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Patrick Melrose (2018): c’è vita oltre il sarcasmo

Ultima e incredibile interpretazione di Benedict Cumberbatch, Patrick Melrose (2018) è una miniserie britannica di 5 episodi, ispirata dal ciclo di racconti dello scrittore Edward St Aubyn, I Melrose.

 

Lo scenario dipinto è quello di una ricca famiglia inglese, rappresentante perfetta di una borghesia compita, elegante e dedita all’educazione umana e culturale dei figli, ma disturbata e segretamente tollerante verso gli abusi di un padre violento, le mancanze di una madre alcolista e depressa, le derisioni di un entourage affascinato dal potere, colluso con i carnefici e dedito al sarcasmo. Protagonista è Patrick, unico figlio ed erede diseredato, vittima delle torture psicologiche e della trascuratezza affettiva dei suoi genitori.

La doppia vita della famiglia Melrose, tra l’intellettuale messa in scena e il teatro orribile delle quinte domestiche, genera una costante emozione di sconcerto, incredulità, disgusto. Il muro della negazione è spiazzante, sminuisce ogni normale e umana reazione emotiva, ed è lo stesso muro che lascia sfumare la speranza e la fiducia nel mondo di Patrick, il bambino che in quello scenario deve lottare per la sua sopravvivenza. La morte del padre apre il racconto e lancia Patrick Melrose in un turbine di ricordi, emozioni e fantasmi che da solo non riesce ad affrontare.

Patrick Melrose: una preziosa sintesi umana e clinica di come il trauma irrompe nella vita

La traiettoria evolutiva di Patrick Melrose è una preziosa sintesi – umana e clinica – di come il trauma irrompe nella vita e nella mente di un bambino, cambiandone la storia e le opportunità di crescita in modo significativo. L’alternanza narrativa tra presente e passato costituisce un breve compendio di psicotraumatologia che tutti i clinici impegnati in questo campo dovrebbero conoscere e tenere ben in mente nel lavoro clinico quotidiano, poiché ogni elemento patologico del presente rivela una sua precisa ragione d’essere che solo alla fine – e solo resistendo all’umana repulsione per quello che si vede – può essere compresa.

Il presente del Patrick adulto è interpretato maestralmente da Benedict Cumberbatch, la sua mente è colonizzata da orribili flash back, allucinazioni, droghe, relazioni instabili, estrema frammentazione dell’identità e del senso del sé; il racconto del passato è affidato invece al giovanissimo Sebastian Maltz, che con il suo aspetto esile e inerme riesce a trasmettere la vita di bambino traumatizzato, vissuta in punta di piedi, nascosto negli angoli della casa, nell’impotenza dei silenzi, nella paura e nell’impossibilità di decifrare la realtà della sua famiglia.

Per ogni clinico esperto di trauma, tutta la sofferenza del Patrick adulto ha una chiara definizione diagnostica: Disturbo Post traumatico Cronico o Trauma complesso, con sintomi dissociativi. Per chiunque guardi il film è evidente come la sua sofferenza venga dal passato doloroso e dai traumi dell’infanzia, così come risulta chiaro che le sue uniche strategie di sopravvivenza siano state cucite negli anni sui modelli disfunzionali della sua infanzia, sua madre e suo padre: alcol, droghe, seduzione, disprezzo, prevaricazione, sarcasmo.

La complessità degli effetti del trauma sulla mente, già ampiamente discussi in precedenti contributi sul tema del trauma complesso e della dissociazione, è tuttavia solo una parte della storia. Quello che la storia racconta e denuncia con forza è tutto quello che ruota intorno al trauma e che ne impedisce una risoluzione, alla fine forse più semplice di quello che si pensi: riconoscere il vissuto di Patrick, offrirgli protezione, comprendere il suo dolore e permettergli di cambiare e diventare un adulto resiliente e forte, capace di essere un padre migliore del suo e di andare oltre le ferite del passato.

Nulla è possibile finché la barriera della negazione ostacola questo cambiamento. Tutto diventa possibile quando a Patrick è offerta una possibilità sicura di mettersi in salvo.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO:

https://www.youtube.com/watch?v=JQh36eStMqk

Cosa ci insegna la storia di Patrick Melrose

La storia di Patrick Melrose non è dunque solo il racconto del suo malessere, ma è il racconto dei meccanismi più subdoli e inaccettabili della violenza domestica intrafamiliare, in cui il comportamento violento è solo la superfice di molte mancanze e inadeguatezze che ne facilitano la messa in atto da parte dei carnefici.

La segretezza è la prima: negare gli eventi, restare in silenzio, chiedere ai bambini abusati di mantenere la segretezza per avere salva la vita è la garanzia dei perpetratori per continuare ad esercitare il loro potere. Da adulti appare facile urlare, scappare via, chiedere aiuto, ma da piccoli la minaccia di un adulto stralcia ogni istinto di difesa. In ogni famiglia violenta il riconoscimento di quello che accade è l’unica via per interrompere la violenza, ma allo stesso tempo è l’elemento più grave di minaccia per la vita di tutti. Chiedere ad un bambino se è in pericolo potrebbe non ricevere la risposta utile a proteggerlo, osservarne invece i comportamenti incerti, lo sguardo spaventato, le abitudini bizzarre o la tendenza ad isolarsi può offrire le risposte che gli adulti hanno la responsabilità di accertare per comprendere cosa succede davvero nella sua famiglia.

La mancanza di protezione, e la conseguente collusione con il carnefice, è il secondo ostacolo all’interruzione della violenza. Eleanor, madre di Patrick – interpretata da una bravissima Jennifer Jason Leigh – non è abusante e risulta anzi spesso sensibile e consapevole della gravità della situazione, ma tuttavia l’alcol e la depressione la rendono cieca verso quello che accade e incapace di sintonizzarsi sui bisogni di Patrick, di difenderlo e men che mai di riconoscere i suoi segnali di stress. Il malessere della madre alimenta il senso di isolamento e abbandono, che lasciano in Patrick i segni di una profonda trascuratezza emotiva.

Questo elemento, spesso messo in secondo piano rispetto alla violenza attiva, crea in realtà il terreno più fertile per i carnefici: un bambino non protetto dagli adulti che ha intorno, è un bambino più vulnerabile e più incline a non chiedere aiuto in caso di bisogno. La responsabilità della non-protezione è cruciale, poiché toglie la speranza di essere ascoltati dall’unica fonte di sicurezza disponibile e questo distrugge la fiducia verso gli altri nel presente, così come nel futuro.

I segnali di malessere degli adulti, uomini o donne che siano, vittime di violenza domestica vanno colti e ascoltati, per aiutare tutte le vittime a restare adulti capaci di proteggere se stessi, i loro figli e di interrompere il circolo vizioso della violenza.

Nell’entourage della famiglia Melrose, gli adulti che osservano immobili vedono il malessere di Eleonor, ma tendono a colpevolizzarla, a giudicarla, a deriderla o ad osservarla con compassione, sposando una visione cupa e cinica della vita, che alla fine non aiuta nessuno. Il loro intervento non è di stimolo per Eleanor ad uscire allo scoperto e denunciare, ma certamente offre silenzioso sostegno al carnefice che acquisisce forza da chi non prende posizione contro di lui.

La confusione e l’incoerenza del contesto di vita di Patrick Melrose sono infine una trappola decisiva alla consapevolezza di quello che stava accadendo. Un contesto privilegiato, ma emotivamente trascurante. Genitori controllati e formali, ma che possono esplodere nel più imprevedibile e spaventoso dei modi. L’estrema attenzione all’etiquette, ma discorsi volgari, sessisti e umilianti di ogni genere. Per un bambino la realtà rappresentata dagli adulti che ha intorno, è semplicemente l’unica realtà conosciuta e l’unica attraverso la quale può valutare il mondo. Nessun bambino sa cosa è giusto e sbagliato, ma certamente può sentirsi minacciato.

Cosa succede nella mente di un bambino quando si sente in pericolo, ma gli adulti intorno non sembrano preoccupati per lui o peggio ridicolizzano la sua paura? Patrick ha molte emozioni negative e chiarissime sensazioni sgradevoli che vengono dal rapporto con i suoi genitori, ma non sa decifrarne l’origine poiché nessun adulto intorno a lui attribuisce a quegli eventi violenti e spaventosi un significato corretto e univoco. Al contrario il sarcasmo copre di ridicolo una richiesta di aiuto, getta nebbia sulla gravità di una violenza, minimizza i pericoli reali, propone paradossi esistenziali in cambio di spiegazioni e soprattutto: il sarcasmo non è comprensibile a nessun bambino. La soluzione possibile a questa confusione è solo una: “Se per gli altri è tutto normale, allora il problema sono io”. Colpa e vergogna vanno a rafforzare il muro della negazione, stavolta però il muro costruito è dentro la mente di Patrick e dentro ogni bambino vittima di violenza intra-familiare che “sceglie” di non chiedere aiuto e denunciare i suoi aguzzini.

In conclusione

La storia di Patrick Melrose è cruda e dura da ascoltare, ma la denuncia ad una società borghese, distratta e incapace di cogliere bisogni semplici come quelli di un bambino merita di essere ascoltata e trasmette un messaggio di forza: la mente umana ha in sé la resilienza adeguata a rispondere e adattarsi a situazioni sfavorevoli ed estreme, anche a fronte di un’infanzia molto difficile, ma uscire dall’isolamento emotivo che il trauma genera in chi lo ha vissuto è possibile solo se il mondo fuori è disposto a scegliere di non voltare lo sguardo e a non giudicare.

“Le idee sono fatte per essere cambiate.”

Paura, odio e razzismo: perchè fioriscono oggi?

Si cerca all’esterno, negli immigrati, nei migranti, negli omosessuali, nei buonisti, negli intellettuali e negli scrittori sotto scorta, la causa del proprio malcontento. In realtà la causa è dentro: le emozioni negative interne non riconosciute, come paura, tristezza e umiliazione, vengono trasformate in odio e rabbia, queste sono emozioni secondarie che ci fanno sentire forti.

 

Si suggerisce l’ascolto di Benzin dei Rammstein durante la lettura.

Paura, odio e razzismo centrali nella vita di ognuno di noi

Abbiamo tutti paura, tanta paura, viviamo in un mondo non sicuro, tutto è incerto, camminiamo sulle uova, il pericolo può arrivare da ogni parte, dallo sconosciuto tatuato, palestrato e rasato che ci cammina di fronte, dal vicino di casa, dall’immigrato che ci pulisce il vetro, dal fidanzato geloso, da chi guarda troppo o fa un complimento alla nostra donna, dal capo quando ci rimprovera, da chi non la pensa e intende il mondo come noi. Ma è veramente così? Viviamo per davvero in una favela occidentale? O è forse una rappresentazione un po’ esagerata della realtà? Una nostra percezione alterata? E se fosse così, come mai accede ciò? Chiaro che i governanti attuali giocano proprio su questo, per acquisire consensi vanno proprio a riattivare queste paure recondite. Piuttosto di parlare di sviluppo, progetti per il futuro, programmi di governo, risolvere problemi che attanagliano la nazione da decenni, ripetono invece le stesse cose risvegliando paure più antiche, più profonde. E’ tutto studiato, si toccano i giusti tasti emotivi, si toccano sempre i medesimi argomenti, quelli che vanno a ridestare angosce remote, paure che le persone provano da sempre o che non provavano più da decenni. Il popolo si sente realmente in pericolo, minacciato, vulnerabile, indifeso, e allora crede, si fida e si affida a personaggi controversi. Come mai succede questo? Proviamo a ipotizzarlo.

Paura, odio e razzismo: quando il corpo accusa il colpo

Quando il corpo accusa il colpo, il passato sembra presente, la mente crede che sia tutto vero. Aver subito maltrattamenti, essere stati umiliati, non essere stati riconosciuti nel proprio valore o nella propria identità (volevo fare il boy-scout ma mio padre ha voluto che facessi calcio e mia madre pianoforte, oppure, mi sgridavano o prendevano in giro se giocavo con le bambole), non essere stati abbastanza amati, soprattutto nella prima infanzia e nell’adolescenza, ancora peggio, aver subito violenza fisica, sessuale o psicologica per anni, proprio dalle persone che invece dovevano essere punti di riferimento sani (genitori, parenti, preti, maestre di scuola o professori delle superiori, amici di quartiere, allenatori o altri insegnati, ecc.), sono esperienze che lasciano tracce indelebili nelle memorie emotive e somatiche delle persone.

Le memorie implicite, quelle non ricordate ma presenti, guidano già nei primi dodici mesi di vita i comportamenti del bambino, sulla base della sicurezza-insicurezza percepita e dall’organizzazione-disorganizzazione delle cure parentali ricevute (Liotti, Monticelli, Fassone, 2017). Le emozioni negative provate all’epoca e tenute dentro per anni si esprimono con svariati disagi mentali tramite tante forme di somatizzazioni corporee che durano da decenni (Van Der Kolk, 2014). Le massicce emozioni negative sperimentate nel passato e mai affrontate, non elaborate, spesso si dice “rimosse”, stanno ancora tutte lì. Si possono presentare come stati di insicurezza perdurante (anche piccoli disturbi fisici), paura, confusione, malesseri psicologici di vario tipo, difficoltà enormi a fidarsi dell’altro o a vedere molti come potenzialmente minacciosi. La conseguenza è il bisogno urgente di aggrapparsi a qualcosa o a qualcuno per placare l’ansia, l’angoscia e la paura. Ci sentiamo come se fossimo in un deserto e bevessimo da una pozza d’acqua pur sapendo che può essere velenosa. Si è settati costantemente su un sistema di difesa da qualsiasi potenziale minaccia. (Liotti, Monticelli, 2014). Questo fa sì che si cerchi costantemente di vivere in sicurezza, di non subire offese o minacce, di percepirsi forti e di valore sempre e in ogni frangente, ogni insuccesso è un fallimento, una battuta diventa un’offesa imperdonabile. Mai ci si può scorgere vulnerabili, in pericolo o giudicati. Viviamo in assenza di consapevolezza, siamo così abituati a difenderci e a contrattaccare, come facevamo da bambini, che non ci rendiamo conto che l’altro scherza, che non è malevolo, non ci sta offendendo, non ci può rubare il lavoro, non è un nemico ma uno che semplicemente porta avanti la sua vita per i fatti suoi.

Paura, odio e razzismo. Ovvero progresso senza sviluppo, dentro e fuori del Sè.

I tempi di oggi, con la loro vacuità, sono orientati impetuosamente all’immagine, al potere, al possedere, all’apparire. Non si deve essere mai inferiori a nessuno, si ha la pretesa rabbiosa di ottenere soldi e successo o senza impegnarsi o non avendo talenti (oggi si ricevono più complimenti per un tatuaggio che per un risultato artistico o scientifico). Si progredisce troppo rapidamente e sempre di più, ma senza sviluppo, diceva Pasolini. E’ una corsa verso il nulla nel tentativo di riempire vuoti identitari. L’epoca frammentata di oggi è il terreno fertile ideale per alimentare e consolidare la paura di essere in pericolo o in condizioni precarie (emozioni tipiche correlate sono: ansia, panico, incertezza, insicurezza, rassegnazione, rabbia, odio) e la paura di non essere nessuno (emozioni correlate: vergogna, umiliazione, senso di inferiorità, perdita di autostima, rabbia eccessiva ingiustificata, invidia, odio, disprezzo). Si cerca all’esterno, negli immigrati, nei migranti, nei vaccinisti, nei comunisti, negli omosessuali, nei buonisti, nei piddini, negli intellettuali e negli scrittori sotto scorta, la causa del proprio malcontento. In realtà la causa è dentro, è un malessere interiore, primitivo, spesso ricevuto in eredità dai genitori, dai nonni o da chiunque abbia avuto qualche tipo di influenza nella propria vita. Le emozioni negative interne non riconosciute, come paura, tristezza e umiliazione, vengono trasformate in odio e rabbia, queste sono emozioni secondarie che ci fanno sentire forti. Quelle primarie tuttavia, spingono dal sottofondo perché sono lì da sempre. Il fatto che possa essere qualcosa che viene dai recessi della propria psiche, dai propri schemi individuali e familiari è inimmaginabile, viene tutto “proiettato” all’esterno. Gli altri sono visti come minacciosi, umilianti, pericolosi e quindi da odiare, distruggere, annientare, ridicolizzare, bisogna terrorizzarli prima che ti spaventino loro, cosa che da bambini non si riusciva o poteva fare.

E allora via a comprare pistole ad aria, coltelli e cani da combattimento, a picchiare, a minacciare, a fare i leoni da tastiera, a seminare odio, a modificare le mazze da baseball. Difficile pensare che non ci siano pericoli reali, o che sono molto esigui rispetto a ciò che si percepisce. Il pericolo è nella testa, nella rappresentazione negativa che si ha di questi “altri”, i quali diventano non una minaccia reale, ma una minaccia all’immagine di Sé: ho bisogno di sicurezza e benessere, percepisco e mi aspetto che gli altri siano minacciosi o che le risorse siano limitate, come mi è capitato spesso, mi vedo debole, impotente e provo ansia, divento allora rabbioso e metto in atto tutta una serie di comportamenti di sicurezza e di contrattacco (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Tradotto: questi tempi ambigui non mi fanno sentire al sicuro, ci sono precarietà, disoccupazione, scarsità di risorse e di valori (ma anche poco senso del sacrificio nel perseguire i propri obiettivi), qualcuno dall’alto mi convince che la colpa sia tutta dei migranti, dell’Europa o dei sinistroidi, provo ansia, paura e mi vedo minacciato, mi percepisco impotente, la paura diventa odio rabbioso e credo a tutto ciò che viene dai nostri politicanti non laureati e dalle fake news.

Credere a tutto questo mi dà un senso immediato di sicurezza, ma mi fa anche provare anche rabbia e indignazione; queste emozioni reattive mi danno forza, non mi fanno più sentire debole ma capace in qualche modo di poter reagire e fronteggiare il pericolo, con l’attacco, l’odio e il razzismo. Mi fanno anche sentire meno solo, perché ci sono milioni di “indignati” come me. Avviene tutto in un secondo, ma solo nella nostra testa e nel nostro corpo. Il Sé si percepisce vulnerabile, inferiore, in pericolo, debole, come se non potesse accedere ai frutti profumati e maturi offerti dal mondo e dalla vita, tutto per colpa dei migranti, degli abortisti, degli omosessuali e dei comunisti. Tuttavia la questione non è così semplice e riduttiva, c’è anche altro. Gestire la percezione di non valere, di non essere nessuno, avere a che fare con la paura, l’ansia, l’angoscia di un futuro incerto, che si regge su un passato individuale inconsistente e su un presente sociale che non esiste, diventa cosa impossibile da fare soli. Timonare l’incertezza, l’insicurezza personale, lavorativa, sociale, non è cosa semplice. C’è bisogno dell’Altro e degli altri.

Paura, odio e razzismo: cosa accade a Io, Noi e l’Altro.

Nel mondo animale (e anche umano) si riconosce un altro come dominante e guida. Il dramma dell’agonismo tra i membri viene risolto in questo modo, si riconosce che c’è un altro più forte, più intelligente, più abile e lo si segue. Nel mondo animale questo serve a proteggere la specie e a raggiungere una meta comune, le forze di tutti sono dirette verso un unico obiettivo, che non è più individuale ma comunitario: difesa da un nemico, da un predatore, conquista di un territorio, procacciamento (Trower, Gilbert, 1989). Nel mondo umano succede lo stesso, non siamo ancora abbastanza evoluti, il raggiungimento di un’intersoggettività affiliativa genuina ha ancora lunghi passi evolutivi (secolari) da percorrere. Chi ha subito in passato esperienze di umiliazione, di violenza, di abusi, chi in qualche modo dopo anni dagli eventi originari porta ancora dentro di se (ma non lo sa) un nucleo di inferiorità, inadeguatezza, vulnerabilità, debolezza, pericolosità ha bisogno di una guida.

Il fallimento di una riuscita relazione madre-padre-bambino, scarsa sintonizzazione, cooperazione paritetica genitori-figli e carente connessione emotiva, indispensabili nell’infanzia, portano alla “dissoluzione” più o meno prolungata (Jackson, 1884/1958) della dimensione intersoggettiva (Liotti, Monticelli, Fassone, 2017): non ci sentiamo più come gli altri ma diversi gli altri, non sono più con noi ma contro di noi. Immaginiamo questa scena: siamo al bar a prendere un caffè, entrano due uomini di colore e ordinano un caffè mettendosi al bancone affianco a noi, ci aspettiamo già, immediatamente (memorie procedurali implicite) che i nostri bisogni di sicurezza o di sentirci persone di valore vengano meno, ci vediamo deboli e inadeguati, la paura che proviamo diventa immediatamente intolleranza o peggio odio, l’odio è la risposta utile che ci fa sentire forti e al sicuro (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013). Persone lontane dal raggiungimento di una soddisfazione sentimentale o sessuale, economica, professionale o personale o che, se anche l’hanno raggiunta, devono ancora fare i conti con i piccoli e grandi traumi o con le ferite, più o meno ancora aperte, del proprio animo (Liotti, Farina, 2011) da sole non ce la fanno, ma è normale che sia così, solo che non ne sono consapevoli.

Diventa allora facile proteggersi e credere a chi parla in modo chiaro e a voce alta con un linguaggio semplice. E’ la lingua del popolo, le cose che ognuno di noi vorrebbe sentirsi dire e raccontare, giuramenti irrealizzabili di terre promesse e abbondanti, di ricchi tesori e messaggi di odio verso i nemici che impediscono che questo accada: l’Europa, i buonisti, i migranti, i comunisti. Non è più allora responsabilità di tuo padre (o di altri) che da bambino ti picchiava, ti umiliava o non ti capiva se oggi ti senti a volte strano, irrealizzato o scontento, è colpa del PD, delle ONG e di Saviano. Il senso (illusorio) di sicurezza arriva dall’alto, dal vertice politico e istituzionale, che come un padre buono e gigante, severo ma giusto fa tutto solo per il tuo bene, questo nobile fine giustifica ogni loro e tua nefandezza. Questa dimensione relazionale per così dire, verticale, soddisfa pienamente il bisogno di sentirci al sicuro, guidati e protetti da un Salvini salvifico che ci guarisce dall’ansia e dall’angoscia (trasformandole in odio) causate dal nulla, un nulla sociale, umano, culturale e valoriale in cui in realtà come disperati annaspiamo le nostre vite (le droghe, i social, i selfie, le sale da gioco, i cani e i gatti, i programmi tv spazzatura, sky, le escort, il calcio, le serie tv, i siti porno non bastano a riempire appieno la vita, ci fanno solo sentire vivi per brevi istanti).

Paura, odio e razzismo sotto c’è bisogno di appartenere e di esser visti

Vi è però un’altra dimensione molto viva e attiva da acquietare, quella che riguarda le relazioni per così dire orizzontali, sono bisogni altrettanto importanti da soddisfare, il bisogno di appartenenza (compagnia) e il bisogno di valere qualcosa agli occhi di noi stessi e degli altri (rango). Semplificando: se altri la pensano come te, sentono soddisfatti gli stessi bisogni di sicurezza, vivono gli stessi psicodrammi interni misconosciuti descritti sopra, allora ti senti meno solo, al sicuro e di contare qualcosa. Il bisogno di far parte, di essere integrati in un gruppo in cui ci si riconosce come membri, accettati, ci fa sentire persone di un certo valore, persone che contano (come quando si passeggia per strada e si salutano tante persone, quasi sempre senza dirsi nulla). Sapere che altri la pensano come noi ci fa anche sentire al sicuro, protetti dalla minaccia di subire rifiuti, umiliazioni o di rimanere soli, ci da anche la sensazione di essere protetti dal pericolo di sciagure personali, di diventare o rimanere poveri, perdere il lavoro, la casa o il partner (non importa poi se la maggior parte dei maschi italiani sperpera i propri patrimoni familiari con prostitute straniere, nelle sale scommesse e passa ore sui siti porno o sui social anziché studiare o imparare un mestiere). A maggior ragione poi, se questo senso di accoglimento viene condiviso da più della metà della popolazione italiana, guidati da un ministro senza giacca e cravatta, con la panzetta e la barba sfatta. Lo sentiamo vicino, è uno di noi e ci sentiamo vicini tra noi. Ma è un senso del Noi non genuino, si regge sulla paura ed è basato sul rango. Non è uno stare assieme autentico, è un’affiliazione illusoria, ogni opinione diversa, ogni differenza, diventa una minaccia a un senso del noi fasullo, quando invece, un senso del noi pienamente compiuto contempla la differenza in quanto occasione di crescita e di sviluppo per l’intera comunità (Liotti, Fassone, Monticelli, 2017). I seguaci dei nostri governanti non accettano il confronto, non accettano la critica, non accettano argomentazioni, rispondono con frasi fatte e illogiche (Es: “portateli a casa tua i migranti”, “rosiconi”, ecc.). Tutto diventa per loro minaccioso, il contraddittorio riapre ferite remote, traumi o vissuti irrisolti, umiliazioni antiche, frustrazioni e scontentezze attuali che, si sono originate in un oscuro e nebuloso passato individuale, e che vengono riversate all’esterno del Sé, contro poveri disperati dalla pelle scura (“lo nero periglio che vien dallo mare”, che già Brancaleone da Norcia temeva) e chiunque non confermi le loro posizioni comode e rassicuranti. Tutto è gestito dall’alto da scaltri gerarchi cialtroni (nella prima Repubblica questi avrebbero lavato le scale) ben consapevoli delle debolezze (non riconosciute, negate e rifiutate) del loro popolino impaurito e della sudditanza che provocano in esso.

Domanda: Ma allora vuol dire che la metà della popolazione italiana vive in un organizzazione psicopatologica di personalità e non lo sa?

Risposta: Non lo so, ma è probabile che valga per molti di più, non intesi come singoli, ma come popolazione, come identità culturale nazionale, che, o non esiste più, o è vittima di un cancro maligno degenerativo e inguaribile, qualcosa di simile a ciò che descriveva Thomas Mann nel Doctor Faustus riferendosi alla sua Germania degli anni ’30-40.

L’importanza della relazione terapeutica nel trattamento di pazienti psichiatrici – Report del convegno di Palermo del 29 ottobre 2018

Relazione terapeutica, empatia, ascolto, collaborazione, stile decisionale condiviso da paziente e terapeuta, non subito e non imposto: tutti elementi indispensabili per un trattamento di successo a lungo termine, attorno ai quali si gioca l’efficacia della psicoterapia e l’aderenza stessa al trattamento farmacologico, nelle patologie a carattere psicotico.

 

Questo il focus delle relazioni che si sono succedute il 29 Ottobre scorso nella cornice sontuosa del Mondello Palace Hotel, a Palermo, all’interno del Convegno dal titolo “La Relazione terapeutica in psichiatria”, promosso, tra le altre, dalla Società Italiana di Psichiatria sociale.

Un momento di alto valore scientifico utile per riflettere sull’importanza della relazione umana, prima ancora che sull’utilizzo di specifiche tecniche riconducibili a specifici orientamenti terapeutici. Emblematiche a tal proposito le relazioni di apertura dell’evento a cura di Andrea Fiorillo, Dipartimento di Psichiatria, Università della Campania “L. Vanvitelli”, Napoli e Serafino Di Giorgi, Dipartimento Salute Mentale ASL di Lecce, dedicati al ruolo della relazione terapeutica nel trattamento della schizofrenia.

In una prospettiva di psichiatria centrata sul cliente, la relazione terapeutica, elemento alla base di ogni atto medico, basata su ascolto ed empatia, svolge un ruolo centrale nel successo terapeutico, in quanto fattore aspecifico, trasversale alle differenti tecniche specifiche di un approccio, che influenza maggiormente la compliance ai trattamenti. In definitiva, è chiaro come non sia la psicoterapia con specifiche tecniche a essere efficace, quanto l’ascolto per il paziente e le sue esigenze, il suo coinvolgimento in ogni step della cura, soprattutto per gli interventi complessi, necessari in patologie gravi come la schizofrenia e il disturbo bipolare.

Un rapporto empatico e fiduciario che si salda attraverso una comunicazione aperta delle proprie esigenze, in cui la continua rivalutazione dell’efficacia dei trattamenti e delle “scelte” avviene alla luce di decisioni condivise, discusse e partecipate, nella cornice ideale di un decision making condiviso.

Esistono due tipologie di decision making clinico, parte integrante del processo di cura, che possono riguardare vari ambiti, dal lavoro alle relazioni sentimentali, alla gestione della terapia farmacologica. Da una parte le decisioni di tipo paternalistico, basate su raccomandazioni e informazioni, prese fondamentalmente dall’alto, utili in specifiche occasioni in cui, per esempio, le abilità o risorse del paziente siano lacunose, poiché questi si trova in un momento particolarmente intenso della sintomatologia, e un decision making condiviso, in cui la decisione sul trattamento deriva dalla concertazione dei punti di vista di paziente e terapeuta, e dal coinvolgimento dei familiari – sottolinea Gaia Sampogna, Andrea Fiorillo, Dipartimento di Psichiatria, Università della Campania L. Vanvitelli, Napoli – Adottare uno stile condiviso equivale a offrire al paziente la migliore assistenza, nel rispetto delle sue preferenze e valori, di modo che la responsabilità della decisione ricade tanto sull’operatore che sul paziente. È da sottolineare come le decisioni adottate utilizzando uno stile condiviso, importante per instaurare una buona relazione con i pazienti affetti da schizofrenia, si associno a un ridotto tasso di drop out e a esiti migliori a lungo termine, soprattutto in termini di funzionamento personale e sociale.

Una relazione terapeutica che diventa, quindi, asse portante dell’intera efficacia del trattamento, una fiducia da costruire con gli strumenti dell’ascolto e dell’empatia, nella co-costruzione di quelle scelte che definiscono la ri-costruzione funzionale di una vita orientata al benessere e all’accettazione, da generalizzare nei differenti contesti di vita, al di là dei limiti spaziali e temporali propri del setting terapeutico, lungo l’arco di vita della persona.

Costruire l’etica dell’intelligenza artificiale

Lo studio dei dilemmi morali risulta essere una precondizione necessaria prima dell’adozione di mezzi di trasporto autonomi guidati da sistemi di intelligenza artificiale.

 

Alcune delle più grandi compagnie tech al mondo, sviluppatrici di automobili, come Google, Uber e Tesla, stanno programmando veicoli in grado di muoversi e viaggiare senza guidatore con l’idea che questi possano, in futuro, migliorare la sicurezza su strada riducendo gli incidenti e facilitare il traffico automobilistico.

L’idea di facilitare il traffico automobilistico e ridurre gli incidenti inevitabilmente comporterà l’utilizzo dell’ intelligenza artificiale (AI) nei dispositivi elettronici dei veicoli, ma soprattutto porterà con sé delle implicazioni etiche di non facile soluzione: infatti verrà richiesto ai sistemi di intelligenza artificiale di trovare compromessi tra pericolo per i passeggeri dell’auto o per i pedoni sulla strada e risolvere quindi al momento potenziali rischi tramite processi di valutazione e decision-making.

La risoluzione di dilemmi morali sarà pertanto affidata ad algoritmi nonostante molti si sono dimostrati contrari e poco fiduciosi all’idea che sia un algoritmo a prendere decisioni sulla vita e sulla morte propria e altrui senza che vi sia alcun parere o intervento umano a riguardo (Awad, Dsouza, Schulz, Rahwan et al., 2018).

In questo contesto, lo studio dei dilemmi morali risulta essere una precondizione necessaria prima dell’adozione di mezzi di trasporto autonomi.

Intelligenza artificiale e dilemmi morali: l’esperimento della “Moral Machine”

A tal proposito, alcuni ricercatori appartenenti al Media Lab del Massachussets Istitute of Technology, del dipartimento di Biologia Evolutiva dell’università di Harvard e del dipartimento di Psicologia dell’University of British Columbia di Vancouver, hanno incominciato ad approfondire sperimentalmente il tema della moralità e delle modalità attraverso le quali gli individui selezionano e scelgono un’azione “morale” in diverse combinazioni di scenari, che potrebbero verificarsi anche nella quotidianità, in cui veicoli, passeggeri e pedoni entrano in collisione e in cui si verifica inevitabilmente la morte dei primi o di quest’ultimi.

Attraverso l’analisi di risposte ottenute tramite survey online a cui hanno partecipato circa 3 milioni di persone in tutto il mondo, Awad, Dzousa, Shultz e colleghi (2018), nel loro studio intitolato “The Moral Machine experiment” apparso su Nature, hanno rivelato una variazione culturale nei principi morali che guidano la presa di decisioni morali ed etiche nei guidatori, sfatando il concetto di un’universalità dei principi in culture estremamente differenziate ed eterogenee quando si tratta di dilemmi morali.

Lo studio ha osservato come le preferenze rilevate dalla “Moral Machine” siano altamente correlate con le differenze culturali ed economiche tra i paesi.

In particolare i ricercatori hanno mostrato come le risposte date dalle persone in 233 paesi possono essere divise e categorizzate in modo sommario in tre grandi gruppi o cluster: il primo contiene il Nord America e la maggior parte delle nazioni europee e altri paesi in cui il cristianesimo storicamente ha prevalso e tuttora è presente (Cluster Nord), il secondo è costituito dai paesi dell’Est come il Giappone, l’Indonesia e il Pakistan in cui è presente una forte tradizione sia musulmana che confuciana (Cluster Est), mentre il terzo include l’America Centrale e Meridionale, la Francia e i paesi ex colonie francesi (Cluster Sud).

Alla domanda “Cosa dovrebbe fare il guidatore della macchina, travolgere tre pedoni uccidendoli o salvare loro la vita a scapito della propria?” (la macchina inevitabilmente andrà a finire contro un blocco di cemento), coloro che sono stati raggruppati nel Cluster Sud mostravano una maggioranza di risposte che tendevano a risparmiare dalla morte ad esempio i pedoni più giovani rispetto al Cluster Est; oppure il Cluster Sud esibiva una minor attitudine nel risparmiare la vita ad animali rispetto agli altri due Cluster.

È importante notare che nelle varie combinazioni degli scenari morali infatti le caratteristiche dei pedoni si modificavano per età, genere, status sociale, chi partecipava al gioco poteva mettere in atto delle strategie che potevano focalizzarsi su nove fattori: risparmiare la vita di persone versus quelle di animali, salvare quella dei passeggeri dell’auto a discapito di quella dei pedoni, risparmiare i più giovani rispetto agli anziani, donne (anche in gravidanza) rispetto a uomini e quelli con status sociale più elevato e così via.

In conclusione

L’esperimento della “Moral Machine”, ancora in corso, rappresenta il primo esempio di ricerca sperimentale in grado di raccogliere e poi categorizzare in tre macro cluster, con analisi all’avanguardia, un campione proveniente da tutto il mondo, ampissimo e assai eterogeneo per religione, educazione, cultura, con il fine di identificare i mediatori culturali e demografici delle preferenze morali per la risoluzione di dilemmi etici.

Gli autori si augurano che la raccolta di queste preferenze in futuro potrebbe contribuire allo sviluppo di principi globali e socialmente accettati per la costruzione di “Macchine Morali” in grado autonomamente di risolvere dilemmi seguendo le aspettative sociali, economiche, demografiche e culturali dell’intera area pubblica in cui vengono progettati, all’incirca come accade per i cittadini che guidano per le strade.

La diffusione del panico nella folla: l’importanza del fenomeno nella medicina delle catastrofi

Il panico rappresenta una paura esasperata che conduce verso comportamenti afinalistici. Se la paura costituisce una reazione vantaggiosa per la preservazione della specie e dell’individuo, il panico, al contrario, non avendo una funzione specifica né di tutela del singolo né di risposta ad un evento avverso, può sfociare in comportamenti deleteri per l’individuo stesso e per il suo entourage.

Monica Patetta, Marco Tanini, Simona Leone

 

Una catastrofe è sempre grave, improvvisa e imprevista e la sua gravità è misurata con parametri quantitativi (Ligi, 2009).

Secondo la definizione delle Nazioni Unite, una catastrofe o disastro è “un evento concentrato nel tempo e nello spazio, nel corso del quale una comunità è sottoposta a un grave pericolo ed è soggetta a perdite dei suoi membri, o delle proprietà o dei beni, in misura tale che la struttura sociale è sconvolta e risulta impossibile lo svolgimento delle funzioni essenziali della società stessa” (Scandone, Giacomelli, 2015).

Esistono molteplici classificazioni di disastri e catastrofi a seconda del parametro preso in considerazione: numero delle vittime, fattori scatenanti configurazione geografica ecc…

Prozeski nel 1979 classifica i disastri in base all’entità (piccola, media o grande) al totale delle persone coinvolte (tra 25 e 99, tra 100 e 999 o più di mille) e al numero di pazienti che necessitano di trattamento ospedaliero (tra 10 e 49, 50 e 249 o maggiore di 250).

I comportamenti collettivi

Per un’analisi efficace dei fattori di una catastrofe e per la sua gestione, non possiamo prescindere da una valutazione di tipo filosofico, sociologico e antropologico dei meccanismi che sono alla base dei comportamenti collettivi.

Per comportamento si intende l’insieme delle risposte che un organismo animale dà in conseguenza di uno stimolo esogeno e/o endogeno. Il comportamento può essere individuale o collettivo (Moro, 2003). Secondo Smelser il comportamento collettivo (Smelser, 1968) è caratterizzato da una risposta spontanea e non strutturata di un gruppo di persone quale reazione nei confronti di una situazione di incertezza o di minaccia.

Parlando di medicina delle catastrofi i comportamenti collettivi sono definiti adatti quando la struttura di quel gruppo sociale sopravvive o è in grado di riorganizzarsi oppure comportamenti collettivi inadatti, quando una risposta illogica e irrazionale produce conseguenze pericolose per la sicurezza delle vittime e degli stessi soccorritori. Tra i più significativi troviamo il panico (Cuzzolaro, Frighi 1991).

Goode ha stabilito una classificazione dei comportamenti collettivi secondo otto prospettive teoriche (Goode, 1978, 1990). Se ne prenderanno in considerazione in questo contesto solo quattro: la teoria del contagio, la teoria della convergenza, la teoria della norma emergente e la teoria del valore aggiunto.

La teoria del contagio, che si ispira a Le Bon (Le Bon, 1979), rappresenta la prima di tali prospettive e mette in evidenza quanto i comportamenti collettivi tendano ad essere uniformi: protetto dall’anonimato della massa anche l’individuo più flemmatico può diventare audace ed irruente, agendo per imitazione o suggestione. L’assenza di un controllo diretto e la formazione di una massa “critica” costituitasi casualmente, aumenta il senso di deresponsabilizzazione, portando all’azione collettiva. Quando la frenesia della massa si propaga e diventa collettiva si parla di contagio sociale.

Secondo la teoria della convergenza individui inclini al medesimo atteggiamento, che si ritrovino nella medesima condizione tenderanno verosimilmente ad assumere il medesimo comportamento collettivo, anche qualora questo fosse aggressivo, prevaricatore o distruttivo.

Queste teorie suppongono che il comportamento collettivo abbia in sé delle connotazioni negative in violazione di norme consolidate.

Turner e Killian (Turner e Killian, 1957, 1987), con la teoria della norma emergente, ipotizzano la costruzione di nuove norme comportamentali, plausibili, ammissibili ed attuabili, a partire da un rimodellamento della norma preesistente, nel momento in cui questa appaia obsoleta o inadeguata o ambigua. Gli individui inseriti in una determinata situazione riscriverebbero la norma comportamentale fondendola con la norma precedente e con la propria opinione personale.

Per quanto riguarda inoltre la teoria del valore aggiunto, attribuibile a Smelser, un comportamento collettivo si verificherà solo e soltanto al realizzarsi in sequenza di determinate condizioni, vale a dire:

  1. presenza di una situazione che permetta o promuova un determinato comportamento
  2. ansietà diffusa causata dall’incertezza che diventa problema da risolvere
  3. presenza di credenze o “sentito dire”, per cui agire in uno specifico modo
  4. intervento di fattori precipitanti
  5. intervento di un leader che promuova la mobilitazione
  6. mancanza o eccesso di controllo sociale

Se la sequenza viene interrotta per la mancata realizzazione di una delle condizioni, secondo Smelser il comportamento collettivo non sarà presente.

Nel comportamento collettivo si individuano 3 emozioni fondamentali: paura, ostilità, gioia (Lofland, 1985) preceduti nel caso di una situazione catastrofica dalla sorpresa.

La paura

La paura è una emozione derivata dalla percezione di un pericolo, reale o presunto; si tratta di un’emozione primaria, condivisa con molte specie animali, che ha come unico obiettivo la sopravvivenza dell’individuo o della specie (Oliviero Ferraris 2013).

La reazione di attacco e fuga, innescata dalla paura è una risposta ancestrale vantaggiosa per l’evoluzione, chiamata anche reazione da stress acuto e descritta da Walter Cannon (1929).

Cannon teorizza che gli animali compreso l’uomo, reagiscono alle minacce del mondo esterno con una scarica generale del sistema nervoso simpatico.

Molti ricercatori nel corso degli anni si sono dedicati allo studio delle emozioni, partendo da Cannon (1927), Bard (1934), Schachter e Singer (1962), fino ad arrivare a Zajonc e Sherer (1984).

Per sua natura, la reazione di attacco e fuga scavalca la mente razionale, l’organismo si muove in modalità “attacco” e il mondo viene percepito come minaccioso (Nardone, 2016).

Nel suo lavoro del 2007, Porges analizza i meccanismi ancestrali delle reazioni umane ascrivibili all’attivazione delle due branche del sistema nervoso autonomo: il sistema simpatico, la cui attivazione è generata dalla dismissione in circolo di adrenalina e noradrenalina che causano le reazioni di “fight or flight” (lotta e fuga), e quello parasimpatico, attivato dall’acetilcolina, che provoca le risposte “rest and digest”, cioè di rilassamento fisiologico. Lo studio di Porges presuppone che la componente parasimpatica sia distinta in due parti: la branca vago-ventrale sarebbe attiva in situazioni percepite come relativamente sicure, producendo uno stato di tranquillità mentre la branca vago-dorsale si attiverebbe in situazioni percepite come rischiose per la vita dell’individuo, producendo tramite un crollo del tono vagale uno stato di catalessia e di “morte apparente” provocato dall’ipotonia muscolare. Questa reazione, che ci deriva dai rettili, è un ricordo ancestrale vantaggioso dal punto di vista evolutivo. La neurocezione è il processo neurale che coinvolgendo il lobo temporale e il sistema limbico è in grado di soppesare gli stimoli ambientali distinguendone la pericolosità e dunque discriminando fra quale delle tre reazioni sia la più idonea in un determinato contesto (Porges, 2001).

Il panico

Pànico (agg. e s. m. dal lat. panĭcus, gr. πανικός , derivato dal nome del dio Πάν, Pan): 1- nella mitologia greca Pan era il dio delle montagne e della vita agreste, patrono del riposo meridiano; in particolare, era detto timor panico, terrore panico quel timore misterioso e indefinibile che gli antichi ritenevano cagionato dalla presenza del dio Pan. 2- s. m. Senso di forte ansia e paura che un individuo può provare di fronte a un pericolo inaspettato, e che determina uno stato di confusione ideomotoria, caratterizzata per lo più da comportamenti irrazionali: farsi prendere, lasciarsi vincere dal panico. In particolari situazioni, tale reazione può diffondersi rapidamente tra più individui di una folla, dando luogo a fenomeni di panico collettivo: la folla è fuggita in preda al panico; lo scoppio improvviso ha suscitato il panico del pubblico. Anche, psicosi collettiva provocata dal diffondersi di notizie allarmanti: il crollo delle azioni ha fatto nascere il panico nell’ambiente della borsa; le notizie sull’epidemia hanno diffuso il panico nella popolazione.

La debolezza dei comportamenti di crisi, sottolineata da alcuni autori, è legata alla destrutturazione del corpo sociale, anziché alla sua mobilitazione. La manifestazione limite di questi comportamenti è rappresentata dal panico, che si palesa quando un corpo sociale percepisce l’aleggiare di una minaccia aspecifica, ardua da individuare e conseguentemente da affrontare.

Il panico rappresenta la reazione ad una catastrofe, sia essa naturale, come un terremoto o un’alluvione o un tornado, che di origine antropica, quale un incidente aereo, il collasso di una diga o un incendio.

Secondo Touraine il comportamento di crisi decompone il gruppo e lo sostituisce con una folla incapace di decisioni finalizzate, in cui ogni singolo individuo agisce solo per la propria salvaguardia.

È a questo punto che entrerebbe in gioco la figura del leader, il quale, secondo le opinioni di Le Bon e Freud, imporrebbe il suo dominio non tanto sulla totalità degli individui, quanto sul singolo.

Il panico rappresenta quindi una paura esasperata che conduce verso comportamenti afinalistici; se la paura costituisce una reazione vantaggiosa per la preservazione della specie e dell’individuo, il panico, al contrario, non avendo una funzione specifica né di tutela del singolo né di risposta ad un evento avverso, può sfociare in comportamenti deleteri per l’individuo stesso e per il suo entourage.

Il panico è una situazione senza via di scampo, in cui prevale una sensazione di ineluttabilità. Nella realtà delle cose il panico scoppia solo se c’è la percezione di un grande pericolo per sé o altre persone vicine, se il salvataggio è visto come possibile, ma le vie di fuga e le opzioni sono limitate e quando l’individuo si lascia sopraffare da una sensazione di impotenza e incapacità di evitare il pericolo in altri modi.

La paura, nonostante sia una motivazione forte, non porta necessariamente a comportamenti di panico in situazioni di disastro e di emergenza. (Lavanco 2007)

Al contrario: soprattutto durante situazioni estreme gli esseri umani hanno fondamentalmente un atteggiamento prosociale, solidale, generoso e disponibile.

Questo vale ancora di più se le altre persone coinvolte non sono estranee. Il “fattore sociale”, pertanto, può effettivamente diventare un pilastro della cultura della sicurezza operativa.

Conclusioni

Il numero delle vittime di un disastro può essere ridotto attraverso la conoscenza, da parte della popolazione esposta al rischio, di misure comportamentali da adottare al verificarsi dell’evento disastroso, finalizzate a ridurre la distruttività e i danni personali.

La diffusione di tali informazioni riduce l’evoluzione dei fenomeni negativi di origine psicologica che caratterizzano le grandi emergenze (es. panico). Considerazioni come queste non vanno trascurate in quanto, soprattutto nei luoghi affollati, l’ipereccitazione o l’apatia possono generare morti e pericoli in quantità superiore rispetto a quelli dovuti all’agente causa dell’emergenza.

Il panico, seppur preceduto dallo svilupparsi di un’intensa paura, può scatenarsi improvvisamente e propagarsi velocemente per imitazione o subalternità. In queste situazioni ci si aspetta di riscontrare il dissolversi della coscienza individuale accompagnata da alterazioni delle percezioni e del giudizio, regressione, suggestionabilità, impulsività, gregarismo acritico con adeguamento automatico al movimento degli altri, sentimento di appartenere a una potenza oscura e partecipazione violenta senza responsabilità. Se tutto ciò dipinge efficacemente quello che ci si attende da una reazione di panico collettivo, occorre prestare attenzione a non generalizzare quest’immagine come l’unica capace di descrivere ciò che accade in una folla durante una situazione di emergenza. Vi è, infatti, un’altra reazione, ben più pericolosa e insidiosa che viene troppo spesso sottovalutata: la negazione del pericolo.

Si può pensare di limitare i danni derivanti dalla folla colta dal panico solo attraverso un meccanismo di prevenzione che si basa principalmente sulla diffusione di informazioni esatte, sui pericoli che si possono presentare nei diversi tipi di catastrofi e sul comportamento da adottare in tali circostanze.

La scienza che allunga la vita (2017) di Elissa Epel ed Elisabeth Blackburn – Recensione del libro

Il libro La scienza che allunga la vita. La rivoluzione dei telomeri della psicologa esperta di stress Elissa Epel e della biologa molecolare premio Nobel Elisabeth Blackburn è un libro originale e pioneristico perché presenta in maniera divulgativa la recente scienza dei telomeri ovvero come fattori, tra i quali l’atteggiamento psicologico, lo stress cronico, l’alimentazione, il sonno e l’attività motoria, impattano direttamente su particolari strutture cromosomiche che determinano la nostra qualità ed aspettativa di vita.

 

Il libro, unico nel suo genere, è importante anche perché sancisce dal punto di vista letterario la nascita di un nuovo settore della psicologia: la Psicologia Epigenetica.

La scienza che allunga la vita. La rivoluzione dei telomeri è un libro scritto a quattro mani da due eminenti scienziate: il premio Nobel Elisabeth Blackburn, pioniera dello studio di particolari strutture biologiche considerate fondamentali per la longevità delle cellule (i telomeri), e la psicologa esperta di stress cronico Elissa Epel che ha avuto l’innovativa idea di esplorare l’impatto di alcuni aspetti psicologici sui telomeri.

Il libro è un testo ambizioso e complesso ma scritto con un linguaggio molto accessibile che descrive il clamoroso lavoro scientifico relativo ai telomeri accumulato soprattutto nell’arco degli ultimi due decenni.

Cosa sono i telomeri e perché sono tanto importanti?

Nel settore strettamente biologico i telomeri hanno rivoluzionato il concetto di invecchiamento cellulare perché le ricerche hanno identificato che queste strutture, che si trovano alle estremità dei cromosomi (i “contenitori” del DNA), rappresentano il nostro “orologio” biologico cellulare.

In altre parole, i telomeri sono l’indicatore di longevità e d’invecchiamento cellulare più affidabile attualmente conosciuto.

Queste strutture sono filamenti di DNA che non vengono mai espressi dalla cellula (quindi che non vengono mai “tradotti” in aminoacidi), che mano a mano si accorciano, per effetto del processo stesso di duplicazione, arrivando ad un numero massimo di duplicazioni (il cosiddetto limite di Hayflick). Quando questo numero massimo viene raggiunto, i telomeri sono talmente corti che non garantiscono più la capacità strutturale a tutto il resto del cromosoma determinandone il suo disfacimento.

Spesso, per far capire la funzione e la struttura dei telomeri, si utilizza la metafora dei terminali di plastica dei lacci delle scarpe che, se integri, garantiscono a tutto il laccio di essere usato propriamente ma, se si deteriorano, determinano lo sfilacciamento progressivo del tessuto che costituisce il laccio stesso.

In questa metafora il laccio rappresenta i nostri cromosomi ed il loro sfilacciamento raffigura il progressivo processo di senilità e di morte cellulare.

La cosa interessante è che se è vero che nasciamo con una determinata lunghezza di questi terminali, che si accorciano progressivamente durante il processo di sviluppo e manutenzione cellulare, è anche vero che la velocità relativa il “consumo” telomerico è estremamente variabile e dipendente da vari fattori.

Il libro La scienza che allunga la vita della Epel, che ho il piacere di conoscere personalmente, e della Blackburn identifica con rigore scientifico i fattori che impattano su questo “consumo” telomerico influenzando la longevità dell’organismo e la sua vulnerabilità nello sviluppare malattie croniche.

La grandezza della variabilità dell’accorciamento telomerico è molto elevata e dipende appunto da vari fattori che sono trattati ampliamente nel libro perché influenzano il funzionamento delle “macchinette” biologiche enzimatiche, la telomerasi, deputate a ricostruire i telomeri contrastandone almeno in parte il consumo.

Ritornando alla metafora dei lacci delle scarpe, gli enzimi della telomerasi potrebbero rappresentare dei piccoli sistemi che aggiungono minuscoli pezzettini di plastica ai terminali determinandone una maggiore vita (longevità) residua. A livello di processi biomolecolari questi speciali enzimi ricostruiscono frammenti di DNA aggiungendoli alle sequenze di basi che costituiscono i telomeri.

L’invecchiamento cellulare determinato dalla lunghezza dei telomeri ha quindi una proprietà “plastica” nel senso che può essere accelerato o rallentato in base alla tipologia di esperienza epigenetica che influenza la telomerasi e, in ultima analisi, i telomeri.

Il contributo originale del libro

Lo sforzo delle due autrici del libro La scienza che allunga la vita è quello di far capire quanto, ed in che modo, possiamo impattare sulla velocità di questo “consumo” telomerico. L’intento delle due scienziate è rendere maggiormente consapevoli le persone che dalle scelte quotidiane che facciamo deriva un determinato funzionamento che influenza la velocità di consumo dei nostri telomeri e, ad un livello più “macro”, la nostra longevità e qualità di vita.

Come espresso chiaramente nel testo il processo di senescenza rappresentato da telomeri molto corti dà l’avvio ad una dinamica che conduce a maggiori problemi infiammatori e relativi lo sviluppo di possibili cellule tumorali che sono espressi nella migliore delle ipotesi con una diminuzione della qualità di vita e nella peggiore con un’aspettativa di vita residua molto breve.

Il grande contributo di questo libro è aver stabilito come anche l’aspetto psicologico contribuisce a determinare ed influenzare la dinamica dei telomeri in misura molto significativa.

Naturalmente già si sapeva che un certo tipo di alimentazione, l’attività motoria o la qualità del sonno hanno un impatto (positivo o negativo) sulle nostre cellule e, nel lungo termine, sulla nostra salute e longevità, ma il libro contribuisce aggiungendo a questa conoscenza già assodata due elementi fondamentali ed inediti.

Il primo elemento è rappresentato dall’aggiungere il punto di vista epigenetico e quindi il dettaglio dei processi biomolecolari attraverso i quali avvengono queste dinamiche provenienti da percorsi causali almeno in parte indipendenti (alimentazione, sonno, movimento, aspetti psicologici, etc.).

Il secondo punto cardine è l’introduzione della connessione assolutamente inedita tra i fattori psicologici e la lunghezza dei telomeri: il personale modo di gestire lo stress, la frequenza nel praticare la meditazione, l’atteggiamento ottimistico/pessimistico, la percezione del supporto sociale, sono solo alcuni esempi delle modalità psicologiche che determinano in modo specifico e molto significativo l’accelerazione od il rallentamento dell’invecchiamento cellulare, definendone la longevità residua.

Quest’ultimo messaggio, relativo l’impatto psicologico sulle dinamiche epigenetiche cellulari telomeriche, è una delle caratteristiche forse più originali del libro perché oltre ad essere del tutto nuova è anche ricca di profonde implicazioni cliniche e legate al benessere personale.

Per questo motivo questo libro può essere considerato anche la pietra miliare di un nuovo settore della psicologia scientifica: la psicologia epigenetica ossia lo studio scientifico dell’influenza dei fattori psicologici (cognitivi, emotivi e motivazionali) sui processi epigenetici che consistono nella selettiva espressione del nostro patrimonio genetico.

Qual è dunque il messaggio fondamentale de La scienza che allunga la vita?

In estrema sintesi il messaggio principale del libro La scienza che allunga la vita è il maggiore controllo (e la conseguente maggiore responsabilità individuale e sociale) che possiamo esercitare dalla consapevolezza delle nostre scelte quotidiane sui fattori (psicologici, motori, nutrizionali, sociali, etc.) che ormai sappiamo influenzare direttamente l’invecchiamento del nostro organismo e la qualità della nostra vita.

La Dott.ssa Epel, durante una recente intervista mi ha risposto:

…penso che se le persone fossero più consapevoli che la nostra biologia sia plasmabile dalle esperienze che conduciamo allora di conseguenza avrebbero una maggiore percezione sulla capacità di controllo sulle loro vite, sulla loro salute mentale, sulle esperienze che scelgono di vivere e sulle loro scelte di vita.

Personalmente raccomando la lettura del libro La scienza che allunga la vita. La rivoluzione dei telomeri a tutti coloro (professionisti o meno) che sono interessati al benessere psicofisico e che apprezzano la preziosa, e a tratti rivoluzionaria, visione scientifica ricca di molteplici implicazioni legate al benessere personale.

HIV e disturbi neurocognitivi

Il virus dell’ HIV entra molto precocemente nel Sistema Nervoso Centrale dopo l’esposizione iniziale. E’ stata riscontrata la presenza di HIV-RNA (che indica la replicazione del virus) nel liquor cefalorachidiano già dall’ottavo giorno dopo l’infezione.

 

Uno dei maggiori ostacoli all’eradicazione del virus HIV è legato proprio all’abilità di tale virus nello stabilire un’infezione latente nei macrofagi, che sono resistenti all’effetto dannoso del virus e persistono nei tessuti per lungo tempo, supportando la replicazione virale e contribuendo in tal modo alla patogenesi della malattia.

Studi condotti in vivo hanno dimostrato la presenza di macrofagi infettati da HIV in tutti i distretti corporei, al punto di definirli come il principale bersaglio di HIV. In particolare, a livello del Sistema Nervoso Centrale (SNC), i macrofagi infettati da HIV rappresentano più del 90% del totale delle cellule infettate dal virus.

E’ stato dimostrato infatti che i macrofagi infetti attraversano facilmente la barriera ematoencefalica, e tendono a migrare con buona efficienza nei tessuti cerebrali, trasmettendo quindi l’infezione alle altre cellule ad essa suscettibili, specialmente le cellule della microglia.

L’enorme danno provocato da HIV a livello del SNC è mediato non tanto dall’infezione diretta dei neuroni, quanto dalla produzione da parte dei macrofagi infettati di citochine, definibili come neurotossine, a loro volta aventi azione tossica nei confronti sia degli astrociti sia dei neuroni.

Un elemento di particolare importanza è rappresentato dai macrofagi cerebrali cronicamente infettati, che possono rimanere vitali per molti mesi, e quindi rilasciare abbondanti quantità di virus nel tessuto cerebrale e nel liquor.

HIV e patologie neurologiche

La lunga sopravvivenza determina la comparsa, negli anni, di patologie neurologiche subliminali. La terapia dell’infezione da HIV, pertanto, deve tenere conto della presenza di virus attivamente replicante nel Sistema Nervoso Centrale e delle conseguenze che ciò comporta; l’approccio terapeutico deve essere mirato anche all’inibizione del virus nel Sistema Nervoso Centrale (e non solo a livello sistemico), agendo con farmaci che siano attivi sui macrofagi e siano anche in grado di oltrepassare con successo la barriera ematoencefalica. Quindi, anche se HIV non infetta direttamente i neuroni, l’infezione cronica del Sistema Nervoso Centrale è in grado di innescare una cascata di eventi che può portare ad alterazioni funzionali e a morte neuronale.

Il corrispettivo clinico è rappresentato dai cosiddetti disturbi neurocognitivi HIV-associati (HIV Associated Neurocognitive Disturbances, HAND) che sono classificati in tre livelli:

  • la forma asintomatica (asymptomatic neurocognitive impairment, ANI)
  • la forma lieve (mild neurocognitive disorder, MND)
  • la forma moderata-grave (HIV-associated dementia, HAD).

Sia la forma asintomatica (ANI) sia le forme clinicamente manifeste (HAD,MND) si definiscono come decadimento delle funzioni cognitive, confermato con esame neuropsicologico, in assenza di altra patologia in grado di spiegare il quadro clinico. E’ quindi fondamentale, per un corretto inquadramento diagnostico, sottoporre il paziente sieropositivo ad esame neuropsicologico.

HIV: l’esame neuropsicologico per le funzioni cognitive

L’esame neuropsicologico in HIV è composto da una valutazione clinica per l’individuazione di deficit neurocognitivi associati a patologia della struttura cerebrale.

Esso consiste nella raccolta di informazioni sia soggettive, fornite dal paziente e soprattutto da familiari o conoscenti, sia oggettive ottenute mediante la somministrazione di una batteria specialistica di test neurocognitivi per accertare lo stato mentale generale e l’efficienza delle singole funzioni mentali superiori (attenzione, memoria, percezione, linguaggio, prassie, funzioni esecutive).

L’architettura cognitiva è composta da varie funzioni, alcune delle quali possono essere classificate come diffuse, non essendo localizzabili in specifiche aree cerebrali (memoria, attenzione, funzioni esecutive), altre possono essere invece classificate come localizzate in aree cerebrali più o meno ben definite (linguaggio, calcolo, abilità prassiche, funzioni motorie fini).

Dal punto di vista clinico MND e HAD sono caratterizzate da un profilo neuropsicologico di decadimento sottocorticale. La compromissione sottocorticale è caratterizzata da precoce rallentamento dei processi cognitivi e da rallentamento delle risposte motorie (bradifrenia). Può essere presente apatia. Tipicamente vi è assenza di disturbi considerati “corticali” come agnosia, afasia, aprassia. L’esame neuropsicologico in ambito delle patologie HIV-associate deve essere condotto mediante una batteria di test che esplori almeno cinque aree cognitive, come attenzione e velocità del processamento delle informazioni, funzioni esecutive, apprendimento e memoria verbale, produzione e fluenza verbale, velocità e controllo motorio fine, comprendendo almeno due test per area cognitiva.

HIV: test neuropsicologici consigliati

Di seguito, esempi di test neuropsicologici consigliati, divisi in aree cognitive:

  • per lo studio delle funzioni esecutive e di controllo: Trail Making A, Digit span (ripetizione diretta)e Digit symbol – Test dei cubi di Corsi;
  • per la valutazione della flessibilità cognitiva: Trail Making B, Test di Stroop (interferenza colori-parole), Digit span (ripetizione inversa), fluenza verbale (categorie fonemiche) e prove di astrazione e generalizzazione dei concetti;
  • per la valutazione di memoria e apprendimento: il Test della Lista di parole di Rey, il Test della Figura Complessa di Rey (rievocazione) e il Test di memoria di prosa (ripetizione immediata e differita);
  • per le abilità fini motorie (velocita di esecuzione): Grooved pegboard test (mano dominante) e Grooved pegboard test (mano non dominante);
  • per la valutazione delle abilità visuospaziali e costruttive: il Test della Figura Complessa di Rey (copia).

Per le situazioni nelle quali non fosse disponibile l’esame neuropsicologico sono state proposte delle scale semplificate, come la HIV Dementia Scale e la International HIV Dementia Scale, quest’ultima sviluppata per superare problemi linguistici e culturali e dimostratasi utile anche in paesi non anglosassoni.

Esse sono facili da somministrare ma mancano di adeguata sensibilità e specificità specialmente nelle forme meno gravi di compromissione neurocognitiva. Sono pertanto utili come strumento di screening e non possono sostituire un esame neuropsicologico completo.

E’ importante ribadire che deve essere indagata la presenza di comorbidità in grado di influire negativamente sulla performance neurocognitiva del paziente. In particolare andrà valutata l’eventuale presenza di altre forme di demenza vascolare e malattia di Alzheimer, di esiti di precedenti infezioni opportunistiche o neoplasie del SNC, di encefalopatie dismetaboliche (encefalopatia epatica, uso di stupefacenti o di psicofarmaci, etilismo), di esiti di pregressi traumi cranici, che possano avere un ruolo nella genesi del disturbo neurocognitivo.

HIV: fattori che aumentano il rischio di disiturbi neurocognitivi

Alcuni fattori sono stati associati a più elevato rischio di disturbi neurocognitivi HIV-correlati:

  1. Nadir (il picco più basso raggiunto nella propria storia) di linfociti T CD4+ inferiore a 200 cellule/µ;
  2. Età superiore ai 50 anni;
  3. Fattori di rischio cardiovascolare e/o alterazioni del metabolismo glucidico o lipidico;
  4. Mancata soppressione della replicazione di HIV per scarsa aderenza terapeutica.

Infine, deve essere ricordato che l’esame neuropsicologico deve essere valutato in ambito clinico generale, in quanto le diagnosi di MND e HAD rimangono diagnosi di esclusione e richiedono una completa valutazione clinica del paziente con l’ausilio di esami di laboratorio e di neuroimaging.

HIV: la neuroradiologia nella diagnosi dell’infezione da HIV del SNC

Gli effetti dell’infezione da virus dell’immunodeficienza umana di tipo 1 sulla funzionalità cerebrale arrivano a determinare la demenza franca che prende il nome di AIDS dementia complex (ADC).

La ADC è una sindrome neurodegenerativa cronica che compare tardivamente nel corso dell’infezione da HIV e che si caratterizza per decadimento cognitivo progressivo ed atrofia del parenchima cerebrale. La ADC è una delle più comuni ed importanti cause di morbidità associate a HIV, interessando il 15-20% dei pazienti affetti da AIDS. L’utilizzo della terapia HAART ha permesso di abbassare l’incidenza dei disturbi neurocognitivi HIV-associati. Il profilo neuropsicologico dei pazienti affetti da ADC è, in genere, riconducibile ad un pattern di alterazione “sottocorticale frontale”: Coordinazione e velocità dei movimenti fini, attenzione prolungata, velocità dei processi mentali, capacità esecutiva, efficienza del linguaggio e memoria di lavoro sono i principali ambiti cognitivi alterati.

Studi neuropatologici hanno confermato tali reperti individuando una maggiore concentrazione del virus nelle regioni sottocorticali e frontali.

Prima che si instauri la demenza, ci sono alcuni segni clinici di coinvolgimento del SNC: deficit dell’attenzione di tipo sottocorticale come indifferenza, e rallentamento psicomotorio, correlati a segni oggettivi di disfunzione neurologica come i test neuropsicologici standardizzati. Dal punto di vista patologico la presenza di cellule giganti multinucleate è considerata il marker patologico di ADC attribuito all’infezione cerebrale di HIV.

L’atrofia cerebrale è l’alterazione neuroradiologica più comune nell’ADC ed essa può essere riconosciuta anche con un esame di tomografia computerizzata (TC) mentre, data la bassa capacità risolutiva di questa tecnica, la presenza di lesioni della sostanza bianca spesso non viene riconosciuta.

La risonanza magnetica (RM) è considerata la tecnica d’elezione, in quanto essa consente di identificare e caratterizzare alterazioni di segnale della sostanza bianca, oltre a valutare il carico lesionale e la distribuzione dell’atrofia cerebrale.

Bisogna dire che le forme gravi di demenza che venivano osservate prima dell’introduzione della HAART si presentano sempre più raramente, mentre stanno emergendo forme lievi-moderate di disturbi neurocognitivi tra pazienti con infezione da HIV.

HIV: nonsarebbe il solo responsabile delle anomalie neurocognitive

Anche se l’infezione da HIV del SNC potrebbe rivestire un ruolo centrale, sembra quindi che l’origine di queste anomalie cognitive sia molteplice. Tra le varie cause o concause vi possono essere gli effetti fisiologici e patologici dell’invecchiamento, dei disordini metabolici, dell’uso di alcol, di sostanze di abuso e di farmaci e soprattutto di disturbi psicologici.

Per l’impostazione di una strategia terapeutica ottimale a livello sia sistemico che del SNC, è necessario riconoscere i disturbi neurocognitivi, classificarli in base alla gravità delle manifestazioni e, se possibile, definirne l’origine. Per verificare il grado di interferenza dei disturbi neurocognitivi con le attività quotidiane, le linee guida italiane suggeriscono di utilizzare la valutazione IADL (Instrumental Activities Daily Living) e il questionario MOS-HIV per la valutazione della qualità della vita.

Per definire se l’origine del disturbo è da riferire principalmente all’infezione da HIV stesso del SNC, piuttosto che ad altre cause o concause, è indicato un approfondimento mediante diversi tipi di valutazioni. Queste dovrebbero comprendere una valutazione psichiatrica completa (oltre la valutazione dei disturbi di personalità attraverso la SCID-5, test consigliati sono il BDI-II, il GAD o la scala HADS che comprende la valutazione sia dell’ansia che della depressione), esami ematochimici, una risonanza magnetica dell’encefalo e l’analisi del liquor, per la quantificazione della replicazione virale ed eventualmente l’identificazione di mutazioni del genoma di HIV associate a farmacoresistenza.

E’ possibile che i problemi neurocognitivi siano la conseguenza di uno stato di immunoattivazione cronica a livello del SNC, a sua volta determinata dalla presenza di una persistente replicazione virale a basso titolo, o di un danno tissutale precedentemente stabilito. L’utilizzo di una combinazione di farmaci antiretrovirali ad elevata efficacia e penetrazione nel SNC avrebbe lo scopo sia di inibire che di prevenire una possibile replicazione virale locale ma soprattutto la valutazione della completa aderenza terapeutica del paziente ai regimi prescritti deve essere una procedura da effettuare ad ogni visita. Una ridotta aderenza potrebbe essere alla base di una ridotta soppressione virale con danno neuronale ed emergenza di disturbi neurocognitivi che potrebbero così aggravare la scarsa aderenza permettendo l’instaurarsi di pericoli circoli viziosi.

Il rapporto conflittuale tra madre e figlia: quale ruolo nell’associazione tra abuso infantile e rischio suicidario in adolescenza?

Secondo il Centers for Disease Control and Prevention (CDC), il suicidio è la seconda causa di morte negli adolescenti (10-24 anni) negli USA (la morte accidentale è la prima causa). In generale i pensieri suicidari si presentano maggiormente nelle ragazze che nei ragazzi.

 

I dati provenienti dalla letteratura dimostrano che più sono gravi e pervasivi i pensieri suicidari, maggiore è la probabilità di tentare un suicidio. Proprio per questo motivo, comprendere la causa dei pensieri suicidari è fondamentale per prevenire efficacemente il suicidio e per la progettazione di interventi efficaci.

Il presente studio si inserisce in un progetto sviluppato dai ricercatori dell’Università di Rochester che stanno cercando di capire come è possibile prevenire il suicidio all’interno di alcune popolazioni degli Stati Uniti. Inoltre, il lavoro svolto dal Mt. Hope Family Center, dall’University Medical Center for the Study and Prevention of Suicide (CSPS) e dall’Injury Control Research Center for Suicide Prevention è stato uno dei principali programmi di ricerca della nazione per quasi un quarto di secolo. Questi centri sono conosciuti per la ricerca sul rischio di suicidio tra gli anziani, i militari e coloro che sperimentano la violenza del partner e l’uso di sostanze.

Per le premesse di cui sopra, oggi sempre più attenzione all’interno di questi centri viene posta anche al rischio suicidiario in adolescenza. In particolare, i ricercatori del Mt. Hope Family Center dell’Università di Rochester hanno individuato la qualità della relazione madre-figlia e l’intensità del loro conflitto come due fattori diretti che sottolineano l’associazione tra il maltrattamento del bambino e i pensieri suicidari durante l’adolescenza.

Lo studio

Lo studio, pubblicato sulla rivista Suicide and Life Threatening Behavior, ha raccolto un campione di 164 coppie madre-figlia, le quali vivevano in una condizione socio-economica precaria. Le ragazze, adolescenti (con un’età media di 14 anni), avevano tutte ricevuto una diagnosi di depressione; il 66.3 % di loro erano afroamericane, il 21.3% caucasiche ed infine il 14% latine.

I ricercatori hanno voluto indagare 3 variabili distinte, che associavano il maltrattamento precoce nell’infanzia a pensieri suicidari nelle ragazze adolescenti: 1. Qualità della relazione madre-figlia 2. Conflitto madre-figli 3. Sintomi depressivi degli adolescenti.

Sono state considerate come forme di maltrattamento sia abusi emotivi, fisici e sessuali sia trascuratezza emotiva e fisica. Nello studio il 51.8% delle ragazze erano state maltrattate almeno una volta durante la loro vita.

I ricercatori hanno così scoperto che i pensieri suicidari e i pensieri ricorrenti di morte si presentavano più frequentemente tra le adolescenti con una storia di maltrattamenti, rispetto alle adolescenti che non ne avevano subiti. Come evidenziato dai risultati, l’ideazione suicidaria si presentava nell’11.7% delle adolescenti depresse non maltrattate, mentre nell’26.8% delle adolescenti depresse maltrattate.

Alcune riflessioni conclusive

Oggi, grazie alla letteratura, sappiamo che un attaccamento sicuro, che presuppone una relazione calda, accudente e coerente tra madri e figli è fondamentale per uno sviluppo sano del bambino. Inoltre questi presupposti perdurano anche nell’adolescenza, nonostante gli adolescenti passino più tempo con i loro amici e meno tempo a casa con la loro famiglia.

Secondo i ricercatori dell’Università di Rochester, i giovani maltrattati rispondono bene agli interventi relazionali per il trattamento della depressione, come ad esempio la psicoterapia interpesonale per gli adolescenti, che si concentra sul contesto interpersonale della depressione. La terapia familiare basata sull’attaccamento si è dimostrata efficace nel ridurre i pensieri suicidari tra gli adolescenti, poiché mira a rafforzare il funzionamento della famiglia e la relazione di attaccamento tra genitori e adolescenti.

11th IEPA Conference: Early Intervention in Mental Health – Report dal convegno

La IEPA (Intervention in Early Psychosis Association) conference, giunta quest’anno alla sua undicesima edizione, è un evento unico per clinici e ricercatori che operano nell’ambito degli Stati Mentali a Rischio in adolescenza e degli interventi precoci negli esordi psicotici e in altri disturbi in ragazzi e giovani adulti.

 

Viene svolta ogni due anni in paesi diversi. Nel 2016 era stata Milano ad ospitare l’evento, quest’anno l’appuntamento è stato a Boston, negli USA, dal 7 al 10 Ottobre, in occasione della giornata mondiale della salute mentale.

L’evento, come ogni anno, ha avuto un notevole successo, con clinici da tutto il mondo riuniti in proficui confronti, al fine di presentare e condividere i propri studi e le proprie conoscenze.

I numeri parlano di 9 grandi plenarie, 112 simposi, 144 discussioni orali e 374 poster con oratori da ogni continente.

IEPA 2018: un’attenzione particolare a Cognitive Remediation e Cognitive Enhancement

Come da prassi, gli argomenti toccati sono stati i più vari, coprendo ogni ambito di ricerca, dalle neuroimmagini alla psicofarmacologia, dai trattamenti alle questioni etiche, dagli interventi psicosociali ai traumi precoci, gli approcci diagnostici e transdiagnostici, la fenomenologia, l’epidemiologia, l’uso di sostanze, le comorbilità e molto altro.

Ciò che trova continuità e coerenza con la scorsa edizione riguarda soprattutto l’utilizzo sempre maggiore di nuove tecnologie e nuovi media, su cui far affidamento nel raggiungere e trattare i giovani. Si è inoltre parlato molto di terapie accessorie e dell’importanza di integrare modelli terapeutici complementari alle terapie standard.

Un esempio è l’attenzione posta in decine di lavori sulla Cognitive Remediation e la Cognitive Enhancement. Molti ospiti ed oratori hanno sottolineato come un episodio psicotico e lo sviluppo di un disturbo psicotico abbiano gravi ripercussioni sul funzionamento cognitivo dell’individuo, il quale si trova dunque a dover gestire un evento netto, estremamente impattante, stigmatizzante, traumatico, che segna una rottura rispetto al passato, con minori risorse a disposizione. Le scarse abilità mnestiche e attentive, il declino delle funzioni esecutive generano uno stato di confusione e rallentano l’adattamento dell’individuo ai propri sintomi, rendendo più lunga la remissione e l’apprendimento di fondamentali strategie di coping. Tutto ciò oltre che rallentare la remissione ed il ritorno alla quotidianità, può contribuire al rischio di ricadute.  Un altro effetto positivo della Cognitive Remediation, oltre al miglioramento sulle funzioni cognitive, sembra poter essere la riduzione di sintomi positivi e negativi.

Sono stati notati inoltre effetti positivi della Cognitive Enhancement sulla Cognizione Sociale.

IEPA 2018: le nuove tecnologie nella cura dei più giovani

Oltre all’allenamento delle abilità cognitive, le CBT standard ed altre terapie finalizzate alla riduzione dei sintomi necessitano sempre più dell’integrazione di interventi psicosociali. L’obiettivo di tali interventi dovrebbe essere non solo il recupero delle abilità sociali, ma anche il supporto nei contesti educativi e professionali, limitando la dispersione scolastica e favorendo l’inserimento lavorativo. Lo sviluppo di tali programmi potrebbe avere un sorprendente effetto domino partendo dal benessere individuale, passando per la rete familiare ed in generale più ristretta attorno al paziente, fino ai benefici sociali e al risparmio nelle spese sanitarie per l’intera comunità. Sono stati discussi anche i dati relativi allo sviluppo del “cervello sociale” durante l’adolescenza, fondamentale per l’adattamento al contesto ed all’ambiente circostante.

È fondamentale dunque garantire ai giovani a rischio e ai primi episodi un adeguato adattamento al proprio contesto sociale. In tal senso, considerando lo sviluppo tecnologico e la diffusione sempre maggiore dei social media, in cui gli adolescenti sono particolarmente attivi, appare imprescindibile adottare nuovi mezzi per informare, tenere i contatti e fornire assistenza ai giovani pazienti. Sono stati presentati dunque vari lavori in cui vengono esposti programmi, siti, applicazioni per cellulari, giochi, interazioni online e realtà virtuale applicata in vari ambiti, dal trattamento dell’ansia sociale e della paranoia, il rinforzo della cognizione sociale, fino alle terapie mindfulness. Appare dunque che l’innovazione in questo ambito, lo sviluppo e l’implementazione delle nuove tecnologie, possa avere ripercussioni considerevoli nella pratica clinica in tutte le fasi della promozione della salute mentale nei giovani, dall’informazione all’aggancio, dalla diagnosi al trattamento.

IEPA 2018: lo Stato Mentale a Rischio Pluripotenziale

Si conferma anche il diffuso interesse nei confronti dei traumi e del ruolo delle esperienze traumatiche nello sviluppo delle psicosi, con particolare attenzione ovviamente ai traumi precoci dell’infanzia e dell’adolescenza.

Il messaggio che arriva è che i traumi dovrebbero essere considerati sempre più un concetto transdiagnostico. Qualcuno ha inoltre rilevato come un errore diffuso nei clinici sia di smettere di fare diagnosi, una volta fatta diagnosi di psicosi. L’attenzione verso il ruolo dei traumi nell’esordio psicotico e negli stati a rischio risulta dunque diffusa. Allo stesso tempo sono state indagate l’efficacia e la sostenibilità dei trattamenti diretti al trauma e ai sintomi post traumatici (es. EMDR ed Esposizione Prolungata) nei servizi sanitari, emergono in tal senso indicazioni incoraggianti e che raccomandano tali interventi in virtù di analisi costo-efficacia.

Non sono mancate presentazioni sulla fenomenologia dei quadri sintomatologici nelle sindromi psicotiche. Un tema toccato riguarda la specificità dei sintomi e di come essi si evolvano ed associno tra loro lungo un continuum relativo ai diversi stadi di sviluppo della patologia.

Sono stati inoltre discussi possibili paradigmi finalizzati a prevedere le traiettorie di sviluppo dei disturbi psicotici, la cui importanza risulta di primo piano se si considera la necessità di predire l’effettiva probabilità di transizione da uno stato a rischio a un disturbo psicotico.

E’ stato introdotto per la prima volta il concetto di Stato Mentale a Rischio Pluripotenziale. Esso è sicuramente tra gli sviluppi futuri potenzialmente più interessanti della concettualizzazione di queste condizioni cliniche At Risk, prevedendo un percorso a stadi per identificare i livelli di gravità basati su criteri specifici per definire uno stato di rischio più globale.
Proprio lo Stato Mentale a Rischio è stato messo in discussione, oltre che nella sua concettualizzazione, anche nella terminologia.  Sebbene i termini attualmente in uso come Sindrome Psicotica Attenuata (APS), Stato Mentale a Rischio (ARMS) e Ultra High Risk (UHR),  siano comodi ed utili nella pratica clinica e nella descrizione del paziente, essi potrebbero non essere così pratici per i giovani. Una riflessione ed un lavoro in tal senso, coinvolgendo i ragazzi e le famiglie, potrebbe portare ad una riduzione dello stigma ed una maggior inclusione dei pazienti stessi e della loro rete nel processo di cura.

Sono stati svolti inoltre maggiori studi legati al ruolo dei fattori metacognitivi e dei trattamenti basati sulla metacognizione, intesa sia negli aspetti legati alla Teoria della Mente – legati in particolar modo alla cognizione sociale – sia nella capacità di riflessione sui propri stati mentali. Uno degli obiettivi di queste tecniche, così come di altre tecniche specifiche è l’aumento dell’insight.
Non sono mancati infine numerosi studi epidemiologici e meta-analisi sull’efficacia degli interventi e delle terapie, la loro combinazione, la diffusione di sintomi e i tassi di transizione.

Infine, sono stati presentati e discussi vari studi su altre condizioni cliniche particolarmente complesse o a rischio di evolvere in disturbi psicotici, quali ad esempio Disturbi Bipolari, Disturbi di Personalità Borderline e Schizotipico, l’uso di sostanze e il rischio suicidario.

Nella cerimonia finale, così come in altri momenti del convegno, vi è stata l’occasione per ricordare nuovamente il prof. Angelo Cocchi e il prof. Larry Seidman, scomparsi negli ultimi anni, per decenni impegnati nel progresso della salute mentale dei giovani.
Il prossimo appuntamento sarà a Settembre 2020 a Rio de Janeiro – Brasile

PROGRAMMA IEPA CONFERENCE 2018

ABSTRACT SCARICABILI IN PDF

 

I nuovi volti della paura. Le trasformazioni in atto nella società e nella pratica psicoanalitica – Report del XX Congresso Internazionale IFPS (International Federation of Psychoanalytic Societies)

Cosa significa avere paura ai giorni nostri e come può la psicoanalisi riuscire a trattare questi nuovi aspetti? Questo uno tra i tanti interrogativi che hanno animato il XX Congresso Internazione dell’IFPS tenutosi quest’anno a Firenze e che ha coinvolto più di duecento psicoanalisti provenienti da tutto il mondo.

Clelia Asaro, Alessandro Grasso e Rebecca Silvia Rossi

 

Si è da poco concluso il XX Congresso Internazionale dellIFPS (International Federation of Psychoanalytic Societies), che ogni biennio vede riuniti delegati e candidati della medesima società con l’intento di investigare alcuni importanti aspetti inerenti l’attualità, così da legare con un fil rouge tematico gli stimoli e le riflessioni di discussant e pubblico.

Il congresso è stato ospitato dall’Istituto di Psicoterapia analitica di Firenze, che ha scelto come location lo storico “Convitto della Calza”, Ospedale trecentesco dedicato a San Giovanni Battista, luogo unico per fascino, atmosfera, arte e storia.

Questa edizione è stata interamente dedicata al tema della paura, i nuovi volti che assume all’interno delle trasformazioni della società di oggi e le ripercussioni che hanno nella pratica psicoanalitica.

Cosa significa avere paura ai giorni nostri? Di cosa si ha paura? Come si ha paura? Come può la psicoanalisi riuscire a trattare questi nuovi aspetti? Da investigare non soltanto la radicale trasformazione sociale con la quale quotidianamente ci si confronta e le relative ricadute nell’intrapsichico, ma anche il crollo di qualsiasi certezza possibile, sia a livello sociale che individuale. Cosa ci rende impauriti davanti all’altro sconosciuto, invece che curiosi? Cosa possiamo imparare dalle nostre reazioni davanti all’incertezza che sperimentiamo nella nostra pratica clinica e in altri campi dell’esperienza?

Anche la psicoanalisi sta soffrendo a causa della difficoltà ad accostarsi a tali cambiamenti epocali.

Queste sono alcune domande-stimolo, dalle quali si è partiti per esplorare come gli psicoanalisti possano contribuire alla comprensione del ruolo che ha la paura all’interno della nostra società.

Il tema del congresso: la paura in Psicoanalisi

Il tema è stato approfondito attraverso diversi approcci e sfaccettature di significato, non solo riguardanti le trasformazioni con le quali ci stiamo confrontando, ma anche le ripercussioni soggettive di significato, lo smarrimento di ogni forma di certezza, da quelle sociali a quelle individuali.

La psicoanalisi non può correre il rischio di perdere di vista questi cambiamenti epocali. Da queste considerazioni la necessità di ragionare insieme in merito a problemi sociali attuali quali l’immigrazione, l’omosessualità, le nuove tecnologie, focalizzandosi sui cambiamenti che portano a livello sia intrapsichico che interpersonale, nei modi di pensare, nelle emozioni e nei sogni.

Questo il tema che ha spinto più di duecento psicoanalisti, provenienti da diverse parti del globo, a confrontarsi e a condividere il proprio punto di vista.

Il congresso è stato un importante momento di incontro per la comunità psicoanalitica internazionale

L’opportunità di un dialogo stimolante all’interno della Comunità Internazionale degli Psicoanalisti è stata la protagonista indiscussa delle intense giornate di lavori congressuali. Accanto ai panel principali, da segnalare la terza edizione del Benedetti-Conci Award, che ha dato la possibilità ai giovani psicoanalisti in formazione di partecipare attivamente al Forum presentando i propri contributi.

Questa edizione ha avuto come vincitore M. De Mello, proveniente dal Brasile, con il suo contributo dal titolo “Psychopathology and Immigration: a Clinical Case in South America”, attribuito da una giuria internazionale composta da Marco Conci (Milano e Monaco di Baviera) e Grigoris Maniadakis (Atene) co-direttori dell’International Forum of Psychoanalysis, Valerie Tate Angel (New York) editore dell’IFPS, Christer Sjoedin (Stoccolma) ex co-direttore dell’IFPS e Maria Ugolini (Firenze).

Sempre a Firenze, sono state poste le basi per un network fra i giovani candidati delle società psicoanalitiche confederate, al fine di scambiare idee ed esperienze.

Il congresso si è suddiviso in panel principali e paralleli, con l’aggiunta di discussioni organizzate in piccoli gruppi all’interno delle quali sono stati proposti lavori individuali, workshop e supervisioni.

Poter apprezzare la globalità dei contributi proposti e le diverse attività presentate è stato impossibile, in quanto i lavori si svolgevano in contemporanea. Tuttavia questo aspetto, oltrepassando la sensazione dell’essersi “persi qualcosa”, riflette la varietà degli ambiti entro cui si declina la psicoanalisi contemporanea.

Nonostante questa umana manchevolezza dovuta al non possedere il dono dell’ubiquità, il XX forum IFPS è stato un’occasione per partecipare a stimolanti discussioni scientifiche, rafforzare il network di conoscenze internazionali, ritrovare vecchi colleghi e confrontarsi con nuovi delegati, scambiare pareri tra “vecchie e nuove” generazioni di analisti, prendere spunti e nuovi idee per il proprio lavoro, stabilire nuove collaborazioni e nuovi progetti.

Alcuni contributi – le giornate del 17 e 18 ottobre

Il pomeriggio del mercoledì 17 ottobre è stato inaugurato il congresso con i contributi introduttivi di Juan Flores e Anna Maria Loiacono insieme ad una prima riflessione di Vittorio Lingiardi sull’Edipo “oggi”: un interessante passaggio dall’approfondire il “complesso” al guidarlo verso una lettura della “complessità” contemporanea.

Nella mattinata di giovedì 18 ottobre abbiamo scelto di partecipare ad un panel inerente alla paura nella pratica clinica, incentrato su transfert e controtransfert.

Sandra Buechler, analista di New York City, ha condiviso i suoi pensieri in merito alla paura che si può creare all’interno della stanza d’analisi, esemplificandoli attraverso un caso clinico. La sua visione interpersonale del lavoro analitico è volta a mantenere lo sguardo costantemente e contemporaneamente sulla coppia paziente-analista, alle emozioni che entrambi provano nel processo terapeutico, tra cui la paura. La relatrice, durante il suo intervento, ha sottolineato come nel nostro lavoro sia fondamentale avere coraggio nei momenti di incertezza. Ha invitato a riflettere attraverso una metafora: se vi capitasse di perdervi nel bosco, senza mappa, senza bussola, senza la possibilità di orientarvi grazie al sole o alle stelle, che cosa fareste? Sicuramente da qualche parte iniziereste a dirigervi, non rimarreste fermi. La stessa cosa vale nella pratica clinica, anche nei momenti di maggior smarrimento, dove non si capisce che cosa stia succedendo tra noi ed il paziente, bisogna avere il coraggio di andare avanti, di prendere una strada.

Roberto Cutajar, direttore dell’Istituto Sullivan di Firenze, ha trattato del senso di morte e di finitezza riscontrabile nella psicoanalisi clinica dei nostri tempi, prendendo come riferimento l’esperienza del “non me” riscontrabile nei pazienti gravi, già trattata da Sullivan nel 1953 nel suo “La teoria interpersonale della psichiatria”.

Daniela De Robertis, docente e supervisore della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione, ha intitolato il suo intervento: “Chi ha paura del grande lupo cattivo? Un nuovo sguardo su transfert, controtransfert e difesa”. Il lupo in questione è l’analista, decisione stilistica volta a sottolineare come talvolta l’analista può apparire violento e spaventare il proprio paziente. L’interpretazione stessa, pilastro della psicoanalisi classica, spesso risulta veicolo di freddezza e distanza e, più che aiutare il paziente, lo spaventa e lo allontana. L’analisi è in questo senso un atto transazionale, nel quale ogni interprete è attore (sia il paziente che l’analista). Per tale motivo, la relatrice ha incoraggiato i colleghi a monitorare sempre la risposta del paziente ad ogni intervento del terapeuta, per osservarne le ripercussioni e valutare in che modo proseguire la seduta, in una sorta di continua autoverifica del proprio operato. Ha incoraggiato, inoltre, ad effettuare interventi che vadano oltre il razionale, che accolgano ogni aspetto del paziente, dell’analista e dell’interazione.

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Psicoanalisi e paura - Report del XX Congresso dell'IFPS, Firenze 2018_1ok

Il panel successivo si è incentrato sul PDM 2, sul nuovo senso e la nuova sensibilità che ha acquisito la nuova edizione e ha visto come speakers ancora una volta Vittorio Lingiardi, che ha mostrato il lungo cammino dalla diagnosi psicodinamica iniziale all’attuale PDM 2, spiegando alcune nuove peculiarità, unitamente as Anna Maria Speranza, che si è concentrata soprattutto sulla diagnosi in infanzia e adolescenza.

Il pomeriggio dello stesso giorno, ci ha visto partecipi di un’intensa ed emotivamente coinvolgente supervisione di gruppo, il cui focus principale è stata la vulnerabilità dell’analista. Il caso di una paziente rapita, portato dalla Dott.ssa Rebecca Aramoni di Città del Messico, è stato supervisionato da alcuni membri del Postgraduate Supervisory Training Program (Valerie Tate Angel, Edith Gould, Iris Levy, Ona Lindquist, Nobuko Meaders). È stata un’occasione per riflettere su quanto alcuni dei nostri pazienti elicitino in noi intense paure, che a volte sembrano insormontabili perché vissute in prima persona dallo stesso analista (come nel caso Clinico presentato da Aramoni).

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Psicoanalisi e paura - Report del XX Congresso dell'IFPS, Firenze 2018

I nostri contributi – le giornate del 19 e 20 ottobre

Venerdì 19 ottobre, abbiamo partecipato presentando alcuni nostri lavori in due differenti panel.

Al mattino, in un panel del Benedetti-Conci Award sulle diverse facce della paura nella pratica clinica, il tema è stato trattato da diverse angolazioni: dalla trasformazione della paura in musica (S. Alanne) alle diverse forme di paura che possono sorgere nello stesso analista (A. Grasso e C. Asaro; A.B. Manzo Saiz; S. Salimen).

Nel nostro lavoro “The Fear of Staging: Observation on the Fears of a Young Psychoanalyst” (A. Grasso, C. Asaro) assumendo una metafora teatrale, la situazione psicoanalitica che si dispiega viene concepita come una rappresentazione dei conflitti e delle sofferenze che il paziente chiede allo psicoanalista di comprendere e alleviare. Terapeuta e paziente possono quindi essere visti come due attori che danno vita ad una “messa in scena” che coinvolge profondamente entrambi e che necessita di un giusto dosaggio fra illusione e realtà per essere terapeuticamente efficace.

L’analista è così portato a confrontarsi con un ruolo che tacitamente è chiamato ad impersonare che talvolta può vivere come assai scomodo, altre come estremamente gratificante. I timori derivanti da questa peculiare posizione possono spesso tradursi in reazioni difensive di vario tipo, che possono portare a smarcarsi troppo velocemente dal ruolo vissuto come imposto oppure, al contrario, a confonderlo come totalmente reale rispetto a ciò che sta accadendo, con tutti i rischi che questo comporta. Imparare ad accettare e tollerare il ruolo che inconsciamente il paziente ci chiede di “interpretare” diviene un traguardo che necessita di superare paure non solo semplicemente professionali, ma anche relative alla propria specifica storia personale e che quindi obbliga a confrontarsi con le proprie fragilità. Il beneficio che se ne può ricavare si può tradurre nella capacità di vivere una relazione maggiormente intima con il paziente e autenticamente terapeutica.

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Psicoanalisi e paura - Report del XX Congresso dell'IFPS, Firenze 2018

Nel pomeriggio, sempre all’interno del Benedetti-Conci Award abbiamo partecipato ad un panel avente come tema l’avvento delle nuove tecnologie, i cambiamenti e le paure che esse inevitabilmente portano anche nella stanza d’analisi. Negli ultimi anni, infatti, l’espansione esponenziale di internet e dei nuovi mezzi di comunicazione ha cambiato il modo di vivere ed intessere relazioni. È quindi imprescindibile, per noi psicoanalisti, domandarci in che modo questi strumenti possano cambiare anche la relazione terapeutica.

L’argomento è stato affrontato inizialmente a livello teorico, con contributi inerenti a modernità, e psicoanalisi (E. Fanelli, E. Giuli), alla paura di una stanza d’analisi vuota (D. Marino), alle nuove paure senza volto, derivate dal terrorismo (S. Nocentini).
Il nostro intervento, intitolato “Matilde: Skype as a protected mean to live a relationship” (R.S. Rossi, M. Ferro) si è concentrato soprattutto sull’utilizzo di Skype, sulle motivazioni dinamiche e relazionali alla base della scelta di intraprendere un percorso terapeutico con questo mezzo. Attraverso un caso clinico, abbiamo avanzato l’ipotesi che la paura della relazione possa essere una delle motivazioni all’origine dell’utilizzo di tale supporto. Oltre alla vignetta clinica, abbiamo affrontato la tematica anche da un punto di vista neuroscientifico: alcune ricerche neuroscientifiche sollevano dubbi in merito alla possibilità dei mezzi digitali di sostenere l’attivazione delle strutture limbiche, che sostengono i processi empatici e i circuiti dei neuroni specchio (amigdala, corteccia orbito-frontale, porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore). L’uso massivo di tali strumenti potrebbe portare al rischio di atrofizzare nel lungo termine questi pathways limbico-affettivi, indebolendo sempre più la capacità di riconoscere le proprie e altrui emozioni.

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Psicoanalisi e paura - Report del XX Congresso dell'IFPS, Firenze 2018

Oltre ad aver presentato i nostri lavori, abbiamo partecipato ad uno stimolante intervento riguardante l’invecchiamento degli analisti e le loro ansie a riguardo. Joyce Slochower e Sandra Buechler, entrambe “aging analysts” della scuola newyorkese, e pertanto coinvolte in prima persona nel discorso, hanno invitato la platea a riflettere in merito al pensionamento dell’analista. Come procedere? Decidere una “data di scadenza” e rispettarla quando la si raggiunge? Sfidare il tempo e lavorare fino al sopravvenire di una malattia stroncante o della morte? Nel caso della malattia, come comunicarlo ai propri pazienti? È possibile smettere di essere analisti? Data l’avanzata età media dei partecipanti, questo panel è stato molto sentito e partecipato e lo scambio di visioni, paure e perplessità è stato ricco e dinamico.

Sabato 20 ottobre lo abbiamo dedicato al esplorare le paure in infanzia e adolescenza, sia dei diretti interessati che dei genitori, partecipando ad una special activity che ha visto come Chair Fabio Vanni, della SIPRe di Parma, e come discussants Neil Altman (New York City), Mauro Di Lorenzo (Milano), Darius Leskauskas (Lituania), Carmine Parrella (Lucca).

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Psicoanalisi e paura - Report del XX Congresso dell'IFPS, Firenze 2018

I lavori si sono conclusi con un arrivederci al prossimo Forum, che si terrà a Lisbona nel 2020 e al quale siamo sicuri parteciperemo, dopo la stimolante esperienza di Firenze.

Idoli, identità e ruolo: come scegliamo i nostri idoli e perché ne siamo ispirati

L’arrivo di Ronaldo in Italia ha portato un entusiasmo incontenibile. Ufficializzato l’acquisto, la Juve ha guadagnato centinaia di migliaia di nuovi iscritti ai suoi canali social; la maglietta dell’attaccante portoghese, subito mesa in vendita alla ragguardevole cifra di 130 euro, è andata letteralmente a ruba tanto da mandare in tilt il sito di vendite per i troppi accessi

 

Come ci spieghiamo tutto questo?

Idoli sportivi: il caso Ronaldo

Cerchiamo di capire il motivo. Ronaldo è quello che possiamo definire un idolo. Nel mondo del pallone (che già sforna decine di idoli) è probabilmente il calciatore più forte del momento ed è sicuramente il più pagato. Ha vinto tutto. Per contro non appare come un predestinato. Non è nato ricco, i genitori non sono famosi, non era quello che possiamo definire un privilegiato. Sicuramente possiamo pensare che avesse delle doti calcistiche fuori dalla media ma il suo successo è anche frutto di un’abnegazione totale. Di lui sappiamo che si allena più degli altri, che conduce una vita regolare, che cura l’alimentazione in modo quasi maniacale. Tutto è subordinato all’obiettivo che vuole raggiungere: essere il numero uno.

Quando il successo è frutto di volontà e sacrificio ci risulta più facile identificarci perché siamo portati a pensare che tutto dipenda da noi e non da un destino più o meno benevolo.

Gli ideali sono come la stella polare, è irraggiungibile ma indica la retta via (Anonimo)

Ma perché sentiamo il bisogno di avere degli idoli? Perché ci capita di sentirci insoddisfatti di noi, di quello che facciamo, dei risultati che otteniamo. Abbiamo l’impressione di non essere all’altezza delle aspettative che gli altri, ma anche noi stessi, nutrono su di noi. Ci sentiamo inadeguati alle richieste che ci arrivano dal mondo che ci circonda. E’ la società, infatti, a dettarci i requisiti e i modelli di comportamento che vengono considerati “vincenti” e che vengono ricompensati con l’approvazione sociale. Possedere questi requisiti eleva a modello e suscita, in chi non li possiede, ammirazione mista ad invidia.

Idoli: come li scegliamo?

Smelser nel suo Manuale di sociologia, illustra dettagliatamente l’influenza della società sugli individui ed evidenzia come non tutti scelgano gli stessi idoli. Ciascuno infatti crea il suo modello sulla base di quelle che sono le sue necessità e gli obiettivi che si è posto. Esistono però delle condizioni comuni nelle relazioni che costruiamo con il nostro idolo e sono che questo deve basarsi su un duplice rapporto di vicinanza e di lontananza.

Come spiegato dal professor Mirieu, la vicinanza serve a farci sentire che abbiamo una base comune, i nostri valori, idee, aspettative devono essere in linea con quelle che percepiamo essere le sue. Solo in questo caso ci possiamo sentire autorizzati a credere che un giorno potremo arrivare ad essere come lui.

La lontananza, per contro, serve a motivare l’impegno che ci viene richiesto nel tentativo di diventare come lui. Pensare “posso riuscirci” ci da la spinta emotiva a metterci in gioco, ma la considerazione che “non ci sono ancora riuscito” ci spinge a moltiplicare gli sforzi per raggiungere l’obiettivo.

Non dobbiamo pensare che un idolo ci attiri solo per valori più o meno effimeri come fama, successo, soldi. Molto spesso in lui vediamo il paladino di ideali ben più nobili che sentiamo di condividere: amicizia, uguaglianza, impegno sociale… magari semplicemente perché l’abbiamo visto ospite a qualche evento benefico o per le frasi di qualche sua canzone, o per una scritta su una maglietta che ha indossato…

Va detto che spesso l’idea che ci facciamo dell’idolo non corrisponde alla realtà e lui/lei stesso/a stenterebbe a riconoscersi nell’immagine che ci simo costruiti di lui. Ma questo poco importa. L’importante è che risponda alle nostre necessità del momento. Che impersonifichi il suo ruolo di motivatore e di mentore.

Raramente si migliora se non si ha altro modello da imitare che sé stessi. (Oliver Goldsmith)

Idoli buoni e idoli cattivi

Da quanto detto finora, alla figura dell’idolo viene attribuita una valenza positiva: la sua presenza è in grado di stimolare e incoraggiare la nostra voglia di migliorarci e credere in noi stessi. Demetrio ci mette però in guardia sull’esistenza di due tipi contrapposti di idoli: gli idoli buoni, che sono di sostegno alla nostra crescita personale, e gli idoli cattivi che, al contrario, ci alienano dalla realtà.

Se con i primi stabiliamo una forma di imitazione positiva, il discorso cambia con i secondi, quando si mette in atto una forma di identificazione che rischia di diventare pericolosa. Ma vediamo di definire questi due concetti.

Si parla di imitazione quando il modello viene scelto consapevolmente e, in generale, presenta caratteristiche apprezzate dalla società. E’ una scelta che presuppone consapevolezza di quello che volgiamo ottenere e disponibilità ad impegnarci per raggiungere questo risultato. C’è una certa autonomia e fiducia in sé stessi. L’imitazione non riguarda il modello in quanto tale ma ciò che rappresenta.

Al contrario, nell’identificazione, si affrontano i conflitti emozionali attribuendo ad altri i propri pensieri, sentimenti o impulsi che spesso ci risultano inaccettabili. L’identificazione porta a fare dell’idolo il nostro unico interesse e la nostra unica fonte di gioia, trascurando tutto il resto e immedesimandoci a tal punto in lui da inorgoglirci per i suoi successi e soffrire per i suoi insuccessi come se fossero i nostri. E’ un rapporto sbagliato, vissuto come una forma di disimpegno che indica insicurezza e sfiducia in sé da parte di chi lo manifesta.

Qualunque sia il rapporto che abbiamo costruito con il nostro idolo, questo è nato, come abbiamo già visto, per rispondere ad una nostra esigenza. Con il passare del tempo le esigenze cambiano, cambiano i nostri interessi e i nostri obiettivi, così anche il nostro idolo ad un certo punto risulterà inevitabilmente superato. La sua funzione si esaurirà e il suo ruolo verrà meno. Tutti gli idoli sono destinati a morire, prima o poi, e quando cadono riusciamo generalmente a vederli per quello che realmente sono.

Le forme vitali (2011) di Daniel Stern – Recensione del libro

Come bene esplicita negli ultimi passaggi del suo volumetto Le forme vitali, Daniel Stern teme di spingersi “troppo oltre”, senza un adeguato supporto empirico a sostegno delle affascinanti ipotesi, e nel contempo esprime il forte desiderio di farsi comprendere in maniera fedele e autentica, complessa.

 

Il testo in oggetto si legge tutto d’un fiato. Si potrebbe definire come una musa, in quanto, oltre ad essere fonte di ispirazione, si rivela capace di condurre in posti lontani dalla stanza d’analisi.

Anzitutto, colpisce il sottotitolo in copertina: Psicologia, psicoterapia, sviluppo ed espressione artistica dell’esperienza dinamica. Mi è parso subito richiamare un libro trasversale, eclettico, in grado di estendere le proprietà essenziali della mente a tutti i processi culturali che gli uomini plasmano e da cui sono plasmati. Esiste forse un collante in grado di legare la psicoterapia alla musica, al teatro o al cinema? Hanno forse questi domini – apparentemente lontani – la stessa consistenza?

Con queste premesse come avrei potuto resistere?

Vi lascio al succo che ho estratto dalle pagine di Le Forme Vitali: L’esperienza dinamica in psicologia, nell’arte, in psicoterapia e nello sviluppo di Daniel Stern (2011).

Le forme vitali: impressioni implicite che costruiscono e decostruiscono il sintomo

Movimento, tempo, forma, spazio, intenzione/direzionalità sono i parametri in grado di descrivere quelle che l’autore definisce Le Forme Vitali. Le caratteristiche sopra riportate sono amodali, difatti non descrivono mai il “cosa”, ma hanno a che fare con il “come”. Sono solitamente verbalizzabili sotto forma di aggettivi o di avverbi, percepibili (di solito in maniera inconsapevole) come sensazioni viscerali, impressioni d’un attimo. Se descrivessimo qualcosa come intenso, crescente, forte e di breve durata ci riferiremmo alla qualità di una esperienza o di una emozione, non di certo al suo contenuto. Diremmo, in altre parole, molto della sua dinamica, del suo comportamento ma niente circa il suo nome. E’ questo l’approccio che caratterizza e sintetizza la visione dell’autore: secondo Daniel Stern queste caratteristiche sono il fulcro della fenomenologia percettiva umana, la forma più irriflessiva e precoce che l’uomo dispone per conoscere e valutare. Esse sono ciò che precede il mondo dell’informazione e che dunque coincidono con il nostro modo implicito di elaborare il mondo sin dai primi istanti dell’esistenza. Stiamo parlando di impressioni inconsce, grezze e poco strutturate; difatti solo una piccola parte di esse diviene da noi dichiarabile ed esperibile sotto forma di vissuto emozionale. Buona parte di esse è accessibile da più linguaggi quali l’arte, il cinema, il teatro, quello della metafora e – aggiungerei – della costruzione e della decostruzione del sintomo.

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Le forme vitali di Daniel Stern - Recensione del libro fig1

Imm. 1 – Le forme vitali: intensità e tempo

Ricordiamo che il neonato valuta la familiarità del caregiver tramite la visione periferica, questa micro abilità, apprezzabile al livello di millisecondi, guida le più disparate abilità intuitive adulte quali anche quella dei musicisti jazz nelle jam session, così da permettere loro d’essere a tempo l’un l’altro, sebbene in mancanza di un particolare accordo esplicito preventivo. Sono dunque più proprietà, queste, che concorrono a risolversi in una totalità Gestaltica. Proprietà che concernono con le modalità che utilizziamo nel quotidiano per relazionarci con gli altri, in gergo: conoscenza relazione implicita (Lyons-Ruth, 2007).

Forme vitali: sono il nostro sesto senso

Non appartengono a nessun senso le Forme Vitali, anzi, si potrebbe immaginare come esse fungano da sesto senso in grado di rilevare e definire quelle tipologie di profili dinamici che hanno a che fare con lo stile di una persona, col modo in cui si muove, col ritmo e col volume con cui parla, ecc. A favore delle sue ipotesi, Daniel Stern, chiama in causa la teoria del campo sensoro-tonico secondo la quale all’inizio dell’esperienza vitale le modalità sensoriali sarebbero indifferenziate, solo in seguito diverrebbero discrete, separate e specializzate. Così la visione di una linea spigolosa, decisa e dentellata può evocare ansia, forza, energia, mentre una curva progressiva può associarsi a calma, gentilezza, tranquillità (fig.1). Sono vere e proprie sinestesie, non rare nei primi mesi di vita. Recentemente alcuni neuroscienziati hanno scoperto in diverse aree cerebrali dei neuroni multisensoriali. L’informazione riguardante le Forme Vitali è dunque estraibile e utilizzabile in più aree integrative corticali, è traducibile, trasponibile. Rappresenta una sorta di linguaggio universale, molto simile a una musicalità, irrazionale e coinvolgente, che si esprime a livello corporeo, incarnato e cinestetico. Meglio colta dal movimento Decadentista ottocentesco sotto il nome di ‘corrispondenze’ e dallo stesso autore come ‘sintonizzazione affettiva’. L’autore insiste nell’attribuire suddette forme vitali al concetto di arousal. E’ l’arousal che coincide e performa queste logiche emotive, fatte di picchi crescenti e decrescenti. Per chiarire meglio il mondo invisibile delle forme vitali, centrale e potente (in particolare) nel mondo interpersonale del bambino, l’autore sottolinea e ribadisce come tali notazioni sono letteralmente necessarie al musicista al fine di cogliere ed eseguire correttamente l’espressività e l’anima di una composizione. E’ utile, infatti, precisare come negli spartiti musicali sono riportati, secondo appositi segni convenzionali, indicazioni (dettagli cruciali) circa l’intensità, la pausa, la cadenza, il ritmo. Ciò si complica ancora di più nel teatro e nel cinema ove più linguaggi sono soliti incrociarsi in maniera cross-modale, esclusivamente secondo coordinazioni funzionali, sincroniche.

Forme vitali: sono il nostro sesto senso

Nell’ultima parte del libro Le forme vitali l’autore si rivolge al campo psicoterapeutico, chiarisce – a mio parere secondo un’impronta Loewaldiana (Loewald, 1962) – come l’identificazione sia un meccanismo più semplice e pragmatico di quanto si è soliti pensare; essa consisterebbe, infatti, in una investimento affettivo di forme vitali di una persona, in qualche modo, per noi significativa (interiorizzazione).

E’ l’esperienza emotiva [delle Forme Vitali] dell’interazione che viene identificata, non gli oggetti.

Quantomeno interessante sarebbe, alla luce di ciò, ripensare concetti quale quelli di Transfert e Controtransfert. Pertanto, il cuore pulsante della psicoterapia sarebbero proprio queste Forme Vitali in interazione. Personalmente ho sempre pensato che l’arte e la poesia siano parte della nostra visione periferica, così radicata in noi, così tanto sotto il nostro naso, da non essere vista, da sembrarci affascinante e mai del tutto afferrabile o comprensibile secondo le consuete norme del razionale.

E se davvero fosse questo il nostro modo di codificare la realtà? Se fosse questo il modo con cui ci riesce facile intenderci coi nostri gatti e i nostri cani? Se si esprimesse in quest’ordine il linguaggio dei nostri sogni e delle nostre paure? Se non fossero poi le pennellate di Van Gogh così lontane dai brividi che abbiamo sulle spalle di fronte a una ‘Notte Stellata’? Sono forse le Forme Vitali che ci fanno ballare secondo pattern inesprimibili nella danza e talvolta sublimi nella musica?

Un libro, questa operetta di nicchia psiconalitica (e non solo) che è destinato a far riflettere. Molto utile anche agli artisti e agli eclettici. Interessante per lo psicologo, necessario per chi lavora nel cinema.

 

 

L’importanza della natura per il nostro benessere

È risaputo che essere a contatto con la natura ha un notevole effetto sulla nostra salute e sul nostro benessere. Tuttavia oggi circa la metà della popolazione vive in centri urbani, riducendo drasticamente il tempo che passa a contatto con la natura.

 

Sebbene la connessione tra natura e benessere sia evidente, meno chiari sono i meccanismi alla base di questa associazione.

In un recente studio si è appunto indagato questi meccanismi, nello specifico è stata analizzata l’influenza che la natura ha sulla riduzione dell’impulsività nei processi decisionali. Lo studio si è svolto in due fasi distinte.

Prima fase dello studio

In una prima fase si è cercato di capire se l’esposizione alla natura fosse predittiva di un miglioramento della salute e se una ridotta impulsività nel processo decisionale fosse un mediatore di questo effetto.

I soggetti coinvolti sono stati 609 adulti statunitensi, reclutati attraverso Mechanical Turk, un servizio internet di Amazon, il 60% di loro erano donne e il 40% uomini, con un’età media di 36 anni. A ciascuno dei partecipanti è stato somministrato un questionario.

I risultati hanno dimostrato che essere esposti alla natura, in particolare poter vedere dalla propria casa paesaggi naturali, avere accesso a parchi o zone verdi, è associato a benefici per la salute, infatti i punteggi di depressione, ansia e stress erano ridotti. L’effetto è stato dimostrato essere presente a prescindere dal livello di istruzione e dal reddito.

Inoltre, poter essere a contatto con la natura è risultato essere associato a una ridotta impulsività nei processi decisionali. Quindi questi primi risultati sembrano confermare che l’essere esposti alla natura riduce l’impulsività nei processi decisionali e una minore impulsività porterebbe ad un miglioramento dello stato di salute.

Seconda fase dello studio

In seguito si sono voluti indagare maggiormente i meccanismi attraverso cui la natura riduce l’impulsività. Sembrerebbe che la natura provochi delle modifiche nella percezione spazio-temporale.

Per percezione dello spazio e del tempo si intende per esempio quando nelle situazioni di tutti i giorni usiamo espressioni come “non ho tempo, l’incontro deve essere più breve” o “siamo vicini alla data di scadenza”, frasi che esprimono come noi percepiamo la dimensione spazio-temporale. Queste variabili potrebbero avere un effetto sull’impulsività.

I risultati hanno dimostrato che l’esposizione alla natura estende la percezione spaziale, che a sua volta predice un decremento dell’impulsività nei processi decisionali.

In conclusione

Questi dati possono avere importanti conseguenze in quanto suggeriscono che una maggiore esposizione alla natura può portare ad una diminuzione dell’impulsività e plausibilmente, di conseguenza, a minori livelli di stress, ansia, depressione e ad un maggiore benessere in generale.

Dalla comunicazione preintenzionale alla comunicazione intenzionale del bambino

Si parla di intenzione comunicativa quando il bambino sa produrre comportamenti che hanno per lui il valore di segnale e li produce al fine di soddisfare i propri scopi o di raggiungere particolari obiettivi.

Raffaella Mancini e Monica Mascolo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Sin dalla nascita il bambino si relaziona con il mondo circostante mettendo in atto comportamenti che sono l’automatica conseguenza di uno stato interno. Tali comportamenti, dunque, non sono ancora eseguiti allo scopo di raggiungere un certo effetto su chi vede o ascolta, ma sono gli adulti ad interpretarli come comunicativi. Questa fase viene definita preintenzionale: il bambino indica che ha bisogno di qualcosa ma non è ancora in grado di indicare quello di cui ha bisogno, sono le abilità interpretative della madre ad individuare quello di cui necessita. Ad esempio, quando il neonato piange disperato perché ha fame o sonno, l’adulto non ha dubbi nell’interpretare il pianto come segnale di disagio e nell’agire di conseguenza.

Inoltre, tra i 2 e i 6 mesi, il bambino, oltre a segnalare a chi si prende cura di lui bisogni di ordine fisiologico attraverso il pianto, gli sbadigli e i sorrisi, inizia le sue prime vocalizzazioni, le quali si inseriscono nei turni verbali del genitore (proto conversazioni), in cui ciò che viene condiviso è l’emozionalità e l’affetto.

Verso l’ intenzione comunicativa: dalla comunicazione preintenzionale alla comunicazione intenzionale

Se fino all’età di 4 mesi gli scambi comunicativi avvengono in contesti diadici, progressivamente, intorno alla metà del primo anno di vita, il bambino comincia ad interessarsi ad oggetti/eventi esterni alla diade ed è intorno ai 9 mesi che iniziano a verificarsi episodi di attenzione condivisa, in cui sia la sua attenzione che quella della madre è rivolta ad un oggetto/evento esterno alla diade.

È in questo periodo che vi è il passaggio dalla comunicazione preintenzionale a quella intenzionale: il bambino comunica intenzionalmente ovvero, sa di produrre comportamenti che hanno per lui il valore di segnale e li produce al fine di soddisfare i propri scopi o di raggiungere particolari obiettivi. Egli, dunque, comprende di essere un agente attivo nel mondo circostante, si serve di mezzi per raggiungere i propri scopi e sa distinguere i mezzi dai fini.

Inoltre è in grado di comprendere che anche gli altri sono agenti autonomi, possessori di intenzioni diverse dalle proprie, le quali possono essere condivise. Il bambino, in questo periodo, non avendo ancora raggiunto abilità linguistiche si serve dei mezzi che ha a propria disposizione per comunicare intenzionalmente con gli altri (Camaioni, 2001), nello specifico si serve dei gesti comunicativi.

I gesti

Tra i 9 e i 12 mesi i bambini iniziano produrre i primi gesti, i quali hanno una natura triadica e vengono utilizzati per indirizzare l’interlocutore verso un’entità esterna e non verso il bambino stesso. I primi gesti a presentarsi sono quelli deittici che comprendono l’indicare, il mostrare e il dare. Essi esprimono un’ intenzione comunicativa, si riferiscono ad un oggetto o ad un evento esterno, sono fortemente legati al contesto e bisogna riferirsi ad esso per interpretarli. L’ intenzione comunicativa è segnalata principalmente dall’uso dello sguardo rivolto all’interlocutore, prima, durante e dopo l’emissione del gesto.

I gesti deittici possono essere prodotti con due intenzioni comunicative:

  • richiestiva: per richiedere un oggetto desiderato, ad esempio il bambino indica il biberon quando ha sete
  • dichiarativa: per condividere con l’interlocutore l’interesse o l’attenzione su un evento esterno, ad esempio il bambino indica un’immagine sul libro per condividerla con la mamma

Tra i gesti deittici quello più studiato e rilevante è il gesto dell’indicare. È un gesto universale che non viene abbandonato nemmeno dopo l’acquisizione del linguaggio verbale ed è uno dei mezzi più efficaci, in assenza del linguaggio, per comunicare intenzionalmente con gli altri. Tale gesto deve essere accompagnato da altri comportamenti che segnalino la volontà comunicativa, ad esempio, lo sguardo diretto all’interlocutore e allo stimolo o la produzione di vocalizzi.

Intenzione comunicativa richiestiva vs intenzione comunicativa dichiarativa

Secondo Camaioni (1993,1997) fra l’ intenzione comunicativa richiestiva e l’ intenzione comunicativa dichiarativa, vi è una differenza di tipo sia strutturale che funzionale. L’autrice ritiene che per produrre una richiesta il bambino deve acquisire diverse competenze, prima tra tutte è la capacità di alternanza dello sguardo tra la persona e l’oggetto durante la sequenza comunicativa, ed è fondamentale che comprenda l’intenzionalità delle proprie azioni, ma soprattutto che anche le azioni degli altri sono guidate da intenzioni, ovvero deve saper distinguere i mezzi dai fini ed utilizzare intenzionalmente strumenti per raggiungere i propri obiettivi (agentività). Mentre, per produrre il gesto con valore dichiarativo, il bambino deve possedere oltre le capacità che gli permettono di produrre il gesto richiestivo, anche la comprensione che l’individuo è dotato di stati psicologici che possono essere condivisi o influenzati.

Dunque, mentre con l’ intenzione comunicativa richiestiva il bambino vuole modificare un aspetto del mondo attraverso l’adulto ed è sufficiente la comprensione dell’agentività, con l’ intenzione comunicativa dichiarativa il bambino vuole influenzare lo stato interno dell’altro, per far ciò è necessario che si rappresenti l’interlocutore come dotato di stati psicologici.

Relativamente all’età di comparsa della funzione richiestiva e dichiarativa del gesto di indicare Paola Perucchini (1997), in uno studio condotto su 14 bambini osservati dall’età di 11 mesi all’età di 14 mesi, ha rivelato che i bambini a 11 mesi comprendono e producono un numero maggiore di gesti con funzione richiestiva, piuttosto che con funzione dichiarativa. Tuttavia ha osservato che con l’aumentare dell’età cresce il numero di bambini che produce e comprende la funzione dichiarativa.

Relativamente all’età di comparsa del gesto dell’indicare, invece, Camaioni e Perucchini (1999, citato in Camaioni, 2001) in un loro studio condotto su 47 bambini hanno rilevato che l’89% dei bambini ha iniziato ad indicare entro i 12 mesi di età, nello specifico, il 53% tra i 10 e gli 11 mesi e il 94% tra i 9 e i 13 mesi.

Intorno ai 12 mesi il bambino inizia a produrre i gesti referenziali o rappresentativi i quali, oltre a esprimere un’ intenzione comunicativa, rappresentano anche un referente specifico (aprire e chiudere la mano per “ciao”), a differenza di quelli deittici che, invece, indicano un referente. Vengono appresi in situazioni di routine o giochi con l’adulto e prevalentemente per imitazione, per poi decontestualizzarsi ed essere utilizzati più per scopi comunicativi. Essi sono predittivi del linguaggio in quanto rappresentano il simbolo e il referente così come le parole.

Le prime parole

Intorno agli 11-13 mesi, contemporaneamente alla comparsa dei gesti referenziali, il bambino inizia a produrre le sue prime parole. Tale fase, tuttavia, è preceduta da una fase preparatoria in cui il bambino produce prima i vocalizzi, per poi passare alla lallazione canonica, intorno ai 6-7 mesi, in cui produce sequenze consonante-vocale con le stesse caratteristiche delle sillabe, spesso ripetute due o più volte (“mamama”), e successivamente, tra i 9-10 mesi, alla lallazione variata o babbling, in cui produce delle sequenze sillabiche complesse (“bada”).

Dopo le vocalizzazioni emergono quelle produzioni che non rientrano più nella categoria dei vocalizzi ma nella categoria del linguaggio, nello specifico le protoparole, le onomatopee e le prime parole. Con le onomatopee il bambino produce la forma più somigliante al referente che è il suono, piuttosto che l’etichetta verbale, la quale verrà acquisita successivamente, ad esempio dice “brum-brum” per indicare la macchina oppure “ciuf-ciuf” quando vede un treno. Vengono usate spesso dal bambino in quanto prodotte dal genitore quando si rivolge a lui sin dalle prime interazioni.

Le onomatopee sono seguite dalle protoparole, le quali sono simili fonologicamente alle parole originarie ma non corrette grammaticalmente, ad esempio il bambino dice “aua” per acqua.

Intorno agli 11-13 mesi il bambino produce le sue prime parole, le quali si riferiscono ad oggetti o nomi di persone familiari, e sono fortemente contestualizzate. In questa fase egli comprende molte più parole di quelle che produce.

Verso i 18-24 mesi vi è un incremento rapido del lessico, definito anche “esplosione del vocabolario”. In questa fase il ritmo di espansione del vocabolario è di 5 o più nuove parole (fino anche 40) per settimana, cosicché alla fine del periodo in questione il vocabolario complessivo si attesta mediamente sulle 300 parole, ma può raggiungere anche 600. Si ritiene che ciò accade quando il bambino diventa capace di attribuire alle parole uno status propriamente simbolico e di capire non soltanto che tutte le cose hanno un nome, ma anche che c’è un nome per qualsiasi cosa. La capacità di attribuire piena autonomia simbolica alla parola fa sì che il bambino, non soltanto apprenda nuovi vocaboli con grande rapidità, ma impari anche ad usare flessibilmente le parole che già conosce in una varietà di contesti comunicativi (Camaioni, 2001). Con l’incremento del vocabolario il bambino, dunque, attribuisce referenzialità alla parola, la stacca dal contesto di azione nel quale la produceva inizialmente e la applica in altri contesti decontestualizzandola, ad esempio se prima diceva “cane” solo quando giocava con il proprio peluche, ora dirà “cane” anche quando vede un’immagine nel libro.

Egli, inoltre, nella fase in cui non è ancora in grado di produrre le prime frasi ma anche durante le prime fasi dello sviluppo lessicale, accompagna spesso la parola con il gesto deittico o referenziale, riuscendo così ad esprimere una relazione complessa tra due elementi, ad esempio indica un bicchiere dicendo “acqua” quando ha sete. Man a mano che acquisisce queste abilità i gesti referenziali, in particolare, diminuiscono lasciando spazio alla produzione verbale.

Dalla singola parola alle prime frasi

La combinazione da parte del bambino di due o più parole in frasi avviene intorno all’età di 20 mesi. Si tratta prevalentemente di enunciati telegrafici composti inizialmente da nomi prodotti in successione con l’omissione del verbo, ad esempio “mamma pappa”, in cui è importante il contesto situazionale per la loro comprensione.

Cipriani, Chilosi, Bottari e Pfanner (1993, citato in Caselli e Casadio, 2002) a tal proposito hanno identificato quattro fasi che il bambino attraversa prima di arrivare alla produzione di un enunciato completo, corretto morfologicamente e sintatticamente, partendo dalla produzione di prime combinazioni di parole. Le fasi individuate sono le seguenti:

  • Fase presintattica (19-26 mesi): caratterizzata da enunciati telegrafici, costituiti per lo più da parole singole prodotte in successione e privi di verbo (“pappa più”, “bimbo dà”). Ci sono pochi enunciati semplici nucleari con funzione dichiarativa e richiestiva. Inoltre vi è una prima concordanza tra nome e aggettivo.
  • Fase sintattica primitiva (20-29 mesi): caratterizzata ancora da enunciati telegrafici, da un graduale ma altrettanto consistente aumento degli enunciati nucleari semplici, spesso ancora incompleti ma, a differenza del periodo precedente, iniziano ad essere prodotte frasi complesse anche se prive di connettivi interfrasali e morfemi liberi, come articoli e preposizioni (“bimbo prende cucchiaio mangia minestra”).
  • Fase di completamento della frase nucleare (24-33 mesi): non è più presente il linguaggio telegrafico; prevalgono ancora sugli altri tipi di frase le nucleari, prodotte con morfemi liberi, e le frasi ampliate con espansioni del nucleo (“il bambino mangia col cucchiaio”). Le frasi complesse aumentano e si diversificano per tipologia: coordinate, subordinate e inserite implicite con la comparsa anche di frasi inserite esplicite. Una parte significativa delle frasi complesse è prodotta in forma completa (“il bambino prende il cucchiaio e mangia la minestra”).
  • Fase di consolidamento e generalizzazione delle regole in strutture combinatorie complesse (27-38 mesi): gli enunciati complessi sono per la maggior parte completi da un punto di vista morfologico. Comparsa di diversi connettivi interfrasali di tipo temporale e causale (“dopo”, “allora”, “invece”, “perché”..) usati in modo stabile all’interno di frasi coordinate e subordinate. Infine sono prodotte anche le frasi relative (“ma io ho visto Peggy che correva”).

In conclusione

È necessario precisare che lo sviluppo comunicativo e linguistico del bambino avviene secondo una serie di fasi che si succedono in un determinato ordine, condiviso da molti bambini ma al tempo stesso è caratterizzato da grandissime variabili individuali che riguardano non solo i tempi ma anche i modi e le strategie di apprendimento, componenti che devono sempre essere prese in considerazione quando si osserva e si valuta lo sviluppo infantile.

Cocaina: sostanza specchio della società moderna?

Ogni epoca ha le proprie caratteristiche: gli usi e i costumi, le tradizioni, gli stili di vita, le relazioni, le arti, cambiano e si trasformano nel tempo. Anche lo sviluppo e il proliferarsi di una specifica sostanza psicoattiva diviene il riflesso del modo di vivere dell’uomo, delle sue aspettative e dei suoi bisogni legati a quelli della società.

 

Nell’Ottocento ci fu l’hashish che divenne il simbolo delle avanguardie artistiche; in tempi più recenti, come gli anni Sessanta e Settanta, l’eroina, le amfetamine e LSD simbolo delle contestazioni giovanili. Oggi la droga che sembra essere dominante e che meglio riflette la società consumistica e frenetica nella quale viviamo è la cocaina.

Cocaina: come vuole apparire chi la assume?

Infatti se l’eroinomane era visto come lo sconfitto, l’inetto, il vinto dalla vita, il cocainomane è invece è colui che supera i propri limiti, è il vincitore. Chi fa uso di cocaina sembra aprirsi al mondo e agli altri, al più sfrenato edonismo e sembra essere circondato da un alone di potenza. Ovviamente questi falsi miti legati al consumo di cocaina, che servono ad idealizzarla come sostanza, sono ideati e mantenuti da spacciatori e consumatori. Infatti i primi hanno bisogno che si parli bene della sostanza per venderla il più possibile, nascondendo i seri pericoli e le controindicazioni, chi ne fa uso invece cerca di negare il profondo disagio che si cela dietro il consumo di cocaina.

In una società in cui la tristezza non è concessa e dove la prestazione, l’essere superiori e il dominare sono valori fondamentali, dove c’è spazio solo per ciò che sfavilla e che attiri l’attenzione, e dove ognuno di noi si mostra come la pubblicità di se stesso, il consumo di cocaina e il consumarsi nella sostanza vengono normalizzati ed esaltati.

Cocaina e immagine di Sé richiesta dalla società odierna

La cocaina infatti è usata dalle più svariate classi sociali e in soggetti con differente fascia d’età e il suo uso viene legittimato e valorizzato dal contesto sociale. Sollecitati continuamente da modelli che vorrebbero imporre cosa dobbiamo essere e cosa si deve essere la cocaina dà al soggetto la sensazione di superare il proprio Sé Reale e avvicinarsi sempre di più a quello Ideale, quello trionfante; ma una volta finito l’effetto della sostanza ecco che si riprecipita nella quotidianità e in quello che viene percepito un Sé manchevole di qualcosa. Se ci si percepisce sempre mancati di qualcosa si tenderà ovviamente a ricercare e a desiderare sempre qualcosa di esterno che avrà la funzione di darci più valore, nella compulsività di un desiderio che non è realmente nostro e nella sua sfrenatezza; la ricerca incostante di essere sempre di più tramite beni materiali e le sostanze. La cocaina è lo specchio della società capitalista e consumista dove apparire è più importante che essere, dove il potere e l’essere migliore sono le uniche cose che contano e che porta l’essere umano ad essere un eterno adolescente, senza inibizioni e senza regole.

La mente adolescente (2014) di Daniel Siegel – Recensione del libro

Il libro La mente adolescente di Daniel Siegel è un viaggio all’interno della psicologia dei ragazzi dai 14 fino ai 24 anni, affrontato da più punti di vista, con importanti contributi neuroscientifici che si sommano a una lettura il più possibile umana, costante di un po’ tutti i libri di Siegel.

 

Nel libro sono presenti molti esempi tratti dalla pratica clinica dell’autore, così come riferimenti alla sua vita personale. Inoltre, ricompaiono dei punti fermi del suo lavoro divulgativo, per esempio la teoria del cervello tripartito di MacLean, su cui si fonda in pratica tutto il suo razionale di intervento clinico, che mira a uno stato di integrazione totale delle diverse parti del cervello (istintuali, emotive, neo-corticali, gli emisferi destro e sinistro del cervello).

La mente adolescente ed il processo di potatura

Il libro La mente adolescente alterna sezioni teoriche a pagine che contengono esercizi applicabili in senso clinico, ma anche utilizzabili dal lettore senza una preparazione clinica professionale.

L’adolescenza, Daniel Siegel ci spiega, è un periodo di trasformazioni, in senso sia fisico (la pubertà), che psicologico (l’adolescenza in sé). Qualcosa cambia nel cervello e nei pensieri del giovane, in parallelo a una trasformazione fisica così rapida da poter essere paragonabile, come “velocità” di metamorfosi, a quella che avviene nei primi anni di vita di un neonato. Inoltre, anche a livello psichico, accadono così tante cose, da consentirci di mettere a paragone il periodo adolescenziale con i primi tre anni di sviluppo del bambino (i famosi 1000 giorni, che un po’ tutti concordano nel ritenere gli anni della fondazione della personalità, costruita intorno a un temperamento innato).

Se i primi anni sono anni di “imprinting”, gli anni dell’adolescenza sono estremamente fertili e questo per il processo di sfoltimento (“potatura”, o “pruning”) delle sinapsi neuronali, che concorre a creare e a rimarcare reti neuronali che rimarranno “marchiate” a fuoco nella mente dell’individuo per tutta la vita. Per questo è importante che, per esempio, chi voglia insegnare ai propri figli a suonare il pianoforte, ve lo introduca in infanzia, ma si assicuri che il ragazzino continui a suonarlo negli anni dai 13/14 fino ai 20, anni insomma grandemente influenti su tutta la via futura.

La mente adolescente: quali cambiamenti avvengono

Daniel Siegel in La mente adolescente ci illustra i quattro grandi cambiamenti che avvengono in età adolescenziale:

  • Aumenta la ricerca di novità. Siegel qui fa riferimento alla questione dopaminergica che, come è noto, sta alla base del meccanismo che ci porta a buttarci su cose nuove, a cercare sensazioni diverse, nuove, per mezzo di quello che viene chiamato circuito di reward -che premia il cervello con scariche di dopamina, e in questo modo aumenta l’appetibilità (l’affordance) dell’esperienza stessa, che verrà ricercata nuovamente. Siegel parla anche di un livello di dopamina tendenzialmente più basso negli anni dell’adolescenza, ma con picchi più alti quando vi siano sensazioni nuove e potenti, che producono un comportamento più “impulsivo”. Questi sono anche gli anni della strutturazione delle dipendenze più difficili da sradicare, proprio in ragione di questo particolare panorama neurochimico in cui è centrale il ruolo della dopamina, sempre coinvolta in tutto ciò che riguarda il problema “addiction”.
  • Vi è la ricerca di un maggior coinvolgimento sociale. Se l’adolescenza rappresenta l’arco temporale che consente a un individuo di sperimentarsi e di attraversare un periodo, per usare delle parole mutuate dalla psicologia dello sviluppo, di “separazione/individuazione”, ciò significa che l’investimento iniziale effettuato dal bambino, in senso affettivo, verso la coppia genitoriale, lascia il posto a un progressivo distacco e a un investimento questa volta verso l’esterno, verso il gruppo dei pari, che come un magnete trascina a forza il ragazzo al di fuori del contesto di origine. Questo processo avviene per gradi, e con tempi diversi: quel che è certo è che contiene in sé un lutto reciproco vissuto da genitori e figli, che in questo modo, inevitabilmente, si allontanano.
  • Le emozioni vengono esperite con maggiore intensità. Su questo punto Daniel Siegel fa riferimento alla questione già citata della dopamina, e in più parla di una sorta di “iper-razionalità” che caratterizza in questa fase della vita il pensiero dei ragazzi. Per iper-razionalità, Siegel intende una specifica forma del pensiero che certo si complessifica in ragione dello sviluppo cerebrale, che in questa fase assume particolare rilevanza, ma che tuttavia rimane per certi versi “limitato” a delle considerazioni parziali a riguardo della realtà. Questo vuol dire, in altre parole, che l’adolescente esegue delle valutazioni parziali sulle esperienze che vive e di ciò che intende fare, in particolare con uno sbilanciamento tra quelli che sono i “pro” e i “contro” relativi alle diverse esperienze. Siegel fa l’esempio della roulette russa, per un adulto gioco rischiosissimo e assurdo, per un adolescente invece gioco “con alte probabilità di vincere”, vista la possibilità di non trovare il proiettile in canna 5 volte su 6 (Siegel usa questo esempio estremo per cercare di far capire al lettore che l’adolescente estremizza e assolutizza la valutazione dell’esperienza, negando o non integrando alcune parti o certi rischi connessi ad un’esperienza: è infatti noto che in questa fase avviene il maggior numero di decessi per comportamenti a rischio, che in questi anni non sono valutati a fondo, ma vissuti con velocità e non ponderati). Questo pensiero iper-razionale ha quindi la “colpa” di accendere nell’adolescente quegli slanci all’azione che a volte possono metterlo a rischio
  • Aumenta l’esplorazione creativa. In questa fase aumenta potentemente la spinta dell’individuo a vedere e sperimentare cose nuove: questo ha una funzione anche evolutiva (senza la spinta a uscire dal nucleo famigliare, la famiglia stessa rischierebbe di ripiegarsi su sé stessa, evitando di fatto quei “salti” evolutivi che sono alla base della buona riuscita dell’evoluzione della specie umana, che per evolvere bene deve mischiarsi). Inoltre, lo sviluppo cerebrale porta l’individuo a complessificare il suo stesso pensiero, in grado ora di astrarre e mettere i discussione le cose, approfondendole. Sono anni, Daniel Siegel ci spiega, di grande maturazione intellettuale e di maggiore consapevolezza, pur sempre però minacciata dal senso di confusione e di diffusione identitaria che con sé porta. Per questo resta così importante la “presenza” di figure stabili che traghettino, come “sacerdoti del passaggio”, il ragazzo verso uno stato di maggiore fermezza identitaria.

In adolescenza è forte lo scollamento tra quello che il/la ragazzo/a dice di volere, e quello di cui invece ha bisogno. Assecondare le spinte di un adolescente senza mettergli limiti, è lasciarlo in balìa di sé stesso, perso in una libertà sconfinata che è solo caos. Daniel Siegel in La mente adolescente mette l’accento sul fatto che, in ogni caso, in questa fase resta forte il bisogno di accudimento e di “guida” da parte di persone autorevoli, nel mare della complessità di una fase di transizione così delicata per l’individuo che la vive.

Gli effetti della discriminazione razziale su bambini e adolescenti

Un recente studio condotto presso l’Università di Riverside evidenzia il forte impatto che la discriminazione razziale ha sui bambini di 7 anni.

 

In casa, a scuola o al centro di programmi politici, il tema della discriminazione è più attuale che mai. Ma ci siamo mai chiesti quali conseguenze la discriminazione può avere sui bambini?

Precedenti ricerche avevano già messo in risalto il fatto che tale fenomeno possa avere delle conseguenze su bambini al di sotto dei 10 anni e che un forte senso di identità etnico-razziale sia un fattore protettivo contro gli effetti negativi della discriminazione razziale. Altre ricerche, ancora, hanno studiato a lungo le conseguenze che comporta l’essere discriminati in adolescenza; in particolare uno studio ha dimostrato che tra adolescenti di etnia Latina e Afroamericana le conseguenze della discriminazione razziale sono riferibili ad abuso di sostanze, depressione e comportamenti sessuali rischiosi (Kao & Caldwell, 2017).

Discriminazione razziale e bambini: lo studio

L’etnia è, oltre ogni dubbio, un’importante parte dell’identità e dello sviluppo stesso degli individui. Riconoscendo tale importanza, Yates e Marcelo, recentemente hanno indagato l’esperienza della discriminazione razziale in un campione di 172 bambini di 7 anni (86 femmine e 86 maschi). Il 56% del campione era composto da bambini di etnia latina, il 19% afroamericani e il resto multietnici.

I ricercatori hanno dapprima fornito ai partecipanti la seguente definizione di discriminazione razziale:

Discriminare vuol dire maltrattare o non rispettare l’altra persona solamente per il colore della pelle, perché parla una lingua diversa o ha un accento diverso, o perché proviene da un altro paese o un’altra cultura.

Successivamente, è stato chiesto ai bambini se avessero mai percepito di essere stati discriminati per il colore delle pelle, la lingua-madre o per la cultura d’origine (Yates & Marcelo, 2018). Un anno dopo, I ricercatori hanno indagato l’importanza data dai bambini alla propria etnia, i sentimenti maturati verso di essa e quanto il loro comportamento fosse influenzato dalla stessa. Infine, è stata estrapolata l’identità etnico-raziale (ERI) che riflette credenze e attitudini che gli individui hanno circa i propri gruppi etnici.

Ciò che emerso dallo studio è che, tra i bambini con un senso di identità etnica al di sotto della media, l’esperire discriminazione predice un aumento di problemi comportamentali internalizzati ed esternalizzati (ansia, depressione, comportamenti oppositivi). Al contrario, la stessa esperienza non predice suddetti problemi tra i bambini con un’identità etnica fortemente sviluppata (Yates & Marcelo, 2018).

A confermare ciò, la letteratura sul tema ha precedentemente indicato che gli adolescenti con maggior interesse verso la propria cultura d’origine e con un maggior senso di appartenenza al gruppo etnico d’origine dimostrano maggior benessere psicologico e meno effetti negativi sul comportamento rispetto ai coetanei meno informati e connessi al proprio gruppo d’appartenenza (Nuttall & Valentino, 2017).

Conclusioni

Il recente studio di Yates e Marcelo è utile perchè pone l’accento sull’importanza di promuovere e sostenere la conoscenza riguardo il proprio gruppo etnico e il senso di appartenenza sin dai primi anni di vita, per ridurre la discriminazione razziale e i suoi effetti negativi sui bambini.

I genitori dovrebbero sapere che etnicità, razza e cultura sono elementi chiave nella vita di un bambino, per cui parlare con loro della propria etnia e di come viene soggettivamente vissuta è importante, anche ai fini preventivi.

La madre simbolica e la sua funzione

La funzione materna non conosce cure anonime in quanto queste non danno senso alla vita, la madre è colei che sa rendere e fa sentire ogni figlio unico e insostituibile.

In nome del padre: si inaugura il segno della croce. In nome della madre s’inaugura la vita. (De Luca, 2006)

 

Per madre dobbiamo intendere non solo colei che genera biologicamente, piuttosto è bene mettere in risalto anche la sua funzione simbolica, che non si consuma solamente in quella biologica. Freud (2009) vede nella madre la prima soccorritrice, colei che accoglie le prime urla del bambino; la madre è dunque accoglienza pura. Recalcati fa coincidere simbolicamente la funzione materna all’immagine delle mani che sostengo, accolgono e si prendono cura dei primi anni dell’esistenza, che abbracciano la vita, successivamente riconosciuta dal padre.

Il bambino nel vedere lo sguardo della madre guarda il mondo, egli non solo vede l’Altro nello sguardo materno, ma vede anche se stesso. Lo sguardo della madre può avere diverse valenze, infatti non c’è un modo univoco di essere madre ma esistono diversi modi di esserlo. Lo sguardo che incontra il bambino nei primi anni di vita può essere sereno, aperto, soddisfatto, che mostra quanto quel bambino esistesse già nel desiderio materno; oppure può essere uno sguardo depresso, dove il mondo e l’Altro verranno rappresentati come cupi, spenti e che rimanderà al bambino un’immagine di sé come non degno di amore.

L’essere umano cresce nel vero senso della parola, quindi si sviluppa, si umanizza, quando si sente nel desiderio della madre, essendo oggetto di cure particolareggiate e non di una maternità che segue regole e comportamenti standard.

La funzione materna non conosce cure anonime in quanto queste non danno senso alla vita, la madre è colei che sa rendere e fa sentire ogni figlio unico e insostituibile.

Basti pensare alla madre per antonomasia, Maria, madre di Gesù, abitata dal desiderio puro, colei che mostra la potenza della vita e della sua generatività. Questa donna porta la vita nella vita ed è avvolta dal mistero, dalla contraddizione in quanto la vita che genera non è di sua proprietà, è responsabile di questa vita ma non è un suo possesso. Madre è infatti colei che ti genera, ti insegna a camminare per poi lasciarti andare, che vede l’insostituibilità nella vita del figlio ma allo stesso tempo deve saperla lasciare andare. Il rischio che si corre nel non lasciar correre da solo il proprio figlio è quello di negargli la vita, di tenerlo bloccato ed atrofizzarlo.

La storia del re Salomone, nel primo libro dei Re, rende ancora più chiaro quanto appena detto. Un giorno andarono dal re due donne che abitavano nella stessa dimora e che da poco erano diventate madri entrambe, si presentarono dinnanzi a lui e una disse che il figlio della ragazza che l’accompagnava era morto durante la notte perché questa vi si era addormentata sopra e che questa aveva posto su di lei, mentre dormiva, il figlio morto, prendendo invece quello vivo. L’altra donna replicò che non era vero, che il figlio morto non era dell’altra e che non vi era stato alcuno scambio. Allora il re ordinò di farsi portare una spada e disse che avrebbe tagliato a metà il figlio vivo e che avrebbe dato una parte all’una e un’altra parte all’altra. La madre del bambino si rivolse al re dicendo in lacrime di dare il bambino all’altra donna, mentre l’altra rispose che il bambino non doveva essere di nessuna delle due e doveva essere diviso a metà. Il re disse: “Date alla prima il bambino vivo. Questa è sua madre.

Questo racconto spiega come la funzione materna, non patologica, preferisca la vita del figlio senza proprietà rispetto alla morte di questo. Questi sono due aspetti della maternità, una madre che soffoca, schiaccia il figlio e il suo desiderio, quella che si definisce la mamma chioccia che vuole sempre i suoi figli con sé, o quella che Lacan definisce la mamma coccodrillo, che finisce per ingoiare suo figlio. Il rischio della maternità è questo, la completa fusione, l’assenza di identità. È proprio in questa fase che occorre il padre, con la sua funzione di porre delle regole. Il bastone che va messo tra le fauci del coccodrillo è il Nome del Padre che impedisce al figlio di morire, evita l’incesto, ed impedisce che questo venga completamente assorbito dal materno.

Essere madre, continuando ad essere donna

Non solo serve il padre per evitare la morte matricida del figlio, ma occorre che la madre si ricordi di essere anche donna, la funzione materna non può uccidere l’essere donna. Lo scontro sembra essere un po’ quello tra Maria, madre per eccellenza nella visione patriarcale, una versione socialmente accettata, benefica e positiva, ed Eva, incarnazione per l’ideologia patriarcale di una donna cattiva, peccaminosa, lussuriosa. Dominava dunque una visione della donna schizoide e manichea, dove la donna era il male e la madre era il bene.

Ora questa visione, con la libertà sociale e sessuale acquisita dalle donne, è venuta meno, anzi è stata radicalmente sovvertita; le donne oggi lavorano e hanno sempre meno tempo da dedicare ai propri figli (propria l’assetto sociale attuale sancisce questa bipartizione tra donna e madre e la loro completa scissione), nell’ipermodernità la maternità è vissuta come un handicap alla propria affermazione sociale.

L’integrazione di queste due anime del femminile, della donna e della madre è necessaria, poiché l’una senza l’altra sono destinate a fallire e a non essere. La loro convivenza dinamica rende la funzione materna attiva nel processo di affiliazione e di umanizzazione della vita.

Nel suo desiderio la donna salva il bambino, non nell’essere in completa simbiosi e fusione, ma nel fatto che, non solo la madre, ma anche la donna abbia un desiderio che vada al di là della maternità; il bambino ha bisogno della presenza ma allo stesso tempo dell’assenza della madre. La vita del figlio unica e insostituibile nel desiderio della madre ha bisogno di essere accolta, desiderata e amata e allo stesso tempo essere lasciata libera di sperimentarsi, di scoprirsi.

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