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Genitori elicottero: l’eccessivo controllo genitoriale impatta sull’adattamento scolastico dei figli

Uno studio indaga le conseguenze dei rapporti tra bambini e coloro che nel mondo anglosassone vengono definiti “genitori elicottero”, ovvero quei genitori che prestano estrema attenzione alle esperienze, in particolare educative, dei propri figli. Genitori elicottero, che dall’alto sorvegliano il proprio figlio, come fossero un drone.

 

Uno stile genitoriale di questo tipo può influire negativamente sul benessere emotivo dei bambini e di conseguenza sul loro comportamento in ambito scolastico e sociale. Nonostante sia naturale che i genitori facciano il possibile per tenere i propri figli al sicuro, il presente studio sembra confermare come i bambini abbiano bisogno di spazio per imparare a crescere soli, senza che i genitori sorvolino sopra la loro testa costantemente.

Bambini: usano i genitori per imparare a gestire le emozioni

I bambini sono soliti affidarsi ai caregiver per comprendere le proprie ed altrui emozioni ed i caregiver dovrebbero poter riconoscere in quali casi i propri figli sono in grado di gestire una situazione e quando invece si trovano in difficoltà. Durante la crescita, condurre i bambini verso una maggiore padronanza e capacità di gestione delle situazioni difficili porta ad una maggiore salute fisica e mentale. Un controllo parentale eccessivo potrebbe limitare la crescita ed impattare negativamente sulla capacità di regolazione emotiva dei bambini, sulle loro abilità sociali e relazionali e sui successi scolastici.

La presente analisi, condotta dalla ricercatrice Nicole B. Perry, dell’Università del Minnesota, è uno studio longitudinale durato 8 anni ed è stato condotto su 422 bambini, valutati all’età di 2, 5 e 10 anni. I dati sono stati raccolti durante le interazioni genitori-figlio, dalle risposte segnalate da un’osservazione da parte degli insegnanti e dalle autovalutazioni effettuate dai bimbi di 10 anni.

Le interazioni genitori-figlio sono state osservate sistematicamente dai ricercatori, in seguito alla consegna di giocare come se fossero a casa propria.

I risultati dello studio che ha osservato genitori e bambini

I genitori “elicottero”, durante le interazioni di gioco genitori-figlio guidavano costantemente il bambino nel gioco, dicendogli come giocare con un determinato giocattolo, come pulire dopo la ricreazione, etc. I bambini hanno reagito diversamente a questa intromissione: alcuni diventavano provocatori, altri apatici e altri ancora hanno mostrato atteggiamenti derivanti da uno stato di frustrazione.

Dai risultati è emerso che un controllo genitoriale eccessivo innanzi ad un bambino di 2 anni si associa ad una regolazione emotiva e comportamentale più carente all’età di 5 anni, rispetto ai bimbi con genitori non-“elicottero”. Maggiore è la regolazione emotiva all’età di 5 anni, minore è la probabilità che il bambino abbia problemi emotivi e più è probabile che abbia migliori capacità sociali e sia più produttivo a scuola all’età di 10 anni. Allo stesso modo, all’età di 10 anni, bambini con un migliore controllo degli impulsi hanno mostrato meno probabilità di sperimentare problemi emotivi e sociali e si sono dimostrati più propensi a fare meglio a scuola.

Genitori: dare maggiore autonomia ai bambini è la scelta migliore

L’autore principale dello studio, la dr.ssa Perry, ha affermato

La nostra ricerca ha dimostrato che i bambini con genitori-elicottero potrebbero essere meno in grado di affrontare le difficili richieste di crescita, specialmente nel complesso ambiente scolastico. I bambini che non sono in grado di regolare efficacemente le proprie emozioni ed il proprio comportamento sono più propensi a sperimentare difficoltà nello stare in classe e nel fare amicizie. I bambini che hanno sviluppato la capacità di calmarsi in modo efficace durante situazioni angoscianti e di comportarsi in modo appropriato si sono adattati più facilmente alle richieste sempre più difficili degli ambienti scolastici. I nostri risultati suggeriscono l’importanza di educare i genitori spesso ben intenzionati a sostenere l’autonomia dei bambini verso la gestione delle sfide emotive.

La ricercatrice ha così suggerito che i genitori possono aiutare i propri figli a imparare a gestire le proprie emozioni e comportamenti senza sostituirsi a loro, ma aiutandoli a capire i propri stati d’animo e spiegando loro quali comportamenti possono derivare dal provare determinate emozioni, così come illustrare loro le conseguenze di diverse risposte comportamentali.

Facebook Facebook delle mie brame: la relazione tra utilizzo di social network, selfie e narcismo

Uno studio dell’Università Swansea in collaborazione con l’Università di Milano ha stabilito che un eccessivo uso dei social media attraverso la pubblicazione di selfie è associato ad un aumento di tratti narcisistici negli utenti (Reed, Bircek, Osborne, Viganò, & Truzoli, 2018).

 

Sebbene siano numerosi gli studi sull’uso problematico dei social network, poco si sa ancora sulla direzionalità temporale delle relazioni tra uso problematico di internet e disturbi della personalità come il narcisismo. Nessuno studio esistente aveva finora indagato se l’iniziale utilizzo problematico di Internet fosse associato a un aumento di tratti narcisistici o viceversa.

I ricercatori del seguente studio hanno analizzato i cambiamenti di personalità in 74 individui dai 18 ai 34 anni, durante un periodo di quattro mesi. È stata presa in considerazione, inoltre, l’assiduità con cui i partecipanti hanno utilizzato i social media (Twitter, Facebook, Instagram e Snapchat) durante il periodo dedicato alla ricerca.

Social network, selfie e narcisismo: la ricerca

Ma cosa intendiamo quando parliamo di narcisismo? Tra le caratteristiche della personalità narcisistica rientrano un esibizionismo grandioso, credenze relative al diritto di ricevere riconoscimenti dagli altri e una tendenza alla manipolazione e allo sfruttamento degli altri. Chiarito ciò, i partecipanti allo studio che erano soliti postare un numero eccessivo di selfie, hanno mostrato un aumento del 25% dei suddetti tratti narcisisti, dunque, oltre il cut-off clinico per il disturbo narcisistico di personalità (in accordo con la scala di misurazione utilizzata). Al contrario, i partecipanti che usufruivano dei social prettamente mediante post verbali (non selfie), non hanno avuto come conseguenza l’aumento, di suddetti tratti, oltre il cut-off clinico.

Un dato interessante riguardo quest’ultimo gruppo è che i partecipanti che avevano ottenuto un punteggio maggiore nella scala dei tratti narcisistici, hanno effettivamente pubblicato un numero più alto di post verbali sui social. In altre parole, i più narcisisti all’inizio dello studio si sono dimostrati più attivi per quanto riguarda i post verbali. In media, durante i quattro mesi di ricerca, i partecipanti hanno usato i social per tre ore al giorno, nonostante qualcuno abbia riportato un utilizzo di 8 ore circa. In percentuale, il social più utilizzato è stato Facebook (60%), a seguire Instagram (25%) e infine, Twitter e Snapchat (13%). I due terzi dei partecipanti adoperavano i social primariamente per postare selfie. Questo studio evidenzia, per la prima volta, la correlazione tra frequenza di utilizzo dei social media e narcisismo in relazione alla pubblicazione di selfie.

Social network, selfie e narcisismo: i risultati

I risultati dello studio suggeriscono che i narcisisti utilizzano per più tempo, durante la giornata, i social media ma soprattutto che la pubblicazione di selfie può assolutamente aumentare i tratti narcisistici. Secondo i ricercatori dello studio, se si dovesse considerare il campione come rappresentativo della popolazione generale, almeno il 20% delle persone potrebbe essere soggetto a sviluppare suddetti tratti narcisistici in base all’eccessiva pubblicazione di selfie nei social media. L’aumento di tali problemi di personalità potrebbe essere dovuto al fatto che, postando immagini di sé sui social, l’individuo si sentirebbe ancora di più al centro dell’attenzione. La mancanza di una censura sociale immediata e diretta potrebbe, inoltre, accentuare aspetti della loro personalità narcisista: si percepiscono sotto una luce grandiosa e intensificano le loro fantasie di onnipotenza (Reed, Bircek, Osborne, Viganò, & Truzoli, 2018).

Psicopatia e capacità di decision-making

La psicopatia è un disturbo di personalità caratterizzato da comportamento antisociale e distacco affettivo ed interpersonale (Benning, Patrick, Blonigen, Hicks, e Iacono, 2005). La diagnosi si basa generalmente sulla valutazione di due principali dimensioni: il distacco emozionale ed il comportamento antisociale.

Eleonora Poli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cogniva e Ricerca, Venezia Mestre


La prima dimensione della psicopatia include tratti di personalità come senso di grandiosità ed egocentrismo, superficialità affettiva, mancanza di empatia, mancanza di rimorsi o sensi di colpa, charme superficiale, tendenza a mentire e manipolare gli altri. La componente antisociale si manifesta invece con comportamenti impulsivi e violenti, problemi della condotta in età precoce, delinquenza giovanile, predisposizione ad annoiarsi facilmente e conseguente ricerca di esperienze estreme, scarsa capacità di organizzarsi e pianificare le proprie azioni future, irresponsabilità. Il disturbo colpisce circa l’1% della popolazione generale ed il 15-20% di criminali detenuti (Hare, 1991).

Psicopatia: cos’è

L’attuale concettualizzazione della psicopatia è stata influenzata dagli studi di Cleckley (The Mask of Sanity, 1976), il quale elencò 16 criteri diagnostici che potevano essere utilizzati per identificare le persone con il disturbo. Particolare enfasi veniva posta sulle scarse abilità affettive ed interpersonali dello psicopatico (superficialità, incapacità di amare, mancanza di rimorsi, mentire patologico) e sul suo comportamento antisociale (scarso controllo degli impulsi, assenza di pianificazione, incapacità di apprendere dalle esperienze passate, delinquenza, stile di vita parassitario). Questa nozione di psicopatia è stata poi operazionalizzata negli anni seguenti con messa a punto della Psychopathy Checklist (Hare, 1991), la quale comprende 20 items atti a misurare queste due dimensioni del disturbo.

Gli psicopatici non mostrano alcuna preoccupazione riguardo gli effetti che le loro cattive azioni possono avere sugli altri, o addirittura su loro stessi. Spesso commettono crimini impulsivi e non pianificati, persino quando la probabilità di essere scoperti e puniti sono elevate. Alla base di tali comportamenti sembrerebbe esserci un’incapacità di apprendere informazioni associate alle punizioni e di rispondere in maniera appropriata ad esse. Ad esempio sono stati trovati deficit in compiti di condizionamento avversivo (Flor, Birbaumer, Hermann, Ziegler, e Patrick, 2002) ed in compiti di apprendimento passivo dell’evitamento (Blair e colleghi, 2004; Newman e Kosson, 1986), una ridotta capacità di riconoscere espressioni facciali negative (Blair e colleghi, 2004) e una risposta elettrodermica deficitaria in risposta ad espressioni vocali negative (Verona, Patrick, Curtin, Bradley e Lang, 2004).

Essendo incapaci di imparare dalle punizioni, le persone con psicopatia manifestano spesso comportamenti impulsivi, perseveranza ed una sostanziale incapacità di inibire la scelta di opzioni precedentemente vincenti nel momento in cui un cambiamento della situazione le renda svantaggiose (Whiteside & Lynam, 2001).

I compiti di decision making vengono in genere utilizzati per indagare la capacità dell’individuo di selezionare la scelta ottimale tra una varietà di possibili opzioni, di predire eventi positivi o negativi e di imparare a regolare il proprio comportamento in base alla ricezione di premi e punizioni. Tali processi sono influenzati sì dal ragionamento cognitivo, che richiede una valutazione di rischi e benefici associati ad una determinata scelta, ma anche dall’elaborazione emozionale, che valuta l’attivazione affettiva in risposta alle diverse possibilità e può guidare le nostre decisioni in maniera più o meno consapevole (Seguin, Arseneault, e Tremblay, 2007). Da tali premesse si deduce come un compito di decision-making possa rivelarsi uno strumento utile per indagare le risposte maladattive o perseverative negli psicopatici.

Psicopatia e decision making

Esistono diversi test costruiti con lo scopo di investigare le capacità di decision making degli individui. Uno strumento valido e piuttosto diffuso è l’Iowa Gambling Task, messo a punto nello specifico per esaminare la sensibilità a premi e punizioni nella vita di tutti i giorni ed incentrato sugli aspetti emozionali nella presa di decisioni economiche (Bechara, Damasio, Damasio, e Anderson, 1994). Durante il compito viene chiesto all’individuo di pescare delle carte da gioco da due possibili mazzi: un mazzo di carte porta a guadagnare grosse somme di denaro, ma perdite ancora più elevate (mazzo svantaggioso), mentre un secondo mazzo permette di vincere esigue somme di denaro, ma perdite ancora più ridotte. Sul lungo termine diventa quindi evidente come convenga pescare dal mazzo che porta ad accumulare piccole somme di denaro.

Van Honk, Hermans, Putnam, Montagne e Schutter (2002) hanno esaminato, in partecipanti con alti e bassi tratti di psicopatia, le performances all’Iowa Gambling Task. I risultati hanno dimostrato come i partecipanti con alta psicopatia non imparassero dai feedback negativi (perdita di denaro) che ricevevano durante il compito e manifestassero quindi comportamenti maladattivi, confrontati con i non psicopatici.

Newman, Patterson e Kosson (1987) hanno chiesto a psicopatici e non-psicopatici incarcerati di eseguire un compito monetario del tutto analogo all’Iowa con l’obiettivo di esaminare le loro risposte perseverative. Anche in questo caso gli psicopatici compivano scelte non vantaggiose e perdevano maggiori somme di denaro durante il compito. Blair, Morton, Leonard e Blair (2006) hanno studiato la capacità di decision making in persone con psicopatia usando il Differential Reward/Punishment learning task, nel quale i partecipanti dovevano scegliere tra due oggetti che erano associati a differenti livelli di premio o punizione. I dati, anche in questo caso, hanno rivelato una significativa difficoltà, negli psicopatici, nello scegliere tra oggetti con diversi livelli di premio o punizione.

Psicopatia e incapacità di posticipare la ricompensa

Koenigs, Kruepke e Newman (2010) hanno somministrato l’Ultimatum Game ed il Dictator Game ad un gruppo di psicopatici e ad un gruppo di controllo. Nell’Ultimatum Game un primo giocatore decide come dividere una somma di denaro tra sé e un secondo giocatore, mentre quest’ultimo può decidere se accettare o meno la divisione proposta. Nel caso in cui egli rifiuti l’offerta, entrambi i giocatori non riceveranno la somma di denaro. Nel Dictator Game, invece, il primo giocatore decide come dividere la somma di denaro, mentre il secondo giocatore semplicemente riceve la parte di denaro decisa dal primo. I risultati hanno mostrato come gli psicopatici accettassero in minor misura le offerte valutate come ingiuste e non eque in questi due giochi, ottenendo di fatto a fine gioco una minore somma di denaro rispetto ai non psicopatici. Mahmut, Homewood, e Stevenson (2008) hanno analizzato la performance all’Iowa Gambling Task in studenti universitari maschi con elevati tratti di psicopatia (rispetto a studenti con bassi tratti) ed hanno anch’essi osservato come gli psicopatici avessero una performance significativamente peggiore al compito. In uno studio più datato Blanchard, Bassett e Koshland (1977) hanno indagato la sensibilità a premi e ricompense in un gruppo di psicopatici incarcerati, rispetto ad un gruppo di controllo, ai quali veniva chiesto di effettuare una scelta tra ricevere un premio nell’immediato, seppur piccolo, oppure ricevere un premio tre volte maggiore ma con un ritardo di qualche ora o qualche giorno. Gli psicopatici mostravano una minore capacità di ritardare la gratificazione rispetto al gruppo di controllo.

I dati riscontrati in questi diversi studi permettono di trarre alcune osservazioni e riflessioni su un disturbo così complesso e ricco di sfaccettature. I comportamenti impulsivi, irresponsabili, privi di pianificazione potrebbero essere in parte spiegati dalla sostanziale incapacità dello psicopatico di frenare la necessità di ricompensa e gratificazione immediate, di resistere alla tentazione di provare emozioni ed esperienze forti, e dalla sua insensibilità di fronte a feedback negativi o punizioni, come si è potuto rilevare nei diversi studi con compiti di decision-making. Le conseguenze negative, nel breve e lungo periodo, che la messa in atto di questi comportamenti può portare sono di notevole impatto non solo nella vita dello psicopatico, ma anche delle persone che gli stanno attorno e nella società in cui vive.

L’orientamento professionale nell’era di internet: l’operatore diventa sostituibile?

L’ orientamento professionale oggi rappresenta una delle attività decisionali più importanti e complesse che investe la maggior parte degli individui anche in diverse fasi della vita. Il supporto alla scelta, però, non sempre riguarda solo la sfera della scelta prettamente professionale.

Teresa Di Fiore

 

La scelta professione è solo una delle diverse fasi che caratterizzano la vita della persona, accanto ad essa ve ne sono altre ugualmente importanti, come la scelta del percorso scolastico da intraprendere.

Per fronteggiare il mercato del lavoro, oggi in continuo mutamento, una prima forma di orientamento professionale necessaria è la consulenza di carriera, un’attività formativa finalizzata principalmente ad analizzare la storia professionale e le motivazioni sottostanti le scelte intraprese.

Holland e la sua teoria delle personalità professionali negli ambiti lavorativi

Uno dei pionieri nell’ambito dell’ orientamento professionale è sicuramente Holland, con la sua teoria delle personalità professionali negli ambiti lavorativi. Holland, infatti, è il primo autore ad attribuire una personalità alle diverse professioni. Così come gli individui si differenziano notevolmente in termini di personalità, anche i mestieri possiedono delle caratteristiche che li differenziano notevolmente e li rendono adatti solo a determinate personalità. È proprio il match tra individuo, con la sua personalità, e professione che permette una buona scelta professionale.

Nell’attribuire una personalità alle diverse professioni, Holland ne individua anche diverse tipologie, in modo particolare i tipi descritti dall’autore sono sei. Questo modello è anche conosciuto con l’acronimo RIASEC, o modello esagonale. In realtà l’esagono descritto dall’autore contiene al suo interno un cerchio, per indicare la mobilità, il dinamismo e l’attraversabilità da un tipo all’altro, sottolineando come sia importante considerare la grande variabilità umana in un modello circolare.

Nello specifico, Holland sostiene che gli individui godano di una situazione di benessere, efficacia e soddisfazione laddove gli interessi degli stessi incontrano un contesto adeguato. Bisogna trovare, quindi, il giusto connubio tra una determinata professione e un determinato tipo di personalità. Solo in questo modo, trovando il giusto fit tra le due personalità, possono essere fatte scelte consapevoli.

Quali fattori guidano l’ orientamento professionale?

Il lavoro ha un ruolo fondamentale nella vita delle persone, partecipa allo sviluppo della personalità, rappresenta un’opportunità di benessere e soprattutto rende gli individui cittadini attivi. Le motivazioni sottostanti la spinta quasi innata degli individui a lavorare possono essere rintracciate nel bisogno di relazionarsi con gli altri, nel bisogno di esprimere un potere e nel bisogno di autorealizzazione e soddisfazione personale.

La scelta professionale entra a far parte dell’identità delle persone, ne esprime un vero e proprio bisogno, per questo è importante indagare gli interessi delle persone, partire da una semplice domanda “cosa ti piace fare?”, evitando di focalizzarsi solo sulle capacità.

Nello specifico, partendo dalle inclinazioni e vocazioni professionali degli individui, Holland individua 6 tipologie professionali:

  • Realistico: ancorato alle cose, senza grandi bisogni cognitivi, con uno spiccato bisogno di contatto con la materialità. Professioni tipiche sono: parrucchiere, muratore, artigiano, fabbro.
  • Investigativo/Intellettuale: ama lavorare con le idee, ha bisogni cognitivi elevati, incline alla risoluzione di problemi. Una professione tipica è l’avvocato.
  • Artistico: legato alla sfera del bello, dell’estetica e della creatività. Poco routinario. Il musicista è una professione tipica
  • Sociale: ama lavorare con gli altri e per gli altri, ha bisogno di sentirsi utile allo sviluppo dell’altro, prendendosene cura. Per esempio, il medico o l’insegnante.
  • Enterprising/Imprenditoriale: interviene nella gestione degli alti vertici, è fortemente motivato a raggiungere posizioni di potere, ed ama assumersi responsabilità in prima persona. Un esempio è il politico.
  • Convenzionale: ama gli ambienti ordinati, incline a svolgere compiti ripetitivi. Si caratterizza per una propensione alla routine. Un esempio di professione è la segretaria o l’impiegato in un ufficio postale.

Tra queste categorie non vi è una gerarchia, ogni tipologia corrisponde ad una personalità specifica, riflettendo interessi e vocazioni.

Il Missouri Occupational Card Sort (MOCS)

Uno strumento pratico ed efficace per far emergere le preferenze partendo dalla teoria delle differenze individuali è il Card Sort, basato sul Missouri Occupational Card Sort (MOCS). Al soggetto viene dato un mazzo di 60 carte, dove sono indicate le diverse professioni. Ogni carta riporta sul retro uno dei codici individuati da Holland. Viene chiesto di dividere le carte in 3 diversi gruppi, a seconda della gradevolezza o meno della professione indicata sulla carta, chiedendo di immaginare realmente di svolgere quella determinata professione.

L’operatore gioca un ruolo fondamentale in questo processo, percepito quasi come un gioco se il clima è rassicurante, favorendo l’alleanza operativa. Fondamentale in questa fase è far verbalizzare a voce alta al cliente le motivazioni sottostanti la scelta, al fine di far emergere il processo cognitivo dal quale la scelta scaturisce. Il cliente deve spiegare e motivare la scelta, talvolta rivedendo anche l’iniziale categorizzazione, soprattutto per le professioni che occupano una posizione neutra.

Successivamente si passa ad identificare le motivazioni sottostanti i diversi raggruppamenti, ovvero cosa accomuna le professioni che risultano gradevoli e cosa accomuna quelle che non piacciono al cliente. In questo modo si passa da una valutazione delle diverse professioni ad una valutazione del bisogno insito nelle scelte.

Nell’ultima fase viene chiesto al cliente di scegliere le dieci professioni con indice di gradevolezza più alto e di ordinarle dalla decima posizione alla prima. Vengono poi rilevati i codici che compaiono più frequentemente, ottenendo un codice di tre lettere, dove la lettera centrale assume il valore più rilevante. In questo modo si ottiene un profilo vocazionale, emergono i bisogni sottostanti le scelte.

Altri modelli di riferimento per l’ orientamento professionale

Il modello di Holland, basato sulla teoria delle personalità professionali negli ambiti lavorativi è sicuramente il modello dominante nell’ambito della valutazione degli interessi e della consulenza di carriera e nel processo di orientamento professionale, tuttavia, diversi sono gli autori che sostengono con forza la necessità di ampliare tale modello, considerando riduttivo basare una valutazione solo su sei tipologie. La dimensione degli interessi personali si caratterizza per la sua complessità e notevole variabilità, a partire dalla quale, autori come Day e Round (1997) hanno sviluppato 28 definizioni degli interessi di base.

Partendo da queste considerazioni, e dopo aver analizzato la letteratura presente in merito allo sviluppo di indicatori della vocazione professionale, Hsin-Ya Liao, Patrick Ian Armstrong e James Rounds hanno messo a punto un set di Indicatori di Interesse di Base (BIM) di dominio pubblico, liberamente disponibili su un sito web. Questi ed altri studi hanno permesso di commercializzare scale per la valutazione dei propri interessi, ricorrendo alla modalità dell’autocompilazione, permettendo a chiunque di accedere ad una rapida ed, in parte, esaustiva valutazione dei propri interessi, ottenendo un profilo professionale.

L’importanza dell’operatore nell’ orientamente professionale. I questionari NON bastano!

Un’indagine pilota ci ha permesso di indagare come vengono percepite le diverse modalità di somministrazione, autocomplativa o guidata da un operatore, da parte degli individui, ai quali è stato chiesto di scrivere un breve commento personale.

Dall’analisi delle relazioni è emerso che la maggior parte dei soggetti ha rilevato un riscontro concreto tra il profilo emerso durante la modalità autocompilativa e le loro idee personali sui propri interessi e vocazioni. Tuttavia, nonostante abbiano valorizzato quelli che sono i punti di forza di un test autocompilativo, vi era quasi un totale accordo sulla superiorità, in termini di confronto e orientamento, della modalità guidata da un operatore.

In modo particolare gli individui hanno mostrato interesse per la componente non verbale che emerge durante l’interazione con l’operatore e che necessariamente viene a mancare nella modalità autocompilativa.

Inoltre, la possibilità di riflettere sulle proprie preferenze e di modificarle in modo ponderato, offerta dalla compilazione guidata, è totalmente assente nella modalità autocompilativa, dove la struttura del dialogo risulta estremamente rigida e dove viene negata la possibilità di verbalizzare le motivazioni sottostanti la scelta. La presenza di un operatore con il quale instaurare un’alleanza facilita la verbalizzazione degli interrogativi che investono la sfera della scelta professionale, spingendo lo stesso interlocutore a cercare risposte e fare chiarezza.

Da quanto è emerso, dunque, la modalità autocompilativa potrebbe comunque essere un valido strumento per una forma iniziale di orientamento professionale, al quale deve necessariamente far seguito l’intervento e il supporto di un operatore qualificato, al fine di favorire una scelta ragionata e consapevole.

Questa prima indagine ci ha permesso di sviluppare interessanti spunti per studi futuri. Un possibile punto d’incontro tra queste due modalità potrebbe essere quello di offrire la disponibilità di un operatore da remoto durante l’autocompilazione, offrendo agli interlocutori la possibilità di confrontarsi con un esperto, favorendo l’imprescindibile processo di verbalizzazione che accompagna le scelte professionali.

Come i bambini: immagina, crea, gioca e condividi (2018) di M. Resnick – Recensione del libro

Mitchel Resnick, autore del libro Come i bambini e progettista di linguaggi di programmazione, ha dedicato tutta la vita professionale all’ideazione di strumenti e strategie che sviluppino la creatività, creando una connessione con la tecnologia.

 

Cosa vuol dire essere creativi? In che modo è possibile incentivare la creatività dei bambini? Quali sono gli strumenti che possono favorire un processo creativo?

A queste domande ha cercato di rispondere Mitchel Resnick, autore del libro Come i bambini e progettista di linguaggi di programmazione, che ha dedicato tutta la vita professionale all’ideazione di strumenti e strategie che sviluppino la creatività, creando una connessione con la tecnologia. Andando di pari passo con lo sviluppo degli ultimi anni, è opportuno utilizzare le nuove tecnologie per favorire un apprendimento creativo. Per questo, Resnick, con i suoi collaboratori del MIT Media Lab, ha sviluppato programmi e dispositivi che hanno lo scopo di dar modo a ciascuno di far emergere la propria creatività in maniera individuale.

La creatività è ciò che favorisce il progresso della società e gli educatori hanno il ruolo di creare le condizioni per far sì che i bambini possano tirar fuori le proprie idee originali e non assumere una posizione di apprendimento passivo e tradizionale. Come i bambini è un libro che si rivolge, infatti, a tutti coloro che sono a contatto con bambini e ragazzi e che hanno la possibilità di utilizzare la tecnologia per far emergere la creatività di ognuno; si tratta di una lettura davvero interessante per educatori, insegnanti e genitori.

L’apprendimento creativo e le nuove tecnologie

Colui che per primo ha ispirato Resnick nell’ideazione di tali dispositivi e programmi è Frobel, il quale ha proposto una forma di apprendimento per bambini di 5 anni differente da quella classica, che si basava su un approccio trasmissivo delle informazioni. L’idea di Frobel è quella di concepire la scuola come un giardino dell’infanzia, in cui l’apprendimento avviene attraverso l’esperienza diretta con il mondo circostante e con la scoperta. Molti giochi educativi attuali, tra cui i mattoncini LEGO, sono stati inventati ispirandosi alle idee di Frobel.

Secondo Resnick, la spirale dell’apprendimento creativo prevede le seguenti fasi: immaginare, creare, giocare, condividere, riflettere e immaginare ancora. I materiali che si utilizzano, come i mattoncini, i pastelli, il cartoncino o la tecnologia sono strumenti che possono favorire tale spirale. E per favorire la creatività attraverso la tecnologia, Resnick ha ideato Scratch, un linguaggio di programmazione che consente di creare storie interattive, animazioni, giochi e tutto può essere condiviso all’interno di una comunità virtuale. In questo modo, tutti possono visualizzare i lavori degli altri e possono idearne dei nuovi o modificare quelli già esistenti, creando così un lavoro condiviso. L’utilizzo di questo programma ha molteplici finalità e vantaggi: consente alla creatività di ciascuno di emergere, di lavorare per dei progetti, di imparare facendo, di scambiarsi consigli all’interno di una comunità, di creare con la tecnologia. Tale strumento può favorire la motivazione intrinseca all’apprendimento, consente di progettare e creare e di non assimilare passivamente informazioni; peraltro favorisce le connessioni e le collaborazioni tra bambini anche a distanza.

Sebbene i pareri rispetto alle nuove tecnologie possano essere discordanti, come sostiene Resnick il problema non è la nuova tecnologia in sé, ma l’uso che se ne fa; si può optare per giochi e attività che rendono passivi in questa interazione o si possono ideare strumenti e programmi che aprono mille possibilità e che rendono il bambino attivo nel processo di apprendimento creativo e di gioco.

Per questo, la lettura del libro Come i bambini può essere molto utile per gli educatori che si confrontano quotidianamente con bambini e ragazzi che utilizzano molto i videogiochi o i giochi online, allo scopo di aprire nuove possibilità e utilizzare la tecnologia con una modalità differente che favorisca il proprio ruolo attivo nello sviluppo di nuove idee.

Contrastare le modalità tradizionali di insegnamento e apprendimento non è facile, ma ci si può provare e i risultati sono sicuramente migliori e più duraturi. Utilizzare Scratch e altri programmi simili con alcuni bambini poco motivati e capaci di apprendere tradizionalmente, vi potrà sorprendere!

I luoghi del corpo

Non vorrei, ma mi trovo a pensare che Merlau-Ponty aveva ragione: il corpo è lo strumento con cui conosciamo il mondo.

 

Passo una parte significativa del mio tempo al circolo sportivo. Non sono un animale da circolo, normalmente vedo pazienti in psicoterapia, scrivo lavori scientifici, contratto con mia figlia l’orario a cui andrò a riprenderla, guardo Daredevil con mio figlio, mi porto alla pari con Breaking Bad. Ma appena posso gioco a tennis, pratico step e fit boxe coreografati. Musica, esercizio e armonia, robe che ci devi mettere la testa e mi danno un gusto pazzesco: rotazioni, passo di mambo, calci e pugni mentre si balla. Sulla terra rossa fatico per mettere su un rovescio a una mano decente, il lancio di palla per il servizio è un chiaro esempio di come sia difficile disaccoppiare il movimento degli arti. Il mio corpo non esegue con fedeltà i movimenti che vedo su Eurosport, la pallina va per i cavoli suoi, non dove dovrei colpirla: verticale sulla testa e molto alta. I miei neuroni specchio, c’è poco da fare, non si allineano spontaneamente con quelli di Federer. Eppure quando tiro a tutto braccio un dritto incrociato in top per un istante sento forza, potenza, trionfo, aspetto la palla che torni per la più comoda delle volée come un felino della savana pronto al morso finale. In quell’attesa non ho età né memoria.

Mi guardo in giro. Il circolo è un luogo del corpo. Io ci sto bene, palme, piscina, mantengo la mia attenzione sulle molte persone gradevoli, escludo dalla vista le altre. Siepi di rosmarino e limoni. E mi guardo ancora in giro. I luoghi del corpo: simboli della contemporaneità? Forse. Non sopporto la sociologia grossolana. Facile definirli luoghi di esibizionismo, di riparazione narcisistica del corpo come oggetto da mostrare. Sì, per molti lo è. La manager rampante che, mi dicono le amiche, si studia il sedere nello spogliatoio prima e dopo ogni passaggio di vestizione e svestizione. Single, competitiva, pettinatura perfetta. Ok, questo è il corpo-monetizzato. Niente di nuovo.

Questa storia non mi basta. Vedo donne tra i 30 e i 60 giocare tre partite di doppio consecutive. È una bella giornata, ci sta. Ma che significa? Me lo chiedo a lungo. Il dato empirico sotto gli occhi è incontrovertibile: giocano. Competono, combattono, si divertono, litigano per una pallina sulla linea. Bambine divertite e pronte alla zuffa. Non è una risposta sufficiente per me. Io ci vedo anche fuga.

Mi si chiariscono le idee se penso a Sarah, amica ebrea con un perfetto, purissimo senso di colpa ebreo. Magra, intelligente, profilo affilato, simpatica. Sempre pronta a rispondere al telefonino alla grande madre mediterranea o alla figlia. E allora per lei il circolo è salvezza, il corpo riparato e scattante è un santuario che protegge dal dovere monoteista che chiama al sacrificio. Divertirsi fin quasi a stordirsi come antidoto a obblighi implacabili. È già una risposta migliore, non l’unica.

Gioco a tennis con Massimo, un distinto signore con lunghi capelli bianchi, baffi e occhi azzurri. Invidioso, lo immagino grande seduttore, anche adesso è evidente che piace alle donne. Ha perso la moglie pochi anni fa. La sua metà della risposta è il sorriso con cui entra in campo. L’altra metà me la offre Angelo, 50 anni tra due giorni, per nulla contento di compierli. L’ombra della fine, è come se mi dicessero. Sul campo da tennis l’ombra della fine svanisce. Impazzendo a lottare con la pallina, che non va mai dove davvero vorresti, e scontrandoti con l’avversario e le tue imperfezioni, sei fuori dal tempo, esattamente come un bambino in un giorno di estate. A quell’età le otto di sera non arrivano mai, non esiste l’archetipo platonico di crepuscolo. È un’invenzione delle madri, di fronte alla cui esistenza possiamo sempre mostrarci scettici. Un’incredulità radicale.

Le mie amiche fanno ginnastica funzionale, qualcuna cross-fit. Lì c’è più che il rassodare le natiche. Sfidano i limiti, lo fanno anche i maratoneti, ma loro fatico a capirli davvero. Avvocatesse, casalinghe, ex-direttrici, resistono a serie di squat e push-up che io a stento concepisco. Sono lì per mostrare qualcosa a se stesse: che ce la possono fare, nessuno potrà sottometterle, sconfiggerle, anche solo fermarle. Mi sembrano quelle donne che solo i fratelli Cohen sanno descrivere: la detective di Fargo, semplice, umile, solida e inarrestabile. Fianchi larghi e cervello acuto, l’incarnazione della madre terra in cui pianti radici e otterrai frutti. E naturalmente il corpo erotico, tute aderenti, scollature poco pronunciate ma sufficienti, storie clandestine, alcune le ho sapute, altre le immagino, che danno eccitazione e illusione. Il corpo acceso come antidoto alla noia.

Purtroppo anche al circolo ho dei momenti in cui la mia mente è rapita da pensieri di lavoro. Non vorrei, ma mi trovo a pensare che Merlau-Ponty aveva ragione: il corpo è lo strumento con cui conosciamo il mondo. Gli scienziati oggi parlano di cognizione incorporata. Noi psicoterapeuti riscopriamo l’importanza del lavoro sul corpo e sul comportamento, leggiamo Bessel van der Kolk, Patricia Ogden e prima di loro Alexander Lowen. Diciamo ai nostri pazienti che cambieranno nell’atto di muoversi in modo diverso. Agisci il bene, viene detto a un vecchio malvagio in un racconto di Isaac Singer, anche se non lo senti, il resto seguirà.

In una mattina soleggiata di un marzo che ha visto la neve, ripenso alle parole di Massimo e di Angelo e trovo la mia risposta. Colpisco un dritto incrociato a tutto braccio, gli ho impresso una rotazione esterna velenosa, ho mirato all’incrocio delle righe, aspetto che la palla scenda. Sono guidato dalla fiducia incrollabile che resterà in campo, nell’attesa il tempo è divisibile all’infinito, non ho paura del male e non esiste la morte.

Resilienza e stili di coping di fronte alle calamità naturali: i fattori culturali che li influenzano

La capacità di affrontare le conseguenze di una calamità naturale nei giovani sarebbe influenzata da differenze demografiche e culturali. Lo afferma uno studio pubblicato su School Mental Health

 

Sembrerebbe che le strategie di coping messe in atto durante un disastro naturale siano fortemente determinate dallo status demografico e dalla cultura di appartenenza.

Resilienza e stili di coping: cosa sono e come li usiamo

Gli stili di coping sono l’insieme delle strategie psicologiche, mentali e comportamentali, che gli individui mettono in atto per affrontare una certa situazione e in generale gli eventi della vita quotidiana.

Tara Powell, docente all’Università dell’Illinois ha affermato:

Sappiamo che il modo in cui i soggetti affrontano un disastro, di qualsiasi natura, influenza la probabilità futura che essi sviluppino psicopatologie connesse come il disturbo da stress post-traumatico, sintomi depressivi o ansiosi. Quello che ancora dobbiamo chiarire è quale sia lo strumento migliore che i ricercatori e i medici possono utilizzare per valutare le strategie di coping nella popolazione di giovani.

Resilienza e stili di coping: lo studio su adolescenti colpiti dall’uragano Katrina

Lo studio condotto ha indagato le strategie di coping messe in atto da delle ragazze della classe media nella Parrocchia di St. Tammany, una zona di New Orleans, danneggiata dall’uragano Katrina passato nel 2005. Sei mesi dopo il disastro alle ragazze è stato chiesto di compilare una versione adattata del questionario Kidcope, strumento utilizzato dai clinici per esaminare le strategie di coping quali la distrazione, il ritiro sociale e il supporto sociale.

Ciò che ne è emerso è che le strategie di coping utilizzate dalla ragazze esaminate potevano essere ricondotte a quattro fattori generali, che comprendevano comportamenti di coping positivi e comportamenti esternalizzanti quali la colpa, la rabbia e il ritiro sociale.

Confrontando le strategie di coping di questo campione con quelle usate da ragazzi afroamericani, coetanei ma con uno status socio-economico inferiore, sopravvissuti anch’essi all’uragano Katrina, i ricercatori hanno trovato poche somiglianze. Al contrario, le strategie messe in atto dalle ragazze sono risultate simili a quelle dei giovani della classe media colpiti dall’uragano Andrew, che si abbatté sulla Florida nel 1992.

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Resilienza e stili di coping: sarebbero più efficaci negli adolescenti a basso reddito

Kate Wegman, autrice dello studio ha affermato

Abbiamo scoperto che la cultura influenza molto le reazioni degli adolescenti in seguito ad una calamità. Alcuni dei valori associati alla resilienza, come l’attenzione per la comunità e alla rete di supporto, sono meno importanti nei soggetti della classe media rispetto a quelli con basso reddito. I valori culturali delle classe media sembrano essere più legati all’individualismo e alla responsabilità personale.

I ricercatori hanno scoperto inoltre che le strategie comportamentali utilizzate dal campione preso in esame avevano relazioni complesse tra loro: la strategia di dimenticare l’accaduto, che era associata principalmente al ritiro sociale, era anche connessa alla colpa e alla rabbia.

Comprendere il come e il perché le vittime di un disastro naturale utilizzano diversi metodi di coping e come questi possono essere influenzati da diversi fattori, appare fondamentale al fine di progettare interventi e attivare servizi utili in queste situazioni.

Un grande limite è rappresentato dal fatto che il Kidcope, lo strumento utilizzato, è stato ideato per la valutazione dei soggetti gravemente malati costretti a lunghi ricoveri in ospedale, situazione che differisce rispetto a quella considerata nella ricerca. Gli autori affermano che lo sviluppo di strumenti efficaci e convalidati, ideati per affrontare tali situazioni d’emergenza, appare una priorità nell’ambito della ricerca al fine di aiutare al meglio i sopravvissuti ai disastri naturali.

L’area di Wernicke: la sede della comprensione del linguaggio – Introduzione alla Psicologia

L’ area di Wernicke è stata scoperta nel 1874 da un neurologo tedesco, Carl Wernicke, da cui ha ereditato il nome. L’ area di Wernicke è riconosciuta, insieme all’area di Broca, come una delle due aree nella corteccia cerebrale responsabile del linguaggio.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Essa è localizzata nell’area 21 e 22 di Brodmann, che corrisponde al segmento posteriore del giro temporale superiore dell’emisfero dominante, che per il 95% delle persone risulta essere l’emisfero destro, e comprende la corteccia uditiva sul solco laterale.

Le aree 21 e 22 di Brodmann, rappresentano il centro focale dell’ area di Wernicke, nonostante siano coinvolte anche altre aree nel processo di comprensione del linguaggio. Infatti, in questo caso è necessario includere anche le aree 20, 37, 38, 39 e 40, coinvolte nei processi di composizione delle parole e in altri tipi di informazioni linguistiche aggiuntive.

L’ area di Wernicke è strettamente legata alla corteccia auditiva primaria, che svolge un ruolo importante nella comprensione del linguaggio parlato. Inoltre, a livello anatomico, esistono numerose connessioni tra l’ area di Wernicke e l’area di Broca; quest’ultima è deputata principalmente alla comprensione del linguaggio. Queste due aree, Wernicke e Broca, sono connesse tra loro da una serie di fascicoli che confluiscono a loro volta nel fascicolo arcuato.

Area di Wernicke: quali funzioni ha

Le funzioni svolte nell’ area di Wernicke sono:

  • Comprensione del linguaggio, sia scritto sia parlato;
  • Gestione della semantica del linguaggio, trasformando le parole nel loro significato.
  • Pianificazione della produzione del discorso.

Queste funzioni rappresentano la base della comprensione del linguaggio, e sono alla base della comunicazione.

Area di Wernicke: cosa accade in caso di lesioni?

Le lesioni che possono verificarsi all’ area di Wernicke, a causa di un ictus, possono portare a conseguenze negative nell’uso del linguaggio.

L’ afasia di Wernicke, riguardante la comprensione del linguaggio, è caratterizzata dalla presenza di una comunicazione destrutturata e priva di significato, unita a una deficitaria comprensione del linguaggio. Tuttavia, nonostante il messaggio prodotto sia carente di significato, il discorso è trasmesso in maniera fluida, perché la produzione del linguaggio non è compromessa dal disturbo.

A differenza dell’afasia di Broca, il paziente utilizza una grande quantità di parole funzionali, oltre che tempi verbali complessi e frasi subordinate.

A volte, però, i pazienti sostituiscono le parole con altre aventi significato simile loro e questo effetto prende il nome di paralessia semantica, in cui anziché dire la parola che si cerca, se ne dice una diversa con significato uguale.

L’ afasia di Wernicke, dunque, si mostra con fluidità linguistica. Infatti, i soggetti affetti da questo disturbo non hanno nessun problema a sostenere un discorso, seppure carente di significato. Tutto questo si verifica perché la struttura cerebrale incaricata della produzione del discorso è l’area di Broca, e conferma che l’ area di Wernicke è specializzata nella comprensione e nella semantica del linguaggio, nonostante sia connessa ad altre aree che sono in grado di proseguire le loro funzioni in maniera indipendente.

Un’altra caratteristica della afasia di Wernicke è l’incomprensione uditiva. Il paziente, quindi, è incapace di comprendere ciò che gli altri gli comunicano. E i pazienti con suddetto tipo di afasia sono inconsapevoli della loro assenza di comprensione. Grazie ai notevoli sviluppi scientifici riguardo l’ area di Wernicke, è chiaro ormai come danni a quest’area siano alla base dell’eziologia di differenti disturbi.

La comprensione del linguaggio può essere valutata, per esempio, attraverso il token test costituito da una serie di comandi che coinvolgono 20 token di diverse forme, dimensioni e colori presentati attraverso un ordine di crescente complessità. Una compromissione della comprensione può essere dovuta al fallimento del riconoscimento delle parole, della memoria uditiva, della formazione della struttura sintattica o della discriminazione del parlato.

Afasia di Wernicke: i muscoli coinvolti

Nonostante tutta la produzione linguistica sia il risultato di una serie di movimenti muscolari, nuove ricerche dimostrano che i meccanismi neurologici coinvolti nella produzione linguistica non sono semplicemente limitati ai comandi motori che sollecitano i muscoli. Quindi, prima che vengano inviati i suddetti comandi motori, chi parla deve creare un’immagine mentale dei suoni che costituiscono le parole. Un’esemplificazione di ciò potrebbe essere il sapere che la parola “neve” fa rima con “beve” senza il bisogno di dire tali parole ad alta voce. Una rottura di questo processo di recupero comporta uno spostamento improprio delle parole pronunciate. Tale fenomeno è un punto chiave dell’ afasia di Wernicke, comunemente associata a deficit di comprensione, nonostante anche i problemi nella produzione del linguaggio rimangono una componente costante.

Area di Wernicke: sindromi cliniche

L’ area di Wernicke potrebbe essere danneggiata anche dalla carenza di vitamina B1 (tiamina). Questa carenza, alla lunga, potrebbe portare al manifestarsi della sindrome di Wernicke-Korsakoff. L’ area di Wernicke è, infatti, spesso associata all’alcolismo cronico, nonostante l’encefalopatia di Wernicke può avere altre cause eziologiche: malnutrizione, aumento del fabbisogno metabolico o nel contesto della dialisi renale. Statistiche recenti hanno mostrato che il 12,5% dei pazienti con una storia di alcolismo cronico hanno mostrato lesioni encefalopatiche nell’area di Werincke. Le lesioni in quest’area potrebbero consistere in una congestione vascolare, in emorragie petecchiali, e in proliferazione microgliale. I casi cronici possono anche includere gliosi, demielinizzazione e perdita di neuropilo con relativa conservazione dei neuroni. Nonostante la perdita neuronale è maggiormente predominante nel talamo mediano non mielinizzato, l’atrofia dei corpi mammillari è specificamente associata all’encefalopatia di Wernicke.

I sintomi cardinali della sindrome di Wernicke includono, inoltre, atassia dell’andatura, nistagmo orizzontale ed encefalopatia. L’encefalopatia potrebbe essere caratterizzata da distraibilità, delirium e un profondo disorientamento spazio-temporale e relativo alle persone. Sebbene il nistagmo orizzontale sia la scoperta oculare più comune, potrebbe presentarsi anche il nistagmo verticale. L’atassia esperita in questi pazienti è una combinazione di disfunzioni vestibolari, coinvolgimento cerebellare e polineuropatia. Altri ritrovamenti comuni potrebbero includere una severa ipotensione, ipotermia o coma.

In conclusione, a causa della grande plasticità del cervello, se l’emisfero sinistro è danneggiato, è possibile che il linguaggio si possa sviluppare anche nell’emisfero destro. Grazie a questo fenomeno di plasticità cerebrale, l’impatto delle lesioni cerebrali è ridotto, consentendo, in questo modo, il manifestarsi di un normale sviluppo del linguaggio.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Le mani in pasta. Riconoscere e curare il disturbo selettivo dell’alimentazione in infanzia e prima adolescenza (2018) – Recensione del libro

Il volume Le mani in pasta. Riconoscere e curare il disturbo selettivo dell’alimentazione in infanzia e prima adolescenza, curato da Laura Dalla Ragione e Paola Antonelli è incentrato sulla delicata questione dei disturbi del comportamento alimentare nell’infanzia e nella prima adolescenza esplorata attraverso una prospettiva complessa che dà voce a ciascuno dei poli relazionali che intervengono a vario titolo nell’insorgenza e nella cura di un comportamento alimentare problematico.

 

In effetti, se molto è stato scritto rispetto ai disturbi del comportamento alimentare in età adolescenziale ed adulta, non si riscontrano nel panorama attuale testi che si occupino in maniera specifica della fascia infantile, a fronte di un preoccupante abbassamento dell’età di insorgenza di queste problematiche che si è spostata al di sotto i 14-15 anni, interessando sempre più bambine e bambini di 10-11 anni.

Risulta, pertanto fondamentale, come sottolinea Laura Dalla Ragione, per gli operatori che si interessano di queste tematiche – medici, pediatri, psicologi, psichiatri e nutrizionisti:

costruire percorsi assistenziali che tengano conto dell’età dei pazienti e programmi di prevenzione familiari e scolastici per riconoscere e/o prevenire un disturbo così insidioso il cui esordio precoce comporta alti rischi di compromissioni organiche e psicologiche.

La premessa che orienta tutto il lavoro è innanzitutto quella del cibo e del nutrimento come prima esperienza di relazione con un Altro da sé che l’essere umano sperimenta e, pertanto, irriducibile ad una questione di puro nutrimento biologico, come commenta l’antropologa Angela Molinari nella prima parte testo:

Si può affermare che il bambino ha bisogno di essere nutrito, ma non si può dire esattamente di che, dal momento che non è possibile separare il nutrimento materiale (…) dall’insieme delle risposte simboliche ed emozionali altrettanto essenziali per qualificare il suo divenire come essere propriamente umano.

Muovendosi all’interno di una tale cornice, a partire dalla presentazione delle tappe evolutive del comportamento alimentare del bambino, corrispondenti alle tappe principali del suo sviluppo cognitivo e sociale, ci si addentra nel nucleo principale del testo, ossia: cosa succede nel mondo interiore di un bambino che è disinteressato all’alimentazione ed ha paura del cibo e/o seleziona solo alcuni alimenti?

In Le mani in pasta, i diversi contributi degli autori sembrano ruotare attorno ad un perno principale, ossia, se è nella relazione che vanno ricercati i significati principali di un comportamento alimentare problematico che ha esordio nell’infanzia e nella prima adolescenza, è proprio su questa che bisogna focalizzare gli interventi terapeutici, poiché

Non ci sarà nessuna cura se non ci prenderemo cura della relazione e in diversi modi e con diverse modalità.

come sostiene Paola Antonelli nel paragrafo dedicato all’attaccamento e alla regolazione emotiva.

La classificazione diagnostica

Nel volume viene riservato uno spazio alle classificazioni diagnostiche, sia a quella contenuta nel DSM 5, che ad altre prospettive più recenti che sembrano tenere in maggiore considerazione gli aspetti specifici della psicopatologia evolutiva. Tra queste, quella elaborata da Irene Chatoor (“ZERO-TO-THREE”) nella quale lo sviluppo del bambino viene visto come interazione dinamica continua tra quest’ultimo e l’ambiente che lo circonda, viene utilizzata come riferimento anche per la presentazione di alcuni casi gestiti dall’Ambulatorio per i DCA di Umbertide, che fa parte della rete umbra dei servizi dedicati alla cura dei Disturbi dell’Alimentazione.

In Le mani in pasta, le classificazioni diagnostiche vengono presentate con la consapevolezza di chi quotidianamente fa esperienza di come oltre i confini diagnostici ci siano le persone, con le loro storie ed il loro vissuti.

Il racconto del trattamento attraverso alcuni esempi clinici

Nella terza parte del volume, si fa spazio attraverso una narrazione molto fruibile e densa di aspetti relativi alle modalità del prendersi cura, proprio alle storie con il loro “unicum” al quale il processo del prendersi cura si indirizza. Ed così che l’evitamento del cibo, la ruminazione, l’alimentazione selettiva acquistano dei significati in rapporto alle relazioni genitori-figlio, agli eventi che un nucleo familiare si è trovato o si trova ad affrontare, alle risorse individuali, di coppia e familiari che è possibile mettere in campo, alle esperienze traumatiche, alle modalità di alimentazione che riguardano il nucleo familiare, al rapporto con i pari, alla scuola (…).

Attraverso i casi presentati, è possibile ripercorrere l’intero iter che viene attuato presso il Servizio ambulatoriale di Umbertide, dall’accoglienza, alla valutazione, ed all’impostazione di un progetto terapeutico. Nell’ambito dell’approccio terapeutico, in maniera molto coerente rispetto alla concettualizzazione ed alle premesse teoriche che sono ben delineate nelle prime parti del testo, la “messa in scacco dell’intero sistema familiare” nei comportamenti di rifiuto/iperselezione del cibo è tenuta in massima considerazione includendo i genitori fin dalle prime fasi di valutazione, e poi di presa in carico. Altro punto fondamentale del lavoro terapeutico presentato parte dal presupposto che, se il cibo non può essere scisso dagli aspetti relazionali, gli aspetti corporei da quelli relazionali, affettivi e socio-culturali, l’assetto individuale del bambino con quello dell’ambiente familiare in cui vive, vi è bisogno di un contenitore altrettanto complesso che integri e ricomprenda tutte queste varie dimensioni e tale contenitore è costituito proprio dall’equipe multidisciplinare.

Il percorso di cura, che si ispira al modello dell’Educazione terapeutica familiare elaborato da Rita Tanas, viene ampiamente esemplificato e dettagliato attraverso una serie di fasi e di modalità nelle quali il cibo viene utilizzato come mediatore per unire gioco, relazione e terapia. I genitori, lungi dall’esser considerati i colpevoli dell’insorgenza di un disordine alimentare, vengono sollecitati a “mettere le mani in pasta” e a giocare, insieme ai bambini e ai terapeuti affinchè si possa gradualmente “far pace col cibo”. Il percorso integrato di cura è tuttora oggetto di ricerca in merito alla valutazione dell’efficacia, grazie proprio al progetto Le mani in pasta da cui prende il titolo questo libro.

Attenzione particolare è, inoltre, riservata alla relazione educativa nell’ottica di fornire strumenti di lettura e di comprensione a tutti coloro, genitori, insegnanti ed operatori, che a vario titolo sono impegnati in quel processo in cui “ciascuno dei soggetti implicati si arricchisce dell’umanità dell’altro e si apre al senso dell’esistenza” come afferma Chiara De Santis.

Oltre alla famiglia, attivamente coinvolta nel percorso terapeutico e considerata risorsa imprescindibile, l’altro attore sociale a cui gli autori del testo fanno riferimento è rappresentato dalla Scuola che può rivestire un ruolo positivo nell’intervento con bambini che presentano disturbi alimentari, nel caso in cui gli insegnanti siano disponibili a collaborare con i genitori e con l’équipe terapeutica.

L’importanza della prevenzione

Le mani in pasta si conclude con un accenno alla prevenzione ed a cosa significhi, nella pratica, prevenire un disturbo dell’alimentazione. Si rivela preziosa la sottolineatura di quanto sia urgente un cambiamento in termini di “livello” scelto per i programmi di prevenzione in questo ambito e, più nello specifico, di quanto intervenire solo sui fattori di rischio possa dimostrarsi inefficace o addirittura controproducente instillando, in taluni, casi modelli di comportamento che rischiano di divenire modelli da imitare.

In questo senso, le azioni che, invece, si muovono su un livello di prevenzione primaria incentrandosi sui fattori protettivi e/o sulle life skills potrebbero rivelarsi più adeguate nel supportare i bambini ed ai ragazzi nel delicato processo di scoperta e consapevolezza di sé e di costruzione di modalità con le quali far fronte alle difficoltà e ai disagi che essi stessi sperimentano diminuendo la probabilità di incorrere in comportamenti sintomatici di qualsiasi tipologia.

Interazioni sociali reali e interazioni virtuali: quali preservano di più la nostra salute

I contatti sociali reali sembrano esercitare il ruolo di fattori protettivi contro sintomi depressivi e da disturbo da stress post traumatico (PTSD). Non si può affermare lo stesso per i contatti virtuali, come suggerisce uno studio condotto su veterani di guerra, dai ricercatori della Science University e del Veterans Affairs Portland Health Care System.

 

I risultati di suddetto studio, infatti, evidenziano che è proprio il tempo passato fisicamente con amici e familiari a contribuire a ridurre effettivamente i sintomi depressivi e di PTSD nei soggetti. Le ricerche passate hanno mostrato che l’isolamento sociale è strettamente correlato a conseguenze negative sulla salute mentale. Infatti, è ormai chiaro che il supporto sociale sia un fattore precauzionale contro stressors che peggiorano il decorso di depressione, ansia o altri problemi emotivi. Al contrario, la letteratura non ha ancora indagato a pieno se la correlazione con il benessere psicologico si possa estendere anche alle interazioni virtuali sui social media.

Interazioni sociali: l’effetto sulla salute mentale

Proprio per approfondire questo tema, i ricercatori hanno distribuito un questionario online a 587 veterani di guerra statunitensi. I partecipanti sono stati recrutati tramite Facebook (questo fa dedurre che tutti i partecipanti allo studio possono considerarsi utenti Facebook). Nel questionario, i soggetti hanno specificato quanto spesso interagivano con familiari o amici tramite Facebook e quanto faccia-a-faccia. Ogni partecipante è stato, inoltre, esaminato per quanto riguarda le variabili di depressione maggiore, PTSD, abuso di alcol e rischio di suicidio. I risultati mettono in evidenza che i partecipanti con rapporti sociali reali un paio di volte a settimana, hanno ottenuto il 50% in meno nei punteggi per lo scoring di sintomi di depressione maggiore e PTSD rispetto ai partecipanti che non vedevano amici e familiari fisicamente.

I ricercatori dello studio, però, ci invitano ad essere cauti: questi risultati non possono provare una causalità diretta tra contatti sociali e miglioramento della salute mentale. Infatti, nonostante (in questo e in altri studi) si sia rilevata l’influenza delle relazioni sociali sulla salute mentale, è bene tenere in conto che tale correlazione potrebbe anche essere dovuta alle condizioni di salute mentale che, conseguentemente, conducono a un più profondo isolamento sociale e, quindi, a minore interazione faccia-a-faccia.

Interazioni sociali: non sono sostituibili da quelle virtuali

Diversamente, la frequenza delle interazioni virtuali su Facebook non sembra avere effetti sul rischio di depressione o PTSD. Infine, né le interazioni sociali reali né quelle virtuali sembrano essere correlate al rischio di incorrere in abuso di alcol o rischio suicidio per il gruppo dello studio. Inoltre, dallo studio è emerso che un utilizzo frequente di Facebook non porti gli utenti assidui ad ingaggiarsi in un minor numero di interazioni sociali faccia a faccia rispetto agli utenti occasionali. Ciò vuol dire che, i partecipanti che interagivano in maggior misura su Facebook, avevano anche rapporti sociali faccia a faccia più frequenti. Infine, questo studio vuole sottolineare che non è l’interazione sociale on-line (quindi via social media) ad avere benefici sul benessere mentale, quanto la rete sociale nella vita reale a rappresentare un fattore protettivo contro problemi psichiatrici. Prediligere rapporti sociali virtuali a discapito di un caffè, di un pranzo o di una giornata trascorsa a chiacchierare sul divano con familiari e amici potrebbe essere considerato un rischio specifico per la salute mentale dei veterani, i quali tendono ad avere tassi più alti di depressione e PTSD rispetto alla popolazione generale. I risultati dello studio possono essere utili in ambito clinico, per aiutare i professionisti a ricordare l’importanza dei contatti sociali faccia a faccia durate il trattamento dei pazienti.

I contatti sociali virtuali non sono, dunque, degni sostituiti di quelli che viviamo di persona. Le interazioni on-line, infatti, non sostituiscono il guardarsi negli occhi, le carezze, le grasse risate, i sorrisi di comprensione e, soprattutto, non ci permettono di ricevere un caldo e confortante abbraccio.

Flessibilità cognitiva: cambiare regola a seconda del contesto

La nostra sopravvivenza nell’ambiente esterno, ma soprattutto il nostro adattamento ad esso, è dovuta fondamentalmente all’abilità di cambiare strategia d’azione e di pensiero passando in rassegna, mentalmente e in modo rapido, differenti piani d’azione e catene di pensieri per rispondere ai cambiamenti repentini che si verificano in un ambiente dinamico colmo di stimoli che entrano anche in competizione tra di loro (Richter & Yeung, 2012).

 

Questa flessibilità nell’agire e nel pensare, definita flessibilità cognitiva, è sostenuta da processi attentivi che ci consentono di direzionare e allocare risorse in modo adattabile per selezionare la risposta comportamentale più efficace all’interno di un contesto in cui sono presenti numerosissimi e differenti stimoli sensoriali per cui è necessario modificare il piano d’azione precedentemente adottato sulla base di quest’ultimi (Rikhye, Gilra et Halassa, 2018).

Flessibilità cognitiva: come sopravvivere in ogni contesto

Gli autori dello studio presentato sottolineano che, quando l’individuo o l’animale si trova a muoversi in contesti dinamici, per poter essere maggiormente efficace nell’ambiente, è necessario che il suo sistema selezioni online la regola d’azione più appropriata a quel contesto, tra tutte quelle a sua disposizione, tralasciando nello stesso momento quella che, fino a quel momento, l’individuo aveva adottato.

Affinché questo sia possibile, la nostra mente rappresenta in memoria di lavoro gli scopi prefissati e da raggiungere tramite la messa in atto di comportamenti cosiddetti goal-directed, oltre che le regole richieste dal contesto per realizzare gli stessi.

Nella ricerca di Rikhye, Gilra Halassa (2018) appartenenti al Department of Brain and Cognitive Science del Massachussets Istitute of Technology e all’Istituto di genetica dell’Università di Bonn, Germania, pubblicata recentemente su Nature Neuroscience, è stato evidenziato come il talamo medio dorsale sia cruciale per il processo di switch tra le regole richieste da contesti differenti; infatti questa regione del talamo ha il compito di sopprimere le rappresentazioni di quelle regole necessarie per il raggiungimento di uno scopo che però all’interno di quello specifico contesto risulta inappropriato e attivare quelle che al momento sono ad esso convenienti e proprie.

Uno studio del 2017, pubblicato su Nature, di Halassa e colleghi, aveva mostrato come il talamo medio dorsale in associazione alla corteccia prefrontale fosse determinante nel codificare e in seguito tenere a mente un pensiero rafforzando momentaneamente le connessioni con essa, senza approfondire nel dettaglio la relazione tra le due regioni cerebrali.

Per colmare questa mancanza, gli autori del presente studio hanno creato ad hoc un task comportamentale nel quale i topi, precedentemente addestrati, dovevano passare avanti e indietro tra due contesti differenti con regole discordi e contrastanti: nel primo l’animale avrebbe dovuto seguire istruzioni di tipo visivo (es. un fascio di luce per andare a destra, e uno per andare a sinistra) per raggiungere un reward, mentre nel secondo le istruzioni erano di tipo uditivo (es. un tono alto e uno basso) (Rikhye, Gilra et Halassa, 2018).

Flessibilità cognitiva: il talamo ci permette di cambiare regole

L’unico modo per l’animale di risolvere il compito era quello di tenere in mente, per ogni trial e per tutta la durata del compito, le diverse regole discordi tra loro dal punto di vista sensoriale (alcune uditive altre visive) selezionando quella appropriata per raggiungere il reward.

Le evidenze ottenute hanno mostrato come il talamo fosse necessario per compiere in modo efficace il passaggio da una regola all’altra, cambiando di volta in volta il contesto: se infatti i ricercatori interrompevano l’attività del talamo, tramite tecniche di optogenetica, durante il compito, gli animali impiegavano molto più tempo a compiere la modifica della regola per rispondere efficacemente al contesto, in quanto rimaneva online la regola appropriata al precedente contesto (Rikhye, Gilra et Halassa, 2018).

E se gli animali avessero dovuto compiere nuovamente il task, avrebbero dovuto riapprendere le regole in quanto, senza l’attività del talamo, l’animale era in grado di rispondere ad un contesto ma non all’altro come se in mente non ci fosse più la regola del contesto precedente, come se fosse stato riscritta da quella nuova.

I risultati ottenuti potrebbero, a parere degli autori, contribuire all’approfondimento dei circuiti preposti alla flessibilità cognitiva tramite compiti comportamentali e aumentando la loro conoscenza anche in vista dello sviluppo di nuovi sistemi di intelligenza artificiale, soggetti alla cosiddetta “dimenticanza catastrofica”, quando provano ad apprendere un nuovo task, sono “costretti” a riscrivere le regole adottate per riscrivere il precedente.

Le parole che non escono: mutismo selettivo a scuola e intervento cognitivo-comportamentale

Spesso il mutismo selettivo è stato interpretato quasi esclusivamente come un sintomo di situazioni a rischio, di bambini in condizioni di disagio, abusi o traumi. In realtà la maggior parte dei bambini affetti da mutismo selettivo sono solo bambini ipersensibili, estremamente fragili e ricettivi, limitati nella parola da un esasperato stato d’ansia.

Irene Consolini – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Bolzano

 

Jadie a casa parlava normalmente, ma a scuola non aveva mai pronunciato una sola parola. Inoltre, non rideva, non piangeva, non tossiva, non faceva ruttini, non soffriva mai di singhiozzo e non tirava nemmeno su con il naso, sicché molto spesso il muco le gocciolava sul mento. Aveva frequentato un anno supplementare all’asilo, nella speranza che ciò l’aiutasse a superare le sue difficoltà comunicative, invece non era cambiata. Era stata promossa in prima elementare, era un’alunna diligente e meritevole, ma viveva in un terribile isolamento. Alla fine del primo anno scolastico non aveva ancora parlato, così, adesso che aveva quasi otto anni, era stata inserita nella classe speciale.

Così la scrittrice, insegnante ed esperta di psicopatologia infantile Torey L. Hayden, descrive Jadie, una dei suoi quattro alunni di una “classe speciale”, nel travolgente romanzo “Una bambina e gli spettri”.

Il mutismo selettivo è la persistente incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche, nonostante l’eloquio e lo sviluppo del linguaggio siano adeguati all’età. I bambini colpiti da questo disturbo normalmente si esprimono ad alta voce solo in un ambiente famigliare e, non appena escono di casa, si chiudono in un silenzio d’inquietudine (Shipon-Blum, 2014).

È importante sottolineare che il bambino che manifesta questo tipo di difficoltà non sta mettendo in atto un comportamento intenzionalmente oppositivo, non cerca costantemente di attirare l’attenzione di chi lo circonda, al contrario, si sente sopraffatto da uno stato ansioso difficile da gestire a tal punto che, come molto di loro dichiarano: “le parole proprio non vogliono uscire!”(Istituto Beck).

Spesso questo fenomeno è stato interpretato quasi esclusivamente come un sintomo di situazioni a rischio, di bambini in condizioni di disagio, abusi o traumi; in realtà la maggior parte dei bambini affetti da mutismo selettivo sono solo bambini ipersensibili, estremamente fragili e ricettivi, limitati nella parola da un esasperato stato d’ansia (Shipon-Blum, 2014).

Il mutismo selettivo è inteso quindi come un’ansia da comunicazione e la terapia non dovrà mai essere finalizzata a far parlare il bambino immediatamente, ma dovrà aiutarlo a progredire attraverso tappe graduali di comunicazione, per ridurre la sua ansia, aumentare l’autostima e accrescere la fiducia e la comunicazione in situazioni di carattere sociale. Il grado di ansia del bambino in una data situazione, determina la sua capacità a comunicare in quel preciso momento. Più sarà rilassato, più riuscirà a comunicare. Meno sarà rilassato e più intuirà l’aspettativa da parte degli altri che lui parli, più sarà difficile per lui comunicare. L’aspettativa genera un aumento dell’ansia e questo spiega la ragione per cui la maggior parte dei bambini affetti da mutismo selettivo può magari parlare con degli estranei (Shipon-Blum, 2014).

Inquadramento diagnostico del mutismo selettivo

I criteri diagnostici del mutismo selettivo (F94.0) sono i seguenti (DSM 5):

A. Costante incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche in cui ci si aspetta che si parli (per es. a scuola), nonostante si sia in grado di parlare in altre situazioni.
B. La condizione interferisce con i risultati scolastici o lavorativi o con la comunicazione sociale.
C. La durata della condizione è di almeno 1 mese (non limitato al primo mese di scuola).
D. L’incapacità di parlare non è dovuta al fatto che non si conosce, o non si è a proprio agio con il tipo di linguaggio richiesto dalla situazione sociale.
E. La condizione non è meglio spiegata da un disturbo della comunicazione (per es. disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia) e non si manifesta esclusivamente durante il decorso di disturbi dello spettro dell’autismo, schizofrenia o altri disturbi psicotici (APA, 2013).

Nel DSM 5 è specificato che il disturbo è spesso contrassegnato da un’elevata ansia sociale. Generalmente i bambini con mutismo selettivo parlano in casa loro in presenza di familiari stretti, ma spesso capita che non parlino nemmeno davanti ad amici stretti o a parenti di secondo grado, come nonni e cugini.

I bambini con mutismo selettivo rifiutano spesso di parlare a scuola, il che li porta a compromissione educativa o scolastica, dato che gli insegnanti spesso hanno difficoltà a valutare attività come la lettura. La mancanza di parola può interferire con la comunicazione sociale, benchè i bambini con questo disturbo utilizzino talvolta per comunicare strumenti non verbali o che non richiedono il linguaggio (per es. emettono suoni inarticolati, indicano, scrivono) e possono essere disposti o desiderosi di partecipare o impegnarsi in incontri sociali quando non è richiesto il linguaggio (per es. ruoli non verbali nelle recite scolastiche) (APA, 2013).

Le manifestazioni associate al mutismo selettivo possono includere eccessiva timidezza, paura di imbarazzo sociale, isolamento sociale e ritiro, clinging, tratti compulsivi, negativismo, accessi di collera o comportamenti lievemente oppositivi.

Il mutismo selettivo è un disturbo relativamente raro e non è stato incluso come categoria diagnostica negli studi epidemiologici di prevalenza dei disturbi dell’età evolutiva. Il tasso di prevalenza varia, in base al contesto e all’età degli individui del campione, dallo 0,03 all’1%. La prevalenza del disturbo non sembra subire variazioni legate al sesso oppure alla razza/etnia (APA, 2013).

L’esordio del mutismo selettivo avviene di solito prima dei 5 anni di età, ma il disturbo può non giungere all’attenzione clinica fino all’inizio della scuola, dove si ha un aumento dell’interazione sociale e dei compiti prestazionali, come leggere ad alta voce. Il grado di persistenza del disturbo è variabile (APA, 2013).

Una gran percentuale di questi bambini, circa il 90% di essi, presenta in associazione al mutismo selettivo un quadro di fobia sociale Istituto Beck).

Il mutismo selettivo è più frequente in bambini che vivono in famiglie socialmente isolate, in famiglie bilingui, che appartengono a minoranze etniche, o laddove siano presenti altri componenti della famiglia ansiosi, timidi o che presentino difficoltà nelle relazioni sociali (A.I.Mu.Se.).

In alcuni casi, sopratutto negli individui con disturbo d’ansia sociale, il mutismo selettivo può scomparire, ma permangono i sintomi del disturbo d’ansia sociale.

Il mutismo selettivo può portare a compromissione sociale, dato che i bambini possono essere troppo ansiosi per impegnarsi nell’interazione sociale con altri bambini. Nel corso della crescita, i bambini con mutismo selettivo possono andare incontro ad un crescente isolamento sociale (APA, 2013).

Fattori di rischio

I fattori di rischio che possono giocare un ruolo nella comparsa del mutismo selettivo in età evolutiva sono:

  • fattori temperamentali e ambientali: nei genitori si riscontra: affettività negativa, inibizione comportamentale, timidezza, isolamento e ansia sociale
  • fattori legati al linguaggio: lievi o pregressi disturbi del linguaggio
  • fattori fisiologici e genetici: ereditarietà con i disturbi d’ansia (APA, 2013)

Conseguenze della convinzione che il mutismo selettivo sia un comportamento intenzionale

Un luogo comune, relativo al mutismo selettivo, attribuisce a questi bambini una certa intenzionalità nel sostenere il loro silenzio. In realtà un atteggiamento di questo tipo sarebbe davvero in contrasto con l’intenzione comunicativa che normalmente manifestano.

Queste comuni convinzioni contribuiscono a creare il clima di pressione e colpevolizzazione che ostacola la costruzione di un ambiente emotivo favorevole all’emersione della comunicazione verbale, aumentando, paradossalmente, la tendenza a comportamenti inibiti e l’insorgenza dell’ansia sociale. D’altro canto la presenza di precursori in periodi dell’infanzia in cui non è ipotizzabile un’intenzionalità così raffinata in relazione agli elementi in campo, spingono con maggior forza verso ipotesi con presupposti differenti (D’Ambrosio e Coletti, 2002).

Cosa può fare un’insegnante in classe?

Il mutismo selettivo ha un esordio precoce: in genere si presenta all’inserimento nella scuola dell’infanzia o nel primo periodo della scolarizzazione, poiché nell’ambiente scolastico aumentano le aspettative e la pressione affinché il bambino parli (A.I.Mu.Se.).

È importante considerare che nel primo mese di scuola dell’infanzia o primaria i bambini possono essere timidi o riluttanti a parlare. È necessario aspettare che questo periodo iniziale sia passato, prima di ipotizzare la presenza di mutismo selettivo.

Capita però che gli insegnanti tardino a segnalare ai genitori che il bambino a scuola non parla, scambiando il mutismo selettivo per semplice timidezza. Se dopo il primo mese di scuola il bambino non ha mai parlato, è bene segnalarlo ai genitori. È importante che gli insegnanti osservino attentamente questi bambini silenziosi e dedichino loro particolare attenzione in quanto, non riuscendo a parlare, essi non riescono ad esprimere neanche i bisogni primari, come quello di andare al bagno o di non sentirsi bene. Il mutismo selettivo a volte impedisce ai bambini di emettere qualsiasi tipo di suono, anche un lamento o il pianto, per cui è importante che l’insegnante sia attenta ai segnali non verbali che provengono dal bambino (A.I.Mu.Se.).

Per il bambino affetto da mutismo selettivo l’atto del parlare davanti al gruppo classe può essere un momento nel quale perde le sue capacità. È consigliabile allenare il bambino a “far vedere” piuttosto che parlare, possibilmente in un gruppo ristretto. Alcuni bambini che non riescono a mostrare qualcosa in piccolo gruppo devono essere incoraggiati a portare a scuola degli oggetti, scelti da loro, ed esporli in un angolo della classe a loro destinato, per esempio sul davanzale della finestra (Shipon-Blum, 2014). Alcuni metodi per aiutare il bambino ad adattarsi alla vita scolastica sono:

  • Alleviare l’ansia in classe, creando un clima disteso e rilassato in cui il bambino si senta più possibile a proprio agio.
  • Non considerare oppositivo il comportamento del bambino con mutismo selettivo: non c’è intenzionalità nel non parlare anzi, al contrario, il bambino vorrebbe riuscire, ma l’ansia gli impedisce di farlo, bloccandogli le parole in gola.
  • Non mettere sotto pressione il bambino e non ingannarlo con promesse o ricatti perché parli. Rispettare i suoi tempi (A.I.Mu.Se.).
  • Farlo partecipare ad attività svolte in piccoli gruppi.
  • Iniziare con solo uno o due bambini scelti da lui stesso e con i quali si sente a suo agio; in seguito aumentare il gruppo, aggiungendo un bambino per volta.
  • Nel caso di un bambino con un alto livello di ansia, far intervenire e coinvolgere uno dei due genitori in un ambiente più isolato, in presenza di poche persone in classe, per far si che l’attività sia eseguita dal bambino in modo più sereno.
  • Determinare altri sistemi di comunicazione attraverso i quali il bambino può esprimersi. Nel caso di comunicazione non verbale, per esempio si potrebbe fargli utilizzare la scrittura o indurlo a fare si e no con la testa, oppure indicare con un dito o tramite gesti. In alcuni casi sussurrare qualcosa all’orecchio di qualcuno (intermediario verbale) può risultare un modo per trasmettere la comunicazione attraverso le persone (Shipon-Blum, 2014).
  • Poiché il mutismo selettivo è un disturbo legato all’ansia, è quest’ansia che deve essere presa in considerazione in maniera prioritaria. Affinché il bambino riesca a superare con successo il suo mutismo, occorre che siano messi in atto, in classe, alcuni accorgimenti per diminuire l’ansia del bambino, rafforzarne l’autostima, aumentare la sua fiducia e la sua capacità di comunicare. Ad esempio, ridurre il più possibile il contatto visivo con il bambino permette di diminuire sia la sua ansia, sia la sensazione di essere sotto pressione (Shipon-Blum, 2014).
  • Tenere presente che se il bambino parla una volta, non è detto che poi parlerà sempre. È anche importante controllare le reazioni quando il bambino pronuncia qualche parola: non bisogna mostrare eccessivo entusiasmo per l’accaduto (“Maestra, X ha parlato!!!”). È probabile che il bambino inizi a parlare con un suo pari piuttosto che con l’insegnante; in questo caso evitate di dire che avete sentito la sua voce (A.I.Mu.Se.).

Il mutismo selettivo tra i Bisogni Educativi Speciali (BES)

Il mutismo selettivo rientra pienamente nella definizione dei Bisogni Educativi Speciali (“Qualsiasi difficoltà evolutiva di funzionamento, permanente o transitoria, in ambito educativo e/o apprenditivo, dovuta all’interazione dei vari fattori di salute, secondo il modello ICF dell’OMS, e che necessita di educazione speciale individualizzata”).

Non è compito della scuola certificare gli alunni con BES, ma individuare quelli per i quali è opportuna e necessaria l’adozione di particolari strategie didattiche (Nota MIUR 22/11/2013).

Il Consiglio di classe è autonomo nel decidere se attivare percorsi di studio personalizzati e formalizzarli in un Piano Didattico Personalizzato (A.I.Mu.Se.).

Il passaggio da una scuola all’altra, a seguito del passaggio di grado, è sempre vissuto come un momento critico per i bambini e ragazzi con mutismo selettivo e le loro famiglie. È opportuno che i genitori chiarifichino le difficoltà e le necessità del figlio con il dirigente scolastico prima della formazione delle classi, al fine che sia inserito nel conteso più idoneo. Da valutare inoltre se è il caso di inserire il bambino in una classe senza alcun compagno conosciuto o se è opportuno che ritrovi compagni già noti.

L’intervento cognitivo-comportamentale per bambini con mutismo selettivo

Sebbene non ci siano in letteratura studi sistematici sull’efficacia dei diversi protocolli e programmi di intervento con i bambini con mutismo selettivo, le ricerche presenti e dati clinici suggeriscono una notevole efficacia dell’approccio comportamentale e cognitivo e ciò è spiegato anche dal fatto che lo stesso modello sembra funzionare molto bene nelle terapie per i disturbi d’ansia in età evolutiva (Capobianco, 2009).

Il trattamento più efficace per il mutismo selettivo sembra, infatti, quello orientato primariamente alla riduzione dell’ansia sociale di questi bambini e per questo diventa importante individuare in primo luogo le specifiche dinamiche comportamentali e cognitive che caratterizzano il mutismo di ogni singolo bambino (Capobianco, 2009).

Può essere utile, inoltre, programmare un’osservazione sistematica e un’analisi funzionale nei vari contesti di vita del bambino. In questo modo sarà possibile comprendere con precisione gli antecedenti e le modalità con cui il mutismo selettivo del bambino si manifesta e si mantiene. Tale processo permetterà allo specialista di mettere in relazione i comportamenti di interazione sociale con tutte quelle dinamiche che sembrano provocarli. È importante sottolineare come una diagnosi precoce e corretta del disturbo si associ a una migliore risposta al trattamento e, dunque, a una buona prognosi (Istituto Beck).

Gli obiettivi che la terapia cognitivo-comportamentale si propone di raggiungere sono:

  • Non “far parlare il bambino” (quanto meno all’inizio), ma consentirgli di sentirsi più rilassato e a suo agio con il terapeuta e con gli adulti che lo circondano (Capobianco, 2009).
  • Ottenere una condizione di sufficiente tranquillità nel contesto sociale problematico per il bambino.
  • Fornire strategie per stabilire e mantenere relazioni interpersonali.
  • Stimolare l’espressione (non necessariamente in modo verbale) di pensieri, emozioni e bisogni.
  • Elevare l’autostima e i sentimenti di sicurezza.

Una delle componenti essenziali della prospettiva comportamentale è l’impiego di strategie basate primariamente sulla gestione delle conseguenze dei comportamenti mediante tecniche di rinforzo positivo al fine di incrementare la probabilità di comparsa dei comportamenti comunicativi desiderati (Capobianco, 2009). I rinforzi positivi sono importanti quando il bambino tenta di comunicare (verbalmente o non) con gli estranei ma è importante anche non mostrare eccessivo entusiasmo che focalizza l’attenzione su di lui (Capobianco, 2009).

Le tecniche di rinforzo consistono nella presentazione di gratificazioni come sistema per incrementare la probabilità di comparsa dei sintomi desiderati (D’Ambrosio e Coletti , 2002).

Le tecniche di rinforzo sono:

  • Rinforzo positivo. Un rinforzo è un evento che quando compare immediatamente dopo un comportamento induce l’aumento della frequenza di quel comportamento o della probabilità della sua scomparsa (Di Pietro & Bassi, 2015). Vi sono varie tipologie di rinforzo. I rinforzi socio-affettivi sono scambi sociali e manifestazioni di affetto (lodi, complimenti, sorrisi, contatto fisico). I rinforzi tangibili sono gratificazioni concrete (oggetti, cibo, ecc). I rinforzi simbolici sono qualcosa che simboleggia il conseguimento di una gratificazione concreta o dinamica (buoni premi, gettoni, bollini). I rinforzi dinamici prevedono la possibilità di svolgere un’attività piacevole o di avere un privilegio particolare (fare una gita, giocare con un videogioco, stare alzato fino a tardi ecc) (Di Pietro & Bassi, 2015).
  • Lo shaping: i criteri di rinforzo diventano via via sempre più selettivi. Inizialmente includono tutte le forme di comunicazione utili che il bambino sceglie (scrittura, disegni, gesti), poi il criterio di rinforzo diventa sempre più ristretto mirando al sostegno esclusivo con voce sonora (D’Ambrosio & Coletti, 2002).
  • La generalizzazione: consiste nell’estensione a nuovi stimoli delle condotte comunicative corrette.
  • L’estinzione: si tratta di una procedura orientata a ridurre la frequenza di un comportamento attraverso la sottrazione di rinforzi ad esso associato. Può essere utilizzata per ridurre l’interloquire indirettamente con gli altri sussurrando all’orecchio del genitore.
  • L’autorinforzo: nella fase finale del trattamento i bambini vengono istruiti a valutarsi positivamente ogni qual volta riescono a parlare con una persona non ancora inclusa con gli interlocutori abituali (D’Ambrosio & Coletti, 2002).

Le tecniche più propriamente cognitive hanno l’obiettivo principale di modificare il pensiero disfunzionale (convinzioni irrazionali) sottostante il disturbo emotivo e comportamentale del bambino con mutismo selettivo (ristrutturazione e modificazione delle strutture cognitive) e di conseguenza di ridurre gli stati mentali di catastrofizzazione, generalizzazione e attenzione selettiva alla base dell’interpretazione degli eventi (Capobianco, 2009). Attraverso situazioni “role-playing” e simulazione di diverse situazioni reali o immaginarie che provocano disagio nel bambino si possono proporre interpretazioni e conseguenze alternative rispetto ad eventi e stati mentali propri e altrui (Capobianco, 2009).

Data l’inibizione verbale, solo attraverso tecniche di gioco e/o con il disegno il terapeuta può esplorare le reali e sottostanti emozioni e credenze. Spesso i bambini con mutismo selettivo presentano una povertà nell’attribuzione delle emozioni proprie e altrui, mostrando un repertorio molto ridotto per descrivere le emozioni percepite (Capobianco, 2009).

Capobianco riporta che un bambino che evita sistematicamente di parlare con altre persone, considera l’evitamento del dialogo come l’unica soluzione possibile per non sentire la spiacevole sensazione dell’ansia che prova in queste situazioni. Nella tecnica del problem solving focalizzato sulle difficoltà in area sociale il terapeuta guida il bambino a:

  • Riconoscere gli elementi della situazione che sono percepiti come problematici. In questo senso il mutismo è vissuto in modo problematico prevalentemente dalla famiglia e dal mondo educativo. Dal punto di vista del bambino, più che la condotta mutacica, è lo stato emotivo provato ad essere percepito come problema, di cui il mutismo è la principale risposta.
  • Ipotizzare comportamenti diversi da quelli solitamente prodotti per risolvere il problema, come per esempio insegnare al soggetto a pensare a dare varie alternative prima di dare una risposta a situazioni interpersonali problematiche.
  • Scegliere le condotte che meglio soddisfino la soluzione del problema e applicare il pensiero consequenziale. La scelta della soluzione da mettere in atto va effettuata immaginando la sequenza completa degli eventi che possono scaturire da ognuna delle diverse soluzioni ipotizzate.
  • Messa in pratica delle soluzioni scelte.
  • Verifica dell’efficacia della soluzione, per verificare che esistono altri percorsi in grado di proteggere il bambino dall’ansia (Capobianco, 2009).

Il Programma “Cool Kids”

Il Programma “Cool Kids” si è dimostrato efficace per i disturbi d’ansia generalizzata in età evolutiva.

I risultati dimostrano che più del 80% dei bambini che hanno completato il programma non rientrano più nei criteri diagnostici dei disturbi d’ansia o sono migliorati sensibilmente. Questi risultati si sono dimostrati mantenersi fino a 6 anni successivi (Lyneham, Abbott, Wignall & Rapee, 2014).

Considerando che nel mutismo selettivo vi è un’elevata componente ansiogena si ritiene opportuno proporre l’utilizzo di questo trattamento in terapia.

Il programma “Cool Kids” si basa sul modello cognitivo comportamentale del “Coping Cat” di Kendall e del “Coping Koala” di Barrett et al. (1996). Il programma degli autori è indirizzato alle famiglie e utilizza piccoli gruppi, ma sono stati raggiunti buoni risultati anche con il trattamento di singole famiglie, di bambini e di adolescenti. Pertanto, i terapeuti che non possono tenere un gruppo, possono adattare il programma a singole famiglie. I gruppi di “Cool Kids” sono costituiti da 5-7 famiglie: il bambino e, se possibile, entrambi i genitori (Graham, 2007).

Il programma prevede dieci sedute di 2 ore per 16 settimane. Le prime sette sedute sono settimanali, mentre le ultime tre sedute sono scaglionate a intervalli. Questa progressiva riduzione del contatto dà alle famiglie il tempo di esercitare le competenze e di abituarsi al distacco dal terapeuta. Nel programma, si assegno anche i compiti a casa, che i bambini e i genitori devono completare ogni settimana. Questi compiti permettono di consolidare il materiale appreso nella seduta e di esercitare le competenze apprese. Ciascuna seduta inizia con il benvenuto ai membri del gruppo e con la revisione dei compiti a casa. In seguito, il terapeuta passa del tempo solo con i ragazzi (40-60 minuti), segue un periodo in cui sta solo con i genitori (40-60 minuti). Alla fine di ciascuna seduta, il gruppo intero si riunisce per un riassunto della seduta e per l’assegnazione dei compiti pratici (10-25 minuti) (Graham, 2007).

Gli obiettivi principali del programma sono:

  1. apprendere nuove competenze per la gestione dell’ansia
  2. ridurre l’evitamento delle situazioni temute
  3. alla fine, affrancarsi dai genitori e dal terapeuta utilizzando le competenze e la conoscenza acquisiti attraverso la terapia

Le procedure specifiche includono tecniche psicoeducative, la ristrutturazione cognitiva (pensiero “realistico” o “detective thinking”), l’esposizione graduale agli stimoli ansiogeni (“la scaletta”) e tecniche di gestione per i genitori. Ci sono anche moduli opzionali che trattano altre problematiche spesso rilevanti nei bambini ansiosi, fra cui le competenze sociali, l’assertività e le prese in giro. Questo permette al terapeuta di modificare il programma sulla base delle necessità del singolo cliente o del gruppo.

L’Associazione Italiana Mutismo Selettivo (A.I.Mu.Se.)

A livello nazionale, le famiglie e gli operatori che lavorano con i bambini con mutismo selettivo possono rivolgersi all’Associazione Italiana Mutismo Selettivo (A.I.Mu.Se.). L’Associazione Italiana Mutismo Selettivo è un’organizzazione di volontariato nata a Torino nel giugno 2009 per iniziativa di un gruppo di genitori di bambini affetti da mutismo selettivo ed è la prima organizzazione in Italia ad avere come missione primaria quella di diffondere la conoscenza di questo disturbo e di fornire un sostegno alle famiglie che vivono questo disagio.

Con la sua attività l’Associazione, inoltre, intende sensibilizzare e stimolare la comunità scientifica e accademica al fine di creare, attraverso il confronto con esperienze straniere, un circuito di professionisti e studiosi in grado di suggerire adeguate terapie d’intervento per la risoluzione del disturbo.

L’Associazione ha sede a Milano ma è presente su tutto il territorio nazionale attraverso propri referenti regionali. È presente anche un referente AIMUSE nella svizzera italiana (Aimuse.it).

Recente è la pubblicazione di “Momentaneamente silenziosi”, una guida per genitori, insegnanti e operatori, scritta da Emanuela Iacchia e Paola Ancarani, edita da Franco Angeli.

Resoconto sul IV Seminario sulla Disciplina Interiore del Terapeuta – Testimonianze dei partecipanti

IV Seminario sulla Disciplina Interiore del Terapeuta, Senerchia: dopo la premessa al seminario pubblicata su State of Mind in cui si parlava di sintonizzazione tra terapeuta e paziente, ecco di seguito alcune testimonianze dei partecipanti all’esperienza.

Testimonianze di: Anna Maria Barbarulo, Katia Buonanno, Emanuela Cimmino, Gerardina Fimiani, Vito Lupo, Nicoletta Manfredi, Ivana Micillo, Antonella Pallotta, Maria Grazia Proto, Anna Rossi, Mario Valente, Lia Zecca

Il Tao non fa nulla
e tuttavia non vie è nulla
che non sia fatto

Lao Tsu

 

L’uomo che si ritiene superiore,
inferiore o anche uguale a un altro
non capisce la realtà

Sutra Buddhista

Anna

Sono arrivata al giorno della partenza “imbottigliata”, irrequieta, appesantita dai ritmi e dagli impegni quotidiani. Con la sensazione di non essere a casa da nessuna parte. […]

Durante il primo allenamento ho cominciato a rompere il ghiaccio. Complice Vito. Ci siamo allenati in coppie e io ho scelto lui. Le sue buffe proteste per la fatica, i suoi incitamenti mai troppo convincenti, gli escamotage con i quali cercava di eseguire gli esercizi nel modo meno gravoso possibile, mi sono stati di grande aiuto. La sua spontaneità, la sua immediatezza, il suo mostrarsi senza imbarazzo in difficoltà mi hanno regalato la libertà di esporre le mie di debolezze, le mie di fatiche. Non drammatizzando. Ridendoci sopra. Accettando di non potere fare sempre tutto bene. Limitandomi a mettercela tutta. Fino a quando ce la si fa. È stato un allenamento duro in clima di leggerezza. Una combinazione perfetta. E man mano che il corpo protestava per il duro sforzo, man mano che la protesta diventava spunto per una condivisione giocosa con l’altro, cominciavo a risentirmi a casa.

[…] L’escursione. Una di quelle cose che amo tanto fare, fosse solo per il sentire il rumore della terra che si sfalda sotto i piedi e il profumo della vegetazione che sale su per le narici. Destinazione Grotta Profunnata. Diversamente da come il nome lascerebbe intendere il sentiero è stato decisamente in salita. Mentre procedevo, specie nei tratti più scoscesi, la ferma determinazione (e annessa sicurezza) di arrivare a destinazione scricchiolava sotto la tentazione di mollare. E mentre il conflitto tra queste alternative occupava la mia mente, io continuavo a camminare. Passo dopo passo, semplicemente camminavo. Ero attenta a quello che stava avvenendo nella mia mente, curiosa di come si sarebbe evoluta quella disputa, e contemporaneamente sintonizzata su un ritmo diverso. Quello del corpo. Quello scandito da un piede dopo l’altro. Quello su cui il voler raggiungere la meta a tutti i costi o il voler arrendersi non avevano il potere di intervenire. […] È stata dura. Un’esperienza che, quando senti il corpo urlare per la fatica, ti auguri di non dover più ripetere ma di cui, subito dopo, quando la hai vissuta e ti rendi conto di esserne uscito vivo, senti la nostalgia. Che desideri poter rivivere. Come se di quella fatica il corpo conservasse una memoria gradevole, vitalizzante.

Infine l’incontro con lei. La cascata. Bella, fiera, viva. Salda nel suo incessante moto. Giampaolo ci ha spiegato cosa avremmo dovuto fare. Il primo a incontrarla è stato lui. E dopo di lui i ragazzi, fino a quando non è stato il mio turno. Ho urlato forte, come Giampaolo ci aveva detto di fare. Ho provato a farlo come quando sono sola e certa che non mi stia ascoltando nessuno. Ho provato a far sì che la mia voce potesse esprimere la più ampia varietà delle cose che ho dentro. E poi, in un attimo, non ho sentito più nulla. La mia voce si era improvvisamente arrestata, e con lei tutto il resto. Ci stava solo lo scorrere dell’acqua sulla mia testa, il suo suono, la sua forza. È stato come entrare in uno stato di calma profonda. Totale. Mi sono sentita come una bambina che smette immediatamente di piangere non appena incontra l’abbraccio di un genitore. E ci si perde dentro. E diventa quell’abbraccio. Sotto quella cascata mi sentivo al sicuro. Con me, ma in un modo diverso. Più “esteso”. Un “me” di cui il confine non era così definito. E anche dopo, quella sensazione di calma ha continuato ad accompagnarmi. Si è trasformata in serenità. Gioia. Vitalità. È stata un’esperienza meravigliosa.

Senerchia mi ha consentito di re-incontrarmi e di incontrare gli altri. Di vedere le loro diversità e allo stesso tempo percepire la nostra straordinaria similarità. È stato bello stare con loro. Sentire di essere un gruppo in cui ognuno, facendo qualcosa per sé, vedeva l’altro come risorsa e non come minaccia. E allo stesso tempo si rendeva risorsa per l’altro. In uno scambio straordinariamente reciproco.

E tornata a casa, appena aperta la porta, mi sono sentita felice. Mi ci sono ritrovata tra quelle mura. Sono stata felice di riabbracciare i miei affetti con presenza. Sentendomi e sentendoli.

Soprattutto sono tornata piena di gratitudine per quello che ho vissuto, sperimentato e condiviso. Per quello che ho lasciato lì, dentro la cascata, e che, allo stesso tempo e nello stesso luogo, ho ritrovato.

Anna Maria

[…] La creatività di Spock non ha limiti, anche quest’anno ha modificato l’allenamento funzionale: dobbiamo di nuovo affrontare numerosi esercizi ad elevata intensità ma questa volta in coppia. Capito con Mario, un lungo sguardo d’intesa e complicità ci unisce: ce la faremo a reggere lo sforzo nei duri tempi scanditi dal fischietto di Spock?? Ad ogni esercizio avverto dolore e scarsa resistenza, mi sconforto, ma la presenza di Mario è incoraggiante, ha uno sguardo cosi benevolo, non mi critica, non mi incita a fare di più, semplicemente è presente e condivide con me la fatica. Il nostro corpo diventa un potente strumento di incontro e cooperazione. Ci sentiamo indubbiamente “nella stessa barca” e la piacevole sensazione che “ce la faremo insieme” a completare il circuito mi aiuta a resistere, forse siamo in dei momenti goffi e maldestri ma in forte sintonia.

E subito dopo il gioco: Spock ci divide in due squadre e ci fa sfidare al tiro alla fune: apparentemente sembra un gioco divertente e semplice ma quando inizia la sfida mi accorgo di quanta tecnica e forza richieda per vincere. L’unione con i membri della mia squadra mi aiuta a resistere e a combattere, cado, urlo, mi ferisco al braccio ma non mollo. Più tardi nel corso della giornata guarderò quei segni sul braccio con grande soddisfazione, ho lottato per uno scopo comune!! Per affinare la disciplina interiore mi ricorderò non solo il potere che il corpo ha sulla mente ma anche come la piacevole condivisione dello sforzo fisico prima in coppia e poi in gruppo mi ha aiutato a resistere e a superare i limiti. Quest’anno prima di arrivare alla cascata Spock ci propone la Grotta Profunnata, un percorso completamento immerso nella natura incontaminata dove regna un’assoluta pace e tranquillità. Il sentiero è davvero ripido ed estremamente faticoso. Inizio a salire fiduciosa che ce la farò ma dopo un po’ mi accorgo che sono lenta e resto indietro rispetto ad alcuni colleghi che sembrano sostenere la fatica con minore sforzo. All’improvviso mi inquieto, si introduce nella mia mente l’immagine di me giovanile, sportiva, resistente, vincente. Mi fermo e mi sconforto, da troppo tempo ho trascurato il mio corpo e ora devo fare i conti con la spiacevole sensazione di non farcela come vorrei. Poi mi volto e osservo altri colleghi che sono dietro di me, mi soffermo sulla loro espressione di fatica, alcuni si sono procurati un bastone, altri si sono seduti per riprendere energia, altri ancora cantano per incoraggiarsi. Chiudo gli occhi, respiro profondamente e lentamente per pacificare la mente cosi come mi ha insegnato Spock, avverto forte l’odore della natura e sento risuonare le battute simpatiche dei colleghi che rimandano ad una condivisione giocosa e divertente dello sforzo che mi aiuta a smorzare le mie sensazioni spiacevoli. Piano piano quel pensiero così esigente e perentorio rimane sullo sfondo fino a scomparire, non mi inquieta più, non è una gara, non c’è chi vince e chi perde, chi è superiore o inferiore, ognuno fa il suo percorso misurandosi con i suoi limiti e le sue risorse. Provo una sensazione di sollievo e conforto. Grazie Gruppo, ognuno di voi con le vostre unicità, siete una forza e una risorsa. Anche la discesa presenta qualche difficoltà a causa del declivio, non c’è spazio per i pensieri, l’attenzione è tutta focalizzata su dove “mettere i piedi”, basta un attimo di distrazione per scivolare. All’improvviso sento Spock che mi chiama e in breve mi raggiunge, conosce la mia irruenza e avrà avuto paura che come un birillo sarei cascata trascinandomi giù per la montagna anche altri colleghi!!! All’improvviso mi sento come quando da bambina mi sgridavano e mi facevano sentire inadeguata e sbagliata perché la mia vivacità ed esuberanza, affaticava e preoccupava i miei genitori. Ma Spock non mi sgrida, con la sua calma zen ed un sorriso benevolo voleva semplicemente mostrarmi tecnicamente come affrontare la discesa senza farsi male!! Mi spiega e si allontana fidandosi che avrei saputo applicare i suoi consigli e lasciandomi la piacevole sensazione di poter essere “accudita” senza sentirmi fragile e vulnerabile. Grazie Giampaolo, per essere una Guida e un Esempio di Disciplina Interiore. E poi anche quest’anno la prova della cascata che ogni volta mi lascia senza respiro, frastornata e affascinata dalla forza pulsante dell’acqua che mi rimbomba dentro trasferendomi un’energia vivace e propositiva. Movimento, dinamicità, potenza, forza, tutto lì è come “immobile” a disposizione per essere immortalato dai sensi. Grazie Natura, per la tua misteriosa forza e bellezza. Non ci sono pensieri ma solo sensazioni e azione. Mi avvicino alla cascata senza paura e questa volta resto qualche minuto in più sotto il getto irruento dell’acqua che sembra trasferirmi tutta la sua forza e potenza. Noto alcuni turisti che si soffermano sul ponticello ad osservarci meravigliati dal nostro coraggio e sono orgogliosa di aver superato anche quest’anno la sfida, mi sento più salda e resistente.

Senerchia è un percorso esperenziale sempre in divenire, dinamico e mutevole, stimola un sistema motivazionale caratterizzato da aiuto, cooperazione, condivisione, intimità e compassione che conduce ad una migliore regolazione emotiva e affina sempre di piu la capacità di “essere un spettatore benevolo di se stesso e delle proprie aree di vulnerabilità”.

Antonella

[…] Ci raggiungono tutti…tra saluti, baci e presentazioni ho già la sensazione di essere in una grande famiglia. Ci sistemiamo velocemente nelle rispettive stanze per poter cominciare subito con la prima sessione di allenamento. Sono in coppia con Ivana…provo ad impegnarmi, ma dopo la prima serie comincio a sentire la fatica. Escogito strategie per sentire meno la stanchezza dell’ultima serie di ogni esercizio, ma la precisione e la costanza di Ivana mi spronano ad insistere e a completare con responsabilità il mio allenamento, superando i limiti fisici e mentali del mio corpo.

Arriva il primo momento di relax ed eccoci riunite piacevolmente sotto il portico in un piccolo gruppo, dove nonostante le new entry sembriamo vecchie amiche, che tra aneddoti e consigli, si ritrovano lì a raccontarsi.

Segue il pranzo e quel clima di distensione e familiarità prosegue, tra racconti, condivisioni e risate.

Ricomincia il lavoro con la Supervisione ed il confronto sui casi e poi ancora l’allenamento che improvvisamente diviene gioco…è come essere catapultati in una dimensione “altra”, priva di giudizio, dove ognuno può esprimere sé stesso nella percezione più autentica ed ecco che ci divertiamo, ci conosciamo più a fondo, svaniscono i pensieri e siamo pervasi da una sensazione di “leggerezza”. Senza accorgerci dello scorrere del tempo, viviamo sensazioni ed emozioni uniche che ci conducono sino a tarda sera.

[…] Giunti alla cascata dell’oasi non ho più il desiderio di fare il bagno, eppure lei è lì, maestosa ed imponente come l’avevo lasciata l’anno prima. Giampaolo si accorge che qualcosa non va ed è solo grazie alla sua insistenza, al suo supporto e all’incoraggiamento dei miei compagni di viaggio che riesco a lasciarmi andare…sono proprio sotto la cascata, lì dove avrei voluto essere sin dal primo momento in cui ho deciso di partecipare al seminario ed è quella esperienza di contatto profondo che in un baleno cambia il mio stato mentale ed emotivo, mi sento libera, sollevata da un grande peso, fiera di essere lì e felice di condividere quel momento con il gruppo… ora tutto ha un sapore diverso, ritrovo la mia serenità e i pensieri brutti sono lontani da me.

Gerardina

[…] La mattina della partenza come sempre la luce del sole mi sveglia, mi alzo quasi subito e inizio a prepararmi, cerco di mettere nello zaino le cose essenziali in modo che non pesi troppo, durante queste azioni però mi accorgo che a pesare non è tanto lo zaino che ho preparato ma di nuovo quella strana sensazione, quello strano disagio, quella angoscia che mi soffoca e che mi ricorda: “mi raccomando dai una bella immagine di te” ma allo stesso tempo, “cerca di non fare la solita narcisa”. Mi sento in trappola. Il mio unico desiderio è che svanisca tutta questa architettura […], cerco di ignorarla e di concentrarmi sul qui e ora; a tratti ci riesco, ma con grande fatica. […] Arrivati a Senerchia conosco gli altri e sui loro volti vedo sorrisi e nei loro gesti spontaneità e leggerezza, questo mi rasserena, finalmente sento me e soprattutto inizio a sentire loro.

Iniziamo con i circuiti di Giampaolo, sono in coppia con Mariagrazia, la compagna per me ideale, simpatica e con il mio stesso obbiettivo: far in modo di non morire durante gli esercizi che tradotto è “fare il meno possibile”. Nonostante ciò ci motiviamo e proviamo noi stesse, fino all’ultimo esercizio dove escogitiamo una nuova variante.

Mi sento dentro la situazione, inizio a sentirmi libera, mi sento in contatto con gli altri.

Durante le supervisioni capisco che quello che provo durante le sedute e la mia sensazione di sbagliare è comune ad altre ragazze, e per la prima volta riconosco che è una condizione normale e non sinonimo di ignoranza o poca intelligenza. Ivana porta con sé una registrazione e sento tutta la sua agitazione poco prima di farcela ascoltare, anche lei forse come me o come qualche altra teme il giudizio, ma il suo coraggio mi colpisce, mi trasferisce forza. La sua voglia di crescita professionale supera e oltrepassa il giudizio, Ivana ce l’ha fatta e la ringrazio perché ha aperto un varco nella mia mente.

Durante i giochi di Senerchia mi sono rivista bambina, ma non quella bambina pesante, che mi porto dietro, ma la bambina che avrei voluto essere, la bambina che si basta e che non ha paura.

Il bagno sotto la cascata è stata una grande esperienza, una grande gioia di aver superato i miei limiti, da sola non lo avrei fatto. Stessa cosa vale per il percorso fatto in montagna. Molto significativo per me è stato ascoltare i racconti di Tinì su Giampaolo sono stata contenta di condividere i ricordi insieme e avvicinarmi al mondo di ognuno di voi. Sono contenta di essere riuscita a stare con voi liberamente e a sentirvi perché attraverso voi ho sentito me. Le ultime immagini del viaggio a Senerchia sono riferite all’immagine di Nicoletta che mi abbraccia, in quell’abbraccio ho sentito la completezza di questa esperienza, e le parole di Giampaolo che mi risuonano e mi guidano nell’affrontare i miei limiti. Grazie a tutti.

Ivana

L’esperienza di Senerchia è cascata a fagiolo, desideravo tantissimo staccare la spina per qualche giorno dalla routine quotidiana. Nelle ultime settimane avevo completamente esaurito le energie fisiche e mentali e terminavo le mie sedute con la costante sensazione di essere una persona terribile, che si fa pagare per fare 50 minuti di chiacchiere da bar… Sentivo quindi la necessità di diventare una spugna e assorbire tutto ciò che Giampaolo avesse da insegnarci portando con me uno zaino carico di doverizzazioni che riguardavano il rispetto scrupoloso del programma, la massima attenzione durante le supervisioni e il massimo impegno durante gli allenamenti…non vi dico quindi il “lieve” moto di ansia e rabbia al passaggio della transumanza che ci rallentava sulla tabella di marcia….Appena raggiunta villa tini però è accaduto qualcosa di magico: il verde, il rumore degli uccelli, l’aria fresca e pulita che respiravo, le montagne intorno, la quiete di quel paesaggio hanno regolato il mio stato mentale, la mia impazienza…In quel momento mi è tornata in mente la spensieratezza e la felicità di quando da bambina d’estate raggiungevo nuovi luoghi di villeggiatura, che per me erano sempre belli, perché rappresentavano l’opportunità di fare nuove amicizie e divertenti esperienze di condivisione…e l’ho riprovata, quella sensazione di leggerezza, libertà, felicità, l ho ritoccata con mano ed è rimasta con me, è ancora qui…!

Suonerà strano detto da me, che dall’esterno posso dare l’impressione di essere troppo seriosa e distaccata, ma quando Giampaolo ci ha chiesto di rievocare il momento più significativo di quest’esperienza, mi è venuto in mente il rumore delle risate, le risate di tutti noi a tavola sabato sera, il dolore delle mie mandibole, forse non abituate a ridere così tanto.

Guardo con piacere i lividi sulla coscia per uno scontro con Anna S. durante il ruba bandiera, sorrido al pensiero della corsa nel prato stile Heidi con Manu, Vito e Gerardina. La libertà di poter zompettare, giocare, urlare, imitare il verso di un Orangotango nella foresta e non dovermi dire “ma ce li hai 30 anni?” La consapevolezza che per quanto possiamo sembrare caratterialmente diversissimi abbiamo paure e fragilità che ci accomunano e ciò mi ha permesso di sentirmi profondamente connessa con tutti…

Ringrazio Annamaria per avermi “costretta” ad espormi durante la supervisione, non so se spontaneamente l’avrei fatto; il desiderio c’era, ma la vergogna e la paura di essere considerata la terapeuta più scema del mondo era più forte…dopo un attimo di derealizzazione iniziale ho sentito il calore da parte di tutti voi e la percezione di minaccia ha lasciato spazio ad un’emozione piacevole di libertà e tranquillità. Grazie veramente tanto!

Katia

[…] Tre mesi ad immaginarmi un po’ più attiva nella mia dimensione fisica, meno invadente e tirannica negli spazi degli altri, meno aggressiva negli interventi, ripetendo tra me e me che gli altri mi avrebbero “visto” lo stesso anche senza voler apparire a tutti i costi “speciale”. Da qui la decisione di non portare la chitarra, di non truccarmi, di lasciar perdere tutto quell’insieme di strumenti seduttivi che mi porto dietro da una vita per essere in qualche modo “guardata” e perché no…diciamolo amata. Ero fiduciosa che quello poteva esser un buon momento per sentirsi bene nella normalità, nella sobrietà che non mi appartiene ma che manca nella mia vita. E così è stato. […]

C’è lui e la sua amata cascata. L’unica persona al mondo in grado di farmi sentire al sicuro anche quando mi bacchetta. L’unico in grado di farmi camminare per chilometri su sentieri improbabili senza protestare, l’unico in grado di tirarmi fuori dal peso schiacciante dell’acqua e l’unico in grado di farmici ritornare senza esitazione. L’unica persona che riesce a restare “stabile” nella mia esperienza senza oscillazioni destabilizzanti.

Il finale di questa “apertura” dedicata a tutti voi è la foto del papà di Giampaolo in bianco e nero, che sicuro passeggia con i suoi libri sotto il braccio, ancora con la voglia di conoscere e di guardarsi intorno con curiosità, senza il peso della gara, ma solo per il piacere di vivere il momento.

Grazie di cuore anche a lui.

Lia

Questi giorni li ho aspettati. Con entusiasmo, curiosità e trepidazione. Come si aspetta una gita al liceo. Come si freme quando si scarta un regalo atteso. Era questo che mi portavo dentro quando sabato mattina, piuttosto presto, mi sono messa in auto per raggiungere Senerchia. Ero desiderosa da molto di partecipare al seminario. E il mio desiderio era cresciuto di pari passo con le sensazioni, anch’esse sempre più intense, di intimità e condivisione, di partecipazione e accettazione che sentivo nel mio gruppo di supervisione. In più avrei condiviso questi giorni con persone nuove ed altre che, pur essendomi in qualche modo familiari, avevo il desiderio di conoscere meglio. E poi c’era Anna Maria. La mia compagna. Di esplorazioni. Di riflessioni. Di scambi intimi e profondi, a volte surreali e divertenti. Di lavoro e di vita insieme. Tutto questo avevo nella mente quando guidavo sabato mattina. La prima tappa mi ha condotta da Anna Maria. Poi, pian piano, il gruppo è cresciuto. Volti conosciuti, voci nuove, occhi curiosi, risate e chiacchiere. E siamo arrivati a

Senerchia. Difficile descrivere appieno la sensazione che ho provato. Un luogo familiare per me. Ma che familiare non lo era più. Vissuto insieme a persone nuove, a compagni del mio secondo pezzo di vita. Attraversiamo, infreddoliti, Senerchia e le sue macerie. Impossibile per me non ricordare. Impedire alla mia mente di andare, anche solo per un attimo, al mio ricordo di queste macerie. Angoscia e desolazione, che durano solo per un attimo. I miei compagni, il presente, mi riportano a terra. E arriviamo a quello che sarà il nostro posto, la nostra casa per i prossimi due giorni. Dobbiamo cambiarci d’abito per iniziare l’allenamento. Questa semplice richiesta è per me l’innesco di un vissuto spiacevole. Nella mia mente si insinuano, furtive, stupidamente e ingenuamente inaspettate, preoccupazione, imbarazzo e vergogna. Per un corpo che in questo momento sento che non mi appartiene. Che non è il mio. Che non mi piace. Goffaggine, inadeguatezza, a volte disgusto sono la scia che la rappresentazione del mio corpo si porta dietro. E il dover indossare vestiti diversi ha fatto venire tutto questo fuori. Come il vaso di

Pandora. Ma fortunatamente il volume emotivo è basso. Faccio un po’ di fatica ma riesco a mettere il coperchio. E scendo giù. Vederci tutti insieme, divertiti e incuriositi, ascoltare le istruzioni di Giampaolo mi aiuta a ricompattarmi. Mi riapproprio del mio senso di questa esperienza. Anche la fatica mi aiuta. Mi aiuta vedere sui visi dei miei compagni lo stesso sudore, sentire le stesse esclamazioni mi fa sentire meno diversa. Più dentro. Il tempo scorre veloce. Arriva il pomeriggio. E con il pomeriggio il gioco del rubabandiera. Torno bambina. Circondata da tanti compagni di giochi. E mi sono sentita dentro il gruppo. Tutti insieme. Diversi eppure sulla stessa lunghezza d’onda. Sintonizzati. E questo confortante vissuto, peraltro il tema, il filo conduttore di questa esperienza, me lo sono portato dietro e dentro fino a sera. E poi arriva la mattina. Sveglia presto. Le gambe dolenti e i leggings stretti mi riportano, come un pugno in faccia arrivato all’improvviso, la vergogna per il mio corpo inadeguato. Stavolta è più difficile abbassare il volume. Arranco. Come arranco sulla salita ripida che ci porta alla grotta profunnata sulla quale ci siamo tutti inerpicati. E maledico le scarpe che ho indossato, che mi fanno sentire come chiodi ogni sassolino che calpesto. E maledico me. Che in quel momento sono tutto ciò che non vorrei. E mi sento diversa. Sbagliata. Goffa. Inappropriata e incapace. E vedo tutti diversi. Tutti migliori di me. Faccio una gran fatica a fare i conti con tutti i pensieri e le emozioni dolorose che invadono la mia mente. Ma, ancora una volta, proprio la fatica mi aiuta. L’impegno fisico mi assorbe. E mi regola. Resisto. Non mollo. E questo mi piace. Ci incamminiamo verso la cascata. E quello che c’è attorno a me riempie i miei occhi e la mia mente. Mi lascio invadere dal mondo. E non c’è più spazio per i miei pensieri e per le mie emozioni dolorose. Raggiungiamo il posto dove tutti volevamo arrivare. La vista della cascata mi elettrizza. Adoro l’acqua. E questo posto è un po’ speciale per me. Faccio quasi fatica ad ascoltare le istruzioni di Giampaolo. Fremo. E infatti sono una delle prime a lasciarsi avvolgere dall’acqua. Questa constatazione mi sorprende. Io non sono mai la prima. Temo sempre di essere inopportuna o inadeguata e lascio sempre spazio agli altri. Ma c’è la cascata. E io voglio andarle incontro. E in quel momento ritorna. Ritorna la sensazione di sintonia. Siamo tanti. Ma tutti insieme. Tutti sulla stessa lunghezza d’onda. E dopo sono in pace. In pace anche un po’ con me.

Manuela

[…] Un’abbuffata di crescita professionale, cibo fatto di intersoggettività e scambi intimi. La stavo aspettando da settimane. […] Il lavoro clinico, la condivisione, mi fanno sentire a casa, non mi atterrisce sbagliare, mi sento accolta, non mi giudico impreparata come sempre ma resto lì come farebbe un bambino desideroso di imparare l’alfabeto, ho desiderio di imparare a parlare, mi nutro di notizie, utili quando sarò da sola tra le 4 mura.

[…] La Cascata. È come un fulmine (mi attrae ma mi spaventa) è come il mare agitato (lo amo ma mi atterrisce). Sì è lei il mio limite, ho paura ma ci voglio provare e sapere che c’è GP è come sentirsi al sicuro tra le braccia di una madre. Il gruppo mi incoraggia come i compagni di una squadra di calcio quando stai per segnare un rigore e poi il silenzio, non mi importa bagnare il corpo, non mi importa contare i secondi, non mi preoccupa la temperatura per me la sfida non è la cascata ma me stessa e i miei limiti…Ero felice all’improvviso, sentivo le estremità delle dita delle mani solleticarmi, ero leggera, purificata da quei limiti cognitivi, ero una bambina felice, ho riso, corso con gli altri, ho fatto silenzio, ho ascoltato il vento e quella quiete interna che raramente vivo. Ero in pace e questa emozione mi ha accompagnato per il resto del tempo e ancora dopo qualche giorno.

Mariagrazia

Senerchia 2018…”se ho paura scappo” […]. Arrivo a Salerno, abbracci e nuove presentazioni, ma sento di essere chiusa nel mio mondo, ferma e trincerata in tutto quello che mi addolora. Siamo in macchina, resto silenziosa, quasi mi assento, di tanto in tanto, incrocio lo sguardo sorridente di Anna, perfetta sconosciuta che penserà di me che sono ombrosa, una specie di asociale fredda e distaccata. Evito di pensare e sposto la mia attenzione sul finestrino, cercando di orientarmi in luoghi che mi allontanano pericolosamente dai miei riferimenti.

[…] Tutti in giardino, formiamo un cerchio e scegliamo con chi fare coppia per l’allenamento, mi giro verso la mia sinistra e trovo Gerardina, più o meno la mia stessa statura, porta gli occhiali e questo mi fa desumere che poi tanto sportiva neanche lei lo sia…è subito sintonia. Il tempo scorre e gli aneddoti di Tinì allietano il nostro pranzo, immagino lei e Giampaolo piccolini e provo tanta tenerezza e dolcezza, peccato che il lavoro ci rimetta in riga. Ascoltiamo una seduta di Giampaolo. È sempre lui a fare da apripista per aiutarci a sospendere il giudizio verso noi stessi e condividere con gli altri. Il paziente è uno di quelli che farebbe irritare anche un Santo, uno di quelli a cui vorresti urlare “hey bello, mica ti ho obbligato io a venire!!!”, ma dopo fastidiosissime strategie di coping attivate al massimo volume, lascia intravedere la sua sofferenza e il suo senso di inadeguatezza che automaticamente crea connessione con tutti noi all’ascolto.

[…] La cascata accoglie ognuno di noi, è come un padre forte, non parla ma ti stringe a sé con amore. E’ lì per te, lo senti e lo ami con tutta te stessa!!!

Prima di andar via porto in supervisione un caso, è uno di quegli imperativi da cui vorrei tanto scappare ma poi mi espongo, il senso di inefficacia mi inonda tumultuosamente, i dubbi su quello che voglio fare ed essere prendono il sopravvento…sento il sovraccarico ma anche la spinta a trovare una dimensione sana con me stessa. Sento di volermi bene e questo è quello che davvero conta.

Grazie Senerchia perché dai e non togli nulla, grazie a tutti voi in quanto senza non ci sarei riuscita!!!

Mario

La mia Senerchia è stata la continua misura di una distanza. La distanza tra me e il gruppo, la distanza dalla grotta, la distanza dalla mia vita emotiva, la distanza tra quello che sento e quello che vorrei dire o fare. La vicinanza è stata in ogni momento il più grande desiderio e la più grande frustrazione. Non ho conosciuto abbastanza voi tutti, non ho riconosciuto sempre me stesso e anche la grotta non è stata una meta raggiunta. Che grande frustrazione sentire il corpo cedere alla fatica durante gli esercizi e altrettanta ne ho provata quando a cedere è stata la voglia di curare la distanza. Senerchia è un’esperienza totalizzante, complessa che mi ha insegnato ad accettare gli stessi limiti che abitano le nostre sedute senza perdere la sintonia soprattutto con noi stessi.

Nicoletta

La sveglia suona di consueto, come ogni mattina, mentre sono irrimediabilmente già attiva…sono mesi in realtà che non dormo ho imparato a sostenere in silenzio la fatica degli ultimi eventi della mia vita; al punto che nemmeno io, come gli altri che ho sempre amato, desidero più vederla…Mentre mi accingo a prepararmi nella scansione pedissequa dei miei consueti gesti, dove tutto risulta al suo posto; gli indumenti ripiegati in borsa per ogni singolo momento, come se dovessi indossarli senza chiedermelo, i vassoi del cibo amorevolmente assemblati da mia madre in tempo utile per non restare fuori dalla mia organizzazione, le borse di Senerchia opportunamente separate, negli anni ripartite anche loro sullo sfondo delle esperienze passate. Un unico pensiero: “Come mi sentirò?” quest’anno forse non ho alcuna aspettativa complice il mio investimento ormai ridotto all’osso. […]

Nella mia mente si affollano pensieri e pesi ad essi correlati…spero semplicemente non arrivino, in realtà so di essere bravissima a schermarmi penso meglio di quanto possa fare anche un mio paziente […] Arriviamo finalmente in villa […]; il tempo di disporci nelle nostre camere e inizia il primo allenamento; un percorso in sequenza questa volta da condividere in coppia, la mia partner è Manu che mi incoraggia, mi sostiene […], le risate di tutti noi mi avvolgono nella consapevole condivisione di sentirci usare il nostro corpo con un’estrema fatica. [Formiamo] due squadre per il tiro alla fune, bambini che si impegnano a dover vincere per forza. Son tornata bambina, a quando mi imponevo di vincere, se non altro per sentire tutta la forza che doveva appartenermi.

Siamo immersi nell’esperienza, pronti per i momenti di supervisione. Giampaolo ci fa ascoltare una seduta di un paziente che sembrerebbe far di tutto per svalutarlo, lui rimane apparentemente calmo, come se i suoi attacchi non lo scalfissero, pronto, attraverso un sottile moto agonistico, a contrastare l’attacco subito; a un certo punto, il paziente, porta una scena dove esprime per un attimo tutta la sua vulnerabilità e riesco all’istante a sintonizzarmi dentro di me con il suo dolore e mi calmo, proprio come lui, che si disciplina e riesce finalmente a sintonizzarsi veramente con il paziente; in un attimo dentro me sento che qui a Senerchia anche le supervisioni cambiano; non riguardano più le singole difficoltà di quel terapeuta con quel paziente, ma di tutti i terapeuti con un paziente che hai incontrato almeno una volta nella vita; anche gli interventi e le riflessioni dei colleghi cambiano. Ti risuonano internamente […]; il peso e la fatica dell’essere terapeuta diventa il peso e la fatica di essere semplicemente tutti vulnerabili, umani, non distanti.

[…] La tanto desiderata Cascata. Ci cambiamo, osservo gli altri che si sono già predisposti, ascolto la voce della nostra dolce Tinì, che ci accompagna come una sorella, si avvicina ai turisti per spiegare il senso del nostro rito. Poi la guardo e mi avvicino. I ragazzi fremono di gioia condivisa, non ho paura urlo ed entro, mi svuoto, ancora una volta. Sembra non mi basti mai.

Sento l’armonia e la gioia che mi avete trasmesso. Siete stati tutti una piacevolissima scoperta, desidererei riviverla esattamente com’è stata con ognuno di voi.

Vito

La cascata è viva, la cascata è vita, la cascata è lì… il fiume è un respiro pacato, costante e presente, il suo tintinnio morbido accarezza il mio animo. La cascata è una minaccia improvvisa, il re di un mondo imponente, nessuno la smuove, pretende rispetto e incute timore. La voce degli altri mi rassicura, mi sento meno solo, ma ciò che desidero è stare da solo. Il richiamo dei flutti è fortissimo, non voglio aspettare, voglio far parte di esso. La cascata è bianca, pura, candida come lo sguardo giocoso di mio figlio, essa è quel che è, fa quel che fa, da sempre e per sempre, questo è il suo fascino e il suo mistero.

Non sono libero, il mio corpo è una gabbia, ma è anche il mio aquilone, mai sarò libero, ma posso esserlo per qualche secondo, come quando appena prima di nascere. Mi avvicino cauto, con deferenza e impazienza, sento, guardo, a fatica seguo le istruzioni di G. Riconosco tutto, le sensazioni mi guidano, il corpo ha ragione. Poi arriva il mio turno, la mano di G., il suo incoraggiante sorriso, ancora un passo, in basso l’acqua mi arriva fin quasi al ginocchio, ma cosa succede sopra di me? Non mi serve la vista, non mi serve più il corpo, non mi serve più nulla. Ecco… non c’è più materia, l’orizzonte degli eventi, il tutto è nulla e può essere tutto, quanto dura l’infinito? Pochi secondi o tutta la vita? Un urlo antico, fuoriesce dalla gola, ma è prodotto da ogni singolo atomo del corpo e da tutto ciò che mi sta attorno, la mia voce è la voce degli altri e di tutto il bosco. Nasce dal tutto e si propaga nel tutto. Ma il peso è troppo per le mie membra stanche, le spalle caduche protestano, non posso a lungo sopportare… cedo il posto, smetto di essere e torna me stesso, con tutti i suoi limiti e le imprecisioni, ma adesso è più forte e più ricco di prima.

Il mattino dopo si torna al grigio, il primo impatto è un impiegato antipatico, ma io gli sorrido, se lui sapesse che cosa ho fatto, avrà visto nei miei occhi la presenza immensa della cascata?

Io ancora la sento, ancora vi sento, come una nuova parte di me…

 

Per saperne di più:

Il terapeuta sintonizzato: premessa al resoconto sul IV Seminario sulla Disciplina Interiore del Terapeuta

Disciplina Interiore: come allenarla a partire dalla concettualizzazione TMI

Nascita di una madre (1999) di D.N. Stern e N. Bruschweiler-Stern – Recensione del libro

Quando nasce una madre? Prima che nascesse il mio piccolo avrei risposto come sicuramente tanti di voi: “Si diventa mamme quando si partorisce”. Dopo lo scorso anno, invece, la mia risposta è totalmente diversa.

Luisa Buonocore

 

Sono diventata mamma quando ho scoperto di essere in attesa, quando ho visto crescere la mia pancia, quando ho avvertito il primo movimento; sono diventata mamma quando ho dato alla luce il mio bambino e quando, finalmente, ho visto il suo viso; infine, ho raggiunto la piena consapevolezza di essere madre qualche settimana dopo la nascita del mio piccolo, quando finalmente, dopo una ripetuta serie di prove ed errori, ho trovato il modo giusto di cullarlo, di farlo calmare e addormentare sulle note di una famosa melodia brasiliana.

Il libro Nascita di una madre spiega l’essenza di questa risposta: si diventa mamme più e più volte in un percorso che non ha mai una vera e propria fine. Questo processo, che ha inizio in un momento qualsiasi della gravidanza, si configura con maggiore precisione con la nascita del bambino per poi perfezionarsi dopo i primi mesi di cure. Il libro parla dell’esperienza interiore delle donne che diventano madri, del costruirsi di una nuova identità, quella che Stern chiama “il senso dell’essere madre”. Gli autori descrivono la lunga gestazione e il delicato travaglio emotivo che accompagnano lo sviluppo di un nuovo assetto mentale che è unico e diverso da quello precedente e che accompagnerà la donna per tutta la vita. Il libro racconta l’esperienza delle madri di dover creare uno “spazio” nella loro mente, uno spazio che, in particolare durante il periodo della gravidanza e il primo anno di vita del piccolo, assorbe completamente pensieri, emozioni, fantasie, immagini, desideri e istinti. Questo spazio rimarrà una parte costante della propria identità: anche se assumerà una proporzione diversa a seconda dei momenti di vita, segnerà per sempre una parte nuova e diversa della persona.

Nascita di una madre: la struttura del libro

Daniel Stern, psichiatra e psicoanalista, insigne esponente dell’”Infant Research”, ha scritto questo libro insieme a due mamme: sua moglie Nadia, pediatra e psichiatra infantile, anche lei esperta di relazioni precoci, e Alison Freeland, giornalista specializzata sul tema delle funzioni genitoriali. Il libro nasce come step conclusivo di un percorso di studi iniziato con l’osservazione delle interazioni madre-bambino (Le prime interazioni sociali: il bambino e la madre, 1989), seguito da un’indagine più approfondita sulla vita del bambino (Il mondo interpersonale del bambino, 1987), che termina con l’esame del mondo interno della madre (La costellazione materna. Il trattamento psicoterapeutico della coppia madre-bambino). Nascita di una madre racchiude quindi le osservazioni dell’autore in un libro non solo per gli addetti ai lavori, quindi privo di tecnicismi, adatto alla divulgazione e ricco di esempi tratti da interviste effettuate dagli autori alle mamme.

Il libro è suddiviso in tre parti, che corrispondono a tre momenti fondamentali nel processo di costruzione del senso di essere madri. Si parte dalla gravidanza, vista come tempo di gestazione della nuova identità, durante la quale l’immaginazione della futura madre è interamente concentrata sul creare rappresentazioni di come sarà il bambino, su come sarà lei stessa come madre e su che tipo di padre sarà il compagno. Gli autori dedicano poi un capitolo alla nascita fisica del bambino e al suo ruolo nel far procedere la madre verso la costruzione psicologica del proprio senso di essere madri. Secondo gli autori, il parto, che segna il momento in cui una “donna diventa fisicamente madre”, accelera ma non determina del tutto la nascita psicologica della propria maternità. Una menzione particolare va al paragrafo “Al limite delle loro capacità” che spiega lo stato mentale del travaglio e le paure tipiche del parto e lo fa con autenticità ma con estrema delicatezza e con parole di incoraggiamento

Ogni donna sa istintivamente di essere impegnata in un compito di importanza capitale e sa anche che sono in gioco due vite, la sua e quella del bambino […] è necessario che il processo vada avanti per non perdersi e bisogna essere all’altezza del compito. Non c’è altra scelta. In questi momenti, oltrepassate i vostri normali limiti di concentrazione, di resistenza, di sopportazione del dolore e di determinazione.

La prima parte si chiude esaminando il momento in cui il bambino immaginato si incontra e si scontra con il bambino reale: gli autori evidenziano la forza e i pericoli delle fantasie successive al momento della nascita che spesso operano come profezie capaci di autoavverarsi.

La seconda parte, “È nata una madre” si concentra sui mesi successivi alla nascita del bambino e sui compiti basilari della maternità ovvero assicurare la sopravvivenza del bambino e creare una relazione intima con lui. Gli autori sottolineano come l’incontro con queste due responsabilità primarie di genitori permettano il passaggio finale nella costruzione del nuovo “senso di essere madre”. Si raccontano le paure e le fatiche tipiche di questi passaggi, evidenziando come l’attraversare tali momenti di difficoltà sia di per sé un passaggio obbligato per costruire un senso di autoefficacia materna: l’intima consapevolezza di aver affrontato la “prova di fuoco”, ovvero lo stato di affaticamento cronico tipico dei primi mesi di cure, grazie alla spinta delle paure relative alla salute e alla sicurezza del bambino, insieme all’amore che si prova per lui, rassicurerà la madre sulle sue capacità materne fondamentali e sarà una delle pietre miliari del suo assetto materno. Gli autori si soffermano anche sul bisogno di conferme e di incoraggiamento da parte delle altre madri. Secondo gli autori

La maternità è come un mestiere e tutte le principianti hanno bisogno di una fase di apprendistato con qualche tipo di modello o di guida […] il ruolo della guida non consiste semplicemente nel fornire consigli o informazioni, ma soprattutto nel creare un clima psicologico che vi faccia sentire sicure e fiduciose e vi incoraggi a esplorare le vostre capacità genitoriali.

Secondo gli autori di Nascita di una madre, le interazioni con le madri più esperte soddisfano pertanto bisogni diversi, quali quello di rassicurazione sulla propria adeguatezza nella cura, quello di apprendere i “trucchi del mestiere”, di ricercare approvazione e infine, di appartenenza a un gruppo.

Infine, l’ultima parte del libro “Adattamenti necessari” descrive i contesti in cui l’identità materna deve integrarsi con il resto della propria vita, prendendo in considerazione le varie sfide che una mamma può incontrare come quelle delle mamme di bambini prematuri o disabilità; o come le mamme che devono affrontare il problema del rientro nel mondo del lavoro. Si chiude con un paragrafo, forse troppo breve, dedicato alla paternità e agli adattamenti necessari a un uomo nella sua “nascita di padre”.

Nascita di una madre: a chi lo consiglio

Alle mamme in attesa e alle neomamme: qui possono trovare le parole e i concetti necessari per comprendere e dar voce a ciò che provano e per normalizzare rappresentazioni e sentimenti discordanti. Specialmente durante la gravidanza, le mamme vengono bombardate da materiale che spiega fasi e processi dello sviluppo del proprio bambino e dei cambiamenti del loro corpo mentre scarsa importanza viene data ai mutamenti del mondo interno. Questo libro compensa efficacemente questa mancanza.

Consiglio questo libro anche a tutti gli operatori che hanno il delicato e privilegiato compito di accompagnare la nascita di una mamma. In questo libro non troverete indicazioni circa i processi patologici che possono incorrere in questa fase sui quali l’attenzione di noi addetti ai lavori tende facilmente a concentrarsi. Questo libro racchiude la chiave per comprendere a fondo l’intricato mondo emotivo di tutte le neomamme, fatto di “normali” paure, ansie, desideri e incertezze che spesso non trovano spazio di ascolto. Capire il mondo interno, i compiti e le responsabilità psicologiche che vivono tutte le mamme può aiutare noi operatori a creare il senso di vicinanza, di sintonizzazione e supporto autentico di cui necessitano le donne in questo intenso, nuovo momento di costruzione della loro identità.

Social media e immagine corporea: l’effetto del guardare persone più attraenti

Uno studio della York University ha dimostrato quanto un gruppo di giovani donne abbiano una concezione peggiore della propria apparenza fisica e si sentano di conseguenza maggiormente affrante, dopo aver visualizzato una serie di fotografie, sui social media, di amici che considerano più attraenti di loro.

Adriano Mauro Ellena

 

Internet, e con esso i social media, ha decisamente rivoluzionato la vita quotidiana di moltissime persone. La semplificazione della comunicazione, la facilità d’accesso alle informazioni e la perenne connettività sono alcuni degli enormi vantaggi che queste tecnologie hanno apportato. Ma non è tutto oro quel che luccica. Così come ogni cosa ha un lato oscuro, anche i social media hanno un lato della medaglia un po’ meno “dorato”.

Social media e immagine corporea: lo studio su un campione femminile

È risaputo quanto i social media abbiano la capacità di confondere tra ciò che è reale e ciò che non lo è. I ricercatori dell’università di York hanno voluto indagare come il rapportarsi con alcune immagini online possa influenzare la percezione e la considerazione del proprio corpo in un gruppo di giovani donne.

La ricerca si focalizza su un campione di 118 donne di età compresa tra i 18 e i 27 anni. Criterio fondamentale: essere attivamente coinvolte nell’utilizzo dei social media. Il compito consisteva, nello specifico, nell’individuare su Facebook ed Instagram fotografie di persone che consideravano molto più attraenti di loro e successivamente, rispondere a dei quesiti circa la soddisfazione nei confronti dell’apparenza fisica e dell’immagine corporea.

I risultati hanno mostrato che queste giovani donne si sentivano maggiormente insoddisfatte dei loro corpi. Si sentivano peggio per il loro aspetto dopo aver guardato le pagine dei social media di qualcuno che percepivano come più attraente di loro. Anche se si sentivano male con se stesse prima di partecipare allo studio, in media si sentivano ancora peggio dopo aver completato il compito – afferma Jennifer Mills, professore associato presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di York.

Social media e immagine corporea: i rischi di un uso inconsapevole

L’esperimento è stato svolto nel seguente modo: sei settimane prima dell’esperimento è stato somministrato un questionario online alle partecipanti, nel quale veniva chiesto loro di esprimere, attraverso l’utilizzo di diversi item, la soddisfazione o meno per la propria apparenza fisica ed immagine corporea.

Le 118 partecipanti sono state divise in due gruppi:

  • gruppo sperimentale: i soggetti dovevano scegliere sui social network persone che consideravano più attraenti di loro
  • gruppo di controllo: ai soggetti veniva chiesto di osservare, sempre sui social, persone appartenenti alla propria famiglia e che non consideravano più attraenti di loro.

A seguito di ciò, veniva ri-chiesto loro di rispondere a dei quesiti sulla soddisfazione corporea.

I risultati mostrarono che non vi era alterazione della soddisfazione corporea dopo aver osservato i profili di persone della propria famiglia, cosa che invece accadeva osservando profili di persone che si consideravano più attraenti.

Questo studio è rilevante perché accende una lampadina su quanto sia importante educare i giovani su come l’uso dei social media potrebbe farli sentire e come ciò potrebbe anche essere collegato a diete rigorose e ferree, attività fisica eccessiva e disturbi dell’alimentazione e della nutrizione.

Disturbo ossessivo compulsivo made in Italy: la colpa italiana nella politica degli ultimi anni

Il disturbo ossessivo compulsivo si potrebbe chiamare una perversione del senso morale, di quella funzione che ci aiuta a non fare del male degli altri e a rispettare le regole. La colpa è l’emozione che si aziona quando il senso morale percepisce che il nostro comportamento o i nostri pensieri stanno violando uno di questi due territori della moralità.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 01 dicembre 2018

 

Gli psicologi hanno chiamato colpa altruistica quella che emerge quando violiamo la regola del non fare del male agli altri e colpa deontologica quella che compare quando si viola la regola suprema che occorre rispettare le regole.

Pare che sia il senso di colpa deontologico il principale responsabile del disturbo ossessivo compulsivo, quel disturbo che consiste nell’essere continuamente perseguitati da strani dubbi. Nell’immaginario comune, l’ossessivo è una persona che passa il suo tempo a controllare di aver chiuso l’uscio di casa o se le sue mani siano sufficientemente pulite, lavandosele spessissimo. Lady Macbeth che si lava le mani credendole sporche del sangue del re Duncan ne è un esempio conosciuto. E proprio l’esempio di Lady Macbeth suggerisce che questi dubbi abbiano un’origine morale. La colpa di avere ucciso il re si riverbera nel dubbio della Lady di essere sporca, per di più di sangue affinché sia chiara l’origine morale dei dubbi.

Il paziente ossessivo soffre di una sorta di responsabilità gonfiata, come la hanno definita gli studiosi Paul Salkovskis e Francesco Mancini, un senso morale eccessivo che lo rende estremante sensibile a qualunque indizio, soprattutto se immaginario e mentale, di poter essere colpevole. E sembra che tale senso di colpa sia più di natura deontologica, ovvero il timore di aver violato un regola, che altruistico. Il senso di colpa deontologico è quello che ci difende dall’esclusione dal gruppo sociale, quello che garantisce la nostra appartenenza al consorzio civile. Chi viola le regole è espulso. E non si tratta solo di regole di convivenza ma anche di riconoscimento reciproco, di marcatori di appartenenza. Ecco la ragione dei divieti alimentari come quello di mangiare maiale o la prescrizione di mangiare magro. Servono ad assicurare l’appartenenza a un certo gruppo. E l’appartenenza dipende dalla condivisione di alcuni comportamenti, il mos dei latini, radice linguistica dei termini moralità e senso morale.

È possibile che la società italiana sia affetta da un’analoga malattia del senso morale? In altri articoli si adombra qualcosa che assomiglia a uno stato ossessivo, una tumefazione della moralità che la gonfia a dismisura dal 1994 senza che questa crescita sia diventata un vantaggio per la nazione, una maturazione. Al contrario, è diventata uno stato patologico. Come l’ossessivo sospetta continuamente di se stesso temendo di aver commesso qualcosa di sbagliato e continuamente controlla la sua buona condotta, ad esempio ispezionando tutte le porte che si lascia alle spalle o ripercorrendo più volte il tragitto fatto in auto dall’ufficio a casa sua nel terrore di aver investito qualcuno inavvertitamente, oppure continuamente espia recitando paternostri le possibili bestemmie distrattamente sfuggitegli anche solo nel pensiero, così l’Italia sospetta continuamente di se stessa, perseguitandosi dal 1994 senza posa e condannando alla gogna chiunque osi presentarsi alla ribalta della vita pubblica.

Più che le azioni, l’ossessivo condanna tutti i suoi pensieri, tutti potenzialmente colpevoli. E così l’Italia ormai condanna tutti al sospetto, tutti colpevoli prima ancora di aver commesso il fatto. E come l’ossessivo, in questa maniera si condanna a non pensare mai e ad agire ancor di meno, perché ogni pensiero potrebbe essere colpevole e ogni azione ancor peggio, così l’Italia si condanna all’inazione e alla sterilità di progetto, progetto politico e sociale e perfino riproduttivo forse, paralizzata dal timore di poter sbagliare, di poter violare, di poter fare del male.

Perché meravigliarsi allora delle recenti vicende del padre di Di Maio? Colpisce la meccanica ripetitività dei fatti: il padre di Renzi, il padre della Boschi e ora il padre di Di Maio. Ogni giudice di oggi è destinato ripetere la colpa dell’imputato che ieri ha condannato, così come tutti i pensieri degli ossessivi sono destinati a essere messi in dubbio da quelli successivi, malgrado ogni controllo. Ho chiuso i rubinetti? E se fossero rimasti aperti, cosa accadrebbe? Magari s’allaga tutto e qualcuno morirebbe. Meglio diffidare, meglio sospettare, meglio controllare. Così come in Italia vogliamo continuare a sospettare di noi stessi, a diffidare di tutti e a controllare tutti.

Con un’unica differenza. L’ossessivo sospetta solo di se stesso e dei suoi pensieri. Quando questi dubbi ossessivi si spostano dalla mente alla società e alla politica, si sospetta non più di pensieri ma di persone. E se si tratta di persone la lotta da mentale diventa fisica, o almeno potrebbe diventarlo. Speriamo bene. Per ora non è stato così.

Euforia (2018) di Valeria Golino: quando la malattia bussa inaspettatamente alla porta di casa – Recensione del film

Ettore e Matteo sono due fratelli caratterialmente molto diversi. Cauto, riservato e introverso il primo; eccentrico, spigliato e socievole il secondo. Ettore insegna alle scuole medie nella città natale di provincia, Matteo fa l’imprenditore a Roma. La scoperta della malattia del primogenito (Ettore), permette ai due di riavvicinarsi e rafforzare il loro legame.

 

Euforia è anzitutto un film delicato.

La Golino affronta realisticamente il tema della malattia, senza patetismi né retorica, attraverso uno sguardo ironico, tenero e profondamente umano.

Euforia: quando la morte entra in famiglia

Il film descrive quei meccanismi familiari di protezione – e di inganno – che si innescano quando la morte bussa inaspettatamente alla porta di casa e tutti lo sanno, ma nessuno vuole ammetterlo. E così, Matteo – che sente di dover animare chiunque lo circondi – decide di non fare sapere a nessuno che Ettore ha un tumore al cervello e una prognosi infausta. Si inventa una piccola cisti da asportare. Non togliere speranza al fratello (e agli altri familiari) diventa la sua ‘missione’ e al tempo stesso la sua condanna.

Il suo tentativo di fare sembrare tutto normale è a tratti irritante ed eccessivo. Ma maledettamente umano. Ha paura Matteo. Ma non se lo può dire. Continua la sua vita sfarzosa e mondana, all’interno della quale tenta di coinvolgere anche Ettore: scherza, ride, esce, fuma, si droga, è ossessionato dal suo corpo.

E’ sfacciato e a tratti inopportuno. Ha la necessità di essere provocatorio e cinico, per non concedersi di entrare in contatto con il suo mondo emotivo.

Euforia: la difficile accettazione della malattia

Sembra non cogliere nulla, ma gradualmente si accorge che il fratello maggiore inizia a incespicare, a sbagliare i vocaboli, a far cadere gli oggetti. Le sue bugie cominciano a crollare, la tristezza inizia a farsi sentire.

Ettore – dal canto suo – appare impassibile, impermeabile, evitante. Si sottopone passivamente alle cure prescritte dai medici. Non vuole relazionarsi con nessuno, neanche con il figlio. Sembra lasciarsi completamente vivere. E finge – o forse no – di credere che il suo disturbo sia curabile.

Come in una danza, si fa completamente guidare dal fratello minore, lasciando a lui il ruolo principale. Sempre pronto a fare un passo indietro, a essere la spalla. Rimanendo spettatore anche della sua malattia.

La stretta vicinanza tra i due fratelli però, aiuta a far emergere le autentiche emozioni di entrambi, attraverso momenti di scambio taglienti e a tratti feroci.

Ettore pertanto a un certo punto fa sentire la sua voce e pretende di essere ascoltato. Arrabbiato, esorta Matteo a smettere di mentire. Gli dice che non può decidere per la sua vita e che, soprattutto, non gli può impedire di avere paura.

Euforia è un film autentico che non indugia a mostrare le fragilità e le inconsapevolezze di ognuno. I personaggi sono profondamente umani e pertanto lo spettatore li sente vicini, si emoziona insieme a loro, alla fine non può che avvertire un sentimento di profonda tenerezza ed empatia nei confronti di tutti i protagonisti.

 

EUFORIA – GUARDA IL TRAILER:

Vincere le ossessioni. Capire e affrontare il disturbo ossessivo compulsivo (2018) di G. Melli – Recensione del libro

Affrontare il disturbo ossessivo compulsivo non è affatto semplice. Le ossessioni, sia a livello di pensiero che di comportamento, possono far parte, in una certa misura, del quotidiano di tutti noi. A chi non è mai capitato, almeno una volta, di controllare ripetutamente di aver chiuso il gas o la portiera della macchina? Quando, però, le ossessioni assumono la forma di un malessere che interferisce pesantemente con la nostra vita può diventare estenuante farci i conti.

 

Il testo Vincere le ossessioni dello psicoterapeuta cognitivo comportamentale Gabriele Melli rappresenta un manuale di auto aiuto concepito con serietà: non offre ricette facili e vaghe, ma si basa su evidenze scientifiche, fornendo informazioni puntuali e proponendo strategie di intervento mirate.

Il libro è pensato per essere utilizzato sia da soli che con il supporto e la guida di un terapeuta.

Vincere le ossessioni: struttura del libro

Il libro è suddiviso in tre sezioni. La prima sezione presenta una panoramica rispetto alle caratteristiche del disturbo ossessivo compulsivo; vengono spiegate in modo preciso e semplice, comprensibile anche ai non addetti ai lavori, le premesse teoriche su cui si basano i protocolli di intervento.

La seconda sezione costituisce il programma di auto aiuto vero e proprio, fondato sui presupposti della terapia cognitivo comportamentale, mentre la terza ed ultima sezione contiene una serie di indicazioni utili rivolte non solo alle persone che soffrono del disturbo, ma anche ai familiari.

Il testo include una parte specificamente rivolta ai familiari perché il loro supporto è importante per aiutare la persona ad affrontare il disturbo; in questo quadro dobbiamo tenere presente che, solitamente, le persone che soffrono di ossessioni fanno ai familiari e agli amici costanti richieste di essere rassicurati rispetto alle proprie preoccupazioni. Il conforto momentaneo che nasce dall’aver ricevuto delle conferme può, a lungo termine, rafforzare, invece che far diminuire, l’intensità del malessere.

Può accadere che le persone, ormai abituate a convivere con i propri comportamenti ossessivi, abbiano scarsa motivazione ad affrontare il problema; come sempre ammettere di avere un problema è il primo passo per risolverlo. Chi soffre di disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) tende anche ad evitare attivamente quelle situazioni che innescano le ossessioni, per cercare di controllare i pensieri ossessivi e di non essere costretto a compiere i rituali “scaccia ansia”.

Vincere le ossessioni: le manifestazioni del disturbo

Nella pratica clinica le modalità più frequenti in cui il disturbo può manifestarsi sono le seguenti:

  • Disturbi da contaminazioneossessioni e compulsioni che hanno per tema la paura di essere contagiati o contaminati da sostanze tossiche o nocive; per scongiurare questo timore vengono messi in atto rituali di lavaggio e pulizia;
  • Disturbi del controllo – coazione ad effettuare controlli ripetuti, senza reale necessità, per prevenire incidenti o eventi indesiderati;
  • Superstizione eccessiva – pensieri superstiziosi secondo i quali compiere o meno determinati gesti, pronunciare o non pronunciare alcune parole o vedere o non vedere certe cose sia determinante per il verificarsi di specifici eventi indesiderati;
  • Ordine e simmetria – incapacità di tollerare che gli oggetti siano posti in modo anche minimamente disordinato o asimmetrico;
  • Accumulo/accaparramento – bisogno di conservare e accumulare oggetti inservibili, privi di valore anche sentimentale e di reale utilità pratica;
  • Ossessioni pure – pensieri o immagini in cui la persona attua comportamenti che considera indesiderati e inaccettabili, privi di senso, pericolosi o socialmente sconvenienti;
  • Compulsioni mentali – rituali mentali (contare, pregare, ripetersi frasi, formule, pensieri positivi o numeri fortunati), per scongiurare la possibilità che si verifichino eventi temuti.

Vincere le ossessioni: come capire quando farsi aiutare

Il programma di trattamento proposto inizia con una prima fase di autovalutazione, attraverso la consultazione di tabelle molto chiare ed esaustive; l’autovalutazione è finalizzata a chiarire sia la natura dei sintomi che il loro livello di intensità, in modo da capire se sia possibile trattare il problema da soli o se, invece, sia il caso di consultare un terapeuta.

La differenza tra una preoccupazione negativa normale, per quanto inverosimile e un pensiero ossessivo non è nella sua natura, ma nella frequenza con cui si ripresenta alla mente; la persona, dato che non riesce a sopportare la rappresentazione mentale del rischio, mette in atto dei comportamenti per scongiurarne il verificarsi e per abbassare l’ansia. Il sollievo momentaneo causato dall’attuazione dei rituali induce la persona a metterli in atto sempre più spesso, diventandone dipendente. Si innesca un circolo vizioso in cui la provvisoria diminuzione dell’ansia a breve termine produce un innalzamento dell’ansia a lungo termine.

Il programma di trattamento non può, di conseguenza, che comportare l’esposizione, in misura graduale e sufficientemente tollerabile, a stimoli che evocano un certo grado di ansia. Alla luce di queste premesse il lettore viene addestrato a comporre il proprio personale programma di trattamento, selezionando gli stimoli cui esporsi e formulando obiettivi realistici e affrontabili.

Nella parte finale, il libro Vincere le ossessioni offre anche, per chi volesse ulteriormente approfondire, una bibliografia di auto aiuto, dei siti da cui attingere ulteriori informazioni e i riferimenti dell’Associazione Italiana Disturbo Ossessivo-Compulsivo (AIDOC).

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