expand_lessAPRI WIDGET

Alla scoperta della Terapia Metacognitiva Interpersonale – Intervista a Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo

La Terapia Metacognitiva Interpersonale, ci raccontano Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo, è un approccio che vede un importante coinvolgimento della componente esperienziale al fine di favorire il processo terapeutico di cambiamento verso l’esplorazione di nuovi schemi interpersonali.

 

Facilitare il riconoscimento e la descrizione degli stati mentali e utilizzare tali informazioni per ridurre la sofferenza emotiva e coltivare relazioni adeguate con le altre persone. Il tutto attraverso una costante attenzione alla dimensione interpersonale e all’alleanza terapeutica, regolando l’intervento sul livello metacognitivo del paziente.

Queste sono alcune delle caratteristiche distintive della Terapia Metacognitiva Interpersonale, di cui abbiamo parlato con Raffaele Popolo e Giancarlo Dimaggio, psichiatri psicoterapeuti e co-fondatori del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma in occasione del workshop pre-congressuale SITCC dello scorso settembre.

 Durante l’intervista Dimaggio e Popolo ci hanno guidato attraverso la scoperta della TMI, il cui target terapeutico è rappresentato dagli Schemi Interpersonali, ovvero le strutture attraverso le quali le persone si orientano nelle relazioni quotidiane, formando previsioni sul destino dei propri scopi e desideri:

La persona che ho davanti mi confermerà  di essere una persona di valore, oppure reagirà come un giudice severo e critico convalidando ciò che in fondo temo, ovvero di non valere nulla?

La Terapia Metacognitiva Interpersonale, ci raccontano Dimaggio e Popolo, anticipando alcune tematiche del nuovo libro in uscita a marzo del prossimo anno, è un approccio che vede un importante coinvolgimento della componente esperienziale, includendo tecniche non solo cognitive, ma anche corporee, meditative e immaginative, al fine di favorire il processo terapeutico di cambiamento verso l’esplorazione di nuovi schemi.

L’obiettivo della TMI è quello di accompagnare il paziente verso la promozione di una dimensione di creatività, innovazione, di esplorazione e autonomia, attraverso l’ampliamento del proprio repertorio metacognitivo e relazionale, verso la valorizzazione delle parti sane di sé.

In tale ottica si inserisce coerentemente il nuovo protocollo di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Gruppo (TMI-G), tematica del workshop precongressuale veronese. Il setting gruppale, ci spiegano Popolo e Dimaggio, rappresenta un contesto prezioso dove trasmettere e condividere la conoscenza dei sistemi motivazionali interpersonali, recuperarli all’interno della propria esperienza attraverso la narrazione di episodi narrativi autobiografici, ri-sperimentarli attraverso tecniche immaginative, esperienziali e role playing, con il fine di comprendere gli schemi, accelerare l’apprendimento di nuove strategie e ampliare la lettura degli stati mentali attraverso l’allenamento “in vivo” delle funzioni metacognitive.

Le prime applicazioni del protocollo su gruppi di pazienti con disturbi di personalità di area inibito-coartata, al vaglio degli studi di efficacia, hanno mostrato risultati decisamente interessanti, che aprono a sperimentazioni promettenti, sia in Italia che all’estero, anche su popolazioni di pazienti diversi, compresi quelli caratterizzati da disregolazione emotiva.

Nella parte conclusiva dell’intervista, infine, un auspicio, ovvero quello che il cognitivismo italiano possa essere un terreno fertile di dialogo aperto, che possa coniugare il valore dell’aspetto relazionale del lavoro tra terapeuta e paziente, con l’altrettanto importante applicazione delle numerose tecniche (cognitive, meditative, di allocazione dell’attenzione, comportamentali, immaginative, sensomotorie ecc.) che ad oggi caratterizzano e arricchiscono i diversi approcci e interventi di matrice cognitiva.

 

TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE – L’INTERVISTA A GIANCARLO DIMAGGIO E RAFFAELE POPOLO:

Stigma e disfunzioni cognitive in pazienti con HIV: quale relazione?

Lo stigma sociale sembra compromettere alcune capacità cognitive, quali memoria e attenzione, in un gruppo di uomini anziani che convivono da anni con il virus dell’ HIV.

Adriano Mauro Ellena

 

A più di 30 anni dalle prime diagnosi di AIDS e dalla scoperta del coinvolgimento del virus dell’ HIV, molti passi in avanti sono stati fatti, non solo da un punto di vista medico ma anche da un punto di vista sociale. Ciononostante, lo stigma e la discriminazione nei confronti di persone infette dal virus dell’ HIV è ancora ben presente in molte realtà.

Le conseguenze dello stigma sociale sulle capacità cognitive: lo studio della McGill University

Un recente studio, effettuato da ricercatori del Montreal Neurological Institute, della McGill University e del McGill University Health Center, ha evidenziato quanto lo stigma sociale possa compromettere alcune capacità cognitive (quali memoria ed attenzione) in un gruppo di uomini anziani che convivono ormai da anni con il virus dell’ HIV.

Lo studio è stato effettuato testando 512 uomini caucasici anziani infetti da HIV. A questi partecipanti è stato chiesto di rispondere ad un questionario concernente la percezione e consapevolezza dello stigma esperito. Queste risposte sono state correlate, successivamente, con gli esiti di alcuni test cognitivi e psicologici.

I risultati hanno evidenziato quanto effettivamente ci fosse un collegamento forte tra lo stigma esperito e gli esiti dei test cognitivi: maggiore era lo stigma percepito, minore era la performance nei test cognitivi. Questa compromissione sembra portare la persona oggetto di discriminazione ad una riduzione della partecipazione sociale e ad una compromissione di alcune funzionalità fondamentali per l’autonomia nella vita di tutti i giorni.

Correlazioni significative sono state trovate anche tra lo stigma e l’ansia, più debole invece è la correlazione esistente con la depressione.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO:

Non è ancora chiaro come lo stigma possa influenzare alcuni aspetti cognitivi, sicuramente si può ipotizzare che siano coinvolti costrutti quali l’impatto dello stress cronico subìto sul cervello ed alcuni effetti psicologici quali l’interiorizzazione di credenze negative sul sé.

Questo studio è il primo di questo genere ma può contribuire ad implementare nuovi metodi terapeutici per il trattamento delle disfunzioni cognitive in alcuni pazienti affetti da HIV. Inoltre, sottolinea l’importanza del contesto sociale e degli interventi comunitari ed istituzionali per ridurre stigma e discriminazione.

La correlazione tra perfezionismo e bulimia nervosa

La bulimia nervosa è un disturbo alimentare purtroppo molto comune e anche molto pericoloso per la vita di chi ne soffre.

 

Secondo il DSM 5, la bulimia nervosa è caratterizzata da ricorrenti episodi di abbuffata, durante i quali la persona mangia grosse quantità di cibo in un periodo di tempo ristretto e sperimenta una sensazione di perdita di controllo, e da ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie eliminatorie, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o attività fisica eccessiva.

Di solito le persone che soffrono di bulimia sono prevalentemente donne; secondo alcune ricerche canadesi, oltre 275.000 ragazze e donne soffrono di bulimia nervosa ad un certo punto della loro vita. È stato inoltre stimato che l’incidenza di morte per chi soffre di questo disturbo è del 2% ogni 10 anni e circa un quinto di queste morti sarebbero dovute a suicidio.

Andare ad indagare i diversi fattori che portano alla bulimia nervosa è dunque molto importante, nonostante le cause di questo disturbo siano ancora in gran parte sconosciute.

Bulimia nervosa e perfezionismo, quale relazione? Ce lo spiega un nuovo studio

Il Professor Sherry della Dalhousie University, docente di psicologia e neuroscienze, ha indagato personalmente i tratti caratteristici di questo disturbo alimentare ed ha anche valutato e trattato i problemi associati alla bulimia nervosa, ponendo particolare attenzione alla tendenza al perfezionismo spesso riscontrata in queste pazienti.

In un recente studio, condotto in laboratorio, ha indagato il rapporto esistente tra il tratto di personalità del perfezionismo e la bulimia nervosa.

Il perfezionismo comporta uno sforzo incessante per raggiungere e mantenere risultati irragionevoli e impeccabili, riguardanti sé e gli altri e ben al di sopra delle proprie possibilità. I perfezionisti sono raramente soddisfatti delle loro prestazioni e si sottopongono ad una severa autocritica quando con i loro sforzi non riescono a raggiungere la perfezione.

Il perfezionismo è inoltre legato a numerosi problemi nelle relazioni e a sentimenti di tristezza; di fatto i perfezionisti, molto spesso, rivolgono la loro attenzione al cibo per sopperire alla tristezza, causata dalla mancanza di rapporti soddisfacenti con le altre persone.

I sintomi della bulimia nervosa, ad esempio le abbuffate, sembrano offrire ai perfezionisti un perfetto nascondiglio dalla pressione e dall’autocritica.

Lo studio ha comportato lo svolgimento di una meta-analisi che ha raccolto 12 studi longitudinali comprendenti 4.665 partecipanti. Il campione era composto principalmente da donne (86.8%); l’età media dei partecipanti era pari a 19 anni, ma erano incluse nel campione anche adolescenti, laureandi e adulti appartenenti alla comunità.

Risultati e Conclusioni

I risultati hanno messo in evidenza come il perfezionismo rivesta un ruolo centrale nella personalità delle persone affette da bulimia nervosa. Inoltre è stato possibile dimostrare chiaramente che persone perfezioniste tendono ad avere maggiore probabilità di sviluppare il disturbo di bulimia nervosa e che tale rischio aumenta con il passare del tempo.

Proprio per questo motivo è importante intervenire nel trattamento del disturbo il prima possibile; inoltre la bulimia nervosa sembra prolungarsi oltre 8 anni dall’esordio del disturbo prima che i sintomi scompaiano, e circa il 25% delle persone in questa condizione sviluppano sintomi cronici, difficili da trattare, e spesso anche problemi secondari come carie dentarie e depressione.

Ricerche precedenti hanno dimostrato come la pressione da parte della famiglia, degli amici e dei media possono contribuire allo sviluppo della malattia, promuovendo sempre di più il desiderio di raggiungere il peso e la forma “ideali”. Nella società di oggi i genitori sembrano sempre più competitivi, controllano in tutto e per tutto i figli, concentrandosi principalmente sulle vittorie e le prestazioni. Queste sono le condizioni in cui è più probabile che si sviluppi il perfezionismo, perciò con il passare del tempo potremmo assistere sempre di più a casi di bulimia nevosa legata al perfezionismo.

Maltrattamento e genitorialità in ottica transgenerazionale

Per affrontare il tema dei genitori abusanti prima di tutto può essere importante definire il concetto di genitorialità.

Laura Bernardi – Open School Studi Cognitivi Modena

La genitorialità è una funzione che ha il precipuo obiettivo di garantire il mantenimento della specie. Da un punto di vista psicologico, essa si attiva ed evolve come funzione relazionale autonoma basata su rappresentazioni arcaiche interattive dei genitori evocate nell’hic et nunc della relazione con un determinato bambino, che con il proprio personalissimo bagaglio, le riattiva in maniera diversa e modulata, in situazioni e tempi successivi della vita (Lebovici, 1983).

Genitorialità: una funzione molto complessa

Da un punto di vista generale, la genitorialità è anche una funzione processuale dell’essere umano che si sviluppa indipendentemente dall’essere genitore. Il desiderio di “prendersi cura di” qualcun altro è un desiderio che si manifesta precocemente e che trova espressioni diverse a seconda delle modalità immaginative e rappresentative che sono a disposizione dell’individuo nei vari momenti dello sviluppo. Negli anni il bambino svilupperà tale funzione progressivamente, giocandola su un piano fantasmatico e concreto, tramite continue identificazioni con gli adulti di riferimento e con il gruppo dei pari (Fava Viziello, 2003).

I numerosi significati collegati alla genitorialità sono imprescindibili dalla comprensione di alcuni aspetti dello sviluppo, delle capacità relazionali e dell’adattamento sano o psicopatologico dell’individuo al proprio ambiente (Simonelli, Zancato & Calvo, 2000).

Essa viene di norma identificata nell’abilità di riconoscere (con o senza una chiara consapevolezza) i bisogni del bambino:

  • a) per il suo benessere fisico,
  • b) per il suo nutrimento,
  • c) per curare l’opportunità di relazionarsi con gli altri,
  • d) per garantire la crescita fisica e l’esercizio di funzioni mentali e fisiche,
  • e) per offrire l’aiuto nel relazionarsi con l’ambiente (cfr. Satir V. et al.,1991: The Satir Model).

L’incapacità di svolgere in maniera adeguata la funzione genitoriale non è semplicemente legata ad una scarsa competenza pedagogica, ma chiama in causa -secondo Vadilonga (1996)- l’identità personale, la qualità e l’intensità delle relazioni emotive con le persone significative della famiglia nucleare e di quella estesa, l’investimento affettivo rivolto ai bambini che sarebbe controllato dai sentimenti attivati nelle relazione tra adulti. Si può affermare che la maggior parte dei disturbi psicopatologici che si manifestano nell’adolescenza prima, e nell’età adulta dopo, sono strettamente correlati all’esistenza, fin dai primi anni di vita, di una situazione di disagio personale e relazionale dei genitori che investe il legame di coppia, e ricade inevitabilmente sulla relazione col bambino (Selvini Palazzoli et al.,1988; Cambiaso et al.,1992,1993).

La “vulnerabilità” e la “resilienza” delle capacità genitoriali sono due concetti determinati da una moltitudine di fattori interagenti che spesso è difficilissimo isolare e studiare. In un groviglio di interazioni a catena e di circoli viziosi o benigni che portano alla psicopatologia o alla “normalità” sembra che la funzione genitoriale sia quella con il maggior peso sullo sviluppo, più di ogni altra. Avere una personalità con un Sé resistente alle difficoltà e alle avversità che non ceda allo stress o all’angoscia in maniera eccessiva è una cosa che “si trasmette” ai figli attraverso la costruzione di una base sicura sulla quale si può immaginare, sognare, allontanarsi e ritornare (Bowlby, 1980; Alvarez, 1992;).

Maltrattamento e genitorialità

La trascuratezza da parte dei genitori pertanto, non è una generica incapacità genitoriale ma è strettamente connessa alle relazioni tra i genitori-partner e di ciascuno di essi con la propria famiglia d’origine (Malacrea, Vassali, 1990). A questo proposito Malagoli Togliatti e Tofani (1987), individuano nella famiglia multiproblematica (definita da Mazer come un gruppo famigliare composto da due o più persone in cui il 50% dei membri ha sperimentato, in un arco di tempo indicato – dai 3 ai 5 anni- problemi di pertinenza di un servizio sociale e/o socio-sanitario o legale problematiche di tipo psichiatrico, educativo, coniugale, socio-legali), un’intricata rete di variabili che, partendo da un’analisi della coppia a partire dal presente della loro stessa generazione, considera: le modalità socio culturali, economiche ma anche psicologiche cognitive ed affettive, di formazione della coppia; il cambiamento complesso ed impegnativo innescato dalla presenza dei figli: la diade non è più tale e risulta fisiologico un adattamento della stessa, ma anche dell’identità dei coniugi col ruolo di genitori, padre e madre, tutto ciò nell’ottica di apertura verso i ritmi e la personalità del figlio. A seconda del rispetto dell’identità dei ruoli e dei compiti parentali va a strutturarsi un sistema famigliare più o meno funzionale.

I genitori maltrattanti generalmente, sono anche coniugi insoddisfatti con il partner, anche se non necessariamente conflittuali. Hanno insicurezze di fondo, ansie di abbandono, di perdita, di separazione, esperienze traumatiche, bisogni insoddisfatti non riconosciuti che non hanno ricevuto compensazione con altre persone in fasi seguenti del ciclo di vita. Per questo motivo, per comprendere il maltrattamento, bisogna riflettere su tre generazioni: gli studi sull’attaccamento confermano il fatto che l’attaccamento e la violenza si trasmettono da una generazione all’altra attraverso relazioni; Framo (1996) ha scritto che diciamo al partner e ai figli quello che non siamo mai riusciti a dire ai nostri genitori (Masè, 2002)

I processi che sfociano nella trascuratezza e nel maltrattamento sembrano, al pari di quanto osservato per la schizofrenia, evolvere su un arco di tre generazioni; con la differenza, come notano Cirillo e Cipolloni (1994) che in queste famiglie i membri problematici sono più di uno, distribuiti sull’asse trigenerazionale e portatori di diverse tipologie di disagio psicosociale. Bowlby (1988) sostiene a proposito dello sguardo generazionale al maltrattamento, che i genitori trascuranti, maltrattanti o abusanti, sono stati spesso a loro volta esposti a tali esperienze che interiorizzate vengono riprodotte nella generazione successiva; questo fenomeno è descritto in letteratura con il termine “ciclo ripetitivo dell’abuso”. Da questi vissuti ne scaturisce un’insicurezza di fondo nelle relazioni affettive, che vengono vissute con timore di perdita, di abbandono, di separazione.

Anche secondo Stratton, Hanks (1994) raramente l’abuso si presenta come modalità “nuova e sconosciuta” causa di fattori elicitanti quali stress, condizioni socio economiche, malattia ecc., spesso l’abuso è pratica consolidata nella storia della famiglia parentale ed i genitori stessi sono stati vittime di abuso. Tali considerazioni sono frutto delle osservazione trasgenerazionali, tuttavia è importante tenere presente che tra il maltrattamento attuato dai genitori e il danno psichico nel figlio esiste sì un rapporto di forte probabilità ma non di determinismo in quanto possono intervenire nella loro relazione sia elementi protettivi sia fattori di rischio (Di Blasio,2000).

Questa analisi permette l’accenno alle modalità di “doppio legame (Bateson,1976) che si instaurano in queste famiglie spesso con problematiche anche nella comunicazione; Andreoli (2004), osserva che troppo spesso i bambini finiscono per diventare gli ammortizzatori di un dissidio relazionale nei confronti del partner, dei famigliari, dei colleghi di lavoro, ecc. L’educatore ha un problema che fatica a chiarire dentro di sé o che rifiuta di affrontare: “fortunatamente” c’è a disposizione un bambino su cui spostare l’attenzione, su cui concentrare i propri sforzi. A volte questa mancanza di chiarezza di fondo in se stessi, una situazione di coppia intimamente lacerata, un disagio generico nelle relazioni che incida sulla sfera personale dell’individuo senza possibilità di elaborazione ed aiuto psicologico, può far nascere modalità disfunzionali di comunicazione tra genitori e figli, richieste, ammonimenti, osservazioni “paradossali”. Naturalmente in questo caso il potenziale di conflitto che si innesca nel rapporto è molto alto e ciò può interferire negativamente con la crescita figlio, anche perché il bambino è un recettore sensibile, una vera e propria carta assorbente di tutte le tensioni, particolarmente nei linguaggi non verbali.

L’interprete: come il cervello decodifica il mondo (2011) di Michael Gazzaniga- Recensione del libro

Il libro L’interprete. Come il cervello decodifica il mondo di Michael Gazzaniga edito da Di Renzo Editore è un titolo accattivante che potrebbe essere fuorviante per chi non conoscesse l’autore e i suoi studi.

 

Michael Gazzaniga è un neuroscienziato americano di origini italiane (come si diletta a dichiarare nel libro) e fin dall’inizio della sua carriera scientifica ha basato i suoi studi sul cervello, in particolare gli effetti dello split brain (recisione del corpo calloso) sugli emisferi destro e sinistro. Attualmente è direttore del Sage Center , un centro istituito per lo studio della mente presso l’Università della California di Santa Barbara.

Come dichiara l’autore nel libro L’interprete. Come il cervello decodifica il mondo, l’obiettivo del centro di ricerca è quello di agire da catalizzatore negli studi interdisciplinari sulla relazione tra mente e cervello e sviluppare metodi innovativi in grado di risolvere o chiarire questioni ancora aperte servendosi delle neuroscienze cognitive, che Gazzaniga definisce come:

il metodo mediante il quale speriamo di poter costruire un qualche tipo di ponte in grado di collegare gli aspetti neurofisiologici delle funzioni cerebrali con lo sviluppo dei concetti astratti.

Il riferimento a questo obiettivo è presente durante tutta la lettura del libro e viene affiancato da una costante ispirazionale che ha caratterizzato gli studi scientifici dell’autore: la teoria della selezione naturale. Con tale teoria, l’autore fornisce un fondamento alle sue argomentazioni e, con semplicità, sfata alcuni miti ancora attuali.

Le citazioni che Gazzaniga fa spesso ai suoi lavori, seppur un accettabile invito a conoscerli meglio, rendono, a volte, difficoltoso al lettore coglierne il collegamento. È proprio tra racconti personali e autocitazioni che si entra nel vivo di argomentazioni più scientifiche in merito alla specificità del corpo calloso, alle conseguenze della sua recisione e a come i due emisferi, ognuno con specifiche funzionalità, possano sviluppare competenze che appartengono alla controparte seppur legate a un dogma di complementarietà tra loro, ne è un esempio questo passaggio del libro:

Anatomicamente, l’emisfero destro è quasi del tutto privo di linguaggio. Eppure, a volte, a seguito di un incidente che compromette la funzionalità della parte sinistra del cervello, la natura sviluppa competenze linguistiche anche nell’emisfero destro. […] L’emisfero destro non migliora molto le sue prestazioni linguistiche, anche se chiamato a farlo. Ciò suggerisce che l’emisfero sinistro è l’unico vero responsabile della conoscenza superiore. È lui che svolge il compito maggiore, laddove il destro si limita a catalogare i risultati inviategli dalla sua controparte attraverso nuovi attributi linguistici.

Travolti dalla capacità narrativa dell’autore ci si imbatte sul ribaltamento delle credenze popolari sugli emisferi che, ancora oggi, vengono imposti come veri e propri dogmi scientifici.

Così l’autore si diletta a destrutturare queste argomentazioni e, finalmente, a condurre il lettore alla rivelazione della funzione dell’emisfero sinistro come “interprete”, definito così sulla base del suo tentativo di descrivere in che modo tale emisfero reagisca al comportamento dell’emisfero destro.

Infine, non meno importante e scontato è il tema della coscienza, definita all’inizio del capitolo come “il sentimento che si ha di un processo cognitivo specializzato”. Proseguendo nella lettura, la coscienza viene legata alla nozione di interprete, giungendo anche questa volta a sfatare alcuni miti e lasciare il lettore meravigliato “dalla sensazione di essere artefici del proprio destino”.

Il libro L’interprete. Come il cervello decodifica il mondo di Gazzaniga è, dunque, un intreccio tra autobiografia e una viva discussione dei principali dogmi che hanno guidato fino a pochi anni fa la ricerca scientifica sul cervello, riuscendo così a raccontarci il cervello attraverso i ruoli dei due emisferi senza cadere in noiosi tecnicismi che potrebbero annoiare un lettore non avvezzo alla materia.

La perdita peri e post natale – Report dal convegno di Palermo del 30 novembre

La perdita di un figlio rappresenta sicuramente per la coppia un momento di profondo dolore emotivo che necessita di sostegno psicologico e raccordo tra gli operatori del settore medico, psicologico, infermieristico, anche in previsione di gravidanze future e per la salvaguardia del benessere sessuale e relazionale della coppia.

 

Questo il messaggio forte trasmesso a Palermo in occasione dell’evento formativo dal titolo La perdita peri e post natale: dialogo tra i sistemi coinvolti svoltosi lo scorso 30 Novembre presso la sontuosa sede dell’Hotel Best Western ai Cavalieri.

Perdita peri e post natale: la coppia genitoriale di fronte al lutto

Perdere un figlio rappresenta per la coppia perdere la sopravvivenza stessa, una minaccia effettiva – commenta Enrico Cazzaniga, psicologo psicoterapeuta – Si tratta di sperimentare una solitudine irriducibile, per affrontare la quale la coppia necessita di supporto, prendendosi cura del lutto stesso e resistendo alla seduzione del dolore, che prende il posto di chi non c’è più. Ecco perché il fine del supporto psicologico è l’integrazione della perdita e l’instaurarsi della nostalgia, quale sentimento doloroso tollerabile, relativo al ricordo di chi non c’è più.

Perdita peri e post natale - Report dal convegno di Palermo foto 1Imm. 1 – L’INTERVENTO DI ENRICO CAZZANIGA

La perdita che può ora derivare da un aborto ora dalla scelta dibattuta della riduzione selettiva, con tutti i sensi di inadeguatezza, colpa e disagio che questa comporta.

Ridurre volontariamente la vita di uno di due gemelli, per complicanze gravi in caso di mancato intervento, è senz’altro una scelta complessa, se di scelta si può parlare nel caso di morte di un figlio, percepita come un atto di distruzione causato dallo stesso genitore, con vissuti di colpa, devastanti e invalidanti – apre la sua toccante relazione la Dottoressa Messina, psicologa psicoterapeuta – In tal caso il sostegno psicologico consisterà nell’informare i genitori sul percorso medico da seguire, sostenendoli durante e dopo l’intervento di riduzione, utilizzando un linguaggio semplice e comprensibile.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO:

Perdita peri e post natale: un evento da gestire in equipe

La perdita, quindi, come evento di difficile gestione, che richiede un lavoro di rete che interessa tutta l’equipe medica, lo psicologo e i sanitari che ruotano intorno alla coppia.

Il momento successivo alla perdita è estremamente delicato e richiede l’intervento tempestivo dello psicologo e dell’anatomo patologo, in un rapporto di strettissima collaborazione – continuano Gabriella Ottoveggio, anatomo-patologa specialista nel campo delle patologie feto-placentari e Messina – Il primo step successivo alla perdita è capire cosa può essere successo; attraverso il supporto del medico e dello psicologo la coppia si sentirà aiutata e riuscirà ad elaborare l’evento perdita anche in vista di gravidanze future. L’anatomopatologo, dal canto suo, sosterrà la coppia verso l’approfondimento delle cause della perdita fetale e degli esami medici necessari, proponendo un piano operativo, in stretto raccordo con infermieri e psicologi.

Umanizzazione dei percorsi assistenziali, collaborazione tra diverse specializzazioni, dialogo intersistemico, coinvolgimento attivo della coppia e gestione della crisi: un’ottica collaborativa attraverso cui guardare alla perdita come un evento, seppur critico, da accettare nel suo accadere e a partire dal quale attivare quella resilienza necessaria per proseguire il più serenamente nella direzione di genitori e coppia, sostenuti da una reta di professionisti, insieme empaticamente coinvolti dagli effetti di quel dolore muto che costituisce ogni trauma.

Tecnologia digitale: i rischi per la nostra società

Il digitale è attualmente cruciale per il funzionamento della società ma la vera rivoluzione è lungi dall’esser conclusa, in quanto, mentre la tecnologia avanza in un modo sempre più sofisticato e pervasivo, la società deve ancora comprendere i suoi effetti inaspettati, siano essi positivi o negativi

 

Un articolo di Makin, recentemente pubblicato su Nature Outlook, offre uno spunto per una riflessione. Viviamo nell’era dell’iperconnessione, in contatto con tutti e in qualunque momento tramite internet e piattaforme social, anche quando siamo seduti a tavola con altri e dovremmo condividere con loro un momento conviviale; non stacchiamo quasi mai le mani e purtroppo neanche la mente, dal nostro smartphone.

Secondo i dati riportati da Ofcome, l’organo preposto alla regolazione quotidiana delle telecomunicazioni in Gran Bretagna, circa il 78% della popolazione, di cui la grande fetta appartenente alla fascia 16-24 anni, non solo possiede uno smartphone ma in media vi accede circa ogni 12 minuti, mentre un adulto su cinque spende più di 40 ore ogni settimana online.

Questi dati ci impongono una riflessione: stiamo diventando dipendenti o nell’ultima decade stiamo assistendo a cambiamenti così repentini nel nostro modo di interagire, comunicare o pensare?

Tecnologia digitale per bambini e adolescenti

Quando si riflette su questi temi, fondamentalmente si finisce a percorrere due strade: una per la quale viviamo in una società in cui l’attività umana soprattutto di tipo relazionale è stata quasi del tutto sostituita e delegata ai social network; questi ultimi hanno sostituito l’interazione vis-a-vis e hanno modificato la comunicazione interpersonale, rendendoci meno empatici e più critici. Una società in cui l’utilizzo massiccio di tablet, smartphone o videogame sta lentamente depauperando le nostre capacità cognitive, soprattutto attentive e mnestiche.

L’altra strada, al contrario, cerca di riflettere in modo più sistematico e “scientifico” sull’impatto che la tecnologia digitale sta avendo sulla nostra mente e sulla salute mentale per comprendere al meglio le conseguenze del vivere in un mondo digitale (Makin, 2018).

La tecnologia digitale viene accusata di numerosi effetti dannosi, da problemi di salute mentale ad un impoverimento delle capacità cognitive, in particolare in determinate fasce di età di sviluppo più vulnerabili sia in infanzia che in adolescenza.  Ad esempio Naomi Baron, dell’American University, Washington DC, ritiene che i costi relativi all’utilizzo di apparecchi digitali nella lettura, soprattutto per i ragazzi, riguardino non tanto la lettura come abilità ma la modalità attraverso la quale essi si approcciano alla lettura (Makin, 2018).

Coloro che si ingaggiano nella lettura di materiale cartaceo sembrano essere più abili e maggiormente coinvolti quando sono chiamati successivamente a riportare alla mente specifici dettagli relativi a ciò che hanno letto e nel ricostruire la trama, rispetto a coloro che, al contrario, leggono lo stesso testo ma su dispositivi elettronici e questo perché, in essi, le risorse impiegate per la concentrazione tendono a disperdersi più rapidamente rendendo la lettura più superficiale e veloce.

A parere della ricercatrice, l’attenzione passerebbe rapidamente da una riga ad un’altra diversamente dal testo stampato.

Tecnologia digitale e multitasking

Il fatto che le tecnologie digitali incoraggino l’esecuzione di abilità multitasking ha inoltre fatto pensare ad effetti negativi sull’attenzione; in particolare lo studio di Ophir, Nass e colleghi (2009) ha mostrato come coloro che mettevano in campo diverse abilità contemporaneamente in un compito cognitivo fossero meno abili a filtrare le distrazioni e risultavano quindi i peggiori nei task attentivi.

In aggiunta a questo impoverimento delle abilità di focalizzazione e shift dell’attenzione in specifici task, uno studio di Rosen e colleghi (2014) ha sottolineato il significativo stress a cui ci sottopongono questi device: un gruppo di studenti a cui veniva chiesto di lasciare i loro smartphone per almeno un’ora, riportavano livelli di ansia proporzionali alla quantità di tempo in cui si separavano dal cellulare, livelli così alti che Larry Rosen, psicologo alla California State University, ha parlato di “vibrazione fantasma della tasca” un fenomeno simil allucinatorio per cui i ragazzi avvertivano erroneamente l’arrivo di notifiche dal loro smartphone.

Tecnologia digitale e memoria

Anche la memoria è stata oggetto di numerosi dibattiti e controversie soprattutto riguardo al cosiddetto Google effect, l’idea che le persone siano meno inclini a richiamare alla mente informazioni che essi possono consultare o riprendere più tardi utilizzando il noto motore di ricerca e pertanto non si impegnano nella “ricerca mentale” (Makin, 2018).

Gli adolescenti sono comunemente considerati più a rischio di sviluppare problematiche psicologiche a seguito delle numerose ore trascorse su questi dispositivi tecnologici (Twenge, Joiner, Rogers & Martin, 2018).

Lo studio di Twenge e colleghi (2018) ha infatti sottolineato una discreta correlazione tra l’aumento di sintomi depressivi, comportamenti suicidari e quantità di tempo impiegata sui dispositivi.

Tuttavia la correlazione non è risultata significativa e, a parere degli autori, ciò sarebbe dovuto al fatto che negli adolescenti i comportamenti online e offline spesso non si possono scindere e che i ragazzi che nelle relazioni offline mostrano alcune difficoltà molto probabilmente le esibiranno anche in quelle online.

Pertanto, seguendo le evidenze in questo ambito, non è corretto affermare che la cosiddetta “realtà online” sia la causa scatenante del malessere psicologico degli adolescenti, semmai il rifugiarsi in essa potrebbe rappresentare per i ragazzi una modalità di coping per fronteggiare le loro preesistenti vulnerabilità in quanto, in esso, si utilizzano altre modalità di comunicazione e interazione.

Tecnologia digitale: i rischi dell’uso sono ancora molto sconosciuti

Prezioso il contributo di Przybylski & Weinstein, (2017), i quali hanno tentato con i loro numerosi studi di abbattere alcuni luoghi comuni di pensiero e credenze circa l’associazione negativa in adolescenza tra tempo speso su piattaforme online, videogiochi, TV, smartphone e salute mentale.

A loro parere infatti non è plausibile l’idea che il tempo impiegato davanti ad uno schermo, sia esso della televisione, dello smartphone per chattare o chiamare, sia il medesimo, cioè abbia le stesse caratteristiche per cui sia lecito metterlo a confronto. A parità di tempo speso su questi apparecchi elettronici, il suo significato e qualità cambia da apparecchio a apparecchio.

In aggiunta a ciò, i risultati del loro studio (Przybylski & Weinstein, 2017), hanno mostrato come l’andamento della salute mentale negli adolescenti subiva un netto peggioramento dopo circa 5 ore dall’utilizzo giornaliero di specifici device digitali, in particolare su computer e televisione, mentre un loro uso “moderato” è risultato essere associato ad uno stato di salute mentale più alto. Come dire, in medio stat virtus.

Da questa breve rassegna, per il momento, siamo solo in grado di incrementare la conoscenza circa gli effetti positivi e negativi relativi a questa società digitale, senza poter ancora stabilire con chiarezza la sua pericolosità.

Bambini ed emozioni: l’importanza di non sopprimere le emozioni in famiglia

Secondo una nuova ricerca, esprimere le emozioni “negative” in maniera sana di fronte ai bambini è meglio che sopprimerle. Chi di noi non ha mai sentito o pronunciato frasi del tipo “Non di fronte ai bambini”?

 

Proprio attraverso questa supplica secolare, i genitori sperano di nascondere conflitti o forti emozioni negative di fronte ai propri figli.

Bambini ed emozioni: la ricerca su come i genitori le gestiscono in famiglia

La nuova ricerca della Washington State University smentisce questo modus operandi ormai interiorizzato dalla maggioranza dei genitori. I ricercatori, al contrario, sostengono l’idea che esprimere le emozioni sia più benefico per l’interazione con i propri figli. Lo studio è stato condotto a San Francisco. Sono stati presi in considerazione 109 madri e padri, e i rispettivi figli. Il campione è stato suddiviso come segue: un gruppo era composto da sole madri e un altro dai padri. Lo scopo della suddivisione del campione era quello di indagare se vi fossero anche differenze di genere (Karnilowicz, Waters, & Mendes, 2018).

Prima di tutto, i ricercatori hanno assegnato ai genitori compiti stressanti come parlare in publico e ricevere feedback negativi dall’audience. Successivamente, i genitori sono stati coinvolti con i figli in attività di cooperazione, con l’indicazione di sopprimere le proprie emozioni di tanto in tanto. Al contrario, ai bambini era stata data l’istruzione di agire in maniera naturale. L’attività era uguale per tutti: lavorare insieme con i propri genitori nell’assemblaggio di un progetto Lego.

I bambini (di età compresa tra i 7-11 anni) hanno ricevuto un libretto d’istruzioni, ma non gli era permesso di toccare fisicamente i Lego. Erano i genitori a dover assemblare nella pratica il progetto, senza però guardare il libretto d’istruzioni. Questo aveva lo scopo di forzare genitori e bambini a lavorare in maniera stretta e compatta per il successo dell’attività. Uno degli elementi di interesse di questo studio era rivolto ai comportamenti di socializzazione.

Bambini ed emozioni: i risultati della ricerca

Pertanto, sono stati osservati: la reattività, il calore, la qualità delle interazioni e il modo in cui il genitore assumeva il ruolo di guida per il bambino. I ricercatori hanno poi guardato 109 video delle interazioni per rilevare ogni emozione, ogni istante di calore e di orientamento. Inoltre, entrambi genitori e figli, sono stati collegati a vari sensori per tenere sottocontrollo il battito cardiaco, i livelli di stress e altre variabili. E’ emerso che i genitori che tentavano di sopprimere il proprio stress sono risultati compagni meno efficaci e positivi durante il compito dei Lego. Infatti, essi fornivano meno indicazioni ai bambini; i bambini, a loro volta, erano meno reattivi e meno positivi verso i genitori. Era un pò come se i genitori stessero trasmettendo le loro emozioni soppresse ai figli (Karnilowicz, Waters, & Mendes, 2018).

Per quanto riguarda le differenze di genere, è interessante come (in questo studio) la soppressione emotiva ha reso i bambini più sensibili verso le madri. Infatti, i bambini hanno mostrato meno cambiamenti nelle risposte quando i padri nascondevano le emozioni negative. E’ chiaro che ci vorranno ulteriori ricerche per approfondire suddette differenze.

Per quanto riguarda i bambini e le emozioni, molte ricerche precedenti hanno dimostrato che i bambini sono molto abili nell’acquisire “informazioni emotive” dai loro genitori. Perciò, se il bambino sente che è successo qualcosa di negativo e in maniera incongrua, il genitore agisce come se non fosse successo nulla, il bambino si sentirà confuso. Così facendo, il genitore manderà un messaggio ambiguo al proprio figlio. Pertanto, i ricercatori sostengono che piuttosto che sopprimere le emozioni, la migliore scelta sarebbe mostrare ai propri figli l’intera traiettoria di una sana discussione, dal suo inizio alla sua risoluzione. E’ consigliabile, quindi, insegnare ai bambini a regolare le proprie emozioni e a risolvere i problemi, sottolineando che i problemi non sono da evitare ma, al contrario, si possono risolvere (Karnilowicz, Waters, & Mendes, 2018). E’ giusto far capire che le emozioni negative esistono, che è normale provarle e che possiamo trovare una soluzione per migliorare il nostro stato d’animo.

Il ruolo del padre nello sviluppo della depressione infantile

La depressione infantile viene di solito associata, sul piano clinico-terapeutico, esclusivamente alle dinamiche interne alla diade madre-bambino. In realtà, alla nascita, ogni individuo compie il passaggio da una relazione duale ad una triangolazione.

 

Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre. (Freud S., 1929)

Come afferma Green (1983):

Il destino della psiche umana è sempre quello di avere due oggetti e mai uno solo (…). Il padre è presente, contemporaneamente, presso la madre e presso il bambino, fin dall’inizio. Più esattamente fra la madre e il bambino (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Depressione infantile e triade

La funzione del padre è stata molto valorizzata dagli studi di Freud, in particolare nell’elaborazione del conflitto Edipico, nello sviluppo dell’identità sessuale, nello sviluppo del Super-Io e di un codice etico e morale (Baldoni, 2009). L’oggetto paterno si offre anche come “riparatore” dei danni che il bambino inferisce, alla madre o al padre, in fantasia (Funari, 1999).

Il ruolo della figura paterna nella fase pre-edipica è stato però per anni trascurato e lo studio dello sviluppo infantile si è più che altro focalizzato sull’interazione diadica (Baldoni, 2009). Il padre assume in realtà un ruolo importante nei primi anni di vita del bambino, però non tanto nel rapporto diretto con esso quanto più all’interno della triade (Baldoni, 2005).

Infatti, nella prima infanzia, il padre è innanzitutto un oggetto della madre che lo incorpora e lo simbolizza come pene nel ventre materno e, in tale fase, il padre deve tutelare la relazione madre-bambino, svolgendo la funzione di supporto e contenimento emotivo per la madre durante la gravidanza e il post-partum, assumendo quindi una funzione antidepressiva (Klein, 1932; Baldoni, 2005).

La madre reca in sé, la rappresentazione arcaica del proprio padre e del padre dei propri figli e quindi la funzione paterna è data dall’articolazione della mentalizzazione primaria della madre. È la ricerca del desiderio materno, dell’oggetto desiderato dalla madre che porta il bambino a ricercare il padre (Starace, 1999).

L’accesso al padre non è quindi diretto, anzi assume strade più tortuose e basate sulla percezione della “estraneità” e della “esternità”, a differenza invece della funzione materna che è riconoscibile e vivibile in modo immediato (Starace, 1999).

Depressione infantile e fallimento narcisistico

Il padre si pone, nello sviluppo infantile, come un secondo oggetto, come un oggetto d’amore da acquisire. La madre e il suo seno vengono vissuti dal bambino come appartenenti al Sé, mentre il padre, il secondo oggetto, si presenta come estraneo ed esterno al Sé. Infatti, all’interno delle prime organizzazioni fantasmatiche infantili, il padre viene vissuto come una minaccia per i vissuti di fusionalità con la madre ma il ruolo paterno è indispensabile per condurre il bambino verso l’accettazione della realtà e dell’esperienza di separazione e individuazione (Funari, 1999). Il padre, oltre a porsi come limite all’unità duale onnipotente tra madre e bambino, permette anche di rinforzare il Sé del bambino, sottraendolo dall’angoscia di simbiosi, cioè dall’angoscia di essere riassorbito dalla madre che si oppone all’individuazione (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Il padre, inoltre, partecipa attivamente ad un’importante funzione, l’holding, in cui insieme alla madre permette al bambino di delimitare e nominare le varie parti e funzioni del corpo, in modo da creare una rappresentazione mentale di esso (Di Benedetto, 1999).

È chiaro quindi come l’approccio teorico-clinico non può più basarsi solo sulla concezione della depressione in età evolutiva come una conseguenza del disagio libidico-emotivo tra madre e bambino, ma deve anche prendere in considerazione la possibilità che sia un insieme di dinamiche associate alla relazione triadica. La depressione allora non può essere considerata solo una reazione alla perdita dell’oggetto materno ma deve essere colta anche come segnale legato alla perdita, reale o fantasmatica, delle funzioni narcisistiche insiste nella relazione oggettuale triadica. Infatti, il narcisismo, oltre ad essere uno stadio dell’evoluzione della libido, risulta essere anche un modello di funzionamento psichico in cui l’acquisizione di ogni funzione o struttura, è legata non solo agli istinti ma anche alla relazione narcisistica tra il Sé e la persona adulta e la conseguente interiorizzazione di essa nel Sé. Relazione oggettuale e narcisismo non si escludono quindi a vicenda, anzi l’Io si sviluppa proprio attraverso le relazioni narcisistiche con gli oggetti, con i caregivers. La reale distinzione quindi non è tra narcisismo e relazione oggettuale, bensì tra narcisismo infantile e quello maturo. Infatti, solo se avviene un’evoluzione dal primo al secondo, sarà possibile la relazione con le persone come altri da sé (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

La depressione risulta quindi essere la risposta emotiva del figlio al fallimento narcisistico di uno o entrambi i genitori, inteso come perdita traumatica di una persona che dovrebbe assumere una funzione che la psiche del bambino non è in grado di svolgere da sé. Infatti, la depressione patologica si instaura nel momento in cui il bambino, se è ancora allo stadio del narcisismo infantile e quindi non ha potuto compiere il processo di interiorizzazione della funzione, interiorizza l’oggetto che ha perso e che però è indispensabile per il sé ancora immaturo (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Depressione infantile e coppia genitoriale

Il bambino, nella relazione con il padre, vive una forte idealizzazione che deriva dal bisogno narcisistico di sentirsi accolto e riconosciuto dal padre, dalla sua grandezza di adulto e proprio l’accettazione, da parte del padre, di tale funzione permette al figlio di sentirsi parte di tale ideale. Attraverso l’interiorizzazione e l’identificazione, il bambino può acquisire le strutture endopsichiche che gli consentono di svolgere autonomamente quelle funzioni. Quando però la relazione narcisistica è ostacolata da gravi problemi empatici, la funzione paterna si limita ad assumere il ruolo di un Super-Io normativo e castrante e la funzione materna invece diventa colpevolizzante e limitante. In questo modo i genitori non stimolano le capacità maturative del figlio e limitano il suo sviluppo. È giusto però sottolineare come la funzione idealizzante, tipicamente attribuita al padre, e la funzione speculare materna, siano in realtà funzioni interscambiabili e non rigidamente assegnate ad ognuno. Infatti, quando entrambi i genitori riescono a svolgere entrambe le funzioni in modo armonioso, rendono possibile uno sviluppo adeguato della relazione e quindi del figlio, come individuo a sé (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Il normale sviluppo del figlio è quindi garantito dall’affrontare, nella triangolazione, la nuova realtà che si viene a creare con l’individuazione del bambino e dall’accettazione, da parte della coppia genitoriale, della continua evoluzione del bambino, reinventando costantemente i ruoli e le reciproche relazioni del sistema triangolare (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Le radici della depressione si rintracciano quindi, non solo nella perdita dell’oggetto interno investito in modo ambivalente per cui il soggetto teme di averlo distrutto ma, anche nel passaggio dagli aspetti narcisistici a quelli oggettuali. In questo caso, la perdita non riguarda un oggetto ma il fallimento della funzione narcisistica dei genitori (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

È necessario allora, nel trattamento, concentrarsi non solo sul bambino e sulla diade madre-bambino ma includere anche il padre, agendo sulle dinamiche relazionali consce, preconsce e inconsce, sul rapporto genitori-figlio e tra i genitori. La centralità delle dinamiche relazionali profonde genitori-figlio, nei quadri depressivi in età evolutiva, non può non essere considerata ma, anzi deve porsi come elemento strutturante la psicoterapia (Capuzzo, Panti, Resta, 1994).

Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia (2018) – Recensione del libro

Il testo Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia racconta la difficoltà di molte persone nel riconoscere le proprie emozioni e di come la terapia possa stimolare una curiosità aperta e onesta per quello che si sta provando verso una maggiore conoscenza di sé.

 

Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia è un testo di grande aiuto clinico, da un punto di vista pratico e teorico. Come l’autore Elliot L. Jurist sottolinea, nella psicoterapia moderna vi è un grandissimo interesse verso il mondo delle emozioni in riferimento sia all’identificazione quanto alla loro modificazione e regolazione. Tale attenzione è giustificata dal fatto che i pazienti che arrivano in terapia possono avere molti deficit in tal senso, soprattutto quella categoria di clienti che rientra nei disturbi di personalità. Ma non vogliamo ridurre solo a questo in quanto capita davvero a tutti, in alcune circostanze o momenti di vita, di non afferrare l’emozione che si prova o di non riuscire a gestirla in modo funzionale. Jurist ci tiene a sottolineare che anche i terapeuti non sono immuni dai problemi di identificazione emotiva.

La peculiarità del testo Tenere a mente le emozioni è che, oltre ad avere una narrazione tipicamente tecnica, unisce stralci di episodi clinici, riferimenti letterali e scientifici per chiarire le questioni di volta in volta sollevate. Merito a Jurist per aver reso, grazie a questo interessante intreccio, la lettura fluida e notevolmente scorrevole, senza risultare pesante neppure nei punti più teorici. Inoltre le citazioni ed i riferimenti bibliografici sono di grande interesse e, in base alle evidenze scientifiche che più sembrano essere utili al clinico che è vicino a questo tipo di argomentazioni.

Tenere a mente le emozioni significa: identificazione, modulazione ed espressione emotiva

Il testo è diviso in due macro parti, ognuno diviso in sottoparagrafi.

Nella prima parte si esamina la questione dell’identificare, modulare ed esprimere le emozioni. In particolare l’autore specifica la differenza tra “alessitimia” e quelle che lui stesso definisce come “emozioni aporetiche” per riferirsi alle emozioni poco chiare o confuse. Secondo Jurist per trascendere le emozioni aporetiche bisogna mentalizzarle: grazie all’interpretazione della realtà ed alla comprensione di sé e degli altri, cosa che dovrebbe sempre accadere nella stanze dei terapeuti impegnati nelle sedute, attraverso un esercizio continuo, attraverso l’analisi mentalistica degli episodi. È interessante sottolineare che per “affettività mentalizzata” (AM) si intende un processo attraverso il quale le emozioni sono filtrate dalla memoria autobiografica: il proprio passato e la propria identità influenzano le esperienze emotive attuali e tale influenza deve essere resa esplicita e mediata dalla relazione.

L’identificazione emotiva non è un processo lineare ed è condizionato da tanti fattori come la presenza dell’altro con cui siamo in reazione e, di conseguenza, anche con le sue emozioni e come queste ultime impattano. Il tempo e lo sforzo per identificare le emozioni sono, quindi, estremamente variabili. L’alessitimia implica la presenza di una difficoltà a riconoscere i propri sentimenti ma con il costrutto “emozioni aporetiche” si intende le emozioni vaghe, prive di una netta caratterizzazione, cosa che accade quando sappiamo di provare qualcosa ma non sappiamo cosa sia. Infatti “a=senza” e “poros= accesso”; questa etimologia indica la difficoltà nell’accedere ad un piano di conoscenza esplicito ma non una impossibilità a farlo. Sappiamo che è possibile allenare questa abilità e sviluppare un curioso interesse verso le proprie emozioni, consapevoli che di fronte ad ogni situazione, tutti provano qualcosa e tutti provano qualcosa rispetto a quello che si sente. In tal senso Greenberg (2015) ci dice molto sul ruolo delle emozioni secondarie che hanno il compito di camuffare le primarie. Tra i deficit dell’identificazione riscontriamo spesso un deficit di identificazione semantica, relativo al mancato processo di etichettamento, che può esplicitarsi attraverso una circonlocuzione, cioè l’uso di un giro di parole.

Perché è utile identificare le emozioni? La risposta è che sono utili in termini di sopravvivenza e rendono possibile l’auto-conoscenza in quanto “sapere ciò che si sente è parte della conoscenza di sé” ma non è necessariamente connessa al grado di soddisfazione della propria vita (Greenberg (2017): conoscere quello che proviamo non vuol dire essere più felici, ma capire come mai siamo infelici. L’obiettivo ultimo è sapere cosa si prova, perché facilita la comunicazione e l’eventuale condivisione con l’altro e questo è un dato da tenere ben presente all’interno della relazione terapeutica.

La modulazione emotiva si può esplicitare attraverso la mindfulness, che insegna l’accettazione, invece di operare un intervento attivo sulle emozioni, oppure attraverso una rivalutazione cognitiva come descritto nel “Process Model” teorizzato da Gross e Thompson nel 2007 in cui ruolo fondamentale è dato dal processo di regolazione focalizzata sull’antecedente e sulla risposta. Jurist preferisce parlare di “modulazione” invece che di “regolazione”: la regolazione sembra essere connessa al controllo cognitivo mentre la modulazione prevede l’essere responsivi, il fare aggiustamenti per unire ed armonizzare aspetti importati del proprio mondo emotivo. La mindfulness, quindi, permette al soggetto di vedersi come oggetto, amplia la capacità di assumente il punto di vista altrui, favorendo l’empatia invece del distacco o dell’ottundimento. I due modelli si riferiscono a due punti di vista diversi: uno è un modello stimolo-risposta mentre l’altro è basato sull’accettazione non giudicante e compassionevole delle esperienze, anche rispetto alle emozioni dolorose. Vedere le emozioni per quelle che sono senza attribuire un significato precostruito, ottenendo quindi un cambiamento nella relazione tra noi e l’emozione. In tal senso, promuove la possibilità di agire in accordo con i propri valori ed i propri interessi personali. Ogni capacità di modulazione emotiva entra di diritto tra le competenze di una buona agency.

L’espressione emotiva è un processo eterogeneo, culturalmente influenzato e, per questo, non ha un valore universale. Per espressione non si intende solo l’etichettamento verbale ma anche e soprattutto quella non verbale, mediata, ad esempio, dall’espressione del viso, dalla postura, dal corpo. L’espressione può essere interna o esterna: quella interna è quella che si coltiva in terapia. Nel passaggio tra i due piani, è possibile scegliere cosa dire e come dirlo; ad esempio utilizzare il comportamento oppure farlo solo a livello verbale. Possiamo amplificare oppure inibire le emozioni allo scopo di condividere qualcosa oppure per ottenere qualcosa. Questo è da tenere bene a mente quando vediamo i nostri pazienti: l’esperire le emozioni ed esprimerle son due processi differenti.

Il corpo è il mezzo attraverso cui il terapeuta può aiutare il paziente a prendere contatto con l’emozione che in quel momento non riesce a identificare. La terapia focalizzata sulle emozioni fornisce numerosi spunti di riflessione. Ad esempio se il paziente non riesce può essere il terapeuta a modulare l’emozione, distinguendo le emozioni primarie, offuscate, dalle secondarie. Se sappiamo che le emozioni hanno un ruolo principale nelle comunicazione con gli altri, la stanza della terapia rappresenta una stanza di allenamento in cui fare prime esperienze emotivamente intense da generalizzare all’esterno.

Il primo capitolo di Tenere a mente le emozioni, che comprende questi tre moduli, trasmette l’idea di una logica sequenziale perché l’espressione emotiva è influenzata dalla capacità di modulazione e quest’ultima è legata alla possibilità di identificarle. Il filo conduttore di tale processo è rappresentato dalle capacità di agency: l’identificazione ne è l’inizio e la modulazione è la concretizzazione e l’espressione emotiva è la realizzazione. Molte persone sono alessitimiche e non sanno quello che bisognerebbe provare in una determinata circostanza, altri sono falsamente consapevoli, fraintendendo le emozioni oppure usandole in maniera idiosincratica. Bisogna stimolare una curiosità aperta e onesta in terapia e questo non è facile in quanto prevede anche il contatto con il dolore, cosa che tutti vorrebbero evitare. Bisogna fare pratica, costruendo le abilità se queste mancano: sono processi di apprendimento e di crescita.

La prima parte del testo si conclude con un breve riassunto delle tematiche affrontate ed apre una prospettiva sull’affettività mentalizzata (AM) e come essa sia collegata all’esperienza emotiva. L’autore sottolinea quindi le implicazioni su un piano pratico clinico nel lavoro con i pazienti.

Allenare la mentalizzazione per migliorare la comprensione e l’esperienza delle emozioni

La seconda parte del testo apre, quindi, le sue osservazioni a partire dalla considerazione che è proprio attraverso la mentalizzazione che i pazienti possono migliorare la comprensione e l’esperienza delle emozioni. A partire da Fonagy, il costrutto della mentalizzazione è stato connotato da diversi significati.

La definizione di mentalizzazione come la capacità di capire ed interpretare il comportamento in termini di stati mentali, nostri o altrui prende avvio dalla psicosomatica francese e si è diffuso nella psicologia cognitiva più moderna, passando per le teorie a favore della dualità mente corpo e giungendo a quelle che, invece, cercano di superare tale dualismo. La prospettiva psicosomatica francese tende a focalizzarsi molto sul fallimento della mentalizzazione, processo noto in tutti quei pazienti che “dementalizzano”. Secondo le scienze cognitive, invece, la mentalizzazione è soprattutto in riferimento alla lettura della mente come si evince dalle teorie della simulazione e dalla teoria della mente. Nel testo troviamo una digressione teorica abbastanza approfondita circa queste correnti di pensiero, su come esse si siano strutturate e concretizzate e come alcuni autori come Gallagher (2011) stiano cercando di superare (ad esempio, con la sua “teoria interazionista”) o con altre teorie ibride che cercano di incorporare teoria della mente e simulazionismo come si legge in Goleman (1995).

Se quindi alle origini, la psicosomatica francese puntava l’attenzione sulla mentalizzazione come un fenomeno in termini di affetti, impulsi e corpo, le scienze cognitive si focalizzano sui processi di pensiero e mentre la prima scuola riduce tale processo al rapporto che l’individuo ha con se stesso, la seconda lo sconfina puntando più al contesto relazionale. La teoria di Fonagy integra entrambe le prospettive: invece di contrapporre affetti e cognizione, la teoria della mentalizzazione afferma il valore di entrambi attraverso il costrutto dell’affettività mentalizzata (AM): invece di considerare la mente come opaca o chiara, è meglio assumere una prospettiva dimensionale e, invece che focalizzarsi solo sulla propria mente o su quella dell’altro, meglio tenerli entrambi in considerazione. In Tenere a mente le emozioni, l’autore, riprendendo l’ipotesi di Fonagy, la amplia sostenendo che “la mentalizzazione ha a che vedere con la capacità di utilizzare ciò che pensano gli altri come parte della mentalizzazione su di sé” e questo rafforza l’idea che la mentalizzazione altrui è un mezzo potentissimo per mentalizzare su di sé.

Proprio per questo, secondo Fonagy, la mentalizzazine deve essere l’obiettivo di ogni psicoterapia; in realtà essa media l’efficacia del trattamento facilitando la costruzione di una fiducia epistemica, qualità che rende aperti e curiosi circa le nuove esperienze e le nuove conoscenze (ecco perché si parla di esperienza di apprendimento) e questo cresce e si rafforza mediante la relazione terapeutica. Jurist cita Fonagy:

Detta in maniera semplice, l’esperienza di sentirsi pensati in terapia ci fa sentire abbastanza sicuri per pensare a noi stessi in relazione al nostro mondo, nonché per imparare qualcosa di nuovo rispetto al mondo e alle modalità con cui agiamo al suo interno (Fonagy, Allison, 2014).

Se il ruolo del terapeuta è quello di ascoltare e mentalizzare il paziente, così che quest’ultimo possa guardare meglio se stesso e quindi mentalizzare in autonomia, ciò implica anche che a seguito di una propria mentalizzazione il paziente possa correggere quella effettuata dal terapeuta donando all’esperienza una connotazione di reciprocità sul passato e sul futuro, nel senso che si può fornire un significato al passato e può orientarci con consapevolezza al futuro, favorendo un sempre più ampio senso di agency personale.

Affettività mentalizzata: di cosa si tratta?

Cosa si intende, allora, per quello che Jurist definisce “affettività mentalizzata” (AM)? E come può la psicoterapia migliorare la mentalizzazione? Il concetto di AM corrisponde a quella parte di teoria della mentalizzazione che concerne diversi aspetti dell’esperienza emotiva come quelli già citati (identificazione, modulazione ed espressione delle emozioni) non solo nel presente ma anche nel ricordo. Se quasi tutta la psicopatologia implica una sofferenza emotiva, ogni psicoterapia deve aiutare il paziente ad entrare in contatto nuovamente con le proprie emozioni ma tenendo conto anche dello stile di personalità, dei valori e di come passato e presente si fondono. Scopo ultimo dell’AM non è, quindi, modulare e trasformare le emozioni ma rivalutarle, rivivendole in una nuova e più consapevole prospettiva nella quale il passato di presenta nella storia attuale, in termini di ricordi sia individuali che culturali. In tal senso l’AM porta a nuovi insight, a nuove interpretazioni ed aiuta ad aumentare gli atti benevoli verso sé e verso gli altri.

L’AM rappresenta il tentativo di far rientrare in un unico concetto la capacità di identificare, modulare ed esprimere le emozioni… porta avanti la sfida di riflettere sulle emozioni riconoscendo le credenze culturali prestabilite senza però dovervisi necessariamente sottomettere (p.140).

in tal senso il passato, individuale e culturale, è un mediatore dell’esperienza presente e futura.

Ovviamente questo implica un legame con la propria memoria autobiografica (MA) e con le narrazioni attraverso cui comunichiamo e diamo valore agli eventi. Sembra che questi due scopi siano perseguiti in base all’uso che ne è stato fatto delle emozioni al loro interno. Secondo Damasio (1994, 1999, 2010) è l’elaborazione della MA che conduce ad una coscienza estesa (si rimanda alla lettura dell’autore per una interessante approfondimento sugli induttori primari e secondari, concetti che ogni terapeuta dovrebbe tenere a mente nel lavoro sulla narrazione autobiografica e rispetto alla distinzione tra proto-sé, sé nucleare e sé autobiografico). Se la MA è essenziale per il funzionamento umano, allora anche la regolazione emotiva è connessa ad esso: per molte terapie, il passaggio a memorie autobiografiche più ricche è un vero e proprio marcatore positivo della terapia che non necessariamente equivale al benessere: l’AM ci fa vedere il dolore di alcune esperienze del passato ma aiuterà a vederlo da una prospettiva diversa ed aiuta a comprendere come esso condiziona il presente: tale elaborazione ci protegge in futuro, mettendoci in condizione di non restarne sopraffatti.

Tenere a mente le emozioni ed esperienza terapeutica

Un capitolo importante è quello riservato all’esperienza terapeutica, al modo di lavorare con l’emozioni e come utilizzare il principio dell’AM che diventa sostegno all’azione terapeutica e uno strumento per la fiducia e la vigilanza epistemica che può essere poi veicolata attraverso la comunicazione. Per azione terapeutica intendiamo ogni azione svolta nella terapia che aiuta il paziente a migliorarsi: è quindi indice dell’impatto che il lavoro sta avendo sul paziente Loewald (1960). Secondo l’autore la relazione terapeutica è caratterizzata dall’amore e vincolata alla verità. L’AM è ciò che rende efficace un’azione terapeutica: aiuta a capire cosa è importante per raggiungere un equilibrio, per superare i momenti di crisi, per alleviare i sintomi. Non per ultimo l’AM facilita la comunicazione.

Senza fiducia epistemica difficilmente ci interessiamo o ci incuriosiamo alle emozioni, proprie e altrui. In terapia, infatti, un paziente che si incuriosisce a quello che accade nel qui ed ora nel setting terapeutico, o nell’indagare il passato ha più probabilità di essere in una terapia che avrà buon esito (Fonagy, 1999).

Portiamo tutti con noi il nostro passato, che ci piaccia o no, e la convinzione che esso non abbia un effetto sul presente e sul futuro è ingenua ed interferisce con la possibilità di vivere una vita realmente significativa. Se nell’AM è coinvolta la MA è necessario aiutare i pazienti a rievocare il passato come qualcosa di affrontabile, di reale, ma anche come qualcosa che non determinerà ciò che ancora deve succedere (p. 174).

Attraverso la relazione, la MA può essere sistematizzata ed ordinata perché crea uno spazio di sicurezza in cui potersi muovere, assegnando il giusto peso alle memorie.

Se il paziente migliora in terapia grazie alla mentalizzazione e non sa necessariamente cosa essa sia, per il terapeuta è diverso: essi mentalizzano e ne condividono i prodotti con il paziente e per stimolarlo in tal senso. In queste condizioni, la mentalizzazione diventa collaborativa e condivisa e per il paziente è un’esperienza nuova, efficace, relazionale. Mentalizzare bene vuol dire sapere quando va fatto e quando no: in quanto attività dispendiosa in termini di risorse interne, sia mentali che emotive, essa segue un percorso poco lineare. Possiamo tutti fallire in alcuni momenti, e possiamo tutti scegliere quando è il momento in cui tale attività non serve come ad esempio nei momenti ludici.

L’AM in terapia, in un clima condiviso in cui si può essere aperti alla mentalizzazione, stimola la fiducia nel confronto con l’altro. Ad esempio il paziente può non essere d’accordo con quello che emerge dalla mentalizzazione del terapeuta ma con curiosità può dirlo e confrontarsi proprio perché all’interno di una relazione e grazie alla fiducia epistemica. Essa spiana la strada alla vigilanza epistemica: sentire di poterlo fare permette di farlo. Anche quest’aspetto di vigilanza deve essere stimolato in terapia, incoraggiando i pazienti a valutare cosa pensano, provano, quali sono le loro credenze e come esse si relazionano agli altri. Ovviamente, il lavoro sulla MA aumenta la vigilanza epistemica. La mentalizzazione delle emozioni aiuta il pz a raggiungere la “granularità” (Barrett, 2016) che comporta il mettere a fuoco le emozioni, guardandole da vicino e con lucidità, all’opposto delle emozioni aporetiche. Quindi la mentalizzazione aiuta a guardare meglio il presente, a dare senso al passato e ad avere una certa prospettiva del futuro.

Conclusioni finali

Considero il testo Tenere a mente le emozioni come un modo per aumentare la consapevolezza di quello che vuol dire fare terapia, in un clima di curiosità, di esplorazione di costruzione prima e condivisione intanto. Molte questioni come quelle connesse all’attaccamento e alla sviluppo in relazione alle capacità di mentalizzazione, vanno lette con attenzione.

Le varie autobiografie mostrano livelli diversi di partenza della capacità di mentalizzare e diversi esempi di come essa si sviluppi all’interno del lavoro terapeutico, in modo strategico, ad esempio lavorando prima sul qui ed ora e poi spostandosi sul passato. Ci sono moltissime indicazioni pratiche da attuare nelle terapie e sono citati degli strumenti come test o interviste che possono aiutare il clinico nella valutazione del grado della capacità di mentalizzazione di partenza del paziente.

Concludo con uno stralcio del testo, rappresentativo di quello che Jurist ha voluto trasmettere nella stesura del testo:

La psicoterapia non rappresenta esattamente un percorso lineare verso la verità. L’amore per la verità comporta soltanto il decidere di perseguirla. Non abbiamo più bisogno di addossarci il fardello dell’assolutezza, rappresentato da idee come “pienamente analizzato”. Il desiderio di conoscere la verità e di comunicarla di conseguenza rimane comunque la parte più entusiasmante e caratteristica del nostro lavoro. È l’amore per la verità a sottostare alla fiducia nel nostro lavoro di terapeuti, nessun paziente termina un trattamento che si è rivelato efficace senza attribuire maggior valore alla verità. Pur riconoscendo i molti e pervasivi modi in cui inganniamo noi stessi non possiamo abbandonare la ricerca della verità. Se i pazienti non arrivano a noi amandola già, idealmente dovrebbero lasciare la terapia avendo sviluppato un amore simile; se un simile amore non nasce entro la fine della terapia, è un vero peccato (pag 184).

 

LEGGI LE ALTRE RECENSIONI DEL LIBRO PUBBLICATE DA STATE OF MIND:

Tenere a mente le emozioni. La mentalizzazione in psicoterapia (2018) L’importanza del conoscere le proprie emozioni – Recensione

 

Tenere a mente le emozioni (2018) di Elliot Jurist – Recensione del libro

Promuovere abitudini più sane, aumentando la consapevolezza delle conseguenze dei propri atti

Per ridurre i comportamenti non salutari, solitamente la ricerca si è focalizzata sulla ridefinizione delle associazioni mentali che si hanno circa un determinato obiettivo. Queste associazioni sono dettate da una formazione “approccio-evitamento” in cui si può imparare ad avvicinarsi ad alcune cose ed evitarne altre.

 

Alla base di ciò si suppone che l’esposizione ripetuta a questi obiettivi, possa rafforzare le associazioni mentali facendo si che da una parte aumentino i comportamenti positivi e dall’altra si scoraggino quelli negativi.

Gli studiosi hanno ipotizzato che questo tipo di funzionamento possa essere alterato dalle convinzioni che le persone hanno circa le conseguenze che seguono un avvicinamento o un allontanamento da un obiettivo. Per verificare questa ipotesi sono stati realizzati tre studi online e uno in laboratorio, in cui hanno partecipato 1.547 soggetti. Ognuno doveva completare una prova digitale in cui bisognava spostare o meno un avatar verso il cibo in un frigo, il cibo poteva essere salutare o, al contrario, cibo spazzatura.

Alcuni soggetti avevano anche la possibilità di visualizzare una barra di salute (non specificamente relativa all’avatar) che migliorava o meno in relazione all’avvicinamento al cibo sano o non sano; altri invece erano spronati a migliorare in modo specifico lo stato di salute dell’avatar attraverso le scelte alimentari.

Dai risultati emerge che i soggetti nella condizione in cui erano invitati a portar avanti un obiettivo di miglioramento della salute dell’avatar, vedendo le conseguenze concrete delle loro scelte, hanno mostrato una valutazione automatica più positiva al cibo sano, anche nella scelta di consumo reale, ed inoltre avevano interiorizzato la relazione tra gli alimenti e le loro conseguenze, rispetto agli altri gruppi di controllo sottoposti ad un metodo classico approccio-evitamento.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’ANNUNCIO PUBBLICITARIO:

Concludendo possiamo dire che i training riguardanti le scelte alimentari hanno un’efficacia migliore quando si ha un obiettivo che richiede di apprendere concretamente le conseguenze specifiche di determinati comportamenti poco salutari.

 

La quota rosa nell’uso, abuso e dipendenza da Alcol

La donna impiega un tempo più limitato dell’uomo per diventare alcolista e sviluppa molto più rapidamente le complicanze epatiche, cardiovascolari e psichiatriche correlate all’abuso. Questi fattori la rendono maggiormente vulnerabile agli effetti acuti e cronici dell’ alcol.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Le bevande alcoliche fanno parte da sempre del nostro modo di vivere. Piacciono alla maggior parte delle persone e di solito vengono scelte per motivi diversi. Le bevande alcoliche preferite sono, nell’ordine, il vino, la birra, gli aperitivi alcolici, gli amari. Come qualsiasi altra sostanza però, l’uso massiccio ed eccessivo può dare problemi.

L’ alcol di fatto è una sostanza psicotropa che agisce su quei centri nervosi deputati alla regolazione del piacere e che induce fenomeni di dipendenza psichica, fisica, assuefazione, pericolosità sociale ed individuale. Chi è alcol dipendente ha un bisogno fisico e biologico dell’ alcol e la spinta a bere può coincidere con il desiderio di ripetere esperienze piacevoli, di attenuare sensazioni spiacevoli o entrambi.

L’ alcol però oltre certe dosi è, come tutte le sostanze, tossico. Lo IARC, che si occupa della valutazione degli effetti degli agenti chimici e fisici sul rischio di cancro, ha classificato l’ alcol come agente cancerogeno fin dal 1988. L’ alcol è stato inserito nel gruppo 1, vale a dire quello in cui sono comprese le sostanze per cui esistono sufficienti prove scientifiche della loro capacità di influenzare l’insorgenza dei tumori. Da allora sempre più ricerche hanno chiarito il legame tra alcol e numerose forme tumorali: quello della bocca, della faringe, dell’esofago, della laringe, del seno, del colon, del fegato, del pancreas. Tra questi citiamo la grande indagine EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), i cui risultati relativi alla relazione tra alcol e cancro sono stati pubblicati nel 2011 sul British Medical Journal. Lo studio, a cui hanno partecipato anche ricercatori dell’AIRC, ha evidenziato che il 10% di tutti i tumori che colpiscono i maschi e il 3% di quelli che colpiscono le femmine sono attribuibili al consumo di alcolici. Nel dettaglio, la ricerca ha stimato che l’alcol è responsabile di una quota oscillante tra il 25 e il 44% dei tumori di bocca, faringe, laringe e cavità nasali, del 18-33% di quelli del fegato, del 4-17% dei tumori del colon e del 5% dei tumori al seno femminile.

Conseguenze psicologiche dell’ alcol

Da un punto di vista psicologico, l’ alcol può legare a sé in maniera non più controllata e non più controllabile, ovvero indurre dipendenza. Occorre però prima di tutto chiarire cosa si intende per dipendenza e distinguerla da altre terminologie:

Per intossicazione da sostanze si intende lo sviluppo di una sindrome sostanza-specifica reversibile dovuta alla recente assunzione di una sostanza, con modificazioni clinicamente significative, sul piano comportamentale o psicologico, dovute all’effetto della sostanza, sul sistema nervoso centrale.

L’abuso, che spesso viene confuso col concetto di dipendenza, invece, è una modalità patologica di uso di una sostanza, che porta a menomazione o a disagio clinicamente significativo; ne è esempio l’uso ricorrente della sostanza che può portare a incapacità ad adempiere ai principali compiti connessi con il lavoro, scuola oppure a problemi sociali o interpersonali ricorrenti e persistenti.

Quando parliamo invece di dipendenza inseriamo nel concetto anche il termine astinenza/tolleranza, perdita di controllo, craving, cambiamento di stile di vita e di pensiero, danno fisico, psichico, sociale. Nella dipendenza il soggetto entra in un circolo vizioso nel quale la sostanza assume il controllo ponendo chi ne fa uso nella posizione di “schiavo”.

Il consumo e l’abuso di alcol nell’universo femminile rappresenta un argomento poco trattato in quanto è ritenuto un fenomeno “sotterraneo”. Non è infatti facilmente rilevabile, essendo sovente confinato nel privato o dissimulato per la riprovazione sociale.

Perché si parla di riprovazione sociale? La parola “alcolista” porta con sé una connotazione emotiva molto forte, racchiude in sé le immagini di quello stereotipo sociale e culturale che crea rifiuto in chi ne viene etichettato.

Fattori all’origine della dipendenza da alcol

L’alcolismo viene considerato una dipendenza che include diversi fattori, come i fattori biologici, culturali ed infine quelli psicologici. Non è possibile ricorrere ad un’unica interpretazione per spiegare e comprendere le condotte alcoliche. È però possibile suddividere le cause dell’ alcol dipendenza in due categorie dominanti: cause personali e cause socio-culturali.

Più in generale, il ricorso all’ alcol può essere dovuto sia ad un piacere derivante dalla gradevolezza della sostanza, sia al significato sociale e personale che viene attribuito alla sostanza. Da un punto di vista meramente sociale, spesso si preferisce bere in compagnia e si esce con l’idea che “se bevo mi diverto”. Gli adolescenti bevono per lo più in funzione di un valore di uso dell’ alcol come sostanza disinibente, capace di rafforzare la disinvoltura nelle relazioni piuttosto che per il gusto in sé di consumare le bevande alcoliche; da un punto di vista soggettivo, spesso l’ alcol oltre che come sostanza “socializzante”, può essere usato come forma di auto-medicamento in situazioni di stress, ansia, frustrazioni, bassa autostima e altre situazioni che possono essere ritenute problematiche. Il ricorso all’alcol viene spiegato in quanto portatore di una sensazione di benessere soggettivo, ma soprattutto di fuga dalla realtà. Se l’alcol sembra momentaneamente alleviare uno stato di tristezza o di disagio, tale effetto, una volta svanito ed esaurito, riporta e accentua la situazione iniziale. Queste sono solo alcune di quelle che potrebbero essere definite come cause di tipo personale. Le cause socio-culturali prima enunciate, invece, sono legate a tradizioni, interessi economici, usanze tipiche di quel territorio.

Donne e Alcol

Le donne che hanno problemi legati all’ alcol fanno parte di un gruppo molto eterogeneo in quanto la dipendenza da alcol è diffusa fra le donne di ogni età e appartenenza sociale. Esistono fattori diversificati che influenzano l’andamento del fenomeno. Si parte dai fattori di familiarità genetica e ambientale, per passare a fattori demografici quali l’età, lo stato civile, la professione e le origini etniche.

Le linee guida nutrizionali raccomandano che una donna adulta e in buona salute non superi un consumo giornaliero di 1 unità alcolica*, mentre l’uomo non deve superare le 2 unità alcoliche. Una unità alcolica corrisponde a:

  • una birra da 33 cl di gradazione normale (4.5 gradi)
  • un bicchiere da tavola di vino (11-12 gradi)
  • un bicchierino (40 ml) di superalcolico (Grappa, Cognac, Vodka)

Bisogna tener presente che il contenuto di alcol di diversi tipi di birra, vino, distillati può variare in modo sostanziale.

Questa differenza dipende dal fatto che l’organismo femminile presenta una massa corporea inferiore rispetto all’uomo, minor quantità di acqua corporea e meno efficienza dei meccanismi di metabolizzazione dell’ alcol (carenza dell’enzima epatico alcol deidrogenasi). A pari quantità di bevande alcoliche, quindi, corrisponde un livello di alcolemia maggiore nelle donne.

Per questi motivi la donna impiega un tempo più limitato dell’uomo per diventare alcolista e sviluppa molto più rapidamente le complicanze epatiche, cardiovascolari e psichiatriche correlate all’abuso. Questi fattori la rendono maggiormente vulnerabile agli effetti acuti e cronici dell’ alcol. Oltre a queste patologie, la donna bevitrice presenta un maggior rischio di sviluppare il tumore della mammella.

L’abuso di alcol ha un ruolo rilevante ed incide negativamente anche sulla fertilità. L’abuso di alcol può essere infatti responsabile di una minore produzione degli ormoni femminili, determinando un’insufficienza ovarica che si manifesta con irregolarità mestruale (fino alla scomparsa del ciclo), assenza di ovulazione, infertilità e menopausa precoce. Nella donna che assume contraccettivi orali, inoltre, l’ alcol ingerito resta in circolo più a lungo.

Un discorso particolare va fatto per la donna in gravidanza, periodo in cui va evitato anche un consumo moderato di alcol. L’etanolo, infatti, è in grado di attraversare la placenta e arrivare al feto a una concentrazione di poco inferiore a quella ematica materna. Le cellule fetali, non essendo dotate di enzimi capaci di metabolizzare l’ alcol, ne subiscono gli effetti dannosi in particolare a livello cerebrale e dei tessuti in via di formazione. L’azione tossica dell’ alcol interferisce sui normali processi di sviluppo fisico ed intellettivo del feto provocando malformazioni e ritardo mentale più o meno gravi in funzione dei livelli di consumo. Pertanto a causa di tale azione tossica le donne che bevono abitualmente durante la gravidanza hanno una maggior frequenza di aborti spontanei e sono esposte al rischio di partorire neonati affetti da sindrome feto alcolica (FAS – Alcohol Fetal Syndrome). Va sottolineato che il rischio di danni cerebrali al feto esiste anche per le donne alcolizzate da tempo, anche se smettono di bere per tutta la durata della gravidanza.

Nelle donne anziane l’ alcol, anche moderato, può peggiorare ed accelerare la degenerazione della sfera neurologica e psichica. Inoltre spesso la donna anziana è in terapia farmacologia e l’ alcol può interferire con molti farmaci. Estremamente pericolosa è l’interazione tra alcol e farmaci che deprimono il sistema nervoso (sedativi, tranquillanti, ansiolitici, ipnotici). Il comportamento verso l’ alcol delle donne oltre i 65 anni desta particolare preoccupazione, in quanto questa fascia d’età non ha ricevuto in gioventù un’educazione al consumo di alcolici. Prediligono nell’ordine vino, birra e amari nel contesto privato o domestico, spesso continuando a mantenere nascosta la loro abitudine per timori di riprovazione sociale. Questo rende ancora più difficile rilevare eventuali problemi causati dall’ alcol ed è motivo di un riscontro spesso tardivo, ma frequente, di alcol dipendenza tra pensionate e casalinghe della “terza età”. Il periodo della menopausa e lo stato di vedovanza, poi, accompagnati da una minore partecipazione alla vita attiva e alla presenza di limitazioni fisiche dovute all’età, possono favorire fenomeni di abuso che, nel caso degli anziani, determinano problemi già al di sopra del consumo di 1 bicchiere di bevanda alcolica al giorno. Talvolta, oltre i 60 anni l’ alcol viene considerato l’unico elemento di compagnia contro la solitudine.

Dai dati ISTAT si registra nel corso degli anni un incremento della prevalenza delle consumatrici fuori pasto, in particolare, nel corso del 2015 la prevalenza è aumentata di 1,2 punti percentuali; tra le donne l’incremento risulta particolarmente significativo nella classe di età 25-44 anni.

Come agisce la società nei confronti della dipendenza “in rosa”?

L’alcolismo femminile si nasconde spesso tra mura domestiche e silenzi. La famiglia funge da contenitore: si pensa che il tacere, il provare a gestire in famiglia il “problema”, possa illusoriamente portare ad una soluzione. Spesso si finisce col bere di nascosto, in momenti della giornata e luoghi “tranquilli e discreti”, cercando di mascherare.

L’età matura può essere caratterizzata, oggi, per molte donne da un profondo conflitto tra un modello culturale di realizzazione ed affermazione personale desiderato e costruito in gioventù (in un periodo sociale di forte spinta all’emancipazione femminile) e quello realizzato in maturità e che quotidianamente spinge la donna verso ruoli personali fortemente legati ai ruoli di moglie e di madre; una condizione tutt’altro che infrequente e che vede la donna dibattersi tra la necessità di affermarsi nel mondo lavorativo e quello di non poter rinunciare al ruolo tradizionale familiare. È probabile che le donne siano spinte a bere maggiormente in questa fase della vita, verosimilmente più critica per il sesso femminile, a causa di timori di perdita della giovinezza, di riduzione della fertilità e della capacità procreativa, di una mancata realizzazione di progetti giovanili, di bilanci di esperienze affettive e familiari vissute in maniera insoddisfacente. (E. Scafato, 2014)

La donna si rivolge all’ alcol per la sua azione contenitiva, e auto-medicante. Hoar (1983) osserva che il bere nelle donne è correlato a problematiche stressanti dell’ambiente circostante quali malattie mentali, alcolismo, difficoltà occupazionali del coniuge, crisi economica familiare. Egli parla di “casalinga frustrata” e di sindrome del “nido vuoto”, ovvero di un comportamento in correlazione ad un evento specifico che mette in crisi le modalità secondo cui la donna ha organizzato la sua identità psicologica, relazionale e sociale. Un esempio di “casalinga frustrata” viene ben rappresentato anche dai mass media ad esempio nel famoso cartone animato americano “The Simpson” in cui in più di un episodio Marge ricorre all’ alcol per soffocare frustrazioni, insoddisfazioni e altri sentimenti che illusoriamente possono scomparire con l’uso di alcolici.

Alcuni autori quali Steinglass (1976) e Gacic (1977) affrontano il tema di “famiglie alcoliste”. Quest’ultimo parla di coppia alcolica evidenziando l’interazione tra i partner quale fattore che mantiene l’etilismo. Tra i principali fattori di rischio riscontrati (Marshall & Cook,1977) si evidenziano una storia familiare di problemi legati all’ alcol (famiglia di origine con problemi alcol correlati e/o partner bevitore); problemi comportamentali infantili legati alla difficoltà nel controllo e gestione degli impulsi; uso precoce di fumo, alcol e sostanze stupefacenti, che spesso può creare terreno fertile per le multidipendenze ed infine, scarse capacità di gestire eventi dolorosi o stressanti (mobbing ad esempio). Davanti a tutte queste possibilità, il soggetto trovandosi in una situazione di fragilità può cadere vittima delle sostanze. Infine la co-presenza di altri disturbi quali ad esempio la depressione, disturbi dell’umore e alimentari possono favorire l’assunzione di sostanze.

Spesso il ricorrere all’ alcol non dipende esclusivamente da motivi personali e/o problematici ma può assumere i tratti di una consuetudine, socialmente accettata e popolarmente giustificata, che porta a consumare alcolici per abitudine (consumare bevande alcoliche durante i pasti), per mancanza di informazione (per combattere il freddo, per abitudini salutiste come “il vino fa buon sangue”).

Quando si ricorre alla terapia?

In generale riconoscere di avere un problema con l’ alcol è difficile. Spesso si arriva in terapia perché portati da altri, per segnalazioni. In particolare, la percentuale di motivazione intrinseca si affievolisce ulteriormente se si tratta di giovani. Spesso si decide per un intervento multidisciplinare con la possibilità anche di partecipare a gruppi di terapia. In più, spesso durante la terapia si inseriscono anche lezioni psicoeducazione utili a migliorare la qualità di informazioni sul fenomeno alcol.

Nei confronti delle donne esiste un atteggiamento molto stigmatizzante e colpevolizzante, pertanto le donne con problemi di alcol vivono maggiormente l’isolamento sociale rispetto agli uomini. Esiste di fatto un radicato pregiudizio rispetto all’alcolismo femminile che porta a reticenza e scarsa criticità rispetto al proprio disagio, ma anche forte colpevolizzazione e riprovazione sociale. Va osservato che il periodo in cui inizia l’abitudine all’assunzione di alcol è ancora fertile per la donna (tra i 30 e i 40 anni), pertanto spesso il comportamento femminile riceve una forte riprovazione anche per gli effetti che l’ alcol può avere su una possibile gravidanza e in virtù della figura materna che la donna potrebbe potenzialmente ricoprire. L’alcolismo femminile così si consuma spesso tra le mura domestiche, tra colpa e solitudine.

Perché scegliere la diagnosi multidimensionale?

Permette di valutare le problematiche del paziente dal punto di vista sanitario, psicologico, educativo e sociale.

Integra la diagnosi medica, l’inquadramento psicologico-psichiatrico con il funzionamento sociale del paziente e la sua storia familiare.

In più prevede la raccolta di informazioni, utili per valutare in quali aree si sviluppano le condizioni maggiormente problematiche e suscettibili di intervento, in una persona sofferente.

Da molte testimonianze si evince che chi decide di intraprendere un percorso riabilitativo, soggetto a ricadute, riscopre e scopre se stesso.

Genitorialità e neuroscienze: gli abbracci che danno nutrimento

Il bisogno di attaccamento è un bisogno innato ed evolutivamente preordinato che spinge ogni neonato a ricercare la vicinanza con il proprio caregiver. L’assenza di una risposta adeguata da parte dei genitori comporta importanti conseguenze sullo sviluppo del bambino.

 

Il neonato è messo al mondo senza gli strumenti necessari per fronteggiarlo, presenta un’immaturità psichica e fisiologica (Gardner, 1996). Il suo cervello è solo un quinto del cervello umano adulto, che si svilupperà in un processo maturazionale lungo oltre i quindici anni (Giedd, 2004). La specificità dell’ambiente con la quale interagisce deciderà quali connessioni neurali saranno formate e rinforzate (Edelman e Tononi, 2000), darà modo alle potenzialità latenti del bambino di svilupparsi (Gardner, 1996).

Lo stato d’impotenza e vulnerabilità che caratterizza il neonato comporta un bisogno di protezione, vicinanza, ovvero un bisogno di attaccamento (Bowlby, 1982). Il legame di attaccamento è appunto quella relazione stabile che si crea tra bambino e adulto utile a garantire al piccolo benessere, protezione, e in generale la possibilità di sopravvivere (Wiggins, 2000). Bowlby ipotizza l’esistenza di una predisposizione innata del cucciolo di umano alla vicinanza dell’adulto, utile alla sua sopravvivenza, e dall’altra parte una propensione dell’adulto all’accudimento, al prendersi cura del piccolo (De Coro, 2010). L’ attaccamento e l’accudimento sono concepiti come sistemi motivazionali o comportamenti innati, selezionati poiché adattivi in termini evoluzionistici (McLean, 1984).

L’ attaccamento come bisogno fondamentale dell’individuo

Il ruolo fondamentale della vicinanza al neonato di un adulto si osserva in diversi studi di cui possiamo considerare Spitz un pioniere. Tra il 1945 e il 1946, René Spitz, psicoanalista austriaco, osservò gli effetti devastanti della separazione del bambino da chi se ne prendeva cura. Nel suo studio (Spitz, 1945; Spitz, 1946) prese in considerazione 91 bambini di un orfanotrofio, osservando che i primi mesi di protesta, con pianti e lamentele, lasciavano gradualmente il posto a uno stato letargico, e che circa il 37% dei quali morì entro il secondo anno di vita (Spitz, 1972). Le cure materiali dell’orfanotrofio erano dunque necessarie ma non sufficienti per un sano sviluppo dell’infante. Spitz definì “ospedalismo” i disturbi fisici e psicologici conseguenti a una totale assenza di un rapporto del piccolo con la madre, e parlò di “depressione anaclitica” per descrivere la sintomatologia infantile nel caso in cui il rapporto con la figura materna c’è stato per un breve periodo per poi interrompersi, come ad esempio in seguito alla morte materna (Spitz, 1972).

Bambini che possono godere di un contatto fisico con figure significative, presi in braccio, toccati, sviluppano un cervello più grande, con connessioni più forti tra le cellule cerebrali rispetto ai bambini deprivati (Wiggins, 2000; Kandel, 2005). La stimolazione da parte dell’ambiente esterno influenza i sistemi cerebrali che si occupano della regolazione emozionale, questi ultimi influenzano a loro volta la secrezione ormonale e la produzione di neurotrasmettitori. La regolazione emozionale del bambino inizialmente è controllata dall’ambiente esterno, dal caregiver, successivamente il bambino sarà capace di un auto-controllo (Shore, 1994). È proprio tramite l’apprendimento, inoltre, che si sviluppano le connessioni sinaptiche (Kandel, 2005). Tale stimolazione esterna incide sulla dimensione stessa del cervello (Thompson, 1990). In studi su animali, è stato osservato che ratti allevati in un ambiente stimolante, caratterizzato dalla presenza di giocattoli o altri topi, sviluppavano un cervello di dimensioni maggiori rispetto a ratti abbandonati in gabbie vuote (Gopnik, Meltzoff e Kuhl, 1999). Caratteristica che si trasmetteva a livello intergenerazionale, i ratti cresciuti in ambienti stimolanti generavano una prole con una corteccia più spessa (Gopnik, Meltzoff e Kuhl, 1999).

Attaccamento e sviluppo della personalità, le conseguenze di cure genitoriali inadeguate

Le ripercussioni psicologiche di cure genitoriali inadeguate o del sentirsi completamente rifiutati dalle proprie figure significative sullo sviluppo della personalità del soggetto possono essere diverse: dall’ostilità, all’aggressività, bassa autostima e autoefficacia, insensibilità o assenza di una risposta emozionale, così come illustrato dalla teoria dell’Accettazione – Rifiuto di Rohner (Rohner e Carrasco, 2014). L’attivazione cerebrale al rifiuto è sovrapponibile alle aree che si attivano in risposta al dolore fisico nel soggetto (Khaleque e Rohner, 2012), con una differenza sostanziale; come ci sottolinea lo stesso Rohner, differentemente dal dolore fisico, il dolore emotivo conseguente al rifiuto si riverbera negli anni, può tornare alla memoria ed essere rivissuto in continuazione nell’intero ciclo di vita del soggetto (Khaleque e Rohner, 2012). La meta analisi di Rohner e Khaleque permette di ridimensionare il ruolo predominante dato alla figura materna nello sviluppo sano del bambino sottolineando come anche il padre rivesta un ruolo importante. L’influenza di un rifiuto da parte della figura paterna sembra addirittura maggiore rispetto all’influenza di un rifiuto da parte della madre (Khaleque e Rohner, 2012).

In conclusione

L’essere genitori o caregiver di un neonato rappresenta, quindi, una funzione determinante di estrema importanza, oltre che complessa, nella regolazione dello sviluppo fisico e psichico del bambino.

Come impatta lo stress sulla salute riproduttiva maschile?

L’ infertilità maschile sta diventando una crescente problematica nell’ambito della salute, per questo motivo sono in aumento gli studi che ne indagano la natura multi-fattoriale.

Alice Barbieri, Greta Riboli

 

Molti fattori ambientali (il clima, le sostanze inquinanti e le tossine), i miglioramenti tecnologici (i computer e smartphone, la rapida industrializzazione) e i cambiamenti nello stile di vita (come la diminuzione delle attività fisiche e all’esterno) hanno aumentato il numero degli agenti stressanti a cui le generazioni attuali sono esposte quotidianamente.

Lo stress può essere categorizzato come acuto o cronico e uno stress incontrollato può portare a fatica, irritabilità, disturbi del sonno, perdita di capelli, invecchiamento accelerato, immunosoppressione, malattie cardiache, ipertensione, depressione, obesità, disfunzione erettile (DE) e appunto infertilità.

L’ infertilità è definita come l’assenza di gravidanza dopo minimo un anno di rapporti sessuali non protetti ed è una problematica in aumento: in America circa il 10-15% degli individui che tentano di avere un bambino hanno delle difficoltà nel concepimento. Inoltre, alcuni studi rivelano che circa il 10% delle famiglie americane hanno meno bambini di quelli che desidererebbero.

Storicamente, l’ infertilità di una coppia era attribuita principalmente alla donna, ma nel 30-60% dei casi i fattori sono maschili. Per questo è ora sempre più diffusa la raccomandazione di valutare simultaneamente entrambi i partner per problematiche legate all’ infertilità.

Lo stress è tra i principali responsabili dell’ infertilità maschile

Fattori ambientali, cambiamenti nello stile di vita e richieste sociali hanno aumentato lo stress psicologico e fisiologico a cui le generazioni attuali sono esposte. In particolare, lo stress è uno stimolo per il danneggiamento di alcuni processi come, ad esempio, l’interruzione del normale funzionamento del corpo con ripercussioni dannose a carico delle cellule endoteliali, aumentando così la probabilità di insorgenza di malattie cardiovascolari, alterando il DNA spermatico ed aumentando l’infiammazione. Tutto ciò può essere legato ad un più alto tasso di infertilità maschile e di disfunzione sessuale.

Diversi studi hanno mostrato come lo stress influisce sull’asse HPA e porta a una diminuzione della secrezione di testosterone dalle cellule Leydig, inibendo la spermatogenesi (Nargund, 2015; Bhongade, Prasad, Jiloha, Ray, Mohapatra, & Koner, 2015). Situazioni di elevato stress aumentano il cortisolo per preparare l’organismo a far fronte ad un ambiente ostile (challenging) attivando l’asse HPA, per mantenere un equilibrio dinamico. Uomini afflitti quotidianamente da due o più circostanze stressanti potrebbero avere livelli di testosterone minori, una riduzione della concentrazione e della mobilità dello sperma. Ad esempio, vari studi indicano che gli studenti di medicina hanno meno concentrazione spermatica e mobilità durante gli esami, rispetto che durante il regolare periodo di lezioni.

Dunque, i livelli di stress, lo stile di vita e l’ambiente in cui una persona vive influiscono sulla qualità spermatica e sui cambiamenti nello stato ormonale e, in ultimo, sull’ infertilità maschile.

Una corretta igiene del sonno è fondamentale per il benessere delle funzioni psicologiche e fisiologiche, inclusa la gestione dello stress. I disturbi del sonno dovuti al lavoro a turni in generale riguarda lo stress, i livelli di cortisolo e il ritmo endocrino circadiano, portando a uno squilibrio fisiologico e ormonale, aumentando la probabilità di problemi cardiovascolari, depressione, disfunzione erettile ed infertilità (Kanagasabai, Ardern, 2015). Essendo che il cortisolo regola i livelli di testosterone, ed il sonno influenza invece i livelli di cortisolo, risulta importante dormire sufficientemente per preservare l’omeostasi ormonale.

Uno stress duraturo accompagnato da alti livelli di cortisolo (relazionati allo stress) può contribuire anche all’obesità ed alla sindrome metabolica (MS), stimolando l’asse HPA. L’epidemia dell’obesità globale potrebbe essere collegata all’ infertilità maschile che è associata alla qualità dello sperma (semen) danneggiata. L’obesità può essere associata allo stile di vita dell’individuo e a fattori nutritivi, genetici e ambientali, e può aumentare il rischio di sindrome metabolica includendo diabete, dislipidemie e ipertensione. Gli uomini con MS spesso hanno bassi livelli di testosterone, disfunzione erettile (soprattutto dovuto alla compromissione del flusso sanguigno nel pene), bassa libido, bassi livelli di vitamina D, obesità, depressione, debolezza muscolare, stress e fatica.

In conclusione

I risultati di questi recenti studi ci permettono di comprendere che in primo luogo molti dei fattori trattati che portano all’ infertilità maschile si possono prevenire. Inoltre, i professionisti della salute e le istituzioni governative dovrebbero offrire maggiore educazione riguardo i benefici di uno stile di vita sano, una nutrizione bilanciata, la gestione dello stress e l’attività fisica. Tutti questi fattori possono contribuire a migliorare la salute riproduttiva riducendo i dannosi effetti dello stress ossidativo, delle infiammazioni e dell’invecchiamento prematuro.

In secondo luogo durante il trattamento dell’ infertilità maschile e della disfunzione sessuale, i professionisti della salute dovrebbero attuare una valutazione del paziente comprensiva includendo i livelli fisiologici e psicologici di stress, la qualità e la durata del sonno, la gestione del peso e della nutrizione, l’attività fisica e consigliare lo svolgimento di test in laboratorio ad ampio raggio come ACTH, androstenedione, DHEA, DHEAS, DHT, estradiolo, FSH, glucocorticoidi (cortisolo, corticosterone), LH, PRL, SHBG, testosterone, e vitamin D. Il tutto al fine di favorire un trattamento integrato a 360 gradi, dato che l’ infertilità maschile è multi-fattoriale di natura.

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Autismo e differenze di genere: i risultati di un recente studio confermano le tesi dell’Empathizing-Systemizing Theory e dell’ Extreme Male Brain Theory

I ricercatori dell’Università di Cambridge hanno condotto il più grande studio al mondo riguardante le differenze sessuali e i tratti autistici. Hanno testato e confermato due teorie psicologiche: l’ Empathizing-Systemizing Theory delle differenze sessuali e l’ Extreme Male Brain Theory dell’ autismo.

 

Il professor Simon Baron-Cohen, direttore del Centro di ricerca sull’autismo di Cambridge, che ha proposto queste due teorie quasi due decenni fa, ha dichiarato:

Questa ricerca fornisce un forte sostegno a entrambe le teorie.

Autismo e differenze di genere: la ricerca

Grazie alla collaborazione ottenuta con la compagnia di produzione televisiva Channel 4, i ricercatori hanno potuto testare oltre mezzo milione di persone, tra cui 36.000 persone autistiche. I risultati sono stati pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences.

Secondo la teoria Empathizing-Systemizing le donne, in media, otterrebbero punteggi più alti rispetto agli uomini nei compiti in cui veniva testata l’empatia, ovvero la capacità di riconoscere ciò che una persona pensa o sente e l’abilità di rispondere con un’emozione adeguata ad un proprio stato mentale. Invece gli uomini, in media, conseguirebbero un punteggio elevato nei test di sistematizzazione, cioè un insieme di funzioni necessarie per analizzare o costruire sistemi basati su regole. Mentre la teoria Extreme Male Brain sostiene che le persone autistiche, in media, otterrebbero un punteggio inferiore nei test riguardanti l’empatia e un punteggio uguale o superiore nei test di sistematizzazione.

Per il campione si sono utilizzati due database: uno molto vasto composto da 671.606 persone, di cui queste 36.648 autistiche, l’altro di controllo composto da 14.354 persone di cui 226 autistici. In questo nuovo studio i ricercatori hanno utilizzato 10 item brevi per misurare l’empatia, la sistematizzazione e i tratti autistici.

Autismo e differenze di genere

Dai risultati emerge che, utilizzando 10 item brevi, la popolazione femminile, nella media, otteneva punteggi più alti nell’empatia rispetto agli uomini, mentre gli uomini ottenevano punteggi più alti nella sistematizzazione e nei tratti autistici. Questa differenza in base al genere si riduce negli autistici; in media, le persone autistiche ottenevano punteggi più alti nella sistematizzazione e nei tratti autistici e punteggi più bassi nell’empatia. Infine, gli uomini, in media, ottenevano punteggi più alti nei tratti autistici rispetto alle donne. L’indagine ha inoltre appurato che chi lavorava nella scienza, nella tecnologia, nell’ingegneria e nella matematica, tutte professioni che rientrano nella STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), otteneva punteggi più alti nella sistematizzazione e nei tratti autistici rispetto a quelli che non svolgevano una professione “scientifica”. Chi non lavorava nella STEM aveva punteggi alti nell’empatia rispetto ai lavoratori STEM.

Gli autori sottolineano che le due teorie (Empathizing-Systemizing Theory e Extreme Male Brain Theory) sono applicabili solo a due dimensioni delle differenze tipiche tra generi: empatia e sistematizzazione.

Dalla ricerca emerge che, sebbene le persone autistiche abbiano problemi con l’empatia “cognitiva”, ovvero riconoscere pensieri e emozioni altrui, riescano tuttavia a conservare l’empatia affettiva, dal momento che ad esempio si preoccupano per gli altri.

Autismo e neurodiversità?

Questo studio sottolinea alcune qualità e specificità del funzionamento neurocognitivo nell’autismo che riconducono al concetto di neurodiversità, come ad esempio le abilità di sistematizzazione, le capacità di riconoscimento di un modello, un’eccellente attenzione ai dettagli e un’attitudine particolare a capire come funzionano le cose.

L’invito è, perciò, quello di sostenere i loro talenti affinché possano raggiungere il loro potenziale e fornire benefici per la società.

La salute si reinventa in digitale: e-Health e m-Health nella sfida della gestione in rete del paziente cronico

Con smartphone e tablet potremo, tramite apposite app e in qualsiasi luogo e momento, interagire direttamente con lo specialista, monitorare andamento della terapia e parametri fisiologici, avere consigli e suggerimenti in tempo reale, sapere quando e come proseguire col trattamento.

 

Lo scorso Agosto secondo dati Audiweb solo in Italia più di 40 milioni di persone ha speso online più di 2 ore e mezza al giorno; di questi, il 75,1% lo ha fatto utilizzando uno smartphone.

Quanto siamo connessi ci dice anche quanto apprezziamo e ci serviamo di questi mezzi. Sono utili per passare il tempo leggendo giornali online, navigando sui social o giocando con delle app; ci tolgono dall’impasse di non avere tempo di fare acquisti grazie a siti di e-commerce, possiamo prenotare viaggi e vacanze oppure evitare noiose file utilizzando i servizi di pagamento online. Si tratta di mezzi che ci fanno divertire, che ci piace usare, che sentiamo utili, su cui facciamo affidamento. Non stupisce quindi che smartphone, tablet e in generale nuovi device, siano diventati spunto e motore di innovazione anche nell’ambito della medicina e della salute.

Salute digitale: e-Health e m-Health, la salute passa anche dallo smartphone

Col termine e-Health facciamo riferimento all’utilizzo delle tecnologie informatiche e di telecomunicazione in ambito sanitario. L’m-Health può esserne definita una sottocategoria perché riguarda i servizi che sono effettuati attraverso l’uso di apparecchi mobili e wireless come smartphone e tablet. Una prima definizione formale di “e-Health” risale alla fine degli anni Novanta (Eyesenbach, 2001) quando erano già chiare opportunità e sfide che i nuovi mezzi portavano all’attenzione dei clinici, sebbene molte delle tecnologie che ora consideriamo parte della nostra quotidianità solo venti anni fa erano pressoché impensabili. Rinnovare una prescrizione e prenotare appuntamenti online; condividere dati come pressione arteriosa, frequenza cardiaca, temperatura, indice glicemico, tramite dei software; parlare col proprio medico via webcam comodamente da casa. Questi sono solo esempi di quanto la salute in digitale può supportarci.

L’ e-Health non si limita solo a coniugare internet e medicina ma apre a nuove e importanti riflessioni pratiche, professionali ed etiche.

e-Health e m-Health: nuove opportunità

L’e-Health porta con sé un bagaglio di promesse e aspettative.

La riduzione dei costi della spesa sanitaria è certamente uno dei più importanti punti a favore. L’ e-Health consente ai pazienti di ottenere facilmente servizi sanitari online e di rendere più efficiente il flusso e l’erogazione stessa dei servizi evitando interventi diagnostici o terapeutici non necessari. Monitoraggio costante, prescrizione di farmaci o analisi, visite di controllo, follow up, tutto questo può essere effettuato a distanza.

Al di là degli aspetti pratici cambia la prospettiva per i professionisti della salute e per i pazienti.

I primi possono facilmente comunicare con i colleghi e beneficiare di formazione continua. Nuovi protocolli e standard possono essere condivisi tra dipartimenti migliorando di fatto la qualità della cura: l’efficienza trova spazio anche nel fatto che tutto è tracciabile, monitorabile e a disposizione in qualsiasi momento.

Anche per il paziente le prospettive cambiano. Si parla di engagement: Barello e colleghi (2016) sottolineano l’importanza di un approccio olistico che prenda in considerazione non solo la diagnosi ma anche il contesto socio-culturale e le dimensioni comportamentale, cognitiva, emotiva. Soprattutto quando si tratta di patologie croniche l’intervento deve includere anche il supporto psicologico: la cronicità comporta delle modificazioni significative nella quotidianità del paziente che spesso può sentirsi demotivato e passivo, con comparsa di depressione e bassa autostima (Castelnuovo et al., 2015).

Un’aderenza consapevole al trattamento è un fattore determinante specialmente nel caso di malattie croniche che richiedono monitoraggio costante: adesione e continuità sono fondamentali per una concreta, profonda e responsabile gestione della cura.

L’ e-Health si muove proprio in questa direzione favorendo il coinvolgimento attivo del paziente lungo tutto il percorso terapeutico. Ma c’è ancora qualcos’altro che l’ e-Health promette per un futuro non più così lontano: rendere realmente la sanità accessibile a tutti, anche a popolazioni rurali e meno abbienti, in nome di un’etica della sanità concreta e tangibile.

e-Health e m-Health: come farle funzionare al meglio

Diffusione su larga scala e contenimento dei costi senza rinunciare alla qualità: questi gli obiettivi da centrare per l’ e-Health (Granja et al., 2018). Per migliorarne l’adozione e il successo è importante identificare i fattori che possono influenzare, positivamente o negativamente, il risultato dell’intervento: i progressi nel campo dell’informatica corrono veloci mentre l’evoluzione dei sistemi sanitari è legata ad aspetti burocratici, organizzativi e operativi che influiscono sulla messa in pratica di nuovi protocolli o strumenti, seppur validati dalla comunità scientifica di riferimento.

Granja e colleghi hanno individuato alcune criticità pratiche che interessano i professionisti della salute: aumento del carico di lavoro a fronte di strutture che non sono aggiornate; mancanza di protocolli condivisi per cui rimane a discrezione del singolo l’assumersi o meno l’onere dell’intervento; formazione continua necessaria. La mancanza del rapporto diretto col paziente e il timore che un abbattimento dei costi corrisponda ad un impoverimento della qualità dei servizi generano perplessità.

Anche per quanto riguarda i pazienti bisogna tener conto di possibili limitazioni. Siamo sicuri che la Rete venga considerata affidabile quando si tratta di cure mediche? A questo interrogativo rispondono Norman e Skinner (2006) con l’ e-Health literacy scale (eHEALS) che valuta il livello di competenza e disponibilità percepite nei confronti della salute in digitale. Versioni adattate per diverse fasce d’età e lingua sono state validate in Olanda, Giappone, Cina, Spagna (vedi i lavori di Malcolm et al., 2012; Mitsutake et al., 2011; Paramio Pérez et al., 2015; Sudbury-Riley et al., 2017; Van der Vaart et al., 2011).

L’utilizzo di una tecnologia dipende in larga parte dall’utilità e la facilità d’uso percepite. E che per noi siano utili e facili da utilizzare non c’è ormai alcun dubbio.

e-Health e m-Health: la gestione del paziente cronico

Grazie ai progressi della medicina l’aspettativa di vita si è allungata: screening migliori, diagnosi più affidabili, più mezzi e più capillarità nei servizi. Ciò ha portato un significativo incremento nel numero di pazienti con malattie croniche, condizioni permanenti che devono essere considerate nel lungo termine.

La gestione del paziente cronico pone diverse riflessioni dal punto di vista sanitario, sociale, economico. Vuol dire avere un paziente in carico per anni con costi elevati per il sistema sanitario. Ma vuol anche dire che si tratta di un paziente le cui cure vanno oltre il singolo trattamento e vanno ad influire sulla sua vita quotidiana; comporta una presa in carico coordinata tra diversi servizi e figure professionali, non da ultimo dello psicologo clinico. Nelle patologie croniche l’aspetto psicologico ha un ruolo chiave, dato che lo sviluppo di sintomi di stress, ansia e depressione ha un impatto negativo sulla patologia stessa e sull’aderenza alle cure (Castelnuovo et al., 2015).

Condivisione di informazioni, promozione e istruzione sull’automonitoraggio e coinvolgimento attivo del paziente e del suo contesto di vita familiare e sociale: mettere insieme tutto questo non è facile. Alla creazione di nuovi protocolli e terapie si affianca l’esigenza di gestire in maniera più funzionale la cura. L’ m-Health sembra essere una risposta valida. Ci sono diversi studi che ne evidenziano l’efficacia nel trattamento dell’obesità e del diabete, patologie in qui è fondamentale monitorare periodicamente parametri come livello di glucosio nel sangue, peso, attività fisica, livello di insulina, farmaci, regime alimentare, pressione arteriosa, ecc. (Castelnuovo et al, 2016; 2016; 2017).

Il potenziale dell’m-Health viene messo in luce dal lavoro di Parmanto e del suo team dell’Università di Pittsburgh che nel 2013 ha pubblicato i risultati del progetto iMHealth. Si tratta di un sistema che fornisce al paziente un’app e al clinico un software le cui informazioni sono integrate: quando il paziente aggiorna l’app automaticamente le informazioni sono disponibili anche sul portale del clinico e viceversa. Parmanto e colleghi hanno elaborato questo strumento per una specifica condizione cronica, la spina bifida, una malformazione congenita della colonna vertebrale che comporta un largo ventaglio di disabilità motorie e funzionali; questa costellazione di difficoltà incide in maniera considerevole sulla qualità della vita e sull’umore, spesso depresso in questi pazienti.

Ogni patologia richiede cure diverse che dipendono in larga parte da un’attenta valutazione sia in fase di diagnosi che in corso di trattamento: la possibilità di monitorare in tempo reale e a basso costo diventa un’area di sviluppo notevole proprio per la facilità d’uso e la praticità dei dispositivi mobile.

e-Health e m-Health: portare l’assistenza dove e quando ce n’è bisogno

Siamo connessi sempre, ovunque. Da casa, sui mezzi di trasporto, in ufficio, quando usciamo con gli amici. Internet – gli smartphone in particolare – fanno parte della nostra quotidianità.

Attualmente la maggior parte delle tecnologie digitali sanitarie riguarda singoli servizi come la conferma di un appuntamento tramite sms, referti inviati via mail, app e dispositivi wearable che monitorano singoli parametri. Fino ad ora la maggior parte dei contributi riguarda specifiche app capaci di misurare e tenere traccia di indici come livello del glucosio nel sangue, pressione arteriosa e così via.

Nonostante il loro grande potenziale non sempre lo sviluppo di tecnologie va di pari passo con un aggiornamento organizzativo e amministrativo. Se da un lato vengono abbattuti i costi nel lungo termine, dall’altro è necessario investire per l’implementazione di strumenti adeguati così come per un’adeguata formazione del corpo sanitario.

Al di là di limitazioni pratiche, ci sono anche dubbi e perplessità su aspetti legati alla privacy e qualità della relazione clinico-paziente. Per quanto riguarda i primi la UE si è espressa con il Regolamento generale sulla protezione dei dati (General Data Protection Regulation, GDPR) del 2016, diventato operativo proprio lo scorso Maggio, che regola il trattamento dei dati personali (on e off line) e che va a sostituire le normative precedenti.

La qualità della relazione di cura potrebbe essere compromessa dalla mancanza di una interazione diretta col paziente. L’e-Health non nasce come sostituto di una componente fondamentale del processo terapeutico, la relazione, ma vuole invece essere un valido supporto: i dispositivi devono essere pensati come strumenti attraverso i quali il clinico può avere una visione a 360gradi dello stato psicofisico del paziente nel suo contesto naturale e che possono aiutarlo a monitorare ogni parametro in tempo reale.

L’e-Health porta con sé un nuovo modo di pensare la medicina e la psicologia clinica, un nuovo modo di vedere il paziente, renderlo parte attiva del processo di guarigione e gestione della terapia.

Cambia la relazione tra le parti in una prospettiva che a partire da nuovi supporti ridefinisce e ridisegna in maniera più ampia ruolo e modalità dell’assistenza sanitaria, affinché la salute sia dove e quando ce n’è bisogno.

Ansia sociale: la validazione italiana della Liebowitz Social Anxiety Scale (LSAS)

L’ ansia sociale è una condizione di ansia, ovvero di attivazione fisiologica, provata nelle situazioni sociali in cui si è soggetti al giudizio degli altri. La persona si sente come se fosse costantemente di fronte a una commissione d’esame, come se avesse sempre gli occhi puntati addosso, anche in situazioni che non obbligatoriamente prevedono un giudizio.

 

Ne sono esempi andare al ristorante, entrare in un negozio, chiedere un’informazione, conversare con i colleghi. Colui che soffre di disturbo d’ansia sociale ha paura di comportarsi in maniera tale da poter essere umiliato oppure teme che gli altri possano accorgersi della sua ansia e giudicarlo per questo come debole, ridicolo e inadeguato.

Ansia sociale: cos’è

Chi soffre d’ansia sociale, già prima di affrontare la situazione che teme, inizia ad anticipare, con pensieri e immagini, solitamente a carattere negativo, quello che potrebbe succedere, provando di conseguenza un forte disagio, che prende il nome di ansia anticipatoria. A questo tipo di ansia si sommerà quella definita situazionale, ovvero quella vissuta durante l’evento temuto. In questa circostanza, la persona temendo il giudizio dell’altro, tende ad automonitorarsi nel tentativo di prevenire situazioni umilianti e controllare le manifestazioni d’ansia (ad es. tremori, sudorazione, arrossamento, bocca secca) affinché gli altri non le notino. Quando la situazione sociale temuta si conclude, lo stato di malessere o disagio non svanisce. La persona inizia a rimuginare entrando nella fase di valutazione post-evento dove vi è una sovrastima negativa della propria performance, ricordando e ripensando agli aspetti negativi, senza considerare quelli positivi.

Ma quali sono gli strumenti utili per misurare questa condizione che molto spesso non ha un confine netto fra normalità e patologia?

Come per quasi tutte le terapie cognitivo-comportamentali, la valutazione iniziale e la conseguente concettualizzazione del caso è fondamentale al fine di strutturare un percorso terapeutico su misura.

Per quanto riguarda l’assessment abbiamo a disposizione numerosi test che valutano il livello d’ansia sociale nel paziente: tra gli altri la Social Phobia Scale (SPS) che valuta l’ansia relativa ad azioni abituali come mangiare e bere; la Social Interaction Anxiety Scale (SIAS) focalizzata sulla valutazione delle interazioni sociali; la Social Phobia Inventory (SPIN) relativa alla misurazione della gravità del disturbo d’ansia sociale.

Ansia sociale: la validazione italiana della LSAS

Il nostro gruppo di ricerca, facente parte del CEDAS (Centro di Eccellenza per i Disturbi d’Ansia Sociale), sta portando avanti la validazione italiana della Liebowitz Social Anxiety Scale (LSAS) che è una scala composta da 24 item; per ciascuno di essi vengono valutati, separatamente, l’ansia/paura legata alla situazione descritta e il grado di evitamento, ovvero quando la persona si sottrae alla circostanza descritta. Nella prima colonna, infatti, viene misurato su una scala Likert a 4 punti, quanto nell’ultima settimana la situazione rende ansiosa o spaventata la persona; nella seconda colonna viene misurato sempre su scala Likert a 4 punti quanto la persona ha evitato o eviterebbe la situazione indicata.

Non essendo presente una validazione italiana della scala, fino ad oggi era utilizzata principalmente per due scopi:

  • avere un punteggio di baseline con cui poter confrontare nuove somministrazioni del questionario durante il percorso di trattamento;
  • a livello qualitativo, per valutare quali situazioni il paziente evita maggiormente e quali situazioni, pur affrontandole, vive con elevata ansia.

Questo utilizzo non era sufficiente dal punto di vista clinico; si è perciò deciso di procedere alla sua validazione essendo uno strumento utile, facilmente fruibile e ampiamente utilizzato.

La validazione italiana della LSAS è stata condotta considerando due campioni, uno di pazienti affetti da ansia sociale e uno estratto dalla popolazione generale. In particolare, il campione clinico era composto da persone che hanno dichiarato di aver ricevuto una diagnosi di Disturbo d’Ansia Sociale da un professionista della salute mentale come uno psicologo o un medico psichiatra.

Ai due gruppi è stato somministrato un questionario contenente la versione italiana della LSAS, adattata in base alle linee guida proposte da Brislin e colleghi (1986), e una serie di strumenti volti a misurare costrutti utili per valutarne la validità convergente e discriminante come ad esempio la Social Phobia Scale e il Beck Anxiety Inventory.

I risultati preliminari mostrano una struttura unidimensionale per le scale ansia ed evitamento in entrambi i campioni. Inoltre, la versione italiana risulta avere una discreta coerenza interna ed un’adeguata validità di costrutto in termini di validità convergente e discriminante. Anche la validità test-retest risulta buona mostrando una sostanziale stabilità delle misurazioni su popolazione generale.

Nel complesso, quindi, i risultati sono incoraggianti rispetto alla possibilità di disporre della LSAS anche nel contesto italiano. Questo non solo faciliterà i professionisti che la utilizzano a fini clinici, ma permetterà un suo utilizzo anche in contesti di ricerca scientifica.

Attualmente l’articolo è in corso di stesura e verrà presentato alle riviste che maggiormente si occupano di questi temi.

Amorù: una rete antiviolenza a Palermo

Il progetto Antiviolenza Amorù è stato presentato ufficialmente lo scorso 22 Ottobre a Palermo nella sontuosa cornice di Palazzo Delle Aquile.

 

Il progetto unisce in una fitta rete collaborativa Associazioni del Terzo Settore,  Comuni, Istituzioni Scolastiche, nell’intento collettivo di fornire aiuto concreto e specializzato nella lotta ad abusi e discriminazioni.

Amorù, una rete assistenziale nata esplicitamente per sostenere donne e minori vittime di violenza lungo un percorso di empowerment personale e sociale, di consapevolezza e riorientamento della propria vita, al di là di ogni possibile abuso di natura emotiva, fisica, economica.

Un percorso che si estenderà per tre anni, da Luglio 2018 a Luglio 2021, nell’area est della provincia di Palermo, e vedrà il rapido succedersi di una nutrita serie di attività portate avanti da una moltitudine di realtà associative, l’Organizzazione Umanitaria Internazionale LIFE and LIFE, realtà operante campo della cooperazione locale e internazionale e degli aiuti umanitari, quale ente capofila, a cui si affiancano virtuosamente, tra gli altri, l’Associazione Diritti Umani Contro Tutte Le Violenze “Co.Tu.Le Vi.” e il Centro Studi “Pio La Torre ONLUS”, e da una molteplicità di Istituzioni, dai Comuni della Provincia Palermitana (Villabate, Bagheria, tra gli altri) a diverse istituzioni scolastiche dei Comuni stessi.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Amorù: un progetto per donne e minori vittime di violenza a Palermo

Attività che richiedono elevate professionalità, investimenti di risorse umane e finanziarie, le ultime delle quali sostenute da Fondazione con il sud, ente no profit nato dall’alleanza tra le fondazioni di origine bancaria e il mondo del terzo settore e del volontariato, per promuovere percorsi di coesione sociale in favore del Mezzogiorno d’Italia.

Attività dal carattere etico, umanitario, sociale che andranno a incidere sul futuro di 2000 donne e 100 minori, coinvolti nel progetto triennale di contrasto alla violenza, frutto del crederci quotidiano di operatori e professionisti dell’autonomia a sostegno delle fasce deboli.

Perché, come in ogni progetto di valorizzazione delle proprie risorse, il credere in se stessi viene rafforzato dalla solidarietà, dalla netta percezione di un sostegno sociale che si muove in direzione della realizzazione di un proprio progetto di vita auspicato, agognato.

Amorù è un progetto che beneficia di una serie di azioni mirate all’informazione, da un lato, e alla presa in carico da parte delle Istituzioni della sofferenza patita e continuamente rivissuta, come accade in ogni evento traumatico di lunga durata, taciuto nel silenzio e nella paura.

Ecco allora la progettazone di incontri tematici di prevenzione primaria rivolti ai giovani, da avviare nelle scuole, a partire già dalla scuola dell’infanzia, nella misura in cui l’educazione all’affettività e al rispetto delle diversità costituisce il requisito imprescindibile per prevenire violenze e prevaricazioni, prima del loro strutturarsi.

A questi momenti di sensibilizzazione si affiancheranno interventi di presa in carico delle donne a cui la rete Amorù è dedicata, attraverso la funzionalità di tre centri di ascolto e di una casa protetta per donne e minori.

Sostegno concreto che non può escludere, nell’ottica di una piena autonomia psicologica e di un benessere personale e relazionale, un’indipendenza di tipo economico: ecco l’idea di azioni di auto-imprenditorialità rivolte alle donne, che si concretizzeranno nella nascita di una cooperativa sociale che gestirà il mandarineto di Ciaculli, noto territorio del palermitano ad alta densità mafiosa, i cui prodotti agricoli saranno poi commercializzati attraverso un’apposita piattaforma di e-commerce.

cancel