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Le Triptamine – Introduzione alla Psicologia

Le triptamine sono dei composti naturali che derivano dalla decarbossilazione dell’aminoacido triptofano, ovvero un alcaloide naturale. Si trovano in alcune piante, funghi, animali, microbi e anfibi, come la bufotenina presente sulla pelle e ghiandole di vari rospi del genere Bufo. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Nell’Uomo è localizzata per il 90% circa nel tratto gastrointestinale, dove è sintetizzata dalle cellule cromaffini, ed è presente anche nel sistema nervoso centrale, in alcuni neurotrasemttitori come la serotonina e la melatonina, e nelle piastrine, delle quali rappresenta il principio vasocostrittore.

Essa è nota per le sue proprietà allucinogene simili a quelle della psilocibina, presente in alcuni funghi allucinogeni, o della dilmetil-triptamania, un componente dei decotti di Ayahuasca, utilizzati da alcune popolazioni dell’Amazzonia per le note proprietà allucinogene.
 Le triptamine agiscono principalmente in maniera agonista sui recettori serotoninergici ma anche su molti canali ionici.

La ghiandola pineale situata nell’encefalo è in grado di produrre più o meno blande quantità di triptamina, durante la fase REM dei sogni, specialmente intorno alle ore 3, 4 del mattino. Questa sostanza, quindi, potrebbe essere la chiave per spiegare le particolari caratteristiche di alcuni sogni.

Le triptamine possono essere divise in 2 grandi gruppi:

  • Le triptamine semplici, da cui derivano dei composti per varie sostituzioni e le ergoline, di cui fa parte LSD. Le triptamine naturali circolano come preparazioni vegetali essiccate, per esempio i funghi secchi.
  • Le triptamine sintetiche, al contrario, possono trovarsi sotto forma di capsule, compresse, polveri o in forma liquida. Generalmente sono ingerite, sniffate, fumate o iniettate.

Le triptamine di sintesi comprendono un gruppo di composti derivati dalle triptamine classiche con proprietà principalmente allucinogene.

Alcune triptamine sintetiche sono state progettate e sintetizzate per la ricerca, altre, invece, sono in circolazione come nuove sostanze psicoattive.

Alcune delle triptamine riscontrate nel mercato delle droghe sono la 5-MeO-DMT, 5-MeO-DPT, AMT, 4-AcO-DMT, 4-AcODiPT, 5-HTP, psilocin, psilocybin, DET, DMT, etriptamina, 5-MeO-DALT, 5-MeOMiPT, 4-AcO-DMT.

Tra le triptamine più conosciute e diffuse: la DMT

Le triptamine sintetiche, diffusesi a partire dagli anni 90’, sono rimaste in voga sul mercato delle droghe, fino al 2007 quando furono inserite all’interno della lista dei narcotici o designer drugs e successivamente rimpiazzate dai catinoni, dalle fenetilamine e dalle piperazine.

La più conosciuta tra le triptamine è la DMT ovvero Dimetiltriptamina o 4-AcO-DMT

La DMT è una triptamina sintetica psichedelica, che deriva della acetilatazione della psilocina, in condizioni fortemente acide o alcaline, e per questo altamente allucinogena.

Nonostante sia simile alla psilocibina, essa risulta più resistente all’ossidazione in condizioni basiche.

Storia della DMT

La DMT fu sintetizzata per la prima volta nel 1931 da Richard Manske nella grande ondata di sperimentazione chimica che portò alla scoperta della mescalina alla fine del diciannovesimo secolo. In quel momento non si conoscevano i suoi effetti sulla psiche e così fu dimenticata fino a quando, circa quindici anni dopo, le pozioni degli sciamani sudamericani divennero di grande interesse per la psicofarmacologia.

La prima testimonianza registrata dell’uso di un preparato a base di DMT si ha da un frate impiegato nella seconda spedizione di Colombo nelle Americhe nel 1496, sull’isola di Hispaniola, che osservò gli indiani Taino inalare una potente polvere chiamata ‘kohhobba’, forte al punto che chi la assumeva perdeva coscienza.

Goncalves, un chimico, nel 1946 è riuscito a isolare per la prima volta DMT da una Mimosa Hostilis  e ulteriori ricerche successive portarono alla individuazione di DMT nella Piptadenia macrocarpa e nella Peregrina.

Soltanto nel 1956, però, si specificarono gli effetti psicoattivi della DMT. Fu Stephen Szára, chimico ungherese e psichiatra, che non riuscendo a procurarsi l’LSD o la mescalina sintetizzò da una pianta DMT, sperando fosse una sostanza abbastanza psichedelica.

Successivamente, Szára fuggì dall’Ungheria emigrando negli Stati Uniti dove lavorò al National Institutes of Health a Bethesda, nel Maryland, per oltre trent’anni e come direttore della ricerca preclinica presso l’Istituto nazionale per l’abuso di droghe per molti anni fino al suo ritiro nel 1991.

Nel 1965, una squadra tedesca ha annunciato di aver isolato DMT da sangue umano e nel 1972 fu individuata nel tessuto cerebrale umano, e successivamente nell’urina e nel liquido cerebrospinale. Una volta scoperti i percorsi attraverso i quali il corpo umano genera DMT, essa fu designata come il primo psichedelico umano endogeno.

La DMT sintetica è ricavata a partire da solventi come alcol o gasolio, oppure attraverso dei processi di distillazione.

Meccanismo di azione

Gli effetti psichedelici della DMT si possono attribuire in gran parte alla attivazione del recettore serotoinergico 5-HT2A, anche se non si può escludere che altri recettori possano giocare un ruolo importante. Quando la DMT arriva al sistema nervoso centrale si lega ai recettori adrenergici causando un aumento della pressione e una diminuzione della produzione di noradrenalina e di acetilcolina. Successivamente entra in competizione con la serotonina e con la dopamina sui recettori della dopamina causando così una diminuzione degli stessi a livello postsinaptico, ma senza cessarne la produzione. Quando successivamente la sostanza è metabolizzata, i neurotrasmettitori ritornano tutti al loro posto. In questo modo non si creano né alterazioni chimiche né dipendenze per la DMT.

Modalità di assunzione

La DMT è assunta con diverse modalità che differiscono per effetti e durata. Può essere fumata producendo effetti immediati ma meno duraturi; inalata, e gli effetti sono caratterizzati da un incremento della durata e da una diminuzione dell’euforia; iniettata e produce effetti simili all’inalazione; ingerito, produce affetti più duraturi.

Effetti ed esperienze

I principali effetti della DMT sono:

  • allucinazioni visive vivide;
  • maggiore nitidezza dei colori;
  • brillantezza dei colori aumentata;
  • alterazione di tutte le percezioni, specie visive, tattili ed uditive;
  • presenza di un ronzio/fischio ad alte frequenze, ricorrente in tutte le esperienze

Da questa fase si passa a una seconda in cui si genera un caleidoscopio della coscienza nel quale si muovono dei frattali coloratissimi e fluorescenti.

Nel giro di una decina di minuti le allucinazioni perdono vividezza, si ripassa alla fase di “semi-coscienza” per poi tornare nel giro di altri 10-20 minuti alla normalità.

Effetti collaterali

La DMT genera la comparsa di allucinazioni visive, dispercezioni uditive, intensificazione dei colori, la distorsione dell’immagine corporea, la depersonalizzazione, la marcata labilità emotiva, euforia, rilassamento, proprietà entactogene, sintomatologia dello spettro ansioso, agitazione, tachiaritmia, iperpiressia, neurotossicità serotoninergica.

Quindi, dopo l’assunzione si presentano pensieri confusi, difficoltà nell’articolare le parole, difficoltà a deambulare.

Successivamente si ha un miglioramento dello stato emotivo e la sensazione che tutto intorno sia piacevole. I colori iniziano a cambiare e a rendere l’ambiente come quello di un cartone animato o di un film di fantascienza. L’ambiente sembra modificarsi, restringersi o ampliarsi, sembra diventare un mondo magico dove gli oggetti prendono vita. Poi, d’un tratto si verifica un vuoto assoluto e una sensazione di apatia totale, a volte unita a terrore e sensazione di morte imminente.

Stato legale

In Italia la molecola DMT non risulta inclusa nelle Tabelle del D.P.R. 309/90 e s.m.i. La molecola non risulta essere posta sotto controllo in Ungheria, Lituania e Portogallo. Non risulta essere posta sotto controllo in Bulgaria. Non si hanno informazioni sullo stato legale della molecola negli altri Paesi europei.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La differenza invisibile (2018) di C. Mademoiselle, J. Dachez, F. Vaslet – Recensione del libro

Julie Dachez prende ispirazione dal proprio vissuto personale per raccontarci, nel libro La differenza invisibile, la storia di Marguerite, giovane donna Asperger che affronta le sfide del vivere in un mondo fisico e sociale costruito su misura delle caratteristiche della popolazione neurotipica.

 

Ne esce un graphic novel in cui le illustrazioni di Madamoiselle Caroline, meravigliose nel loro uso del colore, rendono pienamente giustizia al vissuto psicologico ed emotivo della protagonista.

La differenza invisibile: la storia di Marguerite che si sente inadeguata

Marguerite si presenta ai lettori de La differenza invisibile come una giovane donna che, inizialmente inconsapevole della sua neurodiversità, si sforza di condurre una vita “normale”: ha un lavoro, un fidanzato e degli amici eppure prende gradualmente consapevolezza del fatto che la sua quotidianità è una continua lotta tra l’impulso a rifugiarsi nelle cose che le danno piacere e lo sforzo di rispondere a tutte quelle richieste sociali che le permettono di riconoscersi uguale agli altri, quindi “giusta”.

Il primo ostacolo nel raggiungimento di tale obiettivo è dato dal fatto che Marguerite non vive nello stesso ambiente percettivo in cui vivono i neurotipici. La sua iperuditività le rende difficoltoso lavorare nell’ambiente caotico dell’open space, in cui mille suoni diversi raggiungono la sua attenzione e le impediscono di concentrarsi sul compito.

L’ipersensibilità tattile le procura dolore nel sopportare un abbigliamento che rispetti i dress code imposti dai diversi ambienti sociali che, nonostante ella si impegni, le rimandano di non essere  mai sufficientemente adeguata.

La differenza invisibile: le mille variabili dell’autismo

Per queste stesse ragioni Marguerite non riesce a condividere il letto con il fidanzato e fatica a partecipare insieme a lui alle “normali” attività di svago, in particolare modo quando le richieste giungono inaspettate e sconvolgono le routine quotidiane, unica garanzia di tranquillità all’interno di una giornata dominata dall’ansia.

Il suo profilo cognitivo fa sì che coltivi con interesse assorbente le sue passioni, che mai incontrano quindi la necessaria disponibilità all’ascolto da parte degli altri. La comprensione letterale non le causa solo qualche momento di imbarazzo, ma, unita alla scarsa comprensione delle intenzioni altrui, la rendono incapace di mentire e, cosa più grave, vulnerabile all’abuso.

Esasperata dalla fatica di convivere con  tutte queste difficoltà, Marguerite si mette alla ricerca di risposte su internet e scopre che molte delle sue caratteristiche sono riconducibili alla sindrome di Asperger. Da qui inizia il lungo percorso di ricerca di una conferma che, come spesso accade, prende avvio dal contatto con specialisti che non sono in grado di riconoscere in lei alcuna forma di neurodiversità, ancora troppo ancorati al pregiudizio che di autismo si possa parlare solo in presenza di sintomi eclatanti quali una netta chiusura sociale simboleggiata dall’assenza di contatto oculare. Oggi si sa invece che l’autismo è una condizione che contempla al suo interno una grande variabilità di manifestazioni, spesso molto distanti da questo stereotipo. Nelle femmine diventa spesso una condizione invisibile poichè i sintomi sono generalmente meno pronunciati e alcuni di essi finiscono spesso per essere normalizzati da fattori culturali legati al genere sessuale.

Quando finalmente Marguerite incontra i professionisti giusti, accoglienti e preparati, le viene proposto il percorso diagnostico che la condurrà verso il riconoscimento di una condizione autistica lieve, l’Asperger.

La differenza invisibile: ciò che ci rende uguali

Da quel momento Marguerite cesserà di sentirsi sbagliata e imparerà ad accettare se stessa, si riapproprierà gradualmente del diritto di riconoscersi in bisogni legittimi anche se differenti dalla maggior parte della popolazione. Non tutte le persone che ruotavano intorno a lei si riveleranno capaci di crederle e di rispettarla ma Marguerite non è più disposta ad essere l’unica a sforzarsi di fare dei passi nella direzione dell’altro: da quando ha scoperto di essere Asperger sa fermarsi a metà strada, consapevole che solo una maggior conoscenza dell’autismo da parte della popolazione neurotipica potrà favorire questo reciproco avvicinamento. Forse con questo obiettivo è nato questo bellissimo libro.

Il dolore di un cuore spezzato da un lutto: le conseguenze per la salute fisica

La morte del proprio coniuge, di quello che è stato il proprio compagno o compagna di vita, è spesso causa di importanti conseguenze psicologiche, ma anche il corpo e la salute fisica sembrano subire l’impatto di questa perdita in maniera maggiore di quanto finora pensato.

 

La perdita di un coniuge può avere effetti devastanti non solo sulla salute psicologica, ma anche su quella fisica, o almeno questo è quanto afferma un recentissimo studio effettuato dalla Rice University di Houston, Texas (Fagundes et al., 2018).

Il campione oggetto di studio ha coinvolto 99 soggetti (sia uomini che donne) che avevano perso il compagno o la compagna nei 3-4 mesi precedenti all’indagine.

La procedura sperimentale prevedeva che, in seguito ad un’intervista preliminare, fossero prelevati a ciascun soggetto dei campioni di sangue. Successivamente i ricercatori hanno diviso la totalità dei partecipanti in due sottogruppi: il primo gruppo era costituito da coloro che mostravano maggiori comportamenti di sofferenza a seguito del decesso del coniuge (ad esempio difficoltà a superare l’accaduto, incapacità di accettare il lutto, presenza di flashback di episodi vissuti con il coniuge seguiti da umore negativo, etc.); il secondo gruppo invece raccoglieva i soggetti che, al contrario, non presentavano tali sintomi.

Tramite il prelievo ed il successivo confronto dei campioni di sangue è stato possibile dimostrare come i soggetti del gruppo che soffriva maggiormente il lutto mostravano un livello di infiammazioni corporee generalizzate più alto del 17% rispetto ai membri dell’altro gruppo. In questo modo sembrerebbe che la sofferenza vissuta a causa del lutto correli positivamente con il livello di infiammazioni corporee.

Nell’esame dei campioni di sangue sono stati esaminati i livelli di varie citochine: interferone gamma (IFN-γ), inter-leuchina (IL)-6, TNF-α. Gli autori dello studio hanno riscontrato che nel gruppo di persone che mostrava più sofferenza per la perdita del coniuge, i livelli di IFN-γ, IL-6 e TNF-α erano più elevati rispetto a quanto riscontrato nell’altro gruppo. La presenza di un alto livello di queste citochine favorisce le infiammazioni a livello corporeo ed è un fattore di rischio per moltissime complicazioni mediche che insorgono durante l’età adulta (compresi i tumori e gli infarti).

Conclusioni

Secondo gli autori dello studio, si tratta della prima volta in cui è possibile confermare grazie ad uno studio sperimentale che il dolore di un lutto, indipendentemente dai sintomi depressivi che il soggetto che vive la perdita può provare, conduce ad una maggiore probabilità di incorrere in infiammazioni corporee di diversa natura, che a loro volta possono essere causa di problemi di salute ancora più gravi.

Da un punto di vista pratico, la principale implicazione che ne consegue è che si delinea la possibilità di poter individuare poco dopo il lutto i soggetti nei quali la sofferenza psicologica può portare ad un’aumentata probabilità di incorrere in problemi di salute quali attacchi cardiaci e ictus. La possibilità di individuare la popolazione a rischio implica anche la possibilità di poter intervenire tempestivamente, tramite interventi comportamentali o farmacologici, per ridurre la sofferenza e quindi i rischi per la salute.

Non dimenticarmi – Don’t forget me (2018) – Recensione del film vincitore del Torino Film Festival 2017

Non dimenticarmi – Don’t forget me è un film diretto da Ram Nehari in cui si intrecciano anoressia e fuga d’amore. Il film, vincitore del Torino Film Festival 2017 esce nelle sale dal 15 Novembre.

 

Il film narra in maniera cruda, drammatica ed ironica l’intreccio amoroso tra Tom (Moon Shavit), affetta da anoressia nervosa e ricoverata in una clinica per il trattamento dei disturbi alimentari, e il sensibile Neil (Nitai Gvirtz), musicista affetto da disturbi psichiatrici.

Non dimenticarmi: l’inizio in una clinica per disturbi alimentari

La storia è quella del toccante incontro fra la giovane e fragile Tom, ricoverata in una clinica per il trattamento dei disturbi alimentari che si rivolge alla vita con durezza, cinismo e disillusione e Neil, sensibile suonatore di tuba affetto da problemi psichiatrici che entra ed esce da un ospedale all’altro e sogna di girare il mondo in tournée con la propria band.

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Non dimenticarmi - Don’t forget me - Recensione del film prot2

Non dimenticarmi racconta in maniera cruda e commovente, seppur con un pizzico di ironia, il dramma vissuto da Tom la quale, ricoverata in una clinica per il trattamento dei disturbi alimentari, vive in simbiosi con la propria ossessione per il cibo e si rivolge alla vita con cinismo, freddezza e rigidità.

Quando la triste e monotona routine della clinica, scandita da frustranti controlli medici e disperati tentativi di nascondere il cibo e smaltire le calorie di troppo, viene stravolta dal ritorno del ciclo mestruale, Tom, ossessionata dalla propria immagine corporea ed imprigionata nella sua visione così rigida ed intimamente distorta della realtà, sprofonda nel panico. Invece di gioire di fronte a un chiaro sintomo che il proprio organismo sta finalmente tornando in salute, lo stato d’animo che prende il sopravvento ha a che fare con l’umiliazione e la disperazione relativa agli sforzi che si renderanno necessari per tornare “in forma” ed eliminare i chili acquisiti.

Quella sarebbe senza alcuna ombra di dubbio una giornata da dimenticare, se non fosse per la conoscenza del sensibile Neil, giovane psicotico capitato per caso nella clinica che fantastica di partire in tournée per coronare il suo sogno di musicista.

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Non dimenticarmi - Don’t forget me - Recensione del film prot1

Non dimenticarmi: la fuga alla ricerca della normalità

Il loro incontro, per nulla banale, a tratti goffo ed ironico, si traduce presto in una vera e propria fuga d’amore per le strade di Tel Aviv. Scappati nel cuore dalla notte da una finestra, una finestra sul mondo e sulla vita, i due ragazzi vagano per la città senza meta condividendo sogni, speranze e desideri riconoscendosi, seppur nella loro diversità, sempre più vicini.

Non dimenticarmi - Don’t forget me - Recensione del film - Cover

La loro follia e le loro fantasie alimentano il loro amore, un sentimento sincero per la vita e per la libertà. È così che, forse dopo molto tempo, la gelida e cinica Tom abbassa le difese svelando il suo mondo e le sue paure a un degno compagno di avventura. Il loro cammino, così naturalmente folle e squilibrato, così drammaticamente in collisione con la nuda e cruda realtà che non può fare a meno di rivelarsi in tutta la sua amarezza ad ogni loro fermata, si traduce in un vero e proprio viaggio verso la ricerca della normalità, quella normalità che sino ad ora quel mondo, così severo e poco empatico, gli ha negato.

Finalmente Tom e Neil, anche se evidentemente troppo vulnerabili per sorreggersi davvero, hanno trovato tutto ciò di cui hanno bisogno: la possibilità di evadere dalla loro solitudine e condividere sogni fatti di tenere illusioni.

Non dimenticarmi è un film toccante, insolito e senza filtri che si rivolge a un pubblico sensibile ed acuto, che sappia leggere il dramma di due protagonisti decisamente folli ed innamorati della vita che si rifugiano, insieme, nelle rispettive fantasie dalle quale sanno costruire, seppur a modo loro, un sentimento naturale e sincero, per nulla scontato e così singolarmente fuori dagli schemi.

 

NON DIMENTICARMI – GUARDA I VIDEOCLIP DEL FILM:

NON DIMENTICARMI – TRAILER UFFICIALE:

 

Lesioni frontali e disturbi comportamentali nella sindrome disesecutiva

Una persona a seguito di una lesione in sede frontale, sia unilaterale che bilaterale, può manifestare disturbi del comportamento. I lobi frontali infatti hanno un ruolo cruciale nel modulare e controllare i meccanismi emozionali sottesi al sistema limbico (Natua, 1971).

Simona Pappacena – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Vi è una fitta rete di connessioni con diverse aree (ipotalamo, amigdala, aree associative visive, uditivi e somato-sensoriali) grazie alle quali i lobi frontali ricevono sia informazioni relative agli stati motivazionali ed emozionali sia informazioni relative al mondo esterno. Attraverso queste interconnessioni i lobi frontali regolano gli stati emotivi in base alle condizioni esterne ed interne alla persona al fine di consentire un adattamento funzionale all’ambiente. Lesioni in tali aree possono condurre ad una mancata integrazione di tali informazioni che potrebbero spiegare da un lato le condotte emozionali e sociali inappropriate e dall altro l’incapacità di anticipazione presente in lesioni frontali. (Stuss, Gow e Hetherington, 1992).

Lesioni frontali: il primo caso in letteratura

Harlow (1848) riporta il primo caso di rilevante cambiamento nella personalità e nel comportamento; si strattava di un paziente con una lesione bilaterale dei lobi frontali, che coinvolsero soprattutto le aree orbitomediali. Tale paziente, Phineas Gage, ormai divenuto emblematico nel mondo della neuropsicologia, prima della lesione descritto come equilibrato e paziente, divenne successivamente irriverente, ostinato ed incostante.

La manifestazione fenomenologica dei disturbi del comportamento dipende da vari fattori: la sede della lesione, l’estensione e la localizzazione. Pertanto, tali disturbi risultano essere molto eterogenei.

Oltre alla componente biologica, legata, ad esempio, al tipo di eziologia (traumatica, degenerativa, tumorale), è importante tenere in considerazione alcuni fattori che non hanno una diretta relazione con il danno cerebrale (Gainotti, 1996) e possono essere:

  • Personalità premorbosa
  • Variabili psicologiche ed ambientali

Inoltre, i disturbi comportamentali possono essere complicati anche da deficit cognitivi associati alle lesioni frontali. Si rende pertanto opportuna una valutazione neuropsicologica che tenga conto dell’intreccio di entrambi gli aspetti.

Nonostante la variabilità delle manifestazioni cliniche, è possibile individuare e descrivere tre principali aree problematiche: i disturbi della motivazione, i disturbi della disinibizione frontale e i disturbi affettivi.

Lesioni frontali e disturbi della motivazione

Per motivazione si intende uno stato interno che implica processi sia di natura consapevole che di natura non consapevole, che spingono un soggetto ad agire (Marin, 1990). Lo stato motivazionale porta ad elaborare informazioni ambientali al fine di selezionare stimoli e comportamenti rilevanti o che conducono ad un maggior vantaggio per un soggetto.

Apatia 

L’apatia è una riduzione dei comportamenti finalizzati al raggiungimento di uno scopo, sul versante cognitivo (come la riduzione dei contenuti del pensiero legati al raggiungimento di un obiettivo), comportamentale (non impegnarsi in attività sociali e ricreative) ed emotivo (perdita della reattività emotiva sia a stimoli positivi che negativi e mancanza di spontaneità), per mancanza di motivazione (Marin, 1990).

La mancanza di motivazione può essere presente:

  • Nella sindrome apatica, dove vi è un deficit motivazionale primario
  • Come manifestazione sintomatologica secondaria a disturbi internistici, psichiatrici e neurologici (es. demenza). I pazienti apatici neurologici, non manifestano disagio per il loro stato e non sembrano preoccuparsene. Vengono descritti dai familiari come disimpegnati ed inibiti, meno attenti agli altri, indifferenti a qualsiasi attività. L’apatia è associata ad una disfunzione del circuito cingolato anteriore, definito come circuito della motivazione, che integra informazioni cognitive ed emozionali nei processi motivazionali, e può manifestarsi sia in pazienti con patologia degenerativa corticale (Alzheimer) e sia in pazienti con patologia sottocorticale (Parkinson).

Altra condizione che porta ad una riduzione nel comportamento e nella motivazione a ricercare piacere, è l’anedonia. Per anedonia si intende un’incapacità nel provare piacere in ogni tipo di situazione che di norma dovrebbe procurarne (attività sessuali, attività relazionali o sociali). L’anedonia, quindi si riferisce ad un’incapacità nel desiderare e ricercare stimoli gratificanti. L’anedonia, nei pazienti neurologici, sembra essere associata ad una iposensibilità dei maccanismi cerebrali di ricompensa a causa di una disfunzione dopaminergica mesolimbica. E tale aspetto è stato osservato ad esempio in pazienti con Parkinson.

Lesioni frontali e disturbi della disinibizione

Un aspetto frequentemente presente in pazienti con danno frontale è la cosiddetta “sindrome da disinibizione”. Per capire la fenomenologia di tale sindrome è utile la descrizione che ne fa Damasio (1994). Tali pazienti, infatti, secondo Damasio, “sanno” come dovrebbero agire, ma non “sentono” il loro agire. Questo aspetto può essere spiegato in questi pazienti da una preservata intelligenza cognitiva ma da una compromissione dell’intelligenza sociale ed emozionale: conoscono le norme sociali ma non riesco a rispettarle nella vita quotidiana.

Tale sindrome è correlata ad una disfunzione della corteccia orbitofrontale, sede del controllo, della modulazione e dell’inibizione di azioni ed emozioni. Alcuni aspetti legati ai disturbi della disinibizione sono:

  • Impulsività, ovvero l’attuazione di risposte immediate, senza una pianificazione ed una valutazione dei possibili effetti su di sé e sugli altri. Nei pazienti con danno frontale, soprattutto a carico delle regioni orbitomediali, è possibile ricontrare una impulsività motoria, cioè la tendenza a produrre una risposta immediata in presenza di uno stimolo, ed un’impulsività cognitiva, cioè un’incapacità nel ritardare una gratificazione.
  • Comportamenti inappropriati, ovvero un’incapacità di adeguare il proprio comportamento alle richieste ambientali, caratterizzato da una violazione delle norme sociali ed interpersonali. Tali comportamenti sono legati, dunque, ad una varietà di alterazioni della condotta che sono ritenute anomale, indipendentemente dal contesto (Rosen et al., 2002). Tra le manifestazioni di tali comportamenti, in pazienti neurologici con danno frontale, vi sono: l’iperoralità, cioè disturbi del comportamento alimentare sia in senso quantitativo (bulimia) che in senso qualitativo (alimentazione caotica) o aumento del fumo e dell’alcol; iperattività motoria sia vocale che motoria. Tra questi aspetti vi sono la dromomania, cioè una deambulazione eccessiva caratterizzata da pedinamento (shadowing) di qualunque oggetto animato in movimento; camminare su percorsi fissi e stretti (pacing), il vagabondaggio (wandering), e l’affaccendamento afinalistico, cioè quando i pazienti sembrano indaffarati in attività che non hanno un fine logico (come fare e disfare il letto). Tra i disturbi legati ai comportamenti inappropriati, vi sono anche i disturbi ossessivo compulsivi (DOC), che sono correlati ad una disfunzione della corteccia frontale. Si differenziano dai disturbi ossessivo-compulsivi di natura psichiatrica, in quanto nei pazienti neurologici i comportamenti ripetitivi complessi non sono finalizzati al neutralizzare vissuti d’ansia. In particolare è stato osservato la presenza di DOC in casi di disfunzioni del circuito orbitofrontale laterale e del circuito cingolato anteriore. Tali circuiti, non andrebbero, in caso di disfunzione, ad esercitare il controllo inibitorio sul talamo dorsolaterale, con conseguente attivazione di schemi motori inappropriati, perseverazione di pensieri e condotte ripetitive. Un esempio di manifestazione del DOC è la tendenza all’accumulo di oggetti inutili (Damasio 2005).
  • Sociopatia Acquisita, ovvero una grave alterazione del comportamento sociale che si caratterizza per insensibilità, mancanza di sensi di colpa, non comprensione delle conseguenze dei propri atti sugli altri. Vi è una mancanza di comprensione degli stati emotivi degli altri. Questa aspetto si presenta soprattutto in pazienti con lesioni bilaterali in sede orbitofrontale.
  • Aggressività e comparsa di comportamenti violenti, soprattutto in seguito a traumi cranici. Le aree danneggiate che portano ad una disfunzione della regolazione delle emozioni negative e che portano all’aggressività impulsiva sono quelle orbitofrontali e temporale anteriore (Davidson, Katherine, Larson, 2000).

Lesioni frontali e disturbi dell’affettività

Le alterazioni del tono dell’umore, presenti in diverse patologie sia psichiatriche che neurologiche, sono legate ad una non funzionale esperienza soggettiva ed espressione delle emozioni.

La depressione è presente in diverse condizioni cliniche. Nei pazienti con lesioni cerebrali, è necessario distinguere i sintomi depressivi causati da un effetto diretto del danno della lesione sull’umore, dai sintomi reattivi, di natura psicologica, legate alle conseguenze fisiche e sociali della malattia neurologica.

Peculiare di alcuni pazienti con lesioni frontali è la presenza di “labilità emotiva”, che si caratterizza per un repentino e brusco cambiamento del tono emozionale (es. dal riso al pianto). Gli stati depressivi sembrerebbero associati maggiormente a lesioni a carico delle aree frontali dell’emisfero sinistro. Invece, lesioni frontali all’emisfero destro, sembrerebbero maggiormente associati ad episodi di mania. (Starkstain e Robinson, 1997).

Lesioni frontali e riabilitazione dei disturbi comportamentali

Un approccio riabilitativo per i disturbi del comportamento è la terapia di modifica comportamentale (Behavior Modification Therapy). Una tecnica utilizzata per la riabilitazione dei comportamenti indesiderati in eccesso (quali la disinibizione e l’impulsività) è la “token economy”. Tale tecnica prevede l’erogazione di gettoni al paziente quando questi mette in atto un comportamento appropriato (rinforzo positivo) e la sottrazione di tali gettoni in caso di comportamento non appropriato (rinforzo negativo). I gettoni hanno un valore per il paziente perché vengono attribuiti a premi, pattuiti con lo stesso paziente.

Altra tecnica utile per i disturbi in eccesso, è la sospensione (time-out) dell’attività che si sta svolgendo ogni volta che si mette in atto un comportamento indesiderato. Entrambe le tecniche hanno scopo di rinforzare le capacità riflessive del paziente. In caso di sintomi in difetto (apatia e anedonia), si erogano rinforzi positivi (oggetti, cibo ecc..) ogni volta che il paziente mette in atto dei comportamenti desiderati. In una revisione sugli studi riabilitativi dei disturbi del comportamento (Cattelani, Zettin, Zoccolotti, 2010), è stato messo in evidenza l’efficacia dei trattamenti della terapia di modifica comportamentale. Inoltre, anche la terapia cognitivo-comportamentale, in cui si cerca di modificare gli stili di pensiero e le strategie di adattamento non funzionali, e le terapie olistiche e multidisciplinari, che prevedono una presa incarico totale del paziente e dei suoi familiari, rilevano dei dati promettenti in termini di efficacia riabilitativa dei disturbi acquisiti del comportamento.

La fallacia delle autovalutazioni e l’autocaratterizzazione – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 47

Alcuni affermano con certezza e malcelato orgoglio di avere una soglia del dolore molto alta, intendendo con ciò che resistono bene al dolore e sottintendendo che se si lamentano allora deve essere proprio molto intenso se non insopportabile. 

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La fallacia delle autovalutazioni e l’autocaratterizzazione (Nr. 47)

 

La questione sarebbe davvero di poco conto se le riflessioni che suscita non fossero estendibili a tutto ciò che uno può dire di sé non fondandosi su dati oggettivi di raffronto con un campione omogeneo ma sulla comparazione di presunti vissuti soggettivi.

Quando affermo che ho una soglia del dolore molto alta è perché valuto molto forte quel dolore che provo e riesco a tollerare, e non è forse questo l’indicatore di una bassa soglia del dolore? Insomma l’“io” soggetto che valuta che il “me” oggetto ha una alta soglia del dolore è solo perché lui ce l’ha molto bassa.

È il solito discorso per cui qualsiasi valutazione su se stessi, considerato che il soggetto è allo stesso tempo un “io” valutatore ed un “me” valutato, ci dice poco di oggettivo sul “me” e molto sull’“io” valutatore.

Un altro esempio viene dalla mia personale esperienza di direttore di una struttura con trecento psicoperatori che ogni anno deve valutare con l’ausilio dei suoi collaboratori ciascun dipendente. Regolarmente i migliori a cui venivano attribuiti dei riconoscimenti li reputavano sinceramente immeritati avendo, a loro parere, fatto solo il loro dovere e neppure sempre al meglio. Al contrario quelli che meno si impegnavano sul lavoro ritenevano di meritare premi essendosi sforzati all’inverosimile. Anche in questo caso tutto ciò è comprensibile. Un buon lavoratore ha alti standard, si valuta da quel punto di vista e si ritiene appena sufficiente. Al contrario uno sfaticato pensa che lo stipendio sia un diritto acquisito per il fatto di essere stato assunto e null’altro debba fare, talvolta neppure essere presente affidando ad altri il proprio cartellino segna presenze.

Ancora, un vero narcisista pensa di essere incredibilmente modesto rispetto alle sue potenzialità e una personalità ossessiva può percepirsi come tendente alla sciatteria.

Attenzione questo non è un invito a diffidare sistematicamente delle affermazioni che una persona ed anche un paziente fa su di sé. Ci dicono molto di lui soprattutto se poniamo l’attenzione sul punto di vista dal quale tale affermazione è fatta (per capirci sull’“io” che la fa, sul descrittore piuttosto che sul “me” che è descritto).

Quanto detto dunque non è in contraddizione con l’invito del cognitivismo ad ascoltare e prendere per buono quanto ci dice il paziente, piuttosto che spiegarcelo con le nostre teorie giustificando il suo disaccordo come una resistenza confermante la nostra ipotesi. Al contrario si tratta di ascoltarlo molto attentamente chiedendosi e chiedendogli rispetto all’affermazione che fa su di sé (sono fragile, sono generoso, sono coraggioso, ecc ecc.):

Da quale punto di vista fa questa affermazione?
A cosa gli è utile pensarsi così?
A cosa gli serve dire a me che si pensa così?

Dunque di fronte a quello strumento duttile, semplice e poco impegnativo che è l’autocaratterizzazione dobbiamo ricordarci che non è “come il paziente è” ma, in parte “come il paziente crede di essere” e soprattutto “come il paziente vuole che io creda che lui si vede”.

Tralascio il caso particolare di coloro che esordiscono con “perché io sono sincero, dico sempre ciò che penso in ogni occasione, senza peli sulla lingua” che mi accendono la scala “L” del mio interno MMPI, mi sollecitano regolarmente a rispondere con un “Io invece tendo sistematicamente a mentire e a cambiare versione a seconda del contesto e delle convenienze” e soprattutto mi fanno partire con violenza il ginocchio destro in avanti con destinazione testicolare.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Le lacrime di Nietzsche (2006) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

Le lacrime di Nietzsche di Yalom è stato una conferma. Senza dubbio. Narrazione affascinante, ritmo incalzante, stesura fluida. Niente da dire. Ma quando una fredda mattina di settembre ho concluso la lettura di questo libro non ho potuto fare a meno di provare una emozione strana.

 

Ho già avuto modo di leggere Yalom. Ho letto La cura Shopenahuer, Il dono della terapia ed ora Le lacrime di Nietzsche.

Mi sono sentita “sospesa”. Nel monitorare quello che sentivo ho rintracciato la tristezza, la mia, quella di Breuer e Nietzsche, ed un senso misterioso di speranza ed appagamento.

Le lacrime descritte non appartengono soltanto a Nietzsche ma ad ogni essere umano che si confronta con il dolore ed il dispiacere della realtà terrena, che a volte è magica e speciale ma altre volte cruda e terrorizzante. Anche Breuer, dopo un viaggio guidato nella sua mente, comprende la pienezza di quello che ha nella sua vita, mentre prima se ne sentiva appesantito: accettandone i limiti riconosce di non volere altro, di non volere più quello che credeva di volere.

Le lacrime di Nietzsche: Nietzsche e Breuer in psicoanalisi in incognito

Non potendo svelare i dettagli di questo incontro, per non anticipare troppo ai lettori, mi limito a descrivere in linee generali quello che accade.

Josef Breuer, il medico del momento, uno psichiatra che ha in cura nomi illustri viennesi, incontra Lou Salomé, una donna bellissima e affascinante che gli chiede di aiutare il suo amico Nietzsche, entrato in una profonda crisi. Il tutto, senza che quest’ultimo se ne possa rendere conto. Cosa ardua, direte. Effettivamente come si fa a curare una persona senza che questa capisca di essere un paziente in terapia? L’enigma viene risolto in modo eccellente da Breuer ed i due iniziano a scambiarsi spesso e volentieri il ruolo di paziente e terapeuta in un clima molto simile a quello che è un setting terapeutico come lo intendiamo oggi.

In Le lacrime di Nietzsche si legge anche di tecnica, di ipnosi, dell’attenzione alla relazione che noi oggi chiamiamo terapeutica. Loro parlano di “spazzare il camino” per riferirsi alle libere associazioni, parlano di tecniche comportamentali e anti-ruminatorie che troviamo nei protocolli cognitivo-comportamentlai del DOC, come la dilazione, l’esposizione con prevenzione della risposta e poi troviamo, in un modo molto grezzo e approssimativo, un accenno a quello che si intende per “narrazione vs teoria”. Breuer, infatti, scrive:

…le vostre parole sono cariche di bellezza ed efficacia, tuttavia, quando me le leggete, non mi pare che tra noi esista un rapporto personale. Il senso di ciò che dite lo capisco dal punto di vista intellettuale…ma per potermi aiutare tutto questo deve arrivare dove ha le sue radici…altrimenti non avverto nessuna crescita, non genera alcuna stella danzante! Ho unicamente confusione e caos.

In questo stralcio Breuer invita Nietzsche ad entrare nello specifico di un momento di vita ben preciso, in modo da poterne osservare insieme i dettagli piuttosto che perdersi in un racconto globale e fattuale.

In modo molto velato, questo introduce i due in una dimensione relazionale improntata alla condivisione e tale dimensione segna il punto di inizio di una esperienza in cui entrambi si aprono all’altro, al punto di risolvere alcuni sintomi che li affliggevano.

Le lacrime di Nietzsche: un dipinto sulla cura del parlare

Quella che loro chiamano “la cura del parlare” ha i suoi frutti soltanto in una relazione in cui uno sente di spostare determinate cose nella mente dell’altro e soltanto in questa modalità si realizza una conoscenza che lascia spazio agli aspetti emotivi. Proprio queste considerazioni, sperimentate realmente, fanno sì che i due si rendano conto di essere davvero paziente e terapeuta e non più solo per gioco.

È molto interessante la vicenda che riguarda Bertha Pappenheim e Breuer, che si innamora della giovane isterica passata alla storia come Anna O. A tal proposito compare la figura di Freud, come amico e confidente del professore viennese, con cui scrisse “Studi sull’isteria” in cui descrissero proprio il caso di Anna O. L’eccessiva attenzione di Breuer verso la giovane donna fu causa della crisi matrimoniale con Mathilde, evento abbondantemente conosciuto nella biografia del dottore. Allo stesso tempo, vengono sviscerate le vicissitudini che vedono Nietzsche impegnato in un rapporto pseudo-sentimentale con Lou Salomé ed il loro amico Paul Rée.

A tal proposito, l’attendibilità storica delle vicende è discutibile. Certamente alcune informazioni storico-culturali sono vere, come ad esempio il fatto che la relazione tra Nietzsche e Lou Salomé era contrastata dalla sorella di lui, Elisabeth, e che fu questo a dare avvio alla profonda depressione, con tendenze suicide, del filosofo. Di lui si parla spesso degli atroci attacchi di emicrania, che lo costrinsero a girare l’Europa alla ricerca di un trattamento efficace. Yalom sottolinea che nel 1882 la psicoanalisi ancora non era nata ma crede profondamente che Nietzsche fosse molto indirizzato allo studio dell’io e alle turbe della personalità. Per il resto, Breuer e Nietzsche non si sono mai realmente incontrati. Altri personaggi, però, sono davvero esistiti, pochi sono frutto di fantasia. Inoltre leggiamo di un backgroud storico culturale ben preciso, con le ideologie del momento. Le lacrime di Nietzsche è ambientato nel 1882, Nietzsche non aveva ancora scritto “Così parlò Zarathustra” ma Yalom lo ha più volte citato in quanto credeva che il filosofo avesse già delineato le linee di tale progetto nella sua mente.

Le lacrime di Nietzsche: perchè leggerlo

Oltre alla narrazione della storia principale, nel testo Le lacrime di Nietzsche ci sono delle lettere, alcune vere, tra i vari personaggi chiamati in causa. Quelle più intense riguardano Nietzsche e la donna verso cui provava sentimenti poco chiari. Altre parti, ugualmente notevoli, riguardano gli appunti che Breuer e Nietzsche scrivevano sull’altro dopo ogni loro incontro. Questa stesura, così dinamica, rende la lettura del testo dalle dimensioni notevoli più semplice e scorrevole.

Le lacrime di Nietzsche è un testo commovente, crudamente vicino alla realtà e spunto di riflessione sulla realtà terapeutica e clinica, all’epoca ad uno stato embrionale. Esprime, in molti tratti, la bellezza di una prosa poetica e drammatica, che interseca l’intensità delle esperienze umane a livello sentimentale e corporeo affrontando, ad esempio, aspetti legati al tradimento, alla passione intellettuale che spesso spinge al desiderio sessuale, costringendo a dare significati diversi ai ruoli che la società ci impone.

Per comprenderlo, ma soprattutto per viverlo, consiglio la lettura del testo con uno spirito di apertura e di curiosità anche se, a tratti, richiede un certo impegno intellettuale.

 

LEGGI ANCHE LE ALTRE RECENSIONI DEI LIBRI DI IRVIN YALOM:

Il dono della terapia (2016) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

 

Creature di un Giorno (2015) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

Sul lettino di Freud di Irvin D. Yalom (2015) – Recensione

Le lacrime di Nietzche di Irvin Yalom (2006) – Recensione

Stile genitoriale e sviluppo di comportamenti antisociali nei figli

Uno stile genitoriale più severo e autoritario si è osservato essere in relazione a un maggior rischio di sviluppo di comportamenti antisociali nei figli.

 

Un nuovo studio, pubblicato sul Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, ha rivelato che l’ambiente domestico influenza il carattere aggressivo dei figli, fungendo da fattore di rischio per lo sviluppo dei così detti Callous Unemotional (CU) ovvero i tratti legati allo sviluppo della coscienza che portano a uno stile interpersonale caratterizzato da mancanza di emotività.

Stile genitoriale: influirebbe più del fattore genetico

La ricerca, condotta presso diverse università americane, ha analizzato la presenza di piccole differenze nello stile parentale in famiglie con gemelli omozigoti per determinare se le differenze nella genitorialità sperimentata da ciascun gemello potessero predire la probabilità di comparsa di atteggiamenti antisociali.

Questo studio è l’ultimo di una serie di lavori condotti per valutare vari aspetti legati alla genitorialità. In particolare i primi studi hanno mostrato che la qualità della relazione tra i genitori biologici e i loro figli assume un ruolo decisivo nello sviluppo o meno di problemi comportamentali; risultati analoghi sono stati osservati anche in studi riguardanti genitori e figli adottivi.

L’autrice dello studio Rebecca Waller ha spiegato

Alcuni dei primi lavori sui tratti CU si sono concentrati sulle basi biologiche e genetiche, ipotizzando che questi tratti si sviluppassero in modo indipendente dal contesto di vita del bambino. Gli studi sulle adozioni però smentiscono il ruolo esclusivo della genetica, aprendo la strada alla possibilità che l’ambiente possa funzionare da fattore protettivo e impedire ad un bambino a rischio di mostrare problemi comportamentali sempre più gravi.

Il team di ricerca ha chiesto ai genitori di 227 coppie di gemelli omozigoti, con un’età compresa tra i 6 e gli 11 anni, di compilare un questionario riguardante il proprio stile educativo e il clima domestico: possibili items erano rappresentati da affermazioni quali “Mi capita spesso di perdere la pazienza con mio figlio” oppure “Mio figlio sa che lo amo”. Inoltre i ricercatori hanno valutato il comportamento del bambino tramite le risposte, fornite dalle madri, riguardanti comportamenti aggressivi e tratti CU.

Stile genitoriale e tratti antisociali nei figli: i risultati della ricerca

Dai risultati è emerso che i gemelli che avevano sperimentato un atteggiamento genitoriale severo e poco empatico erano maggiormente soggetti allo sviluppo di comportamenti aggressivi e, in generale, di tratti antisociali. 

Luke Hyde, professore del Dipartimento di Psicologia dell’Università del Michigan ha affermato

Lo studio dimostra in modo convincente che lo stile genitoriale e non solo i geni, contribuiscono allo sviluppo di tratti problematici fondamentali per lo sviluppo futuro della personalità dei figli.

Il desiderio della Waller sarebbe quello di utilizzare le evidenze emerse dalla ricerca per sviluppare interventi familiari volti a controllare lo sviluppo di questi tratti problematici, tuttavia l’autrice afferma

Nella vita quotidiana, la creazione di interventi che funzionino realmente e che siano effettivamente in grado di modificare i comportanti nei diversi ambienti familiari è complicata. Tuttavia lo studio dimostra che il modo in cui i genitori si approcciano ai figli conta molto, il nostro obiettivo a breve termine quindi è quello di adattare i programmi rivolti ai genitori affinché vengano inclusi interventi specifici relativi ai così detti tratti CU.

Il lavoro presentato amplia la comprensione del modo in cui diverse forme di comportamento antisociale emergono, tuttavia è da specificare che il lavoro non incolpa esclusivamente i genitori per l’eventuale condotta antisociale dei figli. Ciò che appare evidente è che i trattamenti possono aiutare i genitori ad arginare questi pericolosi tratti nei figli e che per tale ragione questi trattamenti appaiono d’aiuto soprattutto per i bambini più a rischio.

I ricercatori ammettono alcuni limiti presenti all’interno della ricerca, uno su tutti il fatto di aver considerato primariamente le famiglie in cui sono presenti entrambi i genitori, questo significa che i risultati potrebbero non essere generalizzabili ai nuclei monoparentali.

Non dimenticarmi (2018) di Ram Nehari: l’amore nella sofferenza psichica – Recensione del film

Non dimenticarmi uscirà nelle sale il 15 Novembre. In anteprima, per i lettori di State of Mind, la recensione del film:

 

Non dimenticarminon dimenticarminon dimenticarmi…”, finisce così, nel canto di un menestrello di ospedale psichiatrico, il film di Sam Nehari, autore israeliano alla sua opera prima.

 

E finisce, senza la certezza del lieto fine ma con la speranza ironica e leggera di poterlo immaginare, il racconto di una storia d’amore fra due mondi irrimediabilmente lontani e inesorabilmente vicini.

Tom è una ragazza anoressica ricoverata in clinica, Neil un ragazzo psicotico che entra ed esce da un centro di cura. Il primo incontro è casuale, in campo neutro, e Tom lo vince d’imperio, quasi costringendo Neil a ricevere del sesso e a scappare con lei. Neil si lascia scorrere, fluttua, accetta il piglio della ragazza seguendolo come si seguirebbe un destino che solleva il morale per il solo fatto di essere imprevedibile e diverso dal presente.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL FILM:

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 4

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 3

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 5

Non dimenticarmi: un amore che affronta il mondo

Nel loro girovagare per Tel Aviv si abbandonano a una libertà pura, ingenua, condividendo paure adulte alla maniera dei bambini, affrontando quella porzione di mondo che si presenta ai loro occhi senza darsi alcun criterio di obbedienza. E rischiano, si giocano tutto sempre all’attacco; a Tom viene in mente che sarebbe interessante tornare dalla famiglia e far vivere a Neil un “Ti presento i miei” in salsa israeliana, peccato che il padre, uomo tutto d’un pezzo che in quel pezzo concentra tutta la durezza di cui è capace, e la madre, sergente del focolare impantanata nei traumi della storia, non siano dello stesso avviso.

La permanenza a casa non s’ha da fare. Allora Neil rilancia, vorrebbe portare Tom con sé nella tournée europea di un gruppo musicale alle cui fortune dovrebbe contribuire suonando la tuba, ma forse si è inventato tutto. Forse la sua mente ha di nuovo immaginato cose che non esistono, ha di nuovo creato speranze che non possono essere sostenute dalla realtà. Fine dei sogni, rissa violenta con l’amico che non lo riconosce, ritorno in ospedale. Per Neil, e per Tom, che non ha più ragioni autosufficienti verso la libertà.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL FILM:

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 1

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 2

Non dimenticarmi: gli aspetti del film

Unisce molti aspetti differenti questo interessantissimo film: è preciso, rigoroso nel dipingere la sofferenza psichica, specie quando mostra senza enfasi ma con puntuale nitidezza la vita da anoressica di una ragazza così sensibile e insieme quasi autoritaria; è creativo nell’immaginare scenari diversi per due persone che non possono oggettivamente cambiare la loro vita, non adesso, ma possono legittimamente aspirare a farlo; è realistico quando descrive la fine del viaggio come una tappa quasi inevitabile, ed è poetico quando affida agli sguardi silenziosi dei due ragazzi, al sorriso tenero appena accennato nel rivedersi, alle parole di lei che abbozza immagini del matrimonio sognato per loro con il candore di una creatura risoluta, infine ai versi del trovatore picchiatello, il significato più intimo di una storia che non si conclude con l’ultima scena ma continua nella nostra fantasia attraverso i sentimenti più liberi a cui vogliamo partecipare.

NON DIMENTICARMI – I VIDEOCLIP DEL FILM:

 

 

NON DIMENTICARMI – GUARDA IL TRAILER:

La guerra fredda nei social network: meccanismi psicodinamici tra stati di WhatsApp e provocazioni su Facebook

Appare ormai evidente che il mondo dei social network attraversa sempre più le persone e le relazioni. I “mi piace” su Facebook nonché i “follower” su instagram, hanno di gran lunga messo da parte l’importanza dell’amico del cuore, degli incontri al muretto, delle serenate notturne, per non parlare delle lettere inviate per corrispondenza.

 

Cambiano i modi di porsi, di relazionarsi, ma (forse ancora per poco!) non cambiano del tutto i sentimenti provati ma semplicemente la modalità attraverso la quale vengono espressi.

Se da una parte le dichiarazioni d’amore si caratterizzano per la ripetizione compulsiva di cuori di ogni colore, le malcelate dichiarazioni di odio e risentimento appaiono molto interessanti dal punto di vista psicologico. Introduco il concetto di “guerra fredda” perché proprio come lo scontro tra Stati Uniti ed Unione Sovietica non si è mai combattuto su un fronte, sentimenti di conflitto interpersonale oggi non si traducono necessariamente in scontri veri e propri ma in post e condivisioni apparentemente fini a se stessi sui social. Ma niente di pubblicato su un social è fino in fondo fine a se stesso: qualcuno dovrebbe sostituire l’indicazione della home di Facebook “A cosa stai pensando” con “Cosa vuoi mostrare”.

Quando si ha una rottura relazionale importante, indipendentemente dalla qualità del rapporto di tipo sentimentale o amicale, è fisiologico avvertire un senso di perdita, di solitudine. Questo vissuto emotivo, caro a molte teorie psicoanalitiche sullo sviluppo infantile (Lis et al., 1999) appartiene universalmente e precocemente all’esperienza umana: il bambino piccolo infatti, che vive le prime esperienze di separazione dalla madre, percepisce l’angoscia dell’abbandono. In età adulta, la perdita più o meno intenzionale di una persona cara determina una regressione (ritorno ad uno stadio precedente dello sviluppo dell’Io a seguito di una frustrazione libidica), che giustifica quindi comportamenti infantili e meccanismi di difesa primitivi.

Vediamo cosa spesso accade al giorno d’oggi, nell’utilizzo dei social network, dopo una chiusura relazionale.

Social network e gestione della mancanza

In molti casi impostare uno stato di whatsapp, una foto su instagram o un pensiero su facebook, sono azioni che sottendono palesemente (anche se indirettamente) alla necessità di comunicare con la persona persa. Necessità che il mondo dei social consente di soddisfare senza costi materiali o emotivi e soprattutto senza tempi di attesa: per una persona in piena fase regressiva questo significa soddisfare il principio del piacere (“voglio tutte le gratificazioni, comprese quelle che si contraddicono, adesso!”). Inoltre la comunicazione impersonale dei social consente l’invio di messaggi comunicativi senza entrare direttamente in relazione con l’interlocutore di rifermento, abbatte le barriere dello spazio, pone l’individuo al centro di una rete che riattiva processi di controllo onnipotente della primissima infanzia, meccanismo di difesa che pone in essere l’idea secondo cui se controllo me stesso controllerò tutta la realtà, perché la fonte di tutti gli eventi è interna (McWilliams, 1999): è possibile dunque dire tutto, subito ed a chiunque, anche a chi non abita più nel cuore, in maniera continua e reiterando le pratiche indirette tra “mi piace” e condivisione di post ambigui.

Social Network e formazione reattiva

Se, molto spesso, una prima fase dell’elaborazione della rottura può essere caratterizzata da uno sforzo intellettuale nell’esprimere riflessioni prese in prestito dalla filosofia o alla psicologia, le evidenze sembrano mostrare che quando non si fa strada una buona elaborazione della perdita si può passare ad un livello successivo, quello della più o meno consapevole formazione reattiva: si ostentano livelli di gioia e serenità che appaiono inversamente proporzionali alla sofferenza vissuta. I social diventano più che mai il nostro palcoscenico e, mentre si impiegano grandi risorse nell’indossare la maschera più bella, non ci si accorge che non si parla più, non ci si emoziona più, l’attenzione è esclusivamente concentrata sul numero di feedback ricevuti, inconsapevoli del fatto che possono anche sfiorare il centinaio per ogni post ma non avranno mail il valore dell’apprezzamento della “persona X”. Così ci si accontenta di una gratificazione a metà, che diventa di fatto il modus vivendi esteso alla vita di tutti i giorni. Questa condizione, di durata variabile, può sfociare verso le catarsi (e si riesce realmente a cambiare pagina) oppure può condurre all’espressione indiretta di rabbia ed aggressività indiretta. Cosa succede?

Social Network e attacco indiretto

Avviene un vero e proprio attacco al sistema di credenze, di valori, della persona persa, che si manifesta prendendo posizioni forti in completa antitesi.

Sentimenti di intolleranza, pensieri incorreggibili, opinioni che mirano alla creazione di muri piuttosto che di ponti, possono sottendere ad un mero processo di spostamento dei sentimenti di odio che prima erano diretti verso la persona adesso sono diretti verso le sue passioni. Probabilmente il desiderio inconscio che muove questo comportamento è quello di riuscire a farsi notare, di avere un scontro, di “essere finalmente visti”, che però purtroppo è destinato a fallire o peggio ancora nel non riuscire ad ottenere i risultati sperati. Anzi, la ricerca continua di una sua reazione può sfociare nel controllo compulsivo del suo profilo, che aumenta l’angoscia (Fiore, 2013) e la rabbia.

Le evidenze recenti in letteratura suggeriscono che l’uso dei social non è necessariamente un comportamento disfunzionale (Griffith et al., 2018) ma determinate circostanze di utilizzo possono compromettere significativamente la qualità della vita determinando ansia e depressione (Griffiths e Kuss, 2017; Marino et al., 2018). Quando si perde la vicinanza interpersonale di una persona cara, inevitabilmente si perde una parte di se stessi. L’elaborazione della perdita andrebbe affrontata attraverso lo scambio comunicativo diretto con le persona di riferimento, con le persone vicine, e soprattutto con uno psicologo quando si manifesta la forte o persistente difficoltà a gestire le emozioni, tralasciando in questo caso l’uso strumentale dei social in maniera più o meno consapevole. La regressione che scaturisce dal rammarico potrebbe consentire la messa a fuoco delle proprie responsabilità interpersonali, trasformando così la sofferenza in uno strumento utile per la crescita personale.

Violenza domestica e terapia metacognitiva interpersonale – Congresso SITCC 2018

Durante il congresso SITCC 2018 di Verona uno di noi (Andrea Pasetto) ha presentato un caso clinico di violenza domestica trattato con Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Popolo et al, 2013) all’interno di un Simposio organizzato dal Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma (CTMI) e che aveva come tema comune la TMI in condizioni relazionali estreme.

 

Il fenomeno della violenza domestica è uno dei problemi sociali più significativi e pervasivi in termini di impatto sociale, psicologico ed economico.

Si definisce violenza domestica un pattern di comportamenti che una persona agisce all’interno di una relazione affettiva per controllare e dominare l’altro partner incutendo paura e limitandone la libertà personale (Dobash, Dobash,1998). Si stima che in tutto il mondo, circa il 30% delle donne che hanno avuto una relazione affettiva abbiano subito violenza fisica e/o sessuale dal proprio partner (Misso D., Dimaggio e Schweitzer, 2018). In Italia circa una donna su tre tra i 16 ed i 70 anni riferisce di aver subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nell’arco della propria vita. I partner attuali o ex partner commettono le violenze più gravi, il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente (ISTAT 2015). Tale quadro viene confermato anche dai dati della comunità internazionale dove ben il 38% delle donne uccise sono uccise per mano del proprio compagno (WHO, 2016).

L’intervento psicoterapeutico ha bisogno di considerare l’eventuale presenza di disturbi di personalità e/o tratti di personalità, in particolare alcuni autori hanno riscontrato come i tratti di personalità relativi a disinibizione, antagonismo e distacco siano positivamente associati a questa tipologia di offenders (Dowgwillo et al., 2016). Inoltre essere di giovane età e avere un disturbo correlato all’uso di alcol oppure la presenza di disturbo di personalità del cluster B (Borderline, Narcisistico, Istrionico) o dipendente aumenta la probabilità di agire violenza all’interno della coppia (Okuda et al., 2015).

Come si presentano i Domestic Offenders in terapia? Presentano metacognizione compromessa, in particolare hanno difficoltà a riconoscere e descrivere le proprie emozioni (alessitimia), scarsa consapevolezza dei segnali emotivi attivanti (soprattutto emozioni negative), scarsa differenziazione (rappresentazioni negative di sé con l’altro prese per vere) e scarsa teoria della mente. Gli schemi interpersonali prevalenti partono dal desiderio di essere apprezzati (rango sociale) e amati (attaccamento). A fronte del loro desiderio tendono a costruire l’altro, la partner in particolare come: “mi ignora, mi trascura, mi tradisce e mi umilia”. Quando leggono il comportamento dell’altro secondo queste immagini schema-dipendenti, rispondono sentendosi innanzitutto di scarso valore e non amati, e questo conferma le immagini nucleari di sé. Accedono però con difficoltà ai sentimenti dolorosi di tristezza, solitudine, umiliazione e subito transitano verso rabbia reattiva e strategie di controllo e dominanza. Insomma molti uomini che agiscono violenza domestica agiscono in modo aggressivo e impulsivo reagendo ad emozioni dolorose che non sanno nominare e di conseguenza poi regolare e si trovano ad agire, nelle relazioni con la partner, guidati da schemi interpersonali che non sanno riconoscere.

A partire da queste considerazioni la TMI mette in risalto come le difficoltà metacognitive presentate da questa tipologia di offenders possono essere un obiettivo del trattamento per favorire l’interruzione del comportamento violento e la promozione del cambiamento. Quindi promuovere la Metacognizione li aiuta a capire il proprio funzionamento durante gli episodi di violenza, trovare soluzioni alternative al comportamento violento ed una maggiore attività regolatoria (riduzione dell’aggressività).

Come funziona? Prima di tutto il contratto: deve essere chiaro al paziente che il focus della terapia è l’aggressività e la violenza, ma all’inizio con lo scopo di capire cosa rende il coping disfunzionale, violento, così automatico e incontrollabile. Quindi l’obiettivo è concentrarsi sugli gli antecedenti psicologici dell’aggressività. Si chiede al paziente di concentrarsi e capire cosa succede dentro di lui un attimo prima dell’esplosione violenta, cosa pensa e prova, cosa sente a livello corporeo. Per fare questo è importante elicitare episodi narrativi legati a comportamenti aggressivi per allenare il monitoraggio emotivo e cognitivo. Attraverso l’analisi e l’elicitazione degli episodi narrativi personali arriviamo ad una formulazione condivisa del funzionamento del paziente per ricostruire gli schemi interpersonali tipici, ad esempio: “Desidero essere apprezzato/stimato (immagine negativa sottostante come inferiore e debole), la partner mi critica e mi svaluta – mi sento umiliato, schiacciato/sottomesso (risposta del sè) – reagisco con rabbia e la attacco”.

A partire poi dalla formulazione condivisa del funzionamento si procede con due tipi di interventi:

  • il primo intervento ha lo scopo di favorire possibili memorie associate all’episodio emerso, in modo che il paziente reagisca a qualcosa che non è connesso direttamente alla partner, ma alla propria storia personale. Si tratta quindi di promuovere la differenziazione tra gli schemi interni e la realtà esterna. Si mira quindi a  promuovere una distanza critica dai modelli interiorizzati di costruzione di significati.
  • il secondo intervento ha lo scopo di lavorare sulla regolazione dello stato emotivo attivato dalla risposta dell’altro, cercando di promuovere strategie regolatorie alternative all’aggressione per lenire lo stato affettivo doloroso.

Il caso clinico presentato all’interno del Simposio riguarda Roberto: 33 anni, celibe, diploma professionale. Lavora come imprenditore edile, presenta buone capacità lavorative. La relazione con  Barbara inizia nel 2012 e vanno a convivere nel 2014. Viene inviato dalla psicologia territoriale dopo alcuni incontri di terapia di coppia (Ottobre 2017). Riferisce precedenti interventi psicoterapici per problemi di ansia generalizzata. Non riporta uso di sostanze. Dai primi colloqui si evidenziano «tratti» di personalità di tipo paranoide, narcisistico, ed ossessivo. Roberto ammette di avere comportamenti di controllo dettato dalla gelosia, che sfociano poi in violenza verbale e fisica verso Barbara.

Roberto è guidato dai desideri di essere amato, e apprezzato/stimato. La rappresentazione di sé sottostante è: non amabile e inferiore rispetto a un altro più interessante di lui. Dagli episodi narrativi emerge il timore di Roberto di essere tradito e abbandonato da Barbara. La rappresentazione negativa di sé è connessa al ricordo di episodi in cui mamma ha preferito il fratello minore dopo la sua nascita, concentrando le attenzioni su di lui e facendo sentire Roberto come inferiore e non più amato.

Trattamento: la riduzione del comportamento violento è lo scopo a lungo termine e il comportamento violento è il focus principale del trattamento, tuttavia dobbiamo focalizzarci sugli antecedenti del comportamento violento e cosa rende la violenza così automatica, potente e non controllabile come meccanismo. A partire dal contratto quindi si passa all’ esplorazione degli episodi narrativi di violenza nei loro elementi cognitivi ed emotivi per attivare la metacognizione ed accedere agli stati mentali prevalenti. Successivamente ricostruiamo una formulazione condivisa del funzionamento e stimoliamo la connessione di memorie associate allo schema emerso per promuovere la differenziazione e la regolazione dello stato emotivo attivato dalla risposta dell’altro.

Il lavoro sugli episodi narrativi violenti per allenare il monitoraggio emotivo e cognitivo di Roberto porta il terapeuta ad una formulazione condivisa del funzionamento come di seguito: “Lei Roberto desidera essere sicuro/apprezzato/amato nella relazione con Barbara. Immagina gli altri superiori a lei e migliori di lei. Si aspetta quindi che Barbara preferisca altri a lei, la tradisca e l’abbandoni, (immagine di sé come inferiore e non amabile). Prova ansia, paura, tristezza e gelosia e a quel punto assume comportamenti di controllo perché Barbara non la tradisca, si arrabbia con lei e l’aggredisce, ma questo non fa diminuire la paura né i sentimenti di inferiorità e non-amabilità.

Con la richiesta di memorie associate a questa struttura narrativa, Roberto connette l’immagine negativa di sé non amabile ed inferiore alla sensazione di inferiorità e non amabilità sperimentata nel periodo in cui è nato il fratellino più piccolo Giovanni e mamma aveva riversato tutte le sue attenzioni su di lui. Da qui inizia la svolta del trattamento e l’inizio del processo di differenziazione, quando Roberto inizia a comprendere che lui “Non è necessariamente inferiore/sbagliato/non amabile ma guidato da questa idea (che gli ricorda quello che è successo con mamma) reagisce con violenza verso Barbara e fa delle cose che hanno conseguenze sfavorevoli”.

Roberto negli incontri successivi comprende che la paura che Barbara lo abbandoni e lo tradisca è schema-dipendente e dipende da quello che prova lui, dalle emozioni che vive internamente. L’attenzione focalizzata su Barbara che può tradire e abbandonare è schema dipendente e non corrisponde necessariamente alla realtà. Roberto in uno degli ultimi incontri riferisce: «la fonte delle mie paure non è Barbara, ma è dentro di me». Tale consapevolezza aiuta Roberto a bloccare il coping disfunzionale violento e promuove una maggiore autoregolazione con diminuzione del comportamento violento e dei comportamenti di controllo nei confronti della partner. Quest’ultima attraverso un contatto telefonico conferma la diminuzione dei comportamenti violenti sia in frequenza che in intensità.

E’ solo un gioco? La ricerca del rischio e i giochi pericolosi in adolescenza

Negli adolescenti è tipica l’esigenza di unicità e visibilità ed è proprio tale desiderio che li conduce spesso a mettere in atto comportamenti provocatori e a volte rischiosi.

 

Negli anni passati, non era previsto un periodo di transazione preciso tra l’infanzia e l’età adulta. Molti giovani trascorrevano gli anni precedenti e successivi alla pubertà entro i confini familiari. Le ragazze imparavano tra le mura domestiche a svolgere mansioni femminili, mentre i ragazzi venivano inseriti come apprendisti presso gli artigiani.

Oggi l’adolescenza è definita come una fase del ciclo di vita umano, una transazione dello stato di bambino a quello adulto. Essa ricopre un periodo lungo e mutevole da individuo a individuo in cui, a fronte delle numerose trasformazioni fisico-corporee, si assiste a profondi cambiamenti psicologici che investono le capacità cognitive, la sfera affettiva e le competenze sociali della persona.

La fase di transazione, non deve essere vista come svalutazione del contributo sociale e culturale ma un periodo di vita vissuto dagli adolescenti, come momento evolutivo per il processo di costruzione dell’identità, stato autonomo dove gli adolescenti sono capaci di concentrarsi sulla propria vita interiore.

L’adolescenza oggi: desiderio di unicità e comportamenti provocatori

Nei giovani d’oggi è tipica l’esigenza di unicità e visibilità che li conduce a mettere in atto comportamenti di provocazione. Il loro scopo è in ogni caso quello di anticipare l’adultità ed è proprio per questo che talvolta gli adolescenti mettono in atto comportamenti per loro inadeguati.

Sono definiti “sensation seeker” proprio per sottolineare il bisogno di ricercare sensazioni forti ed emozioni estreme. Sfida, impulsività, senso di invulnerabilità sono funzionali alla costruzione dell’identità e partecipazione sociale, intesa come insieme di relazioni sociali, ma se superano i limiti diventano un fattore di rischio.

La scelta di quali azioni intraprendere spetta agli adolescenti stessi che saranno influenzati non solo dall’ambiente di appartenenza, ma anche da variabili personali legate allo sviluppo di capacità individuali.

Le funzioni del comportamento a rischio che gli adolescenti possono mettere in atto sono:

  • Adultità: assunzione anticipata di comportamenti considerati normali negli adulti (es. fumo di sigarette, uso di alcol, comportamento sessuale vs partecipazione e assunzione di responsabilità);
  • Acquisizione e affermazione di autonomia: la necessità di svincolarsi dalla condizione di dipendenza dai genitori per costruirsi un’identità di adulto (es. accettazione di nuove regole, il sostenere le proprie opinioni, prendere decisioni circa il proprio futuro vs azioni devianti come l’uso di sostanze psicoattive, il comportamento sessuale o un’alimentazione distorta);
  • Identificazione e differenziazione: necessità di differenziarsi dagli adulti significativi, identificandosi come un individuo dotato di particolari caratteristiche (es. violazione di norme, abbigliamento eccentrico, messa in atto di azioni tipiche del proprio gruppo di appartenenza come fumare, etc.);
  • Affermazione e sperimentazione di sé: adozione di nuovi comportamenti per mettersi alla prova (attività produttive vs rischiose, come la guida pericolosa, giochi estremi etc);
  • Trasgressione e superamento dei limiti: trasgredire le regole del mondo adulto per aderire a regole più consone alle proprie esigenze, per dimostrare la propria capacità di decisione (es. uso sostanze psicoattive illegali);
  • Esplorazione di sensazioni: esigenza particolarmente diffusa nella cultura occidentale, dove si esalta ogni sperimentazione del nuovo (comportamenti salutari, quali quelli derivanti dalla musica, dall’arte, etc. vs comportamenti dannosi per il benessere psicofisico, come l’uso di sostanze psicoattive, giochi estremi, etc);
  • Percezione di controllo: necessità di superare il limite per dimostrare, a se stessi e agli altri, che la novità non spaventa e che si è in grado di controllare le proprie azioni senza il bisogno dell’adulto, senza lasciarsi travolgere;
  • Coping e fuga: messa in atto di strategie che consentono di far fronte in modo adattivo alle difficoltà e a problemi personali e relazionali, che però non sono sempre funzionali.

Quali sono i giochi estremi più diffusi tra gli adolescenti?

In adolescenza le relazioni che si intrattengono con la dimensione del rischio sono particolarmente intense; difatti assistiamo a cadenza periodica, a servizi giornalistici che raccontano gli orientamenti estremi più in voga tra gli adolescenti, dove il divertimento e il disagio si sovrappongono e i giovani appaiano contemporaneamente vittime e carnefici delle più folle tendenze del momento.

Ecco alcuni giochi estremi più noti con i quali gli adolescenti si misurano:

  • Balconing: è un’attività che consiste nel saltare da un balcone o da una finestra, posti a un piano elevato direttamente all’interno di una piscina o di un altro balcone. Viene solitamente effettuato sotto l’effetto di alcool e droghe e il salto viene filmato per poi essere caricato su siti web come You Tube. In alcuni casi il salto, può finire male causando la morte;
  • Binge Drinking: è l’assunzione di più bevande alcoliche in un intervallo di tempo più meno breve. Non è importante il tipo di sostanza che viene ingerita, né l’eventuale dipendenza alcolica, lo scopo principale di queste “abbuffate alcoliche” è l’ubriacatura immediata, nonché la perdita di controllo;
  • Chocking game o space monkey: è una pratica per “sballarsi”, senza far uso di droga. Si tratta di un “finto strangolamento” che attraverso una pressione sulla carotide, blocca l’afflusso di ossigeno al cervello, causando una temporanea perdita di sensi e al risveglio, una piacevole euforia. Questo tipo di gioco può creare una lesione al cervello o la morte;
  • Eye balling: si porta l’imboccatura di una bottiglia di superalcolico a livello dell’occhio, come se la si stesse bevendo. Si versa il superalcolico nell’occhio, usandolo come “collirio” per ottenere effetti di euforia ed ebbrezza. Si rischiano danni permanenti alla vista causando cecità e ischemia;
  • Batmanning: ispirata alle posizioni di Batman, ovvero appeso ai piedi e a testa in giù. I rischi sono ben elevati con il sangue alla testa.

L’ultima moda sbarcata in Italia? Stendere a terra i passanti con calci e pugni e filmare tutto e caricarlo in rete.

In conclusione

Sono infiniti i giochi pericolosi in adolescenza, ma non sono semplici frutti di incoscienza o ignoranza del pericolo, vengono intraprese insieme agli altri perché in questo modo risulta più semplice per l’adolescente vivere in modo tangibile la propria identità, presentandola al gruppo per ottenerne riconoscimento, reputazione, popolarità; sono infatti molto importanti l’accettazione pubblica e il sostegno sociale tra coetanei, lottando per differenziarsi.

Le azioni sono intraprese proprio per essere rese visibili, oltre che per fondare un legame sociale con i coetanei, legame che si rafforza attraverso ritualizzazioni e ripetizioni di gesti (es. saltare da un balcone ad un altro) che talvolta sono solo rituali di passaggio.

Gli adolescenti hanno bisogno di misurarsi con i propri coetanei e di emularli per affermare se stessi. Questo può essere un rischio per la messa in atto di comportamenti gravosi, perché contribuisce ad alterare la reale percezione del rischio spingendo l’adolescente ad esporsi in modo azzardato, mantenendo l’illusione di controllo.

I giovani usano il rischio, come una risorsa per esprimere se stessi, per rafforzare una coesione sociale e l’appartenenza del gruppo per affermare il proprio ideale di stile, gusto, tempo libero e rompere la noia, sfidare e farsi notare. Spesso fanno ricorso a queste pratiche estreme, come fuga della realtà da situazioni familiari, scolastiche, relazionali, contesti che possono suscitare ansia, paura e angoscia, senza rendersi conto degli esiti drammatici di queste attività. Pertanto, gli adolescenti sono spesso attratti dal pericolo e dal macabro.

Non si deve però mai sottovalutare l’importanza e la pericolosità di questi fenomeni, soprattutto nella fase adolescenziale, fatta di cambiamenti e fragilità, dove si è più suscettibili alle sollecitazioni esterne e attratti dal pericolo e dal rischio.

Disturbi alimentari e anomalie nel circuito del reward

Uno studio di Frank, DeGuzman e colleghi – dipartimento di Psichiatria dell’Università del Colorado e Eating Disorders Care, Colorado – ha investigato la possibile associazione tra sistema cerebrale dopaminergico del reward, restrizione dell’apporto calorico ed evitamento del cibo in un gruppo di adolescenti e giovani adulti affetti da anoressia nervosa.

 

Lo studio pubblicato su JAMA Psychiatry,  ipotizza un modello per il quale la restrizione calorica fino all’inedia avrebbe un effetto sul sistema dopaminergico tale da perpetuare il disturbo, anche a seguito di un ripristino del BMI nella norma.

Disturbi alimentari: quale ruolo ha il circuito del reward

Quando ci si avventura negli studi che trattano da un punto di vista neurobiologico i disturbi dell’alimentazione e della nutrizione per la comprensione dei meccanismi neurali sottostanti, le evidenze che se ne ricavano sono spesso poco chiare e di non facile interpretazione in quanto i modelli neurali che ne ipotizzano e descrivono l’anomalo funzionamento cerebrale sono stati ricavati per la maggior parte in gruppi di popolazione sana (Steinglass & Foerde, 2018).

Oltre a ciò, vi sono anche numerosi dubbi e titubanze tra gli esperti circa le metodologie e gli strumenti spesso utilizzati in questo tipo di ricerche, che avrebbero lo scopo di mettere in evidenza i circuiti neurali che sono coinvolti in modo specifico nel disturbo della nutrizione, i cui effetti potrebbero perpetuare il comportamento alimentare disfunzionale e mantenere in questo modo il disturbo stesso.

Pertanto una comprensione del significato delle evidenze neurali nel campo dei disturbi alimentari rimane ancora una sfida in quanto non sempre si riesce a discriminare quale sia la causa o l’effetto (è l’anomalia nel circuito cerebrale a determinare il disturbo o viceversa?).

Nonostante ciò, lo studio di Frank, DeGuzman, Shott, Pryor e colleghi (2018) ha tentato di investigare il ruolo del sistema dopaminergico del reward, già evidenziato come cruciale nei disturbi alimentari (Frank, Reynolds at al., 2012), durante un compito di condizionamento classico, nello stress e nell’ansia, nell’evitamento del danno (harm avoidance) e nella restrizione calorica.

Le risposte del sistema dopaminergico legato al reward sono state misurate tramite l’errore di predizione, cioè tramite quell’ informazione che segnala un avvenuto nuovo apprendimento nell’animale e nell’uomo, mentre le componenti legate all’ansia sono state ottenute tramite prelievo di una piccola quantità di cortisolo salivare, insieme alla somministrazione di alcuni test psicometrici come l’Eating Disorder Inventory-3, lo State-Trait Anxiety Inventory e il Temperament and Character Inventory.

Disturbi alimentari: la ricerca

Nello studio sui disturbi alimentari, alle partecipanti, un gruppo di 56 ragazze affette da anoressia nervosa tra i 12 e i 21 anni, venivano presentati diversi stimoli visivi alcuni dei quali associati ad un liquido dolce con la caratteristica che nel corso dei diversi trial l’associazione tra gli stimoli e il liquido diventava probabilistica, cioè l’associazione già appresa tra liquido e stimolo visivo veniva violata.

Ciò ha permesso di poter misurare l’errore di predizione in quanto le partecipanti erano “costrette” ha modificare le proprie aspettative circa l’associazione stimolo-liquido, a volte non presente o ricevuta in modo inaspettato e quindi ad apprenderne una nuova (Frank, DeGuzman, Shott, Pryor et al., 2018).

Tramite risonanza magnetica funzionale è stato possibile misurare i livelli di ossigenazione sanguigna di specifiche aree cerebrali, attive durante il compito, riflesso del segnale dopaminergico di errore che si verificava ad ogni violazione. Le immagini ottenute di fMRI venivano poi confrontate con quelle provenienti da un gruppo di controllo composto da 52 soggetti non affetti da patologia alimentare tra gli 11 e i 21 anni.

Le complesse analisi effettuate hanno mostrato una diretta associazione tra i segnali di errore di predizione, i punteggi legati all’evitamento del danno, in questo caso rappresentato dal liquido dolce che ha una rilevanza particolare nell’anoressia nervosa, e il BMI.

In particolare è stato rilevato un aumento dell’errore di predizione nelle aree dell’insula, del nucleo caudato e accumbens nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo, insieme ad un’associazione positiva tra le risposte della corteccia orbito frontale e l’harm avoidance e una negativa con  il circuito dell’ipotalamo preposto alla regolazione del senso di sazietà.

Disturbi alimentari: i risultati dello studio

È stato osservato come la restrizione dell’apporto calorico e la perdita di peso fossero associati ad una sensibilizzazione del sistema dopaminergico del reward, riflessa in un aumento dell’errore di predizione.

A parere degli autori dello studio, questo aumento riscontrato nei circuiti dopominergici potrebbe andare ad incidere nei meccanismi che alimentano lo stress e l’ansia andando a “sovrastare” i normali segnali omeostatici di fame provenienti dall’ipotalamo.

Nello spiegare queste evidenze, gli autori riferiscono che la perdita di peso, ottenuta tramite la restrizione calorica, sarebbe associata ad un’attivazione anomala del sistema del reward che alimenterebbe l’ansia, manifestata tramite la paura di prendere peso e l’insoddisfazione corporea, che a sua volta entrerebbe in conflitto con i segnali omeostatici di fame, per cui la persona alla fine si astiene dal mangiare.

Nel loro modello, si verrebbe a costituire un circolo vizioso che consentirebbe ai disturbi alimentari di persistere, mantenersi nel tempo attraverso la restrizione alimentare e la malnutrizione: infatti questa direzione dei risultati è stata osservata nel gruppo sperimentale ma non in quello di controllo.

Eating Problem Checklist (EPCL): un nuovo questionario per valutare la psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione e i suoi cambiamenti seduta dopo seduta

L’Unità di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda ha ideato e validato un nuovo questionario chiamato Eating Problem Checklist (EPCL) che ha lo scopo di identificare e valutare gli effetti dei sudden gains nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione.

 

Lo studio dei cambiamenti che si verificano durante i trattamenti psicologici è una delle grandi sfide nella ricerca clinica. Tuttavia, c’è una crescente evidenza che i sudden gains, cioè gli ampi, rapidi e stabili miglioramenti della sintomatologia tra due sedute consecutive di trattamento sembrano associarsi alla riduzione della sintomatologia e al miglioramento della relazione terapeutica e dell’esito, dopo la conclusione del trattamento.

Gli effetti positivi dei sudden gains sull’esito del trattamento sono stati dimostrati nella psicoterapia della depressione, dei disturbi d’ansia, del disturbo ossessivo-compulsivo, del disturbo post-traumatico da stress e del disturbo di panico.

Nel campo del trattamento psicologico dei disturbi dell’alimentazione è stata fatta poca ricerca sugli effetti dei sudden gains, a causa della mancanza di uno strumento adeguato in grado di identificarli. Infatti, mentre sono disponibili molti strumenti in grado di misurare i sintomi di ansia e depressione nei sette giorni precedenti (per es. Beck Depression Inventory e Beck Anxiety Inventory), la maggior parte degli strumenti disponibili e validati per la misurazione della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione (per es. Eating Disorder Examination interview (EDE) ed Eating Disorder Examination Questionnaire (EDE-Q)) coprono un periodo di 28 giorni e non sono stati progettati per rilevare i cambiamenti che si verificano da una seduta all’altra, ma solo per evidenziare una “risposta rapida” al trattamento, cioè un cambiamento clinicamente significativo dei sintomi specifici del disturbo entro la prima metà del percorso terapeutico.

Per far fronte a questo problema e per migliorare il trattamento dei pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione, il gruppo di ricerca clinica dell’Unità di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda ha ideato e validato un nuovo questionario, chiamato Eating Problem Checklist (EPCL).

Natura e utilizzo dell’Eating Problem Checklist (EPCL)

L’ Eating Problem Checklist (EPCL) è un questionario composto da 16 item, sviluppato per valutare la frequenza dei comportamenti e della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione negli ultimi 7 giorni.

Il questionario è suddiviso in due sezioni. La prima include 7 item che valutano il numero di episodi dei comportamenti legati al disturbo dell’alimentazione presenti negli ultimi 7 giorni, ed in particolare:

  • Abbuffate oggettive
  • Abbuffate soggettive
  • Vomito auto-indotto
  • Uso improprio di diuretici
  • Uso improprio di lassativi
  • Esercizio fisico eccessivo
  • Misurazione del peso

La seconda sezione si compone 11 item che valutano, su una scala Likert a 5 punti (0 = mai; 4 = sempre), la seguente psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, negli ultimi 7 giorni:

  • Evitamento del cibo
  • Riduzione delle porzioni
  • Check dell’alimentazione
  • Check della forma del corpo
  • Evitamento dell’esposizione del corpo
  • Preoccupazione per il peso
  • Preoccupazione per la forma del corpo
  • Preoccupazione per il controllo dell’alimentazione

L’analisi fattoriale condotta sugli item della seconda sezione ha prodotto due sottoscale:

  1. Preoccupazione per l’immagine corporea
  2. Preoccupazione per l’alimentazione

L’ Eating Problem Checklist può essere usato nella fase di assessment per valutare i comportamenti e la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione e durante il trattamento per valutare la loro modificazione. È adatto anche ad essere utilizzato nelle ricerche che valutano gli effetti del trattamento nei disturbi dell’alimentazione.

L’ EPCL è facilmente implementato nella pratica clinica perché è semplice da usare e richiede poco tempo per la sua compilazione. Attraverso la revisione dei punteggi di ogni singolo item, L’EPCL permette al terapeuta e al paziente di identificare eventuali cambiamenti che si verificano settimana dopo settimana, nelle specifiche e più importanti espressioni della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione. L’identificazione di eventuali miglioramenti e/o peggioramenti nei singoli item dell’ EPCL permette di focalizzare il trattamento su specifiche aree di lavoro. Inoltre, attraverso la valutazione dei punteggi delle due sottoscale, questo strumento consente la valutazione settimanale dei cambiamenti nella psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione.

Se usato durante la Terapia Cognitivo Comportamentale Migliorata (CBT-E) si consiglia di far compilare al paziente l’ Eating Problem Checklist una volta la settimana dopo la misurazione collaborativa del peso e poi rivedere con lui/lei ogni singolo item.

Questa revisione, se associata alla revisione delle schede di monitoraggio degli ultimi 7 giorni, aiuta ad evidenziare i cambiamenti avvenuti nelle varie espressioni della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione. Un cambiamento settimanale di almeno un punto in uno o più item dell’ EPCL può aiutare a identificare le espressioni comportamentali della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione del paziente da affrontare. Inoltre, registrando i dati settimanali dell’ EPCL su un foglio di calcolo, è possibile osservare se, come ipotizzato dalla CBT-E, la modificazione di determinati comportamenti (per esempio, l’adozione dell’alimentazione regolare, la riduzione della restrizione dietetica cognitiva, la misurazione collaborativa del peso, l’interruzione dei check disfunzionali della forma del corpo) si associ ad una riduzione successiva delle preoccupazioni per il peso, la forma del corpo e il controllo dell’alimentazione.

Validazione dell’ EPCL

La descrizione del questionario e della sua validazione è stata pubblicata sulla rivista Eating Disorders. Lo studio ha reclutato un campione di 161 pazienti con disturbo dell’alimentazione (87 pazienti erano ricoverati e 74 svolgevano una terapia ambulatoriale) e 379 controlli sani. Tutti i partecipanti allo studio hanno compilato l’ Eating Problem Checklist, inoltre i pazienti con disturbo dell’alimentazione hanno completato l’Eating Disorder Examination Questionnaire (EDE-Q) e il Brief Symptom Inventory (BSI).

L’analisi fattoriale, effettuata sugli 11 item che valutano la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione hanno evidenziato due sottoscale: “Preoccupazione per l’immagine corporea” e “Preoccupazione per l’alimentazione”, composte rispettivamente da 5 e 4 item.

La consistenza interna dello strumento è alta, con un Alpha di Cronbach di 0.89 e di 0.86 e 0.82 per le due sottoscale, rispettivamente.

La validità concorrente, misurata attraverso la correlazione di Pearson, ha indicato, come atteso, che lo strumento ha una forte associazione con l’EDE-Q, che misura la psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione e una più debole associazione con il BSI che, invece, valuta la psicopatologia generale.

Il confronto dei punteggi dell’ Eating Problem Checklist tra pazienti e controlli sani, indica che lo strumento è in grado di discriminare in maniera statisticamente significativa i due gruppi.

Infine, un’analisi effettuata su un sottogruppo di 75 pazienti (38 pazienti ricoverati e 37 in terapia ambulatoriale) che hanno completato almeno 20 sedute di CBT-E e compilato settimanalmente l’ EPCL, ha mostrato che lo strumento è in grado di identificare specifici miglioramenti o peggioramenti settimanali nella psicopatologia del disturbo dell’alimentazione. In particolare, nel campione ambulatoriale abbiamo osservato un cambiamento nel punteggio della sottoscala “Preoccupazioni per l’alimentazione” dalla seconda alla terza o quarta settimana, probabilmente come conseguenza della procedura dell’alimentazione regolare, mentre nel campione ricoverato il cambiamento è avvenuto dalla prima alla seconda settimana, probabilmente come risultato dell’alimentazione assistita.

Il cambiamento nel punteggio della sottoscala della “Preoccupazione per l’immagine corporea” è stato più graduale e un cambiamento significativo è stato osservato soltanto nel campione ospedaliero, nell’ultima parte del trattamento.

Assegnazione del Punteggio

Il punteggio totale è ottenuto sommando gli item della sezione due, mentre i punteggi delle due sottoscale sono ottenuti attraverso la somma dei seguenti item, sempre della seconda sezione: Preoccupazione per l’immagine corporea somma degli item 4, 5, 6, 7, 8; Preoccupazione per l’alimentazione somma degli item 1, 2, 3, 9.

Per saperne di più:

Versione italiana dell’Eating Problem Checklist (EPCL)
Scheda Riassuntiva dei cambiamenti settimanali dei punteggi dell’Eating Problem Checklist (EPCL)

Disturbi Specifici dell’Apprendimento, autostima e immagine di sé

In una scuola sempre più orientata al voto e alla performance, la prima realtà con la quale i bambini devono misurarsi è quella della valutazione, ma ciò può risultare molto difficile per un bambino con un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA) poiché, nonostante studi come o più dei suoi compagni, fatica ad arrivare ai medesimi risultati.

 

Prima di addentrarsi nei sentimenti e nelle percezioni di sé di un bambino con Disturbi Specifici dell’Apprendimento è utile ricordare che questi ultimi hanno una base neurobiologica, cioè rappresentano una diversa modalità di apprendere che si discosta dal modello dominante scolastico.

Il bambino è intelligente, non ha disfunzioni cognitive, tuttavia alcune alterazioni dei processi di automatizzazione fanno sì che prediligano apprendimenti di tipo spaziale-esperienziale piuttosto che verbale-mnemonico. Anche i tempi di apprendimento sono sensibilmente diversi da quelli standard imposti dal ritmo scolastico. Tutto ciò porta a delle serie difficoltà che il bambino si troverà a dover affrontare a scuola per raggiungere la tanto sognata sufficienza. Numerose evidenze scientifiche, infatti, hanno dimostrato che le differenze fra i bambini che falliscono o hanno successo a scuola non sono solo di tipo metacognitivo, ma anche di tipo emotivo-relazionale, un campo in cui la stima di sé ha un ruolo centrale.

Scuola ed immagine di sé

Il contesto scolastico, nel momento storico in cui viviamo adesso, è estremamente incentrato sulle performances. Ciò implica che la prima realtà con la quale i bambini devono misurarsi è quella della valutazione, ossia del voto. Questo meccanismo è terribile per un bambino che, nonostante studi come o più dei suoi compagni, non riesca ad arrivare ai medesimi risultati. L’ipotesi più plausibile è che il bambino, non avendo comprensione di questo fenomeno, inizi a pensare di non essere all’altezza dei suoi compagni, di essere mancante in qualcosa, mettendo in discussione la propria immagine di sé.

Spesso questa percezione di se stessi diventa talmente pregnante nell’organizzazione identitaria del bambino che può cominciare a generalizzarsi, manifestandosi non solo a scuola, ma anche in contesti extra-scolastici, allargandosi ad i vari contesti sociali. Quando ciò accade comincia a delinearsi un profilo caratterizzato da bassa autostima, in cui “io sono il voto che mi danno” diventa l’imperativo mentale dominante e la percezione di poter rimediare ad un insuccesso diventa sempre più sfocata.

È interessante notare, ad esempio, che i bambini con dislessia stimano talmente negativamente le proprie capacità e le loro possibilità di poter imparare a poter leggere più velocemente da adottare strategie che mirino ad “obiettivi di apprendimento” piuttosto che all’apprendimento in sé. Il più noto fra questi è la tendenza a completare le parole in base alla loro accessibilità dopo aver indentificato le prime sillabe, evitandone così la lettura completa (ad es. alla lettura di “Pan…” si completa automaticamente con “Panettiere”, quando magari la parola in questione era “pantofola”). I bambini dislessici diventano particolarmente abili ad utilizzare questo tipo di strategie compensatorie, aumentando così la loro tendenza ad attribuire all’esterno le cause dei loro successi e sperimentando sentimenti di disperazione e frustrazione ad ogni fallimento.

A completare il quadro di bassa autostima si aggiungono commenti di genitori ed insegnanti che, quando non hanno ben chiaro il quadro clinico del DSA, si lasciano andare a frasi come “Non si impegna”; “potrebbe fare di più”, etc. Queste affermazioni sono molto pesanti da metabolizzare per un bambino che ha imparato che anche il massimo dei suoi sforzi non è nemmeno lontanamente abbastanza per gli standard scolastici. Ciò accade perché anche queste frasi si muovono all’interno della semantica del giudizio, categoria che questi bambini hanno cominciato a temere. I bambini con DSA, infatti, mostrano alti livelli d’ansia per le situazioni che prevedono una valutazione (come un compito o un’interrogazione) tali da comprometterne la prestazione (Lufi, Okasha, Cohen, 2004).

Il vero nemico

Quando il bambino attiva un atteggiamento rinunciatario nei confronti della scuola, non tenta più di riuscire nei compiti giustificandosi con “tanto non sono capace”; è probabile che sia entrato nel circuito dell’impotenza appresa.

Seligman, psicologo statunitense, diede questo nome a quella sensazione di sfiducia che ci assale quando in passato siamo stati messi di fronte a situazioni simili a quella che stiamo affrontando al momento attuale, fallendo. L’equazione che scatta all’interno è qualcosa simile a “non dipende da me, non ci posso far nulla, non ci provo nemmeno”. Questa sensazione è il vero nemico dei DSA. Non le difficoltà di lettura, scrittura o calcolo (che ricordiamo, possono essere affrontante efficacemente con un buon potenziamento e con l’utilizzo degli strumenti compensativi–dispensativi), ma proprio la convinzione radicata che nulla potrà essere fatto per cambiare la situazione in cui ci si trova.

Inoltre quando questo tipo di atteggiamento porrà il bambino di fronte all’ennesimo insuccesso, questo verrà interpretato come prova della propria inadeguatezza e della propria incapacità, alimentando un circolo vizioso da cui è difficile per un bambino uscire da solo.

Cosa possiamo fare quindi?

Innanzitutto ricordiamoci che il voto ha un valore relativo. Un 7 ha un peso diverso se preso da un bambino che in matematica ha sempre avuto 10 rispetto ad un bambino che ha sempre preso 4. La prima cosa da fare, quindi, è uscire dalla gabbia dei voti, noi adulti per primi.

È importante che i bambini con DSA sentano che le loro difficoltà non minano il loro valore.

Insegniamo ai nostri bambini a riconoscere le loro abilità e ad individuare i loro limiti, riconosciamo i loro sforzi e la loro fatica anche quando i risultati non sono quelli che vorremmo e rinforziamo positivamente i loro successi.

Piano piano, riacquisita la fiducia in loro stessi, avranno risultati inediti, tali da mettere d’accordo le logiche del sistema scolastico e quelle del cuore.

Il disagio adolescenziale e il ruolo della scienza medica e psicologica – Report dal convegno di studi all’Aquila

Dalla precarietà della forma fisica al malessere psicologico, esistenziale, fino alle forme proprie del cyberbullismo, è chiaro il fatto che sono necessari interventi strutturati nel trattamento del disagio adolescenziale in cui psicologia, medicina e società agiscono in maniera sinergica sia in fase preventiva che riabilitativa.

 

Un intenso e aggiornato evento scientifico contraddistinto dall’alternarsi di esperti e relazioni che hanno riguardato vari aspetti della cura e della malattia degli adolescenti di oggi: dall’alimentazione alle malattie croniche fino alle conseguenze psicopatologiche del cyberbullismo.

Queste le caratteristiche salienti del V Corso Nazionale della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza, svoltosi lo scorso 20 Ottobre nella prestigiosa sede del Canadian Hotel della città dell’Aquila, in un momento in cui la ricostruzione della sofferenza patita da una città pareva a tratti riecheggiare la lenta e sofferta ricostruzione della traiettoria di vita di tanti adolescenti di oggi e delle loro famiglie.

Per malattia cronica ci si riferisce a tutte quelle condizioni patologiche che richiedono un’ospedalizzazione per più di un mese all’anno, come la paralisi cerebrale infantile, a cui si accompagna la disabilità, ovvero la perdita o la limitazione delle funzioni psicocorporee, e il disagio conseguente – apre i lavori Piernicola Garofalo, Dirigente medico dell’Unità operativa di Endocrinologia dell’Azienda Ospedali riuniti Villa Sofia-Cervello di Palermo – Da qui la necessità di un percorso assistenziale che definisca precisamente i professionisti, il setting, la tempistica e le procedure di cura del paziente. Il paziente con malattia cronica deve essere posto al centro dell’assistenza a lui dedicata, al fine di sviluppare le funzioni residue e promuovere la crescita del Sé, il benessere spirituale, la progettualità futura, il diritto a divenire persona adulta, meritevole di vita.

Il paziente grave esprime emozioni, anche se non visibili, che i professionisti hanno l’obbligo deontologico di captare, utilizzando l’empatia, formandosi adeguatamente sul corretto utilizzo dei presidi necessari in corso di patologia, sostenendo un percorso di cura che vada dall’ospedale alla casa, attraverso l’assistenza domiciliare, nel contempo sostenendo la famiglia, anche dopo la morte del figlio – continua Lorenzo Iughetti, Direttore UO Pediatria presso AOU Policlinico di Modena.

Adolescenti dalla salute precaria, dove sovente ciò si declina nelle forme dell’obesità, richiedendo terapie intensive, fondate, tra le altre, sull’attività sportiva.

È noto come l’attività sportiva contrasti l’obesità, inibendo il rilascio di cannabinoidi stimolanti l’assunzione di cibo, oltre che i fenomeni infiammatori dell’organismo. È altresì importante sottolineare come a durata crescente di esercizio fisico cresca l’utilizzazione dei grassi e che, in generale, l’esercizio fisico debba essere consigliato nelle malattie croniche, come il tumore e le cardiopatie, consigliando un’attività anaerobica una volta al giorno e fino a tre volte a settimana attività aerobica – commenta Giulia Cafiero, Direttore dello Studio Medico Polispecialistico A.S.A. di Roma – Ancora lo sport migliora il tono dell’umore, specialmente in età adolescenziale, caratterizzata da variabilità tipiche nell’espressione emotiva, contribuendo a formare l’identità corporea, l’affiliazione e l’aspirazione al successo.

Dalla precarietà della forma fisica al malessere psicologico, esistenziale, nelle forme proprie del cyberbullismo, un fenomeno preoccupante, dagli esiti potenzialmente fatali, e che richiede interventi strutturati, complessi, in cui psicologia, medicina e società non possono non collaborare, in fase preventiva e riabilitativa.

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Il disagio adolescenziale: tra medicina e psicologia - Convegno all'Aquila

Il cyberbullismo comprende tutte quelle forme di prevaricazione su una vittima che utilizzano la potenza degli strumenti mediatici e l’anonimato dell’aggressore, con la finalità di squalificare e aggredire un soggetto debole, vuoi per disabilità di tipo fisico che sociale – spiega Angela Ganci, psicologo psicoterapeuta di Palermo, specialista nel campo dell’abuso minorile – La violenza del cyberbullo non conosce confini temporali; per proteggersi la vittima spesso si rifugia nel Web, alla ricerca disperata di conforto, con il serio rischio di imbattersi in siti pro-suicidio, ricercando in alcuni casi attivamente metodi di autosoppressione per porre fine a un’angoscia radicata. Ecco l’attenzione elevata di famiglie e scuola, chiamate a informare l’adolescente circa le modalità di attacco del bullo, denunciando tempestivamente atteggiamenti sospetti, come la richiesta di foto intime, fonte di ricatto, prevenendo la caduta nella spirale della violenza online. Un compito delicato, in cui i professionisti della salute affiancano scuola e famiglia per il benessere mentale delle future generazioni.

Fumo di sigaretta: danneggia i figli attraverso modificazioni epigenetiche

I padri che fumano potrebbero recare danni al cervello dei loro figli causando deficit cognitivi. Le responsabilità di questi danni sono dovute alle modifiche genetiche che questo vizio comporta allo sperma dei padri. 

 

I padri che fumano possono causare deficit cognitivi ai figli e persino ai nipoti, secondo uno studio pubblicato sulla rivista PLOS Biology dei ricercatori della Florida State University di Tallahassee. Non a causa del fumo passivo, ma per i cambiamenti epigenetici nei geni dello sperma.

Come spigano i ricercatori del seguente studio, già studi precedenti hanno dimostrato come la nicotina e ad altri componenti presenti nel fumo di sigarette, sono riconosciuti come fattori di rischio significativi per lo sviluppo di disordini comportamentali, come il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD). Quello che ancora non risultava chiaro era come fosse possibile da parte dei padri, visto che risultava difficile distinguere i fattori genetici da quelli ambientali.

Fumo di sigaretta: la ricerca dimostra come danneggia la progenie

Per ottenere delle risposte a questi dubbi, Deirdre McCarthy, Pradeep Bhide e colleghi hanno esposto un gruppo di topi maschi a basse dosi di nicotina somministrate attraverso l’acqua durante il periodo di vita in cui i maschi di topo producono sperma. Di seguito gli scienziati hanno fatto accoppiare i topi (ai quali era stata somministrata la nicotina) con femmine mai esposte alla nicotina. Dai dati è emerso che, mentre i padri non mostravano alcun  problema comportamentale, i figli, di entrambi i sessi, risultavano iperattivi, avevano deficit di attenzione e inflessibilità cognitiva. Quando i topi femmina di questa generazione venivano fatte accoppiare con maschi che non erano mai entrati in contatto con la nicotina, i figli mostravano meno deficit cognitivi, ma pur sempre significativi.

Le analisi eseguite sugli spermatozoi dei topi esposti alla nicotina, hanno dimostrato modifiche a livello epigenetico, in modo particolare per quanto riguarda la dopamina D2, fondamentale per lo sviluppo del cervello e dell’apprendimento, suggerendo che queste modificazioni probabilmente, potrebbero aver contribuito ai deficit cognitivi evidenziati nei topi.

Come ha detto Bhide

Gli uomini fumano più delle donne e questo  potrebbe rappresentare una minaccia per la salute pubblica.

Queste scoperte sottolineano la necessità di ulteriori ricerche sugli effetti del fumo sull’essere mano.

Gli effetti della risposta allo stress sulla memoria

Il concetto di stress, la cui natura è primariamente fisiologica, ha oggigiorno assunto un significato multiforme ed è entrato a far parte della quotidianità della maggior parte degli individui, anche per le conseguenze su memoria e attenzione.

 

È indubbio che le richieste ambientali della nostra modernità abbiano condotto a stili di vita frenetici e spesso faticosi, sia dal punto di vista fisico che mentale, conducendo talvolta a conseguenze mediche rilevanti che necessitano una presa in carico; tale è l’importanza che lo stress riveste nella nostra società che diviene essenziale la comprensione di come esso agisca sul nostro organismo determinando in primo luogo la risposta fisiologica e successivamente gli effetti su funzioni cognitive fondamentali, quali attenzione e memoria.

Stress: distinzione tra quello assoluto e quello relativo

Innanzitutto è necessario precisare che lo stress, la cui risposta ha una valenza adattiva per gli animali, può essere considerato assoluto o relativo. Nel primo caso si tratta di reazioni fisiologiche che si attivano in presenza di minacce oggettive alla propria incolumità (un predatore, un incidente, una calamità naturale), mentre il secondo riguarda eventi la cui interpretazione suscita ugualmente sensazioni di minaccia ma che, proprio per la natura interpretativa della situazione, risultano soggettive. Sebbene la risposta allo stress, in entrambe le tipologie, sia per certi aspetti la medesima, la reazione fisiologica allo stress relativo è nella maggior parte dei casi più mite, poiché non si presenta come una reazione di sopravvivenza a una minaccia concreta, bensì la minaccia viene considerata tale a seguito di una valutazione cognitiva dell’evento/situazione. In breve, un evento oggettivamente minaccioso come un disastro naturale attiverà nella quasi totalità delle persone la stessa considerevole cascata neurochimica e gli stessi agiti, mentre in concomitanza di un evento soggettivamente stressante (un carico di lavoro considerato eccessivo, la fine di una relazione sentimentale importante, la percezione di non possedere abbastanza risorse per fronteggiare un problema ecc.) la reazione sarà mediata dalle caratteristiche individuali di ciascuno di noi, con effetti quindi variabili.

Stress: cosa scatena nel nostro corpo

Il meccanismo alla base della risposta fisiologica allo stress vede implicate strutture specifiche del cervello e viene chiamato Asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (HPA). In sintesi, un evento stressante (assoluto o relativo) attiva l’ipotalamo, che rilascia l’ormone di rilascio della corticotropina (CRH), il quale a sua volta innesca la secrezione di un altro ormone chiamato adrenocorticotropina (ACTH) dall’ipofisi; attraverso il sangue l’ACTH raggiunge le ghiandole surrenali che da ultimo rilasciano i cosiddetti ormoni dello stress. I prodotti finali di questa catena neurochimica sono appunto gli ormoni dello stress, i quali si dividono in due classi principali: glucocorticoidi (corticosterone negli animali e cortisolo negli esseri umani) e catecolamine (adrenalina e noradrenalina). Se l’attivazione dell’Asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene è considerata una risposta adattiva dell’organismo in quanto prepara il corpo a reazioni di attacco-fuga davanti a pericoli per la propria sopravvivenza (ad esempio la secrezione di catecolamine è uno dei meccanismi per mezzo dei quali il sistema nervoso simpatico opera in situazione di emergenza), il suo stato di attività prolungata può determinare conseguenze negative come ipertensione e più frequente esposizione ad infezioni in quanto l’HPA sopprime temporaneamente le funzioni immunitarie. Come in molti altri casi, la modalità di attivazione cronica di HPA deve ritenersi un fattore rilevante, che comporta varie compromissioni funzionali dell’organismo e dunque una variabile da tenere in considerazione e sui cui intervenire.

Stress: come incide sulla nostra attenzione

Nonostante non vi siano studi univoci su come e quanto la sovrabbondanza di glucorticoidi, causata da una attività protratta di HPA, arrechi effetti negativi sulla funzionalità del cervello (i glucorticoidi sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica agendo quindi direttamente sul sistema nervoso), molte ricerche considerano questi ormoni come responsabili del decremento in alcuni domini cognitivi, in particolare l’attenzione (inducendo una ipovigilanza a determinati stimoli) e la memoria; si ipotizza che gli effetti sulla memoria potrebbero essere causa di una possibile riduzione del volume dell’ippocampo, area del sistema limbico implicata nel materiale mnestico di tipo dichiarativo, con il risultato di un malfunzionamento nell’elaborazione delle informazioni esplicite.

Una meta-analisi condotta da Lupien e collaboratori (2007) espone una serie di numerosi risultati i cui ambiti di ricerca riguardano appunto gli effetti dei glucorticoidi esogeni ed endogeni sulla cognizione e sul volume dell’ippocampo, trovando differenze sostanziali tra i vari studi, spesso totalmente contrastanti. Dal momento che i risultati controversi impediscono di interpretare le scoperte in una sola direzione, è necessario essere cauti e frenare qualsiasi tentativo di oggettivare la relazione stress-glucorticoidi-cognizione, tenendo aperte le porte della ricerca sperimentale.

Stress: perchè influenza la nostra memoria

Per quanto riguarda la memoria si riporta la descrizione proposta da Siegel, alla quale da qui in poi si farà riferimento:il termine memoria si riferisce al modo in cui un evento del passato influenza un processo del futuro (Siegel, 2014).

Tale descrizione considera la memoria un processo mentale che comporta un’eccitazione neuronale a seguito di un evento che verrà codificato, immagazzinato e successivamente rievocato, il cui richiamo condurrà all’attivazione di pattern simili di attivazione neuronale in un secondo momento. Il ricordo di un’esperienza passata può essere sia di tipo esplicito che implicito, dando origine alla comune classificazione della memoria che conosciamo; nonostante a livello dei substrati neurobiologici si verifichi la stessa eccitazione neuronale, ovvero gli stessi stadi di codifica, immagazzinamento e richiamo, le modalità con cui il ricordo viene percepito sono diverse a seconda che si tratti di memoria esplicita o implicita. Nello specifico, mentre nella memoria esplicita (dichiarativa) si ha la sensazione interiore di star ricordando un evento del passato (Siegel definisce questa sensazione ecforia, ovvero l’atto di richiamare alla mente), in quella implicita manca questa sensazione a livello cosciente, per cui un evento (o eventi) codificati ed immagazzinati nel passato possono presentarsi ed influire sul proprio presente senza avere reale consapevolezza. Le origini delle distorsioni cognitive (bias), di pattern emozionali e di comportamento che portano a reazioni automatizzate, persino le percezioni legate al senso del corpo, potrebbero qui trovare una robusta spiegazione scientifica, in quanto stimoli precedentemente immagazzinati nella memoria implicita e che si ripropongono senza che l’individuo ne abbia piena coscienza sono in realtà il richiamo di esperienze avvenute nel passato.

Stress: cosa succede quando è estremo

Comprendere i meccanismi di codifica, immagazzinamento e richiamo di materiale all’interno dei circuiti della memoria, può avere enormi implicazioni cliniche, poiché capita spesso di incontrare persone che iniziano percorsi psicoterapeutici a causa di esperienze stressanti o francamente sconvolgenti come un trauma. Innanzitutto è bene tenere conto che l’ippocampo, considerato la struttura cerebrale in cui avviene l’immagazzinamento di materiale dichiarativo, codifica eventi e informazioni esclusivamente in presenza di attenzione focalizzata (volontaria), mentre la memoria implicita funziona anche senza l’attenzione consapevole. A livello neurochimico una risposta allo stress molto forte con produzione eccessiva di cortisolo (glucocorticoide) induce un’inibizione della funzione dell’ippocampo, impedendo la codifica di materiale in forma esplicita; inoltre le catecolamine, anch’esse prodotte a seguito della risposta allo stress, possono condurre a compromissioni della memoria dichiarativa, dal momento che intensificano la codifica implicita della paura che avviene nell’amigdala. Dunque un evento enormemente stressante come può essere un’aggressione fisica, può portare a un blocco della codifica esplicita a favore di quella implicita, causando inevitabilmente una mancata integrazione tra i due tipi di memoria. Queste reazioni neurofisiologiche sono utili per spiegare alcuni sintomi invalidanti che compaiono nel disturbo da stress post-traumatico come flashback o sensazioni corporee intrusive: eventi, emozioni e percezioni corporee codificate implicitamente (senza quindi attenzione focalizzata) impediscono un richiamo cosciente che può condurre ad un stato confusionale e non integrato.

Conoscere come opera la memoria ha un riscontro clinico importante, come già accennato, poiché la consapevolezza di come reagiamo a determinati stimoli, il perché proviamo certe sensazioni ed emozioni, è una base fondamentale da cui partire per un lavoro terapeutico volto al raggiungimento del benessere. La memoria fa parte di quelle funzioni del cervello indispensabili per l’adattamento e la sopravvivenza per cui fornire informazioni sulle modalità e i meccanismi soggiacenti è un’opportunità clinica non trascurabile; inoltre fornire spiegazioni su come lo stress può interagire con questa funzione e comprometterne l’efficienza diviene indispensabile per incrementare la conoscenza interiore e rendere le persone capaci di percepirsi esseri attivi nella risoluzione delle loro problematiche emotive.

Le basi neurali, l’integrazione, la consapevolezza dei nostri stati interni sono tutti fattori che possono incrementare la mindsight, ovvero la vista della mente, l’essere in grado cioè di osservare e comprendere il mondo interiore proprio e degli altri, senza basarsi esclusivamente sui comportamenti manifesti: l’allenamento alla mindsight è un atto terapeutico che concediamo a noi stessi e che può aiutarci a fronteggiare le sfide della vita: la nostra vita come singoli e quella con gli altri di cui le relazioni sono la massima espressione.

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