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Oltre la psicoterapia: il trattamento della depressione dalla TEC alla mindfulness

Nel trattamento della depressione, la CBT, la terapia psicodinamica, la terapia metacognitiva sono gli approcci a cui oggi più spesso si ricorre e dei quali si hanno più dati a disposizione per valutare gli effetti e i benefici per i pazienti. Vi sono però altre tecniche, psicoterapiche e non solo, alle quali si può ricorrere nel trattamento della depressione.

 

Depressione e Terapia ElettroConvulsivante

A dispetto dell’immaginario collettivo che la associa alle disumane pratiche dei manicomi degli anni ‘30, la Terapia ElettroConvulsivante (TEC – ai tempi nota come Elettroshock) è oggi tuttora in uso, soprattutto nel trattamento delle depressioni più gravi.

La TEC rilascia, mediante elettrodi applicati sullo scalpo, una corrente elettrica altamente controllata sulla corteccia prefrontale del cervello, che risulta ipoattivata nelle persone che soffrono di depressione. Intervenire con la TEC comporta tuttavia dei rischi soprattutto a livello cognitivo.

Per questo motivo alcuni ricercatori (Tor, Bautovich, Wang, Martin, Harvey e Loo, 2015) stanno valutando gli effetti di una stimolazione con impulsi ultra-brevi. La stimolazione ultra-breve rilascia impulsi di elettricità con una durata più breve di quella standard e separati da delle piccole pause, in questo modo la stimolazione del tessuto cerebrale viene ridotta di un terzo rispetto alla stimolazione standard. Dalle analisi è emerso che la TEC standard è leggermente più efficace per il trattamento della depressione, richiedendo in media una seduta in meno di trattamento rispetto alla terapia ad impulsi ultra-brevi, ma porta con sé una maggior incidenza di effetti collaterali sul versante cognitivo, in particolare sulle funzioni mnestiche.

La stimolazione ultra-breve invece diminuisce significativamente il rischio potenziale di distruzione delle memorie formate prima del trattamento ed è efficace quasi allo stesso livello della TEC standard. Per questo motivo questo nuovo trattamento, che si sta gradualmente inserendo nella pratica clinica in Australia, costituisce uno dei più significativi sviluppi nel trattamento clinico della depressione severa degli ultimi 20 anni. Nonostante i benefici della stimolazione ultra-breve siano significativi, i ricercatori sottolineano come la TEC standard non possa essere accantonata, ma va considerata come via terapeutica nei casi che richiedono una risposta più veloce al trattamento in condizioni di urgenza ed emergenza.

Depressione e stimolazione transcranica a corrente diretta continua

Tra gli ulteriori strumenti a cui si può ricorrere nel trattamento della depressione, va ricordata anche la stimolazione transcranica a corrente diretta continua (tDCS). La Transcranial Direct Current Stimulation (tDCS) è una forma di stimolazione cerebrale non invasiva e consiste nel far passare una debole corrente elettrica depolarizzante nella parte anteriore del cervello con l’uso di elettrodi posti sul cuoio capelluto, durante la procedura i pazienti rimangono svegli e vigili.

La tDCS, nata in Italia e oggi usata in tutto il mondo, è una tecnica di facile applicazione con cui è possibile stimolare diverse parti del cervello in modo non invasivo, efficace, indolore e senza effetti collaterali significativi (le più frequenti percezioni riscontrate sono un leggero pizzicorio/prurito/calore all’inizio della stimolazione nei punti in cui sono posizionati gli elettrodi). Nonostante sia una tecnica “giovane”, molti studi la indicherebbero come un possibile prezioso strumento anche per il trattamento di altre condizioni neuropsichiatriche oltre la depressione, quali ansia, morbo di Parkinson, demenza di Alzheimer, dolore cronico, dipendenze, riabilitazione post ictus o traumi.

La tDCS permette due tipi di stimolazioni: anodica e catodica. La stimolazione anodica provoca un’eccitazione dell’attività neuronale e quella catodica la inibisce o la riduce. La stimolazione tDCS consiste in una debole corrente elettrica continua all’intensità costante di 1-2 mA, non percepibile dalla persona, che viene applicata allo scalpo tramite una coppia di elettrodi (uno eccitatorio, l’anodo, e uno inibitorio, il catodo) di 35 cm² di superficie. Gli elettrodi sono rivestiti da una spugna sintetica imbevuta di una soluzione salina per aumentare la conduttività (consentendo di attraversare le ossa craniche e raggiungere l’area cerebrale d’interesse) ed evitare possibili effetti fastidiosi causati dall’applicazione diretta di corrente.

A questo punto vengono inseriti all’interno di una cuffia di gomma (non conduttiva) che ne facilita il fissaggio sulla testa. Generalmente viene utilizzato un montaggio in cui l’elettrodo attivo viene posizionato sull’area che si intende stimolare mentre l’elettrodo di riferimento viene posizionato sull’area sovraorbitale controlaterale o in un’area non cefalica (ad esempio sulla spalla).

Questa tecnica, attraverso il flusso di corrente da un elettrodo all’altro, modifica i potenziali di membrana dei neuroni permettendo di modulare l’eccitabilità della corteccia cerebrale e quindi l’attività neuronale del cervello, aumentando o diminuendo la funzionalità dell’area stimolata (producendo effetti a livello cognitivo e comportamentale) per un tempo che permane oltre la durata della stimolazione. In particolare, la stimolazione anodica depolarizza i neuroni aumentando l’eccitabilità corticale dell’area stimolata, mentre la stimolazione catodica iperpolarizza i neuroni con effetti inibitori. Se la stimolazione viene ripetuta più volte è possibile rendere tali modificazioni più stabili e durature (Bolognini et al. 2009).

La differenza tra tDCS e terapia elettroconvulsiva, sta nel fatto che quest’ultima prevede una corrente molto più forte – tipicamente 800 milliampere, o 800 volte la corrente utilizzata nella tDCS – ed è progettata per produrre una scarica controllata. Altre differenze includono il fatto che la TEC fornisce un breve impulso piuttosto che una corrente costante.

Nei soggetti con depressione, gli elettrodi vengono posizionati sulle loro tempie in modo che la corrente possa attraversare la corteccia prefrontale dorsolaterale (un’area con attività diminuita in tali soggetti). Le persone con depressione mostrano l’ipoattività cerebrale in diverse aree cerebrali, ma soprattutto in questa regione; si pensa che il meccanismo d’azione della stimolazione possa aumentare l’attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale, ma ancora non è stato dimostrato nessun effetto di questo tipo.

Esistono ulteriori tecniche progettate per modificare l’attività elettrica del cervello: la stimolazione magnetica transcranica, la stimolazione transcranica a corrente alternata, la stimolazione profonda del cervello e gli ultrasuoni focalizzati.

Depressione e pratiche meditative: la mindfulness

Ma le tecniche di stimolazione cerebrale non sono le sole a essere applicate nella cura della depressione, molto utilizzate risultano anche le pratiche meditative, in particolare la Mindfulness.

La mindfulness è una forma di meditazione applicabile all’attività clinica. Essa è una pratica di attenzione al momento presente, attenzione consapevole, intenzionale e non-giudicante. Jon Kabat-Zinn è stato il primo a portare la mindfulness nel contesto psicoterapico. Per Kabat-Zinn, per nutrire il terreno del nostro atteggiamento e affinché la nostra pratica della consapevolezza possa crescere rigogliosa e fiorire, dobbiamo coltivare sette atteggiamenti: non giudizio, pazienza, la “mente del principiante” (essere disposti a guardare ogni cosa come se la vedessimo per la prima volta), fiducia, non cercare risultati, accettazione, lasciare andare, impegno nella pratica e visione di ciò che si desidera per se stessi.

Jon Kabat-Zinn, sostiene che meditare possa trasformare in modo duraturo la sofferenza e lo stress.

L’obiettivo della Mindfulness è di eliminare quindi la sofferenza inutile, coltivando una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada attraverso un lavoro attivo con i propri stati mentali. Quindi, la pratica della Mindfulness consente di passare da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore percezione soggettiva di benessere, grazie ad una conoscenza profonda degli stati e dei processi mentali.

Kabat-Zinn ha reso la Mindfulness accessibile alle possibilità psicologiche e fisiche dei pazienti e facilmente adattabile a condizioni mediche particolari: nel 1979 avvia il programma per la riduzione dello stress basato sulla coltivazione della consapevolezza. Il programma MBSR creato e messo a punto da Kabat-Zinn è caratterizzato da tempi limitati e limiti di movimenti e spazi; è un percorso strutturato, in cui si unisce la tecnica Mindfulness agli aspetti scientifici e psicoeducativi.

Negli ultimi venticinque anni la mindfulness è stata efficacemente applicata su diverse psicopatologie tra cui la depressione, ma anche su disturbi d’ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo da stress post-traumatico, dipendenze, dolore cronico e molto altro.

Gli effetti della disoccupazione su tre dimensioni: socio-psico-fisiologica

Quali sono gli effetti della disoccupazione sulla salute psicologica e fisica delle persone? Quai altri aspetti influiscono nel determinare il comportamento delle persone di fronte a questi eventi?

 

Lo scopo principale di quest’articolo è quello di evidenziare risultati provenienti da studi più recenti sugli effetti della disoccupazione nella salute psichica e fisica dell’individuo. Saranno indagati inoltre altri aspetti come quello economico e sociale, nonché i meccanismi psicologici e di personalità sottostanti al comportamento degli individui di fronte a determinate situazioni sfavorevoli. Verranno inoltre esposti alcuni progetti ed ipotesi di intervento pensati per affrontare tale problematica.

Gli effetti della disoccupazione sullo stato d’animo

Disoccupato: chi o che non ha o non trova un’occupazione; in senso ristretto, chi è stato privato della sua abituale occupazione”. Questa è la definizione che ci dà il vocabolario Treccani, ma la disoccupazione è più che una mera perdita di occupazione, più dell’esser privati di un lavoro. Il disoccupato non è solo privato della sua occupazione, infatti, ma della sua stessa identità. Il lavoro, oltre a un compenso remunerativo e all’introito mensile che ci permette di ‘’tirare avanti’’, di pagare le bollette (sarebbe meglio dire tasse), pagare l’affitto o fare la spesa e fornendoci una “base sicura”, detta la sua influenza su tutte altre sfere che non sono prettamente economiche. Parliamo dell’aspetto psicologico, sociale e fisico. Quando una persona si trova senza un’occupazione, soprattutto se ciò non è dipeso dalla sua volontà, entra in un circolo vizioso: lo stato d’animo negativo è tale da incidere sull’autostima e rende ancora più difficile trovare un nuovo impiego, i soggetti in questione innescano una sorta di loop: a casa soffrono, si sentono in colpa, addirittura smettono di cercare un’alternativa lavorativa, tanto è il carico emotivo e il senso di sfiducia che li accompagna. Esso assolve anche tutta una serie di altre funzioni di tipo psicologico: riconoscimento, gratificazione, competenze. E, infine, permette di sentirsi utili e di costruire legami. Quando il lavoro manca, quindi, viene lesa a tutti i livelli la dignità dell’essere umano.

In linea con queste posizioni anche Warr (1987) ha affermato che il lavoro è necessario per l’affermazione del proprio ruolo sociale, per sperimentare il controllo personale e per allargare i propri contatti sociali.

Disoccupazione e locus of control

La letteratura più recente dimostra come ci sia una netta correlazione tra diversi aspetti di personalità, locus of control, strategie di coping, ansia, depressione  e disoccupazione (Navarro et. al 2018). Rott (1966), nei suoi studi, descrisse il locus of control come la percezione del controllo degli eventi che ognuno possiede ed esso può essere attribuito a sè stessi o a fattori esterni. Coloro che presentano un locus of control interno tendono ad attribuire i risultati ottenuti a capacità personali, credono che ogni azione abbia delle conseguenze e quindi per cambiare gli esiti è necessario esercitare un controllo serrato. Al contrario, chi presenta un locus of control esterno ritiene che le conseguenze di alcune azioni siano dovute a circostanze esteriori, per questo le cose che accadono nella vita sono fuori dal loro controllo e le azioni messe in atto sono il risultato di fattori non gestibili, come il destino e la fortuna. Tale teoria ha avuto una grande rilevanza nella storia della psicologia, soprattutto per quanto riguarda le nostre modalità di adattamento e fronteggiamento alle situazioni, ovvero le strategie di coping. Pertanto, riflettere sul “locus of control” e sulle “strategie di coping” messe in atto, in esperienze come la perdita del lavoro, risulta di fondamentale importanza.

Gli studi sulla disoccupazione evidenziano come il disagio sia in grado di generare nell’individuo una spirale di learned-helplessness, la cosiddetta “impotenza appresa”, generando un progressivo isolamento sociale e una sempre più evidente tensione nei rapporti familiari. La ricerca attiva di lavoro può essere considerata un fattore di protezione, infatti livelli elevati di benessere sono stati riscontrati fra coloro che hanno cercato di controllare direttamente la loro condizione e di agire in prima persona per risolverla (Kinicki et. al, 2000). Secondo diversi autori, l’individuo attribuisce al lavoro significati differenti. Per alcuni può rappresentare il reddito, per altri il prestigio, per altri la possibilità di auto-realizzarsi e per altri opportunità di contatti sociali o di condividere valori (ad es., Askildsen et al., 2005).

Disoccupazione: le indagini recenti

Per molti il lavoro è una delle dimensioni fondamentali dell’identità. Il lavoro mantiene in attività: può contribuire a rafforzare le energie fisiche e psichiche e permette di esercitare ed ampliare le doti, le caratteristiche e le attitudini individuali (Saks & Ashforth, 2000). Anche altri studi longitudinali hanno dimostrato che eventi di disoccupazione di massa o fenomeni come la recessione possono avere delle notevoli ripercussioni sulla salute generale, e l’impatto sembra maggiore dove le politiche sociali economiche e della salute non sono protettive e supportanti (Davies, 2018).

Lo sviluppo sostenibile nazionale ed internazionale riconosce l’importanza di supportare gli individui stimolando la resilienza verso shock esterni al fine di raggiungere un buono stato di salute. Mentre esistono piani di emergenza per eventi naturali, al momento non esistono piani di emergenza che hanno lo scopo di fornire un quadro di risposta costruttivo ed adeguato a fenomeni come la disoccupazione (Davies 2018).

Diverse ricerche, infatti, hanno studiato l’interazione tra la mancanza di lavoro e la salute ma poche hanno affrontato il problema in termini di costi della salute pubblica. In Austria, sono state effettuate indagini sui redditi dei lavoratori ed informazioni dettagliate di pagamenti da parte dell’assicurazione sanitaria pubblica (Andreas, 2009). È di nuovo confermato che gli effetti immediati sulla disoccupazione potrebbero non solo avere dei risvolti sulle condizioni di salute fisica ma più probabilmente sulla salute mentale. Infatti, più per i maschi, sono stati rilevati costi significativamente più elevati sulla la salute pubblica associati agli acquisti di farmaci psicotropi e anche per le ospedalizzazioni a causa di problemi di salute mentale (Andreas, 2009). In alcune interviste, le persone disoccupate, dichiaravano che la disoccupazione allarga le disuguaglianze e il supporto, oltre alla persona colpita, dovrebbe essere esteso anche agli altri membri della famiglia che risentono di queste problematiche.

Disoccupazione: la prevenzione del disagio

A partire da queste indagini, uno studio di Davies ha individuato 8 punti chiave su cui focalizzarsi per definire un quadro di risposta in termini di prevenzione (Davies 2018).

  1. Identificazione delle aree a rischio;
  2. Prevenzione precoce;
  3. Mobilitare una risposta multisettoriale;
  4. Sostegno proporzionato ai bisogni;
  5. Sostegno esteso alla famiglia;
  6. Consulenza e supporto per l’occupazione;
  7. Sostenere e sfruttare le risorse proprie della comunità;
  8. Monitorare e valutare le azioni.

Ancora una volta si evidenza la necessità di supportare l’individuo e la comunità, in particolare la popolazione più vulnerabile in modo da prevenire disuguaglianze sociali (Davies, 2018).

Disoccupazione: quali effetti sul sonno?

Un altro studio di Palmes (2017) ha recentemente affrontato le conseguenze  della disoccupazione sugli individui, ma in questo caso gli effetti negativi si ripercuotono sul sonno, comportando alterazioni dette parasonnie, come ad es. l’insonnia.  Sono stati somministrati questionari ad adulti tra i 50-64 anni che valutavano la presenza di insonnia ed è emersa un’associazione tra l’insonnia e i soggetti che presentavano varie problematiche, tra cui obesità, dipendenza da fumo, solitudine, perdita del lavoro e insoddisfazione sui luoghi di lavoro. In misura maggiore nelle donne, in questo studio. Tali risultati sembrano meno prevalenti nei soggetti con un’istruzione più alta. Alla luce di queste evidenze gli autori suggeriscono una ristrutturazione delle politiche del lavoro in favore degli individui, sia per quanto concerne la sicurezza lavorativa che per la qualità nell’ambiente di lavoro ( Palmes 2017).

Oltre alle associazioni trovate tra disoccupazione e disturbi del sonno, un altro studio di Patel (2010) conferma che la scarsa qualità del sonno è correlata con il fattore socio economico, in particolare nelle popolazioni più povere, definendo tale fenomeno ‘’disparità del sonno” sul piano gerarchico della popolazione. Queste ultime considerazioni potrebbero rappresentare un input per pianificare degli interventi mirati in determinati gruppi cosi da ridurre anche le conseguenze negative sul sonno (Patel et al. 2010).

Disoccupazione: progetti a Milano

Alcuni Psicologi, nel comune di Buccinasco (MI), in collaborazione con la Banca del tempo, hanno messo a punto un interessante progetto intitolato “Lavoro: come occuparsene senza preoccuparsene” . Questo esperimento sul territorio – realizzato con successo nel 2016 – è stato presentato dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia in occasione della giornata mondiale della psicologia. Ammettere che la componente psicologica ha un ruolo importante nella ricerca di lavoro e ribadire che il ruolo dello psicologo va oltre l’aspetto clinico e patologico ed è utile per la qualità della vita delle persone, soprattutto in ambito lavorativo e sociale, è un aspetto da non trascurare. Il progetto consisteva in cinque incontri di gruppo (con una fase individuale di bilancio delle competenze) nei quali, con un approccio psico-educativo, si cercava di ricostruire le condizioni mentali adatte a rimettersi sul mercato in modo efficace.

Alcune persone che hanno frequentato questi incontri, avevano aspettative del tutto irrealistiche, che non facevano i conti con variabili come il momento storico, l’età o la concorrenza, e questa visione non calibrata causava una chiusura testarda che li destinava inevitabilmente alla delusione. Altri ancora si erano lasciati andare a un atteggiamento vittimistico e quindi, controproducente. Per una Signora di 49 anni, di origine argentina, frequentare il corso è stato decisivo, ed ha affermato

Mi ha dato una grossa spinta, facendomi sentire molto più determinata (Carli, 2017)

Questa review della letteratura, indica chiaramente come i risultati degli studi qui esposti mettono in accordo tutti gli autori sulla stessa teoria, confermando l’ipotesi secondo cui la mancanza o la perdita di un’occupazione incide fortemente sullo stato di salute mentale delle persone sia sulla dimensione sociale, sia su quella psicologica che fisiologica, come descritto nelle ultime ricerche che riportavano disturbi del sonno. Il fine principale degli studi psicologici sulla disoccupazione non è certo quello, per altro impossibile, di eliminare il problema ma è piuttosto quello di far emergere una vasta gamma di conseguenze, in modo da riconoscere e spiegare i costi personali e sociali sperimentati dai soggetti disoccupati e possibilmente promuovere degli interventi volti ad attutirne le ripercussioni sulla salute psichica del soggetto, oltre al miglioramento sul piano finanziario. L’assenza di lavoro può toglierci molteplici cose: il sonno, la sicurezza, la fiducia, la forza, la serenità… Ma una cosa non potrà toglierci mai, l’amore. L’amore per se stessi e per coloro che ti circondano, il motore che alimenta la volontà, l’ingrediente indispensabile per quella ricetta che chiamiamo vita.

Anche giocare a Tetris può dare sollievo a una mente preoccupata

Secondo un recente studio dell’University of California Riverside (UCR), giocare a Tetris può indurre uno stato di flow. I partecipanti che a seguito dell’esperimento affermavano di trovarsi in uno stato di flow riferivano di sentirsi meno preoccupati, di sentire meno emozioni negative (tristezza, rabbia, ansia) e più emozioni positive (gioia).

 

Spesso nella vita le persone si trovano davanti a periodi più o meno lunghi di incertezza e preoccupazioni, che solitamente precedono eventi rilevanti per l’individuo in questione. Tutti impieghiamo delle strategie di coping per fronteggiare questi periodi, non tutte però si rivelano efficaci.

Una recente ricerca condotta presso l’UCR (University of California Riverside) ha dimostrato che giocare a Tetris, un leggendario videogioco sviluppato negli anni ’80, può creare uno stato di flow nei giocatori. In questa accezione il termine flow viene usato per descrivere uno stato mentale totalmente focalizzato sul gioco e disimpegnato, libero da preoccupazioni ed anticipazioni su possibili eventi futuri individualmente rilevanti.

I soggetti che hanno partecipato all’esperimento dell’UCR erano tutti individui in attesa di ricevere risultati importanti e significativi per il futuro delle proprie vite (un campione di studenti di legge in attesa dei risultati dell’esame di stato per avvocati, e un altro di dottorandi in attesa di risposte a varie candidature per differenti posti di lavoro). I partecipanti che a seguito dell’esperimento affermavano di trovarsi in uno stato di flow riferivano di sentirsi meno preoccupati, di sentire meno emozioni negative (tristezza, rabbia, ansia) e più emozioni positive (gioia).

A partire da questi risultati i ricercatori californiani sono giunti alle conclusioni che uno stato di flow, quando raggiunto, può portare dei benefici durante periodi di preoccupazioni o d’attesa di notizie importanti (ad esempio i risultati di esami medici). Gli autori, pertanto, considerano la distrazione che consegue al flow, una strategia di coping che, seppure imperfetta e difficile da raggiungere, può essere funzionale ed adattiva in alcuni momenti della vita.

Come è possibile raggiungere uno stato di flow?

Questo stato di flow può essere raggiunto anche attraverso numerose altre attività oltre ai videogiochi, ad esempio l’arrampicata oppure il nuoto. Non è però immediato trovare un’attività che possa condurre un individuo a raggiungere questo stato: occorre infatti trovare un compito che non sia né troppo facile (si rischierebbe di cadere nella noia), né troppo difficile (ove vi sarebbe il rischio frustrazione). Per raggiungere uno stato di flow bisogna che l’attività in questione vada leggermente oltre i limiti del soggetto, ma non troppo né troppo poco.

Riassumendo…

Utilizzando le parole di Sweeny, ricercatrice a capo del team che ha condotto questo studio, potremmo definire i risultati raggiunti come un importante momento di svolta nel campo della ricerca in quanto si è riuscito a mettere in relazione il concetto di flow e di stato di benessere durante i periodi di attesa, provando che i due fenomeni non soltanto correlano ma che effettivamente il flow determina e promuove il benessere almeno nel brevissimo termine.

Le implicazioni pratiche di questo studio sono enormi e lo stato di flow può essere usato attivamente da chiunque nella propria vita quotidiana, rappresentando una tra le strategie utili per poter fronteggiare meglio le attese ansiogene.

Come le nostre aspettative influenzano percezione, attenzione e apprendimento

È ormai noto e conosciuto il principio per cui impariamo dall’esperienza e costruiamo aspettative circa il nostro futuro. Tuttavia esse sono in grado di influenzare il nostro apprendimento dando priorità a informazioni ambientali che le vanno a confermare in un circolo distorto che si autoalimenta.

 

Le aspettative inoltre influenzano il nostro giudizio sul dolore intensificandolo, come evidenzia il nuovo studio di Jepma e colleghi, del dipartimento di Psicologia dell’Università del Colorado, apparso recentemente su Nature Human Behaviour.

Aspettative: la nostra quotidianità ne è colma

Quante volte ci è capitato di sentire il suono tipico della ricezione di una notifica tanto attesa sul cellulare senza che questo suono ci sia però mai stato, oppure sentiamo dolore in un’area del nostro corpo senza che vi sia una visibile causa specifica sulla stessa? Quante volte cioè ci è capitato di avere delle aspettative o delle credenze che contrastano con l’evidenza?

Seguendo la classificazione nosografica della psicopatologia classica, potremmo etichettare questi fenomeni come anormali in quanto si tratterebbe dell’avvenuta percezione di stimoli (uditivi e sensoriali ad esempio) che nella realtà non si sono mai verificati, e in questo caso si legherebbe al concetto di allucinazioni per cui si rileva uno stimolo che non esiste; tuttavia un nuovo studio, recentemente pubblicato su Nature Human Behaviour, di Jepma, Koban, van Doorn e colleghi (2018) mostra come le nostre aspettative possano direttamente influenzare e modulare non solo i processi percettivi, come già evidenziato da Sterzer, Frith & Petrovic (2008), ma anche generare dei bias nell’apprendimento che le mantengono in modo persistente nel tempo e le sostengono, anche se ripetutamente disconfermate dall’esterno.

Aspettative: lo studio per capire se e come influenzano percezione e apprendimento

Gli autori dello studio preso in considerazione (Jepma, Koban et al., 2018) hanno infatti esplorato l’influenza della generazione delle aspettative sia nella percezione che nell’apprendimento in due esperimenti, associando modelli computazionali cosiddetti trial-by-trial circa le aspettative sul dolore, con i punteggi relativi alla sua intensità; i soggetti sperimentali, 28 volontari nel primo esperimento e 34 nel secondo, hanno seguito una prima fase di apprendimento in cui hanno imparato ad associare un primo indizio visivo ad una simbolica rappresentazione del dolore, l’immagine di un termometro, indicante una temperatura alta (l’aspettativa di un dolore ad intensità alta) o bassa (l’aspettativa di un dolore a bassa intensità).

Nella seconda fase, quella di test, per ogni trial, i soggetti, all’interno dello scanner della risonanza magnetica funzionale, hanno dovuto indicare quanto dolore si sarebbero aspettati a seguito della visione dell’indizio, precedentemente appreso, su una scala da 0 a 100, a cui seguiva però un’ulteriore fase in cui essi ricevevano effettivamente uno stimolo doloroso all’avambraccio o sulla gamba tramite una punta termoriscaldata da 32°C a 49°C.

I risultati ottenuti hanno sottolineato come l’avere alte aspettative circa il dolore aumentava i giudizi circa l’intensità del dolore come riportato dai punteggi self-report dei soggetti e attivava una robusta risposta nei network cerebrali coinvolti nel processamento del dolore, confermando così un effetto diretto delle aspettative su di esso sia a livello di dolore percepito che di attivazione neurale, generando un loop tra aspettative e dolore.

Aspettative: influenzano l’attenzione

Inoltre, e questo può essere considerato l’apporto maggiore proveniente dalla ricerca di Jepma e colleghi (2018), i partecipanti allo studio si sono mostrati altamente selettivi nel modo in cui trattavano le prove fornite dal trial che stavano svolgendo per predire gli outcome dei trial successivi: infatti se l’intensità del dolore percepita era maggiore rispetto alla previsione fatta dal soggetto, quest’ultimo tendeva ad aumentare le proprie aspettative circa la presenza di una maggiore intensità del dolore anche nel trial successivo soprattutto se gli veniva presentato quell’indizio a cui aveva imparato ad associare una “temperatura” alta e quindi un’alta intensità di dolore; tendeva altresì a disconfermare la propria credenza sull’intensità del dolore prevista se gli venivano poi presentati cue associati ad una “temperatura” bassa (Jepma, Koban et al., 2018).

I punteggi riportati dai soggetti sperimentali hanno così confermato la tendenza ad apprendere, utilizzare e a prestare attenzione in modo selettivo alle informazioni ambientali che sono in linea con le proprie credenze e aspettative e ad ignorare le prove, anche concrete, che possono disconfermarle.

Ogni discrepanza tra ciò che il soggetto si aspetta, sulla base del suo bagaglio conoscitivo e di apprendimento, e ciò che si verifica ed esperisce nella realtà, dovrebbe “costringerlo” a riformulare e rivedere le sue previsione e aspettative stesse; tuttavia le evidenze riportate da Jepma e colleghi (2018) mostrano come non tutte le informazioni concrete che ci vengono fornite a disconferma delle nostre aspettative vengono soppesate ed utilizzate allo stesso modo, per cui di conseguenza si tende a confermare i propri bias.

Gli individui attivamente, sebbene non ne siano pienamente consapevoli, creano un percetto, un’informazione che viene modulata sulla base delle proprie aspettative come in una profezia che si auto-avvera, dove una falsa interpretazione di una situazione di fatto attiva un comportamento che va a confermare l’originale falsa concezione.

Connessione tra ADHD e regolazione delle emozioni: prospettive teoriche e utilità nella pratica clinica

Non è ancora chiaro quale sia il legame tra disregolazione emotiva e ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività) ma tale deficit è stato riscontrato in oltre il 40% di soggetti con ADHD.

Alberto Morandi e Silvia Locatelli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) è una condizione caratterizzata da componenti di inattenzione, iperattività, impulsività tali da rendere problematico l’adattamento del paziente al contesto di vita (Lambruschi, 2014).

Attualmente vi sono difficoltà nella definizione dei criteri di diagnosi, nell’interpretazione e nell’individuazione dei sottotipi e delle diverse manifestazioni dei sintomi in relazione all’età (Lambruschi, 2014).

Nella versione V del DSM, alcuni sintomi di disattenzione e/o di iperattività-impulsività devono essere presenti prima dei 12 anni di età e devono causare menomazione nel funzionamento sociale del soggetto, scolastico e lavorativo (APA, 2012).

Sebbene alcuni bambini abbiano sintomi sia di disattenzione che di iperattività-impulsività, vi sono alcuni pazienti in cui può predominare l’una o l’altra caratteristica. In particolare nel DSM V si presentano i seguenti sottotipi: Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Disattenzione Predominante (6 o più sintomi di disattenzione, ma meno di 6 sintomi di iperattività-impulsività sono persistiti per almeno 6 mesi); Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Disattenzione Predominante più restrittivo del precedente (6 o più sintomi di disattenzione, non più di 2 sintomi del gruppo di iperattività-impulsività sono persistiti per almeno 6 mesi); Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo con Iperattività/Impulsività Predominante (6 o più sintomi di iperattività-impulsività, ma meno di 6 sintomi di disattenzione sono persistiti per almeno 6 mesi); Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, Tipo Combinato (6 o più sintomi di iperattività-impulsività e 6 o più sintomi di disattenzione sono persistiti per almeno 6 mesi)( APA, 2012).

Il manuale DSM V consente al clinico di orientare la propria valutazione attraverso la definizione di precisi comportamenti problema, tuttavia l’avverbio “spesso” accanto alla descrizione del comportamento (es. “il bambino spesso non riesce a prestare l’attenzione ai particolari”) lascia un ampio margine di arbitrarietà nella scelta dei criteri diagnostici (Lambruschi, 2014).

Indubbiamente le indicazioni diagnostiche offrono al clinico dei criteri statistico-quantitativi importanti nella decisione diagnostica, ma tuttavia l’assenza di un modello interpretativo del funzionamento psicologico dell’ADHD rende difficile l’inquadramento del disordine sia dal punto di vista cognitivo che comportamentale (Lambruschi, 2014).

Esistono diversi modelli di spiegazione del disturbo, i quali sembrano avvalorare l’ipotesi che la componente di regolazione emotiva meriti di essere tenuta in considerazione in ambito clinico e di ricerca.

Nel tempo sono state indagate numerose ipotesi per interpretare e spiegare il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD). Diversi modelli sembrano individuare i problemi principali del bambino ADHD nei processi di controllo, nel modulare le risorse attentive in relazione al compito e nell’inibire l’informazione.

Se ci si riferisce a una capacità di inibire una risposta programmata e del controllo dell’attenzione, in psicologia cognitiva si parla di sistemi di autoregolazione (self-regulation) o di autocontrollo.

Secondo Cornoldi (1999), termini come autoregolazione, autocontrollo, automonitoraggio indicano le capacità “che un organismo ha di controllare le sue azioni in relazione alle esigenze in cui si trova”. In particolare, si parla di autoregolazione indicando non solo la possibilità di un soggetto di regolare il proprio comportamento in relazione al contesto, ma anche la fine regolazione delle reazioni fisiologiche e psicologiche in relazione allo stimolo.

Ricerche hanno evidenziato la presenza di una compromissione nella regolazione delle emozioni in individui con ADHD. Infatti, è stato possibile osservare come bambini e adulti risultano deficitari nei report compilati dai genitori (Forslund 2016, Sjoewall, 2013; Spencer, 2011; Surman, 2013) e nei test comportamentali (Maegden, 2000).

Tuttavia, non è ancora chiaro quale sia il legame tra la regolazione emotiva e gli altri sintomi del disturbo. Infatti, è stato possibile osservare come la disregolazione non sia sempre presente nel campione clinico, nonostante la percentuale superi il 40% della popolazione patologica (Spencer, 2011).

Qual è il legame tra la disregolazione emotiva e i sintomi dell’ ADHD?

Diversi studi condotti fino ad oggi hanno prodotto dati apparentemente discordanti. Infatti sembrerebbe che la disregolazione emotiva possa essere un sintomo (Forslund, 2016; Sjoewall, 2013, Martel, 2009), precedentemente ignorato tra i criteri della diagnosi categoriale, poiché definibile in termini di dimensione temperamentale (Martel, 2009) o come una conseguenza di un deficit nelle funzioni esecutive (Barkley, 1997; Maedgen, 2000) e quindi una disfunzione nell’inibizione del controllo comportamentale, di stati fisiologici, e di rifocalizzazzione dell’attenzione (Barkley, 1997; Spencer, 2011; Surman, 2013).

Secondo la prima ipotesi, che spiega la disregolazione emotiva in termini di dimensione temperamentale, la regolazione emotiva è un processo dissociabile dall’esperienza emotiva di per sé (Martel, 2009). Inoltre, in base al sottotipo di ADHD, se inattento, iperattivo/impulsivo o combinato, l’espressione della regolazione emotiva avviene in modi diversi, classificabili secondo un modello che prende in considerazione dimensioni del temperamento. Secondo questo modello il sottotipo inattento è caratterizzato da un basso controllo dell’emozione, indipendentemente dall’intensità. Mentre il sottotipo impulsivo/iperattivo è caratterizzato invece da una forte esperienza ed espressione delle emozioni positive e negative (Martel, 2009). Inoltre, se si tiene conto delle dimensioni temperamentali i due sottotipi si distinguono ulteriormente in bassa coscienziosità per il sottotipo inattento, e sgradevolezza, apertura ed estroversione per il sottotipo impulsivo/iperattivo. Infatti, esistono ricerche che evidenziano come i due sottotipi sono dissociabili. Tali ricerche suggeriscono che la regolazione delle emozioni, l’emotività negativa e quella positiva siano dimensioni indipendenti da componenti di controllo cognitivo, come le funzioni esecutive (Sjoewall, 2013; Forslund, 2016).

In questi ultimi lavori il controllo delle emozioni è stato misurato attraverso il questionario delle emozioni di Rydell (valutazione compilata dai genitori), mentre le funzioni esecutive sono state misurate attraverso compiti cognitivi (ad esempio test di Stroop e compiti di go/no-go). Entrambi i lavori hanno riportato come i dati misurati al test di Rydell e ai compiti per le funzioni esecutive non siano in relazione tra loro, ma di come invece contribuiscono in modo indipendente al disturbo.

Ad esempio, nello studio di Sjoewall e collaboratori (2013) il 16% di bambini con ADHD presenta deficit nella regolazione emotiva ma non nel riconoscimento delle stesse. In particolare, gli stessi bambini con deficit nella regolazione delle emozioni non risultano deficitari nelle funzioni esecutive. Un ulteriore 5% di bambini che hanno partecipato nello studio di Sjoewall e collaboratori (2013) sono risultati deficitari nella regolazione emotiva e nel riconoscimento delle emozioni ma non nelle funzioni esecutive (si veda la figura 1B).

La seconda ipotesi, che vede la disregolazione emotiva come una conseguenza del deficit nelle funzioni esecutive, è un’estensione del modello di Barkley (1997). Tale teoria non tiene conto di elementi temperamentali e ipotizza che il controllo dell’espressione emotiva è soggetto al controllo cognitivo.

Barkley (1997) mette in relazione la difficoltà di inibizione di un comportamento con altre funzioni esecutive (come la memoria di lavoro, il livello motivazionale in relazione al compito, quello di attivazione necessario per lo svolgimento delle consegne, il linguaggio interiore, la capacità di avvalersi dell’errore, processi generalmente indicati all’interno delle funzioni esecutive). L’ipotesi che l’ ADHD sia legato ad un deficit delle funzioni esecutive è sostenuta da ricercatori che hanno notato una certa somiglianza tra comportamenti di bambini DDAI e disordini comportamentali e/o attentivi, evidenziati da pazienti con lesioni prefrontali (Pennington & Ozonoff, 1996; Shallice, Marzocchi e altri, 2002).

Barkley (1997) ha indagato il ruolo delle funzioni esecutive nell’ ADHD proponendo un modello di spiegazione. Parte del modello prende in considerazione l’auto-regolazione degli affetti-motivazione-arousal (Self-Regulation of Affect-Motivation-Arousal). Il modello fa delle previsioni su quali siano le mancanze nell’inibizione che possono spiegare le difficoltà degli individui con ADHD: (a) una maggiore reattività emotiva a eventi emotivamente pregnanti; (b) una minore reattività emotiva anticipatoria in previsione di eventi emotivamente pregnanti (in prospettiva di una diminuzione della capacità di previsione); (c) una minore abilità di agire sulle proprie emozioni rivolte agli altri; (d) una minore capacità di indurre e regolare stati emotivi, motivazionali e di arousal che sono al servizio del comportamento diretto ad uno scopo (all’aumentare del tempo che passa verso lo obiettivo aumenta l’incapacità di sostenere arousal e motivazione verso quell’obiettivo); (e) una maggiore dipendenza dalle fonti esterne che guidano l’affetto, la motivazione e l’arousal che fanno parte di un contesto che determina il grado dello sforzo dell’azione diretta all’obiettivo (Barkley, 1997).

A partire dal modello di Barkley (1997) sono seguite ricerche che hanno hanno ipotizzato che la disregolazione emotiva nell’ ADHD possa essere concettualizzata come “deficient emotional self regulation” (DESR) riferendosi a: 1) defict nell’autoregolazione dell’arousal causato da emozioni forti, 2) difficoltà nell’inibire il comportamento inappropriato in risposta a emozioni negative, 3) problemi nel rifocalizzare l’attenzione in seguito a emozioni forti sia positive che negative e 4) disorganizzazione del comportamento conseguente all’attivazione emotiva (Spencer, 2011; Surman, 2013). Quest’ultima è una definizione molto simile a quella utilizzata da Martel (2009). Tuttavia, questi autori si sono concentrati in primo luogo nel distinguere la disregolazione emotiva in altri disturbi, come ad esempio la depressione, l’ansia e il disturbo bipolare (Spencer, 2011). Inoltre, tali autori hanno voluto indagare come la disregolazione emotiva influenzi negativamente il funzionamento sociale in pazienti con ADHD (Surman, 2013).

I due modelli esplicativi presentati nel presente articolo non si escludono l’uno con l’altro, ma possono invece essere visti come complementari. Infatti, in un lavoro di Steinberg e Drabick del 2015 viene introdotto il concetto di “effortfull control” (“controllo volontario impegnato”), secondo cui temperamento e regolazione emotiva influenzano i meccanismi che regolano e inibiscono la risposta automatica dominante a uno stimolo, modificando volontariamente attenzione e comportamento. L’inibizione appare in tale ottica una sfaccettatura dell’effortful control, e cioè quanto un bambino è abile nel sopprimere un comportamento inadeguato in un determinato contesto, che non è correlata solo con il controllo comportamentale, ma appare invece correlata soprattutto con il controllo emotivo. Secondo le autrici l’inibizione e di conseguenza il controllo del proprio temperamento sono delle componenti delle funzioni esecutive (Steinberg & Drabick, 2015). Tale abilità sarebbe appresa attraverso l’osservazione e la regolazione del comportamento da parte dei genitori (Steinberg & Drabick, 2015). Infatti, un’ipotesi all’origine del disturbo potrebbe essere un mancato apprendimento della mediazione verbale nello sviluppo dell’autoregolazione. Ovvero, non viene prestata l’opportuna attenzione alle istruzioni dei genitori e pertanto tali comandi non vengono interiorizzati e fatti propri dal bambino, non imparando quindi la necessaria autoregolazione del proprio comportamento (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

Il modello della scuola russa: Vygotskij e Lurija

Già in passato Vygotskij (1962) e Lurija (1961) avevano osservato come il meccanismo dell’autoregolazione si costituirebbe in seguito all’aiuto offerto dalle regole sociali e dallo sviluppo del linguaggio. Secondo la prospettiva di questi autori potremmo indicare nelle seguenti fasi lo sviluppo dell’autoregolazione: a) il bambino è controllato dai comandi verbali degli adulti che svolgono un’azione inibitoria ed eccitatoria della sua azione; b) i segnali verbali degli adulti vengono interiorizzati dal bambino e associati ad auto-comandi; c) verso i 5-6 anni, le istruzioni una volta interiorizzate vengono automatizzate e differenziate a seconda dei contesti in cui viene la rievocazione: è in questa fase che il bambino comincia a servirsi di un “linguaggio interno” che gli serve da guida nell’applicare un piano d’azione.

In questa prospettiva il modello della scuola russa (Vygotskij, 1962; Lurija, 1961) consente di interpretare numerose difficoltà del bambino ADHD (Cornoldi, De Meo, Ofredi & Vio, 2001).

ADHD e stile di attaccamento

Un’ulteriore causa delle difficoltà di individui con ADHD può essere individuata nella relazione genitoriale, ovvero nello stile di attaccamento che si instaura tra bambino e caregiver. Le diverse configurazioni di attaccamento che si strutturano a partire dalla prima infanzia e poi si articolano e si differenziano in età prescolare e scolare, possono essere viste sia come pattern comportamentali interattivi osservabili, ma anche soprattutto come modalità di regolazione emotiva: all’interno dei legami d’attaccamento si imparano a riconoscere, articolare, dare un nome e regolare gli stati emozionali e le relative disposizioni comportamentali; specifici contesti di sviluppo caratterizzati da particolari forme di insicurezza che portano a specifiche disregolazioni emotive (Lambruschi, 2014).

Esperienze diadiche (resistenti), come connotate da discontinuità della risposta materna, portano all’opposto ad uno stile di regolazione emotiva iperattivante, come forte attivazione neurofisiologica e segnalazione emotiva e comportamentale, talora anche drammatica e teatrale. Altre (disorganizzate), in cui il contesto di accudimento e cure è connotato da elevati livelli di pericolo e minaccia al Sé, possono portare invece a caoticità, contraddittorietà, e forte instabilità nell’espressività emotiva (Lambruschi, 2014).

Clarke, Ungerer e altri (2002) hanno confrontato due gruppi di bambini (con e senza ADHD) testando i modelli operativi interni relativi all’attaccamento attraverso il SAT (Separation Anxiety Test), la Self Interview e il Family Drawning, trovando una forte correlazione tra ADHD e uno stile di attaccamento insicuro. Anche Pinto, Turton e altri (2006) hanno rintracciato una correlazione significativa tra sintomi dell’ ADHD rilevati dagli insegnanti e significativi livelli di attaccamento disorganizzato. Green, Stanley e Peters (2007) hanno investigato il rapporto tra attaccamento e ADHD e hanno osservato che la diagnosi è significativamente associata a più elevati livelli di disorganizzazione dell’attaccamento.

Da questi studi è possibile ipotizzare che quando il deficit autoregolativo di base va a incontrarsi con quote di sensibilità e responsività sufficientemente ampie, le mancanze o gli eccessi di segnalazione del bambino avranno più probabilità di essere compensati o contenuti dal genitore, con una possibile attenuazione del quadro comportamentale e attentivo del bambino.
Si può immaginare un’amplificazione del disturbo e una maggiore resistenza al trattamento, laddove il comportamento scarsamente regolato del bambino vada ad incontrarsi con sponde relazionali insicure (Lambruschi, 2014).

Se un bambino è immerso in un funzionamento diadico ambivalente, l’iperattività e la distraibilità possono facilmente assumere una funzione coercitiva e di controllo nei confronti della figura di attaccamento. Mentre, in uno sviluppo evitante è più probabile che i sintomi si esprimano come un’esasperazione dell’utilizzo dell’esplorazione compulsiva e come “distrattore”, caratteristica forma di regolazione emotiva di questi pattern (Lambruschi, 2014).

Lo stile genitoriale come fattore di protezione o di rischio

Grazie alle osservazioni riportate è possibile constatare quanto la regolazione emotiva sia influenzata quindi dalle funzioni esecutive, dal temperamento e dai modelli genitoriali. Infatti, secondo la prospettiva di Steinberg e Drabick, derivante dalla psicologia dello sviluppo, al di là di quale siano i fattori psicologici alla base di una disregolazione emotiva, quest’ultima è influenzata da fattori relazionali appresi nel nucleo familiare.

Lo stile genitoriale può essere sia un fattore di resilienza, supportando il bambino nell’esternalizzazione delle emozioni, oppure un fattore di rischio. Infatti, appurato che il bambino abbia un disturbo ADHD e anche una disregolazione emotiva, il supporto dei genitori nel regolare le proprie emozioni fa sì che il bambino non sviluppi disturbi in comorbidità come il disturbo della condotta o il disturbo oppositivo provocatorio (Steinberg & Drabick, 2015). Ad esempio, a livello terapeutico, una delle proposte del parent training per genitori di bambini con ADHD si basa su interventi di coping emotivo: ovvero l’apprendimento per imitazione di un modello che di fronte a situazioni complesse non nasconde la propria emotività, ma si sforza di trovare la soluzione al problema, esplicitando le strategie che vorrebbe attuare (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

Diversamente uno stile genitoriale autoritario con modalità aggressive è uno dei fattori che aumenta la disregolazione e il rischio di incorrere in altri disturbi. A volte i genitori di bambini con ADHD hanno agiti aggressivi nel momento in cui cercano di far rispettare delle regole. Tale espressione emotiva esacerba il comportamento disfunzionale (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).
In particolare, bambini e adolescenti con un basso controllo inibitorio (coerente con le caratteristiche comportamentali del disturbo ADHD) potrebbero mostrare sia problemi internalizzati che esternalizzati. Ad esempio, tali bambini potrebbero avere difficoltà a attenuare pensieri negativi (come la ruminazione), ed esibire un eccessivo ritiro negativo, aumentando il rischio di depressione (Steinberg & Drabick, 2015). Se lo stesso bambino ha dei genitori che rispondono a questo comportamento con rabbia, o comunque con un feedback negativo, appare ovvio come il rischio depressivo possa aumentare, o in alternativa come possa emergere un disturbo della condotta o degli agiti impulsivi (Steinberg & Drabick, 2015).

Può esserci una trasmissione intergenerazionale?

In tale prospettiva le relazioni familiari influenzano la regolazione emotiva del bambino con ADHD. Studi hanno cercato di verificare se la disregolazione emotiva possa essere non solo influenzata ma addirittura trasmessa. A questo scopo è stato condotto uno studio da Surman e collaboratori (2011) per testare questa ipotesi. Attraverso quello che è stato uno studio familiare, si è voluto verificare se in genitori con ADHD fosse presente lo stesso disturbo nei figli. In particolare, i ricercatori hanno verificato se l’ ADHD e la disregolazione emotiva presenti nei genitori fossero presenti anche nei figli.

I risultati ottenuti mostrano come la disregolazione emotiva appartenga solo a un sottotipo di disturbo ADHD perciò è possibile affermare che il disturbo ADHD sembra essere trasmesso indipendentemente dalla presenza o meno di un deficit nella regolazione emotiva, mentre quest’ultima era presente solo in figli di genitori con ADHD e disregolazione (Surman, 2011).

Gli autori hanno di conseguenza ipotizzato che la disregolazione sia un effetto secondario nell’ ADHD. Inoltre, considerano la disregolazione secondaria all’ ADHD nella condizione in cui sia manifestata nel contesto familiare: l’apprendimento attraverso le regole sociali disfunzionali potrebbe influenzare la normale curva di sviluppo della regolazione emotiva e questo effetto potrebbe essere ancora maggiore per bambini con ADHD avendo genitori con ADHD e disregolazione emotiva (Surman, 2011).

ADHD, disregolazione emotiva e disturbi dell’umore

I lavori fino a ora presentati riguardano la regolazione emotiva dal punto di vista cognitivo, temperamentale e familiare. Ciò che accomuna i lavori sopra descritti è l’influenza di questi tre fattori nella mediazione della regolazione emotiva nello sviluppo di quadri complessi del disturbo in comorbidità con il disturbo della condotta, il disturbo oppositivo provocatorio e i disturbi dell’umore.

Infatti, potrebbero essere presenti differenti manifestazioni emotive a seconda del sottotipo di ADHD. Nel sottotipo disattento sono più frequenti disturbi dell’umore, appaiono più ansiosi, timidi e ritirati socialmente. Diversamente nel sottotipo iperattivo-impulsivo e combinato vi è la presenza di comportamenti aggressivi. Quest’ultimi si oppongono più frequentemente alle richieste, ricevendo addirittura una seconda diagnosi di disturbo della condotta e di disturbo oppositivo-provocatorio (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

In particolare, è stato proposto come distinguendo tra ADHD sottotipo inattento e sottotipo impulsivo-iperattivo, e distinguendo tra controllo dell’emozione e l’esperienza di forti emozioni positive o negative, vi siano manifestazioni di comorbidità diverse (Martel, 2009). Secondo tale prospettiva il controllo dell’emozione sarebbe maggiormente associato al sottotipo inattento e al disturbo della condotta. Le forti esperienze emotive sarebbero invece associate al sottotipo impulsivo-iperattivo e al disturbo oppositivo-provocatorio (Martel, 2009).

Tuttavia, sono state proposte ulteriori distinzioni. Ad esempio, è stato possibile osservare una diversa disregolazione delle emozioni positive e di quelle negative. È stato possibile osservare come la prima è un fattore di rischio specifico del disturbo ADHD, mentre la seconda è maggiormente associata al disturbo della condotta (Forslund, 2016). Il fatto che bambini con ADHD manifestano anche una forte componente di emotività negativa potrebbe essere dovuta a una concomitante presenza del disturbo della condotta (Forslund, 2016).

Inoltre, in un campione di pazienti adulti ADHD, è stato osservato come la disregolazione emotiva estrema fosse sia parte del disturbo ADHD, ma anche in pazienti con una storia di concomitante disturbo oppositivo-provocatorio (Surman, 2013). Il fatto che la disregolazione fosse presente sia in pazienti con solo ADHD che in quelli con ADHD e disturbo oppositivo-provocatorio ha portato gli autori a proporre come la disregolazione sia un fattore che possa presupporre un concomitante disturbo oppositivo-provocatorio ma non il contrario, in quanto esistono quadri diagnostici di disturbo ADHD con disregolazione senza disturbo oppositivo-provocatorio (Surman, 2013).

Per di più, come già indicato sopra, individui con ADHD possono anche presentare disturbi dell’umore secondari.

Ma come si può distinguere la disregolazione emotiva da un disturbo dell’umore?

Sia nella disregolazione emotiva, come nei disturbi dell’umore, sono presenti forti esperienze emotive, positive (disturbo bipolare), negative (disturbi d’ansia, depressivi e bipolare), forte irritabilità e difficoltà nel controllo dell’arousal. Tuttavia, solo l’ ADHD e non i disturbi dell’umore avrebbero un deficit nel controllo delle emozioni e non solo una forte emotività (Spencer, 2011).

Spencer e collaboratori (2011) hanno svolto uno studio che consentisse di poter distinguere disturbi dell’umore e disregolazione (da un punto di vista quantitativo piuttosto che qualitativo). Per raggiungere questo scopo, gli autori proposero di utilizzare un test carta e matita, il Child Behavior Check List (CBCL). Dallo studio è emerso che punteggi maggiori di due deviazioni standard dalla media nelle sotto scale Ansia/Depressione, Aggressività e Attenzione sono indicativi di un disturbo dell’umore, mentre punteggi che si discostano tra una e due deviazioni standard dalla media sono invece indice di disregolazione emotiva in bambini con ADHD (Spencer, 2011).

Il contributo di questi ultimi lavori è fondamentale per il trattamento del disturbo, in quanto identificare la presenza o meno di un disturbo dell’umore è necessario per impostare sia la terapia farmacologica che quella psicologica. Infatti, Spencer e collaboratori (2011) sottolineano come la terapia farmacologica nel disturbo bipolare quando esso non è presente potrebbe avere effetti non solo controproducenti, ma addirittura esacerbare i sintomi del disturbo ADHD.

Difficoltà nella regolazione emotiva in bambini con ADHD: conseguenze sul funzionamento sociale

Inoltre, l’ultimo lavoro citato ha mostrato come la disregolazione emotiva influenzi negativamente il funzionamento sociale dei bambini con ADHD. Nello studio proposto da Spencer e collaboratori (2011), oltre alla regolazione emotiva sono state misurate anche la regolazione sociale del comportamento, il funzionamento scolastico e la gravità dei conflitti familiari. Dallo studio è emerso come la disregolazione emotiva possa spiegare una porzione significativa di difficoltà in questi domini.

Infatti, tra i sintomi secondari dell’ ADHD si possono riscontrare difficoltà relazionali, in quanto i bambini iperattivi diventano maggiormente contestatori e incapaci di comunicare in modo efficace con i pari (Vio, Marzocchi, & Offredi, 2015).

In particolare, l’ipotesi che alla base del malfunzionamento sociale vi sia una difficoltà nella gestione delle emozioni è stata testata in un lavoro precedente di Maegden e collaboratori (2000) in cui è stato esaminato come la reattività emotiva influenzi le abilità sociali nel sottotipo inattento di bambini con ADHD, comparando i risultati con un gruppo di bambini con sottotipo ADHD combinato e normali. Nell’esperimento la regolazione emotiva venne misurata secondo il paradigma di Ekman e Friesen delle display rules: regole non scritte che descrivono come dovrebbe essere espressa un’emozione in un certo contesto sociale. Al termine di questa prova veniva dato ai partecipanti un premio deludente a seguito di una performance buona (Maegden, 2000).
I risultati mostrarono che bambini con ADHD sottotipo combinato manifestavano reazioni emotive più intense (sia positive che negative) rispetto agli altri due gruppi. Questo risultato è in linea con i lavori riportati precedentemente (Forslund, 2016; Martel, 2009, Vio, Marzocchi & Offredi, 2015; Spencer, 2011). In particolare, nel momento in cui fosse ragguardevole non mostrare disappunto alla presentazione di un premio deludente, i bambini con ADHD (per entrambi i sottotipi) tentarono di regolare l’espressività emotiva, pur essendo meno efficaci dei controlli, come dimostrato da un trend (comunque non significativo) nei dati. Quindi sembrerebbe che i bambini ADHD conoscano quella che sia la regola sociale più adatta, pur faticando nell’applicarla (Maegden, 2000).

Dato che la disregolazione influenza fortemente, e direttamente, il funzionamento sociale dei bambini è necessario tenerne conto durante il trattamento del disturbo ADHD. Soprattutto poiché vi sono evidenze come il malfunzionamento sociale non si limiti all’infanzia e all’adolescenza, ma si protragga anche nell’età adulta. Infatti, si è visto come in adulti ADHD con deficit nella regolazione emotiva vi sia una più bassa qualità della vita e un peggiore adattamento sociale (maggior numero di incidenti stradali e arresti) (Spencer, 2013).

In conclusione

Dai lavori qui riportati, emerge come la regolazione emotiva sia una componente del disturbo ADHD che non può essere sottovalutata. Infatti, a livello teorico porre attenzione a questa dimensione aiuta a comprendere la natura del disturbo e la sua associazione con altre condizioni, come altri disturbi del comportamento dirompente e disturbi dell’umore.

Inoltre, nella pratica clinica, indagare questa componente può indirizzare il terapeuta a valutare il comportamento in relazione alla storia familiare e alle relazioni attuali con genitori e pari. Non solo la disregolazione delle emozioni potrebbe avere origine da come i genitori di un bambino affetto da ADHD si rapportano con quest’ultimo e intervenire su questo aspetto potrebbe prevenire il decorso del disturbo, evitando la comorbidità con altre condizioni.

Un altro aspetto importante riguarda il funzionamento sociale e relazionale degli individui affetti da ADHD. Infatti, si è visto come la regolazione emotiva abbia un ruolo diretto sul comportamento sociale disfunzionale, che si protrae anche nell’età adulta e che a sua volta può essere trasmesso alla generazione successiva.

In conclusione, grazie al crescente numero di dati riportati, la disregolazione emotiva è una componente importante nel disturbo ADHD che non può essere sottovalutata nei trattamenti poiché influenza fortemente gli individui che presentano tale problematica.

Lo psicoterapeuta in bilico (2018) di G. Salvatore – Una recensione o, piuttosto, il resoconto di una serata al pub

Cresci insieme a un collega. Lui è persino convinto che tu sia stato il suo mentore, glielo lasci credere. Ci sviluppi insieme modelli di psicoterapia, ci metti su studi professionali, ci scrivi insieme volumi tecnici. Poi vai in birreria a San Lorenzo con la lucida consapevolezza che te lo ritrovi narratore.

 

Non vai lì per mandar giù una birra artigianale dopo l’altra cercando di cancellare la delusione: ma come, era una persona seria? Ci vai perché presenta il suo primo romanzo. E ti fa piacere! A quel punto la birra è strumento di coesione sociale, se mi passate la definizione.

La saletta che ci è stata riservata si riempie rapidamente. C’è gente che rimane in piedi. Penso: figo. Dal posto in prima fila che l’autore ha riservato a me e a un pugno di colleghi del Centro TMI, sale il brusio. Il libro si chiama Lo psicoterapeuta in bilico e il pubblico rumoreggia: Cosa gli sarà passato nella mente scrivendolo? Siamo tutti curiosi. Io credo di saperlo, Giampaolo mi fece leggere il libro anni fa, in una versione precedente.

Ha organizzato tutto la collega, brava, Chiara Gambino, occhi azzurri, nata per stare sul palco, maestra di cerimonie che se la vedono in Rai il posto di presentatore del prossimo San Remo è preso. Il contrasto tra la naturalezza con cui Chiara si muove sul palco e l’impaccio di Giampaolo già vale la serata. Se non avete presente il concetto di ‘timidezza corretta’, avreste dovuto esserci, capivate un sacco di cose.

Però sul palco, come tutti i timidi corretti, Giampaolo tira fuori il suo senso dello humour campano. Si ride.

Poi le cose diventano serie. Lo psicoterapeuta in bilico è la storia di un uomo che suo malgrado è completamente identificato con il suo lavoro. Si muove nelle relazioni familiari e professionali con una specie di torpore, di indolenza che cerca di contrastare con un cinismo divertito. Nelle sue esperienze di relazione, con sua moglie, con sua figlia, con i pazienti, con i suoi allievi, si miscelano estraneità e coinvolgimento commosso. La sua esistenza in fondo minima, routinaria, colpita da ondate di nostalgia per il passato, viene interrotta dall’incontro con due personaggi: il primo è Monica. Il gioco che si crea tra Monica e il protagonista è a metà tra seduzione reciproca e competizione per il rango. Competizione per il rango è quel sistema motivazionale descritto dalla psicologia evoluzionista. In Italia ne ha parlato tanto Gianni Liotti insieme ai suoi colleghi. Si tratta di fare a gara per chi accede a risorse limitate. Chi sta più in alto sulla scala sociale mangia prima e si accoppia col partner più fico. Il protagonista e Monica gareggiano e si seducono, uno scontro simbolico. Di quelli che di solito predicono catastrofi.

L’altro personaggio è un paziente difficile, problematico ma di grande umanità e intelligenza. Questi due personaggi in un certo senso smascherano il protagonista, lo obbligano a guardarsi allo specchio, ne smontano pezzo per pezzo le sovrastrutture psicologiche e ne liberano la parte più vulnerabile e autentica.

La trama, dice l’autore, è quasi un pretesto per dialogare con sé stesso. Per Giampaolo il tema dell’inganno è centrale. Lo ritiene fisiologico. Lo pratichiamo, lo subiamo, continuamente. Anche quando ci raccontiamo cercando di farlo con la massima sincerità, nascondiamo parti di noi, e mai le stesse parti alle diverse persone che ci circondano.

Si crea una certa tensione in sala: l’idea dell’inganno connaturato alle relazioni è disturbante. Giampaolo dice più o meno che la nostra autobiografia è fatta di frammenti irregolari, che quando crediamo di poter raccontare la nostra vita in maniera precisa a fatica ci rendiamo conto che sono numerose le zone d’ombra, le cose che non sappiamo spiegare, le ragioni delle scelte e delle opportunità mancate. E forse ce la raccontiamo e la raccontiamo agli altri. Il protagonista seduce Monica o ne è sedotto. È amore o gioco di ruoli? Desiderio o rispecchiamento narcisistico? O forse, semplicemente, un antidoto al vuoto esistenziale?

La scrittura di Giampaolo funziona, e spesso è una botta nello stomaco. A tratti spiritosa, leggera, a tratti acida, aspra, al vetriolo. Vuole portare il lettore in zone dell’animo umano scomode da abitare.

La lettura di qualche brano fa da interludio alle spiegazioni di Giampaolo e al dialogo con il pubblico. Chiara chiama l’attore Christian Galizia, alto che quasi non ci sta nella nicchia che è il palco, bella voce. Incisivo, trascinante, legge il prologo:

Avevo scelto di fare lo psichiatra perché, quando mancava solo un anno alla laurea in medicina, mi ero reso conto che non ero assolutamente tagliato per fare il medico. Avevo dimenticato la medicina già mentre la studiavo. Questo perché anche se avevo superato gli esami, spesso brillantemente, non avevo mai messo piede a lezione o nei reparti. Le ore di lezione ed esercitazione le trascorrevo sui libri. Ma dove si impara veramente la medicina, manco a parlarne… Tra mezz’ora devi essere in aula; tutto quello che potevi fare l’hai fatto; testa alta, perché hai fatto del tuo meglio.

Guai a confessare a me stesso che il mio meglio avrebbe potuto e dovuto essere andare a lezione e in reparto. Il che, tra l’altro, mi avrebbe messo in condizione di superare l’esame con molta meno fatica, e di imparare davvero. Senza dimenticare. Perché quando imparare consiste in un’esperienza, non dimentichi. Invece, quando imparare è come facevo io, cioè scopare con i libri mettendoci per un po’ il sentimento, non vedi l’ora di lasciare le pagine vecchie perché hai bisogno di pagine nuove da possedere. Di spruzzare colori di evidenziatore come fosse sperma. Insomma, sei anni di medicina, quattro di specializzazione e altri quattro di training in psicoterapia. Tutto questo tempo, a conti fatti, solo per acquisire il porto d’armi su tre sillabe. “Ca-pi-sco”. Sì, perché fare lo psichiatra, e soprattutto lo psicoterapeuta, significa sostanzialmente che quando dici “capisco”, questa parola ha un impatto di gran lunga maggiore di quando la dice chiunque altro. Mentre la maggior parte delle persone di fronte alla sofferenza altrui tace o dice sciocchezze, io avrei sfoderato al momento opportuno il mio “capisco”. E avrei imparato ad avvertire nettamente – come un fremito lungo la colonna vertebrale che negli anni si sarebbe gradualmente attenuato per lasciare spazio a una consapevolezza sempre più algida – come quelle tre sillabe riuscissero a distendere i nervi del mio interlocutore. Per non parlare del potere terribile delle enfatizzazioni rafforzative: “certo, capisco”. “Capisco, capisco”. “Mi creda, capisco”. “Posso comprendere”. “Credo veramente di comprendere”. E poi, l’arma totale.

L’uzi emotivo silenziato. Dire in modo convincente a chi sta soffrendo come un cane, quasi sempre senza sapere perché, che in ciò che prova, in ciò che desidera, in ciò che pensa, e in ciò che fa, c’è sempre qualcosa di universalmente condivisibile

Che significa in bilico? Gli chiedono. Lui spiega che siamo contrasti viventi. Continuamente sospesi, tragicomicamente dicotomici.

Come Giampaolo sul palco viene da pensare: metà psicoterapeuta intellettuale, lo prendo sempre in giro perché in campo scientifico scriverebbe come i fenomenologi. Traduco in italiano: tende a usare parole con minimo cinque sillabe che di solito risultano incomprensibili. Autonoetico. Idiosincratico. L’altra metà è una sorta di Massimo Troisi, ma più muscoloso. In bilico tra Heidegger e La Smorfia.

Giampaolo mi frega. Ero venuto ad ascoltarlo, a essere fiero di lui e, naturalmente, a bere con gli amici. Invece mi invita a salire sul palco. Mica mi aveva avvisato!

In bilico tra il mandarlo a quel paese ed essere contento, salgo.

Chiara Gambino mi fa domande serie alle quali rifiuto di rispondere! Non si parla di psicoterapia stasera, ma di narrazione replico in modo definitivo. Chiara risponde qualcosa che suona come: Ah. Però è d’accordo.

Sotto la luce dei riflettori ci deve essere la scrittura di Giampaolo. Una roba che picchia dritto al fegato, spietata, come una difesa dai colpi che la vita ti assesta sul naso e tu rispondi menando più duro. E poi fa anche ridere, umorismo napoletano/salernitano DOP. Definisco lo stile di Giampaolo una miscela di Quentin Tarantino e Un posto al sole, il pubblico ride. Gli chiedo a quali scrittori si sia ispirato. E lui risponde a tono: Ho compiuto un lungo viaggio stilistico da Proust a Nino D’angelo, però non l’ultimo, quello anni ’80, quello col caschetto. Il pubblico ride ancora di più.

La domanda ripetuta, sembra che il pubblico non voglia sapere altro: Quanto c’è di te in questo libro?. Glielo chiedono in diverse declinazioni quattro volte. La risposta tenace: Le emozioni sono vere, le storie no.

Uno psicoterapeuta dosa gli autosvelamenti con sapienza, uno scrittore può mentire a piacere. Il mestiere glielo permette.

Body Shape: come la forma del corpo influenza le nostre prime impressioni

Il primo incontro con un’altra persona è un momento cruciale. Quanto ci guida la prima impressione, e soprattutto quanto è difficile cambiarla! Ma quali sono gli aspetti che guidano la nostra valutazione?

 

Le “prime impressioni” sono delle sensazioni immediate che si creano quando vediamo per la prima volta qualcosa o qualcuno. Sono spesso influenzate da una serie di fattori come, nel caso delle persone, il loro modo di comunicare, l’estetica, il modo di vestire.

Secondo una ricerca recente, tra le caratteristiche che contribuiscono alla formazione delle prime impressioni ci sarebbe la forma fisica. L’autrice Hu afferma:

La nostra ricerca mostra che le persone deducono la personalità di un’altra persona semplicemente guardando la forma del loro corpo.

È importante essere a conoscenza del fatto che questo stereotipo condiziona il modo in cui giudichiamo e interagiamo con un’altra persona.

Lo studio

Le ricerche precedenti su questo tema avevano posto l’attenzione sull’importanza dei volti e su come questi contribuiscano alla formazione delle prime impressioni, ma ben pochi studi hanno studiato la forma del corpo.

Nel presente studio si è pertanto cercato di andare oltre per comprendere che tipo di giudizio si forma dopo aver visto il corpo di una persona.

Nello studio sono stati ricreati dei modelli che rappresentavano dei corpi reali, di cui 70 erano di donne e 70 di uomini. I valori per la costruzione dei modelli sono stati selezionati in modo casuale lungo 10 dimensioni corporee differenti.

I partecipanti, 76 ragazzi universitari, hanno osservato i corpi da due differenti punti ed hanno poi selezionato per ogni corpo degli aggettivi provenienti da una lista di 30 parole. La lista era stata formata seguendo le dimensioni di personalità del modello Big Five (un modello psicologico che suddivide la personalità in cinque dimensioni).

Dai risultati è emerso che:

  • Modelli che raffiguravano corpi più pesanti sono stati associati a parole più negative, come pigrizia e non curanza, mentre corpi più snelli a parole positive, come essere sicuri di sé ed entusiasti;
  • I corpi che rappresentavano le forme classiche del corpo femminile (fianchi larghi) e del corpo maschile (spalle larghe) erano associati a termini più attivi come irritabile, estroverso;
  • Corpi con forme più rettangolari erano associati invece a termini più passivi, come timido, affidabile.

I ricercatori dopo lo studio erano in grado di predire che parole sarebbero state scelte in base alla forma del corpo.

I risultati hanno mostrato come, oltre al peso e all’altezza, le forme di un corpo giocano un ruolo fondamentale nella formazione delle prime impressioni.

Sebbene sia una tendenza universale, quanto la forma del corpo incida sul nostro giudizio dipende anche dalla cultura di appartenenza, dall’etnia e anche dall’età.

L’autrice Hu conclude:

Questi risultati sono un nuovo strato da aggiungere alla scienza che studia la formazione delle prime impressioni e rivelano quanto il giudicare sia un processo complicato e basato su preconcetti.

Cosa resta oggi dei nostri bisogni individuali? Ecco alcuni semplici consigli per gestire lo stress e tornare a riappropriarci del nostro benessere

A lungo andare situazioni di stress cronico possono recare danni permanenti alla salute dell’individuo, ciò appare particolarmente evidente nelle condizioni di burnout ed esaurimento emotivo. Diventa dunque importante chiarire quali sono i sintomi, le cause e le modalità di trattamento di queste condizioni.

 

“Riposati ogni tanto; un campo che ha riposato dà un raccolto abbondante”. Ignoriamo continuamente questo prezioso consiglio di Ovidio, specialmente nei tempi odierni, dove siamo chiamati a “dare” oltre ogni limite, costretti ad agire come robot e dove la paura di essere rimpiazzati (sia a lavoro che nelle relazioni) ha la meglio su ogni bisogno individuale.

In questo mondo, competitivo e pretenzioso, dobbiamo mostrarci forti, instancabili e pronti ad appagare le esigenze altrui. Dimenticando di avere dei bisogni, mettiamo da parte noi stessi, ci facciamo carico di responsabilità, conflitti e preoccupazioni senza poi ricevere attenzioni, riconoscimenti e affetto sufficienti. Di conseguenza, ci stressiamo.

Un lungo periodo di stress può portare ad un esaurimento emotivo: ci si sente, cioè, emotivamente logorati ed esausti. Qualcuno può percepire di non avere alcun potere o controllo su ciò che succede nella propria vita, qualcun altro si potrebbe sentire intrappolato o bloccato in una determinata situazione (Legg, 2018).

Conseguenze dello stress cronico: burnout ed esaurimento emotivo

A lungo andare, questa situazione di stress cronico può portare a danni permanenti per la salute dell’individuo. Pertanto, è di rilevante importanza chiarire quali sono i sintomi, le cause e le modalità di trattamento del burnout e dell’ esaurimento emotivo. Provare ansia e sentirsi sotto stress per alcuni giorni consecutivi è normale, il problema emerge nel momento in cui lo stress diventa cronico, con conseguenze negative sul benessere dell’individuo.

Le cause del burnout e dell’ esaurimento emotivo, oltre ad un periodo prolungato di stress, sono varie e diverse da persona a persona. Tra i trigger più comuni rientrano (Tijdink, Vergouwen & Smulders, 2014):

  • lavori altamente stressanti e inerenti la cura e la tutela di altri individui (per esempio medici, infermieri, poliziotti)
  • una carriera universitaria intensa
  • esercitare un lavoro che non piace
  • diventare genitori
  • problemi finanziari o povertà
  • essere il caregiver di una persona bisognosa
  • procedure di divorzio lunghe ed estenuanti
  • convivere con una malattia cronica

Presente tra i primi segni del burnout, l’ esaurimento emotivo mostra sintomi sia di tipo emotivo che fisico, tra cui: mancanza di motivazione, problemi di sonno, irritabilità, affaticamento fisico, sentirsi senza speranza, distraibilità, apatia, mal di testa, cambiamenti nell’appetito, nervosismo, difficoltà di concentrazione, rabbia irrazionale, aumento di criticismo o pessimismo, senso di timore e depressione (Michel, 2016).

Nell’ambito lavorativo, gli impiegati che sono sovraccarichi di lavoro ed emotivamente esausti, potrebbero iniziare a notare cambiamenti nella prestazione lavorativa come, per esempio, un peggioramento della performance, l’incapacità a rispettare le scadenze, assenteismo e, infine, una minore dedizione verso l’organizzazione/azienda (Shanafelt & Noseworthy, 2017).

Alcune strategie e piccoli accorgimenti possono aiutarci nella gestione dello stress..

Per gestire e alleviare i sintomi del burnout e dell’ esaurimento emotivo, si può iniziare con piccoli cambiamenti nella vita quotidiana.

Prima di tutto, è importante cercare di eliminare o per lo meno ridurre gli stressors (per esempio: se litighi sempre con il capo, puoi pensare di chiedere il trasferimento in un altro dipartimento).

In secondo luogo bisogna prestare attenzione alla dieta: in un periodo di stress, mangiare cibi salutari migliora la digestione, il sonno e il livello di energia e questo può avere effetti benefici anche sullo stato emotivo.

L’esercizio fisico è un’altra pratica utile per alleviare lo stress e i sintomi dell’ esaurimento emotivo in quanto l’attività fisica aumenta i livelli di endorfina e serotonina, migliorando di conseguenza lo stato emotivo.

Al contrario, l’alcol potrebbe essere causa di peggioramento dei sintomi in quanto aumenta stati ansiogeni e depressivi e interferisce con il ritmo del sonno, fattore cruciale per la salute mentale.

Momenti di pausa, una vacanza o semplicemente prendersi del tempo per se stessi può essere estremamente utile per ridurre il peso dello stress, in alcuni casi però ciò potrebbe non essere sufficiente ed è perciò importante chiedere aiuto ad professionista della salute mentale (Durocher, Marti, Morin & Wakeham, 2018).

In conclusione

Una condizione di stress, se prolungata, può condurre oltre al burnout e all’ esaurimento emotivo anche a problemi di salute che riguardano il sistema immunitario, il metabolismo e il benessere mentale.

Si tratta di condizioni trattabili, ma perchè l’intervento e il trattamento permettano davvero alla persona di raggiungere un nuovo stato di benessere è necessario definire la natura del burnout e dell’ esaurimento emotivo, informare circa i suoi sintomi in modo da riconoscerlo e prevenire ulteriori conseguenze negative.

Inconscio non rimosso (2018) di Giuseppe Craparo – Recensione del libro

Il costrutto dell’ Inconscio Non Rimosso è un’elaborazione teorica della psicoanalisi che si costituisce, in questo decisivo periodo storico-scientifico, quale fondamentale area di riflessione, elaborazione e integrazione teorico-clinica per le Scienze della Mente.

 

L’inconscio non rimosso è un tema solo accennato da Freud ma poi approfondito da studiosi post freudiani, teorici dell’Attaccamento e dell’Infant Research.

Inconscio non rimosso: storia del costrutto

Gli studiosi hanno convenuto sull’importanza che l’ inconscio non rimosso riveste sia nella comprensione della fenomenologia riferibile alle gravi psicopatologie, sia nella preziosa funzione di riformulazione della Teoria della Mente e dunque della pratica clinica. Giuseppe Craparo, coerentemente ai vari contributi, ha proposto l’ inconscio non rimosso non tanto come un nuovo costrutto teso a soppiantare l’inconscio freudiano, ma come una funzione psichica con sue caratteristiche pre-riflessive e pre-verbali.

Prima di addentrarsi nella discussione dell’ inconscio non rimosso e dunque nelle imprescindibili variazioni prospettiche della valutazione e dell’intervento clinico conseguenti, Craparo ripercorre la complessa panoramica storico-concettuale entro cui esso si inserisce. L’Autore, utilizzando una stilistica essenziale e diretta, puntuale nelle testimonianze teoriche, dispiega il composito quadro delle sue considerazioni attraverso un’equilibrata alternanza di sequenze descrittive, riflessive e dialogiche dalle quali emerge la dialettica, per alcuni ritenuta inconciliabile, tra lo sguardo clinico e quello di ricercatore.

Nella prima parte del libro, si definisce l’inconscio secondo Freud, quale istanza psichica che si contraddistingue per la sua dinamicità. Il termine dinamico, mutuato dalla fisica applicata all’inconscio, va inteso in due modi (Auchinloss, 2015): in rapporto a forze motivazionali latenti e in rapporto alla rimozione che nega l’accesso alla coscienza di rappresentazioni inaccettabili. Craparo ripercorre i numerosi sforzi compiuti, tesi a verificare l’esistenza dell’inconscio al fine di rendere dimostrabile, secondo i canoni della Scienza, ciò che sembrava relegato a un istanza più mistica che scientifica. Per i neopositivisti l’inconscio era una mera congettura che precede financo la formulazione delle ipotesi (Wittgenstein,1965. p.126). Karl Popper (1934) fu altrettanto critico: riconoscendo come criterio discriminante la Scienza dalla pseudoscienza non la verificabilità (come per i neopositivisti) ma la falsificabilità, ritiene che il limite della teoria psicoanalitica sia il fatto di sostenersi su congetture impossibili da confutare sia sul piano logico che su quello empirico.

L’ Autore riporta dunque le testimonianze degli studiosi che si sono contrapposti a Popper, sostenendo che la scientificità in una teoria dipenda tanto dalla sua attitudine a produrre nuovi modelli esegetici, quanto dalla sua capacità di reinterpretare i modelli antichi in funzione di una esperienza acquisita (Elisabeth Roudinesco, 1999, p.128). Le scienze umane, in particolare, sono tese alla comprensione dei comportamenti umani individuali e collettivi a partire da tre categorie fondamentali: la soggettività, il simbolismo, la significazione (Ib. pag.120). Una posizione questa non dissimile dai sostenitori dell’Ermeneutica per i quali la psicoanalisi non può essere associata alle Scienze Naturali ma alle Scienze Umane proprio in virtù dell’importanza accordata alla soggettività e al significato che l’individuo attribuisce alla sua esperienza e alla realtà. Agli attacchi rispetto alla scientificità della psicoanalisi, gli psicoanalisti, in generale, hanno risposto o sostenendo che essa non è equiparabile alle scienze esatte, svincolandosi dal necessità di operazionalizzazioni che sminuirebbero la complessità della psiche, oppure avvalorando la necessità di rilanciare la psicoanalisi facendola dialogare con discipline considerate scientificamente più accreditate, come ad esempio le Neuroscienze. Erik Kandel sostiene, a tal proposito, che le Neuroscienze rappresentino un’opportunità di rinnovamento sia concettuale che sperimentale.

Inconscio non rimosso e neuroscienze: è possibile un’integrazione?

Il testo Inconscio non rimosso ripercorre infatti i contributi delle Neuroscienze alla comprensione dell’inconscio e la domanda che Craparo pone è se sia utile riferirsi all’inconscio rimosso (a cui dedica la prima parte del libro) oppure sia più utile riformulare l’inconscio rimosso secondo le scoperte neurobiologiche, che lo farebbero coincidere con una memoria procedurale implicita e sostanzialmente non rimossa. Uno dei vettori critici che hanno caratterizzato il lavoro del libro è proprio diretto a comprendere se e in che modo sia possibile attuare l’integrazione delle scoperte neuroscientifiche con i principi della psicoanalisi, conferendole caratteristiche di scientificità che le sono mancate, o se questo non comporti il rischio di ibridazione del campo di indagine, con il conseguente depauperamento della conoscenza in luogo di un suo incremento.

Considerazioni teoriche si intervallano a valutazioni sul lavoro analitico: l’Autore auspica che questo si costituisca non come un mero disvelatore ma proteso alla creazione di un campo psichico che funga da contenitore, affinché si possa fronteggiare il materiale rimosso; in questo l’analista procede nel rispetto di quel punto di “opacità quale elemento costitutivo della soggettività del paziente…” che “non va abolito bensì salvaguardato”. L’opacità rappresenta la dimensione originaria su cui si organizza l’inconscio. E’ possibile verificare l’opacità e l’inconscio? Craparo risponde che l’inconscio è di per sé non verificabile, rappresentando un modo di intendere la realtà psichica, servendosi di un linguaggio specifico attraverso cui rimandare l’idea di un’Origine (una realtà ultima e inconoscibile secondo il linguaggio Bioniano); rispetto a questa non possiamo altro che operare delle deduzioni a partire dall’osservabile. Inconscio, opacità e complesso psichico non delegittimano, però, la possibilità di verificare l’efficacia della psicoanalisi.

Craparo riporta la descrizione sui tre tipi inconscio:

  • Inconscio Cognitivo, relativo ad aspetti legati a processi impliciti di elaborazione delle informazioni mentali
  • Subconscio, riproponendo dunque la teorizzazione di Janet relative alla dissociazione strutturale (disaggregazione)
  • Inconscio Rimosso nella sua natura relazionale e simbolico-verbale.

Le tecniche di Neuroimaging iniziano a consentire un sostanziale supporto all’ individuazione dei substrati neuronali di alcuni processi mentali e pertanto preziosa è anche la parte dello scritto dedicata all’esposizione delle teorie di Le Doux, Schore, Solms e Ansermet & Magistretti. I quadri esplicativi da loro proposti convergono, sostanzialmente, nel delineare la natura affettiva dell’inconscio, collocando l’inconscio rimosso nell’emisfero sinistro più che in quello destro dove, invece, si collocherebbe l’inconscio non rimosso (pre-verbale e pre-riflessivo).

Inconscio non rimosso: la concezione di Craparo

Freud aveva suggerito l’opportunità di estendere l’inconscio a una parte dell’apparato psichico più primitiva dell’inconscio dinamico che sembra essere in relazione con l’esperienza sensoriale associata alla percezione della realtà esterna. Craparo sottolinea il potenziale euristico di tale riflessione, non solo per l’articolarsi della Teoria della Mente ma anche per le conseguenti valutazioni, sul piano clinico, del trattamento delle patologie pre-edipiche. L’inconscio non rimosso disegna un nuovo vertice di osservazione, che intravede la possibilità di trattamento anche per quei pazienti (Borderline e Psicotici) nei quali, non il rimosso e il ritorno del rimosso, ma la compromissione delle capacità di mentalizzazione e di regolazione emotiva rappresentano il fulcro del loro (dis)funzionamento mentale. L’Autore si sofferma, dunque, sui modi di concepire l’inconscio non rimosso da parte di psicoanalisti di assoluto valore del passato e del presente come Jung, Bion, Matte Blanco, Sandler, Atwood, Storolow e De Masi, accomunati dal concettualizzare l’inconscio non rimosso come affettivo, pre-verbale, pre-riflessivo. Come lo interpreta Craparo? Secondo quattro aspetti fondamentali: la sua natura relazionale; la sua natura pre-riflessiva e preverbale; il suo rapporto con l’essere umano come essere parlante (parlessere); il suo rapporto con la rimozione.

Corpo e inconscio non rimosso sono significativamente interrelati, non solo per il precoce sviluppo dell’ inconscio non rimosso ma anche perché è in tale incontro che le esperienze emotive (memorie somatiche) vengono elaborate per poi passare a livelli successivi dell’apparato psichico. La maturazione dell’ inconscio non rimosso è segnata dalle esperienze infantili, in particolare dallo sperimentare una sintonizzazione adeguata da parte del caregiver. In questa prospettiva, il corpo rappresenta uno schermo in cui persistono le tracce dei vissuti sensoriali del soggetto lungo tutto l’arco della vita. Il corpo è biologico, affettivo e simbolico e questi tre modi di intenderlo non sono antinomici ma rappresentano tre lenti da utilizzare sinergicamente nell’osservazione terapeutica perché è in ognuno di essi che il paziente racconterà l’esperienza di sé, della sua realtà relazionale e della relazione terapeutica stessa.

Il mondo affettivo è inoltre regolato dall’attività onirica essendo

il sogno la via regia che conduce sia alla conoscenza dell’inconscio rimosso che dell’inconscio non rimosso.

Quando la regolazione fallisce, stati non rappresentati si veicolano attraverso il corpo, svincolati da una rappresentazione psichica che consente ulteriori elaborazioni attraverso la consapevolezza dello stato di veglia.

Lavoro particolarmente denso di contributi, la seconda parte del libro Inconscio Non Rimosso, rappresenta un ambizioso tentativo di sintesi di un quadro storico-concettuale estremante complesso. Complessità alla quale si aggiunge l’enorme quantità di informazione che la crescita esponenziale della Tecnologia e della Neuroimaging sta aggiungendo al campo ipotetico relativo funzionamento mentale. Riccardo Williams, nell’eccellente prefazione al libro, fa riferimento al rischio di ibridazione, che si corre allorquando ci si trova di fronte ad un cospicuo bagaglio di contenuti, risultante da approcci caratterizzati da svariati livelli di eterogeneità fra loro. Integrare non sempre produce un incremento della conoscenza: può comportare una perdita se si “svende” la peculiarità di un’ottica in ragione di un presunto comune denominatore.

Una visione integrata e non depauperata della conoscenza della mente è possibile? In che modo tradurre questo nel lavoro clinico-terapeutico? Secondo le mie personali riflessioni una possibile procedura per ridurre il rischio di ibridazione si potrebbe individuare in un intimo gioco delle distanze di osservazione da parte dello studioso. In una particolare critica dialettica che riflette e astrae. In terapia si tradurrebbe in una particolare dinamica che prevede un equilibrio tra simmetria e asimmetria della relazione. Questo particolare gioco vettoriale è d’altronde la modalità che caratterizza l’onestà intellettuale di Craparo. Con questo libro egli ha fornito ai lettori un’esposizione preziosa, particolarmente ricca ma non ancora satura, essendo aperta alla sfida che la costruzione di un modello integrato del funzionamento mentale richiede.

Charles Bonnet Syndrome: alla scoperta di questa misteriosa e sottovalutata patologia

Il primo Charles Bonnet Syndrome Patient Day del mondo si terrà il 16 novembre 2018 al Moorfields Hospital. Judith Potts, la fondatrice della campagna per la sindrome di Charles Bonnet Esme’s Umbrella, parla di tale disturbo e del modo in cui influisce direttamente sulla sua vita.

 

Cos’è la Charles Bonnet Syndrome?

La sindrome di Charles Bonnet (CBS) è un disturbo che si può manifestare in persone di ogni età con oltre il 60% di disabilità visiva causata dalla miriade di malattie oculari – infarto, cancro, diabete – o persino lesioni in grado di danneggiare la via ottica. Con la diminuzione della vista, i messaggi trasmessi dalla retina alla corteccia visiva rallentano o si bloccano completamente, mentre il cervello si comporta in modo opposto, attivandosi per creare allucinazioni visive, vivide e silenziose, che possono essere innocue come terrificanti.

La sindrome di Charles Bonnet è riconosciuta da oculisti e optometristi dal 1760, anno in cui Charles Bonnet – un avvocato, filosofo e naturalista di Ginevra – documentò per primo il caso di Charles Lullin, il nonno 97enne, la cui vista era stata compromessa da una forma grave di cataratta. Mentalmente ancora lucido, Lullin raccontò di vedere gli arazzi appesi al muro cambiare, oltre a persone, uccelli, carrozze e palazzi. Tuttavia, anche se nel corso dei secoli i dottori hanno rilevato la patologia, risale al 1998 la prima ricerca sulla Charles Bonnet Syndrome, che è sempre stata considerata solo un effetto collaterale della perdita della vista.

In realtà è molto più di ciò, come scoprii il giorno in cui mia madre Esme, di 92 anni, mi disse: “Mi piacerebbe che queste persone si levassero dal mio divano”, descrivendomi anche le altre sue “visioni”, come le chiamava lei – una creatura simile a un gargoyle che saltava dal tavolo alla sedia, un bambino di strada vittoriano in lacrime che la seguiva dappertutto e, a volte, tutta la stanza o il giardino trasformati in qualcos’altro. Un giorno mi raccontò di un corteo funebre edoardiano, con cavalli piumati e il clero in tonaca rossa.

Ma fu solo quando lessi su un giornale un paragrafetto, il cui autore avrebbe potuto essere mia madre, che la parola “demenza” smise di aleggiare nell’aria. Sfortunatamente il suo oculista si rifiutò di discutere della sindrome, mentre né il medico di base né l’optometrista ne avevano mai sentito parlare. Cercando su internet, trovai il dottor Dominic ffytche del King’s College di Londra, che ha condotto l’unico studio sulla Charles Bonnet Syndrome ed è il solo esperto, riconosciuto a livello mondiale, del disturbo. La sua ricerca ha sfatato alcuni miti sulla malattia – la convinzione che scompaia dopo 18 mesi e che le allucinazioni siano sempre innocue.

L’ombrello di Esme

Dopo la morte di mia madre, ho lanciato Esme’s Umbrella (“L’Ombrello di Esme”) per sensibilizzare sia medici che gente comune sulla sindrome di Charles Bonnet e raccogliere fondi a favore della ricerca. Il dottor ffytche è il mio consulente medico.

Pur conoscendo la patologia, gli specialisti di oftalmologia non hanno compreso appieno l’esatta natura del disturbo e l’effetto negativo che ha su coloro che ne soffrono. Di conseguenza, sono davvero pochi i medici che parlano della Charles Bonnet Syndrome o avvertono i loro pazienti della possibilità che si manifesti. Ovviamente ciò potrebbe non accadere, ma “uomo avvisato mezzo salvato”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Sindrome di Charles Bonnet una patologia spesso sottovalutata imm1

Imm. 1 – Le statistiche relative alla Sindrome di Charles Bonnet

Le allucinazioni da Sindrome di Charles Bonnet

Non esiste un farmaco contro le allucinazioni né consulenti medici esperti di Charles Bonnet Syndrome. Troppi medici di base e ospedalieri sono ignari del disturbo e, di fronte a una descrizione di allucinazioni visive, il loro primo istinto è quello di far iniziare al paziente un percorso psichiatrico – a volte senza ritorno.

Il timore che le allucinazioni siano un problema di salute mentale, impedisce alle persone di confidarsi con gli altri, mentre la qualità della loro vita – già compromessa dalla perdita della vista – peggiora ancora di più.

Per alcuni, che vedono immagini innocue come fiori, gattini che giocano o splendidi paesaggi, le allucinazioni sono sopportabili, ma per altri sono frustranti e fastidiose a causa della loro costanza o della loro natura inquietante e terrificante.

La lista di ciò che viene visto è infinita, ma va da immagini dell’intera camera ricoperta di parole, mappe, reticoli, graticci, note musicali o figure colorate a visioni sinistre di persone, spesso in costume (edoardiano, vittoriano, militare, medievale, mediorientale, tirolese), fino al fuoco – il che, negli ultimi due casi, può causare chiamate ai servizi d’emergenza. Altre allucinazioni frequenti includono bambini, neonati, animali, serpenti, roditori, insetti, rane, acqua, veicoli, edifici, piante, erba, alberi, mobili o pareti.

Talvolta, come nel caso di Esme, l’intera stanza si tramuta in un posto alieno e ci si ritrova, com’è stato raccontato, seduti su un bancale in mezzo a un fiume torrentizio, da soli in una cattedrale medievale illuminata da candele o circondati da porte di tutte le misure. Coloro che soffrono di allucinazioni multiple sono costretti a stare a casa, non distinguendo ciò che è reale da ciò che non lo è. Per alcune persone, queste sono così orribili e angoscianti che il suicidio diventa una possibile alternativa.

Chiedere aiuto

Per evitare eventuali errori nella diagnosi, è fondamentale sensibilizzare su questa angosciante malattia sia i medici che il resto della società. A questo scopo, ho organizzato la prima Charles Bonnet Syndrome Patient Day (“Giornata del Paziente con la Sindrome di Charles Bonnet”) del mondo, che si terrà il 16 novembre 2018 al Moorfields Hospital e coinciderà con il Charles Bonnet Syndrome Awareness Day (“Giornata di Sensibilizzazione sulla Sindrome di Charles Bonnet”).

Sarà un evento stimolante e rivoluzionario, a cui prenderanno parte due studiosi della Charles Bonnet Syndrome dell’Università di Newcastle – uno dei quali lavora all’Esme’s Umbrella, finanziata da Fight for Sight-The Thomas Pocklington Trust-National Eye Research Centre e dalla Macular Society. Mi auguro che il Patient Day invogli più ricercatori a interessarsi a quest’area e che vengano raccolti ulteriori fondi.

È già abbastanza difficile convivere con la cecità, ma se si soffre anche di Sindrome di Charles Bonnet il senso di solitudine e isolamento si amplifica. Se sospetti di soffrire di questa sindrome o conosci qualcuno che pensi ne sia affetto, chiedi aiuto.

Vision Direct

Il direttore operativo di Vision Direct e optometrista, Brendan O’Brien sostiene che:

La sindrome di Charles Bonnet è un disturbo oculare di cui è improbabile sentir parlare in una normale conversazione, persino con il proprio oculista. Siamo felici di sostenere la campagna di Judith per la sensibilizzazione sulla CBS, con la speranza che possa portare, un giorno, a un significativo miglioramento della vita di chi ci convive.

Se sospetti di essere affetto da questo disturbo o conosci qualcuno che potrebbe soffrirne, cerca aiuto.

L’ Esme’s Umbrella offre tutte le informazioni disponibili sulla CBS, compresa la ricerca del dottor ffytche, e le strategie per affrontarla, che, insieme alle rassicurazioni, sono l’unico trattamento esistente al momento. In alternativa, puoi chiamare il numero di supporto dell’Esme’s Umbrella +44 (0)20 7391 3299, a cui risponderà il team di assistenza sanitaria dell’RNIB.

 

La mente fragile. L’enigma dell’Alzheimer (2018) di Arnaldo Benini – Recensione del libro

Il libro del Prof. Benini, neurochirurgo, spiega con un linguaggio semplice ed una narrazione accattivante, l’enigma della sindrome di Alzheimer e della demenza. Che sia un enigma lo si scopre già dalle prime pagine, allorquando è esposta la probabile origine della malattia, ancora oggi oggetto di ricerca.

 

Per lungo tempo si sono considerati la formazione delle placche di beta – amiloidi fra un neurone e l’altro e il deposito di proteine tau all’interno dei neuroni come la causa dell’Alzheimer. In realtà, queste alterazioni, che sono una conseguenza dell’invecchiamento, si trovano anche nel cervello di anziani che non soffrono di demenza e di sindrome di Alzheimer.

La mente fragile: gli stadi della malattia

La demenza altera nell’individuo “il pensiero astratto, il rapporto con la realtà, la memoria, l’orientamento spaziale, la capacità di giudizio e le funzioni sociali e professionali. Possono essere compromessi linguaggio e vista” [pag. 41]. Negli stadi finali la malattia determina deliri e soprattutto di sera e di notte, degli atroci attacchi di panico.

La demenza e la sindrome di Alzheimer sono inquadrate nel libro con uno sviluppo stadiale, che va dallo stadio 1, caratterizzato dal deterioramento cognitivo, che si riscontra in quasi tutti gli anziani, fino allo stadio 6, contraddistinto dalla demenza e sindrome di Alzheimer grave. Nel corso di questo stadio sopraggiunge la morte o per problemi respiratori o per infezioni delle piaghe da decubito, prodotte dal continuo allettamento.

La mente fragile: sempre più persone anziane che si ammaleranno

Negli ultimi anni la durata della vita si è allungata e, come il Prof. Benini afferma, l’allungamento riguarda la durata della senescenza. Questa dilatazione temporale della vecchiaia crea un numero elevato di pazienti affetti da demenza e Alzheimer. “Attualmente le persone che soffrono di demenza sono cinquanta milioni in tutto il mondo. Diventeranno settantacinque milioni nel 2030 e centoventi milioni nel 2050″ [pag. 47 – 48].

Sembra che ci sia una predisposizione genetica alla demenza e alla sindrome di Alzheimer, che può manifestarsi laddove il ciclo di vita dell’individuo è stato caratterizzato da uno stile di vita poco salutare. Fattori di rischio aspecifici per la demenza e l’Alzheimer possono essere l’ipertensione arteriosa, i disturbi cardiocircolatori, le sindromi metaboliche, l’alcolismo, il tabagismo, un’insufficiente attività fisica, un basso livello culturale.

Dalla demenza e dalla sindrome di Alzheimer non si guarisce. La patologia può essere alleviata dalle misure palliative, che come il prof. Benini spiega “non sono cure, ma aiutano gli ammalati a vivere meglio e a utilizzare il più a lungo possibile le capacità mentali e fisiche residue. Il principio dell’assistenza palliativa è quello di lasciar vivere la persona come il cervello alterato le permette, senza pretendere quello che non può fare o capire e senza ferirne la dignità” [pag. 84].

L’intervento sulla famiglia a rischio: come cambia il cervello del bambino

Molte famiglie vivono in una condizione socio-economica che potrebbe essere definita “a rischio”. Tale condizione non ha solo degli effetti negativi diretti sui figli, che spesso non hanno uguali opportunità rispetto ai coetanei, ma anche indiretti, in quanto incidono sulla qualità delle cure genitoriali.

 

Nella maggior parte di questi casi le cure genitoriali saranno carenti a causa della moltitudine di problemi “più gravi” che catturano l’attenzione dei genitori.

Ad esempio, questi genitori metteranno in atto un minor monitoraggio e controllo delle attività del figlio, rispetto a famiglie che vivono in un contesto più sereno, con una maggiore possibilità d’interazione.

Famiglia a rischio e danni sui bambini: lo studio

Contesti familiari stressanti sono spesso associati a esperienze di vita sfavorevoli per i bambini di quelle famiglie, e a un funzionamento socioemotivo disfunzionale più tardi nella vita. A tal proposito, molte ricerche hanno messo in evidenza che gli interventi focalizzati sulla famiglia assumono un ruolo importante nella prevenzione della psicopatologia, con benefici che si manifestano per un lungo periodo di tempo.

Jamie Hanson, professore di psicologia all’Università di Pittsburgh, insieme ad alcuni collaboratori, ha svolto uno studio allo scopo di verificare se la partecipazione ai programmi focalizzati sulla famiglia può avere un impatto sul cervello dei bambini.

Il campione era costituito da famiglie afroamericane, reclutate da comunità rurali, a basso reddito negli Stati Uniti sud-orientali. Quando i bambini avevano compiuto undici anni, metà delle famiglie è stata invitata, in modo casuale, a partecipare al programma Strong African American Families (SAAF), mentre l’altra metà costituiva il gruppo di controllo, che non ha ricevuto alcun tipo di intervento.

Il programma, ricevuto solo dalla metà del campione, si è concentrato sul rafforzamento delle risorse nei giovani, sul miglioramento del supporto emotivo dei genitori, sull’incoraggiamento della comunicazione genitore-figlio e sull’aiutare i giovani a fissare obiettivi futuri.

Successivamente, quando avevano compiuto 25 anni, i giovani di entrambi i gruppi sono stati sottoposti a imaging cerebrale “a riposo”, allo scopo di indagare l’organizzazione cerebrale.

Famiglie a rischio e intervento precoce: i risultati

Dalle tecniche di neuroimaging, i ricercatori hanno riscontrato che coloro che avevano partecipato all’intervento presentavano connessioni più forti (più interazioni) tra l’ippocampo e la corteccia prefrontale, aree coinvolte nella memoria e nel processo decisionale, rispetto al gruppo di controllo. In più il gruppo sperimentale, che aveva ricevuto l’intervento, presentava con una probabilità minore, problemi comportamentali distruttivi dettati dall’aggressività e dalla rabbia.
A tal proposito, Hanson ha affermato:

Questo intervento, focalizzato sulla famiglia, può essere un modo economicamente efficace per affrontare le disparità sociali e promuovere il benessere dei bambini in situazioni a rischio.

Le esperienze avverse in infanzia sono collegate a burnout e depressione in un campione di infermieri

Il numero di esperienze avverse vissute durante l’infanzia sembra essere collegato in maniera significativa ai livelli di burnout e alla gravità dei sintomi depressivi riscontrati nei giovani infermieri.

 

Presso l’Università del Texas è stato effettuato uno studio nel dipartimento della scuola di infermieristica di El Paso in cui è stato rilevato che gli studenti di infermieristica che durante l’infanzia hanno vissuto con maggiore frequenza esperienze avverse, tra cui abuso, abbandono, trascuratezza, nel presente hanno maggiori livelli di burnout e depressione rispetto ai colleghi che non hanno vissuto tali esperienze o che le hanno vissute in frequenza minore.

La scelta del campione da parte dei ricercatori è stata dettata dal fatto che la letteratura mostra come gli infermieri appartengono ad una categoria professionale altamente soggetta a rischio di burnout (Van Bogaert, Timmermans, Weeks, Van Heusden, Wouters & Franck, 2014).

Come confermato da innumerevoli studi, gli ACE (Adverse Childhood Experience) possono avere effetti negativi e duraturi sulla salute fisica e mentale degli adulti, predisponendo le persone allo sviluppo di una maggiore sensibilità allo stress (Anda, Felitti, Bremner Walker, Whitfield, Perry & Giles, 2006; Dube, Felitti, Dong, Chapman, Giles & Anda, 2003).

Lo studio

Tra gli autori dello studio ritroviamo i docenti della facoltà di infermieristica UTEP Gloria McKee-Lopez, Leslie K. Robbins, Elias Provencio-Vasquez, ex preside della scuola infermieristica e attuale preside della University of Colorado College of Nursing presso l’Anschutz Medical Campus e Hector A. Olvera, direttore della ricerca presso la School of Nursing.

Il campione oggetto della ricerca era composto da 211 studenti iscritti al primo semestre dei corsi di infermieristica del programma BSN (Bachelor of Science in Nursing), ai quali è stato chiesto di compilare una serie di questionari deputati a misurare il numero di ACE, il livello di depressione e il livello di burnout.

Il numero di esperienze avversive infantili riportati dai partecipanti ha mostrato una relazione significativa sui livelli di burnout e sulla gravità dei sintomi depressivi.

Inoltre, le studentesse con un numero più elevato di ACE avevano più probabilità di riportare livelli più elevati di burnout di tipo A (Emotional Exhaustion) e burnout di tipo B (Depersonalizzazione), oltre a punteggi di gravità della depressione più alti rispetto agli studenti di genere maschile.

Conclusioni

Lo studio supporta gli sforzi dei programmi di assistenza infermieristica in tutto il paese per preparare al meglio una nuova generazione di infermieri alle esigenze della professione.

I ricercatori raccomandano di istruire la facoltà infermieristica sulla frequenza e la gamma di ACE sperimentate dagli studenti infermieri in arrivo, che potrebbero metterli a maggior rischio di sviluppare stress, burnout e depressione mentre sono nel programma. Raccomandano inoltre di fornire ai docenti le risorse per fornire informazioni agli studenti sui servizi di consulenza e supporto psicologico.

Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare – Report dal Convegno di Roma, 10 e 11 novembre 2018

Il convegno organizzato presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica dell’Università Sapienza di Roma lo scorso 10 e 11 ottobre ha avuto l’obiettivo di promuovere un confronto tra i diversi professionisti che operano nel settore dell’assistenza ai bambini prematuri e ai loro genitori.

 

Il parto prematuro rappresenta un evento molto critico da affrontare, sia per il bimbo che per la coppia genitoriale e per il contesto familiare allargato.

Il livello di sopravvivenza dei bimbi nati pretermine è aumentato grazie ai progressi in ambito medico, come pure la qualità dell’assistenza prestata ai neonati. Detto questo, il modo in cui una nascita traumatica (che implica il ricovero in terapia intensiva del neonato, il rischio per la sua sopravvivenza e per lo sviluppo futuro) condiziona fortemente l’esperienza genitoriale viene spesso sottovalutato.

Il convegno organizzato presso il Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica dell’Università Sapienza di Roma lo scorso 10 e 11 ottobre ha rappresentato un momento di riflessione su queste tematiche. L’obiettivo dichiarato è quello di promuovere un confronto tra i diversi professionisti che operano nel settore dell’assistenza ai bambini prematuri e ai loro genitori.

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Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report - Imm.3Imm. 1 – Immagine dal Convegno “Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare”

I bambini prematuri e i loro genitori: la prima giornata del convegno

La premessa di fondo si identifica con il fatto che un intervento multidisciplinare, finalizzato a sostenere sia lo sviluppo del bambino che le competenze genitoriali, ha un impatto positivo sulla gestione a breve e lungo termine degli aspetti sociali e sanitari legati alla salute e allo sviluppo del nato pretermine.

I lavori prendono il via con i saluti introduttivi di Renata Tambelli (direttrice del Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica- Sapienza Università di Roma), Massimo Volpe (preside della Facoltà di Medicina e Psicologia- Sapienza Università di Roma), Fabio Lucidi (vice preside della Facoltà di Medicina e Psicologia- Sapienza Università di Roma) e Mirta Mattina (Coordinatrice del gruppo di Lavoro su Salute e Psicologia Perinatale dell’Ordine Psicologi del Lazio).

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Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report Imm5Imm. 2 – Prof.ssa Renata Tambelli

La relazioni della prima parte della mattinata sono incentrate sugli aspetti epidemiologici legati alla nascita prematura. Roberto Bellù (neonatologo presso la TIN dell’Ospedale di Lecco e appartenente all’Italian Neonatal Network) presenta una panoramica dell’epidemiologia e delle cure prestate al neonato pretermine nel contesto italiano; a seguire Serena Donati (responsabile del Reparto Salute della donna e dell’età evolutiva presso il CNPMP -Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la promozione della Salute- dell’’Istituto Superiore di Sanità), parla del progetto pilota di “Sorveglianza della mortalità perinatale”, finalizzato a rilevare la mortalità tardiva in utero e la morte perinatale, individuando i fattori di rischio.

Nella seconda parte della mattinata Chiara Cattaneo (del CNPMP dell’Istituto Superiore di Sanità) prende in esame che tipo di interventi precoci andrebbero attuati nelle TIN, le unità di Terapia Intensiva Neonatale, a sostegno della diade madre-bambino, della coppia genitoriale e del neonato. In modo particolare, si riscontrano nelle madri dei bambini prematuri maggiori livelli -rispetto alle madri di bambini nati a termine- di ansia, stress e depressione, sui quali sarebbe opportuno intervenire.

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Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report - Imm1Imm. 3 – Dott.ssa Chiara Cattaneo

Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report - Imm4Imm. 4 – Dott.ssa Michela Di Trani

Genitori e figli prematuri. Verso un intervento multidisciplinare - Report Imm.2Imm. 5 – Relatori durante il convegno

La mattinata si conclude con le testimonianze di due associazioni no profit costituite da genitori di bambini pretermine: l’associazione “Nati Prima” di Ferrara e l’associazione “La Cicogna Frettolosa” di Roma. Entrambi gli interventi mettono l’accento su quanto sia importante dare ai genitori supporto a livello emotivo per riuscire ad affrontare la nascita pretermine, la fase di ricovero del neonato e la fase che segue le dimissioni e il termine dell’ospedalizzazione.

I lavori del pomeriggio sono incentrati selle testimonianze delle Terapie Intensive Neonatali; i relatori, psicologi e operatori sanitari provenienti dalla TIN dell’Ospedale di Cesena, dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma e dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma, relazionano le proprie esperienze rispetto alla presa in carico del neonato pretermine e del contesto familiare.

Risulta importantissimo che le TIN siano aperte h24 in modo da consentire ai genitori di vedere il bambino ed essere il più possibile coinvolti nella fase di ricovero e terapia. I genitori vanno aiutati a sviluppare delle competenze genitoriali mirate, valorizzando la relazione precoce con il bimbo, ad esempio con il contatto pelle a pelle.

Il contenimento cutaneo, attraverso interventi come l’accarezzare il bimbo nell’incubatrice e la Marsupioterapia, rappresenta un’esperienza protettiva e stabilizzante sia per il bambino che per i genitori. È, inoltre, importante favorire, nella misura in cui è possibile, l’allattamento esclusivo al seno; il nutrire il bimbo restituisce alla madre competenza rispetto alla cura del proprio figlio, contrastando il vissuto di inadeguatezza che di frequente le madri di bambini prematuri provano.

Vengono proposti anche interventi di lettura ai bimbi, sia per aiutare i genitori a stabilire un legame con i piccoli, che per favorire il contatto dei bimbi con il mondo esterno, attraverso la voce dei loro cari.

I genitori dei bambini prematuri sono portatori di molteplici bisogni perché si trovano, in modo del tutto inaspettato, a vivere una genitorialità molto distante dai modelli idealizzati e da quella che credevano sarebbe stata la nuova realtà di padre e madre a cui si stavano preparando. La coppia ha enorme bisogno di essere sostenuta in questo difficile cammino in cui si rischia di sentirsi isolati nella propria esperienza.

Le relazioni della seconda parte del pomeriggio mettono l’accento su queste tematiche, riportando le testimonianze di professionisti che effettuano interventi di supporto alla genitorialità attraverso progetti come il “Progetto Distacchi Dolorosi alla Nascita”, condotto dall’Associazione “Il Melograno” di Roma.

La seconda giornata del convegno: il follow up dei bambini nati pretermine

I lavori del secondo giorno di convegno si concentrano sul tema delle cure post-ricovero e del follow up e sono affidati alle relazioni di Alessanda Sansavini (Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Bologna), Anna Maria Dall’Oglio (Psicologia clinica, Ospedale Bambino Gesù di Roma), Barbara Caravale (Dipartimento Psicologia Sviluppo e Socializzazione, Sapienza Università di Roma) e Fiorella Monti (Università degli Studi di Bologna).

Viene ricordato che il diritto all’assistenza post ricovero e al follow up è menzionato nella Carta dei diritti del Bambino nato prematuro dato che è importante continuare a dare al bambino tutto il supporto di cui necessita per il suo sviluppo anche quando la fase di ricovero si è conclusa.

In sintesi, la promozione del benessere del bimbo pretermine e dei genitori rappresenta un tema su cui molto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare; in modo particolare è importante valorizzare maggiormente la necessità di un adeguato supporto psicologico sia dei genitori che anche degli operatori che lavorano nelle unità di Terapia Intensiva Neonatale. Attualmente, la presenza di psicologi all’interno delle TIN non è prevista in termini di necessità, ma è a discrezione della singola unità di terapia intensiva; si verifica di frequente che il servizio venga attivato grazie ai fondi raccolti dalle associazioni di supporto create dai genitori.

 

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Regolazione emotiva: la diade madre-bambino tra psicoanalisi e neuroscienze

La capacità dell’individuo di regolare le proprie emozioni è una componente fondamentale per lo sviluppo adattivo ed è una capacità che emerge nella relazione madre-bambino, attraverso gli scambi fisici e preverbali. Influisce sul benessere psicofisico e sulle prestazioni in vari ambiti dello sviluppo.

 

Infatti, un individuo in grado di regolare le proprie emozioni avrà a disposizione più risorse per affrontare le situazioni positive e conflittuali, sarà un individuo capace di comprendere le emozioni proprie e altrui e quindi sarà capace di usufruire del supporto sociale, considerato una forma di regolazione emozionale che consente all’individuo di consolidare i contatti sociali e di conseguenza, di favorire la progressiva formazione di un’identità sociale (Renzetti, Tripicchio, 2010; Bonfiglioli, Ricci Bitti, 2013).

Regolazione emotiva: l’importanza del contatto corporeo tra mamma e bambino

L’importanza del contatto corporeo tra madre e bambino è evidenziata dal ruolo fondamentale che assume sullo sviluppo del sistema nervoso centrale e del sistema endocrino; in particolare la madre è in grado di innescare alti livelli di oppioidi endogeni, responsabili della piacevolezza delle interazioni. A loro volta, gli oppioidi endogeni innescano la produzione del fattore di rilascio di corticotropina nell’ipotalamo del bambino che, controllando la produzione di endorfina e ACTH nell’ipofisi anteriore, stimola la produzione di dopamina. La cascata biochimica che si attiva nelle interazioni tra madre e bambino favorisce la nascita di nuovi neuroni, la sintesi proteica e quindi mediante la disponibilità emotiva dei caregivers, viene attivata la crescita del cervello e favorita la formazione di un tono vagale positivo che, a sua volta, conferisce la forza dell’Io e la salute fisica (Cozolino, 2008).

Le esperienze corporee sono quindi il veicolo primario per le relazioni con gli altri; infatti, il più arcaico senso del Sé è tessuto, in cui il contatto corporeo permette i processi di separazione tra il “me” e il “non-me”, oltre ai processi di sviluppo neurobiologico. La pelle, sostiene la Bick (1968), è l’oggetto primario di contenimento ed è percepita dal bambino come un confine, come qualcosa che tiene insieme le parti della personalità, ancora non differenziate dalle parti del corpo. La funzione contenitiva della pelle si sviluppa però grazie all’esperienza di una relazione di accudimento adeguata che, permette di introiettare la funzione contenitiva materna. Anzieu (1985) prosegue gli studi della Bick e sottolinea come l’Io sia principalmente strutturato come un Io-pelle che si presenta come una rappresentazione mentale; l’Io del bambino lo usa per rappresentare se stesso come un Io che contiene i contenuti psichici, partendo dalle esperienze che compie attraverso la superficie corporea. In particolare, sostiene che il bambino acquisisce la percezione di una superficie corporea attraverso il contatto con la pelle della madre, mentre questa lo accudisce. L’Io-pelle ha quindi origine dalla pelle condivisa tra madre e bambino, quella che Anzieu definisce “pelle comune” (Lemma, 2011).

Regolazione emotiva: il modello neuropsicobiologico di Schore

Allan Schore ha sottolineato l’importanza della diade madre-bambino, nel determinare la formazione di una funzione fondamentale per lo sviluppo emotivo del bambino, ovvero la regolazione emotiva (Ardito, Adenzato, 2012).

La regolazione emotiva fa riferimento ai processi cognitivi e comportamentali che influenzano il verificarsi, l’intensità, la durata e l’espressione delle emozioni e si definisce come la capacità individuale di regolare le proprie emozioni, negative e positive, attenuandole, intensificandole o mantenendole semplicemente. È un costrutto multidimensionale caratterizzato dalla consapevolezza, comprensione e accettazione delle emozioni; dalla capacità di impegnarsi in comportamenti diretti verso l’obiettivo in risposta alle emozioni; dalla capacità di modulare l’intensità e/o durata della risposta emotiva e dalla disponibilità a sperimentare emozioni negative. Carenze o deficit in queste capacità sono correlate positivamente con la psicopatologia e negativamente con il benessere individuale e il funzionamento interpersonale (Infantino, 2012).

Beebe e Lachmann (2002) ritengono che la diade madre-bambino sia caratterizzata da due tipi di processi di regolazione che si influenzano reciprocamente, ovvero la regolazione interattiva, in cui i comportamenti di un partner sono influenzati da quelli dell’altro, e l’autoregolazione cioè la capacità di ogni individuo di auto-organizzarsi grazie al controllo del livello di attivazione ed espressività emozionale. Sin dai primi mesi di vita infatti il bambino, grazie ai neuroni specchio e alle capacità materne affrontate nel paragrafo precedente, entra in connessione con la madre di modo che attraverso una co-regolazione, gli stati fisiologici e le emozioni possano essere regolati ed elaborati, passando poi ad una regolazione autonoma (Renzetti, Tripicchio, 2010). Quindi le differenze individuali nei processi regolatori sono il risultato, nei primi tre anni di vita, dell’effetto combinato delle strategie di accudimento dei genitori e delle componenti biologiche e temperamentali dell’autoregolazione; l’apprendimento, all’interno della diade, delle prime strategie di regolazione, pone le basi per lo sviluppo futuro di capacità complesse come l’empatia e la lettura della mente dell’altro (Renzetti, Tripicchio, 2010).

Il modello psiconeurobiologico di Schore ha rilevato un chiaro legame tra attaccamento sicuro, sviluppo efficace delle funzioni regolatorie del cervello destro e salute mentale del bambino (Benvenuti, 2007). Ha sottolineato, in particolare, il ruolo centrale nella regolazione emotiva del sistema limbico dell’emisfero destro in quanto tale sistema è implicato nell’integrazione delle informazioni proveniente dall’ambiente sociale esterno con quelle corporee ed è formato inoltre da numerose strutture cerebrali tra cui la corteccia orbitofrontale. Quest’ultima riceve informazioni da tutto il corpo e svolge il ruolo di centro di controllo del sistema nervoso centrale sui sistemi simpatico e parasimpatico. Lo sviluppo della corteccia orbitofrontale è influenzata sia da fattori genetici che ambientali ed in particolare un attaccamento sicuro con il caregiver è la base per uno sviluppo adeguato di tali strutture che si occupano della regolazione emotiva (Ardito, Adenzato, 2012).

Regolazione emotiva, vergogna e invalidazione

L’acquisizione della capacità di regolare le emozioni dipende inoltre dal raggiungimento di due importanti traguardi. Il primo, la capacità di mantenere stati di attivazione positiva, è raggiunto attraverso le esperienze di sintonizzazione emotiva con il caregiver, possibili grazie al fatto che l’emisfero destro del bambino viene psicobiologicamente sintonizzato all’output dell’emisfero destro della madre, regolandone le emozioni. Per il raggiungimento del secondo traguardo, la capacità di modulare e recuperare stati di attivazione negativa, è fondamentale il ruolo del genitore di “agente socializzante” ovvero la capacità di proibire i comportamenti del bambino per permettergli lo sviluppo della socializzazione ma ciò comporta l’emergere del vissuto della vergogna. Questa è vissuta dal bambino come un momento di non sintonizzazione con il genitore ma la vergona e i momenti di rottura seguiti da riparazione, consentono al bambino di imparare a regolare gli affetti negativi (Benvenuti, 2007).

Oltre agli scambi tattili e alla funzione del rispecchiamento, anche la voce materna assume un ruolo importante nella regolazione emotiva e nello sviluppo psicofisico del bambino che è capace, fin dall’inizio, di processare la qualità delle componenti linguistiche. In particolare, il linguaggio materno, definito “motherese”, è in grado di attivare il flusso nella zona orbitofrontale destra del cervello, collegata allo sviluppo dell’intelligenza emotiva, tanto che le madri depresse, non essendo in grado di usare il motherese, espongono i figli ad un più alto rischio di sviluppare la depressione o altri problemi di sviluppo. L’intonazione della voce materna assume, come gli scambi fisici, una funzione contenitiva, infatti Stern (1998) sostiene che il monologo che la madre compie con il proprio bambino, permette di costruire un forte legame affettivo e con la sua lentezza consente al bambino di elaborarlo e farlo proprio. Risulta chiaro quindi che non sono fondamentali i contenuti ma il modo con cui vengono espressi. La voce materna, oltre a contribuire alla formazione della relazione e a svolgere la funzione contenitiva, permette anche la regolazione emotiva; infatti Stern (1998) sottolinea l’importante funzione dei “profili di intonazione” del linguaggio materno che permettono di regolare il grado di attivazione e il tono affettivo del bambino (Causa, Moschetti, Volta, Luchino, Brunelli, Manetti, 2007).

Il corpo diventa quindi il terreno su cui possono emergere problematiche nella relazione e conseguentemente nella regolazione emotiva e nelle capacità che permettono di costruire il benessere individuale e, allo stesso tempo, si propone come mezzo di espressione di tali dinamiche patologiche. Numerose ricerche, in ambito clinico, hanno messo in relazione la disregolazione emotiva con diverse forme di psicopatologia nei bambini. Infatti, una eccessiva inibizione nella regolazione delle emozioni è correlata a problemi di internalizzazione, connessi ad ansia, depressione, vergogna, bassa autostima, paura e tristezza mentre una scarsa regolazione delle emozioni è risultata essere associata a problemi esternalizzanti (Renzetti, Tripicchio, 2010).

Comunicazione assertiva. Come farsi rispettare in ogni occasione senza prevaricare (2016) di Alessandro Ferrari – Recensione del libro

Comunicazione assertiva di A. Ferrari è un manuale che raccoglie l’esperienza dell’autore come manager e formatore in diverse multinazionali che, nel corso degli anni, gli hanno permesso di sviluppare le sue abilità nella gestione delle risorse umane e delle pubbliche relazioni.

 

Un no pronunciato con convinzione è molto migliore di un sì pronunciato unicamente per compiacere o, ancora peggio, per evitare problemi. (Mahatma Ghandi)

 

Alessandro Ferrari è un manager italiano che grazie alle sue capacità comunicative ha avuto successo come formatore, scrivendo ebook, organizzando corsi sui diversi tipi di comunicazione e girando l’Italia con il suo roadshow in cui spiega il suo metodo. Ha formato il personale di numerose aziende, sviluppando un’esperienza trentennale sul tema della comunicazione efficace e la leadership.

Comunicazione assertiva: struttura del libro

L’opera, divisa in capitoli, parte dall’approfondimento del concetto di assertività e dell’importanza di sviluppare questa abilità per vivere meglio con se stessi, per raggiungere i propri obiettivi e comunicarli efficacemente agli altri. Si passa poi all’analisi di strategie relazionali come quella passiva e aggressiva, mettendone in luce i limiti e gli svantaggi.

Diversi capitoli sono dedicati al modo migliore di valorizzare se stessi e focalizzarsi sul pensiero positivo per migliorare la propria autostima e sicurezza nel rapporto con se stessi e gli altri e per raggiungere il successo desiderato.

Nella seconda parte del libro si passa al vedere come l’ assertività venga declinata nel mondo del lavoro con i propri pari e superiori, per imparare a farsi valere e a gestire i rapporti al meglio. Il ruolo dell’ assertività viene evidenziato soprattutto quando si devono affrontare conflitti ed è necessario mettere in atto delle negoziazioni.

Gli ultimi capitoli, infine, affrontano l’importanza dell’essere assertivi quando ci si trova a parlare in pubblico e quando si vive un rapporto di coppia. Comunicazione assertiva si conclude con un capitolo contenente un test preparato da Ferrari per scoprire se il proprio stile è più passivo, più aggressivo o assertivo.

Comunicazione assertiva: a chi è adatto

Il manuale Comunicazione assertiva di Alessandro Ferrari è un testo di tipo divulgativo, nel quale oltre alle considerazioni personali dell’autore, è raccolto un mix di tecniche e di teorie che prendono spunto dai principali orientamenti psicologici e che vengono trattate in maniera semplice e di facile comprensione per il lettore. Presenta, inoltre, le più famose tecniche utilizzate nelle strategie di marketing e quelle impiegate nel settore delle vendite. È scritto con un linguaggio facilmente comprensibile e ogni concetto è ripreso più volte, in modo da essere velocemente memorizzato.

L’opera che, evidentemente, non ha velleità di costituirsi come un testo scientifico, contiene una serie di consigli ed esortazioni utili per chi si avvicina per la prima volta al concetto di assertività. Chi non conosce ancora questa abilità può imparare, infatti, a comprendere cosa sia e farsene un’idea di base. Comunicazione assertiva potrebbe essere anche un utile sostegno per le persone che stanno seguendo già un training sull’ assertività con un professionista specificamente formato.

Neurobiologia dell’aggressività sociale

Il comportamento sociale può essere modulato da meccanismi neuronali, così affermano alcuni ricercatori della Duke-NUS Medical School. Tale scoperta può avere un notevole impatto sulla società visto il forte incremento di episodi di bullismo e aggressioni, principalmente tra i più giovani.

Adriano Mauro Ellena

 

E’ risaputo ormai da tempo quanto l’essere umano sia un animale estremamente sociale, le cui interazioni sono fortemente regolate da gerarchie sociali. D’altro canto, il non rispetto di queste gerarchie può essere estremamente dannoso.

Quello a cui ha portato la ricerca condotta dalla Duke-NUS Medical School è sorprendente, ovvero la scoperta di un particolare meccanismo neuronale che regola e modula la “dominanza sociale“ all’interno di un gruppo di topi.

Nello specifico è stato scoperto che una proteina avente funzione di fattore di crescita, la BDNF (Brain-derived neurotrophic factor) e il suo rispettivo recettore TrkB (Tropomyosin receptor kinase B) modulano la dominanza sociale nei topi.

Neurobiologia dell’aggressività sociale: l’esperimento

L’esperimento è stato condotto nel seguente modo: sono stati generati topi transgenici nei quali è stato rimosso il recettore TrkB negli interneuroni GABAergici presenti nell’area cerebrale adibita alla regolazione emotiva ed al comportamento sociale (Sistema Corticolimbico). I topi transgenici sono stati successivamente collocati in uno spazio insieme a topi non-transgenici. L’esito è stato sorprendente. I primi hanno iniziato a manifestare comportamenti particolarmente aggressivi rispetto ai topi non-transgenici.

Una volta evidenziato ciò, i ricercatori non si sono limitati però a segnalare l’aumento del comportamento aggressivo, ma hanno voluto approfondire la questione per cercare di comprendere tali comportamenti aggressivi.

Neurobiologia dell’aggressività sociale: i risultati

I ricercatori hanno dunque eseguito dei test comportamentali per meglio comprenderne l’origine. Anche in questo caso le scoperte si sono rivelate molto interessanti:

  • L’aggressività non era finalizzata a proteggere il territorio;
  • L’aggressività non era dovuta ad una maggior forza fisica dei topi transgenici;
  • I topi transgenici presentavano maggiori ferite rispetto agli altri topi;
  • L’aggressività era il risultato di un incremento della lotta per lo status e la dominanza sugli altri topi all’interno del gruppo.

I ricercatori, a seguito di ciò, hanno ipotizzato che la perdita del recettore BDNF-TrkB abbia portato ad un indebolimento dei segnali inibitori da parte degli interneuroni GABAergici alle circostanti cellule eccitatorie, che si sono iperattivate. Infatti, una volta inibite le cellule eccitatorie, e ripristinato il bilancio “eccitazione-inibizione”, il comportamento aggressivo dei topi transgenici è cessato immediatamente.

Questo studio dimostrerebbe come nel comportamento sociale anche la genetica e la biologia abbiano un importantissimo ruolo.

Patrick Melrose (2018): c’è vita oltre il sarcasmo

Ultima e incredibile interpretazione di Benedict Cumberbatch, Patrick Melrose (2018) è una miniserie britannica di 5 episodi, ispirata dal ciclo di racconti dello scrittore Edward St Aubyn, I Melrose.

 

Lo scenario dipinto è quello di una ricca famiglia inglese, rappresentante perfetta di una borghesia compita, elegante e dedita all’educazione umana e culturale dei figli, ma disturbata e segretamente tollerante verso gli abusi di un padre violento, le mancanze di una madre alcolista e depressa, le derisioni di un entourage affascinato dal potere, colluso con i carnefici e dedito al sarcasmo. Protagonista è Patrick, unico figlio ed erede diseredato, vittima delle torture psicologiche e della trascuratezza affettiva dei suoi genitori.

La doppia vita della famiglia Melrose, tra l’intellettuale messa in scena e il teatro orribile delle quinte domestiche, genera una costante emozione di sconcerto, incredulità, disgusto. Il muro della negazione è spiazzante, sminuisce ogni normale e umana reazione emotiva, ed è lo stesso muro che lascia sfumare la speranza e la fiducia nel mondo di Patrick, il bambino che in quello scenario deve lottare per la sua sopravvivenza. La morte del padre apre il racconto e lancia Patrick Melrose in un turbine di ricordi, emozioni e fantasmi che da solo non riesce ad affrontare.

Patrick Melrose: una preziosa sintesi umana e clinica di come il trauma irrompe nella vita

La traiettoria evolutiva di Patrick Melrose è una preziosa sintesi – umana e clinica – di come il trauma irrompe nella vita e nella mente di un bambino, cambiandone la storia e le opportunità di crescita in modo significativo. L’alternanza narrativa tra presente e passato costituisce un breve compendio di psicotraumatologia che tutti i clinici impegnati in questo campo dovrebbero conoscere e tenere ben in mente nel lavoro clinico quotidiano, poiché ogni elemento patologico del presente rivela una sua precisa ragione d’essere che solo alla fine – e solo resistendo all’umana repulsione per quello che si vede – può essere compresa.

Il presente del Patrick adulto è interpretato maestralmente da Benedict Cumberbatch, la sua mente è colonizzata da orribili flash back, allucinazioni, droghe, relazioni instabili, estrema frammentazione dell’identità e del senso del sé; il racconto del passato è affidato invece al giovanissimo Sebastian Maltz, che con il suo aspetto esile e inerme riesce a trasmettere la vita di bambino traumatizzato, vissuta in punta di piedi, nascosto negli angoli della casa, nell’impotenza dei silenzi, nella paura e nell’impossibilità di decifrare la realtà della sua famiglia.

Per ogni clinico esperto di trauma, tutta la sofferenza del Patrick adulto ha una chiara definizione diagnostica: Disturbo Post traumatico Cronico o Trauma complesso, con sintomi dissociativi. Per chiunque guardi il film è evidente come la sua sofferenza venga dal passato doloroso e dai traumi dell’infanzia, così come risulta chiaro che le sue uniche strategie di sopravvivenza siano state cucite negli anni sui modelli disfunzionali della sua infanzia, sua madre e suo padre: alcol, droghe, seduzione, disprezzo, prevaricazione, sarcasmo.

La complessità degli effetti del trauma sulla mente, già ampiamente discussi in precedenti contributi sul tema del trauma complesso e della dissociazione, è tuttavia solo una parte della storia. Quello che la storia racconta e denuncia con forza è tutto quello che ruota intorno al trauma e che ne impedisce una risoluzione, alla fine forse più semplice di quello che si pensi: riconoscere il vissuto di Patrick, offrirgli protezione, comprendere il suo dolore e permettergli di cambiare e diventare un adulto resiliente e forte, capace di essere un padre migliore del suo e di andare oltre le ferite del passato.

Nulla è possibile finché la barriera della negazione ostacola questo cambiamento. Tutto diventa possibile quando a Patrick è offerta una possibilità sicura di mettersi in salvo.

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https://www.youtube.com/watch?v=JQh36eStMqk

Cosa ci insegna la storia di Patrick Melrose

La storia di Patrick Melrose non è dunque solo il racconto del suo malessere, ma è il racconto dei meccanismi più subdoli e inaccettabili della violenza domestica intrafamiliare, in cui il comportamento violento è solo la superfice di molte mancanze e inadeguatezze che ne facilitano la messa in atto da parte dei carnefici.

La segretezza è la prima: negare gli eventi, restare in silenzio, chiedere ai bambini abusati di mantenere la segretezza per avere salva la vita è la garanzia dei perpetratori per continuare ad esercitare il loro potere. Da adulti appare facile urlare, scappare via, chiedere aiuto, ma da piccoli la minaccia di un adulto stralcia ogni istinto di difesa. In ogni famiglia violenta il riconoscimento di quello che accade è l’unica via per interrompere la violenza, ma allo stesso tempo è l’elemento più grave di minaccia per la vita di tutti. Chiedere ad un bambino se è in pericolo potrebbe non ricevere la risposta utile a proteggerlo, osservarne invece i comportamenti incerti, lo sguardo spaventato, le abitudini bizzarre o la tendenza ad isolarsi può offrire le risposte che gli adulti hanno la responsabilità di accertare per comprendere cosa succede davvero nella sua famiglia.

La mancanza di protezione, e la conseguente collusione con il carnefice, è il secondo ostacolo all’interruzione della violenza. Eleanor, madre di Patrick – interpretata da una bravissima Jennifer Jason Leigh – non è abusante e risulta anzi spesso sensibile e consapevole della gravità della situazione, ma tuttavia l’alcol e la depressione la rendono cieca verso quello che accade e incapace di sintonizzarsi sui bisogni di Patrick, di difenderlo e men che mai di riconoscere i suoi segnali di stress. Il malessere della madre alimenta il senso di isolamento e abbandono, che lasciano in Patrick i segni di una profonda trascuratezza emotiva.

Questo elemento, spesso messo in secondo piano rispetto alla violenza attiva, crea in realtà il terreno più fertile per i carnefici: un bambino non protetto dagli adulti che ha intorno, è un bambino più vulnerabile e più incline a non chiedere aiuto in caso di bisogno. La responsabilità della non-protezione è cruciale, poiché toglie la speranza di essere ascoltati dall’unica fonte di sicurezza disponibile e questo distrugge la fiducia verso gli altri nel presente, così come nel futuro.

I segnali di malessere degli adulti, uomini o donne che siano, vittime di violenza domestica vanno colti e ascoltati, per aiutare tutte le vittime a restare adulti capaci di proteggere se stessi, i loro figli e di interrompere il circolo vizioso della violenza.

Nell’entourage della famiglia Melrose, gli adulti che osservano immobili vedono il malessere di Eleonor, ma tendono a colpevolizzarla, a giudicarla, a deriderla o ad osservarla con compassione, sposando una visione cupa e cinica della vita, che alla fine non aiuta nessuno. Il loro intervento non è di stimolo per Eleanor ad uscire allo scoperto e denunciare, ma certamente offre silenzioso sostegno al carnefice che acquisisce forza da chi non prende posizione contro di lui.

La confusione e l’incoerenza del contesto di vita di Patrick Melrose sono infine una trappola decisiva alla consapevolezza di quello che stava accadendo. Un contesto privilegiato, ma emotivamente trascurante. Genitori controllati e formali, ma che possono esplodere nel più imprevedibile e spaventoso dei modi. L’estrema attenzione all’etiquette, ma discorsi volgari, sessisti e umilianti di ogni genere. Per un bambino la realtà rappresentata dagli adulti che ha intorno, è semplicemente l’unica realtà conosciuta e l’unica attraverso la quale può valutare il mondo. Nessun bambino sa cosa è giusto e sbagliato, ma certamente può sentirsi minacciato.

Cosa succede nella mente di un bambino quando si sente in pericolo, ma gli adulti intorno non sembrano preoccupati per lui o peggio ridicolizzano la sua paura? Patrick ha molte emozioni negative e chiarissime sensazioni sgradevoli che vengono dal rapporto con i suoi genitori, ma non sa decifrarne l’origine poiché nessun adulto intorno a lui attribuisce a quegli eventi violenti e spaventosi un significato corretto e univoco. Al contrario il sarcasmo copre di ridicolo una richiesta di aiuto, getta nebbia sulla gravità di una violenza, minimizza i pericoli reali, propone paradossi esistenziali in cambio di spiegazioni e soprattutto: il sarcasmo non è comprensibile a nessun bambino. La soluzione possibile a questa confusione è solo una: “Se per gli altri è tutto normale, allora il problema sono io”. Colpa e vergogna vanno a rafforzare il muro della negazione, stavolta però il muro costruito è dentro la mente di Patrick e dentro ogni bambino vittima di violenza intra-familiare che “sceglie” di non chiedere aiuto e denunciare i suoi aguzzini.

In conclusione

La storia di Patrick Melrose è cruda e dura da ascoltare, ma la denuncia ad una società borghese, distratta e incapace di cogliere bisogni semplici come quelli di un bambino merita di essere ascoltata e trasmette un messaggio di forza: la mente umana ha in sé la resilienza adeguata a rispondere e adattarsi a situazioni sfavorevoli ed estreme, anche a fronte di un’infanzia molto difficile, ma uscire dall’isolamento emotivo che il trauma genera in chi lo ha vissuto è possibile solo se il mondo fuori è disposto a scegliere di non voltare lo sguardo e a non giudicare.

“Le idee sono fatte per essere cambiate.”

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