expand_lessAPRI WIDGET

Tecnologia e DOC: una nuova applicazione per ridurre le compulsioni

I ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Cambridge hanno sviluppato un’applicazione per smartphone che sembra possa aiutare a ridurre le compulsioni nel Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC)

 

Tra i sintomi più comuni del Disturbo Ossessivo Compulsivo, il 46% dei pazienti presenta la compulsione che riguarda il lavarsi le mani, oltre ad un’eccessiva paura di contaminazione (Jalal, Brühl, O’Callaghan, Piercy, Cardinal, Ramachandran & Sahakian, 2018).

Non c’è dubbio che questi comportamenti abbiano un impatto decisivo sulla vita del paziente, sulle sue relazioni e sulla sua vita lavorativa. I comportamenti ripetitivi sono associati ad una “rigidità cognitiva”, cioè all’incapacità di adattarsi a nuove situazioni o a sottostare a nuove regole.

Pertanto, porre fine alle compulsioni richiede una flessibilità cognitiva che rende il paziente in grado di dedicarsi ad altre attività (Vaghi, Vértes, Kitzbichler, Apergis-Schoute, Van Der Flier, Fineberg, & Bullmore, 2017).

Una nuova modalità di trattamento

Molto spesso i pazienti affetti da DOC ricevono la diagnosi dopo anni e anni di sofferenza e, di conseguenza, iniziano tardi il trattamento che, perciò, può risultare poco efficace.

Il trattamento tradizionale del Disturbo Ossessivo Compulsivo consiste in una combinazione di terapia farmacologica e una forma di psicoterapia cognitivo-comportamentale denominata ERP- Esposizione con Prevenzione della Risposta. Questa tecnica richiede ai soggetti un enorme sacrificio e sforzo emotivo, in quanto essi vengono sottoposti ad elevato stress.

Per via delle difficoltà al trattamento di alcuni pazienti DOC, i ricercatori hanno ideato una tecnica alternativa per trattare le compulsioni riguardanti il lavarsi le mani e la paura della contaminazione (Jalal & Ramachandran, 2017). L’intervento può essere effettuato tramite un’applicazione dello smartphone e consiste nel far guardare ai pazienti video di loro stessi mentre si lavano le mani o toccano superfici contaminate.

Lo studio

Lo studio condotto dai ricercatori di Cambridge ha coinvolto 93 partecipanti non patologici che hanno ottenuto un punteggio alto nella paura della contaminazione secondo il Padua Inventory Contamination Fears Subscale. Non è stato utilizzato un campione composto da pazienti con diagnosi DOC per evitare che l’intervento potesse potenzialmente peggiorare i sintomi.

I 93 partecipanti sono poi stati suddivisi in tre gruppi: i soggetti del primo gruppo hanno guardato video nello smartphone in cui venivano ripresi durante il rituale di lavarsi le mani; il secondo gruppo ha guardato video in cui venivano ripresi mentre toccavano delle superfici contaminate e il gruppo di controllo ha guardato video in cui venivano messi in atto movimenti neutrali con le mani.

I video sono stati visti per 30 secondi, per 4 volte al giorno. Dopo una settimana, i partecipanti del primo e del secondo gruppo sono migliorati, mostrando una riduzione dei sintomi e una maggiore flessibilità cognitiva rispetto al gruppo di controllo. Nella media, il gruppo uno e il gruppo due hanno migliorato del 21% i punteggi alla Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (YBOCS), la scala più usata nell’assessment clinico per la gravità dei sintomi ossessivo-compulsivi.

Alcuni dei soggetti hanno riferito che, durante il giorno, riuscivano a ritardare la compulsione di lavarsi le mani anche per più di due ore, utilizzando in sostituzione i video dell’applicazione.

In conclusione

Questa nuova applicazione potrebbe essere utile a stimolare nei pazienti il coinvolgimento in attività quotidiane piuttosto che imbattersi in rituali e comportamenti compulsivi (Jalal et al., 2018).

Nonostante i risultati siano incoraggianti e le previsioni dell’utilizzo di questo tipo di tecnologia siano entusiasmanti, il concetto richiede ulteriori ricerche e, soprattutto, va esaminato l’utilizzo dell’intervento con lo smartphone su pazienti con diagnosi di DOC.

Immagine corporea e sentirsi grassi: due variabili interconnesse nei disturbi alimentari

La rappresentazione della propria immagine corporea è considerata come un costrutto multidimensionale che include aspetti cognitivi e affettivi (preoccupazione e sentimenti sul corpo), percettivi (stima delle dimensioni del proprio corpo) ed infine comportamentali.

Manuela Capolongo e Martina Croci – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Secondo il modello cognitivo-comportamentale, la psicopatologia nucleare dei Disturbi Alimentari è caratterizzata da preoccupazioni eccessive e patologiche rispetto alla forma ed alle dimensioni del corpo. In particolare, la distorsione dell’immagine corporea viene definita come un disturbo nel modo in cui un soggetto percepisce il peso e la forma del proprio corpo; questa dimensione psicopatologica è molto frequente sia nell’anoressia che nella bulimia nervosa.

Immagine corporea: definizione e storia del costrutto

Il primo autore a parlare di Immagine Corporea è stato Paul Shilder nel 1935, il quale sottolinea la necessità di esaminare gli elementi neurologici, psicologici e socioculturali che concorrono alla definizione di tale concetto.

Dal 1958 al 1968 anche Fisher e Cleveland si occupano del concetto di immagine corporea, inizialmente in una prospettiva psicodinamica, dando origine alla teoria dei “Confini dell’immagine corporea” (Body Image Boundaries).

Successivamente, nel 1987, viene fatta propria una prospettiva ad indirizzo psicologico-fenomenologica, che considera l’immagine corporea. come una serie di sensazioni e atteggiamenti rivolti al proprio corpo (Fisher, 1986).

Queste teorie sono state in parte eclissate negli anni successivi dallo sviluppo delle teorie Cognitivo-Comportamentali sull’immagine corporea.

Quest’ultime hanno portato alla costruzione di un modello cognitivo-comportamentale dello sviluppo dell’immagine corporea, in cui si distinguono fattori storici e fattori prossimali. I fattori storici si riferiscono ad eventi ed esperienze del passato che influenzano il modo in cui un individuo pensa, sente e agisce in relazione al proprio corpo. Fra questi i principali sono: la cultura sociale, le esperienze interpersonali, le caratteristiche fisiche ed i tratti di personalità. Attraverso diversi tipi di apprendimento sociale, i fattori storici infondono all’individuo gli schemi e le attitudini fondamentali dell’immagine corporea, incluso la disposizione alla valutazione e diversi gradi di investimento sulla stessa.

La valutazione dell’immagine corporea si riferisce alla soddisfazione o insoddisfazione per il proprio corpo, mentre con investimento si intende l’importanza del corpo, sul piano cognitivo, comportamentale ed emotivo, in relazione all’auto-valutazione.
I fattori prossimali sono rappresentati dagli eventi di vita recenti, ed hanno un ruolo precipitante o di mantenimento sull’esperienze della propria immagine corporea, incluso il dialogo interno, le emozioni riguardanti la propria immagine, le strategie, i meccanismi di auto-regolazione e di coping.

Esistono specifici eventi attivanti, tra i quali l’esposizione del corpo, l’esposizione allo specchio, i feedback sociali, le situazioni di confronto con gli altri, l’indossare alcuni vestiti, il pesarsi, fare attività fisica, stati d’animo negativi, cambiamenti corporei ecc., che attivano l’elaborazione di schemi relativi all’apparenza. Questi eventi risultano poi in dialoghi interni (pensieri, interpretazioni, conclusioni, etc. riguardo il proprio aspetto), che riflettono errori e distorsioni, come il pensiero dicotomico, il ragionamento emozionale, confronti inadeguati con modelli sociali, inferenze arbitrarie, generalizzazioni eccessive, personalizzazioni eccessive, amplificazione dei difetti, minimizzazione delle risorse; a questi seguono le emozioni, che generalmente sono disforiche, caratterizzate da vergogna e senso di colpa.
Per far fronte a questi pensieri ed emozioni che generano stati d’animo negativi, la persona attiva dei comportamenti adattivi e delle strategie cognitive, ad esempio comportamenti di evitamento e negazione del corpo, rituali di controllo della propria apparenza (body checking) e strategie compensatorie.

Immagine corporea: il ruolo nell’anoressia e nei Disturbi Alimentari

Come precedentemente accennato, la distorsione dell’immagine corporea gioca un ruolo determinante nel favorire la restrizione alimentare nell’Anoressia Nervosa.

Secondo il modello cognitivo comportamentale (Fairburn et al., 1993), altri sintomi caratteristici dei Disturbi Alimentari, come ad esempio le abbuffate, sarebbero associati ad un circolo vizioso di mantenimento basato su preoccupazioni legate al corpo e su aspettative irrealistiche rispetto al proprio peso.

Negli ultimi decenni c’è stato un aumento dell’attenzione al ruolo giocato dall’immagine corporea anche in disturbi diversi rispetto all’Anoressia Nervosa, associati a condizioni multifattoriali come l’obesità, quali ad esempio il Disturbo d’Alimentazione Incontrollata (DAI), in virtù della diffusione, nel mondo occidentale industrializzato, di un ideale di bellezza che privilegia la magrezza e che squalifica il sovrappeso (Garner et al., 1980; Wieseman et al., 1992, Treasure et al, 2010).

Il modello cognitivo comportamentale (Fairburn et al., 1993) prevede che il meccanismo dell’abbuffata sia principalmente legato alla restrizione alimentare, che a sua volta è strettamente legata a convinzioni distorte rispetto al proprio corpo (Garner e Garfinkel, 1988). Questo modello suggerisce che l’individuo possa sviluppare preoccupazioni per l’aspetto fisico come risultato di bassi livelli di autostima, e la restrizione del consumo di cibo rappresenti lo sforzo compensatorio per modificare la forma corporea. L’abbuffata nascerebbe dalla suscettibilità psicologica e fisiologica che consegue alla restrizione alimentare, e i meccanismi di compenso (vomito, lassativi, esercizio fisico, ecc.) sarebbero impiegati per ridurre l’impatto dell’abbuffata sul peso corporeo. Restrizione e perdita di controllo, con successive pratiche compensatorie, risultano poi strettamente collegate da una serie di circoli viziosi che tendono ad automantenere il quadro clinico completo.

Un classico esempio di distorsione dell’immagine corporea è la persona anoressica che ritiene fermamente di apparire grassa, oppure quella bulimica che, nonostante la precedente perdita di peso, continua a vedersi grassa.

Almeno la metà dei pazienti con disturbi del comportamento alimentare sovrastimano significativamente la propria taglia corporea; questo solitamente è provocato da stati d’animo negativi, dal consumo di cibi ritenuti ipercalorici, dal vedere immagini di donne magre attraverso i mass media, dal periodo premestruale o dall’indicazione di valutare la propria taglia sulla base dei sentimenti.

Chi presenta un’immagine corporea negativa si sentirà maggiormente preoccupato nelle situazioni sociali, durante le quali si aspetta di essere attentamente scrutato dalle altre persone; questa sensazione genera ansia, imbarazzo e vergogna poiché la persona teme che il suo aspetto fisico esteriore possa rivelare agli altri alcune sue inadeguatezze personali.

Sentirsi grassi: il ruolo della percezione

La sensazione di sentirsi grassi, invece, è una percezione del proprio stato corporeo che accomuna una grandissima percentuale di donne (meno di uomini), anche se non è stata ancora studiata approfonditamente. Questa sensazione è collegata ad alcune variabili, che caratterizzano il nucleo centrale dei disturbi alimentari, in particolare ad un’immagine corporea negativa, sia in caso di sottopeso, normopeso e sovrappeso.

Infatti il peso effettivo della persona non influisce significativamente su questa sensazione, perché interessa anche donne normopeso: è l’avere un’immagine corporea negativa che ne aumenta la frequenza e l’intensità.

Uno studio interessante sull’argomento e che ha confermato quanto appena spiegato, è quello condotto da Myra J. Cooper e il suo team, presso l’Università di Oxford in Inghilterra, che ha fornito una preliminare e sistematica esplorazione delle caratteristiche associate alla sensazione di sentirsi grassi: gli autori ricordano che essa è una sensazione comune tra le donne in generale, in particolare quelle che sono attente al peso e alla forma del corpo, ma anche tra le donne che non sono eccessivamente interessate al peso e alla forma del corpo.

Nonostante questi risultati, si sa ancora poco di come il sentirsi grassi differisca tra la popolazione clinica e non clinica: ricerche hanno confermato che questa sensazione è più intensa nella popolazione clinica, ma non assente in quella non clinica. Gli studiosi infatti sono concordi nel dire che il sentirsi grassi è qualcosa di più che pensare di essere ingrassati: Anderson (2000) per esempio nota che è spesso una metafora della disforia.

L’implicazione che il “sentirsi grassi” può essere considerato più di una sensazione, includendolo in un range di componenti emotive e cognitive, è particolarmente significativo per la terapia cognitiva. I trattamenti recenti però non si sono spesso indirizzati verso questa variabile, ad eccezione del trattamento transdiagnostico di Fairburn per i disturbi alimentari, che vede il sentirsi grassi come un aspetto dell’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo.

Sentirsi grassi: il trattamento CBT-E

In Italia, i contributi più consistenti sul tema provengono dalle ricerche del dottor Riccardo Dalle Grave, che la include nel suo trattamento CBT-E (Enhanced Cognitive Behaviour Therapy).

Egli spiega che il sentirsi grassi non è un’emozione né una percezione del corpo, ma, come è stata definita da studi recenti, è una conseguenza di “etichettare” in modo inaccurato alcune esperienze: per esempio dopo che si è mangiato si può etichettare l’esperienza del gonfiore fisiologico e temporaneo dello stomaco come prova dell’essere grassi. Più precisamente le esperienze che vengono etichettate in questo modo sono le emozioni “negative” (come tristezza, depressione, noia e ansia), aumentata consapevolezza del corpo, come appunto sentirsi pieni, gonfi, sudati, percepire i vestiti che stringono, o sentire il corpo che balla, e infine i check della forma del corpo (guardarsi allo specchio, misurare il peso corporeo e confrontare il proprio corpo con quello di altre persone).

Inoltre questa variabile, oltre che essere influenzata dall’immagine corporea negativa, allo stesso tempo la mantiene, innescando un circolo vizioso: avere un’immagine del proprio corpo negativa favorisce la sensazione di sentirsi grassi, e mantiene questa sensazione perché si associa all’”essere grassi”, che a sua volta può innescare strategie disfunzionali come la restrizione calorica, abbuffate e aumento di check del corpo. Infatti questa sensazione alimenta l’insoddisfazione corporea e la restrizione dietetica.

Nella CBT-E il “sentirsi grassi” viene inserito nella fase 3 del trattamento, nella quale si affrontano i meccanismi residui e che mantengono il disturbo alimentare: nello specifico viene inserita tra le altre espressioni del nucleo psicopatologico del disturbo alimentare, insieme al check del corpo, all’evitamento dell’esposizione del corpo e alla marginalizzazione delle altre aree di vita.

Fairburn e Dalle Grave sottolineano il fatto che questo fenomeno fluttua di giorno in giorno e anche nello stesso giorno, pur rimanendo invariato il peso corporeo, differenziandosi così dalla maggior parte degli altri aspetti del nucleo psicopatologico, che tendono invece ad essere relativamente stabili, come lo sono il peso corporeo e la reale “grassezza”.

Un altro aspetto fondamentale su cui si soffermano gli autori è il fatto che spesso il sentirsi grasse coincide con l’essere grasse.

Secondo il trattamento di Fairburn, su cui si è ispirato Dalle Grave, occorre prima di tutto chiedere alle pazienti se a volte si sentono grasse, specificando che non si sta parlando dell’eventualità che esse credono di essere oggettivamente grasse, ma se si sentono in questo modo. Un secondo passo consiste nel sottolineare alle pazienti che l’esperienza di sentirsi grasse potrebbe nascondere altri elementi, come emozioni e sensazioni negative e aiutarle a identificare i picchi di questa sensazione, ossia i momenti in cui essa è particolarmente intensa.

A questo punto il trattamento in questione prevede che le pazienti monitorino questi momenti in cui la sensazione è più intensa e pensare a cos’altro stanno provando in quella stessa occasione. Nella seduta successiva si rivedrà con il terapeuta il monitoraggio fatto dalle pazienti, focalizzando l’attenzione sul contesto in cui questa sensazione si è verificata, ossia quali emozioni, pensieri, sensazioni sono ad essa associate, che però precedentemente venivano mascherate.

Di conseguenza le pazienti dovrebbero essere più consapevoli che l’esperienza di sentirsi grasse tende ad essere causata da certi stati emotivi negativi (sentirsi annoiate, depresse, sole, ecc…), da forme di comportamento o da sensazioni fisiche che aumentano la consapevolezza corporea (fare check del corpo, confrontarsi con altri, sentirsi piene, gonfie, sudate, sentire la pancia che esce dai pantaloni o le cosce che sfregano tra loro).

L’obiettivo finale prevede che le pazienti capiscano che queste sono normali sensazioni corporee e che si verificano in alcune circostanze, che vengono da loro male etichettate: le pazienti dovrebbero identificare quando hanno questa sensazione intensa, focalizzarsi su cosa stanno provando in quel momento, identificando i fattori scatenanti e affrontarli utilizzando metodi come il problem solving.

Sicuramente questo appena descritto è un approccio efficace alla problematica, ma la speranza è quella che le ricerche future si concentrino maggiormente su questa variabile, che sì è più intensa nelle persone con disturbo alimentare, ma interessa anche la popolazione non clinica, che può vivere questa esperienza come un problema difficile da gestire.

Primo colloquio: sintonizzarsi col paziente senza cadere in cicli interpersonali

Alzi la mano chi, in attesa di incontrare per la prima volta un paziente, con cui magari fino a quel momento vi è stato soltanto un breve contatto telefonico o via mail, non è mai entrato in uno stato mentale particolare.

 

Se tarda qualche minuto subito si può pensare Ecco, non verrà e non mi ha neppure avvisata. Avrei potuto fare altro in questo tempo….ma che maleducazione… e nel bel mezzo di questo squilla il telefono: il paziente, semplicemente, non riesce a trovare il civico. Ed ecco, allora, che ci diciamo qualcosa tipo: ho sbagliato a pensare questo…ora mi sentirò in colpa. In entrambi casi, ci andiamo giù pesante.

Primo colloquio: chi entrerà dalla porta?

Altro scenario. Al telefono sembra adulto. So per certo che quando aprirò la porta e mi vedrà bassa, giovane, penserà che sono la segretaria e chiederà “dov’è la dottoressa?”. A quel punto io arrossirò, e penserò di dover fare di tutto per dimostrare il mio valore. Meno male che oggi mi sono vestita bene e che ho indossato le scarpe alte. Arriva il paziente, si siede e sembra non interessarsi proprio ai nostri dati anagrafici, alla nostra altezza, né alla marca delle nostre scarpe. Quasi quasi, ci restiamo male.

Altra possibilità, che spesso mi capita di vivere. Il paziente arriva a studio, si siede, e con fare curioso proviamo a capire il motivo della sua richiesta di aiuto. Lui/lei parla, parla, parla ancora e questo motivo sembra non esserci. A casa tutto bene, a lavoro anche, con gli amici uguale…e quindi? Proviamo a chiedere, con la frase passepartout, Che cosa potrei fare per lei? e segue una risposta vaga, confusa, incerta.

Primo colloquio: le emozioni del terapeuta

Questi sono soltanto degli esempi ma nella realtà capita di frequente di viversi il primo appuntamento con il nuovo ipotetico paziente con delle emozioni attive come ansia, paura, vergogna. Il terapeuta può sentirsi demotivato, sfidato, incerto, gli sembra di non aver capito nulla del colloquio, gli sembra di essere sotto esame e si entra in stati mentali difficilmente regolabili. La prima cosa che, però, rende ostica la risoluzione degli stessi, è che siamo davvero poco consapevoli di quello che sta capitando e ci troviamo ad agire, spesso in modo disfunzionale, piuttosto che regolare la relazione. Allora ci arrabbiamo, ci distanziamo, ci mettiamo a discutere circa posizioni e punti di vista con il rischio che il paziente si senta non accolto, non capito oppure che scelga di non intraprendere proprio la terapia.

La difficoltà principale è che da stati mentali di questo tipo si scivola facilmente in cicli interpersonali negativi che influenzano la seduta. Questo è dannoso in ogni fase della terapia ma, capiamo bene che, se accade in fase iniziale, può minare tutto il percorso se non addirittura, bloccarlo. Infatti, quante volte capita che il paziente dopo il primo colloquio disdice il secondo appuntamento congedandosi con un “la richiamo io quando posso, ora è un periodo in cui sono molto impegnato”. È il caso, però, di sottolineare che questo può accadere per altri motivi, anche se il primo incontro viene condotto bene e l’esplorazione è condivisa in un clima caldo e collaborativo. Possono esserci tante spiegazioni, quindi, che non dipendono dalla dimensione interpersonale.

Primo colloquio: la pericolosità dei cicli interpersonali

Ricordiamo che un ciclo interpersonale (Safran e Muran, 2000) ha avvio quando l’incontro con l’altro viene letto attraverso la lente del proprio schema patogeno e l’altro, per l’appunto, reagisce. Infatti, ad esempio, se il terapeuta con il proprio schema di inadeguatezza, si mostra più preoccupato di cosa e come fare o dire, il paziente può sentirsi poco accolto; il terapeuta a sua volta legge questo come un fallimento personale, e può disinvestire, ritirarsi, oppure impegnarsi ancora di più nel riprendere una dimensione basata sulla performance. Bisogna, allora, ricordare che

Non si tratta di reazioni oggettive, ma di modi soggettivi di entrare in relazione con quella specifica persona. La reazione soggettiva del terapeuta informa sulla realtà interna del paziente, ma non completamente (Dimaggio et al., 2013, p.95).

Per concludere, le infinite combinazioni tra schemi interpersonali patogeni e disfunzioni metacognitive tra paziente e terapeuta giustificano una quantità pressoché infinita di problemi di sintonizzazione. È dovere del clinico, quindi, riconoscere le proprie vulnerabilità sotto questo punto di vista e tentare di agirle il meno possibile. Pur comprendendo quanto questo possa essere difficile nel vivo dell’incontro con l’altro, siamo responsabili della cura e della modulazione della relazione terapeutica nelle sue componenti esplicite ed implicite, verbali e non.

Io, intanto, per precauzione, indosso spesso le scarpe alte, non si mai.

Il diniego nei sex offender. Dalla valutazione al trattamento (2018) – Recensione del libro

Il diniego nei sex offender di Georgia Zara è un’opera che ha il duplice obiettivo di analizzare il ruolo del diniego nei sex offender e di introdurre in Italia il Comprehensive Inventory of Denial -
Sex Offender Version (CID-SO), un prezioso strumento di valutazione capace di cogliere i diversi aspetti dellla minimizzazione e del diniego nei sex offender.

 

Parlare di reati di natura sessuale e dei loro autori evoca sempre forti reazioni: a livello sociale, giuridico e anche clinico.

Quanti clinici sono disposti a lavorare con queste persone riuscendo a mantenere la professionalità necessaria senza farsi condizionare, nel loro operato valutativo e trattamentale, da giudizi personali?

È certamente una grande sfida riuscire ad andare oltre le emozioni intense che certe azioni suscitano e riuscire ad operare a un livello davvero trasformativo.

E lo è ancora di più quando l’autore del reato sessuale nega, totalmente o in parte, il reato, la propria responsabilità, la gravità dello stesso o le sue conseguenze. E se il lavoro clinico passa attraverso la relazione, che per essere davvero terapeutica deve essere autentica, come riuscire a entrare in empatia con persone che minimizzano la lesività dei reati per cui sono stati condannati, o attribuiscono parte delle responsabilità alle loro vittime o giustificano le loro azioni con teorie autoassolutorie?

Il diniego è, infatti, un aspetto ricorrente nei sex offender che alimenta reazioni sociali punitive ed esercita pressione sul sistema giuridico affinché siano stabilite pene sempre più severe.

Gli autori di reati sessuali che negano o minimizzano sono percepiti come poco collaborativi, più a rischio di ricadute criminali e clinicamente più problematici.

Il diniego nei sex offender

Ed è proprio sul diniego che si focalizza il lavoro di Georgia Zara: un’opera che ha il duplice obiettivo di analizzare il ruolo del diniego nella psicologia dei sex offender, esplorando la realtà clinica, psicocriminologica e giuridico-forense e, partendo da uno studio effettuato su un campione di sex offender inseriti in trattamenti specifici, di introdurre in Italia il Comprehensive Inventory of Denial -
Sex Offender Version (CID-SO), un prezioso strumento di valutazione capace di cogliere i diversi aspetti del diniego e della minimizzazione.

Il diniego non è certamente esclusivo degli autori di reato sessuale: tutti gli esseri umani utilizzano quotidianamente nella loro vita una quota di diniego e minimizzazione. È un meccanismo psicologico autoprotettivo messo in atto quando è impossibile per una persona comprendere e accettare alcuni aspetti della propria esperienza vissuti come particolarmente dolorosi, umilianti, inaccettabili, disturbanti.

Ma tutti i sex offender negano, almeno in certa quota, il reato, le responsabilità o le conseguenze ad esso correlate, e questo viene percepito come un elemento di ulteriore gravità, alimentando la convinzione che queste persone siano a rischio di ricaduta criminale proprio perché incapaci di assumersi la responsabilità dell’accaduto.

Infatti, nonostante la ricerca scientifica abbia faticosamente ma indubbiamente evidenziato come il diniego non possa essere né ridotto a una strategia strumentale al fine di evitare o alleviare la pena, né direttamente correlato al rischio di recidiva, esso alimenta le reazioni negative della comunità e la sospettosità del sistema giuridico, avendo di fatto un effetto sfavorevole sull’accesso a benefici processuali, penali e penitenziari.

Sebbene l’eventuale atteggiamento di diniego di responsabilità non precluda di per sé l’accesso a riti premiali, misure di detenzione attenuate, pene alternative alla detenzione o altri benefici, la sua presenza nella prassi incide certamente in senso avverso, gravando su una posizione giuridica già di per sé onerosa per via della natura del reato.

Ulteriore aggravante è data dal fatto che il diniego spesso rappresenta un fattore di esclusione dal trattamento, privando così la persona di una grande e importante occasione di messa in discussione e cambiamento.

Tuttavia, fa notare l’autrice, se il diniego nei sex offender è una costante, non può essere di per sé un fattore discriminante il livello di rischio di continuazione antisociale e non dovrebbe dunque incidere sulla determinazione della pena e della sua esecuzione.

La ricerca ha dato ampia dimostrazione del fatto che da un lato il diniego non sia un fattore di rischio di ricaduta criminale e dall’altro l’ammissione di colpevolezza e l’assunzione delle responsabilità non sia necessariamente correlato ad una diminuzione del rischio. La storia di Gerardo Morris, uno dei casi illustrati a titolo esemplificativo nel volume, è una testimonianza importante di come l’ammissione di responsabilità per i reati commessi possa talvolta nascondere un alto rischio di recidiva.

Il legame fra diniego nei sex offender, rischio di recidiva e attivazione del cambiamento è complesso, non lineare: la direzione che Georgia Zara propone è dunque quella dell’esplorazione di come, intervenendo sul diniego, si possa promuovere l’aderenza trattamentale e favorire una maggiore consapevolezza del reato e delle sue conseguenze.

È importante, infatti, discriminare i bisogni criminogenici, ovvero quei bisogni che sono all’origine del comportamento deviante e incidono sulla carriera criminale, dai bisogni di rispondenza, che non hanno un ruolo nella messa in atto della violenza sessuale, ma incidono invece sul trattamento e dai quali dipende l’assunzione di responsabilità.

Il diniego è un bisogno di rispondenza e dunque capire il suo ruolo nei sex offender è di fondamentale importanza, considerato che l’esito del trattamento incide in maniera molto significativa sul rischio di ricaduta criminale.

Ma cosa alimenta il diniego?

Il diniego spesso è il risultato di pensieri distorti, credenze e atteggiamenti che condonano la violenza sessuale favorendo spiegazioni giustificatorie, discolpanti del proprio agito. Le teorie implicite dei sex offender fanno riferimento all’inconoscibilità delle donne, all’oggettivazione sessuale delle donne, all’incontrollabilità degli impulsi, all’assolutizzazione dei diritti sessuali maschili o alla priorizzazione dei propri diritti sessuali, alla pericolosità del mondo, alla sessualizzazione infantile, ecc.

Ma questi pensieri distorti hanno un ruolo di causa o conseguenza nelle dinamiche sessualmente abusanti? Ad oggi non è ancora chiaro se queste affermazioni riflettano teorie presenti a monte della condotta antisociale e dunque agiscano da “anticamera criminale” facilitante il passaggio all’atto violento, o se, per i sex offender, rappresentino dei tentativi discolpanti, con finalità di autoprotezione e riduzione della dissonanza cognitiva emersa dalla violenza agita.

Certamente il diniego nei sex offender è una strategia autoprotettiva di fronte al mondo e a se stessi, non solo strumentale ma psicologica.

Ciò che quest’opera vuole evidenziare è la sua natura multidimensionale, dinamica e complessa. Comprendere le sue diverse sfaccettature è un compito essenziale per strutturare un trattamento efficace, calibrato sulla singola persona e orientato ad una reale riabilitazione.

Per molto tempo i programmi di trattamento rivolti ai sex offender prevedevano (e molti prevedono tuttora) l’esclusione di soggetti deneganti, considerando la mancata assunzione di responsabilità come un indicatore prognostico negativo e di difficoltosa trattabilità. La ricerca più recente ha dimostrato come questo non sia vero; inoltre, questa presa di posizione fa sì che molti autori di reati sessuali siano rimessi in libertà senza trattamento, e questo rappresenta un fattore di rischio molto concreto.

La proposta che emerge da questo volume va in una direzione opposta: coinvolgere l’autore di reato sessuale denegante senza cercare di mettere in discussione quest’aspetto, ma tentando un primo aggancio terapeutico identificando almeno un obiettivo condiviso (lavorare sulla disregolazione emotiva, per esempio), che potrebbe aprire un dialogo e permettergli di sperimentare i benefici di questo lavoro, promuovendo il riconoscimento dell’utilità trattamentale.

L’introduzione della versione italiana del Comprehensive Inventory of Denial-
Sex Offender Version (CID-SO)

L’introduzione della versione italiana del Comprehensive Inventory of Denial-
Sex Offender Version (CID-SO) nasce dunque dall’esigenza di avere uno strumento di valutazione specifico e accurato in grado di cogliere le diverse dimensioni del costrutto, per individuare le aree di rispondenza.

Il CID-SO è composto da 18 item, raggruppati in 4 cluster:

  • Diniego dell’arousal e dei comportamenti sessuali devianti
  • Diniego della necessità di trattamento/gestione dell’aggressione sessuale
  • Diniego della responsabilità
  • Minimizzazione del danno

Nonostante alcune complicazioni interpretative di qualche item, dovute alla necessità di rapportare le dimensioni del diniego al caso specifico e che dunque richiedono l’acquisizione di informazioni dettagliate sulla vita della persona, il CID-SO è uno strumento con un’elevata validità, completo, di facile somministrazione e fornisce indicazioni fondamentali per l’inserimento e il lavoro clinico nel trattamento riabilitativo.

Attraverso questo strumento è possibile valutare l’impatto che un trattamento, mirato all’iniziale e graduale presa di consapevolezza, possa contribuire a rendere la persona più recettiva rispetto alla necessità di farsi aiutare, non solo durante la detenzione, ma anche nel più delicato momento del reinserimento nella società.

Nel volume sono riportati 3 casi esemplificativi di sex offender valutati durante la loro partecipazione ad un trattamento penitenziario e vengono presentati i risultati della somministrazione del CID-SO ad un campione di 35 soggetti (facenti parte di uno studio più ampio ancora in fase di preparazione).

I dati presentati in questo lavoro mostrano come un trattamento, dedicato alla graduale presa di consapevolezza, possa contribuire a creare apertura e accettazione rispetto alla necessità di essere aiutati, riducendo il livello di diniego.

Dall’approfondimento delle 3 storie emerge l’assoluta eterogeneità sia dei bisogni criminogenici scatenanti i reati sia dei bisogni di rispondenza che hanno caratterizzato la loro partecipazione al programma di trattamento. Diventa evidente, esplorando insieme all’autrice le vicende di queste persone, come solo attraverso l’individuazione di queste specificità sia possibile strutturare un intervento personalizzato ed efficace, in grado innanzi tutto di agganciare la persona e successivamente di attivare un cambiamento.

Conclusioni per il trattamento

Negli ultimi anni la giurisprudenza ha riconosciuto il valore e le necessità di attivare specifici percorsi di recupero e sostegno psicologico per i sex offender, nell’ottica di una maggiore prevenzione, leggendo dunque il reato come espressione di un problema multidimensionale, e ha individuato nell’osservazione scientifica della personalità ad opera di esperti lo strumento per poter progettare un trattamento personalizzato.

Tuttavia, se si escludono da questo percorso i soggetti con un alto grado di diniego, si perde un’importante occasione di fare prevenzione: per quanto lunga, la pena prima o poi finisce e l’autore di reato sessuale si ritrova reimmesso nella società senza aver avuto l’occasione di aprire uno spazio di riflessione su di sé e senza aver affrontato i problemi all’origine del proprio comportamento deviante.

A conferma di quanto già emerso in altri studi, questi risultati indicano come la riduzione del rischio non dipenda dall’intervento in sé, ma da quanto esso sia focalizzato sui bisogni criminogenici: su questi occorre agire per diminuire il rischio di recidiva criminale.

Merito di quest’opera è portare l’attenzione del lettore sul fatto che, se pur il lavoro sul diniego nei sex offender abbia un obiettivo diverso rispetto alla riduzione del rischio, è tuttavia una parte importante del trattamento e contribuisce al suo successo, poiché permette agli autori di reati sessuali di essere protagonisti attivi, rinforzando la motivazione e l’interesse al cambiamento, e, aspetto assolutamente da non sottovalutare, favorisce una maggiore rispondenza sociale e giuridica nei loro confronti.

Spigolare – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 48

Una teoria fisica non può avere la pretesa di essere una “teoria del tutto” ed ha un preciso campo di esistenza, che la rende applicabile a un certo numero di fenomeni.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Spigolare (Nr. 48)

 

Il Primo Teorema di incompletezza di Gödel dice che:

In ogni teoria matematica T sufficientemente espressiva da contenere l’aritmetica, esiste una formula tale che, se T è coerente, allora   \varphi né la sua negazione \lnot \varphi sono dimostrabili in T.

Con qualche semplificazione, il primo teorema afferma che:

In ogni formalizzazione coerente della matematica che sia sufficientemente potente da poter assiomatizzare la teoria elementare dei numeri naturali — vale a dire, sufficientemente potente da definire la struttura dei numeri naturali dotati delle operazioni di somma e prodotto — è possibile costruire una proposizione sintatticamente corretta che non può essere né dimostrata né confutata all’interno dello stesso sistema.

Intuitivamente, la dimostrazione del primo teorema ruota attorno alla possibilità di definire una formula logica che nega la propria dimostrabilità. È dunque cruciale che T consenta di codificare formule autoreferenziali, che parlano cioè di se stesse: questa richiesta è garantita dal fatto che T è espressiva almeno quanto l’aritmetica o più in generale che T sia in grado di rappresentare tutte le funzioni ricorsive primitive.

Merito di Gödel fu dunque l’aver esibito tale proposizione e la vera potenza di tale teorema è che vale “per ogni teoria affine”, cioè per qualsiasi teoria formalizzata, forte quanto l’aritmetica elementare.

In particolare Gödel dimostrò che l’aritmetica stessa risulta incompleta: vi sono dunque delle realtà vere ma non dimostrabili.

Questo teorema, che esprime uno dei più discussi limiti della matematica, è uno dei più frequentemente fraintesi. È un teorema proprio della logica formale e, se estrapolato da questo contesto, può prestarsi facilmente a interpretazioni erronee. Ci sono diversi enunciati apparentemente simili al primo teorema di incompletezza di Gödel, ma che non sono in realtà veri.

 

Leggi anche Scopiazzando dalla fisica – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 46

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Junk food addiction: gli aspetti in comune con la dipendenza da nicotina e marijuana

Negli ultimi decenni, si è assistito ad un incremento del consumo del cosiddetto “cibo spazzatura”. Patatine fritte, hamburger grassi e pollo fritto sono sempre più presenti nelle diete quotidiane di grandi e bambini. Chi ne consuma in grandi quantità sostiene di non poterne più farne a meno e di volerne sempre di più.

Adriano Mauro Ellena

 

Uno studio pubblicato nel settembre 2018 afferma che le persone che riducono drasticamente il consumo di cibi altamente processati, sperimentano alcuni sintomi fisici e psicologici tipici di chi si trova in crisi d’astinenza da nicotina o marijuana.

Al fine di procedere con l’esperimento i ricercatori hanno sviluppato uno strumento costruito a partire dalle scale utilizzate per valutare i sintomi di astinenza che sopraggiungono a seguito dell’interruzione del consumo di nicotina e marijuana. Questo nuovo questionario è stato poi somministrato a 231 adulti che, nell’ultimo anno, si sono impeganti a smettere di mangiare “cibo spazzatura”.

I risultati hanno messo in evidenza quanto i sintomi siano simili a quelli esperiti da ex fumatori di sigarette e marijuana.

Conclusioni e importanza clinica

Erica Shulte, autrice dello studio, afferma che si tratta di un grande passo avanti, essendo i sintomi di astinenza un punto chiave nella diagnosi di dipendenza, questo va nella direzione di supporre che il “cibo spazzatura” sia una vera e propria dipendenza patologica.

Nicole Avena, una neuroscienzata che si è sempre occupata di ricerca sulla food addiction, afferma che questo studio ha colmato una forte mancanza nell’ambito scientifico. Fino a questo momento, infatti, non c’era modo di riuscire a misurare i sintomi d’astinenza da “cibo spazzatura”, adesso invece questo nuovo strumento fornisce una valida misurazione di questi sintomi.

Sostiene inoltre, che ciò che mangiamo contiene elevate quantità di zuccheri. Questo composto modifica le reazioni nel nostro cervello in maniera analoga ad altre sostanze quale tabacco ed alcool.

Nonostante l’impatto scientifico di questo studio, sono stati riscontrati alcuni limiti. Primo tra tutti, il fatto che il questionatio self report misurasse il percepito a distanza di tempo dei sintomi e non riuscisse a misurarli nel qui ed ora, mentre si manifestano. Inoltre, non si è tenuto conto della modalità con cui i partecipanti hanno interrotto l’assunzione di “cibo spazzatura” (se gradualmente o bruscamente).

Sicuramente però, questo studio apre le porte ad ulteriori ed approfondite ricerche fornendo una prima spiegazione al perché sia così difficile iniziare a mangiare sano.

I costi di una società depressa: gli aspetti socio-economici della depressione

Nel mondo si stima che circa 340 milioni di persone soffrano di depressione. Nel corso degli ultimi anni la prevalenza della depressione è aumentata costantemente e allo stesso tempo l’età di insorgenza è diminuita.

 

Diffusione della depressione

Nel mondo si stima che circa 340 milioni di persone soffrano di depressione. La fascia di età più colpita è quella compresa tra i 30 e i 49 anni. Il disturbo depressivo è circa due volte più frequente tra le donne. Nel corso degli ultimi anni la prevalenza della depressione è aumentata costantemente e allo stesso tempo l’età di insorgenza è diminuita.

Secondo lo studio ESEMeD (European Study of the Epidemiology of Mental Disorders) del 2004, in Italia la prevalenza della depressione maggiore e della distimia nell’arco della vita è dell’11,2% (14,9% nelle donne e 7,2% negli uomini). Nelle persone ultra 65enni la depressione maggiore e la distimia hanno una prevalenza pari al 4.5% (ma tra le persone istituzionalizzate di questa età la prevalenza è molto più elevata, in alcune casistiche arriva fino al 40%). Da numerose indagini epidemiologiche risulta che il 2% dei bambini e il 4% degli adolescenti ha in un anno un episodio di depressione che dura almeno 2 settimane.

Secondo l’ultimo rapporto ISTAT (2018), sono oltre 2,8 milioni (il 5,4% della popolazione con oltre 15 anni) gli italiani che soffrono di depressione e la malattia è in aumento tra gli anziani. Nonostante  l’Italia sia uno dei paesi dell’Unione Europea con il minor numero di individui depressi (5,5% contro il 7,1% la media Ue), tra gli over 65 il valore raddoppia (l’11,6% contro l’8,8%).

La depressione, in generale, colpisce di più le donne (9,1% contro 4,8%) e soprattutto chi non lavora. In effetti, ben l’8,9% dei disoccupati e il 10,8% degli inattivi, fra 34 e i 64 anni, mostrano disturbi depressivi e stati d’ansia.

CONTINUA DOPO L’IMMAGINE:

Infografica - La Depressione (Istat, 2018)Imm.1- Infografica – La Depressione (Istat, 2018)

La diffusione del disturbo e l’impatto altamente negativo che questo esercita nella vita di chi ne soffre è così evidente che la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha previsto che nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di invalidità per malattia, subito dopo le malattie cardiovascolari.

Costi sociali e umani, perdita di produttività e costi sul sistema sanitario

Nel 2014 sono stati ben novantadue i miliardi di euro persi in un anno, nella sola Europa, a causa della depressione. I costi della depressione, infatti, non sono solo quelli più immediati da intuire, vale a dire ricoveri e terapie, vi sono anche costi sommersi, più nascosti: assenza dal lavoro, sussidi, perdita di produttività. Dei novantadue miliardi di cui sopra, ben cinquantaquattro sono quelli correlati a costi indiretti per assenza lavorativa. Non a caso la depressione si è “meritata” il titolo di “Crisi globale”, datole dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan (Cicerone, 2015).

Tale crisi colpisce anche l’Italia: nel 2014 il consumo di antidepressivi è stata una delle principali componenti della spesa farmaceutica, con un aumento del 4,5 per cento circa in dieci anni. Eppure solo un italiano su tre è consapevole di soffrire di depressione e si cura in modo adeguato. Il Servizio sanitario nazionale spende in media oltre 4 mila euro l’anno a paziente. Il costo sociale della Depressione, inteso come ore lavorative perse, a livello nazionale è pari a 4 miliardi di euro l’anno.

Ma se parliamo di depressione in termini economici e sociali, come già anticipato, il problema maggiore non è il costo delle terapie e neanche la difficoltà di individuare interventi opportuni.

Il vero peso economico della depressione è rappresentato dai costi indiretti, di cui le imprese pubbliche e private sopportano una quota tra il 30 e il 50 per cento: il disturbo incide pesantemente sulla produttività di chi ne soffre, aumentando i costi per le politiche sociali e di welfare.

In Europa un lavoratore su dieci si assenta dal lavoro a causa della depressione, per un totale di 21mila giorni di lavoro persi. Mentre chi tiene duro deve fare i conti con mancanza di concentrazione, indecisione, perdite di memoria che possono rendere la giornata di lavoro un vero incubo. È quello che gli esperti chiamano presenteeism, ovvero la presenza sul luogo di lavoro in condizioni di salute non ottimali: un fenomeno che secondo alcune stime potrebbe avere costi anche cinque volte superiori a quelli dell’assenteismo vero e proprio. Secondo la recente ricerca “IDEA” (Impact of Depression in the Workplace in Europe Audit), che ha coinvolto in tutta Europa oltre 7 mila adulti fra i 16 e i 64 anni, lavoratori e dirigenti, ben il 20% degli intervistati aveva avuto una diagnosi di depressione e il numero medio di giornate di congedo dal lavoro durante l’ultimo episodio di depressione è stato di 36 giorni. Un manager su 3 tra quelli intervistati ha ammesso di non avere risorse economiche o strumenti formali per affrontare il problema. (Di Frischia, 2005)

A questo vanno aggiunti i dati relativi all’impatto sociale, soprattutto tenendo conto che in Italia per ogni paziente sono toccati almeno 2-3 familiari, coinvolgendo dunque indirettamente 4-5 milioni di persone nel disturbo.

Nel tunnel della depressione: uno sguardo alle principali spiegazioni biologiche e psicologiche dell’insorgenza del disturbo

La percentuale di persone che soffrono di depressione sembra aumentare costantemente nel tempo e, non a caso, l’OMS ha previsto che nel giro di pochi anni la depressione sarà la seconda causa di invalidità per malattia, subito dopo le malattie cardiovascolari.

 

La depressione è uno dei disturbi psichici più comuni e invalidanti, derivante spesso a seguito di una sensazione di perdita o di una perdita effettiva. La percentuale di persone che soffrono di depressione sembra aumentare costantemente nel tempo e, non a caso, l’OMS ha previsto che nel giro di pochi anni la depressione sarà la seconda causa di invalidità per malattia, subito dopo le malattie cardiovascolari.

La depressione può colpire chiunque. La letteratura è concorde nel dichiarare che è spesso un sentimento di perdita a causare il manifestarsi del disturbo. Tuttavia le cause della depressione restano molteplici e diverse da persona a persona (ereditarietà, ambiente sociale, lutti familiari, problemi di lavoro,…). Le ricerche mostrano la presenza di due fattori di rischio principali come cause della depressione:

  • il fattore biologico: alcune persone nascono con una maggiore predisposizione genetica verso la depressione;
  • il fattore psicologico: le esperienze e i comportamenti appresi nel corso della propria storia di vita (es: la ruminazione mentale) possono rendere vulnerabili alla depressione.

Cause biologiche

Diversi sembrano essere i meccanismi biologici e neurobiologici coinvolti nella depressione (Torta, 2008).

  • Ipotesi aminergica della depressione: il disturbo dell’umore sarebbe causato da una carenza di neurotrasmettitori a livello sinaptico, in particolare per quanto riguarda serotonina, noradrenalina (NA) e dopamina (DA). In tale ottica i sintomi della depressione possono essere migliorati da un recupero della funzionalità sinaptica, e quindi trasmettitoriale, attraverso l’impiego di farmaci antidepressivi
  • Ipotesi ormonale della depressione: molteplici assi ormonali sarebbero potenzialmente coinvolti nella regolazione del tono dell’umore, tra cui:
    • l’asse HPG (ipotalamo-ipofisi-gonadi), nell’ambito del quale è opportuno considerare l’importanza dell’azione antidepressiva degli estrogeni e del testosterone. Gli estrogeni, per esempio, oltre all’azione squisitamente ormonale, sono in grado di modulare l’asse HPA ed esercitare un effetto attivante anche a livello comportamentale. Alla caduta dei livelli estrogenici sono imputabili alcune depressioni, anche gravi, correlate ad alterazioni di tale asse ormonale, come nel caso della depressione post-partum.
    • Anche l’asse HPT (ipotalamo-ipofisi-tiroide) è coinvolto nella regolazione dell’umore: basti considerare le diverse caratteristiche del tono dell’umore nei soggetti iper- ed ipo-tiroidei. Nello specifico, gli ormoni tiroidei, per i quali sono presenti recettori cerebrali, esercitano una funzione modulatoria positiva sulla risposta neurotrasmettitoriale serotoninergica e noradrenergica.
    • L’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene), ampiamente correlato nella regolazione dei meccanismi dello stress ed i rapporti fra CRH (ormone di rilascio della corticotropina), cortisolo, sistema immunitario, sistema neurovegetativo ed eccitossicità. Il circuito si attiva a seguito di una valutazione cognitiva dello stimolo, a cui consegue un aumentato rilascio di CRH a livello ipotalamico, che aumenta la liberazione di ACTH (ormone adreno-corticotropo) ipofisario, che, a cascata, stimola il surrene a rilasciare vasopressina (AVP) e cortisolo. L’ iperfunzione dell’Asse HPA e in particolare, l’incrementato rilascio di CRH attiva una cascata di risposte autonomiche e metaboliche che sono correlate clinicamente al quadro ansioso e depressivo.
  • Esiste anche un’ipotesi immunologica della depressione che coinvolge le citochine proinfiammatorie. Le citochine proinfiammatorie possono esercitare un effetto negativo sul tono dell’umore attraverso molteplici meccanismi, ad esempio aumentando l’attività dell’asse HPA, favorendo l’ipersecrezione di CRH e quindi un aumentato rilascio di cortisolo
  • Una ulteriore ipotesi patogenetica della depressione è quella neurotrofica. L’ipotrofia dell’ippocampo è presente in svariate patologie (ad es. in corso di malattia di Cushing, disturbo bipolare, schizofrenia, Alzheimer) che condividono una iperattività dell’asse HPA, e quindi una produzione aumentata e cronica di cortisolo. Questo determina un aumento di citochine pro-infiammatorie e di glutamato che causano neurotossicità. In alcune aree cerebrali come quella ippocampale, si genera così una sofferenza neuronale che determina una progressiva perdita cellulare, non compensata da meccanismi gliogenetici e neurogenetici (a loro volta inibiti dall’iperfunzione HPA)

Cause psicosociali e tre tipi di teorie a confronto

Gli eventi stressanti che favoriscono lo sviluppo della depressione vengono vissuti dal soggetto come perdite irreversibili, irreparabili e totali.

La depressione può essere causata da un evento scatenante o da una serie di eventi stressanti che possono indurre un senso di sconforto, come ad esempio:

  • Malattie fisiche (sia proprie che dei propri cari)
  • Separazioni e difficoltà nei rapporti con gli altri
  • Cambiamenti importanti di ruolo, di casa, di lavoro,
  • Licenziamenti e fallimenti economici
  • Morte di una persona cara
  • Anche la presenza di esperienze traumatiche infantili poi può generare una sofferenza emotiva che porterà a un umore depresso, con disperazione e senso di impotenza.

Tra le diverse teorie che hanno cercato di spiegare cosa porti a sviluppare una depressione, troviamo le teorie di matrice comportamentista, teorie psicoanalitiche e teorie cognitiviste.

Teorie comportamentiste

Tra i comportamentisti che hanno avanzato una spiegazione della depressione troviamo Seligman (1970, 1974). Egli scopre che quando i cani vengono addestrati a evitare un pericolo (piccole scosse elettriche), essi tenderanno a mettere in atto questo comportamento di evitamento per non provare il dolore derivante dallo shock elettrico. Tuttavia, nonostante la preparazione all’evitamento, quando ai cani si dà uno shock elettrico inevitabile, invece di tentare la fuga, questi si arrendono e accettano passivamente la scossa elettrica. Egli ha utilizzato queste osservazioni per spiegare come a volte si può apprendere che non può essere fatto nulla per controllare o migliorare una data situazione. A questo fenomeno Seligman ha dato il nome di “impotenza appresa” e tramite questo spiega quanto accade nelle persone depresse: una “punizione” ineludibile, inevitabile, potrebbe essere un fattore scatenante per la depressione. Tuttavia questa, come altre teorie comportamentiste, risultano insufficienti: i soli fattori comportamentali, è stato dimostrato, non riescono a indurre una depressione clinica (Beck, 2009).

Teorie psicoanalitiche

Nei suoi documenti del 1911 e 1916, Abraham sostiene che gli scopi sessuali non raggiunti generano sentimenti di odio e ostilità che riducono la capacità di amore del paziente depresso. Il paziente proietta questo odio esternamente e l’ostilità repressa si manifesta in comportamenti anormali, tra cui idee di colpa e nell’impoverimento emotivo. Freud (1917) invece vede le autoaccuse del malinconico come manifestazioni di ostilità verso l’oggetto amato perduto. Freud ha spiegato questo fenomeno come l’identificazione narcisistica dell’ego con l’oggetto perso attraverso l’introiezione. Rado (1928) invece, esaminando quali siano i fattori che consentono lo sviluppo della depressione, afferma che i depressi sono persone con bisogni narcisistici intensi e autostima precaria che, quando perdono il loro oggetto d’amore, reagiscono con ribellione e poi cercano di ripristinare la loro autostima con la punizione del loro ego (che include la parte cattiva introiettata dell’oggetto) da parte del Super-io.

Teorie cognitiviste

Tra i cognitivisti che hanno dato un maggior contributo allo studio della depressione e alle sue cause, troviamo Aaron T. Beck. Secondo il modello di Beck si ritiene che i fattori cognitivi siano gli elementi centrali del disturbo, in quanto l’attivazione dei pattern cognitivi disfunzionali determina l’insorgenza degli altri segni e sintomi della sindrome depressiva. I pensieri del depresso si contraddistinguono per essere negativi e il loro contenuto si riferisce al tema della perdita, intesa come fallimento, autocritica, incapacità e non amabilità; la perdita è vista come irreversibile, irreparabile e inaccettabile. Secondo Beck i temi principali presenti nella persona depressa sono dunque fallimento, incapacità e mancanza di speranza. Tre sono gli schemi cognitivi depressogeni sottolineati da Beck i cui temi principali sono: la perdita (loss), la disperazione (hopeless) e l’autocritica (self-blame). Questi temi saranno poi chiamati “aspettative negative su di sé, sul mondo e sul futuro”, concetti appartenenti a quella che verrà successivamente definita la “triade cognitiva” della depressione.

 

Psicoterapia della depressione: dai primi approcci psicoterapici agli attuali interventi

La psicoterapia della depressione ha subito importanti cambiamenti nel corso degli anni. Oggi esistono diversi approcci terapeutici che aiutano i pazienti che soffrono di depressione a ritrovare il proprio benessere.

 

La terapia con antidepressivi è unicamente sintomatica, agisce cioè sui sintomi ed è necessaria quando la loro gravità inibisce la vita sociale, lavorativa e affettiva.

Intervenire solo con i farmaci però molte volte non basta: va ricordato infatti che le cause della depressione non sono soltanto di tipo biologico e che il disturbo può insorgere anche per motivi di natura psicosociale.

D’altro canto, in molti casi, proprio quando la gravità dei sintomi inibisce la vita sociale, relazionale e professionale dei pazienti, ricorrere alla sola psicoterapia potrebbe non rivelarsi una scelta sempre corretta: è bene, infatti, intervenire farmacologicamente sui sintomi, in modo da ridurne la gravità e iniziare così un percorso psicoterapico.

Farmaci e psicoterapia sono dunque alleati nel trattamento della depressione.

Psicoterapia della depressione: i primi approcci

Tra i primi approcci più strutturati per la cura della depressione, troviamo la proposta di Campbell (1953) per la terapia della malattia maniaco-depressiva, un intervento composto da una serie di passi, tra cui una corretta diagnosi, la spiegazione dei sintomi somatici al paziente, la riduzione (o eliminazione) dei fattori ambientali precipitanti o aggravanti, la psicoterapia, l’informare parenti e amici sui bisogni del paziente, il riposo e il rilassamento, la terapia occupazionale e la biblioterapia.

Sono stati successivamente descritti altri approcci per la cura della depressione, tra cui la proposta di Kraines (1957) avanzata in “Mental Depressions and Their Treatment” in cui sottolinea, come ha fatto anche Campbell, le basi biologiche della malattia maniaco-depressiva, ma considera la psicoterapia essenziale per abbreviare la malattia, alleviare la sofferenza del paziente e prevenire le complicanze.

Dall’ approccio di Kraines deriva la Psicoterapia supportiva: ai pazienti vengono date lunghe spiegazioni, sia sui fattori coinvolti nella depressione, sia sul decorso della malattia, e conclude gli interventi dicendo loro: “La cosa che devi ricordare è che questa stanchezza può e sarà superata. Avrai bisogno di pazienza e di desiderio di collaborare. Non sarà facile, ci vorrà tempo, ma tu recupererai (pagina 409)”. Dichiarazioni ottimistiche sul risultato, secondo Kraines, possono incoraggiare il paziente a diventare più attivo e a neutralizzare il suo pessimismo. Tuttavia i pazienti gravemente depressi possono vedere queste dichiarazioni con scetticismo e potrebbero non esserne influenzati. Un’altra tecnica che, secondo Kraines, è spesso utile nel contrastare la bassa autostima dei pazienti e la sensazione di non avere speranza è la discussione centrata sui loro successi, sulle loro realizzazioni. In questo modo il terapeuta, focalizzando la discussione sugli aspetti positivi, tende a evitare che i pazienti si soffermino sui propri fallimenti e sulle proprie esperienze invalidanti e traumatiche. Nell’ intervento di Kraines per la depressione, è sottolineata anche la necessità di apporre alcuni cambiamenti nelle attività dei pazienti: il terapeuta può sfruttare la relazione terapeutica per indurre il paziente a modificare la propria routine, suggerendo magari forme appropriate di attività ricreative, manuali o intellettuali.

In un successivo approccio, formulato da Arieti (1962), la depressione è vista come una reazione alla perdita e il paziente deve riorganizzare il suo pensiero “In diverse costellazioni che non provocano tristezza”. La depressione, secondo Arieti, cambia i processi mentali, apparentemente per diminuire la quantità di pensieri “al fine di diminuire la quantità di sofferenza.” Il terapeuta deve alterare l’ambiente, in particolare la relazione con l’altro dominante; alleviare il senso di colpa del paziente, il suo senso di responsabilità, la mancanza di realizzazione e il vissuto di perdita; e non consentire ai pensieri depressivi di espandersi aumentando la negatività dell’umore.

Molte delle strategie messe appunto nei primi approcci sono state incorporate nei trattamenti oggi più utilizzati nella psicoterapia della depressione (Beck, 2009).

Psicoanalisi e Psicoterapia psicoanalitica per la cura della depressione

La psicoanalisi e la psicoterapia psicoanalitica sono terapie a cui si ricorre spesso in caso di depressione: queste mirano soprattutto alla ricostruzione globale della personalità e sono più focalizzate alla risoluzione delle nevrosi infantili (Ursano et al., 1999).

Attraverso l’interazione diretta con il terapeuta, il paziente diventa attivo nella propria cura: entrambi sono coinvolti nella comprensione della malattia attraverso l’esplorazione delle radici intrapsichiche, familiari ed ambientali del disturbo. Il paziente fornisce al terapeuta il materiale da analizzare: racconti, sogni, narrazioni di eventi che informano sullo stato affettivo ed emozionale del paziente. Il terapeuta attraverso gli strumenti della tecnica analitica aiuta a venir fuori dal tunnel dell’isolamento, del dolore, della fatica di vivere, dell’insonnia e di ciò che man mano emerge di seduta in seduta. Fondamentale nel percorso analitico è la relazione, in particolare l’analisi dei processi di transfert e controtransfert che costituiscono una delle resistenze più importanti al cambiamento. Attraverso la comprensione empatica e l’ascolto non giudicante, gli interventi interpretativi, ricostruttivi, esplicativi, chiarificatori o di sostegno vengono effettutati in maniera non intrusiva, permettendo gradualmente al paziente di entrare in contatto con una modalità di trattamento nuova al fine di promuovere un modo di rapportarsi a se stesso ed alla malattia in maniera differente, più funzionale (Spagnolo, 2015).

La Psicoterapia Interpersonale della Depressione (IPT)

La Psicoterapia Interpersonale della Depressione (IPT), pur riconoscendo il ruolo di fattori genetici, biochimici e di personalità nel determinare l’insorgenza della depressione, pone in primo piano le relazioni interpersonali attuali del paziente depresso.

La IPT è una psicoterapia di durata limitata (12-20 settimane), che esamina la correlazione tra depressione e problematiche del paziente in ambito interpersonale: i problemi interpersonali possono rappresentare la causa del disturbo depressivo o essere da questo causati.

L’obiettivo iniziale della terapia è ridurre i sintomi depressivi ma lo scopo più generale è quello di migliorare la qualità delle relazioni interpersonali ed il funzionamento sociale del paziente. La tecnica attraverso cui definire l’area problematica primaria d’intervento è l’inventario interpersonale: una rassegna delle relazioni interpersonali, passate e presenti, importanti per il paziente. Secondo la IPT le problematiche interpersonali possono essere divise in 4 aree:

  • Contrasti interpersonali (contrasti con coniuge, famiglia, amici, ecc);
  • Transizioni di ruolo (trasloco, cambio di lavoro, gravidanza, pensionamento, ecc);
  • Lutto (morte di una persona cara)
  • Deficit interpersonali (solitudine, isolamento sociale).

Dopo aver valutato quale area è maggiormente correlata all’insorgere della depressione, ci si avvale di tecniche proprie di altre psicoterapie, tra cui quelle psicodinamiche, cognitivo-comportamentale e sistemico-relazionale. La IPT non si distingue quindi per le tecniche, ma per le strategie terapeutiche (Maggi L., 2016)

La psicoterapia cognitivo-comportamentale per la cura della depressione

Il più grande contributo alla psicoterapia della depressione in ambito cognitivo, lo si deve a Aaron T. Beck. Egli, lavorando con i pazienti depressi, scoprì l’esistenza di pensieri negativi che sembrano emergere spontaneamente. Beck ha definito queste cognizioni “pensieri automatici” e il loro contenuto è ascrivibile in tre categorie: idee negative su se stessi, sul mondo e sul futuro. Inoltre, se in età precoce si è esposti a eventi critici, è possibile che si possano instaurare credenze disfunzionali generate dai pensieri che, nel lungo periodo, diventano per l’appunto automatici. Queste credenze portano dunque a delle distorsioni cognitive che inducono sofferenza emotiva.

Sulla base di quanto sopra delineato, l’intervento psicoterapeutico rispetto al Disturbo Depressivo Maggiore si focalizza soprattutto sull’attenta valutazione e correzione delle cognizioni attraverso cui il soggetto costruisce l’interpretazione degli eventi passati, presenti o futuri e la valutazione di se stesso e della sua vita, aiutando la persona a individuare e modificare le convinzioni disfunzionali che contribuiscono a creare, mantenere ed esacerbare la sofferenza emotiva.

Per fare ciò, in terapia cognitiva, si ricorre al metodo dell’ABC di Ellis, attraverso cui, partendo da una situazione o un evento attivante (A), si può esaminare quale pensiero disfunzionale (B) abbia portato allo stato di sofferenza emotiva (C). Individuati i pensieri automatici disfunzionali, si passa alla messa in discussione degli stessi attraverso il dialogo socratico, una tecnica utilizzata all’interno della terapia cognitivo comportamentale, che consente di mettere in discussione le false credenze del paziente e i propri errori di pensiero, attraverso un approccio dialogico tra paziente e terapeuta, caratterizzato da domande e risposte che tendono a disconfermare quanto sostenuto fino a quel momento dal paziente stesso.

Lo scopo finale della terapia consiste nella ristrutturazione cognitiva, ovvero riuscire a modificare il modo in cui si interpretano e si valutano le situazioni. Quindi, si deve incoraggiare il paziente a modificare i pensieri automatici e le credenze disfunzionali per sostituirli con altri più realistici e adattivi.

In relazione a ciò, si rileva come la correzione delle valutazioni distorte relative a se stessi, alla propria vita o al proprio futuro conduce ad un graduale cambiamento sul piano emotivo e comportamentale.

Parallelamente all’aspetto cognitivo, nella psicoterapia cognitivo-comportamentale, si inserisce l’intervento terapeutico rispetto al comportamento quotidiano del paziente, attuando in maniera graduale specifici cambiamenti e procedendo in direzione inversa rispetto alla tendenza all’inattività e all’isolamento sociale indotta dal disturbo.

In tale direzione, il cambiamento dei comportamenti depressivi consente di giungere a cambiamenti cognitivi, ovvero sul piano dei pensieri, della visione di se stesso e delle proprie capacità, della propria vita attuale e del proprio futuro.

Depressione e Terapia Metacognitiva

La psicoterapia cognitivo-comportamentale negli anni si è evoluta e da essa sono derivati degli approcci terapeutici innovativi e di comprovata efficacia clinica. Tra questi va annoverata la Terapia Metacognitiva di Adrian Wells (MCT), terapia particolarmente efficace contro i disturbi d’ansia e la depressione.

Il modello metacognitivo prevede infatti che vi siano alcuni fattori che favoriscono lo sviluppo e il mantenimento dei sintomi depressivi. Questo è particolarmente rivelante se pensiamo alla quota di pazienti che presentano depressioni gravi e croniche, non rispondenti ai trattamenti farmacologici e/o alla combinazione di questi con la psicoterapia.

L’approccio metacognitivo riconosce un ruolo centrale al pensiero perseverativo nell’eziopatolgenesi della depressione (Wells e Matthews, 1994), e più nello specifico alla ruminazione. In questo quadro per ruminazione si intende una modalità di pensiero ripetitivo e passivo proprio riguardo i sintomi della depressione, le relative conseguenze e le possibili cause: in altre parole significa pensare continuamente al fatto che si è depressi, ai propri sintomi, nonché analizzare le cause, i significati e le conseguenze di tali sintomi depressivi (Nolen-Hoeksema 1991, p. 569). Vi sarebbero dunque una serie di conseguenze negative della ruminazione tra cui l’ulteriore decremento del tono dell’umore e aumento dei sintomi depressivi. Secondo il modello metacognitivo la ruminazione è mantenuta da un’insieme di credenze metacognitive maladattive (Wells e Matthews, 1994) che possono avere sia natura positiva per il paziente (“se riesco a trovare tutte le cause del mio malessere, allora posso trovare le soluzioni”, portando così il paziente a ruminare in misura via via maggiore), che negativa (“non ho il controllo su tutti questi pensieri”, quindi il paziente anche in questo sarà più portato a pensarci di più).

Dunque la complessa interdipendenza tra metacognizioni e ruminazione sarebbe un fattore determinante nella depressione.

Secondo la Terapia Metacognitiva, l’unico modo per smettere di rimuginare non è quello di affannarsi nel trovare soluzioni, ma raggiungere una posizione distaccata rispetto ai propri pensieri e ai propri eventi mentali. In questo caso, dunque, la soluzione consiste nel vedere la ruminazione come atto volontario che riduce le possibilità nell’individuo di operare scelte diverse.

Affinché però questa consapevolezza sia raggiunta bisogna intervenire sul livello metacognitivo appunto, che in quest’ottica non è altro che la capacità di raggiungere una posizione distaccata rispetto ai propri stati interni. La funzione metacognitiva si riduce così alla capacità di valutare i propri stati interni come eventi mentali, indipendentemente dal fatto che si riferiscano a idee su di sé, sugli altri o sul futuro (Caselli et al., 2017).

Secondo la Terapia MetaCognitiva (MCT), questa capacità non è frutto di una “rara dote” che solo alcuni individui posseggono, ma è una funzione che tutti hanno, ma che è spesso utilizzata solo su certi pensieri e non su altri. Obiettivo della terapia metacognitiva non è quindi sviluppare specifiche funzioni metacognitive, ma mostrare ai pazienti che questa capacità già appartiene loro e che, usandola normalmente su alcuni pensieri, si può imparare a utilizzarla anche in risposta ai pensieri per loro particolarmente disturbanti.

Tra gli strumenti maggiormente utilizzati nella terapia metacognitiva troviamo l’ Analisi Meta Cognitiva o AMC. Con essa si identifica un pensiero iniziale, una valutazione o una sensazione corporea (A) e le conseguenze emotive (C), per passare all’identificazione delle metacognizioni o credenze metacognitive disfunzionali (M). Rispetto al modello ABC della terapia cognitiva standard, con l’analisi dell’AMC è possibile identificare le metacognizioni implicite o esplicite con cui il paziente risponde a uno stimolo attivante interno. Con l’ AMC si individuano le metacognizioni (M) che sostengono la ruminazione.

Nella Terapia Metacognitiva, la sofferenza, dunque non è data da valutazioni errate che si effettuano sulla realtà, come avviene nella terapia cognitiva, ma da una valutazione errata sul meccanismo che regola l’attività mentale. Quindi, l’errore principale si effettua nel ritenere indispensabile rimuginare sui problemi e non riuscire a smettere di farlo. Queste strategie disadattive creano depressione e sofferenza emotiva.

I trattamenti efficaci nella cura della depressione

Data l’importanza e la gravità del disturbo, come abbiamo visto, diversi interventi psicoterapeutici sono stati sviluppati per il trattamento della depressione, tra cui approcci cognitivo-comportamentali, interpersonali e terapie psicodinamiche.

Mentre vi è un ampio consenso sul fatto che gli interventi psicoterapeutici siano benefici per i pazienti depressi, c’è un dibattito ancora in corso circa il diverso grado di efficacia dei vari orientamenti.

I risultati di precedenti meta-analisi appaiono abbastanza discordi: mentre in alcuni casi si è riscontrato il primato di efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (Dobson, 1989; Gloaguen, Cottraux, Cucherat et al., 1998), ulteriori meta-analisi hanno stabilito come non vi sia alcuna differenza, in termini di efficacia, tra la CBT e altre forme di terapia, per es. la terapia psicodinamica breve (Leichsenring, 2001).

Per cercare di giungere a una risposta univoca, Barth e colleghi (2013), autori di una meta-analisi pubblicata pochi anni fa, hanno confrontato ben 198 studi sull’efficacia dei vari tipi di psicoterapia nel trattamento del disturbo, per un totale di 15118 pazienti adulti con diagnosi di depressione.

Per la meta-analisi in questione sono stati selezionati solo gli studi con un disegno randomizzato: trattasi di studi condotti su soggetti adulti con un disturbo depressivo, o con un’elevata presenza di sintomi depressivi, in cui sono stati confrontati due diversi approcci terapeutici tra loro o gli effetti di un intervento psicoterapeutico con una condizione di controllo (es. liste d’attesa o trattamenti placebo).

Sulla base di una precisa tassinomia, sono stati classificati sette tipi differenti di interventi terapeutici: terapia interpersonale, interventi di attivazione comportamentale, terapia cognitivo-comportamentale, terapia centrata sul problem solving, social skills training, terapia psicodinamica, e counselling di supporto.

Quale tra questi sia risultato più efficace, è difficile dirlo: dall’analisi dei dati è emerso che i vari tipi di intervento presentano effetti comparabili sui sintomi depressivi, e che tutti gli approcci terapeutici portano a un significativo miglioramento dei pazienti depressi, rispetto agli individui appartenenti ai gruppi di controllo.

Dovendo contrastare gli effetti degli studi di piccole dimensioni sull’intera meta-analisi, sono state condotte ulteriori analisi sulle ricerche di medie e grandi dimensioni. Dall’analisi dei dati sono così emersi effetti notevolmente positivi per la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia interpersonale e la terapia centrata sul problem-solving, mentre gli effetti sono stati meno robusti per la terapia psicodinamica, il counselling di supporto, e gli interventi di attivazione comportamentale.

Sebbene la ricerca sia ancora lontana da conclusione univoca su quale psicoterapia sia più efficace nella cura della depressione, un importante risultato emerge tra le righe: gli interventi psicoterapeutici risultano essere più efficaci del “non curarsi”, questo sottolinea come sia necessario, per chi soffre di depressione, rivolgersi in modo tempestivo ad uno psicoterapeuta esperto, qualunque sia la sua formazione.

Oltre la psicoterapia: il trattamento della depressione dalla TEC alla mindfulness

Nel trattamento della depressione, la CBT, la terapia psicodinamica, la terapia metacognitiva sono gli approcci a cui oggi più spesso si ricorre e dei quali si hanno più dati a disposizione per valutare gli effetti e i benefici per i pazienti. Vi sono però altre tecniche, psicoterapiche e non solo, alle quali si può ricorrere nel trattamento della depressione.

 

Depressione e Terapia ElettroConvulsivante

A dispetto dell’immaginario collettivo che la associa alle disumane pratiche dei manicomi degli anni ‘30, la Terapia ElettroConvulsivante (TEC – ai tempi nota come Elettroshock) è oggi tuttora in uso, soprattutto nel trattamento delle depressioni più gravi.

La TEC rilascia, mediante elettrodi applicati sullo scalpo, una corrente elettrica altamente controllata sulla corteccia prefrontale del cervello, che risulta ipoattivata nelle persone che soffrono di depressione. Intervenire con la TEC comporta tuttavia dei rischi soprattutto a livello cognitivo.

Per questo motivo alcuni ricercatori (Tor, Bautovich, Wang, Martin, Harvey e Loo, 2015) stanno valutando gli effetti di una stimolazione con impulsi ultra-brevi. La stimolazione ultra-breve rilascia impulsi di elettricità con una durata più breve di quella standard e separati da delle piccole pause, in questo modo la stimolazione del tessuto cerebrale viene ridotta di un terzo rispetto alla stimolazione standard. Dalle analisi è emerso che la TEC standard è leggermente più efficace per il trattamento della depressione, richiedendo in media una seduta in meno di trattamento rispetto alla terapia ad impulsi ultra-brevi, ma porta con sé una maggior incidenza di effetti collaterali sul versante cognitivo, in particolare sulle funzioni mnestiche.

La stimolazione ultra-breve invece diminuisce significativamente il rischio potenziale di distruzione delle memorie formate prima del trattamento ed è efficace quasi allo stesso livello della TEC standard. Per questo motivo questo nuovo trattamento, che si sta gradualmente inserendo nella pratica clinica in Australia, costituisce uno dei più significativi sviluppi nel trattamento clinico della depressione severa degli ultimi 20 anni. Nonostante i benefici della stimolazione ultra-breve siano significativi, i ricercatori sottolineano come la TEC standard non possa essere accantonata, ma va considerata come via terapeutica nei casi che richiedono una risposta più veloce al trattamento in condizioni di urgenza ed emergenza.

Depressione e stimolazione transcranica a corrente diretta continua

Tra gli ulteriori strumenti a cui si può ricorrere nel trattamento della depressione, va ricordata anche la stimolazione transcranica a corrente diretta continua (tDCS). La Transcranial Direct Current Stimulation (tDCS) è una forma di stimolazione cerebrale non invasiva e consiste nel far passare una debole corrente elettrica depolarizzante nella parte anteriore del cervello con l’uso di elettrodi posti sul cuoio capelluto, durante la procedura i pazienti rimangono svegli e vigili.

La tDCS, nata in Italia e oggi usata in tutto il mondo, è una tecnica di facile applicazione con cui è possibile stimolare diverse parti del cervello in modo non invasivo, efficace, indolore e senza effetti collaterali significativi (le più frequenti percezioni riscontrate sono un leggero pizzicorio/prurito/calore all’inizio della stimolazione nei punti in cui sono posizionati gli elettrodi). Nonostante sia una tecnica “giovane”, molti studi la indicherebbero come un possibile prezioso strumento anche per il trattamento di altre condizioni neuropsichiatriche oltre la depressione, quali ansia, morbo di Parkinson, demenza di Alzheimer, dolore cronico, dipendenze, riabilitazione post ictus o traumi.

La tDCS permette due tipi di stimolazioni: anodica e catodica. La stimolazione anodica provoca un’eccitazione dell’attività neuronale e quella catodica la inibisce o la riduce. La stimolazione tDCS consiste in una debole corrente elettrica continua all’intensità costante di 1-2 mA, non percepibile dalla persona, che viene applicata allo scalpo tramite una coppia di elettrodi (uno eccitatorio, l’anodo, e uno inibitorio, il catodo) di 35 cm² di superficie. Gli elettrodi sono rivestiti da una spugna sintetica imbevuta di una soluzione salina per aumentare la conduttività (consentendo di attraversare le ossa craniche e raggiungere l’area cerebrale d’interesse) ed evitare possibili effetti fastidiosi causati dall’applicazione diretta di corrente.

A questo punto vengono inseriti all’interno di una cuffia di gomma (non conduttiva) che ne facilita il fissaggio sulla testa. Generalmente viene utilizzato un montaggio in cui l’elettrodo attivo viene posizionato sull’area che si intende stimolare mentre l’elettrodo di riferimento viene posizionato sull’area sovraorbitale controlaterale o in un’area non cefalica (ad esempio sulla spalla).

Questa tecnica, attraverso il flusso di corrente da un elettrodo all’altro, modifica i potenziali di membrana dei neuroni permettendo di modulare l’eccitabilità della corteccia cerebrale e quindi l’attività neuronale del cervello, aumentando o diminuendo la funzionalità dell’area stimolata (producendo effetti a livello cognitivo e comportamentale) per un tempo che permane oltre la durata della stimolazione. In particolare, la stimolazione anodica depolarizza i neuroni aumentando l’eccitabilità corticale dell’area stimolata, mentre la stimolazione catodica iperpolarizza i neuroni con effetti inibitori. Se la stimolazione viene ripetuta più volte è possibile rendere tali modificazioni più stabili e durature (Bolognini et al. 2009).

La differenza tra tDCS e terapia elettroconvulsiva, sta nel fatto che quest’ultima prevede una corrente molto più forte – tipicamente 800 milliampere, o 800 volte la corrente utilizzata nella tDCS – ed è progettata per produrre una scarica controllata. Altre differenze includono il fatto che la TEC fornisce un breve impulso piuttosto che una corrente costante.

Nei soggetti con depressione, gli elettrodi vengono posizionati sulle loro tempie in modo che la corrente possa attraversare la corteccia prefrontale dorsolaterale (un’area con attività diminuita in tali soggetti). Le persone con depressione mostrano l’ipoattività cerebrale in diverse aree cerebrali, ma soprattutto in questa regione; si pensa che il meccanismo d’azione della stimolazione possa aumentare l’attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale, ma ancora non è stato dimostrato nessun effetto di questo tipo.

Esistono ulteriori tecniche progettate per modificare l’attività elettrica del cervello: la stimolazione magnetica transcranica, la stimolazione transcranica a corrente alternata, la stimolazione profonda del cervello e gli ultrasuoni focalizzati.

Depressione e pratiche meditative: la mindfulness

Ma le tecniche di stimolazione cerebrale non sono le sole a essere applicate nella cura della depressione, molto utilizzate risultano anche le pratiche meditative, in particolare la Mindfulness.

La mindfulness è una forma di meditazione applicabile all’attività clinica. Essa è una pratica di attenzione al momento presente, attenzione consapevole, intenzionale e non-giudicante. Jon Kabat-Zinn è stato il primo a portare la mindfulness nel contesto psicoterapico. Per Kabat-Zinn, per nutrire il terreno del nostro atteggiamento e affinché la nostra pratica della consapevolezza possa crescere rigogliosa e fiorire, dobbiamo coltivare sette atteggiamenti: non giudizio, pazienza, la “mente del principiante” (essere disposti a guardare ogni cosa come se la vedessimo per la prima volta), fiducia, non cercare risultati, accettazione, lasciare andare, impegno nella pratica e visione di ciò che si desidera per se stessi.

Jon Kabat-Zinn, sostiene che meditare possa trasformare in modo duraturo la sofferenza e lo stress.

L’obiettivo della Mindfulness è di eliminare quindi la sofferenza inutile, coltivando una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada attraverso un lavoro attivo con i propri stati mentali. Quindi, la pratica della Mindfulness consente di passare da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore percezione soggettiva di benessere, grazie ad una conoscenza profonda degli stati e dei processi mentali.

Kabat-Zinn ha reso la Mindfulness accessibile alle possibilità psicologiche e fisiche dei pazienti e facilmente adattabile a condizioni mediche particolari: nel 1979 avvia il programma per la riduzione dello stress basato sulla coltivazione della consapevolezza. Il programma MBSR creato e messo a punto da Kabat-Zinn è caratterizzato da tempi limitati e limiti di movimenti e spazi; è un percorso strutturato, in cui si unisce la tecnica Mindfulness agli aspetti scientifici e psicoeducativi.

Negli ultimi venticinque anni la mindfulness è stata efficacemente applicata su diverse psicopatologie tra cui la depressione, ma anche su disturbi d’ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo da stress post-traumatico, dipendenze, dolore cronico e molto altro.

Gli effetti della disoccupazione su tre dimensioni: socio-psico-fisiologica

Quali sono gli effetti della disoccupazione sulla salute psicologica e fisica delle persone? Quai altri aspetti influiscono nel determinare il comportamento delle persone di fronte a questi eventi?

 

Lo scopo principale di quest’articolo è quello di evidenziare risultati provenienti da studi più recenti sugli effetti della disoccupazione nella salute psichica e fisica dell’individuo. Saranno indagati inoltre altri aspetti come quello economico e sociale, nonché i meccanismi psicologici e di personalità sottostanti al comportamento degli individui di fronte a determinate situazioni sfavorevoli. Verranno inoltre esposti alcuni progetti ed ipotesi di intervento pensati per affrontare tale problematica.

Gli effetti della disoccupazione sullo stato d’animo

Disoccupato: chi o che non ha o non trova un’occupazione; in senso ristretto, chi è stato privato della sua abituale occupazione”. Questa è la definizione che ci dà il vocabolario Treccani, ma la disoccupazione è più che una mera perdita di occupazione, più dell’esser privati di un lavoro. Il disoccupato non è solo privato della sua occupazione, infatti, ma della sua stessa identità. Il lavoro, oltre a un compenso remunerativo e all’introito mensile che ci permette di ‘’tirare avanti’’, di pagare le bollette (sarebbe meglio dire tasse), pagare l’affitto o fare la spesa e fornendoci una “base sicura”, detta la sua influenza su tutte altre sfere che non sono prettamente economiche. Parliamo dell’aspetto psicologico, sociale e fisico. Quando una persona si trova senza un’occupazione, soprattutto se ciò non è dipeso dalla sua volontà, entra in un circolo vizioso: lo stato d’animo negativo è tale da incidere sull’autostima e rende ancora più difficile trovare un nuovo impiego, i soggetti in questione innescano una sorta di loop: a casa soffrono, si sentono in colpa, addirittura smettono di cercare un’alternativa lavorativa, tanto è il carico emotivo e il senso di sfiducia che li accompagna. Esso assolve anche tutta una serie di altre funzioni di tipo psicologico: riconoscimento, gratificazione, competenze. E, infine, permette di sentirsi utili e di costruire legami. Quando il lavoro manca, quindi, viene lesa a tutti i livelli la dignità dell’essere umano.

In linea con queste posizioni anche Warr (1987) ha affermato che il lavoro è necessario per l’affermazione del proprio ruolo sociale, per sperimentare il controllo personale e per allargare i propri contatti sociali.

Disoccupazione e locus of control

La letteratura più recente dimostra come ci sia una netta correlazione tra diversi aspetti di personalità, locus of control, strategie di coping, ansia, depressione  e disoccupazione (Navarro et. al 2018). Rott (1966), nei suoi studi, descrisse il locus of control come la percezione del controllo degli eventi che ognuno possiede ed esso può essere attribuito a sè stessi o a fattori esterni. Coloro che presentano un locus of control interno tendono ad attribuire i risultati ottenuti a capacità personali, credono che ogni azione abbia delle conseguenze e quindi per cambiare gli esiti è necessario esercitare un controllo serrato. Al contrario, chi presenta un locus of control esterno ritiene che le conseguenze di alcune azioni siano dovute a circostanze esteriori, per questo le cose che accadono nella vita sono fuori dal loro controllo e le azioni messe in atto sono il risultato di fattori non gestibili, come il destino e la fortuna. Tale teoria ha avuto una grande rilevanza nella storia della psicologia, soprattutto per quanto riguarda le nostre modalità di adattamento e fronteggiamento alle situazioni, ovvero le strategie di coping. Pertanto, riflettere sul “locus of control” e sulle “strategie di coping” messe in atto, in esperienze come la perdita del lavoro, risulta di fondamentale importanza.

Gli studi sulla disoccupazione evidenziano come il disagio sia in grado di generare nell’individuo una spirale di learned-helplessness, la cosiddetta “impotenza appresa”, generando un progressivo isolamento sociale e una sempre più evidente tensione nei rapporti familiari. La ricerca attiva di lavoro può essere considerata un fattore di protezione, infatti livelli elevati di benessere sono stati riscontrati fra coloro che hanno cercato di controllare direttamente la loro condizione e di agire in prima persona per risolverla (Kinicki et. al, 2000). Secondo diversi autori, l’individuo attribuisce al lavoro significati differenti. Per alcuni può rappresentare il reddito, per altri il prestigio, per altri la possibilità di auto-realizzarsi e per altri opportunità di contatti sociali o di condividere valori (ad es., Askildsen et al., 2005).

Disoccupazione: le indagini recenti

Per molti il lavoro è una delle dimensioni fondamentali dell’identità. Il lavoro mantiene in attività: può contribuire a rafforzare le energie fisiche e psichiche e permette di esercitare ed ampliare le doti, le caratteristiche e le attitudini individuali (Saks & Ashforth, 2000). Anche altri studi longitudinali hanno dimostrato che eventi di disoccupazione di massa o fenomeni come la recessione possono avere delle notevoli ripercussioni sulla salute generale, e l’impatto sembra maggiore dove le politiche sociali economiche e della salute non sono protettive e supportanti (Davies, 2018).

Lo sviluppo sostenibile nazionale ed internazionale riconosce l’importanza di supportare gli individui stimolando la resilienza verso shock esterni al fine di raggiungere un buono stato di salute. Mentre esistono piani di emergenza per eventi naturali, al momento non esistono piani di emergenza che hanno lo scopo di fornire un quadro di risposta costruttivo ed adeguato a fenomeni come la disoccupazione (Davies 2018).

Diverse ricerche, infatti, hanno studiato l’interazione tra la mancanza di lavoro e la salute ma poche hanno affrontato il problema in termini di costi della salute pubblica. In Austria, sono state effettuate indagini sui redditi dei lavoratori ed informazioni dettagliate di pagamenti da parte dell’assicurazione sanitaria pubblica (Andreas, 2009). È di nuovo confermato che gli effetti immediati sulla disoccupazione potrebbero non solo avere dei risvolti sulle condizioni di salute fisica ma più probabilmente sulla salute mentale. Infatti, più per i maschi, sono stati rilevati costi significativamente più elevati sulla la salute pubblica associati agli acquisti di farmaci psicotropi e anche per le ospedalizzazioni a causa di problemi di salute mentale (Andreas, 2009). In alcune interviste, le persone disoccupate, dichiaravano che la disoccupazione allarga le disuguaglianze e il supporto, oltre alla persona colpita, dovrebbe essere esteso anche agli altri membri della famiglia che risentono di queste problematiche.

Disoccupazione: la prevenzione del disagio

A partire da queste indagini, uno studio di Davies ha individuato 8 punti chiave su cui focalizzarsi per definire un quadro di risposta in termini di prevenzione (Davies 2018).

  1. Identificazione delle aree a rischio;
  2. Prevenzione precoce;
  3. Mobilitare una risposta multisettoriale;
  4. Sostegno proporzionato ai bisogni;
  5. Sostegno esteso alla famiglia;
  6. Consulenza e supporto per l’occupazione;
  7. Sostenere e sfruttare le risorse proprie della comunità;
  8. Monitorare e valutare le azioni.

Ancora una volta si evidenza la necessità di supportare l’individuo e la comunità, in particolare la popolazione più vulnerabile in modo da prevenire disuguaglianze sociali (Davies, 2018).

Disoccupazione: quali effetti sul sonno?

Un altro studio di Palmes (2017) ha recentemente affrontato le conseguenze  della disoccupazione sugli individui, ma in questo caso gli effetti negativi si ripercuotono sul sonno, comportando alterazioni dette parasonnie, come ad es. l’insonnia.  Sono stati somministrati questionari ad adulti tra i 50-64 anni che valutavano la presenza di insonnia ed è emersa un’associazione tra l’insonnia e i soggetti che presentavano varie problematiche, tra cui obesità, dipendenza da fumo, solitudine, perdita del lavoro e insoddisfazione sui luoghi di lavoro. In misura maggiore nelle donne, in questo studio. Tali risultati sembrano meno prevalenti nei soggetti con un’istruzione più alta. Alla luce di queste evidenze gli autori suggeriscono una ristrutturazione delle politiche del lavoro in favore degli individui, sia per quanto concerne la sicurezza lavorativa che per la qualità nell’ambiente di lavoro ( Palmes 2017).

Oltre alle associazioni trovate tra disoccupazione e disturbi del sonno, un altro studio di Patel (2010) conferma che la scarsa qualità del sonno è correlata con il fattore socio economico, in particolare nelle popolazioni più povere, definendo tale fenomeno ‘’disparità del sonno” sul piano gerarchico della popolazione. Queste ultime considerazioni potrebbero rappresentare un input per pianificare degli interventi mirati in determinati gruppi cosi da ridurre anche le conseguenze negative sul sonno (Patel et al. 2010).

Disoccupazione: progetti a Milano

Alcuni Psicologi, nel comune di Buccinasco (MI), in collaborazione con la Banca del tempo, hanno messo a punto un interessante progetto intitolato “Lavoro: come occuparsene senza preoccuparsene” . Questo esperimento sul territorio – realizzato con successo nel 2016 – è stato presentato dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia in occasione della giornata mondiale della psicologia. Ammettere che la componente psicologica ha un ruolo importante nella ricerca di lavoro e ribadire che il ruolo dello psicologo va oltre l’aspetto clinico e patologico ed è utile per la qualità della vita delle persone, soprattutto in ambito lavorativo e sociale, è un aspetto da non trascurare. Il progetto consisteva in cinque incontri di gruppo (con una fase individuale di bilancio delle competenze) nei quali, con un approccio psico-educativo, si cercava di ricostruire le condizioni mentali adatte a rimettersi sul mercato in modo efficace.

Alcune persone che hanno frequentato questi incontri, avevano aspettative del tutto irrealistiche, che non facevano i conti con variabili come il momento storico, l’età o la concorrenza, e questa visione non calibrata causava una chiusura testarda che li destinava inevitabilmente alla delusione. Altri ancora si erano lasciati andare a un atteggiamento vittimistico e quindi, controproducente. Per una Signora di 49 anni, di origine argentina, frequentare il corso è stato decisivo, ed ha affermato

Mi ha dato una grossa spinta, facendomi sentire molto più determinata (Carli, 2017)

Questa review della letteratura, indica chiaramente come i risultati degli studi qui esposti mettono in accordo tutti gli autori sulla stessa teoria, confermando l’ipotesi secondo cui la mancanza o la perdita di un’occupazione incide fortemente sullo stato di salute mentale delle persone sia sulla dimensione sociale, sia su quella psicologica che fisiologica, come descritto nelle ultime ricerche che riportavano disturbi del sonno. Il fine principale degli studi psicologici sulla disoccupazione non è certo quello, per altro impossibile, di eliminare il problema ma è piuttosto quello di far emergere una vasta gamma di conseguenze, in modo da riconoscere e spiegare i costi personali e sociali sperimentati dai soggetti disoccupati e possibilmente promuovere degli interventi volti ad attutirne le ripercussioni sulla salute psichica del soggetto, oltre al miglioramento sul piano finanziario. L’assenza di lavoro può toglierci molteplici cose: il sonno, la sicurezza, la fiducia, la forza, la serenità… Ma una cosa non potrà toglierci mai, l’amore. L’amore per se stessi e per coloro che ti circondano, il motore che alimenta la volontà, l’ingrediente indispensabile per quella ricetta che chiamiamo vita.

Anche giocare a Tetris può dare sollievo a una mente preoccupata

Secondo un recente studio dell’University of California Riverside (UCR), giocare a Tetris può indurre uno stato di flow. I partecipanti che a seguito dell’esperimento affermavano di trovarsi in uno stato di flow riferivano di sentirsi meno preoccupati, di sentire meno emozioni negative (tristezza, rabbia, ansia) e più emozioni positive (gioia).

 

Spesso nella vita le persone si trovano davanti a periodi più o meno lunghi di incertezza e preoccupazioni, che solitamente precedono eventi rilevanti per l’individuo in questione. Tutti impieghiamo delle strategie di coping per fronteggiare questi periodi, non tutte però si rivelano efficaci.

Una recente ricerca condotta presso l’UCR (University of California Riverside) ha dimostrato che giocare a Tetris, un leggendario videogioco sviluppato negli anni ’80, può creare uno stato di flow nei giocatori. In questa accezione il termine flow viene usato per descrivere uno stato mentale totalmente focalizzato sul gioco e disimpegnato, libero da preoccupazioni ed anticipazioni su possibili eventi futuri individualmente rilevanti.

I soggetti che hanno partecipato all’esperimento dell’UCR erano tutti individui in attesa di ricevere risultati importanti e significativi per il futuro delle proprie vite (un campione di studenti di legge in attesa dei risultati dell’esame di stato per avvocati, e un altro di dottorandi in attesa di risposte a varie candidature per differenti posti di lavoro). I partecipanti che a seguito dell’esperimento affermavano di trovarsi in uno stato di flow riferivano di sentirsi meno preoccupati, di sentire meno emozioni negative (tristezza, rabbia, ansia) e più emozioni positive (gioia).

A partire da questi risultati i ricercatori californiani sono giunti alle conclusioni che uno stato di flow, quando raggiunto, può portare dei benefici durante periodi di preoccupazioni o d’attesa di notizie importanti (ad esempio i risultati di esami medici). Gli autori, pertanto, considerano la distrazione che consegue al flow, una strategia di coping che, seppure imperfetta e difficile da raggiungere, può essere funzionale ed adattiva in alcuni momenti della vita.

Come è possibile raggiungere uno stato di flow?

Questo stato di flow può essere raggiunto anche attraverso numerose altre attività oltre ai videogiochi, ad esempio l’arrampicata oppure il nuoto. Non è però immediato trovare un’attività che possa condurre un individuo a raggiungere questo stato: occorre infatti trovare un compito che non sia né troppo facile (si rischierebbe di cadere nella noia), né troppo difficile (ove vi sarebbe il rischio frustrazione). Per raggiungere uno stato di flow bisogna che l’attività in questione vada leggermente oltre i limiti del soggetto, ma non troppo né troppo poco.

Riassumendo…

Utilizzando le parole di Sweeny, ricercatrice a capo del team che ha condotto questo studio, potremmo definire i risultati raggiunti come un importante momento di svolta nel campo della ricerca in quanto si è riuscito a mettere in relazione il concetto di flow e di stato di benessere durante i periodi di attesa, provando che i due fenomeni non soltanto correlano ma che effettivamente il flow determina e promuove il benessere almeno nel brevissimo termine.

Le implicazioni pratiche di questo studio sono enormi e lo stato di flow può essere usato attivamente da chiunque nella propria vita quotidiana, rappresentando una tra le strategie utili per poter fronteggiare meglio le attese ansiogene.

Come le nostre aspettative influenzano percezione, attenzione e apprendimento

È ormai noto e conosciuto il principio per cui impariamo dall’esperienza e costruiamo aspettative circa il nostro futuro. Tuttavia esse sono in grado di influenzare il nostro apprendimento dando priorità a informazioni ambientali che le vanno a confermare in un circolo distorto che si autoalimenta.

 

Le aspettative inoltre influenzano il nostro giudizio sul dolore intensificandolo, come evidenzia il nuovo studio di Jepma e colleghi, del dipartimento di Psicologia dell’Università del Colorado, apparso recentemente su Nature Human Behaviour.

Aspettative: la nostra quotidianità ne è colma

Quante volte ci è capitato di sentire il suono tipico della ricezione di una notifica tanto attesa sul cellulare senza che questo suono ci sia però mai stato, oppure sentiamo dolore in un’area del nostro corpo senza che vi sia una visibile causa specifica sulla stessa? Quante volte cioè ci è capitato di avere delle aspettative o delle credenze che contrastano con l’evidenza?

Seguendo la classificazione nosografica della psicopatologia classica, potremmo etichettare questi fenomeni come anormali in quanto si tratterebbe dell’avvenuta percezione di stimoli (uditivi e sensoriali ad esempio) che nella realtà non si sono mai verificati, e in questo caso si legherebbe al concetto di allucinazioni per cui si rileva uno stimolo che non esiste; tuttavia un nuovo studio, recentemente pubblicato su Nature Human Behaviour, di Jepma, Koban, van Doorn e colleghi (2018) mostra come le nostre aspettative possano direttamente influenzare e modulare non solo i processi percettivi, come già evidenziato da Sterzer, Frith & Petrovic (2008), ma anche generare dei bias nell’apprendimento che le mantengono in modo persistente nel tempo e le sostengono, anche se ripetutamente disconfermate dall’esterno.

Aspettative: lo studio per capire se e come influenzano percezione e apprendimento

Gli autori dello studio preso in considerazione (Jepma, Koban et al., 2018) hanno infatti esplorato l’influenza della generazione delle aspettative sia nella percezione che nell’apprendimento in due esperimenti, associando modelli computazionali cosiddetti trial-by-trial circa le aspettative sul dolore, con i punteggi relativi alla sua intensità; i soggetti sperimentali, 28 volontari nel primo esperimento e 34 nel secondo, hanno seguito una prima fase di apprendimento in cui hanno imparato ad associare un primo indizio visivo ad una simbolica rappresentazione del dolore, l’immagine di un termometro, indicante una temperatura alta (l’aspettativa di un dolore ad intensità alta) o bassa (l’aspettativa di un dolore a bassa intensità).

Nella seconda fase, quella di test, per ogni trial, i soggetti, all’interno dello scanner della risonanza magnetica funzionale, hanno dovuto indicare quanto dolore si sarebbero aspettati a seguito della visione dell’indizio, precedentemente appreso, su una scala da 0 a 100, a cui seguiva però un’ulteriore fase in cui essi ricevevano effettivamente uno stimolo doloroso all’avambraccio o sulla gamba tramite una punta termoriscaldata da 32°C a 49°C.

I risultati ottenuti hanno sottolineato come l’avere alte aspettative circa il dolore aumentava i giudizi circa l’intensità del dolore come riportato dai punteggi self-report dei soggetti e attivava una robusta risposta nei network cerebrali coinvolti nel processamento del dolore, confermando così un effetto diretto delle aspettative su di esso sia a livello di dolore percepito che di attivazione neurale, generando un loop tra aspettative e dolore.

Aspettative: influenzano l’attenzione

Inoltre, e questo può essere considerato l’apporto maggiore proveniente dalla ricerca di Jepma e colleghi (2018), i partecipanti allo studio si sono mostrati altamente selettivi nel modo in cui trattavano le prove fornite dal trial che stavano svolgendo per predire gli outcome dei trial successivi: infatti se l’intensità del dolore percepita era maggiore rispetto alla previsione fatta dal soggetto, quest’ultimo tendeva ad aumentare le proprie aspettative circa la presenza di una maggiore intensità del dolore anche nel trial successivo soprattutto se gli veniva presentato quell’indizio a cui aveva imparato ad associare una “temperatura” alta e quindi un’alta intensità di dolore; tendeva altresì a disconfermare la propria credenza sull’intensità del dolore prevista se gli venivano poi presentati cue associati ad una “temperatura” bassa (Jepma, Koban et al., 2018).

I punteggi riportati dai soggetti sperimentali hanno così confermato la tendenza ad apprendere, utilizzare e a prestare attenzione in modo selettivo alle informazioni ambientali che sono in linea con le proprie credenze e aspettative e ad ignorare le prove, anche concrete, che possono disconfermarle.

Ogni discrepanza tra ciò che il soggetto si aspetta, sulla base del suo bagaglio conoscitivo e di apprendimento, e ciò che si verifica ed esperisce nella realtà, dovrebbe “costringerlo” a riformulare e rivedere le sue previsione e aspettative stesse; tuttavia le evidenze riportate da Jepma e colleghi (2018) mostrano come non tutte le informazioni concrete che ci vengono fornite a disconferma delle nostre aspettative vengono soppesate ed utilizzate allo stesso modo, per cui di conseguenza si tende a confermare i propri bias.

Gli individui attivamente, sebbene non ne siano pienamente consapevoli, creano un percetto, un’informazione che viene modulata sulla base delle proprie aspettative come in una profezia che si auto-avvera, dove una falsa interpretazione di una situazione di fatto attiva un comportamento che va a confermare l’originale falsa concezione.

Connessione tra ADHD e regolazione delle emozioni: prospettive teoriche e utilità nella pratica clinica

Non è ancora chiaro quale sia il legame tra disregolazione emotiva e ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) ma tale deficit è stato riscontrato in oltre il 40% di soggetti con ADHD.

Alberto Morandi e Silvia Locatelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) è una condizione caratterizzata da componenti di inattenzione, iperattività, impulsività tali da rendere problematico l’adattamento del paziente al contesto di vita (Lambruschi, 2014).

Attualmente vi sono difficoltà nella definizione dei criteri di diagnosi, nell’interpretazione e nell’individuazione dei sottotipi e delle diverse manifestazioni dei sintomi in relazione all’età (Lambruschi, 2014).

Nella versione V del DSM, alcuni sintomi di disattenzione e/o di iperattività-impulsività devono essere presenti prima dei 12 anni di età e devono causare menomazione nel funzionamento sociale del soggetto, scolastico e lavorativo (APA, 2012).

Sebbene alcuni bambini abbiano sintomi sia di disattenzione che di iperattività-impulsività, vi sono alcuni pazienti in cui può predominare l’una o l’altra caratteristica. In particolare nel DSM V si presentano i seguenti sottotipi: Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Disattenzione Predominante (6 o più sintomi di disattenzione, ma meno di 6 sintomi di iperattività-impulsività sono persistiti per almeno 6 mesi); Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Disattenzione Predominante più restrittivo del precedente (6 o più sintomi di disattenzione, non più di 2 sintomi del gruppo di iperattività-impulsività sono persistiti per almeno 6 mesi); Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Iperattività/Impulsività Predominante (6 o più sintomi di iperattività-impulsività, ma meno di 6 sintomi di disattenzione sono persistiti per almeno 6 mesi); Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo Combinato (6 o più sintomi di iperattività-impulsività e 6 o più sintomi di disattenzione sono persistiti per almeno 6 mesi)( APA, 2012).

Il manuale DSM V consente al clinico di orientare la propria valutazione attraverso la definizione di precisi comportamenti problema, tuttavia l’avverbio “spesso” accanto alla descrizione del comportamento (es. “il bambino spesso non riesce a prestare l’attenzione ai particolari”) lascia un ampio margine di arbitrarietà nella scelta dei criteri diagnostici (Lambruschi, 2014).

Indubbiamente le indicazioni diagnostiche offrono al clinico dei criteri statistico-quantitativi importanti nella decisione diagnostica, ma tuttavia l’assenza di un modello interpretativo del funzionamento psicologico dell’ADHD rende difficile l’inquadramento del disordine sia dal punto di vista cognitivo che comportamentale (Lambruschi, 2014).

Esistono diversi modelli di spiegazione del disturbo, i quali sembrano avvalorare l’ipotesi che la componente di regolazione emotiva meriti di essere tenuta in considerazione in ambito clinico e di ricerca.

Nel tempo sono state indagate numerose ipotesi per interpretare e spiegare il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD). Diversi modelli sembrano individuare i problemi principali del bambino ADHD nei processi di controllo, nel modulare le risorse attentive in relazione al compito e nell’inibire l’informazione.

Se ci si riferisce a una capacità di inibire una risposta programmata e del controllo dell’attenzione, in psicologia cognitiva si parla di sistemi di autoregolazione (self-regulation) o di autocontrollo.

Secondo Cornoldi (1999), termini come autoregolazione, autocontrollo, automonitoraggio indicano le capacità “che un organismo ha di controllare le sue azioni in relazione alle esigenze in cui si trova”. In particolare, si parla di autoregolazione indicando non solo la possibilità di un soggetto di regolare il proprio comportamento in relazione al contesto, ma anche la fine regolazione delle reazioni fisiologiche e psicologiche in relazione allo stimolo.

Ricerche hanno evidenziato la presenza di una compromissione nella regolazione delle emozioni in individui con ADHD. Infatti, è stato possibile osservare come bambini e adulti risultano deficitari nei report compilati dai genitori (Forslund 2016, Sjoewall, 2013; Spencer, 2011; Surman, 2013) e nei test comportamentali (Maegden, 2000).

Tuttavia, non è ancora chiaro quale sia il legame tra la regolazione emotiva e gli altri sintomi del disturbo. Infatti, è stato possibile osservare come la disregolazione non sia sempre presente nel campione clinico, nonostante la percentuale superi il 40% della popolazione patologica (Spencer, 2011).

Qual è il legame tra la disregolazione emotiva e i sintomi dell’ ADHD?

Diversi studi condotti fino ad oggi hanno prodotto dati apparentemente discordanti. Infatti sembrerebbe che la disregolazione emotiva possa essere un sintomo (Forslund, 2016; Sjoewall, 2013, Martel, 2009), precedentemente ignorato tra i criteri della diagnosi categoriale, poiché definibile in termini di dimensione temperamentale (Martel, 2009) o come una conseguenza di un deficit nelle funzioni esecutive (Barkley, 1997; Maedgen, 2000) e quindi una disfunzione nell’inibizione del controllo comportamentale, di stati fisiologici, e di rifocalizzazzione dell’attenzione (Barkley, 1997; Spencer, 2011; Surman, 2013).

Secondo la prima ipotesi, che spiega la disregolazione emotiva in termini di dimensione temperamentale, la regolazione emotiva è un processo dissociabile dall’esperienza emotiva di per sé (Martel, 2009). Inoltre, in base al sottotipo di ADHD, se inattento, iperattivo/impulsivo o combinato, l’espressione della regolazione emotiva avviene in modi diversi, classificabili secondo un modello che prende in considerazione dimensioni del temperamento. Secondo questo modello il sottotipo inattento è caratterizzato da un basso controllo dell’emozione, indipendentemente dall’intensità. Mentre il sottotipo impulsivo/iperattivo è caratterizzato invece da una forte esperienza ed espressione delle emozioni positive e negative (Martel, 2009). Inoltre, se si tiene conto delle dimensioni temperamentali i due sottotipi si distinguono ulteriormente in bassa coscienziosità per il sottotipo inattento, e sgradevolezza, apertura ed estroversione per il sottotipo impulsivo/iperattivo. Infatti, esistono ricerche che evidenziano come i due sottotipi sono dissociabili. Tali ricerche suggeriscono che la regolazione delle emozioni, l’emotività negativa e quella positiva siano dimensioni indipendenti da componenti di controllo cognitivo, come le funzioni esecutive (Sjoewall, 2013; Forslund, 2016).

In questi ultimi lavori il controllo delle emozioni è stato misurato attraverso il questionario delle emozioni di Rydell (valutazione compilata dai genitori), mentre le funzioni esecutive sono state misurate attraverso compiti cognitivi (ad esempio test di Stroop e compiti di go/no-go). Entrambi i lavori hanno riportato come i dati misurati al test di Rydell e ai compiti per le funzioni esecutive non siano in relazione tra loro, ma di come invece contribuiscono in modo indipendente al disturbo.

Ad esempio, nello studio di Sjoewall e collaboratori (2013) il 16% di bambini con ADHD presenta deficit nella regolazione emotiva ma non nel riconoscimento delle stesse. In particolare, gli stessi bambini con deficit nella regolazione delle emozioni non risultano deficitari nelle funzioni esecutive. Un ulteriore 5% di bambini che hanno partecipato nello studio di Sjoewall e collaboratori (2013) sono risultati deficitari nella regolazione emotiva e nel riconoscimento delle emozioni ma non nelle funzioni esecutive (si veda la figura 1B).

La seconda ipotesi, che vede la disregolazione emotiva come una conseguenza del deficit nelle funzioni esecutive, è un’estensione del modello di Barkley (1997). Tale teoria non tiene conto di elementi temperamentali e ipotizza che il controllo dell’espressione emotiva è soggetto al controllo cognitivo.

Barkley (1997) mette in relazione la difficoltà di inibizione di un comportamento con altre funzioni esecutive (come la memoria di lavoro, il livello motivazionale in relazione al compito, quello di attivazione necessario per lo svolgimento delle consegne, il linguaggio interiore, la capacità di avvalersi dell’errore, processi generalmente indicati all’interno delle funzioni esecutive). L’ipotesi che l’ ADHD sia legato ad un deficit delle funzioni esecutive è sostenuta da ricercatori che hanno notato una certa somiglianza tra comportamenti di bambini DDAI e disordini comportamentali e/o attentivi, evidenziati da pazienti con lesioni prefrontali (Pennington & Ozonoff, 1996; Shallice, Marzocchi e altri, 2002).

Barkley (1997) ha indagato il ruolo delle funzioni esecutive nell’ ADHD proponendo un modello di spiegazione. Parte del modello prende in considerazione l’auto-regolazione degli affetti-motivazione-arousal (Self-Regulation of Affect-Motivation-Arousal). Il modello fa delle previsioni su quali siano le mancanze nell’inibizione che possono spiegare le difficoltà degli individui con ADHD: (a) una maggiore reattività emotiva a eventi emotivamente pregnanti; (b) una minore reattività emotiva anticipatoria in previsione di eventi emotivamente pregnanti (in prospettiva di una diminuzione della capacità di previsione); (c) una minore abilità di agire sulle proprie emozioni rivolte agli altri; (d) una minore capacità di indurre e regolare stati emotivi, motivazionali e di arousal che sono al servizio del comportamento diretto ad uno scopo (all’aumentare del tempo che passa verso lo obiettivo aumenta l’incapacità di sostenere arousal e motivazione verso quell’obiettivo); (e) una maggiore dipendenza dalle fonti esterne che guidano l’affetto, la motivazione e l’arousal che fanno parte di un contesto che determina il grado dello sforzo dell’azione diretta all’obiettivo (Barkley, 1997).

A partire dal modello di Barkley (1997) sono seguite ricerche che hanno hanno ipotizzato che la disregolazione emotiva nell’ ADHD possa essere concettualizzata come “deficient emotional self regulation” (DESR) riferendosi a: 1) defict nell’autoregolazione dell’arousal causato da emozioni forti, 2) difficoltà nell’inibire il comportamento inappropriato in risposta a emozioni negative, 3) problemi nel rifocalizzare l’attenzione in seguito a emozioni forti sia positive che negative e 4) disorganizzazione del comportamento conseguente all’attivazione emotiva (Spencer, 2011; Surman, 2013). Quest’ultima è una definizione molto simile a quella utilizzata da Martel (2009). Tuttavia, questi autori si sono concentrati in primo luogo nel distinguere la disregolazione emotiva in altri disturbi, come ad esempio la depressione, l’ansia e il disturbo bipolare (Spencer, 2011). Inoltre, tali autori hanno voluto indagare come la disregolazione emotiva influenzi negativamente il funzionamento sociale in pazienti con ADHD (Surman, 2013).

I due modelli esplicativi presentati nel presente articolo non si escludono l’uno con l’altro, ma possono invece essere visti come complementari. Infatti, in un lavoro di Steinberg e Drabick del 2015 viene introdotto il concetto di “effortfull control” (“controllo volontario impegnato”), secondo cui temperamento e regolazione emotiva influenzano i meccanismi che regolano e inibiscono la risposta automatica dominante a uno stimolo, modificando volontariamente attenzione e comportamento. L’inibizione appare in tale ottica una sfaccettatura dell’effortful control, e cioè quanto un bambino è abile nel sopprimere un comportamento inadeguato in un determinato contesto, che non è correlata solo con il controllo comportamentale, ma appare invece correlata soprattutto con il controllo emotivo. Secondo le autrici l’inibizione e di conseguenza il controllo del proprio temperamento sono delle componenti delle funzioni esecutive (Steinberg & Drabick, 2015). Tale abilità sarebbe appresa attraverso l’osservazione e la regolazione del comportamento da parte dei genitori (Steinberg & Drabick, 2015). Infatti, un’ipotesi all’origine del disturbo potrebbe essere un mancato apprendimento della mediazione verbale nello sviluppo dell’autoregolazione. Ovvero, non viene prestata l’opportuna attenzione alle istruzioni dei genitori e pertanto tali comandi non vengono interiorizzati e fatti propri dal bambino, non imparando quindi la necessaria autoregolazione del proprio comportamento (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

Il modello della scuola russa: Vygotskij e Lurija

Già in passato Vygotskij (1962) e Lurija (1961) avevano osservato come il meccanismo dell’autoregolazione si costituirebbe in seguito all’aiuto offerto dalle regole sociali e dallo sviluppo del linguaggio. Secondo la prospettiva di questi autori potremmo indicare nelle seguenti fasi lo sviluppo dell’autoregolazione: a) il bambino è controllato dai comandi verbali degli adulti che svolgono un’azione inibitoria ed eccitatoria della sua azione; b) i segnali verbali degli adulti vengono interiorizzati dal bambino e associati ad auto-comandi; c) verso i 5-6 anni, le istruzioni una volta interiorizzate vengono automatizzate e differenziate a seconda dei contesti in cui viene la rievocazione: è in questa fase che il bambino comincia a servirsi di un “linguaggio interno” che gli serve da guida nell’applicare un piano d’azione.

In questa prospettiva il modello della scuola russa (Vygotskij, 1962; Lurija, 1961) consente di interpretare numerose difficoltà del bambino ADHD (Cornoldi, De Meo, Ofredi & Vio, 2001).

ADHD e stile di attaccamento

Un’ulteriore causa delle difficoltà di individui con ADHD può essere individuata nella relazione genitoriale, ovvero nello stile di attaccamento che si instaura tra bambino e caregiver. Le diverse configurazioni di attaccamento che si strutturano a partire dalla prima infanzia e poi si articolano e si differenziano in età prescolare e scolare, possono essere viste sia come pattern comportamentali interattivi osservabili, ma anche soprattutto come modalità di regolazione emotiva: all’interno dei legami d’attaccamento si imparano a riconoscere, articolare, dare un nome e regolare gli stati emozionali e le relative disposizioni comportamentali; specifici contesti di sviluppo caratterizzati da particolari forme di insicurezza che portano a specifiche disregolazioni emotive (Lambruschi, 2014).

Esperienze diadiche (resistenti), come connotate da discontinuità della risposta materna, portano all’opposto ad uno stile di regolazione emotiva iperattivante, come forte attivazione neurofisiologica e segnalazione emotiva e comportamentale, talora anche drammatica e teatrale. Altre (disorganizzate), in cui il contesto di accudimento e cure è connotato da elevati livelli di pericolo e minaccia al Sé, possono portare invece a caoticità, contraddittorietà, e forte instabilità nell’espressività emotiva (Lambruschi, 2014).

Clarke, Ungerer e altri (2002) hanno confrontato due gruppi di bambini (con e senza ADHD) testando i modelli operativi interni relativi all’attaccamento attraverso il SAT (Separation Anxiety Test), la Self Interview e il Family Drawning, trovando una forte correlazione tra ADHD e uno stile di attaccamento insicuro. Anche Pinto, Turton e altri (2006) hanno rintracciato una correlazione significativa tra sintomi dell’ ADHD rilevati dagli insegnanti e significativi livelli di attaccamento disorganizzato. Green, Stanley e Peters (2007) hanno investigato il rapporto tra attaccamento e ADHD e hanno osservato che la diagnosi è significativamente associata a più elevati livelli di disorganizzazione dell’attaccamento.

Da questi studi è possibile ipotizzare che quando il deficit autoregolativo di base va a incontrarsi con quote di sensibilità e responsività sufficientemente ampie, le mancanze o gli eccessi di segnalazione del bambino avranno più probabilità di essere compensati o contenuti dal genitore, con una possibile attenuazione del quadro comportamentale e attentivo del bambino.
Si può immaginare un’amplificazione del disturbo e una maggiore resistenza al trattamento, laddove il comportamento scarsamente regolato del bambino vada ad incontrarsi con sponde relazionali insicure (Lambruschi, 2014).

Se un bambino è immerso in un funzionamento diadico ambivalente, l’iperattività e la distraibilità possono facilmente assumere una funzione coercitiva e di controllo nei confronti della figura di attaccamento. Mentre, in uno sviluppo evitante è più probabile che i sintomi si esprimano come un’esasperazione dell’utilizzo dell’esplorazione compulsiva e come “distrattore”, caratteristica forma di regolazione emotiva di questi pattern (Lambruschi, 2014).

Lo stile genitoriale come fattore di protezione o di rischio

Grazie alle osservazioni riportate è possibile constatare quanto la regolazione emotiva sia influenzata quindi dalle funzioni esecutive, dal temperamento e dai modelli genitoriali. Infatti, secondo la prospettiva di Steinberg e Drabick, derivante dalla psicologia dello sviluppo, al di là di quale siano i fattori psicologici alla base di una disregolazione emotiva, quest’ultima è influenzata da fattori relazionali appresi nel nucleo familiare.

Lo stile genitoriale può essere sia un fattore di resilienza, supportando il bambino nell’esternalizzazione delle emozioni, oppure un fattore di rischio. Infatti, appurato che il bambino abbia un disturbo ADHD e anche una disregolazione emotiva, il supporto dei genitori nel regolare le proprie emozioni fa sì che il bambino non sviluppi disturbi in comorbidità come il disturbo della condotta o il disturbo oppositivo provocatorio (Steinberg & Drabick, 2015). Ad esempio, a livello terapeutico, una delle proposte del parent training per genitori di bambini con ADHD si basa su interventi di coping emotivo: ovvero l’apprendimento per imitazione di un modello che di fronte a situazioni complesse non nasconde la propria emotività, ma si sforza di trovare la soluzione al problema, esplicitando le strategie che vorrebbe attuare (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

Diversamente uno stile genitoriale autoritario con modalità aggressive è uno dei fattori che aumenta la disregolazione e il rischio di incorrere in altri disturbi. A volte i genitori di bambini con ADHD hanno agiti aggressivi nel momento in cui cercano di far rispettare delle regole. Tale espressione emotiva esacerba il comportamento disfunzionale (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).
In particolare, bambini e adolescenti con un basso controllo inibitorio (coerente con le caratteristiche comportamentali del disturbo ADHD) potrebbero mostrare sia problemi internalizzati che esternalizzati. Ad esempio, tali bambini potrebbero avere difficoltà a attenuare pensieri negativi (come la ruminazione), ed esibire un eccessivo ritiro negativo, aumentando il rischio di depressione (Steinberg & Drabick, 2015). Se lo stesso bambino ha dei genitori che rispondono a questo comportamento con rabbia, o comunque con un feedback negativo, appare ovvio come il rischio depressivo possa aumentare, o in alternativa come possa emergere un disturbo della condotta o degli agiti impulsivi (Steinberg & Drabick, 2015).

Può esserci una trasmissione intergenerazionale?

In tale prospettiva le relazioni familiari influenzano la regolazione emotiva del bambino con ADHD. Studi hanno cercato di verificare se la disregolazione emotiva possa essere non solo influenzata ma addirittura trasmessa. A questo scopo è stato condotto uno studio da Surman e collaboratori (2011) per testare questa ipotesi. Attraverso quello che è stato uno studio familiare, si è voluto verificare se in genitori con ADHD fosse presente lo stesso disturbo nei figli. In particolare, i ricercatori hanno verificato se l’ ADHD e la disregolazione emotiva presenti nei genitori fossero presenti anche nei figli.

I risultati ottenuti mostrano come la disregolazione emotiva appartenga solo a un sottotipo di disturbo ADHD perciò è possibile affermare che il disturbo ADHD sembra essere trasmesso indipendentemente dalla presenza o meno di un deficit nella regolazione emotiva, mentre quest’ultima era presente solo in figli di genitori con ADHD e disregolazione (Surman, 2011).

Gli autori hanno di conseguenza ipotizzato che la disregolazione sia un effetto secondario nell’ ADHD. Inoltre, considerano la disregolazione secondaria all’ ADHD nella condizione in cui sia manifestata nel contesto familiare: l’apprendimento attraverso le regole sociali disfunzionali potrebbe influenzare la normale curva di sviluppo della regolazione emotiva e questo effetto potrebbe essere ancora maggiore per bambini con ADHD avendo genitori con ADHD e disregolazione emotiva (Surman, 2011).

ADHD, disregolazione emotiva e disturbi dell’umore

I lavori fino a ora presentati riguardano la regolazione emotiva dal punto di vista cognitivo, temperamentale e familiare. Ciò che accomuna i lavori sopra descritti è l’influenza di questi tre fattori nella mediazione della regolazione emotiva nello sviluppo di quadri complessi del disturbo in comorbidità con il disturbo della condotta, il disturbo oppositivo provocatorio e i disturbi dell’umore.

Infatti, potrebbero essere presenti differenti manifestazioni emotive a seconda del sottotipo di ADHD. Nel sottotipo disattento sono più frequenti disturbi dell’umore, appaiono più ansiosi, timidi e ritirati socialmente. Diversamente nel sottotipo iperattivo-impulsivo e combinato vi è la presenza di comportamenti aggressivi. Quest’ultimi si oppongono più frequentemente alle richieste, ricevendo addirittura una seconda diagnosi di disturbo della condotta e di disturbo oppositivo-provocatorio (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

In particolare, è stato proposto come distinguendo tra ADHD sottotipo inattento e sottotipo impulsivo-iperattivo, e distinguendo tra controllo dell’emozione e l’esperienza di forti emozioni positive o negative, vi siano manifestazioni di comorbidità diverse (Martel, 2009). Secondo tale prospettiva il controllo dell’emozione sarebbe maggiormente associato al sottotipo inattento e al disturbo della condotta. Le forti esperienze emotive sarebbero invece associate al sottotipo impulsivo-iperattivo e al disturbo oppositivo-provocatorio (Martel, 2009).

Tuttavia, sono state proposte ulteriori distinzioni. Ad esempio, è stato possibile osservare una diversa disregolazione delle emozioni positive e di quelle negative. È stato possibile osservare come la prima è un fattore di rischio specifico del disturbo ADHD, mentre la seconda è maggiormente associata al disturbo della condotta (Forslund, 2016). Il fatto che bambini con ADHD manifestano anche una forte componente di emotività negativa potrebbe essere dovuta a una concomitante presenza del disturbo della condotta (Forslund, 2016).

Inoltre, in un campione di pazienti adulti ADHD, è stato osservato come la disregolazione emotiva estrema fosse sia parte del disturbo ADHD, ma anche in pazienti con una storia di concomitante disturbo oppositivo-provocatorio (Surman, 2013). Il fatto che la disregolazione fosse presente sia in pazienti con solo ADHD che in quelli con ADHD e disturbo oppositivo-provocatorio ha portato gli autori a proporre come la disregolazione sia un fattore che possa presupporre un concomitante disturbo oppositivo-provocatorio ma non il contrario, in quanto esistono quadri diagnostici di disturbo ADHD con disregolazione senza disturbo oppositivo-provocatorio (Surman, 2013).

Per di più, come già indicato sopra, individui con ADHD possono anche presentare disturbi dell’umore secondari.

Ma come si può distinguere la disregolazione emotiva da un disturbo dell’umore?

Sia nella disregolazione emotiva, come nei disturbi dell’umore, sono presenti forti esperienze emotive, positive (disturbo bipolare), negative (disturbi d’ansia, depressivi e bipolare), forte irritabilità e difficoltà nel controllo dell’arousal. Tuttavia, solo l’ ADHD e non i disturbi dell’umore avrebbero un deficit nel controllo delle emozioni e non solo una forte emotività (Spencer, 2011).

Spencer e collaboratori (2011) hanno svolto uno studio che consentisse di poter distinguere disturbi dell’umore e disregolazione (da un punto di vista quantitativo piuttosto che qualitativo). Per raggiungere questo scopo, gli autori proposero di utilizzare un test carta e matita, il Child Behavior Check List (CBCL). Dallo studio è emerso che punteggi maggiori di due deviazioni standard dalla media nelle sotto scale Ansia/Depressione, Aggressività e Attenzione sono indicativi di un disturbo dell’umore, mentre punteggi che si discostano tra una e due deviazioni standard dalla media sono invece indice di disregolazione emotiva in bambini con ADHD (Spencer, 2011).

Il contributo di questi ultimi lavori è fondamentale per il trattamento del disturbo, in quanto identificare la presenza o meno di un disturbo dell’umore è necessario per impostare sia la terapia farmacologica che quella psicologica. Infatti, Spencer e collaboratori (2011) sottolineano come la terapia farmacologica nel disturbo bipolare quando esso non è presente potrebbe avere effetti non solo controproducenti, ma addirittura esacerbare i sintomi del disturbo ADHD.

Difficoltà nella regolazione emotiva in bambini con ADHD: conseguenze sul funzionamento sociale

Inoltre, l’ultimo lavoro citato ha mostrato come la disregolazione emotiva influenzi negativamente il funzionamento sociale dei bambini con ADHD. Nello studio proposto da Spencer e collaboratori (2011), oltre alla regolazione emotiva sono state misurate anche la regolazione sociale del comportamento, il funzionamento scolastico e la gravità dei conflitti familiari. Dallo studio è emerso come la disregolazione emotiva possa spiegare una porzione significativa di difficoltà in questi domini.

Infatti, tra i sintomi secondari dell’ ADHD si possono riscontrare difficoltà relazionali, in quanto i bambini iperattivi diventano maggiormente contestatori e incapaci di comunicare in modo efficace con i pari (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

In particolare, l’ipotesi che alla base del malfunzionamento sociale vi sia una difficoltà nella gestione delle emozioni è stata testata in un lavoro precedente di Maegden e collaboratori (2000) in cui è stato esaminato come la reattività emotiva influenzi le abilità sociali nel sottotipo inattento di bambini con ADHD, comparando i risultati con un gruppo di bambini con sottotipo ADHD combinato e normali. Nell’esperimento la regolazione emotiva venne misurata secondo il paradigma di Ekman e Friesen delle display rules: regole non scritte che descrivono come dovrebbe essere espressa un’emozione in un certo contesto sociale. Al termine di questa prova veniva dato ai partecipanti un premio deludente a seguito di una performance buona (Maegden, 2000).
I risultati mostrarono che bambini con ADHD sottotipo combinato manifestavano reazioni emotive più intense (sia positive che negative) rispetto agli altri due gruppi. Questo risultato è in linea con i lavori riportati precedentemente (Forslund, 2016; Martel, 2009, Vio, Marzocchi & Offredi, 2015; Spencer, 2011). In particolare, nel momento in cui fosse ragguardevole non mostrare disappunto alla presentazione di un premio deludente, i bambini con ADHD (per entrambi i sottotipi) tentarono di regolare l’espressività emotiva, pur essendo meno efficaci dei controlli, come dimostrato da un trend (comunque non significativo) nei dati. Quindi sembrerebbe che i bambini ADHD conoscano quella che sia la regola sociale più adatta, pur faticando nell’applicarla (Maegden, 2000).

Dato che la disregolazione influenza fortemente, e direttamente, il funzionamento sociale dei bambini è necessario tenerne conto durante il trattamento del disturbo ADHD. Soprattutto poiché vi sono evidenze come il malfunzionamento sociale non si limiti all’infanzia e all’adolescenza, ma si protragga anche nell’età adulta. Infatti, si è visto come in adulti ADHD con deficit nella regolazione emotiva vi sia una più bassa qualità della vita e un peggiore adattamento sociale (maggior numero di incidenti stradali e arresti) (Spencer, 2013).

In conclusione

Dai lavori qui riportati, emerge come la regolazione emotiva sia una componente del disturbo ADHD che non può essere sottovalutata. Infatti, a livello teorico porre attenzione a questa dimensione aiuta a comprendere la natura del disturbo e la sua associazione con altre condizioni, come altri disturbi del comportamento dirompente e disturbi dell’umore.

Inoltre, nella pratica clinica, indagare questa componente può indirizzare il terapeuta a valutare il comportamento in relazione alla storia familiare e alle relazioni attuali con genitori e pari. Non solo la disregolazione delle emozioni potrebbe avere origine da come i genitori di un bambino affetto da ADHD si rapportano con quest’ultimo e intervenire su questo aspetto potrebbe prevenire il decorso del disturbo, evitando la comorbidità con altre condizioni.

Un altro aspetto importante riguarda il funzionamento sociale e relazionale degli individui affetti da ADHD. Infatti, si è visto come la regolazione emotiva abbia un ruolo diretto sul comportamento sociale disfunzionale, che si protrae anche nell’età adulta e che a sua volta può essere trasmesso alla generazione successiva.

In conclusione, grazie al crescente numero di dati riportati, la disregolazione emotiva è una componente importante nel disturbo ADHD che non può essere sottovalutata nei trattamenti poiché influenza fortemente gli individui che presentano tale problematica.

Lo psicoterapeuta in bilico (2018) di G. Salvatore – Una recensione o, piuttosto, il resoconto di una serata al pub

Cresci insieme a un collega. Lui è persino convinto che tu sia stato il suo mentore, glielo lasci credere. Ci sviluppi insieme modelli di psicoterapia, ci metti su studi professionali, ci scrivi insieme volumi tecnici. Poi vai in birreria a San Lorenzo con la lucida consapevolezza che te lo ritrovi narratore.

 

Non vai lì per mandar giù una birra artigianale dopo l’altra cercando di cancellare la delusione: ma come, era una persona seria? Ci vai perché presenta il suo primo romanzo. E ti fa piacere! A quel punto la birra è strumento di coesione sociale, se mi passate la definizione.

La saletta che ci è stata riservata si riempie rapidamente. C’è gente che rimane in piedi. Penso: figo. Dal posto in prima fila che l’autore ha riservato a me e a un pugno di colleghi del Centro TMI, sale il brusio. Il libro si chiama Lo psicoterapeuta in bilico e il pubblico rumoreggia: Cosa gli sarà passato nella mente scrivendolo? Siamo tutti curiosi. Io credo di saperlo, Giampaolo mi fece leggere il libro anni fa, in una versione precedente.

Ha organizzato tutto la collega, brava, Chiara Gambino, occhi azzurri, nata per stare sul palco, maestra di cerimonie che se la vedono in Rai il posto di presentatore del prossimo San Remo è preso. Il contrasto tra la naturalezza con cui Chiara si muove sul palco e l’impaccio di Giampaolo già vale la serata. Se non avete presente il concetto di ‘timidezza corretta’, avreste dovuto esserci, capivate un sacco di cose.

Però sul palco, come tutti i timidi corretti, Giampaolo tira fuori il suo senso dello humour campano. Si ride.

Poi le cose diventano serie. Lo psicoterapeuta in bilico è la storia di un uomo che suo malgrado è completamente identificato con il suo lavoro. Si muove nelle relazioni familiari e professionali con una specie di torpore, di indolenza che cerca di contrastare con un cinismo divertito. Nelle sue esperienze di relazione, con sua moglie, con sua figlia, con i pazienti, con i suoi allievi, si miscelano estraneità e coinvolgimento commosso. La sua esistenza in fondo minima, routinaria, colpita da ondate di nostalgia per il passato, viene interrotta dall’incontro con due personaggi: il primo è Monica. Il gioco che si crea tra Monica e il protagonista è a metà tra seduzione reciproca e competizione per il rango. Competizione per il rango è quel sistema motivazionale descritto dalla psicologia evoluzionista. In Italia ne ha parlato tanto Gianni Liotti insieme ai suoi colleghi. Si tratta di fare a gara per chi accede a risorse limitate. Chi sta più in alto sulla scala sociale mangia prima e si accoppia col partner più fico. Il protagonista e Monica gareggiano e si seducono, uno scontro simbolico. Di quelli che di solito predicono catastrofi.

L’altro personaggio è un paziente difficile, problematico ma di grande umanità e intelligenza. Questi due personaggi in un certo senso smascherano il protagonista, lo obbligano a guardarsi allo specchio, ne smontano pezzo per pezzo le sovrastrutture psicologiche e ne liberano la parte più vulnerabile e autentica.

La trama, dice l’autore, è quasi un pretesto per dialogare con sé stesso. Per Giampaolo il tema dell’inganno è centrale. Lo ritiene fisiologico. Lo pratichiamo, lo subiamo, continuamente. Anche quando ci raccontiamo cercando di farlo con la massima sincerità, nascondiamo parti di noi, e mai le stesse parti alle diverse persone che ci circondano.

Si crea una certa tensione in sala: l’idea dell’inganno connaturato alle relazioni è disturbante. Giampaolo dice più o meno che la nostra autobiografia è fatta di frammenti irregolari, che quando crediamo di poter raccontare la nostra vita in maniera precisa a fatica ci rendiamo conto che sono numerose le zone d’ombra, le cose che non sappiamo spiegare, le ragioni delle scelte e delle opportunità mancate. E forse ce la raccontiamo e la raccontiamo agli altri. Il protagonista seduce Monica o ne è sedotto. È amore o gioco di ruoli? Desiderio o rispecchiamento narcisistico? O forse, semplicemente, un antidoto al vuoto esistenziale?

La scrittura di Giampaolo funziona, e spesso è una botta nello stomaco. A tratti spiritosa, leggera, a tratti acida, aspra, al vetriolo. Vuole portare il lettore in zone dell’animo umano scomode da abitare.

La lettura di qualche brano fa da interludio alle spiegazioni di Giampaolo e al dialogo con il pubblico. Chiara chiama l’attore Christian Galizia, alto che quasi non ci sta nella nicchia che è il palco, bella voce. Incisivo, trascinante, legge il prologo:

Avevo scelto di fare lo psichiatra perché, quando mancava solo un anno alla laurea in medicina, mi ero reso conto che non ero assolutamente tagliato per fare il medico. Avevo dimenticato la medicina già mentre la studiavo. Questo perché anche se avevo superato gli esami, spesso brillantemente, non avevo mai messo piede a lezione o nei reparti. Le ore di lezione ed esercitazione le trascorrevo sui libri. Ma dove si impara veramente la medicina, manco a parlarne… Tra mezz’ora devi essere in aula; tutto quello che potevi fare l’hai fatto; testa alta, perché hai fatto del tuo meglio.

Guai a confessare a me stesso che il mio meglio avrebbe potuto e dovuto essere andare a lezione e in reparto. Il che, tra l’altro, mi avrebbe messo in condizione di superare l’esame con molta meno fatica, e di imparare davvero. Senza dimenticare. Perché quando imparare consiste in un’esperienza, non dimentichi. Invece, quando imparare è come facevo io, cioè scopare con i libri mettendoci per un po’ il sentimento, non vedi l’ora di lasciare le pagine vecchie perché hai bisogno di pagine nuove da possedere. Di spruzzare colori di evidenziatore come fosse sperma. Insomma, sei anni di medicina, quattro di specializzazione e altri quattro di training in psicoterapia. Tutto questo tempo, a conti fatti, solo per acquisire il porto d’armi su tre sillabe. “Ca-pi-sco”. Sì, perché fare lo psichiatra, e soprattutto lo psicoterapeuta, significa sostanzialmente che quando dici “capisco”, questa parola ha un impatto di gran lunga maggiore di quando la dice chiunque altro. Mentre la maggior parte delle persone di fronte alla sofferenza altrui tace o dice sciocchezze, io avrei sfoderato al momento opportuno il mio “capisco”. E avrei imparato ad avvertire nettamente – come un fremito lungo la colonna vertebrale che negli anni si sarebbe gradualmente attenuato per lasciare spazio a una consapevolezza sempre più algida – come quelle tre sillabe riuscissero a distendere i nervi del mio interlocutore. Per non parlare del potere terribile delle enfatizzazioni rafforzative: “certo, capisco”. “Capisco, capisco”. “Mi creda, capisco”. “Posso comprendere”. “Credo veramente di comprendere”. E poi, l’arma totale.

L’uzi emotivo silenziato. Dire in modo convincente a chi sta soffrendo come un cane, quasi sempre senza sapere perché, che in ciò che prova, in ciò che desidera, in ciò che pensa, e in ciò che fa, c’è sempre qualcosa di universalmente condivisibile

Che significa in bilico? Gli chiedono. Lui spiega che siamo contrasti viventi. Continuamente sospesi, tragicomicamente dicotomici.

Come Giampaolo sul palco viene da pensare: metà psicoterapeuta intellettuale, lo prendo sempre in giro perché in campo scientifico scriverebbe come i fenomenologi. Traduco in italiano: tende a usare parole con minimo cinque sillabe che di solito risultano incomprensibili. Autonoetico. Idiosincratico. L’altra metà è una sorta di Massimo Troisi, ma più muscoloso. In bilico tra Heidegger e La Smorfia.

Giampaolo mi frega. Ero venuto ad ascoltarlo, a essere fiero di lui e, naturalmente, a bere con gli amici. Invece mi invita a salire sul palco. Mica mi aveva avvisato!

In bilico tra il mandarlo a quel paese ed essere contento, salgo.

Chiara Gambino mi fa domande serie alle quali rifiuto di rispondere! Non si parla di psicoterapia stasera, ma di narrazione replico in modo definitivo. Chiara risponde qualcosa che suona come: Ah. Però è d’accordo.

Sotto la luce dei riflettori ci deve essere la scrittura di Giampaolo. Una roba che picchia dritto al fegato, spietata, come una difesa dai colpi che la vita ti assesta sul naso e tu rispondi menando più duro. E poi fa anche ridere, umorismo napoletano/salernitano DOP. Definisco lo stile di Giampaolo una miscela di Quentin Tarantino e Un posto al sole, il pubblico ride. Gli chiedo a quali scrittori si sia ispirato. E lui risponde a tono: Ho compiuto un lungo viaggio stilistico da Proust a Nino D’angelo, però non l’ultimo, quello anni ’80, quello col caschetto. Il pubblico ride ancora di più.

La domanda ripetuta, sembra che il pubblico non voglia sapere altro: Quanto c’è di te in questo libro?. Glielo chiedono in diverse declinazioni quattro volte. La risposta tenace: Le emozioni sono vere, le storie no.

Uno psicoterapeuta dosa gli autosvelamenti con sapienza, uno scrittore può mentire a piacere. Il mestiere glielo permette.

Body Shape: come la forma del corpo influenza le nostre prime impressioni

Il primo incontro con un’altra persona è un momento cruciale. Quanto ci guida la prima impressione, e soprattutto quanto è difficile cambiarla! Ma quali sono gli aspetti che guidano la nostra valutazione?

 

Le “prime impressioni” sono delle sensazioni immediate che si creano quando vediamo per la prima volta qualcosa o qualcuno. Sono spesso influenzate da una serie di fattori come, nel caso delle persone, il loro modo di comunicare, l’estetica, il modo di vestire.

Secondo una ricerca recente, tra le caratteristiche che contribuiscono alla formazione delle prime impressioni ci sarebbe la forma fisica. L’autrice Hu afferma:

La nostra ricerca mostra che le persone deducono la personalità di un’altra persona semplicemente guardando la forma del loro corpo.

È importante essere a conoscenza del fatto che questo stereotipo condiziona il modo in cui giudichiamo e interagiamo con un’altra persona.

Lo studio

Le ricerche precedenti su questo tema avevano posto l’attenzione sull’importanza dei volti e su come questi contribuiscano alla formazione delle prime impressioni, ma ben pochi studi hanno studiato la forma del corpo.

Nel presente studio si è pertanto cercato di andare oltre per comprendere che tipo di giudizio si forma dopo aver visto il corpo di una persona.

Nello studio sono stati ricreati dei modelli che rappresentavano dei corpi reali, di cui 70 erano di donne e 70 di uomini. I valori per la costruzione dei modelli sono stati selezionati in modo casuale lungo 10 dimensioni corporee differenti.

I partecipanti, 76 ragazzi universitari, hanno osservato i corpi da due differenti punti ed hanno poi selezionato per ogni corpo degli aggettivi provenienti da una lista di 30 parole. La lista era stata formata seguendo le dimensioni di personalità del modello Big Five (un modello psicologico che suddivide la personalità in cinque dimensioni).

Dai risultati è emerso che:

  • Modelli che raffiguravano corpi più pesanti sono stati associati a parole più negative, come pigrizia e non curanza, mentre corpi più snelli a parole positive, come essere sicuri di sé ed entusiasti;
  • I corpi che rappresentavano le forme classiche del corpo femminile (fianchi larghi) e del corpo maschile (spalle larghe) erano associati a termini più attivi come irritabile, estroverso;
  • Corpi con forme più rettangolari erano associati invece a termini più passivi, come timido, affidabile.

I ricercatori dopo lo studio erano in grado di predire che parole sarebbero state scelte in base alla forma del corpo.

I risultati hanno mostrato come, oltre al peso e all’altezza, le forme di un corpo giocano un ruolo fondamentale nella formazione delle prime impressioni.

Sebbene sia una tendenza universale, quanto la forma del corpo incida sul nostro giudizio dipende anche dalla cultura di appartenenza, dall’etnia e anche dall’età.

L’autrice Hu conclude:

Questi risultati sono un nuovo strato da aggiungere alla scienza che studia la formazione delle prime impressioni e rivelano quanto il giudicare sia un processo complicato e basato su preconcetti.

Cosa resta oggi dei nostri bisogni individuali? Ecco alcuni semplici consigli per gestire lo stress e tornare a riappropriarci del nostro benessere

A lungo andare situazioni di stress cronico possono recare danni permanenti alla salute dell’individuo, ciò appare particolarmente evidente nelle condizioni di burnout ed esaurimento emotivo. Diventa dunque importante chiarire quali sono i sintomi, le cause e le modalità di trattamento di queste condizioni.

 

“Riposati ogni tanto; un campo che ha riposato dà un raccolto abbondante”. Ignoriamo continuamente questo prezioso consiglio di Ovidio, specialmente nei tempi odierni, dove siamo chiamati a “dare” oltre ogni limite, costretti ad agire come robot e dove la paura di essere rimpiazzati (sia a lavoro che nelle relazioni) ha la meglio su ogni bisogno individuale.

In questo mondo, competitivo e pretenzioso, dobbiamo mostrarci forti, instancabili e pronti ad appagare le esigenze altrui. Dimenticando di avere dei bisogni, mettiamo da parte noi stessi, ci facciamo carico di responsabilità, conflitti e preoccupazioni senza poi ricevere attenzioni, riconoscimenti e affetto sufficienti. Di conseguenza, ci stressiamo.

Un lungo periodo di stress può portare ad un esaurimento emotivo: ci si sente, cioè, emotivamente logorati ed esausti. Qualcuno può percepire di non avere alcun potere o controllo su ciò che succede nella propria vita, qualcun altro si potrebbe sentire intrappolato o bloccato in una determinata situazione (Legg, 2018).

Conseguenze dello stress cronico: burnout ed esaurimento emotivo

A lungo andare, questa situazione di stress cronico può portare a danni permanenti per la salute dell’individuo. Pertanto, è di rilevante importanza chiarire quali sono i sintomi, le cause e le modalità di trattamento del burnout e dell’ esaurimento emotivo. Provare ansia e sentirsi sotto stress per alcuni giorni consecutivi è normale, il problema emerge nel momento in cui lo stress diventa cronico, con conseguenze negative sul benessere dell’individuo.

Le cause del burnout e dell’ esaurimento emotivo, oltre ad un periodo prolungato di stress, sono varie e diverse da persona a persona. Tra i trigger più comuni rientrano (Tijdink, Vergouwen & Smulders, 2014):

  • lavori altamente stressanti e inerenti la cura e la tutela di altri individui (per esempio medici, infermieri, poliziotti)
  • una carriera universitaria intensa
  • esercitare un lavoro che non piace
  • diventare genitori
  • problemi finanziari o povertà
  • essere il caregiver di una persona bisognosa
  • procedure di divorzio lunghe ed estenuanti
  • convivere con una malattia cronica

Presente tra i primi segni del burnout, l’ esaurimento emotivo mostra sintomi sia di tipo emotivo che fisico, tra cui: mancanza di motivazione, problemi di sonno, irritabilità, affaticamento fisico, sentirsi senza speranza, distraibilità, apatia, mal di testa, cambiamenti nell’appetito, nervosismo, difficoltà di concentrazione, rabbia irrazionale, aumento di criticismo o pessimismo, senso di timore e depressione (Michel, 2016).

Nell’ambito lavorativo, gli impiegati che sono sovraccarichi di lavoro ed emotivamente esausti, potrebbero iniziare a notare cambiamenti nella prestazione lavorativa come, per esempio, un peggioramento della performance, l’incapacità a rispettare le scadenze, assenteismo e, infine, una minore dedizione verso l’organizzazione/azienda (Shanafelt & Noseworthy, 2017).

Alcune strategie e piccoli accorgimenti possono aiutarci nella gestione dello stress..

Per gestire e alleviare i sintomi del burnout e dell’ esaurimento emotivo, si può iniziare con piccoli cambiamenti nella vita quotidiana.

Prima di tutto, è importante cercare di eliminare o per lo meno ridurre gli stressors (per esempio: se litighi sempre con il capo, puoi pensare di chiedere il trasferimento in un altro dipartimento).

In secondo luogo bisogna prestare attenzione alla dieta: in un periodo di stress, mangiare cibi salutari migliora la digestione, il sonno e il livello di energia e questo può avere effetti benefici anche sullo stato emotivo.

L’esercizio fisico è un’altra pratica utile per alleviare lo stress e i sintomi dell’ esaurimento emotivo in quanto l’attività fisica aumenta i livelli di endorfina e serotonina, migliorando di conseguenza lo stato emotivo.

Al contrario, l’alcol potrebbe essere causa di peggioramento dei sintomi in quanto aumenta stati ansiogeni e depressivi e interferisce con il ritmo del sonno, fattore cruciale per la salute mentale.

Momenti di pausa, una vacanza o semplicemente prendersi del tempo per se stessi può essere estremamente utile per ridurre il peso dello stress, in alcuni casi però ciò potrebbe non essere sufficiente ed è perciò importante chiedere aiuto ad professionista della salute mentale (Durocher, Marti, Morin & Wakeham, 2018).

In conclusione

Una condizione di stress, se prolungata, può condurre oltre al burnout e all’ esaurimento emotivo anche a problemi di salute che riguardano il sistema immunitario, il metabolismo e il benessere mentale.

Si tratta di condizioni trattabili, ma perchè l’intervento e il trattamento permettano davvero alla persona di raggiungere un nuovo stato di benessere è necessario definire la natura del burnout e dell’ esaurimento emotivo, informare circa i suoi sintomi in modo da riconoscerlo e prevenire ulteriori conseguenze negative.

Inconscio non rimosso (2018) di Giuseppe Craparo – Recensione del libro

Il costrutto dell’ Inconscio Non Rimosso è un’elaborazione teorica della psicoanalisi che si costituisce, in questo decisivo periodo storico-scientifico, quale fondamentale area di riflessione, elaborazione e integrazione teorico-clinica per le Scienze della Mente.

 

L’inconscio non rimosso è un tema solo accennato da Freud ma poi approfondito da studiosi post freudiani, teorici dell’Attaccamento e dell’Infant Research.

Inconscio non rimosso: storia del costrutto

Gli studiosi hanno convenuto sull’importanza che l’ inconscio non rimosso riveste sia nella comprensione della fenomenologia riferibile alle gravi psicopatologie, sia nella preziosa funzione di riformulazione della Teoria della Mente e dunque della pratica clinica. Giuseppe Craparo, coerentemente ai vari contributi, ha proposto l’ inconscio non rimosso non tanto come un nuovo costrutto teso a soppiantare l’inconscio freudiano, ma come una funzione psichica con sue caratteristiche pre-riflessive e pre-verbali.

Prima di addentrarsi nella discussione dell’ inconscio non rimosso e dunque nelle imprescindibili variazioni prospettiche della valutazione e dell’intervento clinico conseguenti, Craparo ripercorre la complessa panoramica storico-concettuale entro cui esso si inserisce. L’Autore, utilizzando una stilistica essenziale e diretta, puntuale nelle testimonianze teoriche, dispiega il composito quadro delle sue considerazioni attraverso un’equilibrata alternanza di sequenze descrittive, riflessive e dialogiche dalle quali emerge la dialettica, per alcuni ritenuta inconciliabile, tra lo sguardo clinico e quello di ricercatore.

Nella prima parte del libro, si definisce l’inconscio secondo Freud, quale istanza psichica che si contraddistingue per la sua dinamicità. Il termine dinamico, mutuato dalla fisica applicata all’inconscio, va inteso in due modi (Auchinloss, 2015): in rapporto a forze motivazionali latenti e in rapporto alla rimozione che nega l’accesso alla coscienza di rappresentazioni inaccettabili. Craparo ripercorre i numerosi sforzi compiuti, tesi a verificare l’esistenza dell’inconscio al fine di rendere dimostrabile, secondo i canoni della Scienza, ciò che sembrava relegato a un istanza più mistica che scientifica. Per i neopositivisti l’inconscio era una mera congettura che precede financo la formulazione delle ipotesi (Wittgenstein,1965. p.126). Karl Popper (1934) fu altrettanto critico: riconoscendo come criterio discriminante la Scienza dalla pseudoscienza non la verificabilità (come per i neopositivisti) ma la falsificabilità, ritiene che il limite della teoria psicoanalitica sia il fatto di sostenersi su congetture impossibili da confutare sia sul piano logico che su quello empirico.

L’ Autore riporta dunque le testimonianze degli studiosi che si sono contrapposti a Popper, sostenendo che la scientificità in una teoria dipenda tanto dalla sua attitudine a produrre nuovi modelli esegetici, quanto dalla sua capacità di reinterpretare i modelli antichi in funzione di una esperienza acquisita (Elisabeth Roudinesco, 1999, p.128). Le scienze umane, in particolare, sono tese alla comprensione dei comportamenti umani individuali e collettivi a partire da tre categorie fondamentali: la soggettività, il simbolismo, la significazione (Ib. pag.120). Una posizione questa non dissimile dai sostenitori dell’Ermeneutica per i quali la psicoanalisi non può essere associata alle Scienze Naturali ma alle Scienze Umane proprio in virtù dell’importanza accordata alla soggettività e al significato che l’individuo attribuisce alla sua esperienza e alla realtà. Agli attacchi rispetto alla scientificità della psicoanalisi, gli psicoanalisti, in generale, hanno risposto o sostenendo che essa non è equiparabile alle scienze esatte, svincolandosi dal necessità di operazionalizzazioni che sminuirebbero la complessità della psiche, oppure avvalorando la necessità di rilanciare la psicoanalisi facendola dialogare con discipline considerate scientificamente più accreditate, come ad esempio le Neuroscienze. Erik Kandel sostiene, a tal proposito, che le Neuroscienze rappresentino un’opportunità di rinnovamento sia concettuale che sperimentale.

Inconscio non rimosso e neuroscienze: è possibile un’integrazione?

Il testo Inconscio non rimosso ripercorre infatti i contributi delle Neuroscienze alla comprensione dell’inconscio e la domanda che Craparo pone è se sia utile riferirsi all’inconscio rimosso (a cui dedica la prima parte del libro) oppure sia più utile riformulare l’inconscio rimosso secondo le scoperte neurobiologiche, che lo farebbero coincidere con una memoria procedurale implicita e sostanzialmente non rimossa. Uno dei vettori critici che hanno caratterizzato il lavoro del libro è proprio diretto a comprendere se e in che modo sia possibile attuare l’integrazione delle scoperte neuroscientifiche con i principi della psicoanalisi, conferendole caratteristiche di scientificità che le sono mancate, o se questo non comporti il rischio di ibridazione del campo di indagine, con il conseguente depauperamento della conoscenza in luogo di un suo incremento.

Considerazioni teoriche si intervallano a valutazioni sul lavoro analitico: l’Autore auspica che questo si costituisca non come un mero disvelatore ma proteso alla creazione di un campo psichico che funga da contenitore, affinché si possa fronteggiare il materiale rimosso; in questo l’analista procede nel rispetto di quel punto di “opacità quale elemento costitutivo della soggettività del paziente…” che “non va abolito bensì salvaguardato”. L’opacità rappresenta la dimensione originaria su cui si organizza l’inconscio. E’ possibile verificare l’opacità e l’inconscio? Craparo risponde che l’inconscio è di per sé non verificabile, rappresentando un modo di intendere la realtà psichica, servendosi di un linguaggio specifico attraverso cui rimandare l’idea di un’Origine (una realtà ultima e inconoscibile secondo il linguaggio Bioniano); rispetto a questa non possiamo altro che operare delle deduzioni a partire dall’osservabile. Inconscio, opacità e complesso psichico non delegittimano, però, la possibilità di verificare l’efficacia della psicoanalisi.

Craparo riporta la descrizione sui tre tipi inconscio:

  • Inconscio Cognitivo, relativo ad aspetti legati a processi impliciti di elaborazione delle informazioni mentali
  • Subconscio, riproponendo dunque la teorizzazione di Janet relative alla dissociazione strutturale (disaggregazione)
  • Inconscio Rimosso nella sua natura relazionale e simbolico-verbale.

Le tecniche di Neuroimaging iniziano a consentire un sostanziale supporto all’ individuazione dei substrati neuronali di alcuni processi mentali e pertanto preziosa è anche la parte dello scritto dedicata all’esposizione delle teorie di Le Doux, Schore, Solms e Ansermet & Magistretti. I quadri esplicativi da loro proposti convergono, sostanzialmente, nel delineare la natura affettiva dell’inconscio, collocando l’inconscio rimosso nell’emisfero sinistro più che in quello destro dove, invece, si collocherebbe l’inconscio non rimosso (pre-verbale e pre-riflessivo).

Inconscio non rimosso: la concezione di Craparo

Freud aveva suggerito l’opportunità di estendere l’inconscio a una parte dell’apparato psichico più primitiva dell’inconscio dinamico che sembra essere in relazione con l’esperienza sensoriale associata alla percezione della realtà esterna. Craparo sottolinea il potenziale euristico di tale riflessione, non solo per l’articolarsi della Teoria della Mente ma anche per le conseguenti valutazioni, sul piano clinico, del trattamento delle patologie pre-edipiche. L’inconscio non rimosso disegna un nuovo vertice di osservazione, che intravede la possibilità di trattamento anche per quei pazienti (Borderline e Psicotici) nei quali, non il rimosso e il ritorno del rimosso, ma la compromissione delle capacità di mentalizzazione e di regolazione emotiva rappresentano il fulcro del loro (dis)funzionamento mentale. L’Autore si sofferma, dunque, sui modi di concepire l’inconscio non rimosso da parte di psicoanalisti di assoluto valore del passato e del presente come Jung, Bion, Matte Blanco, Sandler, Atwood, Storolow e De Masi, accomunati dal concettualizzare l’inconscio non rimosso come affettivo, pre-verbale, pre-riflessivo. Come lo interpreta Craparo? Secondo quattro aspetti fondamentali: la sua natura relazionale; la sua natura pre-riflessiva e preverbale; il suo rapporto con l’essere umano come essere parlante (parlessere); il suo rapporto con la rimozione.

Corpo e inconscio non rimosso sono significativamente interrelati, non solo per il precoce sviluppo dell’ inconscio non rimosso ma anche perché è in tale incontro che le esperienze emotive (memorie somatiche) vengono elaborate per poi passare a livelli successivi dell’apparato psichico. La maturazione dell’ inconscio non rimosso è segnata dalle esperienze infantili, in particolare dallo sperimentare una sintonizzazione adeguata da parte del caregiver. In questa prospettiva, il corpo rappresenta uno schermo in cui persistono le tracce dei vissuti sensoriali del soggetto lungo tutto l’arco della vita. Il corpo è biologico, affettivo e simbolico e questi tre modi di intenderlo non sono antinomici ma rappresentano tre lenti da utilizzare sinergicamente nell’osservazione terapeutica perché è in ognuno di essi che il paziente racconterà l’esperienza di sé, della sua realtà relazionale e della relazione terapeutica stessa.

Il mondo affettivo è inoltre regolato dall’attività onirica essendo

il sogno la via regia che conduce sia alla conoscenza dell’inconscio rimosso che dell’inconscio non rimosso.

Quando la regolazione fallisce, stati non rappresentati si veicolano attraverso il corpo, svincolati da una rappresentazione psichica che consente ulteriori elaborazioni attraverso la consapevolezza dello stato di veglia.

Lavoro particolarmente denso di contributi, la seconda parte del libro Inconscio Non Rimosso, rappresenta un ambizioso tentativo di sintesi di un quadro storico-concettuale estremante complesso. Complessità alla quale si aggiunge l’enorme quantità di informazione che la crescita esponenziale della Tecnologia e della Neuroimaging sta aggiungendo al campo ipotetico relativo funzionamento mentale. Riccardo Williams, nell’eccellente prefazione al libro, fa riferimento al rischio di ibridazione, che si corre allorquando ci si trova di fronte ad un cospicuo bagaglio di contenuti, risultante da approcci caratterizzati da svariati livelli di eterogeneità fra loro. Integrare non sempre produce un incremento della conoscenza: può comportare una perdita se si “svende” la peculiarità di un’ottica in ragione di un presunto comune denominatore.

Una visione integrata e non depauperata della conoscenza della mente è possibile? In che modo tradurre questo nel lavoro clinico-terapeutico? Secondo le mie personali riflessioni una possibile procedura per ridurre il rischio di ibridazione si potrebbe individuare in un intimo gioco delle distanze di osservazione da parte dello studioso. In una particolare critica dialettica che riflette e astrae. In terapia si tradurrebbe in una particolare dinamica che prevede un equilibrio tra simmetria e asimmetria della relazione. Questo particolare gioco vettoriale è d’altronde la modalità che caratterizza l’onestà intellettuale di Craparo. Con questo libro egli ha fornito ai lettori un’esposizione preziosa, particolarmente ricca ma non ancora satura, essendo aperta alla sfida che la costruzione di un modello integrato del funzionamento mentale richiede.

cancel