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Aggressività e mentalizzazione: possiamo curare il disturbo antisociale?

Capire gli antecedenti del comportamento aggressivo è fondamentale per pianificare il trattamento e individuare chi ne può beneficiare. Un fattore candidato a spiegare, in parte, le tendenze aggressive, è la scarsa capacità di mentalizzazione.

Giancarlo Dimaggio e Patrizia Velotti

 

L’idea è che persone con ridotte abilità di comprendere i propri stati interni, di capire e risuonare con pensieri ed emozioni degli altri, e di avere un atteggiamento mindful sui propri pensieri ed emozioni dolorosi, sarebbero maggiormente prone a reagire aggressivamente a frustrazioni e fallimenti nei loro scopi.

Nello studio “Mindfulness, alexithymia, and empathy moderate relations between trait aggression and antisocial personality disorder traits” apparso sulla rivista Mindfulness, gli autori riportano risultati interessanti. In un campione di 403 uomini, detenuti per reati violenti, sono state misurati i tratti antisociali, l’ aggressività come disposizione di base e le capacità di comprendere e dare nome alle proprie emozioni (alessitimia), l’empatia e la mindfulness.

Sono emersi due profili nettamente differenti. Da una parte vi sono individui con buoni livelli di capacità mentalistiche, ma anche con alti tratti di aggressività e questi presentavano anche tendenze antisociali. In parole semplici: ci sono soggetti che hanno capacità di comprendere gli stati mentali, propri e degli altri, e in qualche modo di regolarli in modo consapevole. Se queste persone agiscono comportamenti antisociali lo fanno a causa di loro tendenze di base. È probabile che ci stiamo riferendo al tipo di comportamento aggressivo di tipo predatorio, premeditato, “a sangue freddo”.

Invece in persone con scarsi livelli di capacità mentalistiche, ovvero con difficoltà a nominare e comunicare le proprie emozioni, ad assumere empaticamente il punto di vista dell’altro e a regolare lo stato interno in modo mindful, l’ aggressività come tendenza di base non prediceva il comportamento antisociale, cosa che invece faceva la scarsa mentalizzazione.

Anche qui, in parole semplici, persone con bassa mentalizzazione in risposta a eventi frustranti e stressanti possono reagire con comportamenti antisociali. È probabile che ci riferiamo qui a comportamenti di tipo reattivo, impulsivo, “a sangue caldo”. Le implicazioni del trattamento sono rilevanti, perché questo secondo tipo potrebbe beneficiare molto di più della psicoterapia e in particolare di terapie volte al miglioramento della capacità di riconoscere e regolare gli stati mentali, come la Mentalization Based Therapy, la Terapia Metacognitiva Interpersonale, la Metacognitive Reflection and Insight Therapy.

L’Anoressia Nervosa Atipica, oltre il basso peso corporeo

Sempre più spesso pazienti adolescenti ricoverati per Anoressia Nervosa presentano gran parte delle complicazioni fisiche e cognitive del disturbo alimentare senza però essere sottopeso (condizione fondamentale per la diagnosi).

Adriano Mauro Ellena

 

I Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione stanno cambiando volto, in un contesto dove la prevalenza di sovrappeso e obesità è sempre più evidente.

Immersi in una società performante e con canoni estetici molto esigenti, sono sempre più i giovani che sviluppano un’eccessiva preoccupazione per il peso e le forme del corpo. Questa preoccupazione può dunque sfociare in un disturbo dell’alimentazione, che molte volte è evidente ai più, mentre altre volte si insidia in maniera atipica e poco evidente.

Un recente studio realizzato presso l’Università di Melbourne in Australia, ha riscontrato che il 31% dei pazienti adolescenti ricoverati per Anoressia Nervosa (AN) presentano gran parte delle complicazioni fisiche e cognitive del disturbo alimentare senza però essere sottopeso (condizione fondamentale per la diagnosi di AN). Gli esperti richiedono perciò una modifica dei criteri diagnostici, cercando di considerare “critica” la perdita di peso e non il fatto di essere o meno sottopeso.

Quello a cui stiamo sempre più assistendo è che molti pazienti hanno un peso corporeo nella norma, ma presentano complicazioni caratteristiche di chi soffre di anoressia nervosa tipica, tra cui gli stessi pensieri su alimentazione e cibo. Abbiamo bisogno di ridefinire l’ anoressia perché vi è una percentuale crescente di pazienti con anoressia nervosa atipica, più difficile da riconoscere. La definizione dovrebbe riferirsi alla perdita di peso, non solo al sottopeso – afferma la dottoressa Whitelaw, autrice dello studio.

Lo studio

Nello studio sopra citato, Whitelaw ha esaminato 171 pazienti affetti da anoressia nervosa, di età compresa tra 12 e 19 anni, che sono stati ammessi al programma sui disordini alimentari del Royal Children’s Hospital a Melbourne, in Australia, tra il 2005 e il 2013.

È emerso che 51 pazienti del campione presentavano il disturbo in una forma “atipica” ovvero con psicopatologia del disturbo alimentare di significativa intensità, ma non sottopeso. In questi pazienti si riscontrava comunque una significativa perdita di peso (piuttosto che l’essere sottopeso), associata a una frequenza cardiaca pericolosamente bassa, una complicazione che richiede necessariamente il ricovero. Inoltre questi pazienti con anoressia nervosa atipica soffrivano di bassa pressione sanguigna e mostravano uno squilibrio degli elettroliti nel sangue.

Nessuna complicazione è stata associata indipendentemente al sottopeso, il sintomo tipico, nonché distintivo, dell’anoressia.

Nessuno dei pazienti inclusi nello studio è stato tuttavia monitorato da uno specialista per verificare il loro rapporto con il cibo o i metodi utilizzati per perdere peso.

In conclusione

I pazienti con anoressia nervosa atipica potrebbero aver perso circa un quarto del loro peso corporeo, ma il corpo può andare in “starvation mode” (modalità fame) anche solo perdendo il 10% del proprio peso (se ciò avviene in marniera rapida e brusca), causando il rallentamento della frequenza cardiaca al fine di preservare l’energia.

Mentre l’ anoressia nervosa atipica è spesso considerata meno grave dell’ anoressia nervosa tipica, le nuove scoperte mostrano che le conseguenze sulla salute possono essere altrettanto pericolose.

Perdere peso molto velocemente e senza un corretto supporto professionale può essere molto pericoloso, e i giovani sono sempre più inclini a prendere misure estreme pur di raggiungere la tanto ambita soddisfazione corporea.

Gli specialisti dovrebbero impegnarsi per monitorare questo tipo di comportamento e cercare di prevenire ed eventualmente trattare questo tipo di manifestazione clinica.

Sulla base di questi risultati e di queste ultime riflessioni, appare chiara l’affermazione della Whitelaw, secondo cui:

È momento di cambiare gli attuali criteri diagnostici secondo i quali chi soffre di anoressia nervosa deve essere sottopeso.

Le bugie hanno le gambe corte? Gli effetti del contatto visivo sul nostro interlocutore

A chi non è mai successo di trovarsi di fronte a un bugiardo? È piuttosto comune che le persone con le quali ci relazioniamo ci raccontino delle bugie. Spesso si tratta di “bugie bianche”, ovvero di menzogne innocue, dette per evitare che l’altra persona si senta ferito o dispiaciuto.

 

Quando ci troviamo di fronte ad un collega che racconta scuse su scuse per giustificare il suo ritardo, o ad un bambino che dice di non sapere dove è finita la fetta di torta che stava in cucina, di solito guardiamo negli occhi il nostro interlocutore.

Uno studio condotto presso l’Università di Tampere (Hietanen, Syrjämäki, Zilliacus & Hietanen, 2018) dimostra in effetti che mantenere un contatto visivo con una persona che sta mentendo potrebbe essere molto utile.

Per verificare questa ipotesi, i ricercatori finlandesi hanno messo a punto un esperimento volto a testare quale fosse l’effetto di avere lo sguardo di un’altra persona puntato addosso su una persona che sta raccontando una bugia. Come reagiscono i bugiardi quando qualcuno li guarda fissi negli occhi? Questa la domanda a cui i ricercatori hanno cercato di dare una risposta.

La ricerca: il contatto visivo aiuta a smascherare i bugiardi?

Nell’esperimento i soggetti del campione si trovavano davanti a uno degli sperimentatori, di fronte al quale dovevano mentire mentre erano impegnati in un gioco. Nella metà dei casi, lo sperimentatore guardava il soggetto bugiardo dritto negli occhi, nell’altra metà invece teneva lo sguardo basso. Obiettivo degli autori era quello di capire se il comportamento di chi stava mentendo poteva essere influenzato dal cambio di direzione dello sguardo dello sperimentatore.

I risultati dello studio hanno dimostrato che guardare direttamente chi mente, proprio mentre lo sta facendo, è efficace nel ridurre il numero e la magnitudo delle bugie che si accinge a raccontare. Ovviamente i ricercatori sostengono che è sbagliato pensare che in questo modo si eviti totalmente ed in ogni circostanza che le persone mentano, semplicemente diventa meno probabile che lo facciano se hanno lo sguardo di un’altra persona diretto sul loro viso.

In conclusione

Le implicazioni pratiche dello studio che stiamo trattando sono enormi sia per quanto concerne situazioni un po’ più ufficiali (basti pensare, ad esempio, ad un interrogatorio condotto dalle forze di polizia) sia, invece, in contesti più informali come nel caso delle bugie raccontate da un collega o dal nostro partner.

Purtroppo, un grande limite di questo studio che lo rende, de facto, inapplicabile, almeno a un livello puramente teorico, a contesti di vita reale, è il fatto che tutto l’esperimento si sia svolto in laboratorio. Pertanto non è possibile generalizzare le conclusioni alle situazioni reali, esterne a un contesto controllato come quello di uno studio sperimentale. Sarebbe interessante che altri ricercatori ampliassero e tentassero di riprodurre i risultati di Hietanen e collaboratori in situazioni esterne ad un laboratorio.

Nulla ci vieta però di testare personalmente la veridicità di quanto emerso dallo studio. Riusciremo a smascherare i bugiardi intorno a noi?

L’effetto del trauma sulla crescita dei bambini 

Nel panorama della psicologia scientifica è possibile distinguere diverse tipologie di trauma, in particolare si parla di traumi con la “T” e traumi con la “t”. I loro effetti possono essere differenti sull’individuo.

 

La parola “trauma” deriva dal greco e vuol dire “ferita”. Con questo termine ci si riferisce a un evento ad alto impatto emotivo e difficile da elaborare, che comporta delle conseguenze negative sul funzionamento dell’individuo, ad esempio la comparsa di sintomi ansiosi e depressivi.

È possibile distinguere traumi con la “T” e traumi con la “t”. Questi ultimi fanno riferimento a quelle esperienze disturbanti che sono caratterizzate da una percezione di pericolo non particolarmente intensa, hanno generalmente un’origine relazionale. Al contrario, i traumi con la “T”, fanno riferimento a quegli eventi che minacciano l’integrità fisica di sé o delle persone care, come disastri naturali.

La ricerca: gli effetti del trauma sullo sviluppo

Un recente studio, svolto presso l’Università di Washington, si è posto l’obiettivo di indagare l’effetto che diversi tipi di trauma hanno sulla crescita dei bambini. La ricerca ha coinvolto 247 bambini e adolescenti di età compresa tra gli otto e i sedici anni. Questi bambini sono stati seguiti nel tempo al fine di comprendere le conseguenze del trauma.

In particolare, la ricerca ha messo in evidenza che differenti tipologie di trauma influenzano la crescita dei bambini in diversi modi. I bambini esposti a forme di avversità nelle prime fasi della vita, come negligenza e trascuratezza, hanno mostrato un ritardo nello sviluppo puberale, rispetto ai loro coetanei. Al contrario, i bambini che avevano subito violenze nelle prime fasi della vita, come l’abuso fisico, emotivo o sessuale, mostravano un invecchiamento biologico più veloce, rispetto ai loro coetanei.

McLaughlin, PhD presso l’Università di Washington, ha affermato:

I risultati dello studio hanno dimostrato che diversi tipi di avversità/ trauma, avvenuti nelle prime fasi della vita, possono avere conseguenze diverse sullo sviluppo dei bambini.

McLaughlin ha continuato, dicendo:

Questi risultati indicano che l’invecchiamento accelerato, in seguito all’esposizione ad episodi di violenza nelle prime fasi della vita, può essere già rilevato in bambini di otto anni.  

Conclusioni

In altre parole, la ricerca ha messo in evidenza che gli eventi traumatici e le avversità legate alla violenza e alla privazione, hanno effetti diversi sullo sviluppo dei bambini. A tal proposito, i ricercatori sottolineano l’importanza di indagare il tipo specifico di trauma subito in quanto questo permetterà di comprendere gli effetti che quest’ultimo ha avuto sulla crescita dei bambini.

Infine, nei bambini che hanno subito violenze nelle prime fasi della vita, l’invecchiamento epigenetico accelerato è stato associato ad un aumento dei sintomi depressivi. Secondo gli autori, questo significa che un invecchiamento biologico più veloce può essere un modo in cui le avversità e le esperienze traumatiche vissute durante le prime fasi di vita possono contribuire all’esordio di problemi di salute successivi.

Quando la musica aiuta ad elaborare il dolore

La musica è entrata talmente tanto a far parte della nostra vita quotidiana che la sua presenza oramai è data per scontata. Fa da cornice agli eventi più importanti, così come nei gesti più semplici della vita di tutti i giorni. Ma che cosa ci spinge a scegliere quel brano specifico, in quel preciso momento?

Francesca Bianco e Alba Miragliuolo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il dolore non è un errore dell’evoluzione umana. Nella vita tutto ciò che conta si conquista superando l’esperienza negativa a essa correlata. Ogni tentativo di evitarlo, soffocarlo o silenziarlo ci si ritorce contro.
(dalla serie tv Perception)

Musica nella quotidianità

La musica è entrata talmente tanto a far parte della nostra vita quotidiana che la sua presenza oramai è data per scontata. Fa da cornice agli eventi più importanti, così come nei gesti più semplici della vita di tutti i giorni. Basti pensare alla marcia nuziale di un matrimonio, alla canzoncina di buon compleanno, alla messa della domenica mattina, alla ninna nanna. E ancora, la si ascolta per radio mentre si va al lavoro, con gli auricolari mentre si va a correre o in palestra, mentre si attende di parlare con un operatore telefonico, dal parrucchiere. Se poi ricollegassimo alcune canzoni a momenti della vita di ognuno di noi, gli esempi sarebbero infiniti.

A chi non è mai capitato di piangere sulle note di “Nessun rimpianto” degli 883 dopo una relazione finita? Chi non ha mai dedicato una canzone romantica al proprio partner? Quanti si ricordano delle vacanze estive ripensando alle hit più in voga quell’anno? Chi non ha mai ballato YMCA o la macarena in riva al mare?

Verrebbe naturale pensare che nei momenti tristi, quando ci si sente giù di morale, la cosa più semplice sarebbe alzare la musica a tutto volume, magari con canzoni allegre e spensierate. Eppure non è sempre così. Quando viviamo un brutto momento, spesso viene l’istinto di chiuderci in camera e crogiolarci nel nostro dolore, ascoltando quella canzone che ci ricorda tanto quella persona che ci ha ferito, o per la quale soffriamo. Ma che cosa ci spinge a scegliere quel brano specifico, in quel preciso momento, piuttosto che un altro? Scegliamo una canzone per il testo, o per la melodia? Cosa ci aspettiamo dall’ascoltare musica quando siamo tristi?

Lo scopo di questo articolo è comprendere il motivo per cui preferiamo ascoltare un certo tipo di musica quando sperimentiamo situazioni avverse, focalizzando l’attenzione sulle differenti funzioni e sugli effetti che l’ascolto della musica triste produce. L’analisi di questi fattori può essere importante al fine di comprendere in che modo la musicoterapia può essere di supporto alla pratica clinica, e in che modo può essere un valido strumento all’interno di un approccio multidisciplinare per migliorare gli effetti della psicoterapia nel trattamento di differenti disturbi.

Musica e psicoterapia: musicoterapia

La World Federation of Music Therapy (Federazione Mondiale di Musicoterapia) ha dato nel 1996 la seguente definizione:

La musicoterapia è l’uso della musica e/o degli elementi musicali (suono, ritmo, melodia e armonia) da parte di un musicoterapeuta qualificato, con un utente o un gruppo, in un processo atto a facilitare e favorire la comunicazione, la relazione, l’apprendimento, la motricità, l’espressione, l’organizzazione e altri rilevanti obiettivi terapeutici al fine di soddisfare le necessità fisiche, emozionali, mentali, sociali e cognitive. La musicoterapia mira a sviluppare le funzioni potenziali e/o residue dell’individuo in modo tale che questi possa meglio realizzare l’integrazione intra- e interpersonale e consequenzialmente possa migliorare la qualità della vita grazie a un processo preventivo, riabilitativo o terapeutico.

Nonostante la musicoterapia si sia fatta largo nel panorama clinico-psicologico solo nel secolo scorso, le origini della musica sono ben più lontane. Già nell’antica Grecia la musica aveva un ruolo preponderante, tanto da attirare l’attenzione di studiosi come Platone e Pitagora. Da allora sono stati sempre più numerosi gli studi intorno alla natura del linguaggio musicale. Per Wackenroder la musica esprime il mondo delle emozioni (Wackenroder, 1814) per Meyer la musica susciterebbe aspettative da appagare (Meyer, 1956), mentre secondo Fonagy il linguaggio verbale e quello musicale avrebbero la stessa origine (Fonagy, 1983).

Le origini della musicoterapia possono essere fatte risalire agli anni ’50, quando medici e psichiatri di varie parti del mondo (tra i quali Benenzon in Argentina, Wigram in Gran Bretagna e Lecourt in Francia) hanno iniziato ad interessarsi al possibile coinvolgimento del ruolo clinico della musica nel processo terapeutico (Scarso et al., 1998). Iniziava dunque a farsi largo l’idea che la musica potesse inserirsi in una pluralità di interventi multidisciplinari (Parenti, 1983), al fine di raggiungere diversi obiettivi, tra cui:

  • acquisire abilità psicomotorie (o intellettive);
  • facilitare le relazioni interpersonali incoraggiando l’uso di un linguaggio non verbale;
  • migliorare le capacità di insight;
  • contenere i propri vissuti emotivi;
  • migliorare l’espressività del Sé corporeo.

Quest’ultimo punto si riferisce in particolar modo all’associazione di musica e danza, che favorirebbe la comunicazione non verbale, modulando la distanza interpersonale (Scarso et al., 1998).

Musica e strategie di ascolto

L’ascolto della musica può assolvere molteplici funzioni, tra le quali assume particolare importanza quella contenitiva. Non a caso, capita spesso di ascoltare brani già conosciuti, probabilmente per ricercare vissuti già provati. Altre volte l’ascolto di determinati brani ci permette di “rievocare” momenti nostalgici, altre ancora la musica rappresenta una sorta di “evasione”, e consente un distacco dalla realtà, seppur momentaneo.

Ed ecco che allora si possono instaurare molteplici relazioni nei confronti della musica, come quella di dipendenza, di compensazione, di difesa, comunicazione o collaborazione. Ne è un esempio l’avvento della musica rock, che ha permesso ai giovani di identificarsi in una cultura diversa rispetto a quella degli adulti, riconoscendosi come gruppo.

Per queste ragioni l’ascolto della musica, unitamente alla scelta dei brani da ascoltare, ha suscitato l’interesse degli studiosi, che negli ultimi anni si sono occupati degli effetti causati dalla scelta di specifici brani, e del motivo per il quale si scelgono alcuni brani piuttosto che altri. Le persone infatti, usano strategie differenti per la scelta musicale e tale scelta dipenderebbe in primo luogo dagli obiettivi che ogni individuo ha per affrontare una specifica situazione (Chen et al., 2007, DeNora, 1999; Lonsdale & North, 2011; Saarikallio & Erkkilä, 2007; Thoma, Ryf, Mohiyeddini, Ehlert, & Nater, 2012).

Musica triste quando siamo tristi

Secondo Miranda e Claes (2009):

Ascoltare la musica può essere utilizzata intenzionalmente per far fronte allo stress quotidiano.

Analogamente, sempre più ricerche hanno dimostrato che in seguito a esperienze negative, le persone siano motivate ad ascoltare musica triste, al fine di distrarsi dall’evento o per incanalare le proprie emozioni.

Molti studiosi hanno evidenziato le seguenti strategie di selezione musicale quando si provano stati d’umore negativi:

  • Connessione: selezionare uno specifico pezzo musicale perché la musica ritrae un’emozione o ha un testo in cui l’ascoltatore si identifica in quel momento;
  • Trigger (innesco) della memoria: selezione della musica perché essa ha associazioni con eventi o persone passate;
  • Valore estetico alto: selezione della musica perché essa viene considerata come “bella”;
  • Messaggio musicale: viene scelta la musica che esprime un messaggio, in cui l’ascoltatore si identifica.

Musica e auto-regolazione delle emozioni

Un consistente numero di recenti studi sottolinea come l’ascolto della musica funga da auto-regolatore delle proprie emozioni. In questa accezione, l’ascolto musicale potrebbe essere usato per cambiare, mantenere o rinforzare emozioni e stati d’animo, o per rilassarsi.

Da quanto emerge da uno studio recente condotto su 65 adulti l’ascolto di brani tristi avrebbe una funzione auto-regolatoria (Van den Tol & Edwards, 2011), che consiste nel: riproporre l’esperienza emotiva, per rimanere in contatto ed intensificare i propri stati emotivi; rievocare ricordi passati, spesso associati al brano scelto; ricercare la “vicinanza di un amico” simbolico; distrarsi, per concentrarsi su un altro stato d’animo che non sia quello attuale (Van den Tol & Edwards, 2015). Inoltre, la scelta di un brano triste in momenti tristi, potrebbe essere una valida strategia di coping per fronteggiare un evento spiacevole o stressante.

L’ascolto di una canzone triste può agevolare l’accettazione, può significare ricevere supporto, o avere una funzione empatizzante, in particolare per gli adolescenti, i quali utilizzano spesso la musica come riparo al proprio umore (Saarikallio, 2008).

Musica e tristezza

Diverse ricerche hanno messo in luce una correlazione positiva tra l’ascolto di musica triste e l’aumento del tono dell’umore.

Molti studi hanno indicato che le strategie di selezione musicale maggiormente utilizzate per aumentare il tono dell’umore sono la rivalutazione cognitiva o un diversivo comportamentale, come la distrazione (Haye et al., 2010; Kross, Ayduk, & Mischel, 2005; Totterdell & Parkinson, 1999).

Inoltre, in diverse ricerche sull’ascolto di musica triste, è stato riscontrato che molte persone tendono a richiamare in memora ricordi riguardanti amori perduti, o mancati (Van den Tol & Edwards, 2011) e che sembrano richiamare alcuni elementi della nostalgia, descritta da Wildschut, Sedikides, Arndt and Routledge (2006) come “un’emozione agrodolce”, cioè la felicità legata all’esperienza ma che contiene anche elementi emotivi negativi. In modo interessante, gli autori hanno dimostrato che le persone spesso diventano nostalgiche al fine di migliorare il proprio umore (Wildschut et al., 2006). In aggiunta a questi risultati, Barrett e coll. (2010) hanno messo in evidenza come l’umore triste può motivare le persone ad ascoltare musica, che diviene a sua volta uno strumento per recuperare i ricordi nostalgici e aumentare l’umore positivo.

Uno studio condotto su 220 partecipanti (Van de Tol e coll., 2015) ha dimostrato che le persone tendono a selezionare una musica con valore estetico elevato come forma di distrazione e di rivalutazione cognitiva per migliorare il proprio umore. Più nello specifico, questi risultati porterebbero a ipotizzare che le persone, dopo aver sperimentato un evento negativo, selezionino consapevolmente la musica con alto valore estetico con lo scopo di migliorare il proprio stato emotivo(Van den Tol & Edwards, 2015).

Questi risultati forniscono ulteriori informazioni alla letteratura esistente. Ad esempio Chen e coll. (2007) hanno riscontrato che la preferenza verso l’ascolto di musica triste si verifica durante l’esperienza di un umore negativo, mentre la scelta di ascoltare una musica più felice si manifesta poco dopo aver vissuto un’esperienza avversa, al fine di migliorare il proprio stato d’animo. Questi risultati spiegherebbero perché le persone ascoltano una musica triste quando sono tristi, appunto per “risolvere” il loro stato emotivo e, come ulteriore prova a favore di tale teoria, le persone riferiscono di sentirsi meglio dopo l’ascolto.

È interessante notare che, sebbene ascoltare una musica triste come strategia di distrazione sia correlato con un aumento dell’umore, l’ascolto continuo di questo tipo di musica per distogliere l’attenzione dalle esperienze negative può rappresentare una strategia di coping (Miranda & Claes, 2009; Garrido & Schubert, 2011) o una strategia psicologica disfunzionale (Hutchinson, Baldwin & Oh, 2006).

Musica e musicoterapia: le prospettive

Dai risultati emergenti dalle ultime ricerche sull’ascolto della musica triste in situazioni avverse, emerge come l’ascolto di musica triste intensifichi i sentimenti di tristezza per la maggior parte della persone, ma anche come siano le persone stesse a ricercare questo tipo di sensazione, con il fine di sentirsi in contatto con le proprie emozioni. La musica assolverebbe in questo caso una funzione “catartica”, come se le persone volessero vivere in maniera ancora più profonda la loro tristezza, per poi sentirsi sollevati e poter “riemergere” dal proprio stato d’animo negativo.

Sarebbe interessante prendere in considerazione, nelle future ricerche, quali e in che modo le caratteristiche individuali (ad esempio tratti della personalità vs aspetti culturali) possano portare le persone a preferire l’ascolto di un certo tipo di musica. Ad esempio, come dimostrato da Garrido e coll. 2013), alcune persone provano emozioni positive quando ascoltano brani tristi rispetto ad altre persone, e questo potrebbe enfatizzare la variabilità individuale che si esplica nel provare emozioni diverse di fronte ad uno stesso stimolo.

Dai risultati riportati si potrebbe pensare, quindi, che la musicoterapia potrebbe essere un valido strumento di sostegno e supporto per coloro che vivono esperienze emotivamente negative, seppur transitorie.

Viene da chiederci se questi risultati possono essere estesi a persone che presentano una sintomatologia più severa: la musica, sia essa triste o felice, può fungere come uno strumento da integrare nel trattamento psicoterapeutico di diversi disturbi di entità più severa?

Alcune recenti ricerche sulla combinazione di musicoterapia e psicoterapia forniscono risultati promettenti. Ad esempio, risultati emersi da una meta analisi, che includeva studi su pazienti affetti da depressione, hanno evidenziato come la associazione tra musica e psicoterapia ha prodotto un aumento del tono dell’umore maggiore a quello prodotto dalla terapia standard (Maratos e coll., 2009). Aspetto molto interessante è che la musicoterapia nel trattamento dei sintomi depressivi si sia rivelata efficace non solo negli adulti, ma anche nei bambini e negli adolescenti (Sam Porter e coll., 2016).

Ulteriori ricerche hanno messo in luce il ruolo della musicoterapia nell’ambito delle cure palliative: in uno studio condotto su malati terminali (Nakayama H. et al., 2009), si è registrata una diminuzione dei punteggi dell’ansia e della depressione già dopo la prima sessione di musicoterapia, mentre i punteggi per l’eccitazione tendevano ad aumentare, a favore di un miglioramento della qualità della vita dei pazienti.

Nonostante l’interesse crescente verso gli effetti che la musica può avere sul migliorare lo stato di salute psicologica, sarebbe opportuno ampliare la letteratura scientifica a riguardo, nel tentativo di comprendere se tali effetti positivi, in particolare l’aumento del tono dell’umore, siano riscontrabili anche a lungo termine. Sarebbe inoltre interessante identificare ulteriori ambiti applicativi in cui la musicoterapia, in associazione con la psicoterapia, possa mostrare effetti positivi per il trattamento di altri disturbi, e poter differenziare, a sua volta, le differenti forme di musicoterapia a favore di un approccio personalizzato e basato sulle esigenze del singolo individuo.

Alla scoperta della Terapia Metacognitiva Interpersonale – Intervista a Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo

La Terapia Metacognitiva Interpersonale, ci raccontano Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo, è un approccio che vede un importante coinvolgimento della componente esperienziale al fine di favorire il processo terapeutico di cambiamento verso l’esplorazione di nuovi schemi interpersonali.

 

Facilitare il riconoscimento e la descrizione degli stati mentali e utilizzare tali informazioni per ridurre la sofferenza emotiva e coltivare relazioni adeguate con le altre persone. Il tutto attraverso una costante attenzione alla dimensione interpersonale e all’alleanza terapeutica, regolando l’intervento sul livello metacognitivo del paziente.

Queste sono alcune delle caratteristiche distintive della Terapia Metacognitiva Interpersonale, di cui abbiamo parlato con Raffaele Popolo e Giancarlo Dimaggio, psichiatri psicoterapeuti e co-fondatori del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma in occasione del workshop pre-congressuale SITCC dello scorso settembre.

 Durante l’intervista Dimaggio e Popolo ci hanno guidato attraverso la scoperta della TMI, il cui target terapeutico è rappresentato dagli Schemi Interpersonali, ovvero le strutture attraverso le quali le persone si orientano nelle relazioni quotidiane, formando previsioni sul destino dei propri scopi e desideri:

La persona che ho davanti mi confermerà  di essere una persona di valore, oppure reagirà come un giudice severo e critico convalidando ciò che in fondo temo, ovvero di non valere nulla?

La Terapia Metacognitiva Interpersonale, ci raccontano Dimaggio e Popolo, anticipando alcune tematiche del nuovo libro in uscita a marzo del prossimo anno, è un approccio che vede un importante coinvolgimento della componente esperienziale, includendo tecniche non solo cognitive, ma anche corporee, meditative e immaginative, al fine di favorire il processo terapeutico di cambiamento verso l’esplorazione di nuovi schemi.

L’obiettivo della TMI è quello di accompagnare il paziente verso la promozione di una dimensione di creatività, innovazione, di esplorazione e autonomia, attraverso l’ampliamento del proprio repertorio metacognitivo e relazionale, verso la valorizzazione delle parti sane di sé.

In tale ottica si inserisce coerentemente il nuovo protocollo di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Gruppo (TMI-G), tematica del workshop precongressuale veronese. Il setting gruppale, ci spiegano Popolo e Dimaggio, rappresenta un contesto prezioso dove trasmettere e condividere la conoscenza dei sistemi motivazionali interpersonali, recuperarli all’interno della propria esperienza attraverso la narrazione di episodi narrativi autobiografici, ri-sperimentarli attraverso tecniche immaginative, esperienziali e role playing, con il fine di comprendere gli schemi, accelerare l’apprendimento di nuove strategie e ampliare la lettura degli stati mentali attraverso l’allenamento “in vivo” delle funzioni metacognitive.

Le prime applicazioni del protocollo su gruppi di pazienti con disturbi di personalità di area inibito-coartata, al vaglio degli studi di efficacia, hanno mostrato risultati decisamente interessanti, che aprono a sperimentazioni promettenti, sia in Italia che all’estero, anche su popolazioni di pazienti diversi, compresi quelli caratterizzati da disregolazione emotiva.

Nella parte conclusiva dell’intervista, infine, un auspicio, ovvero quello che il cognitivismo italiano possa essere un terreno fertile di dialogo aperto, che possa coniugare il valore dell’aspetto relazionale del lavoro tra terapeuta e paziente, con l’altrettanto importante applicazione delle numerose tecniche (cognitive, meditative, di allocazione dell’attenzione, comportamentali, immaginative, sensomotorie ecc.) che ad oggi caratterizzano e arricchiscono i diversi approcci e interventi di matrice cognitiva.

 

TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE – L’INTERVISTA A GIANCARLO DIMAGGIO E RAFFAELE POPOLO:

Stigma e disfunzioni cognitive in pazienti con HIV: quale relazione?

Lo stigma sociale sembra compromettere alcune capacità cognitive, quali memoria e attenzione, in un gruppo di uomini anziani che convivono da anni con il virus dell’ HIV.

Adriano Mauro Ellena

 

A più di 30 anni dalle prime diagnosi di AIDS e dalla scoperta del coinvolgimento del virus dell’ HIV, molti passi in avanti sono stati fatti, non solo da un punto di vista medico ma anche da un punto di vista sociale. Ciononostante, lo stigma e la discriminazione nei confronti di persone infette dal virus dell’ HIV è ancora ben presente in molte realtà.

Le conseguenze dello stigma sociale sulle capacità cognitive: lo studio della McGill University

Un recente studio, effettuato da ricercatori del Montreal Neurological Institute, della McGill University e del McGill University Health Center, ha evidenziato quanto lo stigma sociale possa compromettere alcune capacità cognitive (quali memoria ed attenzione) in un gruppo di uomini anziani che convivono ormai da anni con il virus dell’ HIV.

Lo studio è stato effettuato testando 512 uomini caucasici anziani infetti da HIV. A questi partecipanti è stato chiesto di rispondere ad un questionario concernente la percezione e consapevolezza dello stigma esperito. Queste risposte sono state correlate, successivamente, con gli esiti di alcuni test cognitivi e psicologici.

I risultati hanno evidenziato quanto effettivamente ci fosse un collegamento forte tra lo stigma esperito e gli esiti dei test cognitivi: maggiore era lo stigma percepito, minore era la performance nei test cognitivi. Questa compromissione sembra portare la persona oggetto di discriminazione ad una riduzione della partecipazione sociale e ad una compromissione di alcune funzionalità fondamentali per l’autonomia nella vita di tutti i giorni.

Correlazioni significative sono state trovate anche tra lo stigma e l’ansia, più debole invece è la correlazione esistente con la depressione.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO:

Non è ancora chiaro come lo stigma possa influenzare alcuni aspetti cognitivi, sicuramente si può ipotizzare che siano coinvolti costrutti quali l’impatto dello stress cronico subìto sul cervello ed alcuni effetti psicologici quali l’interiorizzazione di credenze negative sul sé.

Questo studio è il primo di questo genere ma può contribuire ad implementare nuovi metodi terapeutici per il trattamento delle disfunzioni cognitive in alcuni pazienti affetti da HIV. Inoltre, sottolinea l’importanza del contesto sociale e degli interventi comunitari ed istituzionali per ridurre stigma e discriminazione.

La correlazione tra perfezionismo e bulimia nervosa

La bulimia nervosa è un disturbo alimentare purtroppo molto comune e anche molto pericoloso per la vita di chi ne soffre.

 

Secondo il DSM 5, la bulimia nervosa è caratterizzata da ricorrenti episodi di abbuffata, durante i quali la persona mangia grosse quantità di cibo in un periodo di tempo ristretto e sperimenta una sensazione di perdita di controllo, e da ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie eliminatorie, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o attività fisica eccessiva.

Di solito le persone che soffrono di bulimia sono prevalentemente donne; secondo alcune ricerche canadesi, oltre 275.000 ragazze e donne soffrono di bulimia nervosa ad un certo punto della loro vita. È stato inoltre stimato che l’incidenza di morte per chi soffre di questo disturbo è del 2% ogni 10 anni e circa un quinto di queste morti sarebbero dovute a suicidio.

Andare ad indagare i diversi fattori che portano alla bulimia nervosa è dunque molto importante, nonostante le cause di questo disturbo siano ancora in gran parte sconosciute.

Bulimia nervosa e perfezionismo, quale relazione? Ce lo spiega un nuovo studio

Il Professor Sherry della Dalhousie University, docente di psicologia e neuroscienze, ha indagato personalmente i tratti caratteristici di questo disturbo alimentare ed ha anche valutato e trattato i problemi associati alla bulimia nervosa, ponendo particolare attenzione alla tendenza al perfezionismo spesso riscontrata in queste pazienti.

In un recente studio, condotto in laboratorio, ha indagato il rapporto esistente tra il tratto di personalità del perfezionismo e la bulimia nervosa.

Il perfezionismo comporta uno sforzo incessante per raggiungere e mantenere risultati irragionevoli e impeccabili, riguardanti sé e gli altri e ben al di sopra delle proprie possibilità. I perfezionisti sono raramente soddisfatti delle loro prestazioni e si sottopongono ad una severa autocritica quando con i loro sforzi non riescono a raggiungere la perfezione.

Il perfezionismo è inoltre legato a numerosi problemi nelle relazioni e a sentimenti di tristezza; di fatto i perfezionisti, molto spesso, rivolgono la loro attenzione al cibo per sopperire alla tristezza, causata dalla mancanza di rapporti soddisfacenti con le altre persone.

I sintomi della bulimia nervosa, ad esempio le abbuffate, sembrano offrire ai perfezionisti un perfetto nascondiglio dalla pressione e dall’autocritica.

Lo studio ha comportato lo svolgimento di una meta-analisi che ha raccolto 12 studi longitudinali comprendenti 4.665 partecipanti. Il campione era composto principalmente da donne (86.8%); l’età media dei partecipanti era pari a 19 anni, ma erano incluse nel campione anche adolescenti, laureandi e adulti appartenenti alla comunità.

Risultati e Conclusioni

I risultati hanno messo in evidenza come il perfezionismo rivesta un ruolo centrale nella personalità delle persone affette da bulimia nervosa. Inoltre è stato possibile dimostrare chiaramente che persone perfezioniste tendono ad avere maggiore probabilità di sviluppare il disturbo di bulimia nervosa e che tale rischio aumenta con il passare del tempo.

Proprio per questo motivo è importante intervenire nel trattamento del disturbo il prima possibile; inoltre la bulimia nervosa sembra prolungarsi oltre 8 anni dall’esordio del disturbo prima che i sintomi scompaiano, e circa il 25% delle persone in questa condizione sviluppano sintomi cronici, difficili da trattare, e spesso anche problemi secondari come carie dentarie e depressione.

Ricerche precedenti hanno dimostrato come la pressione da parte della famiglia, degli amici e dei media possono contribuire allo sviluppo della malattia, promuovendo sempre di più il desiderio di raggiungere il peso e la forma “ideali”. Nella società di oggi i genitori sembrano sempre più competitivi, controllano in tutto e per tutto i figli, concentrandosi principalmente sulle vittorie e le prestazioni. Queste sono le condizioni in cui è più probabile che si sviluppi il perfezionismo, perciò con il passare del tempo potremmo assistere sempre di più a casi di bulimia nevosa legata al perfezionismo.

Maltrattamento e genitorialità in ottica transgenerazionale

Per affrontare il tema dei genitori abusanti prima di tutto può essere importante definire il concetto di genitorialità.

Laura Bernardi – Open School Studi Cognitivi Modena

La genitorialità è una funzione che ha il precipuo obiettivo di garantire il mantenimento della specie. Da un punto di vista psicologico, essa si attiva ed evolve come funzione relazionale autonoma basata su rappresentazioni arcaiche interattive dei genitori evocate nell’hic et nunc della relazione con un determinato bambino, che con il proprio personalissimo bagaglio, le riattiva in maniera diversa e modulata, in situazioni e tempi successivi della vita (Lebovici, 1983).

Genitorialità: una funzione molto complessa

Da un punto di vista generale, la genitorialità è anche una funzione processuale dell’essere umano che si sviluppa indipendentemente dall’essere genitore. Il desiderio di “prendersi cura di” qualcun altro è un desiderio che si manifesta precocemente e che trova espressioni diverse a seconda delle modalità immaginative e rappresentative che sono a disposizione dell’individuo nei vari momenti dello sviluppo. Negli anni il bambino svilupperà tale funzione progressivamente, giocandola su un piano fantasmatico e concreto, tramite continue identificazioni con gli adulti di riferimento e con il gruppo dei pari (Fava Viziello, 2003).

I numerosi significati collegati alla genitorialità sono imprescindibili dalla comprensione di alcuni aspetti dello sviluppo, delle capacità relazionali e dell’adattamento sano o psicopatologico dell’individuo al proprio ambiente (Simonelli, Zancato & Calvo, 2000).

Essa viene di norma identificata nell’abilità di riconoscere (con o senza una chiara consapevolezza) i bisogni del bambino:

  • a) per il suo benessere fisico,
  • b) per il suo nutrimento,
  • c) per curare l’opportunità di relazionarsi con gli altri,
  • d) per garantire la crescita fisica e l’esercizio di funzioni mentali e fisiche,
  • e) per offrire l’aiuto nel relazionarsi con l’ambiente (cfr. Satir V. et al.,1991: The Satir Model).

L’incapacità di svolgere in maniera adeguata la funzione genitoriale non è semplicemente legata ad una scarsa competenza pedagogica, ma chiama in causa -secondo Vadilonga (1996)- l’identità personale, la qualità e l’intensità delle relazioni emotive con le persone significative della famiglia nucleare e di quella estesa, l’investimento affettivo rivolto ai bambini che sarebbe controllato dai sentimenti attivati nelle relazione tra adulti. Si può affermare che la maggior parte dei disturbi psicopatologici che si manifestano nell’adolescenza prima, e nell’età adulta dopo, sono strettamente correlati all’esistenza, fin dai primi anni di vita, di una situazione di disagio personale e relazionale dei genitori che investe il legame di coppia, e ricade inevitabilmente sulla relazione col bambino (Selvini Palazzoli et al.,1988; Cambiaso et al.,1992,1993).

La “vulnerabilità” e la “resilienza” delle capacità genitoriali sono due concetti determinati da una moltitudine di fattori interagenti che spesso è difficilissimo isolare e studiare. In un groviglio di interazioni a catena e di circoli viziosi o benigni che portano alla psicopatologia o alla “normalità” sembra che la funzione genitoriale sia quella con il maggior peso sullo sviluppo, più di ogni altra. Avere una personalità con un Sé resistente alle difficoltà e alle avversità che non ceda allo stress o all’angoscia in maniera eccessiva è una cosa che “si trasmette” ai figli attraverso la costruzione di una base sicura sulla quale si può immaginare, sognare, allontanarsi e ritornare (Bowlby, 1980; Alvarez, 1992;).

Maltrattamento e genitorialità

La trascuratezza da parte dei genitori pertanto, non è una generica incapacità genitoriale ma è strettamente connessa alle relazioni tra i genitori-partner e di ciascuno di essi con la propria famiglia d’origine (Malacrea, Vassali, 1990). A questo proposito Malagoli Togliatti e Tofani (1987), individuano nella famiglia multiproblematica (definita da Mazer come un gruppo famigliare composto da due o più persone in cui il 50% dei membri ha sperimentato, in un arco di tempo indicato – dai 3 ai 5 anni- problemi di pertinenza di un servizio sociale e/o socio-sanitario o legale problematiche di tipo psichiatrico, educativo, coniugale, socio-legali), un’intricata rete di variabili che, partendo da un’analisi della coppia a partire dal presente della loro stessa generazione, considera: le modalità socio culturali, economiche ma anche psicologiche cognitive ed affettive, di formazione della coppia; il cambiamento complesso ed impegnativo innescato dalla presenza dei figli: la diade non è più tale e risulta fisiologico un adattamento della stessa, ma anche dell’identità dei coniugi col ruolo di genitori, padre e madre, tutto ciò nell’ottica di apertura verso i ritmi e la personalità del figlio. A seconda del rispetto dell’identità dei ruoli e dei compiti parentali va a strutturarsi un sistema famigliare più o meno funzionale.

I genitori maltrattanti generalmente, sono anche coniugi insoddisfatti con il partner, anche se non necessariamente conflittuali. Hanno insicurezze di fondo, ansie di abbandono, di perdita, di separazione, esperienze traumatiche, bisogni insoddisfatti non riconosciuti che non hanno ricevuto compensazione con altre persone in fasi seguenti del ciclo di vita. Per questo motivo, per comprendere il maltrattamento, bisogna riflettere su tre generazioni: gli studi sull’attaccamento confermano il fatto che l’attaccamento e la violenza si trasmettono da una generazione all’altra attraverso relazioni; Framo (1996) ha scritto che diciamo al partner e ai figli quello che non siamo mai riusciti a dire ai nostri genitori (Masè, 2002)

I processi che sfociano nella trascuratezza e nel maltrattamento sembrano, al pari di quanto osservato per la schizofrenia, evolvere su un arco di tre generazioni; con la differenza, come notano Cirillo e Cipolloni (1994) che in queste famiglie i membri problematici sono più di uno, distribuiti sull’asse trigenerazionale e portatori di diverse tipologie di disagio psicosociale. Bowlby (1988) sostiene a proposito dello sguardo generazionale al maltrattamento, che i genitori trascuranti, maltrattanti o abusanti, sono stati spesso a loro volta esposti a tali esperienze che interiorizzate vengono riprodotte nella generazione successiva; questo fenomeno è descritto in letteratura con il termine “ciclo ripetitivo dell’abuso”. Da questi vissuti ne scaturisce un’insicurezza di fondo nelle relazioni affettive, che vengono vissute con timore di perdita, di abbandono, di separazione.

Anche secondo Stratton, Hanks (1994) raramente l’abuso si presenta come modalità “nuova e sconosciuta” causa di fattori elicitanti quali stress, condizioni socio economiche, malattia ecc., spesso l’abuso è pratica consolidata nella storia della famiglia parentale ed i genitori stessi sono stati vittime di abuso. Tali considerazioni sono frutto delle osservazione trasgenerazionali, tuttavia è importante tenere presente che tra il maltrattamento attuato dai genitori e il danno psichico nel figlio esiste sì un rapporto di forte probabilità ma non di determinismo in quanto possono intervenire nella loro relazione sia elementi protettivi sia fattori di rischio (Di Blasio,2000).

Questa analisi permette l’accenno alle modalità di “doppio legame (Bateson,1976) che si instaurano in queste famiglie spesso con problematiche anche nella comunicazione; Andreoli (2004), osserva che troppo spesso i bambini finiscono per diventare gli ammortizzatori di un dissidio relazionale nei confronti del partner, dei famigliari, dei colleghi di lavoro, ecc. L’educatore ha un problema che fatica a chiarire dentro di sé o che rifiuta di affrontare: “fortunatamente” c’è a disposizione un bambino su cui spostare l’attenzione, su cui concentrare i propri sforzi. A volte questa mancanza di chiarezza di fondo in se stessi, una situazione di coppia intimamente lacerata, un disagio generico nelle relazioni che incida sulla sfera personale dell’individuo senza possibilità di elaborazione ed aiuto psicologico, può far nascere modalità disfunzionali di comunicazione tra genitori e figli, richieste, ammonimenti, osservazioni “paradossali”. Naturalmente in questo caso il potenziale di conflitto che si innesca nel rapporto è molto alto e ciò può interferire negativamente con la crescita figlio, anche perché il bambino è un recettore sensibile, una vera e propria carta assorbente di tutte le tensioni, particolarmente nei linguaggi non verbali.

L’interprete: come il cervello decodifica il mondo (2011) di Michael Gazzaniga- Recensione del libro

Il libro L’interprete. Come il cervello decodifica il mondo di Michael Gazzaniga edito da Di Renzo Editore è un titolo accattivante che potrebbe essere fuorviante per chi non conoscesse l’autore e i suoi studi.

 

Michael Gazzaniga è un neuroscienziato americano di origini italiane (come si diletta a dichiarare nel libro) e fin dall’inizio della sua carriera scientifica ha basato i suoi studi sul cervello, in particolare gli effetti dello split brain (recisione del corpo calloso) sugli emisferi destro e sinistro. Attualmente è direttore del Sage Center , un centro istituito per lo studio della mente presso l’Università della California di Santa Barbara.

Come dichiara l’autore nel libro L’interprete. Come il cervello decodifica il mondo, l’obiettivo del centro di ricerca è quello di agire da catalizzatore negli studi interdisciplinari sulla relazione tra mente e cervello e sviluppare metodi innovativi in grado di risolvere o chiarire questioni ancora aperte servendosi delle neuroscienze cognitive, che Gazzaniga definisce come:

il metodo mediante il quale speriamo di poter costruire un qualche tipo di ponte in grado di collegare gli aspetti neurofisiologici delle funzioni cerebrali con lo sviluppo dei concetti astratti.

Il riferimento a questo obiettivo è presente durante tutta la lettura del libro e viene affiancato da una costante ispirazionale che ha caratterizzato gli studi scientifici dell’autore: la teoria della selezione naturale. Con tale teoria, l’autore fornisce un fondamento alle sue argomentazioni e, con semplicità, sfata alcuni miti ancora attuali.

Le citazioni che Gazzaniga fa spesso ai suoi lavori, seppur un accettabile invito a conoscerli meglio, rendono, a volte, difficoltoso al lettore coglierne il collegamento. È proprio tra racconti personali e autocitazioni che si entra nel vivo di argomentazioni più scientifiche in merito alla specificità del corpo calloso, alle conseguenze della sua recisione e a come i due emisferi, ognuno con specifiche funzionalità, possano sviluppare competenze che appartengono alla controparte seppur legate a un dogma di complementarietà tra loro, ne è un esempio questo passaggio del libro:

Anatomicamente, l’emisfero destro è quasi del tutto privo di linguaggio. Eppure, a volte, a seguito di un incidente che compromette la funzionalità della parte sinistra del cervello, la natura sviluppa competenze linguistiche anche nell’emisfero destro. […] L’emisfero destro non migliora molto le sue prestazioni linguistiche, anche se chiamato a farlo. Ciò suggerisce che l’emisfero sinistro è l’unico vero responsabile della conoscenza superiore. È lui che svolge il compito maggiore, laddove il destro si limita a catalogare i risultati inviategli dalla sua controparte attraverso nuovi attributi linguistici.

Travolti dalla capacità narrativa dell’autore ci si imbatte sul ribaltamento delle credenze popolari sugli emisferi che, ancora oggi, vengono imposti come veri e propri dogmi scientifici.

Così l’autore si diletta a destrutturare queste argomentazioni e, finalmente, a condurre il lettore alla rivelazione della funzione dell’emisfero sinistro come “interprete”, definito così sulla base del suo tentativo di descrivere in che modo tale emisfero reagisca al comportamento dell’emisfero destro.

Infine, non meno importante e scontato è il tema della coscienza, definita all’inizio del capitolo come “il sentimento che si ha di un processo cognitivo specializzato”. Proseguendo nella lettura, la coscienza viene legata alla nozione di interprete, giungendo anche questa volta a sfatare alcuni miti e lasciare il lettore meravigliato “dalla sensazione di essere artefici del proprio destino”.

Il libro L’interprete. Come il cervello decodifica il mondo di Gazzaniga è, dunque, un intreccio tra autobiografia e una viva discussione dei principali dogmi che hanno guidato fino a pochi anni fa la ricerca scientifica sul cervello, riuscendo così a raccontarci il cervello attraverso i ruoli dei due emisferi senza cadere in noiosi tecnicismi che potrebbero annoiare un lettore non avvezzo alla materia.

La perdita peri e post natale – Report dal convegno di Palermo del 30 novembre

La perdita di un figlio rappresenta sicuramente per la coppia un momento di profondo dolore emotivo che necessita di sostegno psicologico e raccordo tra gli operatori del settore medico, psicologico, infermieristico, anche in previsione di gravidanze future e per la salvaguardia del benessere sessuale e relazionale della coppia.

 

Questo il messaggio forte trasmesso a Palermo in occasione dell’evento formativo dal titolo La perdita peri e post natale: dialogo tra i sistemi coinvolti svoltosi lo scorso 30 Novembre presso la sontuosa sede dell’Hotel Best Western ai Cavalieri.

Perdita peri e post natale: la coppia genitoriale di fronte al lutto

Perdere un figlio rappresenta per la coppia perdere la sopravvivenza stessa, una minaccia effettiva – commenta Enrico Cazzaniga, psicologo psicoterapeuta – Si tratta di sperimentare una solitudine irriducibile, per affrontare la quale la coppia necessita di supporto, prendendosi cura del lutto stesso e resistendo alla seduzione del dolore, che prende il posto di chi non c’è più. Ecco perché il fine del supporto psicologico è l’integrazione della perdita e l’instaurarsi della nostalgia, quale sentimento doloroso tollerabile, relativo al ricordo di chi non c’è più.

Perdita peri e post natale - Report dal convegno di Palermo foto 1Imm. 1 – L’INTERVENTO DI ENRICO CAZZANIGA

La perdita che può ora derivare da un aborto ora dalla scelta dibattuta della riduzione selettiva, con tutti i sensi di inadeguatezza, colpa e disagio che questa comporta.

Ridurre volontariamente la vita di uno di due gemelli, per complicanze gravi in caso di mancato intervento, è senz’altro una scelta complessa, se di scelta si può parlare nel caso di morte di un figlio, percepita come un atto di distruzione causato dallo stesso genitore, con vissuti di colpa, devastanti e invalidanti – apre la sua toccante relazione la Dottoressa Messina, psicologa psicoterapeuta – In tal caso il sostegno psicologico consisterà nell’informare i genitori sul percorso medico da seguire, sostenendoli durante e dopo l’intervento di riduzione, utilizzando un linguaggio semplice e comprensibile.

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Perdita peri e post natale: un evento da gestire in equipe

La perdita, quindi, come evento di difficile gestione, che richiede un lavoro di rete che interessa tutta l’equipe medica, lo psicologo e i sanitari che ruotano intorno alla coppia.

Il momento successivo alla perdita è estremamente delicato e richiede l’intervento tempestivo dello psicologo e dell’anatomo patologo, in un rapporto di strettissima collaborazione – continuano Gabriella Ottoveggio, anatomo-patologa specialista nel campo delle patologie feto-placentari e Messina – Il primo step successivo alla perdita è capire cosa può essere successo; attraverso il supporto del medico e dello psicologo la coppia si sentirà aiutata e riuscirà ad elaborare l’evento perdita anche in vista di gravidanze future. L’anatomopatologo, dal canto suo, sosterrà la coppia verso l’approfondimento delle cause della perdita fetale e degli esami medici necessari, proponendo un piano operativo, in stretto raccordo con infermieri e psicologi.

Umanizzazione dei percorsi assistenziali, collaborazione tra diverse specializzazioni, dialogo intersistemico, coinvolgimento attivo della coppia e gestione della crisi: un’ottica collaborativa attraverso cui guardare alla perdita come un evento, seppur critico, da accettare nel suo accadere e a partire dal quale attivare quella resilienza necessaria per proseguire il più serenamente nella direzione di genitori e coppia, sostenuti da una reta di professionisti, insieme empaticamente coinvolti dagli effetti di quel dolore muto che costituisce ogni trauma.

Tecnologia digitale: i rischi per la nostra società

Il digitale è attualmente cruciale per il funzionamento della società ma la vera rivoluzione è lungi dall’esser conclusa, in quanto, mentre la tecnologia avanza in un modo sempre più sofisticato e pervasivo, la società deve ancora comprendere i suoi effetti inaspettati, siano essi positivi o negativi

 

Un articolo di Makin, recentemente pubblicato su Nature Outlook, offre uno spunto per una riflessione. Viviamo nell’era dell’iperconnessione, in contatto con tutti e in qualunque momento tramite internet e piattaforme social, anche quando siamo seduti a tavola con altri e dovremmo condividere con loro un momento conviviale; non stacchiamo quasi mai le mani e purtroppo neanche la mente, dal nostro smartphone.

Secondo i dati riportati da Ofcome, l’organo preposto alla regolazione quotidiana delle telecomunicazioni in Gran Bretagna, circa il 78% della popolazione, di cui la grande fetta appartenente alla fascia 16-24 anni, non solo possiede uno smartphone ma in media vi accede circa ogni 12 minuti, mentre un adulto su cinque spende più di 40 ore ogni settimana online.

Questi dati ci impongono una riflessione: stiamo diventando dipendenti o nell’ultima decade stiamo assistendo a cambiamenti così repentini nel nostro modo di interagire, comunicare o pensare?

Tecnologia digitale per bambini e adolescenti

Quando si riflette su questi temi, fondamentalmente si finisce a percorrere due strade: una per la quale viviamo in una società in cui l’attività umana soprattutto di tipo relazionale è stata quasi del tutto sostituita e delegata ai social network; questi ultimi hanno sostituito l’interazione vis-a-vis e hanno modificato la comunicazione interpersonale, rendendoci meno empatici e più critici. Una società in cui l’utilizzo massiccio di tablet, smartphone o videogame sta lentamente depauperando le nostre capacità cognitive, soprattutto attentive e mnestiche.

L’altra strada, al contrario, cerca di riflettere in modo più sistematico e “scientifico” sull’impatto che la tecnologia digitale sta avendo sulla nostra mente e sulla salute mentale per comprendere al meglio le conseguenze del vivere in un mondo digitale (Makin, 2018).

La tecnologia digitale viene accusata di numerosi effetti dannosi, da problemi di salute mentale ad un impoverimento delle capacità cognitive, in particolare in determinate fasce di età di sviluppo più vulnerabili sia in infanzia che in adolescenza.  Ad esempio Naomi Baron, dell’American University, Washington DC, ritiene che i costi relativi all’utilizzo di apparecchi digitali nella lettura, soprattutto per i ragazzi, riguardino non tanto la lettura come abilità ma la modalità attraverso la quale essi si approcciano alla lettura (Makin, 2018).

Coloro che si ingaggiano nella lettura di materiale cartaceo sembrano essere più abili e maggiormente coinvolti quando sono chiamati successivamente a riportare alla mente specifici dettagli relativi a ciò che hanno letto e nel ricostruire la trama, rispetto a coloro che, al contrario, leggono lo stesso testo ma su dispositivi elettronici e questo perché, in essi, le risorse impiegate per la concentrazione tendono a disperdersi più rapidamente rendendo la lettura più superficiale e veloce.

A parere della ricercatrice, l’attenzione passerebbe rapidamente da una riga ad un’altra diversamente dal testo stampato.

Tecnologia digitale e multitasking

Il fatto che le tecnologie digitali incoraggino l’esecuzione di abilità multitasking ha inoltre fatto pensare ad effetti negativi sull’attenzione; in particolare lo studio di Ophir, Nass e colleghi (2009) ha mostrato come coloro che mettevano in campo diverse abilità contemporaneamente in un compito cognitivo fossero meno abili a filtrare le distrazioni e risultavano quindi i peggiori nei task attentivi.

In aggiunta a questo impoverimento delle abilità di focalizzazione e shift dell’attenzione in specifici task, uno studio di Rosen e colleghi (2014) ha sottolineato il significativo stress a cui ci sottopongono questi device: un gruppo di studenti a cui veniva chiesto di lasciare i loro smartphone per almeno un’ora, riportavano livelli di ansia proporzionali alla quantità di tempo in cui si separavano dal cellulare, livelli così alti che Larry Rosen, psicologo alla California State University, ha parlato di “vibrazione fantasma della tasca” un fenomeno simil allucinatorio per cui i ragazzi avvertivano erroneamente l’arrivo di notifiche dal loro smartphone.

Tecnologia digitale e memoria

Anche la memoria è stata oggetto di numerosi dibattiti e controversie soprattutto riguardo al cosiddetto Google effect, l’idea che le persone siano meno inclini a richiamare alla mente informazioni che essi possono consultare o riprendere più tardi utilizzando il noto motore di ricerca e pertanto non si impegnano nella “ricerca mentale” (Makin, 2018).

Gli adolescenti sono comunemente considerati più a rischio di sviluppare problematiche psicologiche a seguito delle numerose ore trascorse su questi dispositivi tecnologici (Twenge, Joiner, Rogers & Martin, 2018).

Lo studio di Twenge e colleghi (2018) ha infatti sottolineato una discreta correlazione tra l’aumento di sintomi depressivi, comportamenti suicidari e quantità di tempo impiegata sui dispositivi.

Tuttavia la correlazione non è risultata significativa e, a parere degli autori, ciò sarebbe dovuto al fatto che negli adolescenti i comportamenti online e offline spesso non si possono scindere e che i ragazzi che nelle relazioni offline mostrano alcune difficoltà molto probabilmente le esibiranno anche in quelle online.

Pertanto, seguendo le evidenze in questo ambito, non è corretto affermare che la cosiddetta “realtà online” sia la causa scatenante del malessere psicologico degli adolescenti, semmai il rifugiarsi in essa potrebbe rappresentare per i ragazzi una modalità di coping per fronteggiare le loro preesistenti vulnerabilità in quanto, in esso, si utilizzano altre modalità di comunicazione e interazione.

Tecnologia digitale: i rischi dell’uso sono ancora molto sconosciuti

Prezioso il contributo di Przybylski & Weinstein, (2017), i quali hanno tentato con i loro numerosi studi di abbattere alcuni luoghi comuni di pensiero e credenze circa l’associazione negativa in adolescenza tra tempo speso su piattaforme online, videogiochi, TV, smartphone e salute mentale.

A loro parere infatti non è plausibile l’idea che il tempo impiegato davanti ad uno schermo, sia esso della televisione, dello smartphone per chattare o chiamare, sia il medesimo, cioè abbia le stesse caratteristiche per cui sia lecito metterlo a confronto. A parità di tempo speso su questi apparecchi elettronici, il suo significato e qualità cambia da apparecchio a apparecchio.

In aggiunta a ciò, i risultati del loro studio (Przybylski & Weinstein, 2017), hanno mostrato come l’andamento della salute mentale negli adolescenti subiva un netto peggioramento dopo circa 5 ore dall’utilizzo giornaliero di specifici device digitali, in particolare su computer e televisione, mentre un loro uso “moderato” è risultato essere associato ad uno stato di salute mentale più alto. Come dire, in medio stat virtus.

Da questa breve rassegna, per il momento, siamo solo in grado di incrementare la conoscenza circa gli effetti positivi e negativi relativi a questa società digitale, senza poter ancora stabilire con chiarezza la sua pericolosità.

Bambini ed emozioni: l’importanza di non sopprimere le emozioni in famiglia

Secondo una nuova ricerca, esprimere le emozioni “negative” in maniera sana di fronte ai bambini è meglio che sopprimerle. Chi di noi non ha mai sentito o pronunciato frasi del tipo “Non di fronte ai bambini”?

 

Proprio attraverso questa supplica secolare, i genitori sperano di nascondere conflitti o forti emozioni negative di fronte ai propri figli.

Bambini ed emozioni: la ricerca su come i genitori le gestiscono in famiglia

La nuova ricerca della Washington State University smentisce questo modus operandi ormai interiorizzato dalla maggioranza dei genitori. I ricercatori, al contrario, sostengono l’idea che esprimere le emozioni sia più benefico per l’interazione con i propri figli. Lo studio è stato condotto a San Francisco. Sono stati presi in considerazione 109 madri e padri, e i rispettivi figli. Il campione è stato suddiviso come segue: un gruppo era composto da sole madri e un altro dai padri. Lo scopo della suddivisione del campione era quello di indagare se vi fossero anche differenze di genere (Karnilowicz, Waters, & Mendes, 2018).

Prima di tutto, i ricercatori hanno assegnato ai genitori compiti stressanti come parlare in publico e ricevere feedback negativi dall’audience. Successivamente, i genitori sono stati coinvolti con i figli in attività di cooperazione, con l’indicazione di sopprimere le proprie emozioni di tanto in tanto. Al contrario, ai bambini era stata data l’istruzione di agire in maniera naturale. L’attività era uguale per tutti: lavorare insieme con i propri genitori nell’assemblaggio di un progetto Lego.

I bambini (di età compresa tra i 7-11 anni) hanno ricevuto un libretto d’istruzioni, ma non gli era permesso di toccare fisicamente i Lego. Erano i genitori a dover assemblare nella pratica il progetto, senza però guardare il libretto d’istruzioni. Questo aveva lo scopo di forzare genitori e bambini a lavorare in maniera stretta e compatta per il successo dell’attività. Uno degli elementi di interesse di questo studio era rivolto ai comportamenti di socializzazione.

Bambini ed emozioni: i risultati della ricerca

Pertanto, sono stati osservati: la reattività, il calore, la qualità delle interazioni e il modo in cui il genitore assumeva il ruolo di guida per il bambino. I ricercatori hanno poi guardato 109 video delle interazioni per rilevare ogni emozione, ogni istante di calore e di orientamento. Inoltre, entrambi genitori e figli, sono stati collegati a vari sensori per tenere sottocontrollo il battito cardiaco, i livelli di stress e altre variabili. E’ emerso che i genitori che tentavano di sopprimere il proprio stress sono risultati compagni meno efficaci e positivi durante il compito dei Lego. Infatti, essi fornivano meno indicazioni ai bambini; i bambini, a loro volta, erano meno reattivi e meno positivi verso i genitori. Era un pò come se i genitori stessero trasmettendo le loro emozioni soppresse ai figli (Karnilowicz, Waters, & Mendes, 2018).

Per quanto riguarda le differenze di genere, è interessante come (in questo studio) la soppressione emotiva ha reso i bambini più sensibili verso le madri. Infatti, i bambini hanno mostrato meno cambiamenti nelle risposte quando i padri nascondevano le emozioni negative. E’ chiaro che ci vorranno ulteriori ricerche per approfondire suddette differenze.

Per quanto riguarda i bambini e le emozioni, molte ricerche precedenti hanno dimostrato che i bambini sono molto abili nell’acquisire “informazioni emotive” dai loro genitori. Perciò, se il bambino sente che è successo qualcosa di negativo e in maniera incongrua, il genitore agisce come se non fosse successo nulla, il bambino si sentirà confuso. Così facendo, il genitore manderà un messaggio ambiguo al proprio figlio. Pertanto, i ricercatori sostengono che piuttosto che sopprimere le emozioni, la migliore scelta sarebbe mostrare ai propri figli l’intera traiettoria di una sana discussione, dal suo inizio alla sua risoluzione. E’ consigliabile, quindi, insegnare ai bambini a regolare le proprie emozioni e a risolvere i problemi, sottolineando che i problemi non sono da evitare ma, al contrario, si possono risolvere (Karnilowicz, Waters, & Mendes, 2018). E’ giusto far capire che le emozioni negative esistono, che è normale provarle e che possiamo trovare una soluzione per migliorare il nostro stato d’animo.

Il ruolo del padre nello sviluppo della depressione infantile

La depressione infantile viene di solito associata, sul piano clinico-terapeutico, esclusivamente alle dinamiche interne alla diade madre-bambino. In realtà, alla nascita, ogni individuo compie il passaggio da una relazione duale ad una triangolazione.

 

Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre. (Freud S., 1929)

Come afferma Green (1983):

Il destino della psiche umana è sempre quello di avere due oggetti e mai uno solo (…). Il padre è presente, contemporaneamente, presso la madre e presso il bambino, fin dall’inizio. Più esattamente fra la madre e il bambino (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Depressione infantile e triade

La funzione del padre è stata molto valorizzata dagli studi di Freud, in particolare nell’elaborazione del conflitto Edipico, nello sviluppo dell’identità sessuale, nello sviluppo del Super-Io e di un codice etico e morale (Baldoni, 2009). L’oggetto paterno si offre anche come “riparatore” dei danni che il bambino inferisce, alla madre o al padre, in fantasia (Funari, 1999).

Il ruolo della figura paterna nella fase pre-edipica è stato però per anni trascurato e lo studio dello sviluppo infantile si è più che altro focalizzato sull’interazione diadica (Baldoni, 2009). Il padre assume in realtà un ruolo importante nei primi anni di vita del bambino, però non tanto nel rapporto diretto con esso quanto più all’interno della triade (Baldoni, 2005).

Infatti, nella prima infanzia, il padre è innanzitutto un oggetto della madre che lo incorpora e lo simbolizza come pene nel ventre materno e, in tale fase, il padre deve tutelare la relazione madre-bambino, svolgendo la funzione di supporto e contenimento emotivo per la madre durante la gravidanza e il post-partum, assumendo quindi una funzione antidepressiva (Klein, 1932; Baldoni, 2005).

La madre reca in sé, la rappresentazione arcaica del proprio padre e del padre dei propri figli e quindi la funzione paterna è data dall’articolazione della mentalizzazione primaria della madre. È la ricerca del desiderio materno, dell’oggetto desiderato dalla madre che porta il bambino a ricercare il padre (Starace, 1999).

L’accesso al padre non è quindi diretto, anzi assume strade più tortuose e basate sulla percezione della “estraneità” e della “esternità”, a differenza invece della funzione materna che è riconoscibile e vivibile in modo immediato (Starace, 1999).

Depressione infantile e fallimento narcisistico

Il padre si pone, nello sviluppo infantile, come un secondo oggetto, come un oggetto d’amore da acquisire. La madre e il suo seno vengono vissuti dal bambino come appartenenti al Sé, mentre il padre, il secondo oggetto, si presenta come estraneo ed esterno al Sé. Infatti, all’interno delle prime organizzazioni fantasmatiche infantili, il padre viene vissuto come una minaccia per i vissuti di fusionalità con la madre ma il ruolo paterno è indispensabile per condurre il bambino verso l’accettazione della realtà e dell’esperienza di separazione e individuazione (Funari, 1999). Il padre, oltre a porsi come limite all’unità duale onnipotente tra madre e bambino, permette anche di rinforzare il Sé del bambino, sottraendolo dall’angoscia di simbiosi, cioè dall’angoscia di essere riassorbito dalla madre che si oppone all’individuazione (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Il padre, inoltre, partecipa attivamente ad un’importante funzione, l’holding, in cui insieme alla madre permette al bambino di delimitare e nominare le varie parti e funzioni del corpo, in modo da creare una rappresentazione mentale di esso (Di Benedetto, 1999).

È chiaro quindi come l’approccio teorico-clinico non può più basarsi solo sulla concezione della depressione in età evolutiva come una conseguenza del disagio libidico-emotivo tra madre e bambino, ma deve anche prendere in considerazione la possibilità che sia un insieme di dinamiche associate alla relazione triadica. La depressione allora non può essere considerata solo una reazione alla perdita dell’oggetto materno ma deve essere colta anche come segnale legato alla perdita, reale o fantasmatica, delle funzioni narcisistiche insiste nella relazione oggettuale triadica. Infatti, il narcisismo, oltre ad essere uno stadio dell’evoluzione della libido, risulta essere anche un modello di funzionamento psichico in cui l’acquisizione di ogni funzione o struttura, è legata non solo agli istinti ma anche alla relazione narcisistica tra il Sé e la persona adulta e la conseguente interiorizzazione di essa nel Sé. Relazione oggettuale e narcisismo non si escludono quindi a vicenda, anzi l’Io si sviluppa proprio attraverso le relazioni narcisistiche con gli oggetti, con i caregivers. La reale distinzione quindi non è tra narcisismo e relazione oggettuale, bensì tra narcisismo infantile e quello maturo. Infatti, solo se avviene un’evoluzione dal primo al secondo, sarà possibile la relazione con le persone come altri da sé (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

La depressione risulta quindi essere la risposta emotiva del figlio al fallimento narcisistico di uno o entrambi i genitori, inteso come perdita traumatica di una persona che dovrebbe assumere una funzione che la psiche del bambino non è in grado di svolgere da sé. Infatti, la depressione patologica si instaura nel momento in cui il bambino, se è ancora allo stadio del narcisismo infantile e quindi non ha potuto compiere il processo di interiorizzazione della funzione, interiorizza l’oggetto che ha perso e che però è indispensabile per il sé ancora immaturo (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Depressione infantile e coppia genitoriale

Il bambino, nella relazione con il padre, vive una forte idealizzazione che deriva dal bisogno narcisistico di sentirsi accolto e riconosciuto dal padre, dalla sua grandezza di adulto e proprio l’accettazione, da parte del padre, di tale funzione permette al figlio di sentirsi parte di tale ideale. Attraverso l’interiorizzazione e l’identificazione, il bambino può acquisire le strutture endopsichiche che gli consentono di svolgere autonomamente quelle funzioni. Quando però la relazione narcisistica è ostacolata da gravi problemi empatici, la funzione paterna si limita ad assumere il ruolo di un Super-Io normativo e castrante e la funzione materna invece diventa colpevolizzante e limitante. In questo modo i genitori non stimolano le capacità maturative del figlio e limitano il suo sviluppo. È giusto però sottolineare come la funzione idealizzante, tipicamente attribuita al padre, e la funzione speculare materna, siano in realtà funzioni interscambiabili e non rigidamente assegnate ad ognuno. Infatti, quando entrambi i genitori riescono a svolgere entrambe le funzioni in modo armonioso, rendono possibile uno sviluppo adeguato della relazione e quindi del figlio, come individuo a sé (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Il normale sviluppo del figlio è quindi garantito dall’affrontare, nella triangolazione, la nuova realtà che si viene a creare con l’individuazione del bambino e dall’accettazione, da parte della coppia genitoriale, della continua evoluzione del bambino, reinventando costantemente i ruoli e le reciproche relazioni del sistema triangolare (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Le radici della depressione si rintracciano quindi, non solo nella perdita dell’oggetto interno investito in modo ambivalente per cui il soggetto teme di averlo distrutto ma, anche nel passaggio dagli aspetti narcisistici a quelli oggettuali. In questo caso, la perdita non riguarda un oggetto ma il fallimento della funzione narcisistica dei genitori (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

È necessario allora, nel trattamento, concentrarsi non solo sul bambino e sulla diade madre-bambino ma includere anche il padre, agendo sulle dinamiche relazionali consce, preconsce e inconsce, sul rapporto genitori-figlio e tra i genitori. La centralità delle dinamiche relazionali profonde genitori-figlio, nei quadri depressivi in età evolutiva, non può non essere considerata ma, anzi deve porsi come elemento strutturante la psicoterapia (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia (2018) – Recensione del libro

Il testo Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia racconta la difficoltà di molte persone nel riconoscere le proprie emozioni e di come la terapia possa stimolare una curiosità aperta e onesta per quello che si sta provando verso una maggiore conoscenza di sé.

 

Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia è un testo di grande aiuto clinico, da un punto di vista pratico e teorico. Come l’autore Elliot L. Jurist sottolinea, nella psicoterapia moderna vi è un grandissimo interesse verso il mondo delle emozioni in riferimento sia all’identificazione quanto alla loro modificazione e regolazione. Tale attenzione è giustificata dal fatto che i pazienti che arrivano in terapia possono avere molti deficit in tal senso, soprattutto quella categoria di clienti che rientra nei disturbi di personalità. Ma non vogliamo ridurre solo a questo in quanto capita davvero a tutti, in alcune circostanze o momenti di vita, di non afferrare l’emozione che si prova o di non riuscire a gestirla in modo funzionale. Jurist ci tiene a sottolineare che anche i terapeuti non sono immuni dai problemi di identificazione emotiva.

La peculiarità del testo Tenere a mente le emozioni è che, oltre ad avere una narrazione tipicamente tecnica, unisce stralci di episodi clinici, riferimenti letterali e scientifici per chiarire le questioni di volta in volta sollevate. Merito a Jurist per aver reso, grazie a questo interessante intreccio, la lettura fluida e notevolmente scorrevole, senza risultare pesante neppure nei punti più teorici. Inoltre le citazioni ed i riferimenti bibliografici sono di grande interesse e, in base alle evidenze scientifiche che più sembrano essere utili al clinico che è vicino a questo tipo di argomentazioni.

Tenere a mente le emozioni significa: identificazione, modulazione ed espressione emotiva

Il testo è diviso in due macro parti, ognuno diviso in sottoparagrafi.

Nella prima parte si esamina la questione dell’identificare, modulare ed esprimere le emozioni. In particolare l’autore specifica la differenza tra “alessitimia” e quelle che lui stesso definisce come “emozioni aporetiche” per riferirsi alle emozioni poco chiare o confuse. Secondo Jurist per trascendere le emozioni aporetiche bisogna mentalizzarle: grazie all’interpretazione della realtà ed alla comprensione di sé e degli altri, cosa che dovrebbe sempre accadere nella stanze dei terapeuti impegnati nelle sedute, attraverso un esercizio continuo, attraverso l’analisi mentalistica degli episodi. È interessante sottolineare che per “affettività mentalizzata” (AM) si intende un processo attraverso il quale le emozioni sono filtrate dalla memoria autobiografica: il proprio passato e la propria identità influenzano le esperienze emotive attuali e tale influenza deve essere resa esplicita e mediata dalla relazione.

L’identificazione emotiva non è un processo lineare ed è condizionato da tanti fattori come la presenza dell’altro con cui siamo in reazione e, di conseguenza, anche con le sue emozioni e come queste ultime impattano. Il tempo e lo sforzo per identificare le emozioni sono, quindi, estremamente variabili. L’alessitimia implica la presenza di una difficoltà a riconoscere i propri sentimenti ma con il costrutto “emozioni aporetiche” si intende le emozioni vaghe, prive di una netta caratterizzazione, cosa che accade quando sappiamo di provare qualcosa ma non sappiamo cosa sia. Infatti “a=senza” e “poros= accesso”; questa etimologia indica la difficoltà nell’accedere ad un piano di conoscenza esplicito ma non una impossibilità a farlo. Sappiamo che è possibile allenare questa abilità e sviluppare un curioso interesse verso le proprie emozioni, consapevoli che di fronte ad ogni situazione, tutti provano qualcosa e tutti provano qualcosa rispetto a quello che si sente. In tal senso Greenberg (2015) ci dice molto sul ruolo delle emozioni secondarie che hanno il compito di camuffare le primarie. Tra i deficit dell’identificazione riscontriamo spesso un deficit di identificazione semantica, relativo al mancato processo di etichettamento, che può esplicitarsi attraverso una circonlocuzione, cioè l’uso di un giro di parole.

Perché è utile identificare le emozioni? La risposta è che sono utili in termini di sopravvivenza e rendono possibile l’auto-conoscenza in quanto “sapere ciò che si sente è parte della conoscenza di sé” ma non è necessariamente connessa al grado di soddisfazione della propria vita (Greenberg (2017): conoscere quello che proviamo non vuol dire essere più felici, ma capire come mai siamo infelici. L’obiettivo ultimo è sapere cosa si prova, perché facilita la comunicazione e l’eventuale condivisione con l’altro e questo è un dato da tenere ben presente all’interno della relazione terapeutica.

La modulazione emotiva si può esplicitare attraverso la mindfulness, che insegna l’accettazione, invece di operare un intervento attivo sulle emozioni, oppure attraverso una rivalutazione cognitiva come descritto nel “Process Model” teorizzato da Gross e Thompson nel 2007 in cui ruolo fondamentale è dato dal processo di regolazione focalizzata sull’antecedente e sulla risposta. Jurist preferisce parlare di “modulazione” invece che di “regolazione”: la regolazione sembra essere connessa al controllo cognitivo mentre la modulazione prevede l’essere responsivi, il fare aggiustamenti per unire ed armonizzare aspetti importati del proprio mondo emotivo. La mindfulness, quindi, permette al soggetto di vedersi come oggetto, amplia la capacità di assumente il punto di vista altrui, favorendo l’empatia invece del distacco o dell’ottundimento. I due modelli si riferiscono a due punti di vista diversi: uno è un modello stimolo-risposta mentre l’altro è basato sull’accettazione non giudicante e compassionevole delle esperienze, anche rispetto alle emozioni dolorose. Vedere le emozioni per quelle che sono senza attribuire un significato precostruito, ottenendo quindi un cambiamento nella relazione tra noi e l’emozione. In tal senso, promuove la possibilità di agire in accordo con i propri valori ed i propri interessi personali. Ogni capacità di modulazione emotiva entra di diritto tra le competenze di una buona agency.

L’espressione emotiva è un processo eterogeneo, culturalmente influenzato e, per questo, non ha un valore universale. Per espressione non si intende solo l’etichettamento verbale ma anche e soprattutto quella non verbale, mediata, ad esempio, dall’espressione del viso, dalla postura, dal corpo. L’espressione può essere interna o esterna: quella interna è quella che si coltiva in terapia. Nel passaggio tra i due piani, è possibile scegliere cosa dire e come dirlo; ad esempio utilizzare il comportamento oppure farlo solo a livello verbale. Possiamo amplificare oppure inibire le emozioni allo scopo di condividere qualcosa oppure per ottenere qualcosa. Questo è da tenere bene a mente quando vediamo i nostri pazienti: l’esperire le emozioni ed esprimerle son due processi differenti.

Il corpo è il mezzo attraverso cui il terapeuta può aiutare il paziente a prendere contatto con l’emozione che in quel momento non riesce a identificare. La terapia focalizzata sulle emozioni fornisce numerosi spunti di riflessione. Ad esempio se il paziente non riesce può essere il terapeuta a modulare l’emozione, distinguendo le emozioni primarie, offuscate, dalle secondarie. Se sappiamo che le emozioni hanno un ruolo principale nelle comunicazione con gli altri, la stanza della terapia rappresenta una stanza di allenamento in cui fare prime esperienze emotivamente intense da generalizzare all’esterno.

Il primo capitolo di Tenere a mente le emozioni, che comprende questi tre moduli, trasmette l’idea di una logica sequenziale perché l’espressione emotiva è influenzata dalla capacità di modulazione e quest’ultima è legata alla possibilità di identificarle. Il filo conduttore di tale processo è rappresentato dalle capacità di agency: l’identificazione ne è l’inizio e la modulazione è la concretizzazione e l’espressione emotiva è la realizzazione. Molte persone sono alessitimiche e non sanno quello che bisognerebbe provare in una determinata circostanza, altri sono falsamente consapevoli, fraintendendo le emozioni oppure usandole in maniera idiosincratica. Bisogna stimolare una curiosità aperta e onesta in terapia e questo non è facile in quanto prevede anche il contatto con il dolore, cosa che tutti vorrebbero evitare. Bisogna fare pratica, costruendo le abilità se queste mancano: sono processi di apprendimento e di crescita.

La prima parte del testo si conclude con un breve riassunto delle tematiche affrontate ed apre una prospettiva sull’affettività mentalizzata (AM) e come essa sia collegata all’esperienza emotiva. L’autore sottolinea quindi le implicazioni su un piano pratico clinico nel lavoro con i pazienti.

Allenare la mentalizzazione per migliorare la comprensione e l’esperienza delle emozioni

La seconda parte del testo apre, quindi, le sue osservazioni a partire dalla considerazione che è proprio attraverso la mentalizzazione che i pazienti possono migliorare la comprensione e l’esperienza delle emozioni. A partire da Fonagy, il costrutto della mentalizzazione è stato connotato da diversi significati.

La definizione di mentalizzazione come la capacità di capire ed interpretare il comportamento in termini di stati mentali, nostri o altrui prende avvio dalla psicosomatica francese e si è diffuso nella psicologia cognitiva più moderna, passando per le teorie a favore della dualità mente corpo e giungendo a quelle che, invece, cercano di superare tale dualismo. La prospettiva psicosomatica francese tende a focalizzarsi molto sul fallimento della mentalizzazione, processo noto in tutti quei pazienti che “dementalizzano”. Secondo le scienze cognitive, invece, la mentalizzazione è soprattutto in riferimento alla lettura della mente come si evince dalle teorie della simulazione e dalla teoria della mente. Nel testo troviamo una digressione teorica abbastanza approfondita circa queste correnti di pensiero, su come esse si siano strutturate e concretizzate e come alcuni autori come Gallagher (2011) stiano cercando di superare (ad esempio, con la sua “teoria interazionista”) o con altre teorie ibride che cercano di incorporare teoria della mente e simulazionismo come si legge in Goleman (1995).

Se quindi alle origini, la psicosomatica francese puntava l’attenzione sulla mentalizzazione come un fenomeno in termini di affetti, impulsi e corpo, le scienze cognitive si focalizzano sui processi di pensiero e mentre la prima scuola riduce tale processo al rapporto che l’individuo ha con se stesso, la seconda lo sconfina puntando più al contesto relazionale. La teoria di Fonagy integra entrambe le prospettive: invece di contrapporre affetti e cognizione, la teoria della mentalizzazione afferma il valore di entrambi attraverso il costrutto dell’affettività mentalizzata (AM): invece di considerare la mente come opaca o chiara, è meglio assumere una prospettiva dimensionale e, invece che focalizzarsi solo sulla propria mente o su quella dell’altro, meglio tenerli entrambi in considerazione. In Tenere a mente le emozioni, l’autore, riprendendo l’ipotesi di Fonagy, la amplia sostenendo che “la mentalizzazione ha a che vedere con la capacità di utilizzare ciò che pensano gli altri come parte della mentalizzazione su di sé” e questo rafforza l’idea che la mentalizzazione altrui è un mezzo potentissimo per mentalizzare su di sé.

Proprio per questo, secondo Fonagy, la mentalizzazine deve essere l’obiettivo di ogni psicoterapia; in realtà essa media l’efficacia del trattamento facilitando la costruzione di una fiducia epistemica, qualità che rende aperti e curiosi circa le nuove esperienze e le nuove conoscenze (ecco perché si parla di esperienza di apprendimento) e questo cresce e si rafforza mediante la relazione terapeutica. Jurist cita Fonagy:

Detta in maniera semplice, l’esperienza di sentirsi pensati in terapia ci fa sentire abbastanza sicuri per pensare a noi stessi in relazione al nostro mondo, nonché per imparare qualcosa di nuovo rispetto al mondo e alle modalità con cui agiamo al suo interno (Fonagy, Allison, 2014).

Se il ruolo del terapeuta è quello di ascoltare e mentalizzare il paziente, così che quest’ultimo possa guardare meglio se stesso e quindi mentalizzare in autonomia, ciò implica anche che a seguito di una propria mentalizzazione il paziente possa correggere quella effettuata dal terapeuta donando all’esperienza una connotazione di reciprocità sul passato e sul futuro, nel senso che si può fornire un significato al passato e può orientarci con consapevolezza al futuro, favorendo un sempre più ampio senso di agency personale.

Affettività mentalizzata: di cosa si tratta?

Cosa si intende, allora, per quello che Jurist definisce “affettività mentalizzata” (AM)? E come può la psicoterapia migliorare la mentalizzazione? Il concetto di AM corrisponde a quella parte di teoria della mentalizzazione che concerne diversi aspetti dell’esperienza emotiva come quelli già citati (identificazione, modulazione ed espressione delle emozioni) non solo nel presente ma anche nel ricordo. Se quasi tutta la psicopatologia implica una sofferenza emotiva, ogni psicoterapia deve aiutare il paziente ad entrare in contatto nuovamente con le proprie emozioni ma tenendo conto anche dello stile di personalità, dei valori e di come passato e presente si fondono. Scopo ultimo dell’AM non è, quindi, modulare e trasformare le emozioni ma rivalutarle, rivivendole in una nuova e più consapevole prospettiva nella quale il passato di presenta nella storia attuale, in termini di ricordi sia individuali che culturali. In tal senso l’AM porta a nuovi insight, a nuove interpretazioni ed aiuta ad aumentare gli atti benevoli verso sé e verso gli altri.

L’AM rappresenta il tentativo di far rientrare in un unico concetto la capacità di identificare, modulare ed esprimere le emozioni… porta avanti la sfida di riflettere sulle emozioni riconoscendo le credenze culturali prestabilite senza però dovervisi necessariamente sottomettere (p.140).

in tal senso il passato, individuale e culturale, è un mediatore dell’esperienza presente e futura.

Ovviamente questo implica un legame con la propria memoria autobiografica (MA) e con le narrazioni attraverso cui comunichiamo e diamo valore agli eventi. Sembra che questi due scopi siano perseguiti in base all’uso che ne è stato fatto delle emozioni al loro interno. Secondo Damasio (1994, 1999, 2010) è l’elaborazione della MA che conduce ad una coscienza estesa (si rimanda alla lettura dell’autore per una interessante approfondimento sugli induttori primari e secondari, concetti che ogni terapeuta dovrebbe tenere a mente nel lavoro sulla narrazione autobiografica e rispetto alla distinzione tra proto-sé, sé nucleare e sé autobiografico). Se la MA è essenziale per il funzionamento umano, allora anche la regolazione emotiva è connessa ad esso: per molte terapie, il passaggio a memorie autobiografiche più ricche è un vero e proprio marcatore positivo della terapia che non necessariamente equivale al benessere: l’AM ci fa vedere il dolore di alcune esperienze del passato ma aiuterà a vederlo da una prospettiva diversa ed aiuta a comprendere come esso condiziona il presente: tale elaborazione ci protegge in futuro, mettendoci in condizione di non restarne sopraffatti.

Tenere a mente le emozioni ed esperienza terapeutica

Un capitolo importante è quello riservato all’esperienza terapeutica, al modo di lavorare con l’emozioni e come utilizzare il principio dell’AM che diventa sostegno all’azione terapeutica e uno strumento per la fiducia e la vigilanza epistemica che può essere poi veicolata attraverso la comunicazione. Per azione terapeutica intendiamo ogni azione svolta nella terapia che aiuta il paziente a migliorarsi: è quindi indice dell’impatto che il lavoro sta avendo sul paziente Loewald (1960). Secondo l’autore la relazione terapeutica è caratterizzata dall’amore e vincolata alla verità. L’AM è ciò che rende efficace un’azione terapeutica: aiuta a capire cosa è importante per raggiungere un equilibrio, per superare i momenti di crisi, per alleviare i sintomi. Non per ultimo l’AM facilita la comunicazione.

Senza fiducia epistemica difficilmente ci interessiamo o ci incuriosiamo alle emozioni, proprie e altrui. In terapia, infatti, un paziente che si incuriosisce a quello che accade nel qui ed ora nel setting terapeutico, o nell’indagare il passato ha più probabilità di essere in una terapia che avrà buon esito (Fonagy, 1999).

Portiamo tutti con noi il nostro passato, che ci piaccia o no, e la convinzione che esso non abbia un effetto sul presente e sul futuro è ingenua ed interferisce con la possibilità di vivere una vita realmente significativa. Se nell’AM è coinvolta la MA è necessario aiutare i pazienti a rievocare il passato come qualcosa di affrontabile, di reale, ma anche come qualcosa che non determinerà ciò che ancora deve succedere (p. 174).

Attraverso la relazione, la MA può essere sistematizzata ed ordinata perché crea uno spazio di sicurezza in cui potersi muovere, assegnando il giusto peso alle memorie.

Se il paziente migliora in terapia grazie alla mentalizzazione e non sa necessariamente cosa essa sia, per il terapeuta è diverso: essi mentalizzano e ne condividono i prodotti con il paziente e per stimolarlo in tal senso. In queste condizioni, la mentalizzazione diventa collaborativa e condivisa e per il paziente è un’esperienza nuova, efficace, relazionale. Mentalizzare bene vuol dire sapere quando va fatto e quando no: in quanto attività dispendiosa in termini di risorse interne, sia mentali che emotive, essa segue un percorso poco lineare. Possiamo tutti fallire in alcuni momenti, e possiamo tutti scegliere quando è il momento in cui tale attività non serve come ad esempio nei momenti ludici.

L’AM in terapia, in un clima condiviso in cui si può essere aperti alla mentalizzazione, stimola la fiducia nel confronto con l’altro. Ad esempio il paziente può non essere d’accordo con quello che emerge dalla mentalizzazione del terapeuta ma con curiosità può dirlo e confrontarsi proprio perché all’interno di una relazione e grazie alla fiducia epistemica. Essa spiana la strada alla vigilanza epistemica: sentire di poterlo fare permette di farlo. Anche quest’aspetto di vigilanza deve essere stimolato in terapia, incoraggiando i pazienti a valutare cosa pensano, provano, quali sono le loro credenze e come esse si relazionano agli altri. Ovviamente, il lavoro sulla MA aumenta la vigilanza epistemica. La mentalizzazione delle emozioni aiuta il pz a raggiungere la “granularità” (Barrett, 2016) che comporta il mettere a fuoco le emozioni, guardandole da vicino e con lucidità, all’opposto delle emozioni aporetiche. Quindi la mentalizzazione aiuta a guardare meglio il presente, a dare senso al passato e ad avere una certa prospettiva del futuro.

Conclusioni finali

Considero il testo Tenere a mente le emozioni come un modo per aumentare la consapevolezza di quello che vuol dire fare terapia, in un clima di curiosità, di esplorazione di costruzione prima e condivisione intanto. Molte questioni come quelle connesse all’attaccamento e alla sviluppo in relazione alle capacità di mentalizzazione, vanno lette con attenzione.

Le varie autobiografie mostrano livelli diversi di partenza della capacità di mentalizzare e diversi esempi di come essa si sviluppi all’interno del lavoro terapeutico, in modo strategico, ad esempio lavorando prima sul qui ed ora e poi spostandosi sul passato. Ci sono moltissime indicazioni pratiche da attuare nelle terapie e sono citati degli strumenti come test o interviste che possono aiutare il clinico nella valutazione del grado della capacità di mentalizzazione di partenza del paziente.

Concludo con uno stralcio del testo, rappresentativo di quello che Jurist ha voluto trasmettere nella stesura del testo:

La psicoterapia non rappresenta esattamente un percorso lineare verso la verità. L’amore per la verità comporta soltanto il decidere di perseguirla. Non abbiamo più bisogno di addossarci il fardello dell’assolutezza, rappresentato da idee come “pienamente analizzato”. Il desiderio di conoscere la verità e di comunicarla di conseguenza rimane comunque la parte più entusiasmante e caratteristica del nostro lavoro. È l’amore per la verità a sottostare alla fiducia nel nostro lavoro di terapeuti, nessun paziente termina un trattamento che si è rivelato efficace senza attribuire maggior valore alla verità. Pur riconoscendo i molti e pervasivi modi in cui inganniamo noi stessi non possiamo abbandonare la ricerca della verità. Se i pazienti non arrivano a noi amandola già, idealmente dovrebbero lasciare la terapia avendo sviluppato un amore simile; se un simile amore non nasce entro la fine della terapia, è un vero peccato (pag 184).

 

LEGGI LE ALTRE RECENSIONI DEL LIBRO PUBBLICATE DA STATE OF MIND:

Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia (2018) L’importanza del conoscere le proprie emozioni – Recensione

 

Tenere a mente le emozioni (2018) di Elliot Jurist – Recensione del libro

Promuovere abitudini più sane, aumentando la consapevolezza delle conseguenze dei propri atti

Per ridurre i comportamenti non salutari, solitamente la ricerca si è focalizzata sulla ridefinizione delle associazioni mentali che si hanno circa un determinato obiettivo. Queste associazioni sono dettate da una formazione “approccio-evitamento” in cui si può imparare ad avvicinarsi ad alcune cose ed evitarne altre.

 

Alla base di ciò si suppone che l’esposizione ripetuta a questi obiettivi, possa rafforzare le associazioni mentali facendo si che da una parte aumentino i comportamenti positivi e dall’altra si scoraggino quelli negativi.

Gli studiosi hanno ipotizzato che questo tipo di funzionamento possa essere alterato dalle convinzioni che le persone hanno circa le conseguenze che seguono un avvicinamento o un allontanamento da un obiettivo. Per verificare questa ipotesi sono stati realizzati tre studi online e uno in laboratorio, in cui hanno partecipato 1.547 soggetti. Ognuno doveva completare una prova digitale in cui bisognava spostare o meno un avatar verso il cibo in un frigo, il cibo poteva essere salutare o, al contrario, cibo spazzatura.

Alcuni soggetti avevano anche la possibilità di visualizzare una barra di salute (non specificamente relativa all’avatar) che migliorava o meno in relazione all’avvicinamento al cibo sano o non sano; altri invece erano spronati a migliorare in modo specifico lo stato di salute dell’avatar attraverso le scelte alimentari.

Dai risultati emerge che i soggetti nella condizione in cui erano invitati a portar avanti un obiettivo di miglioramento della salute dell’avatar, vedendo le conseguenze concrete delle loro scelte, hanno mostrato una valutazione automatica più positiva al cibo sano, anche nella scelta di consumo reale, ed inoltre avevano interiorizzato la relazione tra gli alimenti e le loro conseguenze, rispetto agli altri gruppi di controllo sottoposti ad un metodo classico approccio-evitamento.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO:

Concludendo possiamo dire che i training riguardanti le scelte alimentari hanno un’efficacia migliore quando si ha un obiettivo che richiede di apprendere concretamente le conseguenze specifiche di determinati comportamenti poco salutari.

 

La quota rosa nell’uso, abuso e dipendenza da Alcol

La donna impiega un tempo più limitato dell’uomo per diventare alcolista e sviluppa molto più rapidamente le complicanze epatiche, cardiovascolari e psichiatriche correlate all’abuso. Questi fattori la rendono maggiormente vulnerabile agli effetti acuti e cronici dell’ alcol.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Le bevande alcoliche fanno parte da sempre del nostro modo di vivere. Piacciono alla maggior parte delle persone e di solito vengono scelte per motivi diversi. Le bevande alcoliche preferite sono, nell’ordine, il vino, la birra, gli aperitivi alcolici, gli amari. Come qualsiasi altra sostanza però, l’uso massiccio ed eccessivo può dare problemi.

L’ alcol di fatto è una sostanza psicotropa che agisce su quei centri nervosi deputati alla regolazione del piacere e che induce fenomeni di dipendenza psichica, fisica, assuefazione, pericolosità sociale ed individuale. Chi è alcol dipendente ha un bisogno fisico e biologico dell’ alcol e la spinta a bere può coincidere con il desiderio di ripetere esperienze piacevoli, di attenuare sensazioni spiacevoli o entrambi.

L’ alcol però oltre certe dosi è, come tutte le sostanze, tossico. Lo IARC, che si occupa della valutazione degli effetti degli agenti chimici e fisici sul rischio di cancro, ha classificato l’ alcol come agente cancerogeno fin dal 1988. L’ alcol è stato inserito nel gruppo 1, vale a dire quello in cui sono comprese le sostanze per cui esistono sufficienti prove scientifiche della loro capacità di influenzare l’insorgenza dei tumori. Da allora sempre più ricerche hanno chiarito il legame tra alcol e numerose forme tumorali: quello della bocca, della faringe, dell’esofago, della laringe, del seno, del colon, del fegato, del pancreas. Tra questi citiamo la grande indagine EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), i cui risultati relativi alla relazione tra alcol e cancro sono stati pubblicati nel 2011 sul British Medical Journal. Lo studio, a cui hanno partecipato anche ricercatori dell’AIRC, ha evidenziato che il 10% di tutti i tumori che colpiscono i maschi e il 3% di quelli che colpiscono le femmine sono attribuibili al consumo di alcolici. Nel dettaglio, la ricerca ha stimato che l’alcol è responsabile di una quota oscillante tra il 25 e il 44% dei tumori di bocca, faringe, laringe e cavità nasali, del 18-33% di quelli del fegato, del 4-17% dei tumori del colon e del 5% dei tumori al seno femminile.

Conseguenze psicologiche dell’ alcol

Da un punto di vista psicologico, l’ alcol può legare a sé in maniera non più controllata e non più controllabile, ovvero indurre dipendenza. Occorre però prima di tutto chiarire cosa si intende per dipendenza e distinguerla da altre terminologie:

Per intossicazione da sostanze si intende lo sviluppo di una sindrome sostanza-specifica reversibile dovuta alla recente assunzione di una sostanza, con modificazioni clinicamente significative, sul piano comportamentale o psicologico, dovute all’effetto della sostanza, sul sistema nervoso centrale.

L’abuso, che spesso viene confuso col concetto di dipendenza, invece, è una modalità patologica di uso di una sostanza, che porta a menomazione o a disagio clinicamente significativo; ne è esempio l’uso ricorrente della sostanza che può portare a incapacità ad adempiere ai principali compiti connessi con il lavoro, scuola oppure a problemi sociali o interpersonali ricorrenti e persistenti.

Quando parliamo invece di dipendenza inseriamo nel concetto anche il termine astinenza/tolleranza, perdita di controllo, craving, cambiamento di stile di vita e di pensiero, danno fisico, psichico, sociale. Nella dipendenza il soggetto entra in un circolo vizioso nel quale la sostanza assume il controllo ponendo chi ne fa uso nella posizione di “schiavo”.

Il consumo e l’abuso di alcol nell’universo femminile rappresenta un argomento poco trattato in quanto è ritenuto un fenomeno “sotterraneo”. Non è infatti facilmente rilevabile, essendo sovente confinato nel privato o dissimulato per la riprovazione sociale.

Perché si parla di riprovazione sociale? La parola “alcolista” porta con sé una connotazione emotiva molto forte, racchiude in sé le immagini di quello stereotipo sociale e culturale che crea rifiuto in chi ne viene etichettato.

Fattori all’origine della dipendenza da alcol

L’alcolismo viene considerato una dipendenza che include diversi fattori, come i fattori biologici, culturali ed infine quelli psicologici. Non è possibile ricorrere ad un’unica interpretazione per spiegare e comprendere le condotte alcoliche. È però possibile suddividere le cause dell’ alcol dipendenza in due categorie dominanti: cause personali e cause socio-culturali.

Più in generale, il ricorso all’ alcol può essere dovuto sia ad un piacere derivante dalla gradevolezza della sostanza, sia al significato sociale e personale che viene attribuito alla sostanza. Da un punto di vista meramente sociale, spesso si preferisce bere in compagnia e si esce con l’idea che “se bevo mi diverto”. Gli adolescenti bevono per lo più in funzione di un valore di uso dell’ alcol come sostanza disinibente, capace di rafforzare la disinvoltura nelle relazioni piuttosto che per il gusto in sé di consumare le bevande alcoliche; da un punto di vista soggettivo, spesso l’ alcol oltre che come sostanza “socializzante”, può essere usato come forma di auto-medicamento in situazioni di stress, ansia, frustrazioni, bassa autostima e altre situazioni che possono essere ritenute problematiche. Il ricorso all’alcol viene spiegato in quanto portatore di una sensazione di benessere soggettivo, ma soprattutto di fuga dalla realtà. Se l’alcol sembra momentaneamente alleviare uno stato di tristezza o di disagio, tale effetto, una volta svanito ed esaurito, riporta e accentua la situazione iniziale. Queste sono solo alcune di quelle che potrebbero essere definite come cause di tipo personale. Le cause socio-culturali prima enunciate, invece, sono legate a tradizioni, interessi economici, usanze tipiche di quel territorio.

Donne e Alcol

Le donne che hanno problemi legati all’ alcol fanno parte di un gruppo molto eterogeneo in quanto la dipendenza da alcol è diffusa fra le donne di ogni età e appartenenza sociale. Esistono fattori diversificati che influenzano l’andamento del fenomeno. Si parte dai fattori di familiarità genetica e ambientale, per passare a fattori demografici quali l’età, lo stato civile, la professione e le origini etniche.

Le linee guida nutrizionali raccomandano che una donna adulta e in buona salute non superi un consumo giornaliero di 1 unità alcolica*, mentre l’uomo non deve superare le 2 unità alcoliche. Una unità alcolica corrisponde a:

  • una birra da 33 cl di gradazione normale (4.5 gradi)
  • un bicchiere da tavola di vino (11-12 gradi)
  • un bicchierino (40 ml) di superalcolico (Grappa, Cognac, Vodka)

Bisogna tener presente che il contenuto di alcol di diversi tipi di birra, vino, distillati può variare in modo sostanziale.

Questa differenza dipende dal fatto che l’organismo femminile presenta una massa corporea inferiore rispetto all’uomo, minor quantità di acqua corporea e meno efficienza dei meccanismi di metabolizzazione dell’ alcol (carenza dell’enzima epatico alcol deidrogenasi). A pari quantità di bevande alcoliche, quindi, corrisponde un livello di alcolemia maggiore nelle donne.

Per questi motivi la donna impiega un tempo più limitato dell’uomo per diventare alcolista e sviluppa molto più rapidamente le complicanze epatiche, cardiovascolari e psichiatriche correlate all’abuso. Questi fattori la rendono maggiormente vulnerabile agli effetti acuti e cronici dell’ alcol. Oltre a queste patologie, la donna bevitrice presenta un maggior rischio di sviluppare il tumore della mammella.

L’abuso di alcol ha un ruolo rilevante ed incide negativamente anche sulla fertilità. L’abuso di alcol può essere infatti responsabile di una minore produzione degli ormoni femminili, determinando un’insufficienza ovarica che si manifesta con irregolarità mestruale (fino alla scomparsa del ciclo), assenza di ovulazione, infertilità e menopausa precoce. Nella donna che assume contraccettivi orali, inoltre, l’ alcol ingerito resta in circolo più a lungo.

Un discorso particolare va fatto per la donna in gravidanza, periodo in cui va evitato anche un consumo moderato di alcol. L’etanolo, infatti, è in grado di attraversare la placenta e arrivare al feto a una concentrazione di poco inferiore a quella ematica materna. Le cellule fetali, non essendo dotate di enzimi capaci di metabolizzare l’ alcol, ne subiscono gli effetti dannosi in particolare a livello cerebrale e dei tessuti in via di formazione. L’azione tossica dell’ alcol interferisce sui normali processi di sviluppo fisico ed intellettivo del feto provocando malformazioni e ritardo mentale più o meno gravi in funzione dei livelli di consumo. Pertanto a causa di tale azione tossica le donne che bevono abitualmente durante la gravidanza hanno una maggior frequenza di aborti spontanei e sono esposte al rischio di partorire neonati affetti da sindrome feto alcolica (FAS – Alcohol Fetal Syndrome). Va sottolineato che il rischio di danni cerebrali al feto esiste anche per le donne alcolizzate da tempo, anche se smettono di bere per tutta la durata della gravidanza.

Nelle donne anziane l’ alcol, anche moderato, può peggiorare ed accelerare la degenerazione della sfera neurologica e psichica. Inoltre spesso la donna anziana è in terapia farmacologia e l’ alcol può interferire con molti farmaci. Estremamente pericolosa è l’interazione tra alcol e farmaci che deprimono il sistema nervoso (sedativi, tranquillanti, ansiolitici, ipnotici). Il comportamento verso l’ alcol delle donne oltre i 65 anni desta particolare preoccupazione, in quanto questa fascia d’età non ha ricevuto in gioventù un’educazione al consumo di alcolici. Prediligono nell’ordine vino, birra e amari nel contesto privato o domestico, spesso continuando a mantenere nascosta la loro abitudine per timori di riprovazione sociale. Questo rende ancora più difficile rilevare eventuali problemi causati dall’ alcol ed è motivo di un riscontro spesso tardivo, ma frequente, di alcol dipendenza tra pensionate e casalinghe della “terza età”. Il periodo della menopausa e lo stato di vedovanza, poi, accompagnati da una minore partecipazione alla vita attiva e alla presenza di limitazioni fisiche dovute all’età, possono favorire fenomeni di abuso che, nel caso degli anziani, determinano problemi già al di sopra del consumo di 1 bicchiere di bevanda alcolica al giorno. Talvolta, oltre i 60 anni l’ alcol viene considerato l’unico elemento di compagnia contro la solitudine.

Dai dati ISTAT si registra nel corso degli anni un incremento della prevalenza delle consumatrici fuori pasto, in particolare, nel corso del 2015 la prevalenza è aumentata di 1,2 punti percentuali; tra le donne l’incremento risulta particolarmente significativo nella classe di età 25-44 anni.

Come agisce la società nei confronti della dipendenza “in rosa”?

L’alcolismo femminile si nasconde spesso tra mura domestiche e silenzi. La famiglia funge da contenitore: si pensa che il tacere, il provare a gestire in famiglia il “problema”, possa illusoriamente portare ad una soluzione. Spesso si finisce col bere di nascosto, in momenti della giornata e luoghi “tranquilli e discreti”, cercando di mascherare.

L’età matura può essere caratterizzata, oggi, per molte donne da un profondo conflitto tra un modello culturale di realizzazione ed affermazione personale desiderato e costruito in gioventù (in un periodo sociale di forte spinta all’emancipazione femminile) e quello realizzato in maturità e che quotidianamente spinge la donna verso ruoli personali fortemente legati ai ruoli di moglie e di madre; una condizione tutt’altro che infrequente e che vede la donna dibattersi tra la necessità di affermarsi nel mondo lavorativo e quello di non poter rinunciare al ruolo tradizionale familiare. È probabile che le donne siano spinte a bere maggiormente in questa fase della vita, verosimilmente più critica per il sesso femminile, a causa di timori di perdita della giovinezza, di riduzione della fertilità e della capacità procreativa, di una mancata realizzazione di progetti giovanili, di bilanci di esperienze affettive e familiari vissute in maniera insoddisfacente. (E. Scafato, 2014)

La donna si rivolge all’ alcol per la sua azione contenitiva, e auto-medicante. Hoar (1983) osserva che il bere nelle donne è correlato a problematiche stressanti dell’ambiente circostante quali malattie mentali, alcolismo, difficoltà occupazionali del coniuge, crisi economica familiare. Egli parla di “casalinga frustrata” e di sindrome del “nido vuoto”, ovvero di un comportamento in correlazione ad un evento specifico che mette in crisi le modalità secondo cui la donna ha organizzato la sua identità psicologica, relazionale e sociale. Un esempio di “casalinga frustrata” viene ben rappresentato anche dai mass media ad esempio nel famoso cartone animato americano “The Simpson” in cui in più di un episodio Marge ricorre all’ alcol per soffocare frustrazioni, insoddisfazioni e altri sentimenti che illusoriamente possono scomparire con l’uso di alcolici.

Alcuni autori quali Steinglass (1976) e Gacic (1977) affrontano il tema di “famiglie alcoliste”. Quest’ultimo parla di coppia alcolica evidenziando l’interazione tra i partner quale fattore che mantiene l’etilismo. Tra i principali fattori di rischio riscontrati (Marshall & Cook,1977) si evidenziano una storia familiare di problemi legati all’ alcol (famiglia di origine con problemi alcol correlati e/o partner bevitore); problemi comportamentali infantili legati alla difficoltà nel controllo e gestione degli impulsi; uso precoce di fumo, alcol e sostanze stupefacenti, che spesso può creare terreno fertile per le multidipendenze ed infine, scarse capacità di gestire eventi dolorosi o stressanti (mobbing ad esempio). Davanti a tutte queste possibilità, il soggetto trovandosi in una situazione di fragilità può cadere vittima delle sostanze. Infine la co-presenza di altri disturbi quali ad esempio la depressione, disturbi dell’umore e alimentari possono favorire l’assunzione di sostanze.

Spesso il ricorrere all’ alcol non dipende esclusivamente da motivi personali e/o problematici ma può assumere i tratti di una consuetudine, socialmente accettata e popolarmente giustificata, che porta a consumare alcolici per abitudine (consumare bevande alcoliche durante i pasti), per mancanza di informazione (per combattere il freddo, per abitudini salutiste come “il vino fa buon sangue”).

Quando si ricorre alla terapia?

In generale riconoscere di avere un problema con l’ alcol è difficile. Spesso si arriva in terapia perché portati da altri, per segnalazioni. In particolare, la percentuale di motivazione intrinseca si affievolisce ulteriormente se si tratta di giovani. Spesso si decide per un intervento multidisciplinare con la possibilità anche di partecipare a gruppi di terapia. In più, spesso durante la terapia si inseriscono anche lezioni psicoeducazione utili a migliorare la qualità di informazioni sul fenomeno alcol.

Nei confronti delle donne esiste un atteggiamento molto stigmatizzante e colpevolizzante, pertanto le donne con problemi di alcol vivono maggiormente l’isolamento sociale rispetto agli uomini. Esiste di fatto un radicato pregiudizio rispetto all’alcolismo femminile che porta a reticenza e scarsa criticità rispetto al proprio disagio, ma anche forte colpevolizzazione e riprovazione sociale. Va osservato che il periodo in cui inizia l’abitudine all’assunzione di alcol è ancora fertile per la donna (tra i 30 e i 40 anni), pertanto spesso il comportamento femminile riceve una forte riprovazione anche per gli effetti che l’ alcol può avere su una possibile gravidanza e in virtù della figura materna che la donna potrebbe potenzialmente ricoprire. L’alcolismo femminile così si consuma spesso tra le mura domestiche, tra colpa e solitudine.

Perché scegliere la diagnosi multidimensionale?

Permette di valutare le problematiche del paziente dal punto di vista sanitario, psicologico, educativo e sociale.

Integra la diagnosi medica, l’inquadramento psicologico-psichiatrico con il funzionamento sociale del paziente e la sua storia familiare.

In più prevede la raccolta di informazioni, utili per valutare in quali aree si sviluppano le condizioni maggiormente problematiche e suscettibili di intervento, in una persona sofferente.

Da molte testimonianze si evince che chi decide di intraprendere un percorso riabilitativo, soggetto a ricadute, riscopre e scopre se stesso.

Genitorialità e neuroscienze: gli abbracci che danno nutrimento

Il bisogno di attaccamento è un bisogno innato ed evolutivamente preordinato che spinge ogni neonato a ricercare la vicinanza con il proprio caregiver. L’assenza di una risposta adeguata da parte dei genitori comporta importanti conseguenze sullo sviluppo del bambino.

 

Il neonato è messo al mondo senza gli strumenti necessari per fronteggiarlo, presenta un’immaturità psichica e fisiologica (Gardner, 1996). Il suo cervello è solo un quinto del cervello umano adulto, che si svilupperà in un processo maturazionale lungo oltre i quindici anni (Giedd, 2004). La specificità dell’ambiente con la quale interagisce deciderà quali connessioni neurali saranno formate e rinforzate (Edelman e Tononi, 2000), darà modo alle potenzialità latenti del bambino di svilupparsi (Gardner, 1996).

Lo stato d’impotenza e vulnerabilità che caratterizza il neonato comporta un bisogno di protezione, vicinanza, ovvero un bisogno di attaccamento (Bowlby, 1982). Il legame di attaccamento è appunto quella relazione stabile che si crea tra bambino e adulto utile a garantire al piccolo benessere, protezione, e in generale la possibilità di sopravvivere (Wiggins, 2000). Bowlby ipotizza l’esistenza di una predisposizione innata del cucciolo di umano alla vicinanza dell’adulto, utile alla sua sopravvivenza, e dall’altra parte una propensione dell’adulto all’accudimento, al prendersi cura del piccolo (De Coro, 2010). L’ attaccamento e l’accudimento sono concepiti come sistemi motivazionali o comportamenti innati, selezionati poiché adattivi in termini evoluzionistici (McLean, 1984).

L’ attaccamento come bisogno fondamentale dell’individuo

Il ruolo fondamentale della vicinanza al neonato di un adulto si osserva in diversi studi di cui possiamo considerare Spitz un pioniere. Tra il 1945 e il 1946, René Spitz, psicoanalista austriaco, osservò gli effetti devastanti della separazione del bambino da chi se ne prendeva cura. Nel suo studio (Spitz, 1945; Spitz, 1946) prese in considerazione 91 bambini di un orfanotrofio, osservando che i primi mesi di protesta, con pianti e lamentele, lasciavano gradualmente il posto a uno stato letargico, e che circa il 37% dei quali morì entro il secondo anno di vita (Spitz, 1972). Le cure materiali dell’orfanotrofio erano dunque necessarie ma non sufficienti per un sano sviluppo dell’infante. Spitz definì “ospedalismo” i disturbi fisici e psicologici conseguenti a una totale assenza di un rapporto del piccolo con la madre, e parlò di “depressione anaclitica” per descrivere la sintomatologia infantile nel caso in cui il rapporto con la figura materna c’è stato per un breve periodo per poi interrompersi, come ad esempio in seguito alla morte materna (Spitz, 1972).

Bambini che possono godere di un contatto fisico con figure significative, presi in braccio, toccati, sviluppano un cervello più grande, con connessioni più forti tra le cellule cerebrali rispetto ai bambini deprivati (Wiggins, 2000; Kandel, 2005). La stimolazione da parte dell’ambiente esterno influenza i sistemi cerebrali che si occupano della regolazione emozionale, questi ultimi influenzano a loro volta la secrezione ormonale e la produzione di neurotrasmettitori. La regolazione emozionale del bambino inizialmente è controllata dall’ambiente esterno, dal caregiver, successivamente il bambino sarà capace di un auto-controllo (Shore, 1994). È proprio tramite l’apprendimento, inoltre, che si sviluppano le connessioni sinaptiche (Kandel, 2005). Tale stimolazione esterna incide sulla dimensione stessa del cervello (Thompson, 1990). In studi su animali, è stato osservato che ratti allevati in un ambiente stimolante, caratterizzato dalla presenza di giocattoli o altri topi, sviluppavano un cervello di dimensioni maggiori rispetto a ratti abbandonati in gabbie vuote (Gopnik, Meltzoff e Kuhl, 1999). Caratteristica che si trasmetteva a livello intergenerazionale, i ratti cresciuti in ambienti stimolanti generavano una prole con una corteccia più spessa (Gopnik, Meltzoff e Kuhl, 1999).

Attaccamento e sviluppo della personalità, le conseguenze di cure genitoriali inadeguate

Le ripercussioni psicologiche di cure genitoriali inadeguate o del sentirsi completamente rifiutati dalle proprie figure significative sullo sviluppo della personalità del soggetto possono essere diverse: dall’ostilità, all’aggressività, bassa autostima e autoefficacia, insensibilità o assenza di una risposta emozionale, così come illustrato dalla teoria dell’Accettazione – Rifiuto di Rohner (Rohner e Carrasco, 2014). L’attivazione cerebrale al rifiuto è sovrapponibile alle aree che si attivano in risposta al dolore fisico nel soggetto (Khaleque e Rohner, 2012), con una differenza sostanziale; come ci sottolinea lo stesso Rohner, differentemente dal dolore fisico, il dolore emotivo conseguente al rifiuto si riverbera negli anni, può tornare alla memoria ed essere rivissuto in continuazione nell’intero ciclo di vita del soggetto (Khaleque e Rohner, 2012). La meta analisi di Rohner e Khaleque permette di ridimensionare il ruolo predominante dato alla figura materna nello sviluppo sano del bambino sottolineando come anche il padre rivesta un ruolo importante. L’influenza di un rifiuto da parte della figura paterna sembra addirittura maggiore rispetto all’influenza di un rifiuto da parte della madre (Khaleque e Rohner, 2012).

In conclusione

L’essere genitori o caregiver di un neonato rappresenta, quindi, una funzione determinante di estrema importanza, oltre che complessa, nella regolazione dello sviluppo fisico e psichico del bambino.

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