quando si vive un rapporto di coppia. Comunicazione assertiva si conclude con un capitolo contenente un test preparato da Ferrari per scoprire se il proprio stile è più passivo, più aggressivo o assertivo.

Comunicazione assertiva: a chi è adatto

Il manuale Comunicazione assertiva di Alessandro Ferrari è un testo di tipo divulgativo, nel quale oltre alle considerazioni personali dell’autore, è raccolto un mix di tecniche e di teorie che prendono spunto dai principali orientamenti psicologici e che vengono trattate in maniera semplice e di facile comprensione per il lettore. Presenta, inoltre, le più famose tecniche utilizzate nelle strategie di marketing e quelle impiegate nel settore delle vendite. È scritto con un linguaggio facilmente comprensibile e ogni concetto è ripreso più volte, in modo da essere velocemente memorizzato.

L’opera che, evidentemente, non ha velleità di costituirsi come un testo scientifico, contiene una serie di consigli ed esortazioni utili per chi si avvicina per la prima volta al concetto di assertività. Chi non conosce ancora questa abilità può imparare, infatti, a comprendere cosa sia e farsene un’idea di base. Comunicazione assertiva potrebbe essere anche un utile sostegno per le persone che stanno seguendo già un training sull’ assertività con un professionista specificamente formato.

Neurobiologia dell’aggressività sociale

Il comportamento sociale può essere modulato da meccanismi neuronali, così affermano alcuni ricercatori della Duke-NUS Medical School. Tale scoperta può avere un notevole impatto sulla società visto il forte incremento di episodi di bullismo e aggressioni, principalmente tra i più giovani.

Adriano Mauro Ellena

 

E’ risaputo ormai da tempo quanto l’essere umano sia un animale estremamente sociale, le cui interazioni sono fortemente regolate da gerarchie sociali. D’altro canto, il non rispetto di queste gerarchie può essere estremamente dannoso.

Quello a cui ha portato la ricerca condotta dalla Duke-NUS Medical School è sorprendente, ovvero la scoperta di un particolare meccanismo neuronale che regola e modula la “dominanza sociale“ all’interno di un gruppo di topi.

Nello specifico è stato scoperto che una proteina avente funzione di fattore di crescita, la BDNF (Brain-derived neurotrophic factor) e il suo rispettivo recettore TrkB (Tropomyosin receptor kinase B) modulano la dominanza sociale nei topi.

Neurobiologia dell’aggressività sociale: l’esperimento

L’esperimento è stato condotto nel seguente modo: sono stati generati topi transgenici nei quali è stato rimosso il recettore TrkB negli interneuroni GABAergici presenti nell’area cerebrale adibita alla regolazione emotiva ed al comportamento sociale (Sistema Corticolimbico). I topi transgenici sono stati successivamente collocati in uno spazio insieme a topi non-transgenici. L’esito è stato sorprendente. I primi hanno iniziato a manifestare comportamenti particolarmente aggressivi rispetto ai topi non-transgenici.

Una volta evidenziato ciò, i ricercatori non si sono limitati però a segnalare l’aumento del comportamento aggressivo, ma hanno voluto approfondire la questione per cercare di comprendere tali comportamenti aggressivi.

Neurobiologia dell’aggressività sociale: i risultati

I ricercatori hanno dunque eseguito dei test comportamentali per meglio comprenderne l’origine. Anche in questo caso le scoperte si sono rivelate molto interessanti:

  • L’aggressività non era finalizzata a proteggere il territorio;
  • L’aggressività non era dovuta ad una maggior forza fisica dei topi transgenici;
  • I topi transgenici presentavano maggiori ferite rispetto agli altri topi;
  • L’aggressività era il risultato di un incremento della lotta per lo status e la dominanza sugli altri topi all’interno del gruppo.

I ricercatori, a seguito di ciò, hanno ipotizzato che la perdita del recettore BDNF-TrkB abbia portato ad un indebolimento dei segnali inibitori da parte degli interneuroni GABAergici alle circostanti cellule eccitatorie, che si sono iperattivate. Infatti, una volta inibite le cellule eccitatorie, e ripristinato il bilancio “eccitazione-inibizione”, il comportamento aggressivo dei topi transgenici è cessato immediatamente.

Questo studio dimostrerebbe come nel comportamento sociale anche la genetica e la biologia abbiano un importantissimo ruolo.

Patrick Melrose (2018): c’è vita oltre il sarcasmo

Ultima e incredibile interpretazione di Benedict Cumberbatch, Patrick Melrose (2018) è una miniserie britannica di 5 episodi, ispirata dal ciclo di racconti dello scrittore Edward St Aubyn, I Melrose.

 

Lo scenario dipinto è quello di una ricca famiglia inglese, rappresentante perfetta di una borghesia compita, elegante e dedita all’educazione umana e culturale dei figli, ma disturbata e segretamente tollerante verso gli abusi di un padre violento, le mancanze di una madre alcolista e depressa, le derisioni di un entourage affascinato dal potere, colluso con i carnefici e dedito al sarcasmo. Protagonista è Patrick, unico figlio ed erede diseredato, vittima delle torture psicologiche e della trascuratezza affettiva dei suoi genitori.

La doppia vita della famiglia Melrose, tra l’intellettuale messa in scena e il teatro orribile delle quinte domestiche, genera una costante emozione di sconcerto, incredulità, disgusto. Il muro della negazione è spiazzante, sminuisce ogni normale e umana reazione emotiva, ed è lo stesso muro che lascia sfumare la speranza e la fiducia nel mondo di Patrick, il bambino che in quello scenario deve lottare per la sua sopravvivenza. La morte del padre apre il racconto e lancia Patrick Melrose in un turbine di ricordi, emozioni e fantasmi che da solo non riesce ad affrontare.

Patrick Melrose: una preziosa sintesi umana e clinica di come il trauma irrompe nella vita

La traiettoria evolutiva di Patrick Melrose è una preziosa sintesi – umana e clinica – di come il trauma irrompe nella vita e nella mente di un bambino, cambiandone la storia e le opportunità di crescita in modo significativo. L’alternanza narrativa tra presente e passato costituisce un breve compendio di psicotraumatologia che tutti i clinici impegnati in questo campo dovrebbero conoscere e tenere ben in mente nel lavoro clinico quotidiano, poiché ogni elemento patologico del presente rivela una sua precisa ragione d’essere che solo alla fine – e solo resistendo all’umana repulsione per quello che si vede – può essere compresa.

Il presente del Patrick adulto è interpretato maestralmente da Benedict Cumberbatch, la sua mente è colonizzata da orribili flash back, allucinazioni, droghe, relazioni instabili, estrema frammentazione dell’identità e del senso del sé; il racconto del passato è affidato invece al giovanissimo Sebastian Maltz, che con il suo aspetto esile e inerme riesce a trasmettere la vita di bambino traumatizzato, vissuta in punta di piedi, nascosto negli angoli della casa, nell’impotenza dei silenzi, nella paura e nell’impossibilità di decifrare la realtà della sua famiglia.

Per ogni clinico esperto di trauma, tutta la sofferenza del Patrick adulto ha una chiara definizione diagnostica: Disturbo Post traumatico Cronico o Trauma complesso, con sintomi dissociativi. Per chiunque guardi il film è evidente come la sua sofferenza venga dal passato doloroso e dai traumi dell’infanzia, così come risulta chiaro che le sue uniche strategie di sopravvivenza siano state cucite negli anni sui modelli disfunzionali della sua infanzia, sua madre e suo padre: alcol, droghe, seduzione, disprezzo, prevaricazione, sarcasmo.

La complessità degli effetti del trauma sulla mente, già ampiamente discussi in precedenti contributi sul tema del trauma complesso e della dissociazione, è tuttavia solo una parte della storia. Quello che la storia racconta e denuncia con forza è tutto quello che ruota intorno al trauma e che ne impedisce una risoluzione, alla fine forse più semplice di quello che si pensi: riconoscere il vissuto di Patrick, offrirgli protezione, comprendere il suo dolore e permettergli di cambiare e diventare un adulto resiliente e forte, capace di essere un padre migliore del suo e di andare oltre le ferite del passato.

Nulla è possibile finché la barriera della negazione ostacola questo cambiamento. Tutto diventa possibile quando a Patrick è offerta una possibilità sicura di mettersi in salvo.

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https://www.youtube.com/watch?v=JQh36eStMqk

Cosa ci insegna la storia di Patrick Melrose

La storia di Patrick Melrose non è dunque solo il racconto del suo malessere, ma è il racconto dei meccanismi più subdoli e inaccettabili della violenza domestica intrafamiliare, in cui il comportamento violento è solo la superfice di molte mancanze e inadeguatezze che ne facilitano la messa in atto da parte dei carnefici.

La segretezza è la prima: negare gli eventi, restare in silenzio, chiedere ai bambini abusati di mantenere la segretezza per avere salva la vita è la garanzia dei perpetratori per continuare ad esercitare il loro potere. Da adulti appare facile urlare, scappare via, chiedere aiuto, ma da piccoli la minaccia di un adulto stralcia ogni istinto di difesa. In ogni famiglia violenta il riconoscimento di quello che accade è l’unica via per interrompere la violenza, ma allo stesso tempo è l’elemento più grave di minaccia per la vita di tutti. Chiedere ad un bambino se è in pericolo potrebbe non ricevere la risposta utile a proteggerlo, osservarne invece i comportamenti incerti, lo sguardo spaventato, le abitudini bizzarre o la tendenza ad isolarsi può offrire le risposte che gli adulti hanno la responsabilità di accertare per comprendere cosa succede davvero nella sua famiglia.

La mancanza di protezione, e la conseguente collusione con il carnefice, è il secondo ostacolo all’interruzione della violenza. Eleanor, madre di Patrick – interpretata da una bravissima Jennifer Jason Leigh – non è abusante e risulta anzi spesso sensibile e consapevole della gravità della situazione, ma tuttavia l’alcol e la depressione la rendono cieca verso quello che accade e incapace di sintonizzarsi sui bisogni di Patrick, di difenderlo e men che mai di riconoscere i suoi segnali di stress. Il malessere della madre alimenta il senso di isolamento e abbandono, che lasciano in Patrick i segni di una profonda trascuratezza emotiva.

Questo elemento, spesso messo in secondo piano rispetto alla violenza attiva, crea in realtà il terreno più fertile per i carnefici: un bambino non protetto dagli adulti che ha intorno, è un bambino più vulnerabile e più incline a non chiedere aiuto in caso di bisogno. La responsabilità della non-protezione è cruciale, poiché toglie la speranza di essere ascoltati dall’unica fonte di sicurezza disponibile e questo distrugge la fiducia verso gli altri nel presente, così come nel futuro.

I segnali di malessere degli adulti, uomini o donne che siano, vittime di violenza domestica vanno colti e ascoltati, per aiutare tutte le vittime a restare adulti capaci di proteggere se stessi, i loro figli e di interrompere il circolo vizioso della violenza.

Nell’entourage della famiglia Melrose, gli adulti che osservano immobili vedono il malessere di Eleonor, ma tendono a colpevolizzarla, a giudicarla, a deriderla o ad osservarla con compassione, sposando una visione cupa e cinica della vita, che alla fine non aiuta nessuno. Il loro intervento non è di stimolo per Eleanor ad uscire allo scoperto e denunciare, ma certamente offre silenzioso sostegno al carnefice che acquisisce forza da chi non prende posizione contro di lui.

La confusione e l’incoerenza del contesto di vita di Patrick Melrose sono infine una trappola decisiva alla consapevolezza di quello che stava accadendo. Un contesto privilegiato, ma emotivamente trascurante. Genitori controllati e formali, ma che possono esplodere nel più imprevedibile e spaventoso dei modi. L’estrema attenzione all’etiquette, ma discorsi volgari, sessisti e umilianti di ogni genere. Per un bambino la realtà rappresentata dagli adulti che ha intorno, è semplicemente l’unica realtà conosciuta e l’unica attraverso la quale può valutare il mondo. Nessun bambino sa cosa è giusto e sbagliato, ma certamente può sentirsi minacciato.

Cosa succede nella mente di un bambino quando si sente in pericolo, ma gli adulti intorno non sembrano preoccupati per lui o peggio ridicolizzano la sua paura? Patrick ha molte emozioni negative e chiarissime sensazioni sgradevoli che vengono dal rapporto con i suoi genitori, ma non sa decifrarne l’origine poiché nessun adulto intorno a lui attribuisce a quegli eventi violenti e spaventosi un significato corretto e univoco. Al contrario il sarcasmo copre di ridicolo una richiesta di aiuto, getta nebbia sulla gravità di una violenza, minimizza i pericoli reali, propone paradossi esistenziali in cambio di spiegazioni e soprattutto: il sarcasmo non è comprensibile a nessun bambino. La soluzione possibile a questa confusione è solo una: “Se per gli altri è tutto normale, allora il problema sono io”. Colpa e vergogna vanno a rafforzare il muro della negazione, stavolta però il muro costruito è dentro la mente di Patrick e dentro ogni bambino vittima di violenza intra-familiare che “sceglie” di non chiedere aiuto e denunciare i suoi aguzzini.

In conclusione

La storia di Patrick Melrose è cruda e dura da ascoltare, ma la denuncia ad una società borghese, distratta e incapace di cogliere bisogni semplici come quelli di un bambino merita di essere ascoltata e trasmette un messaggio di forza: la mente umana ha in sé la resilienza adeguata a rispondere e adattarsi a situazioni sfavorevoli ed estreme, anche a fronte di un’infanzia molto difficile, ma uscire dall’isolamento emotivo che il trauma genera in chi lo ha vissuto è possibile solo se il mondo fuori è disposto a scegliere di non voltare lo sguardo e a non giudicare.

“Le idee sono fatte per essere cambiate.”

Paura, odio e razzismo: perchè fioriscono oggi?

Si cerca all’esterno, negli immigrati, nei migranti, negli omosessuali, nei buonisti, negli intellettuali e negli scrittori sotto scorta, la causa del proprio malcontento. In realtà la causa è dentro: le emozioni negative interne non riconosciute, come paura, tristezza e umiliazione, vengono trasformate in odio e rabbia, queste sono emozioni secondarie che ci fanno sentire forti.

 

Si suggerisce l’ascolto di Benzin dei Rammstein durante la lettura.

Paura, odio e razzismo centrali nella vita di ognuno di noi

Abbiamo tutti paura, tanta paura, viviamo in un mondo non sicuro, tutto è incerto, camminiamo sulle uova, il pericolo può arrivare da ogni parte, dallo sconosciuto tatuato, palestrato e rasato che ci cammina di fronte, dal vicino di casa, dall’immigrato che ci pulisce il vetro, dal fidanzato geloso, da chi guarda troppo o fa un complimento alla nostra donna, dal capo quando ci rimprovera, da chi non la pensa e intende il mondo come noi. Ma è veramente così? Viviamo per davvero in una favela occidentale? O è forse una rappresentazione un po’ esagerata della realtà? Una nostra percezione alterata? E se fosse così, come mai accede ciò? Chiaro che i governanti attuali giocano proprio su questo, per acquisire consensi vanno proprio a riattivare queste paure recondite. Piuttosto di parlare di sviluppo, progetti per il futuro, programmi di governo, risolvere problemi che attanagliano la nazione da decenni, ripetono invece le stesse cose risvegliando paure più antiche, più profonde. E’ tutto studiato, si toccano i giusti tasti emotivi, si toccano sempre i medesimi argomenti, quelli che vanno a ridestare angosce remote, paure che le persone provano da sempre o che non provavano più da decenni. Il popolo si sente realmente in pericolo, minacciato, vulnerabile, indifeso, e allora crede, si fida e si affida a personaggi controversi. Come mai succede questo? Proviamo a ipotizzarlo.

Paura, odio e razzismo: quando il corpo accusa il colpo

Quando il corpo accusa il colpo, il passato sembra presente, la mente crede che sia tutto vero. Aver subito maltrattamenti, essere stati umiliati, non essere stati riconosciuti nel proprio valore o nella propria identità (volevo fare il boy-scout ma mio padre ha voluto che facessi calcio e mia madre pianoforte, oppure, mi sgridavano o prendevano in giro se giocavo con le bambole), non essere stati abbastanza amati, soprattutto nella prima infanzia e nell’adolescenza, ancora peggio, aver subito violenza fisica, sessuale o psicologica per anni, proprio dalle persone che invece dovevano essere punti di riferimento sani (genitori, parenti, preti, maestre di scuola o professori delle superiori, amici di quartiere, allenatori o altri insegnati, ecc.), sono esperienze che lasciano tracce indelebili nelle memorie emotive e somatiche delle persone.

Le memorie implicite, quelle non ricordate ma presenti, guidano già nei primi dodici mesi di vita i comportamenti del bambino, sulla base della sicurezza-insicurezza percepita e dall’organizzazione-disorganizzazione delle cure parentali ricevute (Liotti, Monticelli, Fassone, 2017). Le emozioni negative provate all’epoca e tenute dentro per anni si esprimono con svariati disagi mentali tramite tante forme di somatizzazioni corporee che durano da decenni (Van Der Kolk, 2014). Le massicce emozioni negative sperimentate nel passato e mai affrontate, non elaborate, spesso si dice “rimosse”, stanno ancora tutte lì. Si possono presentare come stati di insicurezza perdurante (anche piccoli disturbi fisici), paura, confusione, malesseri psicologici di vario tipo, difficoltà enormi a fidarsi dell’altro o a vedere molti come potenzialmente minacciosi. La conseguenza è il bisogno urgente di aggrapparsi a qualcosa o a qualcuno per placare l’ansia, l’angoscia e la paura. Ci sentiamo come se fossimo in un deserto e bevessimo da una pozza d’acqua pur sapendo che può essere velenosa. Si è settati costantemente su un sistema di difesa da qualsiasi potenziale minaccia. (Liotti, Monticelli, 2014). Questo fa sì che si cerchi costantemente di vivere in sicurezza, di non subire offese o minacce, di percepirsi forti e di valore sempre e in ogni frangente, ogni insuccesso è un fallimento, una battuta diventa un’offesa imperdonabile. Mai ci si può scorgere vulnerabili, in pericolo o giudicati. Viviamo in assenza di consapevolezza, siamo così abituati a difenderci e a contrattaccare, come facevamo da bambini, che non ci rendiamo conto che l’altro scherza, che non è malevolo, non ci sta offendendo, non ci può rubare il lavoro, non è un nemico ma uno che semplicemente porta avanti la sua vita per i fatti suoi.

Paura, odio e razzismo. Ovvero progresso senza sviluppo, dentro e fuori del Sè.

I tempi di oggi, con la loro vacuità, sono orientati impetuosamente all’immagine, al potere, al possedere, all’apparire. Non si deve essere mai inferiori a nessuno, si ha la pretesa rabbiosa di ottenere soldi e successo o senza impegnarsi o non avendo talenti (oggi si ricevono più complimenti per un tatuaggio che per un risultato artistico o scientifico). Si progredisce troppo rapidamente e sempre di più, ma senza sviluppo, diceva Pasolini. E’ una corsa verso il nulla nel tentativo di riempire vuoti identitari. L’epoca frammentata di oggi è il terreno fertile ideale per alimentare e consolidare la paura di essere in pericolo o in condizioni precarie (emozioni tipiche correlate sono: ansia, panico, incertezza, insicurezza, rassegnazione, rabbia, odio) e la paura di non essere nessuno (emozioni correlate: vergogna, umiliazione, senso di inferiorità, perdita di autostima, rabbia eccessiva ingiustificata, invidia, odio, disprezzo). Si cerca all’esterno, negli immigrati, nei migranti, nei vaccinisti, nei comunisti, negli omosessuali, nei buonisti, nei piddini, negli intellettuali e negli scrittori sotto scorta, la causa del proprio malcontento. In realtà la causa è dentro, è un malessere interiore, primitivo, spesso ricevuto in eredità dai genitori, dai nonni o da chiunque abbia avuto qualche tipo di influenza nella propria vita. Le emozioni negative interne non riconosciute, come paura, tristezza e umiliazione, vengono trasformate in odio e rabbia, queste sono emozioni secondarie che ci fanno sentire forti. Quelle primarie tuttavia, spingono dal sottofondo perché sono lì da sempre. Il fatto che possa essere qualcosa che viene dai recessi della propria psiche, dai propri schemi individuali e familiari è inimmaginabile, viene tutto “proiettato” all’esterno. Gli altri sono visti come minacciosi, umilianti, pericolosi e quindi da odiare, distruggere, annientare, ridicolizzare, bisogna terrorizzarli prima che ti spaventino loro, cosa che da bambini non si riusciva o poteva fare.

E allora via a comprare pistole ad aria, coltelli e cani da combattimento, a picchiare, a minacciare, a fare i leoni da tastiera, a seminare odio, a modificare le mazze da baseball. Difficile pensare che non ci siano pericoli reali, o che sono molto esigui rispetto a ciò che si percepisce. Il pericolo è nella testa, nella rappresentazione negativa che si ha di questi “altri”, i quali diventano non una minaccia reale, ma una minaccia all’immagine di Sé: ho bisogno di sicurezza e benessere, percepisco e mi aspetto che gli altri siano minacciosi o che le risorse siano limitate, come mi è capitato spesso, mi vedo debole, impotente e provo ansia, divento allora rabbioso e metto in atto tutta una serie di comportamenti di sicurezza e di contrattacco (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Tradotto: questi tempi ambigui non mi fanno sentire al sicuro, ci sono precarietà, disoccupazione, scarsità di risorse e di valori (ma anche poco senso del sacrificio nel perseguire i propri obiettivi), qualcuno dall’alto mi convince che la colpa sia tutta dei migranti, dell’Europa o dei sinistroidi, provo ansia, paura e mi vedo minacciato, mi percepisco impotente, la paura diventa odio rabbioso e credo a tutto ciò che viene dai nostri politicanti non laureati e dalle fake news.

Credere a tutto questo mi dà un senso immediato di sicurezza, ma mi fa anche provare anche rabbia e indignazione; queste emozioni reattive mi danno forza, non mi fanno più sentire debole ma capace in qualche modo di poter reagire e fronteggiare il pericolo, con l’attacco, l’odio e il razzismo. Mi fanno anche sentire meno solo, perché ci sono milioni di “indignati” come me. Avviene tutto in un secondo, ma solo nella nostra testa e nel nostro corpo. Il Sé si percepisce vulnerabile, inferiore, in pericolo, debole, come se non potesse accedere ai frutti profumati e maturi offerti dal mondo e dalla vita, tutto per colpa dei migranti, degli abortisti, degli omosessuali e dei comunisti. Tuttavia la questione non è così semplice e riduttiva, c’è anche altro. Gestire la percezione di non valere, di non essere nessuno, avere a che fare con la paura, l’ansia, l’angoscia di un futuro incerto, che si regge su un passato individuale inconsistente e su un presente sociale che non esiste, diventa cosa impossibile da fare soli. Timonare l’incertezza, l’insicurezza personale, lavorativa, sociale, non è cosa semplice. C’è bisogno dell’Altro e degli altri.

Paura, odio e razzismo: cosa accade a Io, Noi e l’Altro.

Nel mondo animale (e anche umano) si riconosce un altro come dominante e guida. Il dramma dell’agonismo tra i membri viene risolto in questo modo, si riconosce che c’è un altro più forte, più intelligente, più abile e lo si segue. Nel mondo animale questo serve a proteggere la specie e a raggiungere una meta comune, le forze di tutti sono dirette verso un unico obiettivo, che non è più individuale ma comunitario: difesa da un nemico, da un predatore, conquista di un territorio, procacciamento (Trower, Gilbert, 1989). Nel mondo umano succede lo stesso, non siamo ancora abbastanza evoluti, il raggiungimento di un’intersoggettività affiliativa genuina ha ancora lunghi passi evolutivi (secolari) da percorrere. Chi ha subito in passato esperienze di umiliazione, di violenza, di abusi, chi in qualche modo dopo anni dagli eventi originari porta ancora dentro di se (ma non lo sa) un nucleo di inferiorità, inadeguatezza, vulnerabilità, debolezza, pericolosità ha bisogno di una guida.

Il fallimento di una riuscita relazione madre-padre-bambino, scarsa sintonizzazione, cooperazione paritetica genitori-figli e carente connessione emotiva, indispensabili nell’infanzia, portano alla “dissoluzione” più o meno prolungata (Jackson, 1884/1958) della dimensione intersoggettiva (Liotti, Monticelli, Fassone, 2017): non ci sentiamo più come gli altri ma diversi gli altri, non sono più con noi ma contro di noi. Immaginiamo questa scena: siamo al bar a prendere un caffè, entrano due uomini di colore e ordinano un caffè mettendosi al bancone affianco a noi, ci aspettiamo già, immediatamente (memorie procedurali implicite) che i nostri bisogni di sicurezza o di sentirci persone di valore vengano meno, ci vediamo deboli e inadeguati, la paura che proviamo diventa immediatamente intolleranza o peggio odio, l’odio è la risposta utile che ci fa sentire forti e al sicuro (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Persone lontane dal raggiungimento di una soddisfazione sentimentale o sessuale, economica, professionale o personale o che, se anche l’hanno raggiunta, devono ancora fare i conti con i piccoli e grandi traumi o con le ferite, più o meno ancora aperte, del proprio animo (Liotti, Farina, 2011) da sole non ce la fanno, ma è normale che sia così, solo che non ne sono consapevoli.

Diventa allora facile proteggersi e credere a chi parla in modo chiaro e a voce alta con un linguaggio semplice. E’ la lingua del popolo, le cose che ognuno di noi vorrebbe sentirsi dire e raccontare, giuramenti irrealizzabili di terre promesse e abbondanti, di ricchi tesori e messaggi di odio verso i nemici che impediscono che questo accada: l’Europa, i buonisti, i migranti, i comunisti. Non è più allora responsabilità di tuo padre (o di altri) che da bambino ti picchiava, ti umiliava o non ti capiva se oggi ti senti a volte strano, irrealizzato o scontento, è colpa del PD, delle ONG e di Saviano. Il senso (illusorio) di sicurezza arriva dall’alto, dal vertice politico e istituzionale, che come un padre buono e gigante, severo ma giusto fa tutto solo per il tuo bene, questo nobile fine giustifica ogni loro e tua nefandezza. Questa dimensione relazionale per così dire, verticale, soddisfa pienamente il bisogno di sentirci al sicuro, guidati e protetti da un Salvini salvifico che ci guarisce dall’ansia e dall’angoscia (trasformandole in odio) causate dal nulla, un nulla sociale, umano, culturale e valoriale in cui in realtà come disperati annaspiamo le nostre vite (le droghe, i social, i selfie, le sale da gioco, i cani e i gatti, i programmi tv spazzatura, sky, le escort, il calcio, le serie tv, i siti porno non bastano a riempire appieno la vita, ci fanno solo sentire vivi per brevi istanti).

Paura, odio e razzismo sotto c’è bisogno di appartenere e di esser visti

Vi è però un’altra dimensione molto viva e attiva da acquietare, quella che riguarda le relazioni per così dire orizzontali, sono bisogni altrettanto importanti da soddisfare, il bisogno di appartenenza (compagnia) e il bisogno di valere qualcosa agli occhi di noi stessi e degli altri (rango). Semplificando: se altri la pensano come te, sentono soddisfatti gli stessi bisogni di sicurezza, vivono gli stessi psicodrammi interni misconosciuti descritti sopra, allora ti senti meno solo, al sicuro e di contare qualcosa. Il bisogno di far parte, di essere integrati in un gruppo in cui ci si riconosce come membri, accettati, ci fa sentire persone di un certo valore, persone che contano (come quando si passeggia per strada e si salutano tante persone, quasi sempre senza dirsi nulla). Sapere che altri la pensano come noi ci fa anche sentire al sicuro, protetti dalla minaccia di subire rifiuti, umiliazioni o di rimanere soli, ci da anche la sensazione di essere protetti dal pericolo di sciagure personali, di diventare o rimanere poveri, perdere il lavoro, la casa o il partner (non importa poi se la maggior parte dei maschi italiani sperpera i propri patrimoni familiari con prostitute straniere, nelle sale scommesse e passa ore sui siti porno o sui social anziché studiare o imparare un mestiere). A maggior ragione poi, se questo senso di accoglimento viene condiviso da più della metà della popolazione italiana, guidati da un ministro senza giacca e cravatta, con la panzetta e la barba sfatta. Lo sentiamo vicino, è uno di noi e ci sentiamo vicini tra noi. Ma è un senso del Noi non genuino, si regge sulla paura ed è basato sul rango. Non è uno stare assieme autentico, è un’affiliazione illusoria, ogni opinione diversa, ogni differenza, diventa una minaccia a un senso del noi fasullo, quando invece, un senso del noi pienamente compiuto contempla la differenza in quanto occasione di crescita e di sviluppo per l’intera comunità (Liotti, Fassone, Monticelli, 2017). I seguaci dei nostri governanti non accettano il confronto, non accettano la critica, non accettano argomentazioni, rispondono con frasi fatte e illogiche (Es: “portateli a casa tua i migranti”, “rosiconi”, ecc.). Tutto diventa per loro minaccioso, il contraddittorio riapre ferite remote, traumi o vissuti irrisolti, umiliazioni antiche, frustrazioni e scontentezze attuali che, si sono originate in un oscuro e nebuloso passato individuale, e che vengono riversate all’esterno del Sé, contro poveri disperati dalla pelle scura (“lo nero periglio che vien dallo mare”, che già Brancaleone da Norcia temeva) e chiunque non confermi le loro posizioni comode e rassicuranti. Tutto è gestito dall’alto da scaltri gerarchi cialtroni (nella prima Repubblica questi avrebbero lavato le scale) ben consapevoli delle debolezze (non riconosciute, negate e rifiutate) del loro popolino impaurito e della sudditanza che provocano in esso.

Domanda: Ma allora vuol dire che la metà della popolazione italiana vive in un organizzazione psicopatologica di personalità e non lo sa?

Risposta: Non lo so, ma è probabile che valga per molti di più, non intesi come singoli, ma come popolazione, come identità culturale nazionale, che, o non esiste più, o è vittima di un cancro maligno degenerativo e inguaribile, qualcosa di simile a ciò che descriveva Thomas Mann nel Doctor Faustus riferendosi alla sua Germania degli anni ’30-40.

L’importanza della relazione terapeutica nel trattamento di pazienti psichiatrici – Report del convegno di Palermo del 29 ottobre 2018

Relazione terapeutica, empatia, ascolto, collaborazione, stile decisionale condiviso da paziente e terapeuta, non subito e non imposto: tutti elementi indispensabili per un trattamento di successo a lungo termine, attorno ai quali si gioca l’efficacia della psicoterapia e l’aderenza stessa al trattamento farmacologico, nelle patologie a carattere psicotico.

 

Questo il focus delle relazioni che si sono succedute il 29 Ottobre scorso nella cornice sontuosa del Mondello Palace Hotel, a Palermo, all’interno del Convegno dal titolo “La Relazione terapeutica in psichiatria”, promosso, tra le altre, dalla Società Italiana di Psichiatria sociale.

Un momento di alto valore scientifico utile per riflettere sull’importanza della relazione umana, prima ancora che sull’utilizzo di specifiche tecniche riconducibili a specifici orientamenti terapeutici. Emblematiche a tal proposito le relazioni di apertura dell’evento a cura di Andrea Fiorillo, Dipartimento di Psichiatria, Università della Campania “L. Vanvitelli”, Napoli e Serafino Di Giorgi, Dipartimento Salute Mentale ASL di Lecce, dedicati al ruolo della relazione terapeutica nel trattamento della schizofrenia.

In una prospettiva di psichiatria centrata sul cliente, la relazione terapeutica, elemento alla base di ogni atto medico, basata su ascolto ed empatia, svolge un ruolo centrale nel successo terapeutico, in quanto fattore aspecifico, trasversale alle differenti tecniche specifiche di un approccio, che influenza maggiormente la compliance ai trattamenti. In definitiva, è chiaro come non sia la psicoterapia con specifiche tecniche a essere efficace, quanto l’ascolto per il paziente e le sue esigenze, il suo coinvolgimento in ogni step della cura, soprattutto per gli interventi complessi, necessari in patologie gravi come la schizofrenia e il disturbo bipolare.

Un rapporto empatico e fiduciario che si salda attraverso una comunicazione aperta delle proprie esigenze, in cui la continua rivalutazione dell’efficacia dei trattamenti e delle “scelte” avviene alla luce di decisioni condivise, discusse e partecipate, nella cornice ideale di un decision making condiviso.

Esistono due tipologie di decision making clinico, parte integrante del processo di cura, che possono riguardare vari ambiti, dal lavoro alle relazioni sentimentali, alla gestione della terapia farmacologica. Da una parte le decisioni di tipo paternalistico, basate su raccomandazioni e informazioni, prese fondamentalmente dall’alto, utili in specifiche occasioni in cui, per esempio, le abilità o risorse del paziente siano lacunose, poiché questi si trova in un momento particolarmente intenso della sintomatologia, e un decision making condiviso, in cui la decisione sul trattamento deriva dalla concertazione dei punti di vista di paziente e terapeuta, e dal coinvolgimento dei familiari – sottolinea Gaia Sampogna, Andrea Fiorillo, Dipartimento di Psichiatria, Università della Campania L. Vanvitelli, Napoli – Adottare uno stile condiviso equivale a offrire al paziente la migliore assistenza, nel rispetto delle sue preferenze e valori, di modo che la responsabilità della decisione ricade tanto sull’operatore che sul paziente. È da sottolineare come le decisioni adottate utilizzando uno stile condiviso, importante per instaurare una buona relazione con i pazienti affetti da schizofrenia, si associno a un ridotto tasso di drop out e a esiti migliori a lungo termine, soprattutto in termini di funzionamento personale e sociale.

Una relazione terapeutica che diventa, quindi, asse portante dell’intera efficacia del trattamento, una fiducia da costruire con gli strumenti dell’ascolto e dell’empatia, nella co-costruzione di quelle scelte che definiscono la ri-costruzione funzionale di una vita orientata al benessere e all’accettazione, da generalizzare nei differenti contesti di vita, al di là dei limiti spaziali e temporali propri del setting terapeutico, lungo l’arco di vita della persona.

Costruire l’etica dell’intelligenza artificiale

Lo studio dei dilemmi morali risulta essere una precondizione necessaria prima dell’adozione di mezzi di trasporto autonomi guidati da sistemi di intelligenza artificiale.

 

Alcune delle più grandi compagnie tech al mondo, sviluppatrici di automobili, come Google, Uber e Tesla, stanno programmando veicoli in grado di muoversi e viaggiare senza guidatore con l’idea che questi possano, in futuro, migliorare la sicurezza su strada riducendo gli incidenti e facilitare il traffico automobilistico.

L’idea di facilitare il traffico automobilistico e ridurre gli incidenti inevitabilmente comporterà l’utilizzo dell’ intelligenza artificiale (AI) nei dispositivi elettronici dei veicoli, ma soprattutto porterà con sé delle implicazioni etiche di non facile soluzione: infatti verrà richiesto ai sistemi di intelligenza artificiale di trovare compromessi tra pericolo per i passeggeri dell’auto o per i pedoni sulla strada e risolvere quindi al momento potenziali rischi tramite processi di valutazione e decision-making.

La risoluzione di dilemmi morali sarà pertanto affidata ad algoritmi nonostante molti si sono dimostrati contrari e poco fiduciosi all’idea che sia un algoritmo a prendere decisioni sulla vita e sulla morte propria e altrui senza che vi sia alcun parere o intervento umano a riguardo (Awad, Dsouza, Schulz, Rahwan et al., 2018).

In questo contesto, lo studio dei dilemmi morali risulta essere una precondizione necessaria prima dell’adozione di mezzi di trasporto autonomi.

Intelligenza artificiale e dilemmi morali: l’esperimento della “Moral Machine”

A tal proposito, alcuni ricercatori appartenenti al Media Lab del Massachussets Istitute of Technology, del dipartimento di Biologia Evolutiva dell’università di Harvard e del dipartimento di Psicologia dell’University of British Columbia di Vancouver, hanno incominciato ad approfondire sperimentalmente il tema della moralità e delle modalità attraverso le quali gli individui selezionano e scelgono un’azione “morale” in diverse combinazioni di scenari, che potrebbero verificarsi anche nella quotidianità, in cui veicoli, passeggeri e pedoni entrano in collisione e in cui si verifica inevitabilmente la morte dei primi o di quest’ultimi.

Attraverso l’analisi di risposte ottenute tramite survey online a cui hanno partecipato circa 3 milioni di persone in tutto il mondo, Awad, Dzousa, Shultz e colleghi (2018), nel loro studio intitolato “The Moral Machine experiment” apparso su Nature, hanno rivelato una variazione culturale nei principi morali che guidano la presa di decisioni morali ed etiche nei guidatori, sfatando il concetto di un’universalità dei principi in culture estremamente differenziate ed eterogenee quando si tratta di dilemmi morali.

Lo studio ha osservato come le preferenze rilevate dalla “Moral Machine” siano altamente correlate con le differenze culturali ed economiche tra i paesi.

In particolare i ricercatori hanno mostrato come le risposte date dalle persone in 233 paesi possono essere divise e categorizzate in modo sommario in tre grandi gruppi o cluster: il primo contiene il Nord America e la maggior parte delle nazioni europee e altri paesi in cui il cristianesimo storicamente ha prevalso e tuttora è presente (Cluster Nord), il secondo è costituito dai paesi dell’Est come il Giappone, l’Indonesia e il Pakistan in cui è presente una forte tradizione sia musulmana che confuciana (Cluster Est), mentre il terzo include l’America Centrale e Meridionale, la Francia e i paesi ex colonie francesi (Cluster Sud).

Alla domanda “Cosa dovrebbe fare il guidatore della macchina, travolgere tre pedoni uccidendoli o salvare loro la vita a scapito della propria?” (la macchina inevitabilmente andrà a finire contro un blocco di cemento), coloro che sono stati raggruppati nel Cluster Sud mostravano una maggioranza di risposte che tendevano a risparmiare dalla morte ad esempio i pedoni più giovani rispetto al Cluster Est; oppure il Cluster Sud esibiva una minor attitudine nel risparmiare la vita ad animali rispetto agli altri due Cluster.

È importante notare che nelle varie combinazioni degli scenari morali infatti le caratteristiche dei pedoni si modificavano per età, genere, status sociale, chi partecipava al gioco poteva mettere in atto delle strategie che potevano focalizzarsi su nove fattori: risparmiare la vita di persone versus quelle di animali, salvare quella dei passeggeri dell’auto a discapito di quella dei pedoni, risparmiare i più giovani rispetto agli anziani, donne (anche in gravidanza) rispetto a uomini e quelli con status sociale più elevato e così via.

In conclusione

L’esperimento della “Moral Machine”, ancora in corso, rappresenta il primo esempio di ricerca sperimentale in grado di raccogliere e poi categorizzare in tre macro cluster, con analisi all’avanguardia, un campione proveniente da tutto il mondo, ampissimo e assai eterogeneo per religione, educazione, cultura, con il fine di identificare i mediatori culturali e demografici delle preferenze morali per la risoluzione di dilemmi etici.

Gli autori si augurano che la raccolta di queste preferenze in futuro potrebbe contribuire allo sviluppo di principi globali e socialmente accettati per la costruzione di “Macchine Morali” in grado autonomamente di risolvere dilemmi seguendo le aspettative sociali, economiche, demografiche e culturali dell’intera area pubblica in cui vengono progettati, all’incirca come accade per i cittadini che guidano per le strade.

La diffusione del panico nella folla: l’importanza del fenomeno nella medicina delle catastrofi

Il panico rappresenta una paura esasperata che conduce verso comportamenti afinalistici. Se la paura costituisce una reazione vantaggiosa per la preservazione della specie e dell’individuo, il panico, al contrario, non avendo una funzione specifica né di tutela del singolo né di risposta ad un evento avverso, può sfociare in comportamenti deleteri per l’individuo stesso e per il suo entourage.

Monica Patetta, Marco Tanini, Simona Leone

 

Una catastrofe è sempre grave, improvvisa e imprevista e la sua gravità è misurata con parametri quantitativi (Ligi, 2009).

Secondo la definizione delle Nazioni Unite, una catastrofe o disastro è “un evento concentrato nel tempo e nello spazio, nel corso del quale una comunità è sottoposta a un grave pericolo ed è soggetta a perdite dei suoi membri, o delle proprietà o dei beni, in misura tale che la struttura sociale è sconvolta e risulta impossibile lo svolgimento delle funzioni essenziali della società stessa” (Scandone, Giacomelli, 2015).

Esistono molteplici classificazioni di disastri e catastrofi a seconda del parametro preso in considerazione: numero delle vittime, fattori scatenanti configurazione geografica ecc…

Prozeski nel 1979 classifica i disastri in base all’entità (piccola, media o grande) al totale delle persone coinvolte (tra 25 e 99, tra 100 e 999 o più di mille) e al numero di pazienti che necessitano di trattamento ospedaliero (tra 10 e 49, 50 e 249 o maggiore di 250).

I comportamenti collettivi

Per un’analisi efficace dei fattori di una catastrofe e per la sua gestione, non possiamo prescindere da una valutazione di tipo filosofico, sociologico e antropologico dei meccanismi che sono alla base dei comportamenti collettivi.

Per comportamento si intende l’insieme delle risposte che un organismo animale dà in conseguenza di uno stimolo esogeno e/o endogeno. Il comportamento può essere individuale o collettivo (Moro, 2003). Secondo Smelser il comportamento collettivo (Smelser, 1968) è caratterizzato da una risposta spontanea e non strutturata di un gruppo di persone quale reazione nei confronti di una situazione di incertezza o di minaccia.

Parlando di medicina delle catastrofi i comportamenti collettivi sono definiti adatti quando la struttura di quel gruppo sociale sopravvive o è in grado di riorganizzarsi oppure comportamenti collettivi inadatti, quando una risposta illogica e irrazionale produce conseguenze pericolose per la sicurezza delle vittime e degli stessi soccorritori. Tra i più significativi troviamo il panico (Cuzzolaro, Frighi 1991).

Goode ha stabilito una classificazione dei comportamenti collettivi secondo otto prospettive teoriche (Goode, 1978, 1990). Se ne prenderanno in considerazione in questo contesto solo quattro: la teoria del contagio, la teoria della convergenza, la teoria della norma emergente e la teoria del valore aggiunto.

La teoria del contagio, che si ispira a Le Bon (Le Bon, 1979), rappresenta la prima di tali prospettive e mette in evidenza quanto i comportamenti collettivi tendano ad essere uniformi: protetto dall’anonimato della massa anche l’individuo più flemmatico può diventare audace ed irruente, agendo per imitazione o suggestione. L’assenza di un controllo diretto e la formazione di una massa “critica” costituitasi casualmente, aumenta il senso di deresponsabilizzazione, portando all’azione collettiva. Quando la frenesia della massa si propaga e diventa collettiva si parla di contagio sociale.

Secondo la teoria della convergenza individui inclini al medesimo atteggiamento, che si ritrovino nella medesima condizione tenderanno verosimilmente ad assumere il medesimo comportamento collettivo, anche qualora questo fosse aggressivo, prevaricatore o distruttivo.

Queste teorie suppongono che il comportamento collettivo abbia in sé delle connotazioni negative in violazione di norme consolidate.

Turner e Killian (Turner e Killian, 1957, 1987), con la teoria della norma emergente, ipotizzano la costruzione di nuove norme comportamentali, plausibili, ammissibili ed attuabili, a partire da un rimodellamento della norma preesistente, nel momento in cui questa appaia obsoleta o inadeguata o ambigua. Gli individui inseriti in una determinata situazione riscriverebbero la norma comportamentale fondendola con la norma precedente e con la propria opinione personale.

Per quanto riguarda inoltre la teoria del valore aggiunto, attribuibile a Smelser, un comportamento collettivo si verificherà solo e soltanto al realizzarsi in sequenza di determinate condizioni, vale a dire:

  1. presenza di una situazione che permetta o promuova un determinato comportamento
  2. ansietà diffusa causata dall’incertezza che diventa problema da risolvere
  3. presenza di credenze o “sentito dire”, per cui agire in uno specifico modo
  4. intervento di fattori precipitanti
  5. intervento di un leader che promuova la mobilitazione
  6. mancanza o eccesso di controllo sociale

Se la sequenza viene interrotta per la mancata realizzazione di una delle condizioni, secondo Smelser il comportamento collettivo non sarà presente.

Nel comportamento collettivo si individuano 3 emozioni fondamentali: paura, ostilità, gioia (Lofland, 1985) preceduti nel caso di una situazione catastrofica dalla sorpresa.

La paura

La paura è una emozione derivata dalla percezione di un pericolo, reale o presunto; si tratta di un’emozione primaria, condivisa con molte specie animali, che ha come unico obiettivo la sopravvivenza dell’individuo o della specie (Oliviero Ferraris 2013).

La reazione di attacco e fuga, innescata dalla paura è una risposta ancestrale vantaggiosa per l’evoluzione, chiamata anche reazione da stress acuto e descritta da Walter Cannon (1929).

Cannon teorizza che gli animali compreso l’uomo, reagiscono alle minacce del mondo esterno con una scarica generale del sistema nervoso simpatico.

Molti ricercatori nel corso degli anni si sono dedicati allo studio delle emozioni, partendo da Cannon (1927), Bard (1934), Schachter e Singer (1962), fino ad arrivare a Zajonc e Sherer (1984).

Per sua natura, la reazione di attacco e fuga scavalca la mente razionale, l’organismo si muove in modalità “attacco” e il mondo viene percepito come minaccioso (Nardone, 2016).

Nel suo lavoro del 2007, Porges analizza i meccanismi ancestrali delle reazioni umane ascrivibili all’attivazione delle due branche del sistema nervoso autonomo: il sistema simpatico, la cui attivazione è generata dalla dismissione in circolo di adrenalina e noradrenalina che causano le reazioni di “fight or flight” (lotta e fuga), e quello parasimpatico, attivato dall’acetilcolina, che provoca le risposte “rest and digest”, cioè di rilassamento fisiologico. Lo studio di Porges presuppone che la componente parasimpatica sia distinta in due parti: la branca vago-ventrale sarebbe attiva in situazioni percepite come relativamente sicure, producendo uno stato di tranquillità mentre la branca vago-dorsale si attiverebbe in situazioni percepite come rischiose per la vita dell’individuo, producendo tramite un crollo del tono vagale uno stato di catalessia e di “morte apparente” provocato dall’ipotonia muscolare. Questa reazione, che ci deriva dai rettili, è un ricordo ancestrale vantaggioso dal punto di vista evolutivo. La neurocezione è il processo neurale che coinvolgendo il lobo temporale e il sistema limbico è in grado di soppesare gli stimoli ambientali distinguendone la pericolosità e dunque discriminando fra quale delle tre reazioni sia la più idonea in un determinato contesto (Porges, 2001).

Il panico

Pànico (agg. e s. m. dal lat. panĭcus, gr. πανικός , derivato dal nome del dio Πάν, Pan): 1- nella mitologia greca Pan era il dio delle montagne e della vita agreste, patrono del riposo meridiano; in particolare, era detto timor panico, terrore panico quel timore misterioso e indefinibile che gli antichi ritenevano cagionato dalla presenza del dio Pan. 2- s. m. Senso di forte ansia e paura che un individuo può provare di fronte a un pericolo inaspettato, e che determina uno stato di confusione ideomotoria, caratterizzata per lo più da comportamenti irrazionali: farsi prendere, lasciarsi vincere dal panico. In particolari situazioni, tale reazione può diffondersi rapidamente tra più individui di una folla, dando luogo a fenomeni di panico collettivo: la folla è fuggita in preda al panico; lo scoppio improvviso ha suscitato il panico del pubblico. Anche, psicosi collettiva provocata dal diffondersi di notizie allarmanti: il crollo delle azioni ha fatto nascere il panico nell’ambiente della borsa; le notizie sull’epidemia hanno diffuso il panico nella popolazione.

La debolezza dei comportamenti di crisi, sottolineata da alcuni autori, è legata alla destrutturazione del corpo sociale, anziché alla sua mobilitazione. La manifestazione limite di questi comportamenti è rappresentata dal panico, che si palesa quando un corpo sociale percepisce l’aleggiare di una minaccia aspecifica, ardua da individuare e conseguentemente da affrontare.

Il panico rappresenta la reazione ad una catastrofe, sia essa naturale, come un terremoto o un’alluvione o un tornado, che di origine antropica, quale un incidente aereo, il collasso di una diga o un incendio.

Secondo Touraine il comportamento di crisi decompone il gruppo e lo sostituisce con una folla incapace di decisioni finalizzate, in cui ogni singolo individuo agisce solo per la propria salvaguardia.

È a questo punto che entrerebbe in gioco la figura del leader, il quale, secondo le opinioni di Le Bon e Freud, imporrebbe il suo dominio non tanto sulla totalità degli individui, quanto sul singolo.

Il panico rappresenta quindi una paura esasperata che conduce verso comportamenti afinalistici; se la paura costituisce una reazione vantaggiosa per la preservazione della specie e dell’individuo, il panico, al contrario, non avendo una funzione specifica né di tutela del singolo né di risposta ad un evento avverso, può sfociare in comportamenti deleteri per l’individuo stesso e per il suo entourage.

Il panico è una situazione senza via di scampo, in cui prevale una sensazione di ineluttabilità. Nella realtà delle cose il panico scoppia solo se c’è la percezione di un grande pericolo per sé o altre persone vicine, se il salvataggio è visto come possibile, ma le vie di fuga e le opzioni sono limitate e quando l’individuo si lascia sopraffare da una sensazione di impotenza e incapacità di evitare il pericolo in altri modi.

La paura, nonostante sia una motivazione forte, non porta necessariamente a comportamenti di panico in situazioni di disastro e di emergenza. (Lavanco 2007)

Al contrario: soprattutto durante situazioni estreme gli esseri umani hanno fondamentalmente un atteggiamento prosociale, solidale, generoso e disponibile.

Questo vale ancora di più se le altre persone coinvolte non sono estranee. Il “fattore sociale”, pertanto, può effettivamente diventare un pilastro della cultura della sicurezza operativa.

Conclusioni

Il numero delle vittime di un disastro può essere ridotto attraverso la conoscenza, da parte della popolazione esposta al rischio, di misure comportamentali da adottare al verificarsi dell’evento disastroso, finalizzate a ridurre la distruttività e i danni personali.

La diffusione di tali informazioni riduce l’evoluzione dei fenomeni negativi di origine psicologica che caratterizzano le grandi emergenze (es. panico). Considerazioni come queste non vanno trascurate in quanto, soprattutto nei luoghi affollati, l’ipereccitazione o l’apatia possono generare morti e pericoli in quantità superiore rispetto a quelli dovuti all’agente causa dell’emergenza.

Il panico, seppur preceduto dallo svilupparsi di un’intensa paura, può scatenarsi improvvisamente e propagarsi velocemente per imitazione o subalternità. In queste situazioni ci si aspetta di riscontrare il dissolversi della coscienza individuale accompagnata da alterazioni delle percezioni e del giudizio, regressione, suggestionabilità, impulsività, gregarismo acritico con adeguamento automatico al movimento degli altri, sentimento di appartenere a una potenza oscura e partecipazione violenta senza responsabilità. Se tutto ciò dipinge efficacemente quello che ci si attende da una reazione di panico collettivo, occorre prestare attenzione a non generalizzare quest’immagine come l’unica capace di descrivere ciò che accade in una folla durante una situazione di emergenza. Vi è, infatti, un’altra reazione, ben più pericolosa e insidiosa che viene troppo spesso sottovalutata: la negazione del pericolo.

Si può pensare di limitare i danni derivanti dalla folla colta dal panico solo attraverso un meccanismo di prevenzione che si basa principalmente sulla diffusione di informazioni esatte, sui pericoli che si possono presentare nei diversi tipi di catastrofi e sul comportamento da adottare in tali circostanze.

La scienza che allunga la vita (2017) di Elissa Epel ed Elisabeth Blackburn – Recensione del libro

Il libro La scienza che allunga la vita. La rivoluzione dei telomeri della psicologa esperta di stress Elissa Epel e della biologa molecolare premio Nobel Elisabeth Blackburn è un libro originale e pioneristico perché presenta in maniera divulgativa la recente scienza dei telomeri ovvero come fattori, tra i quali l’atteggiamento psicologico, lo stress cronico, l’alimentazione, il sonno e l’attività motoria, impattano direttamente su particolari strutture cromosomiche che determinano la nostra qualità ed aspettativa di vita.

 

Il libro, unico nel suo genere, è importante anche perché sancisce dal punto di vista letterario la nascita di un nuovo settore della psicologia: la Psicologia Epigenetica.

La scienza che allunga la vita. La rivoluzione dei telomeri è un libro scritto a quattro mani da due eminenti scienziate: il premio Nobel Elisabeth Blackburn, pioniera dello studio di particolari strutture biologiche considerate fondamentali per la longevità delle cellule (i telomeri), e la psicologa esperta di stress cronico Elissa Epel che ha avuto l’innovativa idea di esplorare l’impatto di alcuni aspetti psicologici sui telomeri.

Il libro è un testo ambizioso e complesso ma scritto con un linguaggio molto accessibile che descrive il clamoroso lavoro scientifico relativo ai telomeri accumulato soprattutto nell’arco degli ultimi due decenni.

Cosa sono i telomeri e perché sono tanto importanti?

Nel settore strettamente biologico i telomeri hanno rivoluzionato il concetto di invecchiamento cellulare perché le ricerche hanno identificato che queste strutture, che si trovano alle estremità dei cromosomi (i “contenitori” del DNA), rappresentano il nostro “orologio” biologico cellulare.

In altre parole, i telomeri sono l’indicatore di longevità e d’invecchiamento cellulare più affidabile attualmente conosciuto.

Queste strutture sono filamenti di DNA che non vengono mai espressi dalla cellula (quindi che non vengono mai “tradotti” in aminoacidi), che mano a mano si accorciano, per effetto del processo stesso di duplicazione, arrivando ad un numero massimo di duplicazioni (il cosiddetto limite di Hayflick). Quando questo numero massimo viene raggiunto, i telomeri sono talmente corti che non garantiscono più la capacità strutturale a tutto il resto del cromosoma determinandone il suo disfacimento.

Spesso, per far capire la funzione e la struttura dei telomeri, si utilizza la metafora dei terminali di plastica dei lacci delle scarpe che, se integri, garantiscono a tutto il laccio di essere usato propriamente ma, se si deteriorano, determinano lo sfilacciamento progressivo del tessuto che costituisce il laccio stesso.

In questa metafora il laccio rappresenta i nostri cromosomi ed il loro sfilacciamento raffigura il progressivo processo di senilità e di morte cellulare.

La cosa interessante è che se è vero che nasciamo con una determinata lunghezza di questi terminali, che si accorciano progressivamente durante il processo di sviluppo e manutenzione cellulare, è anche vero che la velocità relativa il “consumo” telomerico è estremamente variabile e dipendente da vari fattori.

Il libro La scienza che allunga la vita della Epel, che ho il piacere di conoscere personalmente, e della Blackburn identifica con rigore scientifico i fattori che impattano su questo “consumo” telomerico influenzando la longevità dell’organismo e la sua vulnerabilità nello sviluppare malattie croniche.

La grandezza della variabilità dell’accorciamento telomerico è molto elevata e dipende appunto da vari fattori che sono trattati ampliamente nel libro perché influenzano il funzionamento delle “macchinette” biologiche enzimatiche, la telomerasi, deputate a ricostruire i telomeri contrastandone almeno in parte il consumo.

Ritornando alla metafora dei lacci delle scarpe, gli enzimi della telomerasi potrebbero rappresentare dei piccoli sistemi che aggiungono minuscoli pezzettini di plastica ai terminali determinandone una maggiore vita (longevità) residua. A livello di processi biomolecolari questi speciali enzimi ricostruiscono frammenti di DNA aggiungendoli alle sequenze di basi che costituiscono i telomeri.

L’invecchiamento cellulare determinato dalla lunghezza dei telomeri ha quindi una proprietà “plastica” nel senso che può essere accelerato o rallentato in base alla tipologia di esperienza epigenetica che influenza la telomerasi e, in ultima analisi, i telomeri.

Il contributo originale del libro

Lo sforzo delle due autrici del libro La scienza che allunga la vita è quello di far capire quanto, ed in che modo, possiamo impattare sulla velocità di questo “consumo” telomerico. L’intento delle due scienziate è rendere maggiormente consapevoli le persone che dalle scelte quotidiane che facciamo deriva un determinato funzionamento che influenza la velocità di consumo dei nostri telomeri e, ad un livello più “macro”, la nostra longevità e qualità di vita.

Come espresso chiaramente nel testo il processo di senescenza rappresentato da telomeri molto corti dà l’avvio ad una dinamica che conduce a maggiori problemi infiammatori e relativi lo sviluppo di possibili cellule tumorali che sono espressi nella migliore delle ipotesi con una diminuzione della qualità di vita e nella peggiore con un’aspettativa di vita residua molto breve.

Il grande contributo di questo libro è aver stabilito come anche l’aspetto psicologico contribuisce a determinare ed influenzare la dinamica dei telomeri in misura molto significativa.

Naturalmente già si sapeva che un certo tipo di alimentazione, l’attività motoria o la qualità del sonno hanno un impatto (positivo o negativo) sulle nostre cellule e, nel lungo termine, sulla nostra salute e longevità, ma il libro contribuisce aggiungendo a questa conoscenza già assodata due elementi fondamentali ed inediti.

Il primo elemento è rappresentato dall’aggiungere il punto di vista epigenetico e quindi il dettaglio dei processi biomolecolari attraverso i quali avvengono queste dinamiche provenienti da percorsi causali almeno in parte indipendenti (alimentazione, sonno, movimento, aspetti psicologici, etc.).

Il secondo punto cardine è l’introduzione della connessione assolutamente inedita tra i fattori psicologici e la lunghezza dei telomeri: il personale modo di gestire lo stress, la frequenza nel praticare la meditazione, l’atteggiamento ottimistico/pessimistico, la percezione del supporto sociale, sono solo alcuni esempi delle modalità psicologiche che determinano in modo specifico e molto significativo l’accelerazione od il rallentamento dell’invecchiamento cellulare, definendone la longevità residua.

Quest’ultimo messaggio, relativo l’impatto psicologico sulle dinamiche epigenetiche cellulari telomeriche, è una delle caratteristiche forse più originali del libro perché oltre ad essere del tutto nuova è anche ricca di profonde implicazioni cliniche e legate al benessere personale.

Per questo motivo questo libro può essere considerato anche la pietra miliare di un nuovo settore della psicologia scientifica: la psicologia epigenetica ossia lo studio scientifico dell’influenza dei fattori psicologici (cognitivi, emotivi e motivazionali) sui processi epigenetici che consistono nella selettiva espressione del nostro patrimonio genetico.

Qual è dunque il messaggio fondamentale de La scienza che allunga la vita?

In estrema sintesi il messaggio principale del libro La scienza che allunga la vita è il maggiore controllo (e la conseguente maggiore responsabilità individuale e sociale) che possiamo esercitare dalla consapevolezza delle nostre scelte quotidiane sui fattori (psicologici, motori, nutrizionali, sociali, etc.) che ormai sappiamo influenzare direttamente l’invecchiamento del nostro organismo e la qualità della nostra vita.

La Dott.ssa Epel, durante una recente intervista mi ha risposto:

…penso che se le persone fossero più consapevoli che la nostra biologia sia plasmabile dalle esperienze che conduciamo allora di conseguenza avrebbero una maggiore percezione sulla capacità di controllo sulle loro vite, sulla loro salute mentale, sulle esperienze che scelgono di vivere e sulle loro scelte di vita.

Personalmente raccomando la lettura del libro La scienza che allunga la vita. La rivoluzione dei telomeri a tutti coloro (professionisti o meno) che sono interessati al benessere psicofisico e che apprezzano la preziosa, e a tratti rivoluzionaria, visione scientifica ricca di molteplici implicazioni legate al benessere personale.

HIV e disturbi neurocognitivi

Il virus dell’ HIV entra molto precocemente nel Sistema Nervoso Centrale dopo l’esposizione iniziale. E’ stata riscontrata la presenza di HIV-RNA (che indica la replicazione del virus) nel liquor cefalorachidiano già dall’ottavo giorno dopo l’infezione.

 

Uno dei maggiori ostacoli all’eradicazione del virus HIV è legato proprio all’abilità di tale virus nello stabilire un’infezione latente nei macrofagi, che sono resistenti all’effetto dannoso del virus e persistono nei tessuti per lungo tempo, supportando la replicazione virale e contribuendo in tal modo alla patogenesi della malattia.

Studi condotti in vivo hanno dimostrato la presenza di macrofagi infettati da HIV in tutti i distretti corporei, al punto di definirli come il principale bersaglio di HIV. In particolare, a livello del Sistema Nervoso Centrale (SNC), i macrofagi infettati da HIV rappresentano più del 90% del totale delle cellule infettate dal virus.

E’ stato dimostrato infatti che i macrofagi infetti attraversano facilmente la barriera ematoencefalica, e tendono a migrare con buona efficienza nei tessuti cerebrali, trasmettendo quindi l’infezione alle altre cellule ad essa suscettibili, specialmente le cellule della microglia.

L’enorme danno provocato da HIV a livello del SNC è mediato non tanto dall’infezione diretta dei neuroni, quanto dalla produzione da parte dei macrofagi infettati di citochine, definibili come neurotossine, a loro volta aventi azione tossica nei confronti sia degli astrociti sia dei neuroni.

Un elemento di particolare importanza è rappresentato dai macrofagi cerebrali cronicamente infettati, che possono rimanere vitali per molti mesi, e quindi rilasciare abbondanti quantità di virus nel tessuto cerebrale e nel liquor.

HIV e patologie neurologiche

La lunga sopravvivenza determina la comparsa, negli anni, di patologie neurologiche subliminali. La terapia dell’infezione da HIV, pertanto, deve tenere conto della presenza di virus attivamente replicante nel Sistema Nervoso Centrale e delle conseguenze che ciò comporta; l’approccio terapeutico deve essere mirato anche all’inibizione del virus nel Sistema Nervoso Centrale (e non solo a livello sistemico), agendo con farmaci che siano attivi sui macrofagi e siano anche in grado di oltrepassare con successo la barriera ematoencefalica. Quindi, anche se HIV non infetta direttamente i neuroni, l’infezione cronica del Sistema Nervoso Centrale è in grado di innescare una cascata di eventi che può portare ad alterazioni funzionali e a morte neuronale.

Il corrispettivo clinico è rappresentato dai cosiddetti disturbi neurocognitivi HIV-associati (HIV Associated Neurocognitive Disturbances, HAND) che sono classificati in tre livelli:

  • la forma asintomatica (asymptomatic neurocognitive impairment, ANI)
  • la forma lieve (mild neurocognitive disorder, MND)
  • la forma moderata-grave (HIV-associated dementia, HAD).

Sia la forma asintomatica (ANI) sia le forme clinicamente manifeste (HAD,MND) si definiscono come decadimento delle funzioni cognitive, confermato con esame neuropsicologico, in assenza di altra patologia in grado di spiegare il quadro clinico. E’ quindi fondamentale, per un corretto inquadramento diagnostico, sottoporre il paziente sieropositivo ad esame neuropsicologico.

HIV: l’esame neuropsicologico per le funzioni cognitive

L’esame neuropsicologico in HIV è composto da una valutazione clinica per l’individuazione di deficit neurocognitivi associati a patologia della struttura cerebrale.

Esso consiste nella raccolta di informazioni sia soggettive, fornite dal paziente e soprattutto da familiari o conoscenti, sia oggettive ottenute mediante la somministrazione di una batteria specialistica di test neurocognitivi per accertare lo stato mentale generale e l’efficienza delle singole funzioni mentali superiori (attenzione, memoria, percezione, linguaggio, prassie, funzioni esecutive).

L’architettura cognitiva è composta da varie funzioni, alcune delle quali possono essere classificate come diffuse, non essendo localizzabili in specifiche aree cerebrali (memoria, attenzione, funzioni esecutive), altre possono essere invece classificate come localizzate in aree cerebrali più o meno ben definite (linguaggio, calcolo, abilità prassiche, funzioni motorie fini).

Dal punto di vista clinico MND e HAD sono caratterizzate da un profilo neuropsicologico di decadimento sottocorticale. La compromissione sottocorticale è caratterizzata da precoce rallentamento dei processi cognitivi e da rallentamento delle risposte motorie (bradifrenia). Può essere presente apatia. Tipicamente vi è assenza di disturbi considerati “corticali” come agnosia, afasia, aprassia. L’esame neuropsicologico in ambito delle patologie HIV-associate deve essere condotto mediante una batteria di test che esplori almeno cinque aree cognitive, come attenzione e velocità del processamento delle informazioni, funzioni esecutive, apprendimento e memoria verbale, produzione e fluenza verbale, velocità e controllo motorio fine, comprendendo almeno due test per area cognitiva.

HIV: test neuropsicologici consigliati

Di seguito, esempi di test neuropsicologici consigliati, divisi in aree cognitive:

  • per lo studio delle funzioni esecutive e di controllo: Trail Making A, Digit span (ripetizione diretta)e Digit symbol – Test dei cubi di Corsi;
  • per la valutazione della flessibilità cognitiva: Trail Making B, Test di Stroop (interferenza colori-parole), Digit span (ripetizione inversa), fluenza verbale (categorie fonemiche) e prove di astrazione e generalizzazione dei concetti;
  • per la valutazione di memoria e apprendimento: il Test della Lista di parole di Rey, il Test della Figura Complessa di Rey (rievocazione) e il Test di memoria di prosa (ripetizione immediata e differita);
  • per le abilità fini motorie (velocita di esecuzione): Grooved pegboard test (mano dominante) e Grooved pegboard test (mano non dominante);
  • per la valutazione delle abilità visuospaziali e costruttive: il Test della Figura Complessa di Rey (copia).

Per le situazioni nelle quali non fosse disponibile l’esame neuropsicologico sono state proposte delle scale semplificate, come la HIV Dementia Scale e la International HIV Dementia Scale, quest’ultima sviluppata per superare problemi linguistici e culturali e dimostratasi utile anche in paesi non anglosassoni.

Esse sono facili da somministrare ma mancano di adeguata sensibilità e specificità specialmente nelle forme meno gravi di compromissione neurocognitiva. Sono pertanto utili come strumento di screening e non possono sostituire un esame neuropsicologico completo.

E’ importante ribadire che deve essere indagata la presenza di comorbidità in grado di influire negativamente sulla performance neurocognitiva del paziente. In particolare andrà valutata l’eventuale presenza di altre forme di demenza vascolare e malattia di Alzheimer, di esiti di precedenti infezioni opportunistiche o neoplasie del SNC, di encefalopatie dismetaboliche (encefalopatia epatica, uso di stupefacenti o di psicofarmaci, etilismo), di esiti di pregressi traumi cranici, che possano avere un ruolo nella genesi del disturbo neurocognitivo.

HIV: fattori che aumentano il rischio di disiturbi neurocognitivi

Alcuni fattori sono stati associati a più elevato rischio di disturbi neurocognitivi HIV-correlati:

  1. Nadir (il picco più basso raggiunto nella propria storia) di linfociti T CD4+ inferiore a 200 cellule/µ;
  2. Età superiore ai 50 anni;
  3. Fattori di rischio cardiovascolare e/o alterazioni del metabolismo glucidico o lipidico;
  4. Mancata soppressione della replicazione di HIV per scarsa aderenza terapeutica.

Infine, deve essere ricordato che l’esame neuropsicologico deve essere valutato in ambito clinico generale, in quanto le diagnosi di MND e HAD rimangono diagnosi di esclusione e richiedono una completa valutazione clinica del paziente con l’ausilio di esami di laboratorio e di neuroimaging.

HIV: la neuroradiologia nella diagnosi dell’infezione da HIV del SNC

Gli effetti dell’infezione da virus dell’immunodeficienza umana di tipo 1 sulla funzionalità cerebrale arrivano a determinare la demenza franca che prende il nome di AIDS dementia complex (ADC).

La ADC è una sindrome neurodegenerativa cronica che compare tardivamente nel corso dell’infezione da HIV e che si caratterizza per decadimento cognitivo progressivo ed atrofia del parenchima cerebrale. La ADC è una delle più comuni ed importanti cause di morbidità associate a HIV, interessando il 15-20% dei pazienti affetti da AIDS. L’utilizzo della terapia HAART ha permesso di abbassare l’incidenza dei disturbi neurocognitivi HIV-associati. Il profilo neuropsicologico dei pazienti affetti da ADC è, in genere, riconducibile ad un pattern di alterazione “sottocorticale frontale”: Coordinazione e velocità dei movimenti fini, attenzione prolungata, velocità dei processi mentali, capacità esecutiva, efficienza del linguaggio e memoria di lavoro sono i principali ambiti cognitivi alterati.

Studi neuropatologici hanno confermato tali reperti individuando una maggiore concentrazione del virus nelle regioni sottocorticali e frontali.

Prima che si instauri la demenza, ci sono alcuni segni clinici di coinvolgimento del SNC: deficit dell’attenzione di tipo sottocorticale come indifferenza, e rallentamento psicomotorio, correlati a segni oggettivi di disfunzione neurologica come i test neuropsicologici standardizzati. Dal punto di vista patologico la presenza di cellule giganti multinucleate è considerata il marker patologico di ADC attribuito all’infezione cerebrale di HIV.

L’atrofia cerebrale è l’alterazione neuroradiologica più comune nell’ADC ed essa può essere riconosciuta anche con un esame di tomografia computerizzata (TC) mentre, data la bassa capacità risolutiva di questa tecnica, la presenza di lesioni della sostanza bianca spesso non viene riconosciuta.

La risonanza magnetica (RM) è considerata la tecnica d’elezione, in quanto essa consente di identificare e caratterizzare alterazioni di segnale della sostanza bianca, oltre a valutare il carico lesionale e la distribuzione dell’atrofia cerebrale.

Bisogna dire che le forme gravi di demenza che venivano osservate prima dell’introduzione della HAART si presentano sempre più raramente, mentre stanno emergendo forme lievi-moderate di disturbi neurocognitivi tra pazienti con infezione da HIV.

HIV: nonsarebbe il solo responsabile delle anomalie neurocognitive

Anche se l’infezione da HIV del SNC potrebbe rivestire un ruolo centrale, sembra quindi che l’origine di queste anomalie cognitive sia molteplice. Tra le varie cause o concause vi possono essere gli effetti fisiologici e patologici dell’invecchiamento, dei disordini metabolici, dell’uso di alcol, di sostanze di abuso e di farmaci e soprattutto di disturbi psicologici.

Per l’impostazione di una strategia terapeutica ottimale a livello sia sistemico che del SNC, è necessario riconoscere i disturbi neurocognitivi, classificarli in base alla gravità delle manifestazioni e, se possibile, definirne l’origine. Per verificare il grado di interferenza dei disturbi neurocognitivi con le attività quotidiane, le linee guida italiane suggeriscono di utilizzare la valutazione IADL (Instrumental Activities Daily Living) e il questionario MOS-HIV per la valutazione della qualità della vita.

Per definire se l’origine del disturbo è da riferire principalmente all’infezione da HIV stesso del SNC, piuttosto che ad altre cause o concause, è indicato un approfondimento mediante diversi tipi di valutazioni. Queste dovrebbero comprendere una valutazione psichiatrica completa (oltre la valutazione dei disturbi di personalità attraverso la SCID-5, test consigliati sono il BDI-II, il GAD o la scala HADS che comprende la valutazione sia dell’ansia che della depressione), esami ematochimici, una risonanza magnetica dell’encefalo e l’analisi del liquor, per la quantificazione della replicazione virale ed eventualmente l’identificazione di mutazioni del genoma di HIV associate a farmacoresistenza.

E’ possibile che i problemi neurocognitivi siano la conseguenza di uno stato di immunoattivazione cronica a livello del SNC, a sua volta determinata dalla presenza di una persistente replicazione virale a basso titolo, o di un danno tissutale precedentemente stabilito. L’utilizzo di una combinazione di farmaci antiretrovirali ad elevata efficacia e penetrazione nel SNC avrebbe lo scopo sia di inibire che di prevenire una possibile replicazione virale locale ma soprattutto la valutazione della completa aderenza terapeutica del paziente ai regimi prescritti deve essere una procedura da effettuare ad ogni visita. Una ridotta aderenza potrebbe essere alla base di una ridotta soppressione virale con danno neuronale ed emergenza di disturbi neurocognitivi che potrebbero così aggravare la scarsa aderenza permettendo l’instaurarsi di pericoli circoli viziosi.

Il rapporto conflittuale tra madre e figlia: quale ruolo nell’associazione tra abuso infantile e rischio suicidario in adolescenza?

Secondo il Centers for Disease Control and Prevention (CDC), il suicidio è la seconda causa di morte negli adolescenti (10-24 anni) negli USA (la morte accidentale è la prima causa). In generale i pensieri suicidari si presentano maggiormente nelle ragazze che nei ragazzi.

 

I dati provenienti dalla letteratura dimostrano che più sono gravi e pervasivi i pensieri suicidari, maggiore è la probabilità di tentare un suicidio. Proprio per questo motivo, comprendere la causa dei pensieri suicidari è fondamentale per prevenire efficacemente il suicidio e per la progettazione di interventi efficaci.

Il presente studio si inserisce in un progetto sviluppato dai ricercatori dell’Università di Rochester che stanno cercando di capire come è possibile prevenire il suicidio all’interno di alcune popolazioni degli Stati Uniti. Inoltre, il lavoro svolto dal Mt. Hope Family Center, dall’University Medical Center for the Study and Prevention of Suicide (CSPS) e dall’Injury Control Research Center for Suicide Prevention è stato uno dei principali programmi di ricerca della nazione per quasi un quarto di secolo. Questi centri sono conosciuti per la ricerca sul rischio di suicidio tra gli anziani, i militari e coloro che sperimentano la violenza del partner e l’uso di sostanze.

Per le premesse di cui sopra, oggi sempre più attenzione all’interno di questi centri viene posta anche al rischio suicidiario in adolescenza. In particolare, i ricercatori del Mt. Hope Family Center dell’Università di Rochester hanno individuato la qualità della relazione madre-figlia e l’intensità del loro conflitto come due fattori diretti che sottolineano l’associazione tra il maltrattamento del bambino e i pensieri suicidari durante l’adolescenza.

Lo studio

Lo studio, pubblicato sulla rivista Suicide and Life Threatening Behavior, ha raccolto un campione di 164 coppie madre-figlia, le quali vivevano in una condizione socio-economica precaria. Le ragazze, adolescenti (con un’età media di 14 anni), avevano tutte ricevuto una diagnosi di depressione; il 66.3 % di loro erano afroamericane, il 21.3% caucasiche ed infine il 14% latine.

I ricercatori hanno voluto indagare 3 variabili distinte, che associavano il maltrattamento precoce nell’infanzia a pensieri suicidari nelle ragazze adolescenti: 1. Qualità della relazione madre-figlia 2. Conflitto madre-figli 3. Sintomi depressivi degli adolescenti.

Sono state considerate come forme di maltrattamento sia abusi emotivi, fisici e sessuali sia trascuratezza emotiva e fisica. Nello studio il 51.8% delle ragazze erano state maltrattate almeno una volta durante la loro vita.

I ricercatori hanno così scoperto che i pensieri suicidari e i pensieri ricorrenti di morte si presentavano più frequentemente tra le adolescenti con una storia di maltrattamenti, rispetto alle adolescenti che non ne avevano subiti. Come evidenziato dai risultati, l’ideazione suicidaria si presentava nell’11.7% delle adolescenti depresse non maltrattate, mentre nell’26.8% delle adolescenti depresse maltrattate.

Alcune riflessioni conclusive

Oggi, grazie alla letteratura, sappiamo che un attaccamento sicuro, che presuppone una relazione calda, accudente e coerente tra madri e figli è fondamentale per uno sviluppo sano del bambino. Inoltre questi presupposti perdurano anche nell’adolescenza, nonostante gli adolescenti passino più tempo con i loro amici e meno tempo a casa con la loro famiglia.

Secondo i ricercatori dell’Università di Rochester, i giovani maltrattati rispondono bene agli interventi relazionali per il trattamento della depressione, come ad esempio la psicoterapia interpesonale per gli adolescenti, che si concentra sul contesto interpersonale della depressione. La terapia familiare basata sull’attaccamento si è dimostrata efficace nel ridurre i pensieri suicidari tra gli adolescenti, poiché mira a rafforzare il funzionamento della famiglia e la relazione di attaccamento tra genitori e adolescenti.

11th IEPA Conference: Early Intervention in Mental Health – Report dal convegno

La IEPA (Intervention in Early Psychosis Association) conference, giunta quest’anno alla sua undicesima edizione, è un evento unico per clinici e ricercatori che operano nell’ambito degli Stati Mentali a Rischio in adolescenza e degli interventi precoci negli esordi psicotici e in altri disturbi in ragazzi e giovani adulti.

 

Viene svolta ogni due anni in paesi diversi. Nel 2016 era stata Milano ad ospitare l’evento, quest’anno l’appuntamento è stato a Boston, negli USA, dal 7 al 10 Ottobre, in occasione della giornata mondiale della salute mentale.

L’evento, come ogni anno, ha avuto un notevole successo, con clinici da tutto il mondo riuniti in proficui confronti, al fine di presentare e condividere i propri studi e le proprie conoscenze.

I numeri parlano di 9 grandi plenarie, 112 simposi, 144 discussioni orali e 374 poster con oratori da ogni continente.

IEPA 2018: un’attenzione particolare a Cognitive Remediation e Cognitive Enhancement

Come da prassi, gli argomenti toccati sono stati i più vari, coprendo ogni ambito di ricerca, dalle neuroimmagini alla psicofarmacologia, dai trattamenti alle questioni etiche, dagli interventi psicosociali ai traumi precoci, gli approcci diagnostici e transdiagnostici, la fenomenologia, l’epidemiologia, l’uso di sostanze, le comorbilità e molto altro.

Ciò che trova continuità e coerenza con la scorsa edizione riguarda soprattutto l’utilizzo sempre maggiore di nuove tecnologie e nuovi media, su cui far affidamento nel raggiungere e trattare i giovani. Si è inoltre parlato molto di terapie accessorie e dell’importanza di integrare modelli terapeutici complementari alle terapie standard.

Un esempio è l’attenzione posta in decine di lavori sulla Cognitive Remediation e la Cognitive Enhancement. Molti ospiti ed oratori hanno sottolineato come un episodio psicotico e lo sviluppo di un disturbo psicotico abbiano gravi ripercussioni sul funzionamento cognitivo dell’individuo, il quale si trova dunque a dover gestire un evento netto, estremamente impattante, stigmatizzante, traumatico, che segna una rottura rispetto al passato, con minori risorse a disposizione. Le scarse abilità mnestiche e attentive, il declino delle funzioni esecutive generano uno stato di confusione e rallentano l’adattamento dell’individuo ai propri sintomi, rendendo più lunga la remissione e l’apprendimento di fondamentali strategie di coping. Tutto ciò oltre che rallentare la remissione ed il ritorno alla quotidianità, può contribuire al rischio di ricadute.  Un altro effetto positivo della Cognitive Remediation, oltre al miglioramento sulle funzioni cognitive, sembra poter essere la riduzione di sintomi positivi e negativi.

Sono stati notati inoltre effetti positivi della Cognitive Enhancement sulla Cognizione Sociale.

IEPA 2018: le nuove tecnologie nella cura dei più giovani

Oltre all’allenamento delle abilità cognitive, le CBT standard ed altre terapie finalizzate alla riduzione dei sintomi necessitano sempre più dell’integrazione di interventi psicosociali. L’obiettivo di tali interventi dovrebbe essere non solo il recupero delle abilità sociali, ma anche il supporto nei contesti educativi e professionali, limitando la dispersione scolastica e favorendo l’inserimento lavorativo. Lo sviluppo di tali programmi potrebbe avere un sorprendente effetto domino partendo dal benessere individuale, passando per la rete familiare ed in generale più ristretta attorno al paziente, fino ai benefici sociali e al risparmio nelle spese sanitarie per l’intera comunità. Sono stati discussi anche i dati relativi allo sviluppo del “cervello sociale” durante l’adolescenza, fondamentale per l’adattamento al contesto ed all’ambiente circostante.

È fondamentale dunque garantire ai giovani a rischio e ai primi episodi un adeguato adattamento al proprio contesto sociale. In tal senso, considerando lo sviluppo tecnologico e la diffusione sempre maggiore dei social media, in cui gli adolescenti sono particolarmente attivi, appare imprescindibile adottare nuovi mezzi per informare, tenere i contatti e fornire assistenza ai giovani pazienti. Sono stati presentati dunque vari lavori in cui vengono esposti programmi, siti, applicazioni per cellulari, giochi, interazioni online e realtà virtuale applicata in vari ambiti, dal trattamento dell’ansia sociale e della paranoia, il rinforzo della cognizione sociale, fino alle terapie mindfulness. Appare dunque che l’innovazione in questo ambito, lo sviluppo e l’implementazione delle nuove tecnologie, possa avere ripercussioni considerevoli nella pratica clinica in tutte le fasi della promozione della salute mentale nei giovani, dall’informazione all’aggancio, dalla diagnosi al trattamento.

IEPA 2018: lo Stato Mentale a Rischio Pluripotenziale

Si conferma anche il diffuso interesse nei confronti dei traumi e del ruolo delle esperienze traumatiche nello sviluppo delle psicosi, con particolare attenzione ovviamente ai traumi precoci dell’infanzia e dell’adolescenza.

Il messaggio che arriva è che i traumi dovrebbero essere considerati sempre più un concetto transdiagnostico. Qualcuno ha inoltre rilevato come un errore diffuso nei clinici sia di smettere di fare diagnosi, una volta fatta diagnosi di psicosi. L’attenzione verso il ruolo dei traumi nell’esordio psicotico e negli stati a rischio risulta dunque diffusa. Allo stesso tempo sono state indagate l’efficacia e la sostenibilità dei trattamenti diretti al trauma e ai sintomi post traumatici (es. EMDR ed Esposizione Prolungata) nei servizi sanitari, emergono in tal senso indicazioni incoraggianti e che raccomandano tali interventi in virtù di analisi costo-efficacia.

Non sono mancate presentazioni sulla fenomenologia dei quadri sintomatologici nelle sindromi psicotiche. Un tema toccato riguarda la specificità dei sintomi e di come essi si evolvano ed associno tra loro lungo un continuum relativo ai diversi stadi di sviluppo della patologia.

Sono stati inoltre discussi possibili paradigmi finalizzati a prevedere le traiettorie di sviluppo dei disturbi psicotici, la cui importanza risulta di primo piano se si considera la necessità di predire l’effettiva probabilità di transizione da uno stato a rischio a un disturbo psicotico.

E’ stato introdotto per la prima volta il concetto di Stato Mentale a Rischio Pluripotenziale. Esso è sicuramente tra gli sviluppi futuri potenzialmente più interessanti della concettualizzazione di queste condizioni cliniche At Risk, prevedendo un percorso a stadi per identificare i livelli di gravità basati su criteri specifici per definire uno stato di rischio più globale.
Proprio lo Stato Mentale a Rischio è stato messo in discussione, oltre che nella sua concettualizzazione, anche nella terminologia.  Sebbene i termini attualmente in uso come Sindrome Psicotica Attenuata (APS), Stato Mentale a Rischio (ARMS) e Ultra High Risk (UHR),  siano comodi ed utili nella pratica clinica e nella descrizione del paziente, essi potrebbero non essere così pratici per i giovani. Una riflessione ed un lavoro in tal senso, coinvolgendo i ragazzi e le famiglie, potrebbe portare ad una riduzione dello stigma ed una maggior inclusione dei pazienti stessi e della loro rete nel processo di cura.

Sono stati svolti inoltre maggiori studi legati al ruolo dei fattori metacognitivi e dei trattamenti basati sulla metacognizione, intesa sia negli aspetti legati alla Teoria della Mente – legati in particolar modo alla cognizione sociale – sia nella capacità di riflessione sui propri stati mentali. Uno degli obiettivi di queste tecniche, così come di altre tecniche specifiche è l’aumento dell’insight.
Non sono mancati infine numerosi studi epidemiologici e meta-analisi sull’efficacia degli interventi e delle terapie, la loro combinazione, la diffusione di sintomi e i tassi di transizione.

Infine, sono stati presentati e discussi vari studi su altre condizioni cliniche particolarmente complesse o a rischio di evolvere in disturbi psicotici, quali ad esempio Disturbi Bipolari, Disturbi di Personalità Borderline e Schizotipico, l’uso di sostanze e il rischio suicidario.

Nella cerimonia finale, così come in altri momenti del convegno, vi è stata l’occasione per ricordare nuovamente il prof. Angelo Cocchi e il prof. Larry Seidman, scomparsi negli ultimi anni, per decenni impegnati nel progresso della salute mentale dei giovani.
Il prossimo appuntamento sarà a Settembre 2020 a Rio de Janeiro – Brasile

PROGRAMMA IEPA CONFERENCE 2018

ABSTRACT SCARICABILI IN PDF

 

I nuovi volti della paura. Le trasformazioni in atto nella società e nella pratica psicoanalitica – Report del XX Congresso Internazionale IFPS (International Federation of Psychoanalytic Societies)

Cosa significa avere paura ai giorni nostri e come può la psicoanalisi riuscire a trattare questi nuovi aspetti? Questo uno tra i tanti interrogativi che hanno animato il XX Congresso Internazione dell’IFPS tenutosi quest’anno a Firenze e che ha coinvolto più di duecento psicoanalisti provenienti da tutto il mondo.

Clelia Asaro, Alessandro Grasso e Rebecca Silvia Rossi

 

Si è da poco concluso il XX Congresso Internazionale dellIFPS (International Federation of Psychoanalytic Societies), che ogni biennio vede riuniti delegati e candidati della medesima società con l’intento di investigare alcuni importanti aspetti inerenti l’attualità, così da legare con un fil rouge tematico gli stimoli e le riflessioni di discussant e pubblico.

Il congresso è stato ospitato dall’Istituto di Psicoterapia analitica di Firenze, che ha scelto come location lo storico “Convitto della Calza”, Ospedale trecentesco dedicato a San Giovanni Battista, luogo unico per fascino, atmosfera, arte e storia.

Questa edizione è stata interamente dedicata al tema della paura, i nuovi volti che assume all’interno delle trasformazioni della società di oggi e le ripercussioni che hanno nella pratica psicoanalitica.

Cosa significa avere paura ai giorni nostri? Di cosa si ha paura? Come si ha paura? Come può la psicoanalisi riuscire a trattare questi nuovi aspetti? Da investigare non soltanto la radicale trasformazione sociale con la quale quotidianamente ci si confronta e le relative ricadute nell’intrapsichico, ma anche il crollo di qualsiasi certezza possibile, sia a livello sociale che individuale. Cosa ci rende impauriti davanti all’altro sconosciuto, invece che curiosi? Cosa possiamo imparare dalle nostre reazioni davanti all’incertezza che sperimentiamo nella nostra pratica clinica e in altri campi dell’esperienza?

Anche la psicoanalisi sta soffrendo a causa della difficoltà ad accostarsi a tali cambiamenti epocali.

Queste sono alcune domande-stimolo, dalle quali si è partiti per esplorare come gli psicoanalisti possano contribuire alla comprensione del ruolo che ha la paura all’interno della nostra società.

Il tema del congresso: la paura in Psicoanalisi

Il tema è stato approfondito attraverso diversi approcci e sfaccettature di significato, non solo riguardanti le trasformazioni con le quali ci stiamo confrontando, ma anche le ripercussioni soggettive di significato, lo smarrimento di ogni forma di certezza, da quelle sociali a quelle individuali.

La psicoanalisi non può correre il rischio di perdere di vista questi cambiamenti epocali. Da queste considerazioni la necessità di ragionare insieme in merito a problemi sociali attuali quali l’immigrazione, l’omosessualità, le nuove tecnologie, focalizzandosi sui cambiamenti che portano a livello sia intrapsichico che interpersonale, nei modi di pensare, nelle emozioni e nei sogni.

Questo il tema che ha spinto più di duecento psicoanalisti, provenienti da diverse parti del globo, a confrontarsi e a condividere il proprio punto di vista.

Il congresso è stato un importante momento di incontro per la comunità psicoanalitica internazionale

L’opportunità di un dialogo stimolante all’interno della Comunità Internazionale degli Psicoanalisti è stata la protagonista indiscussa delle intense giornate di lavori congressuali. Accanto ai panel principali, da segnalare la terza edizione del Benedetti-Conci Award, che ha dato la possibilità ai giovani psicoanalisti in formazione di partecipare attivamente al Forum presentando i propri contributi.

Questa edizione ha avuto come vincitore M. De Mello, proveniente dal Brasile, con il suo contributo dal titolo “Psychopathology and Immigration: a Clinical Case in South America”, attribuito da una giuria internazionale composta da Marco Conci (Milano e Monaco di Baviera) e Grigoris Maniadakis (Atene) co-direttori dell’International Forum of Psychoanalysis, Valerie Tate Angel (New York) editore dell’IFPS, Christer Sjoedin (Stoccolma) ex co-direttore dell’IFPS e Maria Ugolini (Firenze).

Sempre a Firenze, sono state poste le basi per un network fra i giovani candidati delle società psicoanalitiche confederate, al fine di scambiare idee ed esperienze.

Il congresso si è suddiviso in panel principali e paralleli, con l’aggiunta di discussioni organizzate in piccoli gruppi all’interno delle quali sono stati proposti lavori individuali, workshop e supervisioni.

Poter apprezzare la globalità dei contributi proposti e le diverse attività presentate è stato impossibile, in quanto i lavori si svolgevano in contemporanea. Tuttavia questo aspetto, oltrepassando la sensazione dell’essersi “persi qualcosa”, riflette la varietà degli ambiti entro cui si declina la psicoanalisi contemporanea.

Nonostante questa umana manchevolezza dovuta al non possedere il dono dell’ubiquità, il XX forum IFPS è stato un’occasione per partecipare a stimolanti discussioni scientifiche, rafforzare il network di conoscenze internazionali, ritrovare vecchi colleghi e confrontarsi con nuovi delegati, scambiare pareri tra “vecchie e nuove” generazioni di analisti, prendere spunti e nuovi idee per il proprio lavoro, stabilire nuove collaborazioni e nuovi progetti.

Alcuni contributi – le giornate del 17 e 18 ottobre

Il pomeriggio del mercoledì 17 ottobre è stato inaugurato il congresso con i contributi introduttivi di Juan Flores e Anna Maria Loiacono insieme ad una prima riflessione di Vittorio Lingiardi sull’Edipo “oggi”: un interessante passaggio dall’approfondire il “complesso” al guidarlo verso una lettura della “complessità” contemporanea.

Nella mattinata di giovedì 18 ottobre abbiamo scelto di partecipare ad un panel inerente alla paura nella pratica clinica, incentrato su transfert e controtransfert.

Sandra Buechler, analista di New York City, ha condiviso i suoi pensieri in merito alla paura che si può creare all’interno della stanza d’analisi, esemplificandoli attraverso un caso clinico. La sua visione interpersonale del lavoro analitico è volta a mantenere lo sguardo costantemente e contemporaneamente sulla coppia paziente-analista, alle emozioni che entrambi provano nel processo terapeutico, tra cui la paura. La relatrice, durante il suo intervento, ha sottolineato come nel nostro lavoro sia fondamentale avere coraggio nei momenti di incertezza. Ha invitato a riflettere attraverso una metafora: se vi capitasse di perdervi nel bosco, senza mappa, senza bussola, senza la possibilità di orientarvi grazie al sole o alle stelle, che cosa fareste? Sicuramente da qualche parte iniziereste a dirigervi, non rimarreste fermi. La stessa cosa vale nella pratica clinica, anche nei momenti di maggior smarrimento, dove non si capisce che cosa stia succedendo tra noi ed il paziente, bisogna avere il coraggio di andare avanti, di prendere una strada.

Roberto Cutajar, direttore dell’Istituto Sullivan di Firenze, ha trattato del senso di morte e di finitezza riscontrabile nella psicoanalisi clinica dei nostri tempi, prendendo come riferimento l’esperienza del “non me” riscontrabile nei pazienti gravi, già trattata da Sullivan nel 1953 nel suo “La teoria interpersonale della psichiatria”.

Daniela De Robertis, docente e supervisore della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione, ha intitolato il suo intervento: “Chi ha paura del grande lupo cattivo? Un nuovo sguardo su transfert, controtransfert e difesa”. Il lupo in questione è l’analista, decisione stilistica volta a sottolineare come talvolta l’analista può apparire violento e spaventare il proprio paziente. L’interpretazione stessa, pilastro della psicoanalisi classica, spesso risulta veicolo di freddezza e distanza e, più che aiutare il paziente, lo spaventa e lo allontana. L’analisi è in questo senso un atto transazionale, nel quale ogni interprete è attore (sia il paziente che l’analista). Per tale motivo, la relatrice ha incoraggiato i colleghi a monitorare sempre la risposta del paziente ad ogni intervento del terapeuta, per osservarne le ripercussioni e valutare in che modo proseguire la seduta, in una sorta di continua autoverifica del proprio operato. Ha incoraggiato, inoltre, ad effettuare interventi che vadano oltre il razionale, che accolgano ogni aspetto del paziente, dell’analista e dell’interazione.

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Psicoanalisi e paura - Report del XX Congresso dell'IFPS, Firenze 2018_1ok

Il panel successivo si è incentrato sul PDM 2, sul nuovo senso e la nuova sensibilità che ha acquisito la nuova edizione e ha visto come speakers ancora una volta Vittorio Lingiardi, che ha mostrato il lungo cammino dalla diagnosi psicodinamica iniziale all’attuale PDM 2, spiegando alcune nuove peculiarità, unitamente as Anna Maria Speranza, che si è concentrata soprattutto sulla diagnosi in infanzia e adolescenza.

Il pomeriggio dello stesso giorno, ci ha visto partecipi di un’intensa ed emotivamente coinvolgente supervisione di gruppo, il cui focus principale è stata la vulnerabilità dell’analista. Il caso di una paziente rapita, portato dalla Dott.ssa Rebecca Aramoni di Città del Messico, è stato supervisionato da alcuni membri del Postgraduate Supervisory Training Program (Valerie Tate Angel, Edith Gould, Iris Levy, Ona Lindquist, Nobuko Meaders). È stata un’occasione per riflettere su quanto alcuni dei nostri pazienti elicitino in noi intense paure, che a volte sembrano insormontabili perché vissute in prima persona dallo stesso analista (come nel caso Clinico presentato da Aramoni).

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Psicoanalisi e paura - Report del XX Congresso dell'IFPS, Firenze 2018

I nostri contributi – le giornate del 19 e 20 ottobre

Venerdì 19 ottobre, abbiamo partecipato presentando alcuni nostri lavori in due differenti panel.

Al mattino, in un panel del Benedetti-Conci Award sulle diverse facce della paura nella pratica clinica, il tema è stato trattato da diverse angolazioni: dalla trasformazione della paura in musica (S. Alanne) alle diverse forme di paura che possono sorgere nello stesso analista (A. Grasso e C. Asaro; A.B. Manzo Saiz; S. Salimen).

Nel nostro lavoro “The Fear of Staging: Observation on the Fears of a Young Psychoanalyst” (A. Grasso, C. Asaro) assumendo una metafora teatrale, la situazione psicoanalitica che si dispiega viene concepita come una rappresentazione dei conflitti e delle sofferenze che il paziente chiede allo psicoanalista di comprendere e alleviare. Terapeuta e paziente possono quindi essere visti come due attori che danno vita ad una “messa in scena” che coinvolge profondamente entrambi e che necessita di un giusto dosaggio fra illusione e realtà per essere terapeuticamente efficace.

L’analista è così portato a confrontarsi con un ruolo che tacitamente è chiamato ad impersonare che talvolta può vivere come assai scomodo, altre come estremamente gratificante. I timori derivanti da questa peculiare posizione possono spesso tradursi in reazioni difensive di vario tipo, che possono portare a smarcarsi troppo velocemente dal ruolo vissuto come imposto oppure, al contrario, a confonderlo come totalmente reale rispetto a ciò che sta accadendo, con tutti i rischi che questo comporta. Imparare ad accettare e tollerare il ruolo che inconsciamente il paziente ci chiede di “interpretare” diviene un traguardo che necessita di superare paure non solo semplicemente professionali, ma anche relative alla propria specifica storia personale e che quindi obbliga a confrontarsi con le proprie fragilità. Il beneficio che se ne può ricavare si può tradurre nella capacità di vivere una relazione maggiormente intima con il paziente e autenticamente terapeutica.

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Psicoanalisi e paura - Report del XX Congresso dell'IFPS, Firenze 2018

Nel pomeriggio, sempre all’interno del Benedetti-Conci Award abbiamo partecipato ad un panel avente come tema l’avvento delle nuove tecnologie, i cambiamenti e le paure che esse inevitabilmente portano anche nella stanza d’analisi. Negli ultimi anni, infatti, l’espansione esponenziale di internet e dei nuovi mezzi di comunicazione ha cambiato il modo di vivere ed intessere relazioni. È quindi imprescindibile, per noi psicoanalisti, domandarci in che modo questi strumenti possano cambiare anche la relazione terapeutica.

L’argomento è stato affrontato inizialmente a livello teorico, con contributi inerenti a modernità, e psicoanalisi (E. Fanelli, E. Giuli), alla paura di una stanza d’analisi vuota (D. Marino), alle nuove paure senza volto, derivate dal terrorismo (S. Nocentini).
Il nostro intervento, intitolato “Matilde: Skype as a protected mean to live a relationship” (R.S. Rossi, M. Ferro) si è concentrato soprattutto sull’utilizzo di Skype, sulle motivazioni dinamiche e relazionali alla base della scelta di intraprendere un percorso terapeutico con questo mezzo. Attraverso un caso clinico, abbiamo avanzato l’ipotesi che la paura della relazione possa essere una delle motivazioni all’origine dell’utilizzo di tale supporto. Oltre alla vignetta clinica, abbiamo affrontato la tematica anche da un punto di vista neuroscientifico: alcune ricerche neuroscientifiche sollevano dubbi in merito alla possibilità dei mezzi digitali di sostenere l’attivazione delle strutture limbiche, che sostengono i processi empatici e i circuiti dei neuroni specchio (amigdala, corteccia orbito-frontale, porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore). L’uso massivo di tali strumenti potrebbe portare al rischio di atrofizzare nel lungo termine questi pathways limbico-affettivi, indebolendo sempre più la capacità di riconoscere le proprie e altrui emozioni.

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Psicoanalisi e paura - Report del XX Congresso dell'IFPS, Firenze 2018

Oltre ad aver presentato i nostri lavori, abbiamo partecipato ad uno stimolante intervento riguardante l’invecchiamento degli analisti e le loro ansie a riguardo. Joyce Slochower e Sandra Buechler, entrambe “aging analysts” della scuola newyorkese, e pertanto coinvolte in prima persona nel discorso, hanno invitato la platea a riflettere in merito al pensionamento dell’analista. Come procedere? Decidere una “data di scadenza” e rispettarla quando la si raggiunge? Sfidare il tempo e lavorare fino al sopravvenire di una malattia stroncante o della morte? Nel caso della malattia, come comunicarlo ai propri pazienti? È possibile smettere di essere analisti? Data l’avanzata età media dei partecipanti, questo panel è stato molto sentito e partecipato e lo scambio di visioni, paure e perplessità è stato ricco e dinamico.

Sabato 20 ottobre lo abbiamo dedicato al esplorare le paure in infanzia e adolescenza, sia dei diretti interessati che dei genitori, partecipando ad una special activity che ha visto come Chair Fabio Vanni, della SIPRe di Parma, e come discussants Neil Altman (New York City), Mauro Di Lorenzo (Milano), Darius Leskauskas (Lituania), Carmine Parrella (Lucca).

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Psicoanalisi e paura - Report del XX Congresso dell'IFPS, Firenze 2018

I lavori si sono conclusi con un arrivederci al prossimo Forum, che si terrà a Lisbona nel 2020 e al quale siamo sicuri parteciperemo, dopo la stimolante esperienza di Firenze.

Idoli, identità e ruolo: come scegliamo i nostri idoli e perché ne siamo ispirati

L’arrivo di Ronaldo in Italia ha portato un entusiasmo incontenibile. Ufficializzato l’acquisto, la Juve ha guadagnato centinaia di migliaia di nuovi iscritti ai suoi canali social; la maglietta dell’attaccante portoghese, subito mesa in vendita alla ragguardevole cifra di 130 euro, è andata letteralmente a ruba tanto da mandare in tilt il sito di vendite per i troppi accessi

 

Come ci spieghiamo tutto questo?

Idoli sportivi: il caso Ronaldo

Cerchiamo di capire il motivo. Ronaldo è quello che possiamo definire un idolo. Nel mondo del pallone (che già sforna decine di idoli) è probabilmente il calciatore più forte del momento ed è sicuramente il più pagato. Ha vinto tutto. Per contro non appare come un predestinato. Non è nato ricco, i genitori non sono famosi, non era quello che possiamo definire un privilegiato. Sicuramente possiamo pensare che avesse delle doti calcistiche fuori dalla media ma il suo successo è anche frutto di un’abnegazione totale. Di lui sappiamo che si allena più degli altri, che conduce una vita regolare, che cura l’alimentazione in modo quasi maniacale. Tutto è subordinato all’obiettivo che vuole raggiungere: essere il numero uno.

Quando il successo è frutto di volontà e sacrificio ci risulta più facile identificarci perché siamo portati a pensare che tutto dipenda da noi e non da un destino più o meno benevolo.

Gli ideali sono come la stella polare, è irraggiungibile ma indica la retta via (Anonimo)

Ma perché sentiamo il bisogno di avere degli idoli? Perché ci capita di sentirci insoddisfatti di noi, di quello che facciamo, dei risultati che otteniamo. Abbiamo l’impressione di non essere all’altezza delle aspettative che gli altri, ma anche noi stessi, nutrono su di noi. Ci sentiamo inadeguati alle richieste che ci arrivano dal mondo che ci circonda. E’ la società, infatti, a dettarci i requisiti e i modelli di comportamento che vengono considerati “vincenti” e che vengono ricompensati con l’approvazione sociale. Possedere questi requisiti eleva a modello e suscita, in chi non li possiede, ammirazione mista ad invidia.

Idoli: come li scegliamo?

Smelser nel suo Manuale di sociologia, illustra dettagliatamente l’influenza della società sugli individui ed evidenzia come non tutti scelgano gli stessi idoli. Ciascuno infatti crea il suo modello sulla base di quelle che sono le sue necessità e gli obiettivi che si è posto. Esistono però delle condizioni comuni nelle relazioni che costruiamo con il nostro idolo e sono che questo deve basarsi su un duplice rapporto di vicinanza e di lontananza.

Come spiegato dal professor Mirieu, la vicinanza serve a farci sentire che abbiamo una base comune, i nostri valori, idee, aspettative devono essere in linea con quelle che percepiamo essere le sue. Solo in questo caso ci possiamo sentire autorizzati a credere che un giorno potremo arrivare ad essere come lui.

La lontananza, per contro, serve a motivare l’impegno che ci viene richiesto nel tentativo di diventare come lui. Pensare “posso riuscirci” ci da la spinta emotiva a metterci in gioco, ma la considerazione che “non ci sono ancora riuscito” ci spinge a moltiplicare gli sforzi per raggiungere l’obiettivo.

Non dobbiamo pensare che un idolo ci attiri solo per valori più o meno effimeri come fama, successo, soldi. Molto spesso in lui vediamo il paladino di ideali ben più nobili che sentiamo di condividere: amicizia, uguaglianza, impegno sociale… magari semplicemente perché l’abbiamo visto ospite a qualche evento benefico o per le frasi di qualche sua canzone, o per una scritta su una maglietta che ha indossato…

Va detto che spesso l’idea che ci facciamo dell’idolo non corrisponde alla realtà e lui/lei stesso/a stenterebbe a riconoscersi nell’immagine che ci simo costruiti di lui. Ma questo poco importa. L’importante è che risponda alle nostre necessità del momento. Che impersonifichi il suo ruolo di motivatore e di mentore.

Raramente si migliora se non si ha altro modello da imitare che sé stessi. (Oliver Goldsmith)

Idoli buoni e idoli cattivi

Da quanto detto finora, alla figura dell’idolo viene attribuita una valenza positiva: la sua presenza è in grado di stimolare e incoraggiare la nostra voglia di migliorarci e credere in noi stessi. Demetrio ci mette però in guardia sull’esistenza di due tipi contrapposti di idoli: gli idoli buoni, che sono di sostegno alla nostra crescita personale, e gli idoli cattivi che, al contrario, ci alienano dalla realtà.

Se con i primi stabiliamo una forma di imitazione positiva, il discorso cambia con i secondi, quando si mette in atto una forma di identificazione che rischia di diventare pericolosa. Ma vediamo di definire questi due concetti.

Si parla di imitazione quando il modello viene scelto consapevolmente e, in generale, presenta caratteristiche apprezzate dalla società. E’ una scelta che presuppone consapevolezza di quello che volgiamo ottenere e disponibilità ad impegnarci per raggiungere questo risultato. C’è una certa autonomia e fiducia in sé stessi. L’imitazione non riguarda il modello in quanto tale ma ciò che rappresenta.

Al contrario, nell’identificazione, si affrontano i conflitti emozionali attribuendo ad altri i propri pensieri, sentimenti o impulsi che spesso ci risultano inaccettabili. L’identificazione porta a fare dell’idolo il nostro unico interesse e la nostra unica fonte di gioia, trascurando tutto il resto e immedesimandoci a tal punto in lui da inorgoglirci per i suoi successi e soffrire per i suoi insuccessi come se fossero i nostri. E’ un rapporto sbagliato, vissuto come una forma di disimpegno che indica insicurezza e sfiducia in sé da parte di chi lo manifesta.

Qualunque sia il rapporto che abbiamo costruito con il nostro idolo, questo è nato, come abbiamo già visto, per rispondere ad una nostra esigenza. Con il passare del tempo le esigenze cambiano, cambiano i nostri interessi e i nostri obiettivi, così anche il nostro idolo ad un certo punto risulterà inevitabilmente superato. La sua funzione si esaurirà e il suo ruolo verrà meno. Tutti gli idoli sono destinati a morire, prima o poi, e quando cadono riusciamo generalmente a vederli per quello che realmente sono.

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