expand_lessAPRI WIDGET

Nascita di una madre (1999) di D.N. Stern e N. Bruschweiler-Stern – Recensione del libro

Quando nasce una madre? Prima che nascesse il mio piccolo avrei risposto come sicuramente tanti di voi: “Si diventa mamme quando si partorisce”. Dopo lo scorso anno, invece, la mia risposta è totalmente diversa.

Luisa Buonocore

 

Sono diventata mamma quando ho scoperto di essere in attesa, quando ho visto crescere la mia pancia, quando ho avvertito il primo movimento; sono diventata mamma quando ho dato alla luce il mio bambino e quando, finalmente, ho visto il suo viso; infine, ho raggiunto la piena consapevolezza di essere madre qualche settimana dopo la nascita del mio piccolo, quando finalmente, dopo una ripetuta serie di prove ed errori, ho trovato il modo giusto di cullarlo, di farlo calmare e addormentare sulle note di una famosa melodia brasiliana.

Il libro Nascita di una madre spiega l’essenza di questa risposta: si diventa mamme più e più volte in un percorso che non ha mai una vera e propria fine. Questo processo, che ha inizio in un momento qualsiasi della gravidanza, si configura con maggiore precisione con la nascita del bambino per poi perfezionarsi dopo i primi mesi di cure. Il libro parla dell’esperienza interiore delle donne che diventano madri, del costruirsi di una nuova identità, quella che Stern chiama “il senso dell’essere madre”. Gli autori descrivono la lunga gestazione e il delicato travaglio emotivo che accompagnano lo sviluppo di un nuovo assetto mentale che è unico e diverso da quello precedente e che accompagnerà la donna per tutta la vita. Il libro racconta l’esperienza delle madri di dover creare uno “spazio” nella loro mente, uno spazio che, in particolare durante il periodo della gravidanza e il primo anno di vita del piccolo, assorbe completamente pensieri, emozioni, fantasie, immagini, desideri e istinti. Questo spazio rimarrà una parte costante della propria identità: anche se assumerà una proporzione diversa a seconda dei momenti di vita, segnerà per sempre una parte nuova e diversa della persona.

Nascita di una madre: la struttura del libro

Daniel Stern, psichiatra e psicoanalista, insigne esponente dell’”Infant Research”, ha scritto questo libro insieme a due mamme: sua moglie Nadia, pediatra e psichiatra infantile, anche lei esperta di relazioni precoci, e Alison Freeland, giornalista specializzata sul tema delle funzioni genitoriali. Il libro nasce come step conclusivo di un percorso di studi iniziato con l’osservazione delle interazioni madre-bambino (Le prime interazioni sociali: il bambino e la madre, 1989), seguito da un’indagine più approfondita sulla vita del bambino (Il mondo interpersonale del bambino, 1987), che termina con l’esame del mondo interno della madre (La costellazione materna. Il trattamento psicoterapeutico della coppia madre-bambino). Nascita di una madre racchiude quindi le osservazioni dell’autore in un libro non solo per gli addetti ai lavori, quindi privo di tecnicismi, adatto alla divulgazione e ricco di esempi tratti da interviste effettuate dagli autori alle mamme.

Il libro è suddiviso in tre parti, che corrispondono a tre momenti fondamentali nel processo di costruzione del senso di essere madri. Si parte dalla gravidanza, vista come tempo di gestazione della nuova identità, durante la quale l’immaginazione della futura madre è interamente concentrata sul creare rappresentazioni di come sarà il bambino, su come sarà lei stessa come madre e su che tipo di padre sarà il compagno. Gli autori dedicano poi un capitolo alla nascita fisica del bambino e al suo ruolo nel far procedere la madre verso la costruzione psicologica del proprio senso di essere madri. Secondo gli autori, il parto, che segna il momento in cui una “donna diventa fisicamente madre”, accelera ma non determina del tutto la nascita psicologica della propria maternità. Una menzione particolare va al paragrafo “Al limite delle loro capacità” che spiega lo stato mentale del travaglio e le paure tipiche del parto e lo fa con autenticità ma con estrema delicatezza e con parole di incoraggiamento

Ogni donna sa istintivamente di essere impegnata in un compito di importanza capitale e sa anche che sono in gioco due vite, la sua e quella del bambino […] è necessario che il processo vada avanti per non perdersi e bisogna essere all’altezza del compito. Non c’è altra scelta. In questi momenti, oltrepassate i vostri normali limiti di concentrazione, di resistenza, di sopportazione del dolore e di determinazione.

La prima parte si chiude esaminando il momento in cui il bambino immaginato si incontra e si scontra con il bambino reale: gli autori evidenziano la forza e i pericoli delle fantasie successive al momento della nascita che spesso operano come profezie capaci di autoavverarsi.

La seconda parte, “È nata una madre” si concentra sui mesi successivi alla nascita del bambino e sui compiti basilari della maternità ovvero assicurare la sopravvivenza del bambino e creare una relazione intima con lui. Gli autori sottolineano come l’incontro con queste due responsabilità primarie di genitori permettano il passaggio finale nella costruzione del nuovo “senso di essere madre”. Si raccontano le paure e le fatiche tipiche di questi passaggi, evidenziando come l’attraversare tali momenti di difficoltà sia di per sé un passaggio obbligato per costruire un senso di autoefficacia materna: l’intima consapevolezza di aver affrontato la “prova di fuoco”, ovvero lo stato di affaticamento cronico tipico dei primi mesi di cure, grazie alla spinta delle paure relative alla salute e alla sicurezza del bambino, insieme all’amore che si prova per lui, rassicurerà la madre sulle sue capacità materne fondamentali e sarà una delle pietre miliari del suo assetto materno. Gli autori si soffermano anche sul bisogno di conferme e di incoraggiamento da parte delle altre madri. Secondo gli autori

La maternità è come un mestiere e tutte le principianti hanno bisogno di una fase di apprendistato con qualche tipo di modello o di guida […] il ruolo della guida non consiste semplicemente nel fornire consigli o informazioni, ma soprattutto nel creare un clima psicologico che vi faccia sentire sicure e fiduciose e vi incoraggi a esplorare le vostre capacità genitoriali.

Secondo gli autori di Nascita di una madre, le interazioni con le madri più esperte soddisfano pertanto bisogni diversi, quali quello di rassicurazione sulla propria adeguatezza nella cura, quello di apprendere i “trucchi del mestiere”, di ricercare approvazione e infine, di appartenenza a un gruppo.

Infine, l’ultima parte del libro “Adattamenti necessari” descrive i contesti in cui l’identità materna deve integrarsi con il resto della propria vita, prendendo in considerazione le varie sfide che una mamma può incontrare come quelle delle mamme di bambini prematuri o disabilità; o come le mamme che devono affrontare il problema del rientro nel mondo del lavoro. Si chiude con un paragrafo, forse troppo breve, dedicato alla paternità e agli adattamenti necessari a un uomo nella sua “nascita di padre”.

Nascita di una madre: a chi lo consiglio

Alle mamme in attesa e alle neomamme: qui possono trovare le parole e i concetti necessari per comprendere e dar voce a ciò che provano e per normalizzare rappresentazioni e sentimenti discordanti. Specialmente durante la gravidanza, le mamme vengono bombardate da materiale che spiega fasi e processi dello sviluppo del proprio bambino e dei cambiamenti del loro corpo mentre scarsa importanza viene data ai mutamenti del mondo interno. Questo libro compensa efficacemente questa mancanza.

Consiglio questo libro anche a tutti gli operatori che hanno il delicato e privilegiato compito di accompagnare la nascita di una mamma. In questo libro non troverete indicazioni circa i processi patologici che possono incorrere in questa fase sui quali l’attenzione di noi addetti ai lavori tende facilmente a concentrarsi. Questo libro racchiude la chiave per comprendere a fondo l’intricato mondo emotivo di tutte le neomamme, fatto di “normali” paure, ansie, desideri e incertezze che spesso non trovano spazio di ascolto. Capire il mondo interno, i compiti e le responsabilità psicologiche che vivono tutte le mamme può aiutare noi operatori a creare il senso di vicinanza, di sintonizzazione e supporto autentico di cui necessitano le donne in questo intenso, nuovo momento di costruzione della loro identità.

Social media e immagine corporea: l’effetto del guardare persone più attraenti

Uno studio della York University ha dimostrato quanto un gruppo di giovani donne abbiano una concezione peggiore della propria apparenza fisica e si sentano di conseguenza maggiormente affrante, dopo aver visualizzato una serie di fotografie, sui social media, di amici che considerano più attraenti di loro.

Adriano Mauro Ellena

 

Internet, e con esso i social media, ha decisamente rivoluzionato la vita quotidiana di moltissime persone. La semplificazione della comunicazione, la facilità d’accesso alle informazioni e la perenne connettività sono alcuni degli enormi vantaggi che queste tecnologie hanno apportato. Ma non è tutto oro quel che luccica. Così come ogni cosa ha un lato oscuro, anche i social media hanno un lato della medaglia un po’ meno “dorato”.

Social media e immagine corporea: lo studio su un campione femminile

È risaputo quanto i social media abbiano la capacità di confondere tra ciò che è reale e ciò che non lo è. I ricercatori dell’università di York hanno voluto indagare come il rapportarsi con alcune immagini online possa influenzare la percezione e la considerazione del proprio corpo in un gruppo di giovani donne.

La ricerca si focalizza su un campione di 118 donne di età compresa tra i 18 e i 27 anni. Criterio fondamentale: essere attivamente coinvolte nell’utilizzo dei social media. Il compito consisteva, nello specifico, nell’individuare su Facebook ed Instagram fotografie di persone che consideravano molto più attraenti di loro e successivamente, rispondere a dei quesiti circa la soddisfazione nei confronti dell’apparenza fisica e dell’immagine corporea.

I risultati hanno mostrato che queste giovani donne si sentivano maggiormente insoddisfatte dei loro corpi. Si sentivano peggio per il loro aspetto dopo aver guardato le pagine dei social media di qualcuno che percepivano come più attraente di loro. Anche se si sentivano male con se stesse prima di partecipare allo studio, in media si sentivano ancora peggio dopo aver completato il compito – afferma Jennifer Mills, professore associato presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di York.

Social media e immagine corporea: i rischi di un uso inconsapevole

L’esperimento è stato svolto nel seguente modo: sei settimane prima dell’esperimento è stato somministrato un questionario online alle partecipanti, nel quale veniva chiesto loro di esprimere, attraverso l’utilizzo di diversi item, la soddisfazione o meno per la propria apparenza fisica ed immagine corporea.

Le 118 partecipanti sono state divise in due gruppi:

  • gruppo sperimentale: i soggetti dovevano scegliere sui social network persone che consideravano più attraenti di loro
  • gruppo di controllo: ai soggetti veniva chiesto di osservare, sempre sui social, persone appartenenti alla propria famiglia e che non consideravano più attraenti di loro.

A seguito di ciò, veniva ri-chiesto loro di rispondere a dei quesiti sulla soddisfazione corporea.

I risultati mostrarono che non vi era alterazione della soddisfazione corporea dopo aver osservato i profili di persone della propria famiglia, cosa che invece accadeva osservando profili di persone che si consideravano più attraenti.

Questo studio è rilevante perché accende una lampadina su quanto sia importante educare i giovani su come l’uso dei social media potrebbe farli sentire e come ciò potrebbe anche essere collegato a diete rigorose e ferree, attività fisica eccessiva e disturbi dell’alimentazione e della nutrizione.

Disturbo ossessivo compulsivo made in Italy: la colpa italiana nella politica degli ultimi anni

Il disturbo ossessivo compulsivo si potrebbe chiamare una perversione del senso morale, di quella funzione che ci aiuta a non fare del male degli altri e a rispettare le regole. La colpa è l’emozione che si aziona quando il senso morale percepisce che il nostro comportamento o i nostri pensieri stanno violando uno di questi due territori della moralità.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 01 dicembre 2018

 

Gli psicologi hanno chiamato colpa altruistica quella che emerge quando violiamo la regola del non fare del male agli altri e colpa deontologica quella che compare quando si viola la regola suprema che occorre rispettare le regole.

Pare che sia il senso di colpa deontologico il principale responsabile del disturbo ossessivo compulsivo, quel disturbo che consiste nell’essere continuamente perseguitati da strani dubbi. Nell’immaginario comune, l’ossessivo è una persona che passa il suo tempo a controllare di aver chiuso l’uscio di casa o se le sue mani siano sufficientemente pulite, lavandosele spessissimo. Lady Macbeth che si lava le mani credendole sporche del sangue del re Duncan ne è un esempio conosciuto. E proprio l’esempio di Lady Macbeth suggerisce che questi dubbi abbiano un’origine morale. La colpa di avere ucciso il re si riverbera nel dubbio della Lady di essere sporca, per di più di sangue affinché sia chiara l’origine morale dei dubbi.

Il paziente ossessivo soffre di una sorta di responsabilità gonfiata, come la hanno definita gli studiosi Paul Salkovskis e Francesco Mancini, un senso morale eccessivo che lo rende estremante sensibile a qualunque indizio, soprattutto se immaginario e mentale, di poter essere colpevole. E sembra che tale senso di colpa sia più di natura deontologica, ovvero il timore di aver violato un regola, che altruistico. Il senso di colpa deontologico è quello che ci difende dall’esclusione dal gruppo sociale, quello che garantisce la nostra appartenenza al consorzio civile. Chi viola le regole è espulso. E non si tratta solo di regole di convivenza ma anche di riconoscimento reciproco, di marcatori di appartenenza. Ecco la ragione dei divieti alimentari come quello di mangiare maiale o la prescrizione di mangiare magro. Servono ad assicurare l’appartenenza a un certo gruppo. E l’appartenenza dipende dalla condivisione di alcuni comportamenti, il mos dei latini, radice linguistica dei termini moralità e senso morale.

È possibile che la società italiana sia affetta da un’analoga malattia del senso morale? In altri articoli si adombra qualcosa che assomiglia a uno stato ossessivo, una tumefazione della moralità che la gonfia a dismisura dal 1994 senza che questa crescita sia diventata un vantaggio per la nazione, una maturazione. Al contrario, è diventata uno stato patologico. Come l’ossessivo sospetta continuamente di se stesso temendo di aver commesso qualcosa di sbagliato e continuamente controlla la sua buona condotta, ad esempio ispezionando tutte le porte che si lascia alle spalle o ripercorrendo più volte il tragitto fatto in auto dall’ufficio a casa sua nel terrore di aver investito qualcuno inavvertitamente, oppure continuamente espia recitando paternostri le possibili bestemmie distrattamente sfuggitegli anche solo nel pensiero, così l’Italia sospetta continuamente di se stessa, perseguitandosi dal 1994 senza posa e condannando alla gogna chiunque osi presentarsi alla ribalta della vita pubblica.

Più che le azioni, l’ossessivo condanna tutti i suoi pensieri, tutti potenzialmente colpevoli. E così l’Italia ormai condanna tutti al sospetto, tutti colpevoli prima ancora di aver commesso il fatto. E come l’ossessivo, in questa maniera si condanna a non pensare mai e ad agire ancor di meno, perché ogni pensiero potrebbe essere colpevole e ogni azione ancor peggio, così l’Italia si condanna all’inazione e alla sterilità di progetto, progetto politico e sociale e perfino riproduttivo forse, paralizzata dal timore di poter sbagliare, di poter violare, di poter fare del male.

Perché meravigliarsi allora delle recenti vicende del padre di Di Maio? Colpisce la meccanica ripetitività dei fatti: il padre di Renzi, il padre della Boschi e ora il padre di Di Maio. Ogni giudice di oggi è destinato ripetere la colpa dell’imputato che ieri ha condannato, così come tutti i pensieri degli ossessivi sono destinati a essere messi in dubbio da quelli successivi, malgrado ogni controllo. Ho chiuso i rubinetti? E se fossero rimasti aperti, cosa accadrebbe? Magari s’allaga tutto e qualcuno morirebbe. Meglio diffidare, meglio sospettare, meglio controllare. Così come in Italia vogliamo continuare a sospettare di noi stessi, a diffidare di tutti e a controllare tutti.

Con un’unica differenza. L’ossessivo sospetta solo di se stesso e dei suoi pensieri. Quando questi dubbi ossessivi si spostano dalla mente alla società e alla politica, si sospetta non più di pensieri ma di persone. E se si tratta di persone la lotta da mentale diventa fisica, o almeno potrebbe diventarlo. Speriamo bene. Per ora non è stato così.

Euforia (2018) di Valeria Golino: quando la malattia bussa inaspettatamente alla porta di casa – Recensione del film

Ettore e Matteo sono due fratelli caratterialmente molto diversi. Cauto, riservato e introverso il primo; eccentrico, spigliato e socievole il secondo. Ettore insegna alle scuole medie nella città natale di provincia, Matteo fa l’imprenditore a Roma. La scoperta della malattia del primogenito (Ettore), permette ai due di riavvicinarsi e rafforzare il loro legame.

 

Euforia è anzitutto un film delicato.

La Golino affronta realisticamente il tema della malattia, senza patetismi né retorica, attraverso uno sguardo ironico, tenero e profondamente umano.

Euforia: quando la morte entra in famiglia

Il film descrive quei meccanismi familiari di protezione – e di inganno – che si innescano quando la morte bussa inaspettatamente alla porta di casa e tutti lo sanno, ma nessuno vuole ammetterlo. E così, Matteo – che sente di dover animare chiunque lo circondi – decide di non fare sapere a nessuno che Ettore ha un tumore al cervello e una prognosi infausta. Si inventa una piccola cisti da asportare. Non togliere speranza al fratello (e agli altri familiari) diventa la sua ‘missione’ e al tempo stesso la sua condanna.

Il suo tentativo di fare sembrare tutto normale è a tratti irritante ed eccessivo. Ma maledettamente umano. Ha paura Matteo. Ma non se lo può dire. Continua la sua vita sfarzosa e mondana, all’interno della quale tenta di coinvolgere anche Ettore: scherza, ride, esce, fuma, si droga, è ossessionato dal suo corpo.

E’ sfacciato e a tratti inopportuno. Ha la necessità di essere provocatorio e cinico, per non concedersi di entrare in contatto con il suo mondo emotivo.

Euforia: la difficile accettazione della malattia

Sembra non cogliere nulla, ma gradualmente si accorge che il fratello maggiore inizia a incespicare, a sbagliare i vocaboli, a far cadere gli oggetti. Le sue bugie cominciano a crollare, la tristezza inizia a farsi sentire.

Ettore – dal canto suo – appare impassibile, impermeabile, evitante. Si sottopone passivamente alle cure prescritte dai medici. Non vuole relazionarsi con nessuno, neanche con il figlio. Sembra lasciarsi completamente vivere. E finge – o forse no – di credere che il suo disturbo sia curabile.

Come in una danza, si fa completamente guidare dal fratello minore, lasciando a lui il ruolo principale. Sempre pronto a fare un passo indietro, a essere la spalla. Rimanendo spettatore anche della sua malattia.

La stretta vicinanza tra i due fratelli però, aiuta a far emergere le autentiche emozioni di entrambi, attraverso momenti di scambio taglienti e a tratti feroci.

Ettore pertanto a un certo punto fa sentire la sua voce e pretende di essere ascoltato. Arrabbiato, esorta Matteo a smettere di mentire. Gli dice che non può decidere per la sua vita e che, soprattutto, non gli può impedire di avere paura.

Euforia è un film autentico che non indugia a mostrare le fragilità e le inconsapevolezze di ognuno. I personaggi sono profondamente umani e pertanto lo spettatore li sente vicini, si emoziona insieme a loro, alla fine non può che avvertire un sentimento di profonda tenerezza ed empatia nei confronti di tutti i protagonisti.

 

EUFORIA – GUARDA IL TRAILER:

Vincere le ossessioni. Capire e affrontare il disturbo ossessivo compulsivo (2018) di G. Melli – Recensione del libro

Affrontare il disturbo ossessivo compulsivo non è affatto semplice. Le ossessioni, sia a livello di pensiero che di comportamento, possono far parte, in una certa misura, del quotidiano di tutti noi. A chi non è mai capitato, almeno una volta, di controllare ripetutamente di aver chiuso il gas o la portiera della macchina? Quando, però, le ossessioni assumono la forma di un malessere che interferisce pesantemente con la nostra vita può diventare estenuante farci i conti.

 

Il testo Vincere le ossessioni dello psicoterapeuta cognitivo comportamentale Gabriele Melli rappresenta un manuale di auto aiuto concepito con serietà: non offre ricette facili e vaghe, ma si basa su evidenze scientifiche, fornendo informazioni puntuali e proponendo strategie di intervento mirate.

Il libro è pensato per essere utilizzato sia da soli che con il supporto e la guida di un terapeuta.

Vincere le ossessioni: struttura del libro

Il libro è suddiviso in tre sezioni. La prima sezione presenta una panoramica rispetto alle caratteristiche del disturbo ossessivo compulsivo; vengono spiegate in modo preciso e semplice, comprensibile anche ai non addetti ai lavori, le premesse teoriche su cui si basano i protocolli di intervento.

La seconda sezione costituisce il programma di auto aiuto vero e proprio, fondato sui presupposti della terapia cognitivo comportamentale, mentre la terza ed ultima sezione contiene una serie di indicazioni utili rivolte non solo alle persone che soffrono del disturbo, ma anche ai familiari.

Il testo include una parte specificamente rivolta ai familiari perché il loro supporto è importante per aiutare la persona ad affrontare il disturbo; in questo quadro dobbiamo tenere presente che, solitamente, le persone che soffrono di ossessioni fanno ai familiari e agli amici costanti richieste di essere rassicurati rispetto alle proprie preoccupazioni. Il conforto momentaneo che nasce dall’aver ricevuto delle conferme può, a lungo termine, rafforzare, invece che far diminuire, l’intensità del malessere.

Può accadere che le persone, ormai abituate a convivere con i propri comportamenti ossessivi, abbiano scarsa motivazione ad affrontare il problema; come sempre ammettere di avere un problema è il primo passo per risolverlo. Chi soffre di disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) tende anche ad evitare attivamente quelle situazioni che innescano le ossessioni, per cercare di controllare i pensieri ossessivi e di non essere costretto a compiere i rituali “scaccia ansia”.

Vincere le ossessioni: le manifestazioni del disturbo

Nella pratica clinica le modalità più frequenti in cui il disturbo può manifestarsi sono le seguenti:

  • Disturbi da contaminazioneossessioni e compulsioni che hanno per tema la paura di essere contagiati o contaminati da sostanze tossiche o nocive; per scongiurare questo timore vengono messi in atto rituali di lavaggio e pulizia;
  • Disturbi del controllo – coazione ad effettuare controlli ripetuti, senza reale necessità, per prevenire incidenti o eventi indesiderati;
  • Superstizione eccessiva – pensieri superstiziosi secondo i quali compiere o meno determinati gesti, pronunciare o non pronunciare alcune parole o vedere o non vedere certe cose sia determinante per il verificarsi di specifici eventi indesiderati;
  • Ordine e simmetria – incapacità di tollerare che gli oggetti siano posti in modo anche minimamente disordinato o asimmetrico;
  • Accumulo/accaparramento – bisogno di conservare e accumulare oggetti inservibili, privi di valore anche sentimentale e di reale utilità pratica;
  • Ossessioni pure – pensieri o immagini in cui la persona attua comportamenti che considera indesiderati e inaccettabili, privi di senso, pericolosi o socialmente sconvenienti;
  • Compulsioni mentali – rituali mentali (contare, pregare, ripetersi frasi, formule, pensieri positivi o numeri fortunati), per scongiurare la possibilità che si verifichino eventi temuti.

Vincere le ossessioni: come capire quando farsi aiutare

Il programma di trattamento proposto inizia con una prima fase di autovalutazione, attraverso la consultazione di tabelle molto chiare ed esaustive; l’autovalutazione è finalizzata a chiarire sia la natura dei sintomi che il loro livello di intensità, in modo da capire se sia possibile trattare il problema da soli o se, invece, sia il caso di consultare un terapeuta.

La differenza tra una preoccupazione negativa normale, per quanto inverosimile e un pensiero ossessivo non è nella sua natura, ma nella frequenza con cui si ripresenta alla mente; la persona, dato che non riesce a sopportare la rappresentazione mentale del rischio, mette in atto dei comportamenti per scongiurarne il verificarsi e per abbassare l’ansia. Il sollievo momentaneo causato dall’attuazione dei rituali induce la persona a metterli in atto sempre più spesso, diventandone dipendente. Si innesca un circolo vizioso in cui la provvisoria diminuzione dell’ansia a breve termine produce un innalzamento dell’ansia a lungo termine.

Il programma di trattamento non può, di conseguenza, che comportare l’esposizione, in misura graduale e sufficientemente tollerabile, a stimoli che evocano un certo grado di ansia. Alla luce di queste premesse il lettore viene addestrato a comporre il proprio personale programma di trattamento, selezionando gli stimoli cui esporsi e formulando obiettivi realistici e affrontabili.

Nella parte finale, il libro Vincere le ossessioni offre anche, per chi volesse ulteriormente approfondire, una bibliografia di auto aiuto, dei siti da cui attingere ulteriori informazioni e i riferimenti dell’Associazione Italiana Disturbo Ossessivo-Compulsivo (AIDOC).

Nuove conferme di maggiori rischi di depressione e suicidio connessi alle terapie di conversione sui bambini LGBT

I soggetti sottoposti a terapie volte a cambiare il proprio orientamento sessuale sembrano riportare i livelli più alti di depressione e comportamenti suicidari.

 

Inoltre, i soggetti sottoposti a questo tipo di terapie riportano bassi livelli di autostima, sostegno sociale, soddisfazione della loro vita e altre problematiche connesse come un basso livello di istruzione e reddito.

Secondo i ricercatori di un studio condotto dall’Universiy State di San Francisco gli sforzi dei genitori, terapeuti e altre figure che promuovono una conversione dell’orientamento sessuale contribuirebbero a far insorgere svariati problemi di salute e dell’adattamento in età adulta.

Tra i partecipanti a questo studio, più della metà dei giovani LGBT sia bianchi che latini di età tra i 21 e i 25 anni, hanno riferito di aver sperimentato degli sforzi esterni al fine di cambiare orientamento. Di questi il 21%, ha riferito esperienze specifiche da parte dei genitori e caregiver, il 32% invece anche da parte di terapeuti e leader religiosi. Per quanto riguarda il tasso di tentato suicidio si hanno alti livelli, più che raddoppiati rispetto a soggetti che non hanno sperimentato nessun tipo di pressione al cambiamento, in più coloro che appartengono a quel 32% riportano dei tassi triplicati. Lo stesso andamento si ha per i livelli di depressione.

Inoltre sono state indagate alcune variabili come il tasso di religiosità e lo status socioeconomico, riscontrando come chi vive in una famiglia molto religiosa o con un reddito basso potrebbe sperimentare, con una probabilità più alta, spinte da parte dei familiari alla conversione di orientamento sessuale. Anche se i familiari cercano di “proteggere” i propri figli con questi comportamenti di rifiuto, non fanno altro che minare l’autostima ed aumentare comportamenti autodistruttivi.

In conclusione

Gli autori di questo studio hanno messo in evidenza la centralità del ruolo giocato dai genitori in questo fenomeno, per questo hanno sviluppato un modello di sostegno familiare che cerchi di integrare la salute dei più giovani, e che prevede anche una assistenza domiciliare.

ACT e REBT nel trattamento del dolore cronico: assonanze e dissonanze

In questo articolo si vuole brevemente accennare ad un possibile significato condiviso di dolore cronico come malattia e non mera condizione psico-fisica. Ciò che verrà affrontato più approfonditamente è come sotto al cappello delle tecniche CBT ve ne siano due che cercano di affrontare il dolore in modo specifico.

Open School

 

Dolore cronico: è possibile una definizione condivisa?

Una premessa prima di parlare di dolore cronico. L’organizzazione mondiale che si occupa dello studio del dolore è l’International Association for the Study of Pain (IASP) che ha dato la definizione di dolore maggiormente condivisa e citata in modo più o meno completo in molti articoli. Per evitare ridondanza di informazioni presenti in molte altre pubblicazioni, preme ricordare solo alcuni punti: il dolore è un’esperienza soggettiva, non è sempre legato ad un danno tissutale, vi è una connotazione emotiva concomitante e la memoria di esso può condizionare i nostri comportamenti (IASP, 1979).

Le dimensioni sono quindi multiple, ma non le modalità per classificare il dolore che si basano su criteri eziopatogenetici, – quindi sulla fisiopatologia – e su criteri temporali – cioè sulla sua durata. Nell’approccio clinico di uno psicologo si utilizzano soprattutto questi ultimi parametri suddivisibili in tre macro tipologie (non certamente omnicomprensive): acuto, cronico, totale. Per motivi di spazio mi limiterò a trattare solamente il dolore cronico che ha un’insorgenza lenta, persistente, ricorrente per un periodo uguale o superiore a 3 mesi (qui l’OMS afferma invece “oltre la normale guarigione”), è per lo più disconnesso dall’evento che lo ha generato ed è indipendente dal disturbo così come dall’intensità dello stimolo (McGrath e Finley, 1999). Non ha funzione protettiva e la sua persistenza condiziona il sonno e uno stile di vita normale. In alcuni casi può essere definito essenziale o idiopatico cioè che sussiste senza cause apparenti come ad esempio nelle cefalee (Pappagallo, 2005).

Nel trattamento multidisciplinare del dolore e del dolore cronico, un ruolo centrale è rappresentato dalla psico-educazione e dalla psicoterapia quando è cronico e condiziona la qualità della vita e le relazioni sociali. L’approccio psicoterapeutico più consolidato e con maggiori evidenze di efficacia è quello sotto il cappello delle CBT con una durata dell’intervento variabile a seconda della sede/entità del disturbo e dei problemi concomitanti (Glombiewski et al, 2018). Primariamente non viene trattato il dolore tour-court, quanto tutto quello che è connesso ad esso (qualità di vita, comportamenti, cognizioni, emozioni), perciò questa premessa è fondamentare per contestualizzare che il trattamento psicologico è parte di una presa in carico a più mani e competenze.

Recentemente è stato indagata come l’accettazione (flessibilità psicologica) riferita alla condizione di dolore, medi i cambiamenti nei risultati nel tempo in un programma di trattamento basato sulla CBT e come essa si rapporti ad altre tre variabili poste come potenziali mediatori nella CBT standard: controllo sulla propria vita, sofferenza affettiva e supporto sociale (Åkerblom et al. 2015). La direzione attuale sembra andare verso l’integrazione degli strumenti propri della CBT classica con la DBT e l’ACT (Carlson, 2014).

Dolore cronico e ACT

Principi sottesi all’ACT e modalità di approccio verso il dolore ed il dolore cronico.

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), fa parte degli approcci cognitivo-comportamentali mindfulness-based, è una terapia ben consolidata che per certi versi rivoluziona la psicoterapia con il concetto di “lasciare spazio” piuttosto che il combattere contro.

Sottolinea la necessità dell’accettazione (attiva, presente, consapevole) del dolore al fine di migliorare il funzionamento dell’individuo. Secondo l’ACT il dolore è simile a ciò che accade se ci trovassimo intrappolati nelle sabbie mobili: tanto più si lotta, tanto più si verrà risucchiati all’interno. Su questa considerazione viene consigliato ai pazienti (anzi è più un assunto) di entrare in contatto, di prendere confidenza, di dare spazio al proprio dolore affinché si riesca ad essere nuovamente liberi, cercando quindi di imparare a vivere con il dolore piuttosto che lottarci (Dahl & Lundgren,2014).

Il linguaggio è centrale nell’approccio ACT, ma l’informazione è solo una parte, mentre contano molto di più le connessioni, il come queste vengono create con o senza il linguaggio (quindi con i pensieri ed i comportamenti – ed i rinforzi nel mantenimento del comportamento derivante dal dolore sono stati ben studiati e teorizzati da Fordyce nel lontano 1976). Ecco che gli assunti della teoria di base RFT (Relational Frame Theory) vengono in aiuto nel modellare cognizioni e comportamenti attraverso l’impiego di analogie e metafore (Dahl & Lundgren,2014).

Lo studio dei 6 processi centrali – il modello hexaflex – viene proprio utilizzato in tal senso, ovvero per evidenziare sei abilità psicologiche necessarie a scardinare l’inflessibilità psicologica: accettazione, defusione cognitiva, consapevolezza del momento presente, contatto con sé come contesto, formulazione dei valori e azioni impegnate (Hayes, Strosahl, & Wilson, 2012). Dal punto di vista clinico si tende ad usare invece un diagramma differente per interagire con i pazienti (la matrice) che permette di “collocare le storie di vita”, cogliendo quelle parole che possono diventare parte di una storia che tende a mantenere bloccate le persone, creando connessioni (risposta relazione derivata). In questo modo, tramite la matrice, si aiuta il paziente a scegliere come rispondere e comportarsi, facendogli notare la fattibilità e quindi gli aspetti funzionali per poter vivere nonostante il dolore (Schoendorff, Olaz & Polk, 2017).

Di fondo però l’ACT non vuole occuparsi del dolore di per sé, quanto della sofferenza, cioè – secondo i teoretici di questo approccio, di quel dolore sporco che amplifica il disagio ed il malessere causato dal dolore stesso, dato che la sofferenza è insita nell’esperienza delle persone e che sono i processi psicologici ad essere potenzialmente distruttivi esacerbando la sofferenza stessa (Dhal, Wilson & Nillsson, 2004, Hayes, 2011). Tutto questo sempre in un’ottica contestuale (l’ACT ha le sue radici filosofiche nel contestualismo funzionale) in grado di promuovere una maggior flessibilità psicologica, ovvero accettare le sensazioni dolorose, i pensieri ed i sentimenti ad esse connesse, con un’attenzione focalizzata sulle opportunità offerte dalle situazioni attuali piuttosto che rimuginare sul passato o catastrofizzare sul futuro. Il comportamento quindi è focalizzato sulla realizzazione dei valori piuttosto che sul controllo del dolore (McCracken & Vowles, 2014).

Una recente metanalisi (Hughes et al., 2017) che ha incuso 11 trial basati sull’ACT ha evidenziato che essa è più efficace rispetto ai gruppi di controllo che non svolgevano alcun trattamento oppure a quelli standard (usuali per la clinica). In particolare è stato trovato un effetto medio-ampio per ciò che riguarda la flessibilità psicologica e l’accettazione del dolore (centrali nell’ACT), ma non vi sono stati ulteriori effetti significativi rispetto ad altri trattamenti attivi. Come limite principale evidenziato anche in un’altra metanalisi (Veehof et al, 2016) vi è la qualità della progettazione e conduzione degli studi, per cui è importante migliorare i disegni al fine di valutazioni più consistenti.

Un ultimo punto da ricordare sono le modalità di intervento sul dolore cronico: quelli orientati all’ACT prendono di mira i processi spesso predominanti del linguaggio e del pensiero nelle loro inutili influenze sul comportamento. I metodi sono basati sull’esposizione, esercizi di consapevolezza, esercizi di concentrazione sensoriale, giochi di ruolo, prove dirette e metodi che usando il paradosso o la confusione possono operare in questa modalità “esperienziale” prevalentemente non verbale basata sull’esperienza. Anche le metafore sono usate frequentemente (Yu & McCracken, 2016).

Dolore cronico e REBT

Perché la REBT tra le tecniche CBT? La Terapia Razionale Emotiva Comportamentale – REBT – è il fondamento di tutte le terapie cognitivo-comportamentali (Jorn, 2015). Nel dolore cronico, la Terribilizzazione e la Catastrofizzazione sono credenze irrazionali che incrementano il dolore e portano ad esiti inferiori delle terapie mediche (Quartana et al., 2009).

Non tutti i teorici della REBT concordano nel definire le credenze irrazionali centrali, ma vi è un generale accordo nell’affermare che si innescano su tre categorie: Amore e Approvazione, Successo e Realizzazione, Percezione di Sicurezza (Smith, Herman & Smith, 2015). Se ne capisce meglio la ragione se pensiamo che gli obiettivi fondamentali che una persona si pone per la propria vita includono il desidero razionale di sopravvivere, essere felici e la relativa libertà dal dolore (Ellis, 1991) (quest’ultimo riferito al dolore emotivo da Ellis e non quello fisico).

Sin dalle prime formulazioni della REBT (RET- Ellis 1962), è stata sottolineata l’importanza del ruolo del paziente nel creare il proprio disturbo emotivo e quindi della necessità di compiere sforzi attivi da parte sua per superare e cambiare in modo permanente convinzioni e comportamenti disturbanti. A tal fine, i pazienti sono incoraggiati a incrementare la consapevolezza interna sul fatto che: (a) le credenze irrazionali sulle avversità causano la maggior parte dei disturbi emotivi; (b) il mantenimento di questi disordini è in gran parte causato dalla ripetizione di queste convinzioni; (c) la riduzione o l’eliminazione di questi dolori emotivi richiedono un lavoro coerente e costante.

Alcuni studi hanno dimostrato che la disabilità derivata dal dolore e l’esperienza del dolore stesso è moderata dalle convinzioni negative e irrazionali e dai relativi comportamenti compensatori (Ehde et al. 2014; Komasi et al., 2016). Quindi se l’adattamento alla disabilità (ricordiamoci che il dolore cronico è esso stesso malattia che può portare ad una disabilità derivata) si muove lungo un continuum, l’implementazione di comportamenti di autogestione va nella direzione di migliorare l’adattamento alla disabilità (Roditi & Robinson, 2011).

Nell’interessante paper di Jorn (2015), viene ipotizzato un nuovo modello dove le basi teoriche della REBT sono state adattate al campo della gestione del dolore cronico per cercare di chiarire i punti salienti del desiderio umano di essere liberi dal dolore (Terapia Razionale Emotiva riferita alla salute definita come REBT-H). Viene contestualizzato il dolore come un insieme degli aspetti emotivi e fisici, affermando che gli outcomes medici mediocri e la disabilità sono probabilmente generati in gran parte dalla credenza irrazionale di dover stare bene a tutti i costi. Questa modalità genera a sua volta la Terribilizzazione e probabilmente un bassa tolleranza alla Frustrazione circa l’esperienza del dolore, che a sua volta si traduce in comportamenti di autogestione maladattivi, scarsi esiti medici e aumento della disabilità, creano così un circolo difficile da spezzare.

La Rational Emotive Behavior Therapy-Health (REBT-H), nella cura al dolore cronico, si pone quindi l’obiettivo generale di riuscire ad ottenere una miglior concettualizzazione dell’adattamento del paziente, mostrando allo stesso i suoi punti di forza e debolezza concorrenti alla disabilità e all’autogestione nei termini di uno specifico quadro cognitivo-comportamentale. Il coinvolgimento attivo ed il lavoro da parte del paziente fanno parte di questo modello di cura che sostiene la responsabilità in prima persona del percorso volto ad una miglior gestione del dolore.

Dolore cronico: accordi e limiti tra terapie

Va tenuto a mente che, per ogni terapia, il sollievo totale dal dolore è un obiettivo irrealistico ed i trattamenti dovrebbero concentrarsi sul miglioramento del funzionamento nonostante il dolore (Turk et al., 2011).

Come detto, il concetto di accettazione, in particolare di un sé incondizionato, dell’altro e della vita, è un forte valore filosofico a fondamento degli interventi terapeutici in REBT (Ellis 1962; Ellis e Dryden 1987), e anche dell’ACT (Harris, 2011).

Va però fatta una doverosa distinzione per evitare confusione nei due approcci. L’accettazione incondizionata non era un concetto unico per Ellis (2001) quanto relativo, dato che considerava l’assolutismo come l’errore di fondo in grado di generare una valutazione globale. L’accettazione incondizionata, nella REBT, implica la sospensione delle valutazioni assolutistiche sull’intero sé o su quello di un altro o della vita. Questa sospensione comporta la consapevolezza cosciente delle credenze irrazionali e quindi, l’obiettivo finale della REBT è che i pazienti realizzino cambiamenti profondi e duraturi adottando atteggiamenti flessibili e preferenziali sugli obiettivi, adottando un atteggiamento di accettazione incondizionata (Ellis, 2001).

L’ACT sottolinea l’accettazione del dolore in funzione della riabilitazione, non tanto in termini di guarigione, quanto di restituzione di una vita piena ovvero quello “spazio nel quale poter fare qualcos’altro” (Presti, 2017), muovendosi sulla base dei propri valori. In pratica nell’ACT viene sottolineata questa scelta di poter fare diversamente in quel luogo virtuale che sta tra lo stimolo e la risposta, perché quest’ultima, indipendentemente dall’antecedente, può essere diversa.

In conclusione, mentre alcuni esperti hanno sostenuto che l’ACT e la REBT hanno sovrapposizioni significative e che ACT può essere semplicemente un’altra tecnica REBT (Ellis 2005; Velten 2007), altri affermano che le abilità che l’ACT tende ad incentivare sono più focalizzate, e che possono essere divise in due processi concomitanti, vale a dire consapevolezza e accettazione da una parte e cambiamento di impegno e comportamento dall’altra (Hayes, Pistorello, & Levin, 2012). Forse si potrebbe ragionare in termini di strutturazione ed evidenze specifiche: da un lato la REBT è più protocollare ma vi sono poche evidenze nel suo uso specifico nel trattamento del dolore e del dolore cronico mentre l’ACT si adatta maggiormente alle fasi evolutive della persona. Sono certamente necessari ulteriori serio disegni RCT per supportare la mole sempre maggiore di studi a favore dell’efficacia del trattamento dell’ACT e approfondire gli elementi dell’intervista biopsicosociale proposta da Jorn (2015) basata sul modello REBT per un miglior inquadramento iniziale.

Come in uno specchio (1961) di Ingmar Bergman – Recensione del film

Il film di cui vorrei parlarvi oggi risale al 1961. Il regista è Ingmar Bergman e il film si intitola Come in uno specchio. Il film ruota attorno alla schizofrenia della protagonista femminile Karin e al rapporto che intrattengono con lei il marito Martin, il fratello Minus e il padre David.

Lorenzo Ricciuti

 

Il marito che si autodefinisce una “persona chiara e semplice” la ama profondamente ed è disposto a sopportare il malessere che attanaglia la moglie.

Come in uno specchio: la malattia coinvolge tutta la famiglia

Il fratello Minus è impotente spettatore degli attacchi a mano a mano sempre più forti che affliggono Karin. David, il padre, è sicuramente il personaggio più interessante. C’è un cambiamento molto forte in lui, infatti se inizialmente parla di sé come di un uomo totalmente dedito al lavoro, al successo, alla fama e totalmente avulso dalla realtà familiare, poi invece sarà costretto a guardare negli occhi la realtà, ossia la malattia della figlia.

Altra questione molto interessante è il crescere della sintomatologia in Karin. Veniamo a conoscenza della malattia di cui lei soffre dal dialogo fra il padre e il marito. Successivamente Karin rimane sola con il fratello e in un momento di lucidità racconta al fratello le immagini mentali che affollano la sua mente, come nell’affermazione

Io passo attraverso la parete [..] A volte provo un’ansia irrefrenabile in cui la porta si aprirà, come se Dio stesso debba apparirci.

A quel punto si manifesta la prima crisi che la porta a rimanere rannicchiata su se stessa dentro il relitto di una nave preda di una lotta logorante contro le sue immagini mentali. Sarà lei stessa a chiedere al padre di essere ricoverata, perché come dice lei dopo essere tornata lucida,

Bisogna scegliere, o si sta in un mondo o nell’altro.

A questa prima crisi, ne seguirà un’altra, dove lei, seduta dentro una stanza, è preda delle sue visioni, che la porteranno a gridare e a divincolarsi furiosamente. Il marito deciderà allora di ricoverarla.

Come in uno specchio: l’amore oltre la psicopatologia grave

I critici parlano del problema religioso presente nel film Come in uno specchio di Bergman ossia dell’assenza-presenza di Dio. Non sono particolarmente d’accordo, perché il problema religioso rappresenta una parte minoritaria del film: in sostanza quella in cui Karin ha gli attacchi di schizofrenia.

A mio modesto parere sono molto più significativi i dialoghi e le relazioni che i vari personaggi costruiscono fra loro. Mi sembrano centrali l’amore e la premura che il marito prova per Karin, che fanno tutt’uno con l’affetto che il fratello Minus prova per lei, ascoltandola e cercando di capire i contenuti mentali di Karin. Fino alla confessione del padre che per la prima volta apre gli occhi davanti al dolore della figlia. L’amore è il vero collante del film, ciò che dà forza e contenuto a tutta l’opera di Bergman.

Non mi resta che augurarvi buona visione.

Stop all’ansia sociale (2018) Un libro che raccoglie alcune utili strategie per affrontare la timidezza – Recensione

Stop all’ansia sociale è un manuale dedicato principalmente a coloro che soffrono di ansia sociale. Gli autori, esperti in ricerca e trattamento del disturbo, ripercorrono insieme al lettore gli step che vengono da loro proposti in seduta ai pazienti.

 

Il disturbo d’ansia sociale è quel disturbo che spesso viene confuso con una forte timidezza, portando le persone a evitare contesti sociali o a viverli con un fortissimo disagio, temendo il giudizio altrui.

Per gestire questo disagio viene spesso fatto ricorso all’assunzione di alcol o sostanze, ma se ci fosse un modo per moderare l’ansia e la sofferenza lavorando su se stessi?

Provare ansia è naturale, questa emozione è stata evolutivamente utile per la nostra sopravvivenza. Non dobbiamo necessariamente combatterla. Provare ad accettarla è il primo passo per “lasciarla andare”.

Il curatore del libro è Nicola Marsigli, psicologo e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, didatta e supervisore in diverse scuole italiane di psicoterapia, si occupa da diversi anni del disturbo d’ansia sociale. Ha scritto Stop all’ansia sociale insieme ai colleghi psicologi, esperti di ansia sociale, Duccio Baroni, Laura Caccico, Alice Fiesoli, Elena Grassi, Francesco Lauretta e Martina Rosadoni, accomunati dal contributo prestato all’Associazione Italiana Disturbi dell’Ansia Sociale (AIDAS) e al Centro d’Eccellenza per i Disturbi d’Ansia Sociale (CEDAS) di Firenze.

Il manuale, pubblicato dalla casa editrice Erickson, si suddivide in undici capitoli: Cos’è il disturbo d’ansia sociale, Le origini dell’ansia sociale, Misurare l’ansia sociale, L’ABC del percorso, Ansia anticipatoria e valutazione post-evento, Ansia situazionale, Prendere le distanze dai propri pensieri, Come mettere in discussione i propri pensieri, La mente dell’altro, Esporsi all’ansia, Prevenzione delle ricadute.

A chi si rivolge questo libro?

Una parte del percorso di supporto per le persone che soffrono di disturbo d’ansia sociale riguarda la possibilità di renderle consapevoli del fatto che il rifiuto non è così pericoloso, che non è una catastrofe, che si può accettare l’eventualità di non piacere a qualcuno e che tutto ciò non rappresenta una minaccia per la nostra esistenza; anzi, è importante renderle consapevoli che il rifiuto non è altro che un normale evento sociale.

Stop all’ansia sociale è dedicato principalmente a coloro che soffrono di ansia sociale. Gli autori, esperti in ricerca e trattamento del disturbo d’ansia sociale, ripercorrono insieme al lettore gli step che vengono da loro proposti in seduta ai pazienti, con lo scopo di condurre il pubblico ad apprendere strumenti che possano permettergli di gestire meglio la propria ansia, per aprirsi maggiormente ad una vita sociale positiva.

Sono inoltre inclusi nel testo esercizi e schede scaricabili in formato digitale dal sito dell’editore: sugli stili educativi genitoriali, sul modello cognitivo personale dei fattori di mantenimento del disturbo, una scheda di autovalutazione dell’ansia, un accompagnamento allo schema ABC (antecedente, pensiero, conseguenze), conducendo successivamente il lettore ad una ristrutturazione cognitiva e così via.

Perché è utile leggere Stop all’ansia sociale?

È utile perché si tratta di un manuale capace di coniugare teoria del funzionamento patologico ed esercitazioni pratiche. Il tutto illustrato tramite un linguaggio accessibile a qualsiasi lettore.

Risulta ideale come lettura consigliabile a pazienti, oltre che per guidare l’operato di psicologi e psicoterapeuti alle prime armi, offrendo ad essi un supporto professionale.

Ricordiamoci che i nostri pensieri in merito agli eventi catastrofici sono solo pensieri. De-fonderci da essi ci aiuta a vederli per ciò che sono, meri prodotti della nostra mente.

L’unico modo per combattere ciò che temiamo è affrontarlo: le situazioni che sono per noi fonte d’ansia vanno affrontate, per renderci conto che non saranno mai così catastrofiche come ce le siamo immaginate. Inoltre, l’esposizione ci consente di osservare l’andamento “a campana” dell’ansia e di sperimentare una progressiva diminuzione, un importante rinforzo in relazione al fine di esporsi nuovamente alla situazione.

Gli autori riservano una particolare cura alle fasi dell’ansia sociale: anticipatoria, prestazionale e post-evento, accompagnando il lettore in una riscoperta delle proprie modalità di funzionamento e ad una maggiore consapevolezza; viene aggiunta anche la proposta di una serie di tecniche declinate in esercizi di rilassamento volte al decrescere dell’attivazione fisiologica.

Una volta svelato il meccanismo dei propri pensieri, ovvero quando il lettore arriverà a comprendere che la propria ansia, e quindi la propria attivazione che rende l’esperienza sgradevole, terribile o catastrofica, dipende dai propri pensieri, esso non sarà più vittima di automatismi cognitivi e avrà una risorsa in più per affrontare la propria ansia sociale.

Come farà? Leggere per scoprirlo.

Umorismo e Psicoterapia. Quando una risata fa bene (2018) a cura di Antonio Scarinci – Recensione del libro

Chi pensa che il lavoro di psicoterapeuta sia emotivamente pesante e conduca inevitabilmente al burnout per la continua esposizione alle molteplici sofferenze umane che portate dai pazienti attivano le consorelle presenti nell’animo del terapeuta, la lettura di questo libro aprirà nuovi ameni scenari.

 

Il lavoro terapeutico consiste prevalentemente nell’accompagnare mano nella mano il paziente su una altura da dove possa guardare dall’altro la valle di lacrime in cui si sente immerso per scoprire da un lato che in cammino con lui c’è tutta l’umanità passata, presente e futura e pochi vogliono disertare dalla dolente brigata; dall’altro lato per scoprire che visti da lontano  gli inciampi, gli ostacoli, le vesciche e il fango appaiono ridimensionati e in fondo, ben poca cosa.

Umorismo e psicoterapia: come combinarli insieme

L’umorismo ha un doppio utilizzo in terapia. Da un lato, per poter sorridere di qualcosa occorre guardarla dall’esterno, assumere un’altra prospettiva, in qualche modo tirarsene fuori, ovvero conquistare quella distanza critica dal proprio modo di vedere se stessi e il mondo, che è proprio il primo compito di ogni terapia ed è più nota come “metacognizione” (il fatto che il paziente possa sorridere, non deridere, le proprie stranezze è un indicatore certo di miglioramento). Dall’altro è ormai dimostrato che il rapporto tra pensieri, emozioni e comportamenti è bidirezionale, per cui se è vero che pensando cose positive e allegre si sorride, è altrettanto vero che sorridere (anche per finta, come recitando) induce un viraggio dei pensieri verso la positività.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO:

Il libro oltre a due interessanti ricerche insegna come utilizzare l’umorismo e l’ironia  nei diversi disturbi e nelle diverse fasi della psicoterapia e a modularlo a seconda dello stato della relazione terapeutica.

Umorismo e psicoterapia infine fornisce un percorso utile sia per i pazienti che per i terapeuti, soprattutto se alle prime armi, e una serie di tecniche che aiutano a sviluppare la metacognizione, relativizzare il proprio punto di vista e dunque, in definitiva, a fare le cose seriamente senza prendersi troppo sul serio.

Sonno: la deprivazione ci fa commettere errori procedurali

Kimberly Fenn, professoressa associata di Psicologia e direttrice del Laboratorio del sonno e dell’apprendimento, insieme ai colleghi Erik Altmann e Michelle Stepan della Michigan State University, hanno condotto uno studio sperimentale, controllato, sulla deprivazione del sonno, rivelando quanto possa essere dannoso non dormire e svolgere le attività quotidiane.

 

Sebbene la ricerca sulla deprivazione del sonno non sia nuova, il team della MSU ha dovuto quantificare l’impatto delle distrazioni, dovute alla privazione, nel completare con successo le proprie attività.

Sonno: i disastri causati dalla deprivazione

Se pensiamo agli sbagli e agli incidenti nel campo della chirurgia o nell’ambito dei trasporti o persino al funzionamento delle centrali nucleari, la mancanza di sonno è una delle principali cause dell’errore umano. Se pensiamo alle professioni a rischio, molte di queste sono soggette alla deprivazione di sonno. I ricercatori hanno scoperto che circa un quarto delle persone, con un lavoro pesante e faticoso, si sono addormentate almeno una volta sul posto di lavoro. Alcune delle più grandi catastrofi causate dall’uomo, come Chernobyl, il disastro della superpetroliera Exxon Valdez, l’esplosione dello Space Shuttle Challenger e gli incidenti quotidiani in treno e in auto sono causati, almeno in parte, dalla deprivazione di riposo.

La ricerca, pubblicata sul Journal of Experimental Psychology: General, è diversa dai precedenti studi, poiché l’attenzione è rivolta all’impatto della privazione nel completare i compiti, i quali avevano precise indicazioni e comprendevano più passaggi.

Sonno: lo studio condotto per capire l’impatto della deprivazione

Il campione era composto da 234 soggetti, i quali sono stati sottoposti a test nel laboratorio alle 10 p.m.

I partecipanti hanno eseguito una procedura basata su una particolare sequenza, in base alla quale eseguivano una serie di compiti in maniera ordinata. Di tanto in tanto, i partecipanti venivano interrotti e ogni volta dovevano ricordarsi in quale punto della procedura si trovavano, prima di poter riprendere nuovamente la sequenza. A mezzanotte, la metà dei partecipanti tornava a casa a dormire, mentre l’altra metà doveva rimanere sveglia in laboratorio. La mattina successiva, ognuno doveva completare la procedura di nuovo.

I risultati dimostrano che chi era stato deprivato del sonno aveva commesso molti più errori rispetto alla metà che era tornata a casa a riposarsi.

Tutti i partecipanti hanno svolto la procedura in maniera corretta durante la serata, soddisfacendo i criteri; tuttavia circa il 15% dei partecipanti deprivati del sonno falliva nel compito il mattino seguente, mentre solo l’1% dei soggetti tornati a casa a riposarsi sbagliava.

Inoltre, i partecipanti deprivati del sonno non solo mostravano più errori di quelli che dormivano, ma presentavano un progressivo aumento degli errori associati alla memoria mentre eseguivano il compito, effetto che non si è riscontrato in coloro che avevano dormito.

Questo dimostra come il gruppo privato del sonno abbia avuto molte difficoltà nel ricordare dove si trovavano nella sequenza durante le interruzioni.

Sonno: i risultati dello studio sulla deprivazione

Dalla ricerca emerge che il vero problema che impediva al sonno di completare le attività con successo era legato al mantenimento della memoria. Perciò è difficile riprendere un’attività, in cui si è stati interrotti, dal momento che la memoria viene ostacolata.

Le distrazioni che affrontiamo tutti i giorni come ricevere messaggi o semplicemente rispondere a domande sono inevitabili, ma particolarmente dannosi per le persone deprivate del sonno.

Svolgere attività con una ridotta capacità cognitiva può avere gravi effetti, ad esempio gli studenti che studiano tutta la notte e non conservano più le informazioni apprese nel momento dell’esame, oppure, più gravi, le professioni a rischio che possono danneggiare se stessi o gli altri a causa della deprivazione di sonno.

In futuro il gruppo di ricerca della Professoressa Fenn si concentrerà nell’esaminare il ruolo potenziale della caffeina e del “riposino” per aiutare a compensare gli effetti negativi della privazione del sonno.

Early Start Denver Model – Report dal Workshop introduttivo tenutosi a Torino, il 24 novembre 2018

Non esistendo ad oggi la possibilità di modificare la biologia dell’autismo, un intervento come l’ Early Start Denver Model mira a promuovere la capacità dei bambini di sfruttare occasioni di apprendimento sociale.

 

Il 24 novembre scorso, Benedetto Vitiello, Neuropsichiatra Infantile dell’Ospedale dei Bambini Regina Margherita di Torino, ha presentato la giornata di formazione nella gremita aula magna della struttura ospedaliera e, consapevole della mole di informazioni con cui la platea dovrà confrontarsi nell’arco dell’intera giornata, cede presto la parola a Giacomo Vivanti, Assistant Professor presso l’ AJ Drexel Autism Institute di Philadelphia.

Vivanti ci illustra il modello Early Start Denver Model (ESDM) in stile autorevole e coinvolgente, arricchendo la sua presentazione di filmati che ne ritraggono l’applicazione con diversi bambini e di rimandi continui alle più recenti pubblicazioni scientifiche sul tema dell’apprendimento nell’autismo. A tal proposito sottolinea come gli interventi intensivi precoci abbiano incontrato un interesse da parte della comunità scientifica soprattutto negli ultimi 5 anni, periodo durante il quale sono stati pubblicati più studi che negli ultimi 30 anni. Ciò suggerisce la necessità di tenere costantemente conto delle evidenze scientifiche che si stanno moltiplicando così rapidamente.

Early Start Denver Model – Di cosa si tratta?

L’ Early Start Denver Model si è sviluppato con lo scopo di correggere la cascata evolutiva (Rogers & Pennington, 1991) che conduce all’emergenza di sintomi autistici: a fronte di un atipico assetto dei vincoli biologici che supportano attenzione e motivazione sociale nei bambini autistici, l’input sociale e linguistico risulta meno saliente fornendo quindi meno opportunità di apprendimento sociale, inteso come la capacità di acquisire competenze in base all’interazione con gli altri ed all’osservazione dei loro comportamenti.

Non esistendo ad oggi la possibilità di modificare la biologia dell’autismo, un intervento come l’ ESDM mira quindi a promuovere la capacità dei bambini di sfruttare occasioni di apprendimento sociale.

Chiarite le basi teoriche, Vivanti procede quindi con la descrizione più dettagliata di questo intervento naturalistico, evolutivo e comportamentale.

Il primo aggettivo, naturalistico, fa riferimento alla cornice in cui si svolgono le attività con il bambino, caratterizzata dall’impiego di un linguaggio naturale, uno stile d’interazione giocoso e la preferenza per i rinforzi intrinseci. Di conseguenza il focus è sull’iniziativa spontanea del bambino poichè la partecipazione attiva e il coinvolgimento emotivo sono elementi facilitatori dell’apprendimento a cui L’ Early Start Denver Model non intende rinunciare, non solo perché intende massimizzare la sua efficacia ma anche per preservare il diritto inviolabile dell’individuo all’autodeterminazione.

Con il termine evolutivo si sottolinea il rimando alle conoscenza sulle tappe dello sviluppo tipico nell’acquisizione di competenze complesse: se l’evoluzione del linguaggio nei bambini neurotipici necessita di abilità quali l’attenzione congiunta, la condivisione dell’affetto e l’indicazione, allora sarà necessario dedicare del tempo all’apprendimento di tali capacità anche da parte di un bambino autistico.

Si tratta infine di un intervento comportamentale perchè L’ Early Start Denver Model si avvale di strategie mutuate dall’Analisi Applicata del Comportamento (ABA), fondamentali per promuovere o disincentivare la messa in atto di determinati comportamenti.

Vivanti sottolinea più volte quanto non sia sufficiente un’adesione “filosofica” ai principi del modello per garantire i migliori risultati possibili ma risulti fondamentale implementare strategie manualizzate e procedure di fedeltà.

Oggi l’ Early Start Denver Model si presenta in tre formati: nella versione uno a uno (educatore e bambino), nella formula che vede i genitori in prima linea, supportati dal professionista, o realizzato nel contesto del piccolo gruppo in asilo nido o nella scuola dell’infanzia. Questo è forse uno degli aspetti di maggior interesse di questo modello di intervento, la possibilità di abilitare chiunque trascorra il proprio tempo con il bambino all’utilizzo delle strategie più adatte affinchè il bambino impari il più possibile ad imparare da solo.

Intervista a Benedetto Vitiello, Neuropsichiatra Infantile dell’Ospedale dei Bambini Regina Margherita di Torino

1. L’ ESDM è un intervento che rientra tra quelli raccomandati dalle Linee Guida 21 dell’Istituto Superiore di Sanità per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico ma risulta ancora poco conosciuto rispetto ad altri interventi. Cosa ha motivato il vostro interesse verso questo modello tanto da organizzare un workshop introduttivo?

Benedetto Vitiello (BV): L’ ESDM è di speciale interesse perchè è un intervento precoce che si indirizza a bambini di 2-4 anni e che si propone come uno dei mezzi terapeutici più efficaci per migliorare le capacità cognitive e funzionali del bambino. C’è molto interesse in questo metodo terapeutico tra gli operatori sanitari che si occupano di autismo, ma ancora poche possibilità di conoscerlo. Abbiamo organizzato questo corso per dare l’opportunità a questi operatori di capire i principi fondamentali del metodo Early Start Denver Model e apprendere i concetti di base necessari per utilizzare questa terapia.

2. L’ ESDM ha come obiettivo di intervento la promozione di competenze che forniscono l’infrastruttura dell’apprendimento sociale. Come si può conciliare l’esigenza di produrre una diagnosi certa con quella di promuovere un intervento che sia il più precoce possibile per favorire la migliore traiettoria di sviluppo nel bambino?

BV: In diversi casi, arrivare ad una diagnosi precoce di autismo può essere difficile perchè i sintomi chiave dell’autismo non sono sempre chiari. Questa situazione è in effetti diventata più frequente con i nuovi criteri diagnostici del 2013, che hanno allargato i confini del disturbo e lo hanno messo più in continuità con lo sviluppo “normale”. Richiede dunque una notevole esperienza clinica per valutare i quadri clinici dei bambini più piccoli e decidere se si può parlare di autismo o no.

3. È possibile oggi, con le risorse presenti nei servizi pubblici, garantire un intervento che soddisfi gli standard di aderenza alle rigorose procedure previste dall’ ESDM?

BV: Questo rimane da vedere. Il modello originale dell’ Early Start Denver Model comporta un totale di 15 ore di lavoro alla settimana con il terapista, più 5 da parte del genitore, per almeno 12 mesi. Quindi un grosso impegno. Alternative meno costose, come ad esempio un minore impegno del terapista, compensato però da maggiore impegno del genitore, o l’utilizzo di piccoli gruppi, sono state proposte e vanno valutate. La ricerca in questo settore è molto attiva.

Cosa pensano gli adulti dei bambini? Quali stili relazionali ne derivano?

La relazione adulto-bambino è necessariamente autoritativa, cioè asimmetrica. L’adulto possiede una posizione di “superiorità” e potere che dovrebbero essere esercitati, non sul bambino, ma con e per il bambino, in base alle conoscenze acquisite sullo sviluppo e ad un profondo senso di responsabilità.

Emanuela Taraschi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

 Agli esseri umani basta avere cinque anni per saper risolvere i conflitti per mezzo delle parole e per usare a proposito quel sottile e potente strumento di pacificazione che è la cortesia. Davvero uno si chiede cosa facciamo ai bambini, per costringerli a diventare quegli adulti ottusi e prevaricatori che tanto spesso ci affliggono l’esistenza (G. Axia, 1996, p 9).

Attualmente, sembra riemergere una vecchia falsa credenza degli adulti: lo stile autoritario è quello più adeguato a “far crescere bene” i bambini. È, dunque, importante considerare le credenze degli adulti sui bambini, perché le credenze sono, tra i fattori d’influenza del comportamento, quelle di più facile accesso alla coscienza e sarà, quindi, possibile cambiarle per migliorare il proprio stile relazionale.

Adulti e visione dell’infanzia

Questo studio presenta alcuni dati di ricerca sull’argomento per contribuire a sfatare alcune false credenze degli adulti sui bambini, partendo dal fatto che per “crescere bene” non s’intende un minore passivo e compiacente, addestrato a soddisfare le richieste e le attese dell’adulto per ottenere un premio, ma piuttosto un bambino che sviluppi un pensiero divergente, la capacità di costruire relazioni positive, di esprimere le proprie potenzialità e che sia felice di dare con fantasia e passione il proprio contributo alla società, a partire dal momento presente in cui è già una persona, una persona molto giovane: un/a bambino/a.

L’infanzia è il tempo in cui la persona cresce a livello biologico, sociale e psicologico, sviluppando la sua personalità e ponendo le basi per la propria vita sociale e lavorativa. Ogni bambino/a presenta caratteristiche sia comuni che peculiari, strettamente legate a fattori geografici, nazionali, culturali, etc. Sono gli adulti che contribuiscono a determinare tratti, comportamenti, abitudini e regole di condotta in base alla cultura di appartenenza. L’infanzia è, quindi, un fenomeno storico-culturale. Ciò significa che in epoche e nazioni diverse vi sono diverse concezioni dell’infanzia, diversi significati e una diversa durata (Terziyska, 2017).

Oggi nessuno mette in dubbio l’importanza di questo primo periodo della vita umana, sebbene ciascuno di noi abbia sue personali convinzioni sul bambino, che in parte derivano da rappresentazioni sociali ereditate culturalmente e che potrebbero venire da molto lontano. In passato, infatti, i bambini piccoli avevano poco valore e il potere assoluto del pater familias sui figli durerà a lungo nella pratica quotidiana; in Italia, solo con la riforma sul diritto di famiglia (1975), si cambierà la patria potestà in potestà genitoriale, sottolineando la responsabilità dell’adulto e l’accudimento/protezione del minore.

Dal punto di vista teorico, con l’approccio strutturalista, si superano le prospettive individualistiche, adulto-centriche e temporali e si considerano i bambini come partecipanti attivi, ad esempio, alla produzione e al consumo di beni (Qvortrup, 1991 in Corsaro 1997, 2003). Anche la ricerca sperimentale sullo sviluppo dell’embrione, del neonato e sul comportamento dei bambini, ha mostrato come, fin da piccole, le persone siano capaci e competenti, tutt’altro che un vaso vuoto da riempire. In particolare, Corsaro (1985), un etnografo americano, ha scoperto che i bambini, osservati in scuole italiane, non riproducono passivamente la cultura degli adulti, ma costruiscono una propria cultura dei pari a partire da quella adulta. Egli è entrato nelle aree di gioco dei bambini, usando il metodo etnografico: aspettava che i bambini si accorgessero di lui e lo includessero nel gruppo, una modalità decisamente rivoluzionaria e opposta a quella adottata dagli adulti, che, in genere, impongono la loro presenza ai bambini, esigendo un’attenzione immediata e una leadership indiscussa (Corsaro, 1997, 2003). Dunque, il sapere scientifico sull’infanzia ha modificato rapidamente molte credenze ingenue sui bambini e molte pratiche educative abusanti, ampiamente diffuse almeno fino agli anni 60/70 del secolo scorso. Tuttavia, nonostante i saperi acquisiti sullo sviluppo, la relazione con il bambino piccolo rimane impostata, molto spesso, sull’imposizione, la coercizione, l’intemperanza e la prevaricazione, delineando uno stile relazionale per lo più autoritario.

Adulti e bambini: quale relazione si instaura?

Di fatto, la relazione adulto-bambino la possiamo immaginare lungo un continuum, in cui da una parte c’è l’autoritarismo, l’esercizio del potere assoluto, e dall’altro l’indifferenza, passando per l’autorevolezza. Entrambi gli estremi sono caratterizzati dal mancato riconoscimento della dignità dell’altro in quanto persona capace di esprimersi nello spazio relazionale (per questo, possiamo definirli stili relazionali antidemocratici). L’autoritarismo, in particolare, appare una degenerazione dell’autorità intesa come risultato di una relazione, in cui entrambi i partecipanti considerano uno dei due superiore all’altro, almeno per certi aspetti.

Allora in una relazione autoritativa, tipo genitore-figlio o insegnante-allievo, la superiorità del primo ha la funzione di aiutare il secondo, sottoposto all’autorità, usando doti e competenze per ridurre l’asimmetria tra i due partner; mentre in una relazione di tipo padrone-servo la superiorità serve a sfruttare, psicologicamente o materialmente, chi è subordinato (Roccato, 2003).

Esistono, quindi, contraddizioni e ambiguità tra il dire e il fare educativo di cui non sembra si sia consapevoli. A questo proposito, è stato osservato che madri italiane dichiarano di dare maggior importanza alla componente affettiva e sociale nella relazione con il figlio piccolo, ma di fatto, tendono ad offrire una stimolazione didattica piuttosto che sociale, per esempio, il contenuto del linguaggio che rivolgono a bambini di 5 e 13 mesi è finalizzato a dare informazioni, piuttosto che supporto affettivo ed emotivo (Venuti, Senese, 2007). Tra l’altro, registrando le credenze dei genitori sullo stile relazionale, oltre alle credenze tradizionali e moderne, sono state registrate proprio credenze contraddittorie (vd Palacios, 1990 in Rodriguez et al., 2016). Questo non stupisce, è possibile osservare un individuo credere felicemente ad un insieme di dichiarazioni e comportarsi in un modo completamente differente (Goodnow, 1988). Ciò sarebbe legato a vari fattori tra cui i meccanismi che la mente umana utilizza per razionalizzare e giustificare la discrepanza tra le attese espresse e la realtà vissuta (per esempio, la credenza in un mondo giusto di Lerner 1971, la dissonanza cognitiva di Festinger, 1977; il disimpegno morale di Bandura, 1991, cfr. Aronson, 1997).

Più in generale, Doise (2002) ha indagato un tipo particolare di incoerenza, quella che esiste tra la forte adesione di principio ai diritti umani e l’ammissibilità della loro violazione, trovando che tra le cause di variazione c’erano proprio: ambiguità di alcune situazioni, che si fondano su logiche contraddittorie (tali ambiguità sono ravvisabili anche in testi ufficiali) e fatalismo, da intendersi come una credenza universale, che spinge ad accettare un più forte controllo sociale, limitando l’adesione ai diritti dell’uomo. Effettivamente, riguardo all’infanzia, esistono diverse ambiguità e ambivalenze, ad esempio, nell’azione socializzante delle istituzioni si perseguono simultaneamente autonomia e dipendenza del bambino. Inoltre, a dispetto di una cultura che si dichiara puerocentrica, il bambino non viene assunto come unità di osservazione nelle statistiche e quando c’è, lo è secondo modelli adultistici e familistici (Sgritta, 1986).

Infine, Ronfani (2001) evidenzia l’emergere di due modelli contrastanti nella regolazione sociale e giuridica del minore: il progetto liberazionista – che auspica l’autonomia del minore e l’uguaglianza con l’adulto- e il progetto del paternalismo modificato – orientato alla logica della differenza e della protezione. Infatti, la Convenzione Europea sui diritti dei minori (1996) sembra fare propria l’ottica liberazionista, prevedendo la possibilità per il minore di agire in giudizio: si passerebbe così, dall’esistenza di un minore protetto, come previsto nella Convenzione ONU (1989), ad un minore partecipante. L’ambiguità rispetto al minore partecipante ce la mostra Postman (2005, 1982): il bambino torna ad essere considerato un “piccolo adulto”, giacché viene esposto, fin dai primi anni di vita, allo stesso tipo d’informazioni riservate agli adulti, attraverso pubblicità, modelli, mode e comportamenti proposti a loro direttamente dai media.

Adulti: quali credenze abbiamo nei confronti dei bambini

Diverse ricerche, integrando l’uso di questionari e osservazioni dell’interazione adulto-bambino, evidenziano che le credenze dei genitori, insieme alle idee e ai valori, influenzano lo sviluppo dei figli e le relazioni educative, anche se madri e padri italiani credono il contrario, dando, una grande importanza alla crescita “naturale” ed enfatizzando il ruolo dei fattori innati (Venuti, Senese, 2007).  Ma partiamo dal definire cos’è una credenza. La credenza è una forma particolare di idea che possiede un maggior grado di convinzione ed è mantenuta dall’individuo nel tempo (Goodnow, 1988). La credenza è, quindi, una forma di conoscenza specifica su oggetti/soggetti particolari, costruita attraverso l’azione, la riflessione sull’azione e la relazione con gli altri e che viene assemblata mediante logiche induttive e deduttive (Sigel, 1985 in Emiliani, 2002). Esistono diversi livelli di credenze, passiamo dai pensieri automatici, cioè al contenuto cognitivo consapevole che diamo subito in risposta a situazioni specifiche e sono pensieri accessibili senza sforzo, alle credenze intermedie, che sono assunzioni sotto forma di regole “se…allora”, fino alle credenze di base, meno accessibili alla coscienza, perché assumono il carattere di schema cognitivo, cioè, una struttura cognitiva che ha il compito di organizzare gli stimoli raccolti dal soggetto ed è altamente generalizzata a livello sovra-ordinato, resistente al cambiamento e sembra esercitare una forte influenza sia a livello cognitivo che emotivo.

Sono stati descritti anche gli Schemi Maladattivi Precoci (SMP, Young, 1995) temi molto stabili e duraturi che si sviluppano durante l’infanzia e vengono continuamente elaborati lungo l’arco di vita dell’individuo. Sia le credenze di base, che gli SMP, sono definiti come strutture di credenze stabili e sovrageneralizzate che influenzano sia la selezione che l’interpretazione delle informazioni (Riso et al., 2011). La stabilità di una credenza è legata anche al mantenimento di uno stato desiderato, per esempio, si cambia difficilmente credenza se questa è funzionale a mantenere una buona immagine di sé e, comunque, occorre tempo per cambiare una credenza perché le nuove informazioni ed esperienze che la disconfermano, non vengono percepite immediatamente. Ad esempio, in una ricerca il cambiamento nel comportamento di ragazzi iperattivi, cui era stato dato il farmaco, è stato raccolto più prontamente dagli osservatori che non dalle madri, le quali continuavano a riferirsi a comportamenti passati del figlio (Goodnow, 1988). Strettamente legate alle credenze abbiamo le rappresentazioni mentali. Moscovici (2005) afferma che qualunque interazione umana presuppone delle rappresentazioni, cioè, a delle immagini facciamo corrispondere delle idee. Nello specifico, le rappresentazioni sociali sullo sviluppo degli adulti italiani sono risultati essere del tipo natura vs cultura e gli adulti attingono il tipo di spiegazione da un estremo all’altro, innatismo vs costruttivismo, di volta in volta, sulla base di numerose influenze, tra cui, i sistemi di credenze degli adulti, la percezione di responsabilità relativa al ruolo ricoperto nella relazione con i bambini e il quadro normativo che legittima la relazione all’interno dei diversi contesti educativi. Questo permetterebbe di sottrarsi alla percezione di una responsabilità di fronte a possibili esiti negativi dello sviluppo nel quotidiano, garantendo l’autostima di genitori, insegnanti ed educatori (Emiliani, 2002). Un altro tipo di rappresentazione molto importante per le relazioni è quella del Modello Operativo Interno (MOI, Bowlby, 1969 in Main, 2008), che si forma in base alle esperienze interattive nelle relazioni d’attaccamento della prima infanzia e che organizzando memorie, percezioni e attese, influenzano la forma e la qualità delle successive relazioni, anche per questo la prima infanzia è un momento di grande vulnerabilità. La nostra mente funziona, quindi, in modo tale da trasformare le esperienze in idee, credenze e modelli, con lo scopo di dare un ordine alla realtà e ridurne la complessità.

L’uso automatico di schemi cognitivi, ci induce, però, a percepire alcuni elementi della realtà ignorandone altri, influenzando, così, la valutazione della situazione e la conseguente risposta emotiva-affettiva e comportamentale. Per di più, gli stati affettivi possono influenzare la percezione di un oggetto/soggetto complicando la relazione tra credenza e comportamento. Kochanska (1990) ha intervistato e osservato un gruppo di madri depresse e un gruppo di madri sane, per valutare se le credenze materne (stile relazionale autoritario/restrittivo e autorevole/democratico; soddisfazione del ruolo parentale; affettività negativa verso il bambino) fossero predittive delle loro strategie di controllo, oltre che della risposta comportamentale dei figli. L’ipotesi è stata confermata per le sole madri sane. La diagnosi di depressione prediceva, invece, una valutazione negativa del bambino. In aggiunta, le madri, favorevoli ad uno stile educativo autorevole, usavano più incentivi positivi ed evitavano interventi proibitivi, rispetto a quelle che aderivano allo stile autoritario; ma solo per le madri sane l’adesione allo stile autorevole ha predetto l’uso frequente degli incentivi positivi e solo i loro bambini avevano un alto tasso di successo nell’iniziare un intervento con la madre.

Adulti: le credenze che hanno sui bambini secondo le ultime ricerche

Una ricerca sulle valutazioni delle abilità intellettuali dei bambini da 2 a 6 anni ha trovato che i punti di vista degli adulti sui bambini sono caratterizzati da pregiudizi o stereotipi, per esempio i bambini di 2 anni erano sottovalutati, mentre quelli di 6 sopravvalutati (in Goodnow, 1988). Più di recente, Bove (2004) ha indagato le idee di genitori e insegnanti trovando che le credenze si diversificano anche all’interno di gruppi sociali, come genitori ed educatori, in relazione alla cultura d’appartenenza e alla propria storia personale. In generale, le madri e le educatrici parlano di bambini vivaci, che “stanno avanti” rispetto a quelli del passato, molto svegli anche perché sarebbero molto stimolati. I genitori dichiarano che un’offerta continua di stimoli e opportunità serva anche a colmare l’assenza dei genitori per lavoro, limitando però i tempi e le possibilità di gioco spontaneo; le insegnanti invece vedono questa iperstimolazione come una condizione di vita che non risponde ai ritmi di crescita del bambino, ma, piuttosto, alle aspettative dell’adulto. Riguardo ai bisogni, i genitori danno importanza ai bisogni emotivi, alla relazione affettiva, necessaria per rendere il bambino sicuro e, quindi, capace di sviluppare indipendenza e autonomia dalla figura adulta di riferimento. Le educatrici mettono in evidenza anche il “bisogno” di essere visti e ascoltati. Scambio, discussione e relazione, sono riportate sia dai genitori che dagli insegnanti, quest’ultimi, ritengono sia necessario apprendere ad essere autonomi e a rispettare le regole. Inoltre i genitori credono che il bambino piccolo debba innanzitutto apprendere presto a stare con gli altri. A questo proposito, gli adulti credono erroneamente che basti la semplice esposizione dei piccoli ad un contesto sociale per far loro sviluppare “naturalmente” la competenza sociale (Emiliani, 2002). Fiorilli (2009) esaminando le teorie implicite sull’intelligenza delle insegnanti, ha individuato i due poli, costruttivista vs innatista e ha notato che il tipo di concezione influenza lo stile relazionale con l’allievo. Per esempio, l’insegnante costruttivista nella sua pratica educativa utilizza attività che coinvolgono l’alunno in un processo di co-costruzione del sapere: non giudica le risposte dell’allievo suggerendo quella giusta, ma stimola una ricerca della risposta evitando la semplice riproduzione dei concetti. A queste pratiche sembrano corrispondere due tipi di alunni: il primo,  mostra una motivazione intrinseca, tanto da impegnarsi volontariamente in approfondimenti sulle discipline studiate; il secondo, appare più guidato da una motivazione estrinseca, cioè dalla necessità di raggiungere la sufficienza con il minimo sforzo possibile.

Adulti e bambini: quale stile relazionale?

Erden e Wolfgang (2004), hanno osservato insegnanti di scuola dell’infanzia addestrati ad usare diversi stili educativi positivi, ovvero cosi strutturati:

  • Relazione-Ascolto (si rifà al pensiero umanistico Gordon, 1974, 1989)
  • Confronto-Contratto (l’insegnante dà all’allievo il potere di decidere come cambierà il suo comportamento e lo incoraggia a fare un contratto per cambiare; la filosofia)
  • Regole-Conseguenze (consiste in un processo di controllo che è collegato alla psicologia sperimentale del comportamento).

Si è visto che, in base alla credenza stereotipata che le femmine siano più impressionabili dei maschi e che abbiano migliori abilità comunicative, le insegnanti utilizzavano con le bambine la strategia Confronto-Contratto, mentre con i maschi la strategia Regole-Conseguenze, operando sistematiche differenze di genere.

Baumrind (1991) individua tre stili relazionali dei genitori: autoritario (massimo esercizio di potere senza tener conto del punto di vista del bambino, cui corrispondono figli poco socievoli, con bassa autostima e collerici), autorevole (si aspetta molto dal bambino, è fermo nel sue richieste ma ascolta il bambino che a sua volta si mostrerà responsabile, socievole, sensibile e indipendente), permissivo (affettuoso, poco coerente, non dà regole e il comportamento del figlio sarà improntato all’impulsività e irresponsabilità). Successivamente è stato osservato un quarto profilo lo stile educativo trascurato (indifferente: chiede poco per dare poco, concentrandosi su di sé e a cui corrisponde un bambino con bassa autostima e che attua condotte devianti e delinquenziali). Sappiamo che i genitori non adottano strategie disciplinari solo in base alle propensioni personali, ma adattano la punizione alla trasgressione del bambino e la modificano a seconda dell’età: abbandonano le punizioni fisiche e non motivate a favore di altri metodi, come il ragionamento o punizioni indirette via via che il bambino cresce. Hoffman (1971) è stato tra i primi a far osservare che l’uso eccessivo della forza suscita nei bambini sentimenti di ribellione e non favorisce l’acquisizione dell’autocontrollo, per di più, il genitore aggressivo e intemperante, dà per primo l’esempio dell’uso della forza per raggiungere i propri scopi, divenendo un modello negativo, che verrà interiorizzato attraverso l’apprendimento sociale (Bandura, 1977). Invece uno stile relazionale, che utilizzi sia tecniche induttive (che implicano attenzione alle conseguenze delle proprie azioni sugli altri), sia l’uso del ragionamento e della persuasione, promuovono lo sviluppo morale e la comprensione dei bisogni altrui (in Camaioni, Di Blasio, 2002).

Uno studio, che analizza le credenze dei genitori sulla relazione con i figli, ha trovato che i genitori abusanti, rispetto ai normali, dichiaravano di essere meno soddisfatti dei propri figli e del loro ruolo di genitori, usavano maggiormente la punizione fisica, verbale e materiale (privazioni, restrizioni) rispetto al ragionamento, in cui affermavano di non credere, e dichiaravano di dare più valore al controllo sul minore, anziché all’indipendenza e all’autonomia, mostrando maggiori preoccupazioni per il figlio e un forte isolamento sociale (Trickett e Susman, 1988). Più di recente è stato trovato, in linea con quanto sopra, che i genitori con uno stile relazionale autoritario e severo, mostrano bassa empatia, credono nell’utilità delle punizioni verbali e fisiche e sono anche quelli più propensi a fare attribuzioni negative sul figlio (Rodriguez et al., 2016).

Miller (2005) afferma che quando il bambino si sente negato ed è stato maltrattato con il pretesto di educarlo, crescerà dipendente dai genitori o dai loro sostituti e continuerà anche da adulto ad aspettarsi, che qualcuno colmi il vuoto generato dai torti subiti nell’infanzia e di cui il corpo ha memoria: così potrebbe accadere che una volta genitore cerchi amore dai propri figli più che darlo, innescando un circolo vizioso intergenerazionale: il ciclo del maltrattamento, secondo cui adulti abusanti sono stati abusati da piccoli.

Per quel che riguarda lo stile relazionale degli insegnanti/educatori, alcune ricerche evidenziano che gli studenti sembrano apprendere meglio in un clima dove le regole pongono limiti nelle possibilità di scelta; ciò sembra essere in accordo con l’osservazione che, (cfr. From, Fuga dalla Libertà, 1941) maggiori sono le possibilità di scelta, maggiore, quindi, la complessità percepita e maggiore sarà anche il bisogno di ordine, il desiderio di regole e vincoli, nel tentativo di semplificare le situazioni di vita. In effetti, in una ricerca su studenti universitari, lo stile autoritario è stato maggiormente efficace con gli studenti del I anno che non erano già orientati nella direzione della fonte d’influenza, trovando, perciò, parzialmente verificata l’ipotesi della corrispondenza (Mugny, et al., 2002 in Tomasetto, 2004): l’efficacia di uno stile d’influenza, democratico o autoritario, dipenderebbe dal contesto relazionale in cui avviene la comunicazione. Aggiungo: l’intuitiva considerazione che un docente universitario e un docente d’infanzia o primaria esprimeranno stili relazionali autoritari ben diversi, non foss’altro per il diverso grado di asimmetria nella relazione docente-discente.

Di certo l’obbedienza deresponsabilizza, favorendo un disinvestimento, ma gli insegnanti, per trasmettere le informazioni ed anche come agenti di socializzazione, si trovano nella condizione di chiedere disciplina e obbedienza agli allievi, ma lo possono fare utilizzando diversi modi: coercizione (quando l’autorità usa la punizione), ricompensa (quando l’autorità fa leva sulla gratificazione magari di un voto), potere legittimo (quando si riconosce all’autorità una posizione gerarchica  più alta), potere referenziale (quando le caratteristiche dell’autorità inducono l’altro ad identificarsi con essa), e il potere dell’esperto (a cui viene riconosciuta autorità per il fatto di possedere conoscenze e saperi). Le prime due forme si collocano al di fuori di una relazione educativa e, nel migliore dei casi, fanno ottenere solo silenzio in classe e compiacenza; solo compiacenza, apprendimenti non interiorizzati, ottiene anche il potere legittimo, mentre il potere referenziale può portare, grazie al meccanismo dell’identificazione, all’acquisizione di apprendimenti più duraturi. Il potere dell’esperto, infine, porta ad una vera interiorizzazione dei saperi, giacché l’allievo, libero dal timore di punizioni o dalla tensione della competizione per il premio o voto che sia, può serenamente concentrarsi sul contenuto delle conoscenze. Sarebbe utile eliminare a scuola tutto ciò che riguarda i rapporti di forza e di competizione, dai quali deriva l’ordine e una struttura gerarchica, ma non un cambiamento profondo (Butera e Buchs, 2004). Dispiace, allora, osservare che, nonostante un grande affetto e/o una buona professionalità verso il minore, resistano ancora oggi stili relazionali autoritari, che, sebbene abbiano, per lo più, perso, una forma molto violenta, ne conservano il significato e, quindi, gli esiti. Ciò accade probabilmente perché, nonostante la scoperta dell’epigenetica, resiste, come abbiamo visto, la credenza innatista sullo sviluppo e si continua a pensare che la genetica non sia influenzabile dall’ambiente.

Concludo con una riflessione della Emiliani (2002) che ci ricorda come la dimensione della responsabilità include sin dall’inizio una rottura con il principio che dipenda dalla natura e chiama ciascuno all’impegno e alla scelta personali e consapevoli. A mio avviso, una caratteristica fondamentale dello stile relazionale democratico, consiste nell’essere cortesi, cioè nel prestare attenzione all’altro, riconoscendogli la sua dignità. Essere cortesi non ha nulla a che fare con “le buone maniere”, non si tratta di comportarsi gentilmente per rispettare “l’etichetta”, se ci limitiamo a questo, probabilmente, stiamo mantenendo l’attenzione sulla conformità a un ruolo o all’immagine di noi stessi. La cortesia, invece, è un comportamento esterno osservabile, che deriva da una disposizione interna legata sia all’acquisizione di norme sociali e valori morali, sia alla capacità di comprendere la prospettiva altrui, di mettersi nei panni dell’altro, riconoscendo e rispettando le caratteristiche altrui. La cortesia presume quindi lo sviluppo dell’empatia e del perspective taking e, come abbiamo visto, gli stili relazionali antidemocratici pregiudicano lo sviluppo di queste capacità nel bambino. Allora, perché l’umanità, parafrasando Sciascia (cfr. Il giorno della civetta), non sia solo una bella parola piena di vento, c’è da augurarsi di riuscire ad innescare un circolo virtuoso, che parta dal prendere consapevolezza delle proprie credenze profonde sui bambini e che ci porti a maturare uno stile relazionale fondato sulla cortesia.

Analogie e diversità valoriali nelle società multietniche

Numerosi studi hanno investigato negli ultimi anni le variabili psicologiche legate alle differenze culturali, allo scopo di capire come queste si riflettano sui pensieri e sui comportamenti individuali travalicando quelli che sono considerati valori universali.

 

Le società attuali occidentali sono costituite da un numero consistente di immigrati. Questi nuovi cittadini conducono con sé dei valori culturali, sociali ed etici differenti rispetto ai contesti geografici di accoglienza. Ricerche condotte in ambito transculturale hanno evidenziato che esistono, però, dei valori universali che vanno al di là delle singole culture. Questa comunanza valoriale appartiene più ad una prospettiva teorica e generale piuttosto che pratica e specifica. Infatti, allorquando si passa dalla teoria alla pratica, dal generale allo specifico, si evidenziano le diversità fra le varie popolazioni, dovute al fatto che il sistema valoriale comune subisce delle contaminazioni legate a differenti variabili, quali le multiformi identità sociali, i conflitti di gruppo, il razzismo, gli apprendimenti sociali, i pregiudizi e gli stereotipi.

Keywords: differenze culturali, valori comuni, diversità valoriali, conflitti di gruppo, pregiudizi, stereotipi.

Le società attuali occidentali sono costituite da un numero consistente di immigrati. Questi nuovi cittadini conducono con sé dei valori culturali, sociali ed etici differenti rispetto ai contesti geografici di accoglienza. In quest’ottica, molti Stati, che ospitano gli immigrati, si sono posti l’obiettivo, seppure nel rispetto delle singole culture di appartenenza, di educare questi nuovi soggetti sociali ai valori etici, sociali e culturali vigenti nel proprio contesto.

Ricerche condotte in ambito transculturale hanno evidenziato che esistono dei valori universali che vanno al di là delle singole culture. A questo riguardo Schwartz e Bardi (2001), analizzando i valori fondamentali esistenti in 55 nazioni, hanno rilevato che esiste una comunanza fra le varie popolazioni nello stabilire una gerarchia di valori, per cui alcuni valori sono universalmente riconosciuti. Relativamente ai valori ritenuti fondamentali, la ricerca di Fisher e Schwartz (2011), che ha analizzato le gerarchie di valori presenti in 50 nazioni, ha assodato che i valori riconosciuti come fondamentali in ogni latitudine sono rappresentati dalla bontà d’animo, dall’universalismo, ovvero che tutti gli esseri umani sono uguali, e dall’autodirezionalità, ossia che ogni individuo deve essere libero di poter scegliere, creare e condurre come meglio crede la propria vita.

Malgrado questi fattori siano diffusi in tutto il mondo, spesso si assiste a modelli di pensiero e di comportamento differenti, che non tengono conto di questi valori universali. Da questo punto di vista, numerosi studi hanno investigato, negli ultimi anni, le variabili psicologiche legate alle differenze culturali. In pratica, si è voluto capire come le differenze culturali si riflettono sui pensieri e sui comportamenti individuali, travalicando la comunanza valoriale. A tal proposito sono stati chiamati in causa diversi fattori, che, malgrado le analogie di valori, determinano le diversità cognitive e comportamentali presenti nelle differenti popolazioni. In tale ambito è da menzionare il ruolo svolto da alcune variabili, quali:

  • i conflitti di gruppo (Bobo, 1983)
  • le eterogenee identità sociali (Taifel & Turner, 1986)
  • il maggiore o minore livello di razzismo (Kinder & Sears, 1981)
  • i pregiudizi (Jost & Banaji, 1994)
  • i processi di apprendimento sociale (Bandura e al., 1961)
  • gli stereotipi vigenti (Hamilton & Rose, 1980)

Le differenze culturali appaiono più evidenti allorquando gli individui sentono più forte l’appartenenza ad un gruppo sociale e, quindi, hanno un’identità sociale ben delineata, rispetto a quando si percepiscono come persone al di fuori delle categorie sociali di appartenenza (Hanel e al., 2018). Inoltre, le differenze nel modo di pensare e di agire si mettono in evidenza nel momento in cui si passa dal generale allo specifico. In altri termini, gli individui percepiscono dei valori comuni in cui credere allorché si parla in termini generali e teorici, divergono, invece, qualora si situano questi valori in contesti specifici d’azione. In questa circostanza i valori comuni assumono una sembianza cognitiva e comportamentale differente, che inficia l’universalità valoriale (Hanel e al., 2017).

In conclusione, molteplici ricerche hanno stabilito che esistono dei valori comuni nelle differenti popolazioni presenti sul pianeta. Questa comunanza valoriale appartiene più ad una prospettiva teorica e generale piuttosto che pratica e specifica. Infatti, allorquando si passa dalla teoria alla pratica, dal generale allo specifico, si evidenziano le diversità fra le varie popolazioni, dovute al fatto che il sistema valoriale comune subisce delle contaminazioni legate a differenti variabili, quali le multiformi identità sociali, i conflitti di gruppo, il razzismo, gli apprendimenti sociali, i pregiudizi e gli stereotipi.

Futuro+Umano. Quello che l’intelligenza artificiale non potrà mai darci (2018) di Francesco Morace – Recensione del libro

Il futuro sarà più umano? E’ con questa provocatoria domanda che si apre il libro di Morace. Domanda provocatoria perché siamo in un periodo di grande attenzione verso tutto ciò che è intelligenza artificiale, machine learning e tecnologie che emula l’uomo.

 

Un emulatore, in informatica e in senso più generale, è un componente che replica le funzioni di un determinato sistema. Questa domanda, Il futuro sarà più umano? non a caso ha in sé la parola chiave su cui dobbiamo soffermarci: umano.

Futuro + umano: ciò che ci differenza dalle macchine

Morace cerca di fare ordine su una mole di informazioni e potremmo dire anche mode che ci passano veloci sotto gli occhi tutti i giorni: siamo iperinformati e iperstimolati dai mezzi digitali e tecnologie che ormai, pervasivi, fanno parte della nostra vita quotidiana. E l’umano cos’è allora? Dov’è? Come si colloca in questo panorama dove noi stessi sembriamo essere messi in penombra da ciò che, del resto, noi stessi abbiamo creato? Ebbene, è proprio qui che dobbiamo prendere ciò che ci distingue dalle tecnologie e comprendere e valorizzare ciò che di unico c’è nell’uomo: l’affezione, la fragilità, il sentire, il dubbio.

L’intelligenza artificiale è inadeguata e insufficiente poiché può fornire solo l’aspetto funzionale (computazionale) e non il significato. Meaningless, ci dice Morace, perché priva del significato, del senso, che solo l’uomo può dare alle cose. Il pensiero umano produce e si nutre di intuizioni, desideri, speranza, tutte cose che le intelligenze artificiali non possono riprodurre. Nessuna potenza di calcolo, per quanto estesa, può rendere e generare quello che rimarrà sempre appannaggio del genere umano: l’imprevedibilità delle emozioni e del significato.

Secondo l’Autore è il caso di fermarsi un attimo e rimettere al centro l’uomo e la sua natura, con i suoi limiti e specificità uniche al mondo, compresi paure, sogni, pensieri, emozioni. Curiosità, passione, cura per contrastare capriccio, passività e caos. Morace utilizza una sorta di griglia concettuale in cui utilizza queste dimensioni come bussole per orientare la riflessione. Si contrappongono quindi il capriccio alla curiosità, la passività alla passione e il caos alla cura.

L’affermazione del desiderio individuale e l’idea che tutto ci sia dovuto, la sicurezza e la libertà, il benessere economico e il lavoro garantito, la possibilità di essere informati ma anche di esprimersi esternando le proprie pulsioni e convinzioni, in ogni luogo, in ogni momento, porta alla patologica convinzione di essere al centro e di essere il centro del mondo e quindi in pieno diritto di pretendere. Il capriccio è proprio qui, è proprio la risultanza di un desiderio perennemente soddisfatto nell’immediato, un mindstyle, stile di pensiero, in cui l’esperienza è veloce, accessibile, condivisibile. Abbiamo quindi un individuo che diviene ebbro di libertà che dà per scontate, che non hanno limite e che portano a così tante possibilità che conducono a passività e caos. Questa iperscelta porta a un’attitudine passiva che si traduce in voglia di rassicurazione e nel mito della semplificazione, della facilità d’uso, del tutto a disposizione in qualsiasi momento. Morace parla di ‘Google effect’ proprio perché come tanto facile, veloce e immediato è interpellare il motore di ricerca e ottenere una risposta, così con questa modalità ci approcciamo ad altri contesti della vita. Si tratta di un’esperienza superficiale e randomica che porta ad una perdita di riferimenti e di quell’impegno costante e durevole che conduce alla costruzione, alla progettualità a lungo termine pensata e ponderata. Il capriccio tende ad essere individuale ed egocentrico e a perdere di vista la collettività, come se portasse con sé anche richieste identitarie e narcisistiche.

Questo caos viene sostenuto dall’ “infiammazione mediatica”, dall’agenda dei media che punta al sensazionalismo anche questo veloce, che si consuma in fretta. Assistiamo a misinformation e disinformation, una divulgazione di notizie – non ultime le fake news – che hanno il reale obiettivo di aumentare il traffico online. Ecco allora il paradosso: più possiamo sapere e meno sappiamo perché l’essere sempre connessi aumenta l’interattività a discapito dell’approfondimento. L’eccesso informativo (blog, newsletter, forum, …) si traduce in una paralisi del nostro sistema critico, impotente di fronte alla mole di informazioni che contemporaneamente ci bombardano.

Futuro + umano: possiamo iniziare ora

Quello su cui ci invita a riflettere l’Autore è che di fronte a tutto ciò noi non siamo realmente impotenti e inermi ma possiamo reagire con curiosità, passione e cura. Possiamo osservare e farci domande sul nuovo, sull’inaspettato, sull’impensato, sul diverso, prenderci il tempo e la concentrazione per aprirci al dialogo e al confronto. L’ignoto è solo qualcosa che non conosciamo ancora, con cui non ci siamo ancora confrontati.

La passione può trarre diversi spunti dalle nuove tecnologie, favorendo l’espressione del talento personale, soprattutto per le nuove generazioni di nativi digitali che hanno beneficiato fin da subito dei contenuti virtuali e delle tecnologie più avanzate. Pensiamo alle possibilità di condivisione di contenuti grazie ai servizi di sharing in cloud online come Google Drive, di ampliare il proprio panorama relazionale con sistemi di chat come Whatsapp e i social network, o ancora i raffinati software di lavorazione di contenuti fotografici o video, fino ad arrivare a streaming provider come Netflix che si occupano anche di produzione e distribuzione di film e serie. Utenti come “consumAutori”, consapevoli e attivi, e non solo consumatori passivi.
In questo scenario è necessario riappropriarsi delle proprie responsabilità di ascolto ma anche di crescita, dello stare al mondo in mezzo agli altri, del senso delle proprie scelte e dell’orientamento alla riflessione, queste le nuove sfide educative per le generazioni da qui a venire.

Abbiamo a disposizione strumenti e tecnologie sempre più raffinati e potenti, che inglobano sempre di più nelle loro abilità competenze umane, quindi che cosa realmente ci differenzia dalle intelligenze artificiali? Ancora una volta, la risposta che Morace ci suggerisce è proprio lì, a portata di mano, siamo proprio noi. L’umano.

La speranza, la responsabilità, la curiosità. Le macchine non ne sono dotate e non esperiscono le emozioni ad esse legate, come la gioia, cosa che invece fanno gli umani; esse hanno potenza di calcolo e ne avranno sempre di più con conseguenti capacità computazionali e predittive di gran lunga superiori a quelle umane ma non avranno il dubbio. Il porsi domande, quella incredibile dote tutta umana dell’interrogarsi: le macchine non si pongono delle domande e anche se sono molto brave a dare risposte. Non hanno il mix di genetica, ambiente sociale e caso che genera il carattere. Non hanno fiducia e comprensione dell’altro né empatia; mancano di sbalzi d’umore, di percezione e di istinto. Mancano dell’umano.

Abbiamo quindi di fronte uno scenario composito che lascia al futuro diverse strade per esprimersi. Nuove tecnologie e uomo non sono in contrapposizione perché la prima può potenziare il secondo, portando a quelle che Morace chiama soluzioni impreviste. Queste si traducono in quattro paradigmi che, assieme alle qualità dell’umano, possono offrire nuove chiavi di lettura e aiutare a gestire la vita quotidiana e personale di ognuno, oltre a orientare le scelte a livello macro di istituzioni e organizzazioni:

  • valorizzare le realtà locali in un contesto globale (unique&universal)
  • rinnovare principi di etica e sostenibilità delle risorse fondamentali (crucial&sustainable)
  • orientarsi alla condivisione e alle esperienze comuni di sharing economy (trust&sharing)
  • agire non più con velocità, tutto e subito, ma con tempestività, ovvero agire nel momento giusto con una reazione veloce ma allo stesso tempo ponderata, meditata (quick&deep).

Tutti questi elementi messi insieme forniscono una chiave di lettura e concorrono a darci gli spunti per un nuovo modo di stare al mondo.

Un modo consapevole, curioso, appassionato. Un modo che accoglie il nuovo e le nuove tecnologie come un’opportunità per esprimere aspirazioni e passioni.

Inibizione, controllo degli impulsi e olfatto

Un recente studio di Herman, Critchley e Duka dell’Università del Sussex, pubblicato su Scientific Reports, mette in luce la relazione tra abilità olfattive e tendenze comportamentali impulsive in un gruppo non clinico di volontari, con l’idea di poter individuare soggetti a rischio per problemi di inibizione e controllo degli impulsi e di conseguenza strutturare programmi clinici e di trattamento preventivi. 

 

Sono diversi gli studi che pongono l’accento sulla valutazione delle abilità olfattive come modalità pratica e clinica per l’individuazione precoce di progressivi declini cognitivi; come modello di riferimento, per alcune condizioni psichiatriche, si usano recenti evidenze neuroscientifiche che evidenziano una parziale sovrapposizione e condivisione neurale tra i network preposti al processamento delle informazioni olfattive e quelli sottostanti specifiche funzioni cognitive (Atanasova, Graux, Hage et al., 2008).

Inibizione, controllo degli impulsi e capacità olfattive: le ipotesi

Affinché si possa verificare la detezione e il rilevamento di un odore, le informazioni olfattive provenienti dai recettori dell’epitelio nasale, successivamente integrate nel bulbo olfattivo, devono raggiungere le regioni olfattive primarie temporali mediali del lobo temporale mediale che includono la corteccia piriforme, la corteccia enterinale dell’ippocampo e il nucleo corticale dell’amigdala.

Le proiezioni dalla corteccia olfattiva primaria raggiungono un livello gerarchico più alto convergendo nella corteccia orbitofrontale dove avviene l’identificazione e la discriminazione dell’odore (Lubman, Yucel & Brewer, 2006).

La sovrapposizione neuroanatomica tra i substrati che sovrintendono il processamento a più livelli gerarchici delle informazioni olfattive e quelli sottostanti le funzioni esecutive suggerisce che le abilità olfattive potrebbero avere un ruolo nella valutazione dell’integrità funzionale dei lobi frontali: in particolare testare le abilità olfattive potrebbe fornire informazioni significative per la valutazione delle capacità esecutive riguardanti ad esempio la regolazione e l’inibizione del comportamento (Lubman, Yucel & Brewer, 2006).

Alcuni studi clinici hanno infatti associato quadri sintomatici caratterizzati da impulsività, in particolare da una scarsa capacità di inibizione della risposta motoria ad un alterato senso dell’olfatto come il disturbo ossessivo compulsivo e la schizofrenia (Mauro, Angelo & Hoptman, 2008); è importante sottolineare come anche individui con un disturbo da abuso di sostanze manifestassero un discontrollo degli impulsi a fronte di deficit olfattivi (Perry & Carroll, 2008).

Inibizione, controllo degli impulsi e capacità olfattive: lo studio

L’inserimento della valutazione delle abilità olfattive apporterebbe notevoli benefici sia da un punto di vista psicodiagnostico in quanto aggiungerebbe un criterio maggiormente oggettivo e affidabile da poter integrare ai risultati dei self-report utilizzati per la diagnosi, sia da un punto di vista del trattamento in quanto potrebbe rappresentare un ulteriore strumento pratico per il monitoraggio degli effetti dell’intervento clinico nel tempo.

Partendo da questo modello, gli autori del presente studio, Herman, Critchley e Duka (2018), del dipartimento di neuroscienze cliniche e comportamentali dell’Università del Sussex, volendo approfondire la relazione tra capacità olfattive e funzioni esecutive, si sono focalizzati sulla regolazione dei comportamenti impulsivi in un gruppo non clinico di 83 soggetti tra i 18 e i 35 anni, ipotizzando che deficit nella detezione e discriminazione olfattiva avrebbero potuto diminuire le capacità esecutive di controllo e inibizione comportamentale dando così origine ad un maggior numero di agiti impulsivi.

Per tale ragione, i ricercatori hanno associato punteggi self-report provenienti dalla Barratt Impulsiveness Scale (BIS-11; Patton, Stanford & Barratt, 1995) per la misurazione dell’impulsività relativa alla non pianificazione dell’azione, con punteggi provenienti da compiti comportamentali con il Stop Signal Task (SST) per la valutazione dell’impulsività motoria, l’Information Sampling Task (IST) per la cosiddetta impulsività riflessiva e il Monetary Choice Questionnarie (MCQ) per l’impulsività temporale, cioè la difficoltà a rinunciare ad un reward immediato più basso rispetto ad un altro maggiore ma più dilazionato nel tempo.

Per quanto riguarda la valutazione delle abilità olfattive, in particolare della definizione della soglia olfattiva, della discriminazione e dell’identificazione olfattive per ciascun soggetto sperimentale, è stato utilizzato lo ‘Sniffin’ Sticks’ Test, una serie di penne con odore specifico a seguito del contatto con una specifica sostanza.

Inibizione, controllo degli impulsi e capacità olfattive: i risultati

A seguito delle analisi condotte per determinare il contributo delle abilità olfattive nel predire differenti aspetti del comportamento impulsivo, misurati tramite i task poc’anzi decritti, e dei tratti impulsivi autoriferiti dai soggetti tramite BIS-11, lo studio ha mostrato come l’abilità nel discriminare un odore fosse specificamente predittiva di una maggiore abilità nell’ inibizione, nell’interruzione di una risposta motoria e come essa fosse associata a bassi punteggi self-report per gli item della BIS-11 relativi la non pianificazione dell’azione, per la prima volta in un gruppo subclinico (Herman, Critchley e Duka, 2018).

I risultati hanno altresì indicato come un’alta sensibilità agli odori, cioè una bassa soglia di detezione degli odori nei soggetti, fosse predittiva di alti punteggi nello Stop Signal Task per l’impulsività motoria, suggerendo una relazione tra l’aumento della sensibilità agli odori e una maggiore impulsività motoria, a parere degli autori mediata da funzioni dopaminergiche alterate nei network neurali che entrambe condividono; alterazioni che dovranno essere ulteriormente approfondite da studi di neuroimaging.

Da questo studio sembrerebbe che l’abilità olfattiva sia un predittore specifico di una componente cognitiva legata all’impulsività, il controllo della risposta motoria, avendo mostrato come una maggiore inibizione delle risposte motorie dei soggetti sperimentali nel SST sia legata a bassi punteggi nella BIS-11 relativi alla non pianificazione dell’azione, autoriportati dai soggetti, mentre una bassa soglia di detezione degli odori potrebbe invece rappresentare un ulteriore predittore di un’alta impulsività motoria.

Italia addio, non tornerò (2018) – Report dalla presentazione del docufilm presentato a Lucca lo scorso 26 ottobre

Italia addio, non tornerò è stato presentato a Lucca lo scorso 26 ottobre. Il docufilm è stato realizzato dalla Fondazione Paolo Cresci per l’emigrazione italiana, con il patrocinio della Regione Toscana.

 

Il filmato affronta la tematica attualissima dell’emigrazione giovanile all’estero.

Sono cifre impressionanti quelle che riguardano chi è partito in questi ultimi anni in cerca di una realizzazione personale che in patria non si riesce a trovare: nel 2017 sono partiti 285.000 nostri connazionali (fonte Idos).

Questo dato ci colloca all’ottavo posto al mondo come paese di emigrazione.

Italia addio, non tornerò: le interviste ai giovani italiani all’estero

L’emigrazione di oggi è molto diversa da quella dei nostri nonni, oggi non si parte più solo spinti da situazioni di estrema povertà, oggi le necessità e le aspettative sono cambiate. Viaggiare è diventato più facile, così come mantenere i contatti con chi resta; cercare occasioni per realizzare le proprie aspettative e i propri sogni non è più impossibile e non implica più un distacco definitivo dalle proprie radici.

Il documentario si basa su interviste a giovani italiani che vivono e lavorano all’estero. I loro racconti si susseguono a ritmo incalzante sostenuti dalla suggestiva colonna sonora realizzata da Massimo Priviero. Un lavoro enorme se si pensa che per individuare i giovani emigrati in tre continenti, la Fondazione Cresci ha contattato 70 Gruppi Facebook di Italiani nel mondo ed è entrata in contatto con circa 350.000 persone. Le interviste, realizzate a Barcellona, Londra, Los Angeles, Melbourne, Monaco di Baviera, New York e Tallinn esaminano il percorso che questi giovani hanno compiuto: la condizione che vivevano prima della partenza, spesso fatta di una frustrante ricerca di lavoro a seguito di lunghi anni di studio, lo stimolo a partire, la decisione di mettersi in gioco affrontando una realtà nuova che offriva maggiori opportunità e il successivo inserimento nella loro nuova realtà, speso gratificante, a volte anche difficile, per chiudersi con un bilancio di questa scelta. Bilancio che per molti si conclude con la considerazione che un ritorno in patria non potrà più essere nei loro piani.

Italia addio, non tornerò: cosa spinge i giovani ad andarsene

Dalle interviste emerge che i giovani che decidono di partire oggi sono esuli volontari che emigrano per realizzarsi. Una necessità di autorealizzazione tipica di un processo evolutivo in cui i bisogni primari sono soddisfatti e ad essi subentra l’esigenza di soddisfare aspirazioni e potenzialità individuali.

Questo percorso viene spiegato dallo psicologo statunitense Abraham Maslow nella piramide che illustra la gerarchia dei bisogni, partendo dai primari fino ad arrivare ai più complessi:

Italia addio, non tornerò (2018) - Report dalla presentazione del docufilm immagine

Imm.1 – La piramide dei bisogni di Maslow

La scala si divide in 5 livelli che identificano i 5 bisogni fondamentali, dal respirare e nutrirsi al senso di sicurezza, dall’avere soddisfacenti legami affettivi al sentirsi stimati da chi ci circonda. La motivazione a mettersi in gioco per salire i gradini di questa scala è data dai bisogni che consistono in stimoli indotti da una discrepanza tra quella che percepiamo essere la nostra condizione attuale e quella che vorremmo raggiungere per ottenere un benessere personale che ci manca. Una volta soddisfatto il bisogno questo cesserà di essere percepito come priorità. Acquisito un livello si potrà quindi passare a quello successivo, seguendo un percorso di crescita e realizzazione personale che porterà a raggiungere il quinto livello, ossia la piena autorealizzazione del sé: affermazione della propria individualità e delle proprie capacità, realizzazione delle proprie aspirazioni.

Italia addio, non tornerò: una scelta che ha dei costi

Dalle parole degli intervistati emerge anche che esiste un “costo” associato a questo processo di emigrazione. Ogni scelta che si compie porta inevitabilmente a perdere qualcosa e chi parte si trova a rinunciare a quei riti sociali e familiari che scandivano la quotidianità. Un senso di spaesamento iniziale esiste sicuramente ma viene in breve attenuato dalla consapevolezza di poter finalmente trovare occasioni vere per mettersi alla prova ed essere apprezzati per ciò che si è capaci di fare. A differenza che in patria, questi giovani dicono di aver trovato nelle loro nuove realtà un sistema basato sulla meritocrazia che gratifica il loro impegno e stimola a perseguire una continua crescita personale.

Il legame con l’Italia resta forte, a volte nostalgico, a volte più “rabbioso”, ma non si spezza e si riassume in una frase con cui uno degli intervistati chiude il suo raconto:

Il viaggio è bello se sai che potenzialmente puoi tornare, anche se poi magari non tornerai mai.

Tra vita e girovita (2018) a cura di Nello Viparelli – Recensione del libro

Nell’epoca dei cooking show e degli chef-star, il libro Tra vita e girovita raccoglie le riflessioni sulla nutrizione e sul cibo dei professionisti che si occupano di alimentazione e amanti della tavola imbandita

 

Questo libro nasce a tavola, quasi letteralmente. Ogni contributo viene da un diverso professionista, legato agli altri dall’amicizia celebrata e goduta nelle cene fatte insieme. Ne risulta un gradevole insieme di punti di vista, che lascia informazioni e riflessioni sull’alimentazione stimolanti anche per chi, per lavoro, si occupa dell’uso patologico del cibo.

Chi, inoltre, è appassionato consumatore di buon cibo, vi ritrova anche qualche gustosa ricetta.

Tra vita e girovita: l’alimentazione come definizione di identità

È l’uomo a fare la dieta o è la dieta a fare l’uomo? È vera la seconda. Perché l’umanità nasce nel momento in cui inventa il suo regime alimentare. Come dire che homo sapiens e homo edens sono la stessa persona. Mentre i nostri antenati pre-umani si comportavano come animali e mangiavano quel che offriva madre natura.

Gli antichi concepivano la medicina come parte della dietetica: in altre parole il cibo era concepito come terapia per le diverse patologie. Quindi di dieta si parla da moltissimo tempo, prima dei regimi alimentari che spopolano oggi. Allo stesso modo, come illustrato nell’ultimo capitolo, il modo di nutrirsi nel susseguirsi dei secoli è profondamente legato alle innovazioni tecniche e tecnologiche, agli assetti politici, alle condizioni economiche, al modo di comunicare, al commercio.

L’alimentazione come cura di se, un tempo. Oggi?

Ma oggi la “dieta” è la stessa cosa di quella degli antichi? No, afferma Marino Niola, antropologo e giornalista. Per gli antichi greci, ad esempio, era sinonimo di stile di vita e comportamenti che comprendevano oltre al cibo l’attività fisica ed il sonno. Un modo di prendersi cura di sé, per conoscersi e capire i propri bisogni, anche alimentari, senza arrivare agli eccessi (come bulimia, anoressia e ortoressia). Oggi la dieta invece perlopiu è intesa come controllo e diminuzione quantitativa delle calorie, perciò porta frustrazione e può dare luogo a disturbi del comportamento alimentare. Mi sembra un’interessante prospettiva da avere in mente quando, come clinici, ci approcciamo a pazienti che col cibo e con l’immagine corporea hanno un rapporto difficoltoso.

L’ultima tendenza in ambito alimentare è il “senza”: senza glutine, lattosio, zucchero, lieviti.. e sempre più spesso l’alimentazione dei figli viene discussa davanti agli avvocati quando le famiglie si sfasciano e le coppie genitoriali divorziano.

Alimentazione come amore

Antonella Gallo, psicologa psicoterapeuta, nel secondo capitolo, ricorda come per la psicoanalisi (cita Freud, Lacan e Winnicott) nutrizione, amore, mancanza, desiderio e sessualità sono strettamente legati. A partire dal seno materno, che ci nutre, ognuno di noi può esperire l’amore oltre al nutrimento. Detto in altri termini, il cibo e la nutrizione sono protagonisti nel processo di costruzione del legame di attaccamento, che tanto influenza anche le relazioni sentimentali e sessuali da adulti.

Le credenze da ristrutturare nei disturbi del comportamento alimentare

Alberto Vito, psicologo, racconta invece i suoi colloqui psicologici “tipici” con pazienti obesi che stanno per sottoporsi ad un intervento di chirurgia bariatrica. Il metodo di conduzione del primo colloquio procede per ristrutturazioni cognitive rifacendosi a Bateson e alla “Teoria dei tipi logici” di Russel, intercettando, per dirla alla cognitivista, le false credenze del/a paziente.

L’alimentazione nel sistema famiglia e nelle società

Giuseppe Viparelli, psichiatra e psicoterapeuta, allarga l’analisi agli aspetti sociali della nutrizione e a come questi hanno da sempre condizionato ruoli e identità sociale degli individui. Il cibo è sempre stato anche un mezzo di comunicazione: mangiando affermiamo chi siamo: la nostra appartenenza etnica e culturale, la famiglia, le tradizioni, la religione, le istituzioni religiose, nonostante questa sia l’era della globalizzazione. Se guardiamo la cucina di una famiglia possiamo dedurne molte informazioni: sulle emozioni dei componenti, su come si prendono cura l’uno dell’altro, su regole e ruoli impliciti, sulle loro relazioni, su quello che condividono, sui significati trasportati e re-interpretati dalle famiglie di origine. Da qui emergono aspetti dell’alimentazione molto più profondi e complessi di come i media lo rappresentano oggi e di come molti di noi lo veicolano sui social.

Tra vita e girovita: l’alimentazione, ciò che ne sappiamo ed i rischi percepiti

Raffaele Sibilio, sociologo, vede l’odierna perdita del senso vero della nutrizione anche come conseguenza del fatto che ormai, non sappiamo più nulla di come il cibo viene prodotto. Nonostante viviamo nell’era dell’informazione, ci lasciammo travolgere da ondate emotive come quelle sulla mucca pazza o sul vino all’etanolo, senza però comprendere l’etichetta degli ingredienti di ciò che acquistiamo al supermercato. Davvero curioso se pensiamo che il cibo, oltre ai farmaci, è l’unico bene di consumo che introduciamo nel nostro corpo. Di fatto quindi

L’uomo è anche ciò che sceglie sulla base di quello che conosce, percepisce e concepisce.

Ecco perché tendiamo a ritenere più salubri e sicuri i prodotti a km 0 e quelli privi di colesterolo.

Ciò che non conosciamo si tramuta in rischio percepito e quindi ansia.

In conclusione, ho trovato interessante anche il contributo di Paolo Sassone Corsi, che spiega l’influenza del cibo sul metabolismo degli organi interni e l’impatto della “crono-nutrizione”.

Tra vita e girovita è un libro che, da psicologa e amante del cibo, della convivialità e del cucinare, consiglio a chiunque abbia questi interessi. Si gusta in poche ore di lettura e lascia un buon sapore.

cancel