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In morte della curiosità – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 45

Oggi l’avere a che fare con meccanismi spesso complessi e difficilmente comprensibili porta spesso a non incuriosirsi più, “è troppo complicato, l’importante è che funzioni!”. Il rischio ahimè è quello di restare fermi, stanziati in uno status quo che non sempre è sinonimo di benessere e che, sicuramente, non facilita il cambiamento e la nostra evoluzione.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – In morte della curiosità (Nr. 45)

 

Il ‘900 non è stato soltanto il secolo delle due guerre mondiali ma anche, forse proprio a motivo di esse, il secolo della straordinaria avanzata della scienza e della sua immediata trasformazione tecnologica sia per scopi bellici che civili che hanno cambiato radicalmente la nostra vita. Non solo la medicina e la chirurgia hanno allungato enormemente la vita media, ma elettrodomestici, radio televisione, automobili, aerei ed infine computer ne hanno modificato la qualità ed i ritmi.

In particolare l’elettronica e l’informatica hanno reso di facile utilizzo e accessibili a tutti strumenti complicatissimi di cui l’utente ignora assolutamente il funzionamento che sarebbe alla portata di una scimmia. Un esempio classico. Per lavorare alla cassa di un supermercato è sufficiente riuscire a distinguere la valuta nazionale e conoscere i numeri cardinali senza saper compiere alcuna operazione: infatti il lettore ottico legge i prezzi dal codice a barra e li somma direttamente. L’operatore deve solo digitare quanti soldi gli dà il cliente e la macchina gli dice il resto da restituirgli.

Come avvengano tutte queste cose sfugge alla conoscenza degli utilizzatori e lo stesso vale per tutti gli oggetti che ci circondano. Se un tempo, quando si lavavano i panni al pozzo, il meccanismo di come lo sfregamento con acqua e sapone rimuovesse lo sporco era piuttosto chiaro, oggi non lo è per la maggior parte delle cose. A parte ripetere qualche formuletta scolastica, chi tra la gente comune sa come funziona la televisione, la radio o più semplicemente un disco che sia di vinile o un compat a lettura laser (ma che è il laser?).

Se ci trovassimo a sbarcare in un pianeta uguale alla terra temo che dovremmo ripercorrere tutta l’evoluzione della conoscenza da capo. Chi sarebbe in grado di produrre energia elettrica e costruire una lampadina? Al massimo memori di qualche film sui pellerossa potremmo tentare di accendere un fuoco, senza peraltro riuscirci. Insomma siamo circondati da oggetti sconosciuti, portentosi, dal magico funzionamento, dai quali dipende la nostra esistenza e con i quali interagiamo, se e solo se il loro pannello di controllo è amichevole e docile.

Persino ai tecnici sfugge il reale funzionamento e i meccanismi interni sono inaccessibili al punto che le cose non si aggiustano più ma si sostituiscono, i circuiti stampati non si riparano. Un tempo i bambini giocavano a smontare le cose per vedere cosa ci fosse dentro e capirne il funzionamento, oggi non lo si fa più, dentro non c’è niente.

Persino il tempo dei grandi esploratori è finito. Nonostante i laboratori di tutto il mondo pullilino di ottimi scienziati e le scoperte innovative si susseguano a ritmo incalzante l’impressione della gente comune è che quello che si doveva sapere ormai si sappia, siamo nel mondo migliore possibile che resterà più o meno stabile solo con qualche prodotto in più: scenari totalmente diversi non sono neppure immaginati.

Questa sistematica impossibilità a capire meccanismi troppo complicati per la maggior parte delle persone genera una continua frustrazione della curiosità, per non provare la quale si smette di essere curiosi.

Un’interessante ricerca della Burt Ellison University del Sud Dakota (**La Burt Ellis University non esiste ma potrebbe) ha evidenziato come la durata della cosidetta età dei perché si sia ridotta di oltre il 50% e le domande quotidiane addirittura del 74,5%. I ricercatori ne concludono che i bambini comprendono rapidamente che nessuno sa come stiano effettivamente le cose e che dunque, come cantava De Gregori “non c’è niente da capire”.

Se ciò che accade è incomprensibile, è di conseguenza anche immodificabile e ciò comporta passività ed acquiescenza allo status quo. I bambini che aprivano i giocattoli per guardarci dentro, una volta ragazzi hanno pensato di cambiare il mondo. I bambini di oggi se vedono che il mondo non funziona si aspettano che gliene venga regalato uno nuovo. Alla resa della curiosità verso il mondo esterno si associa una perigliosa smania di capire effettivamente se stessi, di comprendere il proprio vero “IO”, ma questa è un altra storia.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Guarire la frammentazione del sé. Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma psicologico (2017) di Janina Fisher – Recensione del libro

Janina Fisher, autrice del libro Guarire la frammentazione del sé, è vicedirettore del Sensorimotor Psychotherapy Institute, ha lavorato presso il Trauma Center fondato da Bessel von der Kolk ed è stata presidente della England Society per il trattamento di traumi e dissociazioni.

 

Nel libro Guarire la frammentazione del sé. Come integrare le parti di sé dissociate dal trauma psicologico l’autrice, attraverso undici capitoli (più le appendici), illustra il metodo di intervento che ha sviluppato e articolato nel corso della sua lunga esperienza con pazienti gravi.

Guarire la frammentazione del sé: anche quando il paziente è ad alto funzionamento

Il libro è rivolto non solo ai professionisti ma anche ai pazienti:

Il mio interesse nello scrivere questo libro è condividere un modo per comprendere i clienti più complessi e difficili che arrivano a noi, spesso con diagnosi “terminali” come disturbo di personalità, disturbo bipolare di tipo II, persino schizofrenia.

Nell’introduzione Janina Fisher racconta come in diverse occasioni sia stata consultata da clienti o colleghi che non si spiegavano come mai nonostante si fosse creata una buona relazione terapeutica, il paziente non facesse i progressi attesi, rimanendo bloccato in una condizione di sofferenza o impasse. La Fisher, analizzando questi casi, ha rilevato come di frequente fosse presente uno stato dissociativo che talvolta può risultare difficile da individuare perché il paziente apparentemente ‘funziona’ bene.

Mi accorsi che per ogni specifico cliente era più facile identificarsi con o ‘sentire proprie’ alcune parti, mentre altre parti erano più facili da ignorare o da disconoscere come ‘non me’. Internamente, inoltre, le parti erano in conflitto tra loro: era più sicuro congelarsi o combattere? Gridare aiuto o passare inosservati? Notai inoltre che le relazioni interne tra questi aspetti frammentati del sé rispecchiavano l’ambiente traumatico per cui un tempo erano state la soluzione.

Il nucleo centrale dell’intervento proposto nel libro Guarire la frammentazione del Sé è proprio il lavoro sulle parti del sé, per il quale vengono integrati diversi modelli terapeutici come la psicoterapia sensomotoria, gli Internal Family System, gli approcci basati sulla mindfulness e l’ipnosi clinica.

Guarire la frammentazione del sé: l’attaccamento di ieri determina la finestra di tolleranza di oggi

Janina Fisher spiega come a suo parere per lavorare con il trauma sia necessario basarsi su modelli teorici che traggono le loro origini dalle neuroscienze e dalla ricerca sull’attaccamento.

Nel periodo in cui svolge attività presso il Trauma Center inizia a considerare i disturbi correlati al trauma come disturbi del corpo, del cervello e del sistema nervoso. La crescente attenzione alla neurobiologia la porta a ritenere che le risposte al trauma rappresentino un tentativo di adattamento piuttosto che la prova di una patologia.

Facendo riferimento al modello della dissociazione strutturale di Van de Hart e altri, ritiene che

(…) la dissociazione strutturale rappresenta una risposta adattativa orientata alla sopravvivenza di fronte alle specifiche richieste provenienti dall’ambiente traumatico. Ciò favorisce una scissione tra emisfero destro ed emisfero sinistro che promuove il disconoscimento delle parti ‘non me’ connesse al trauma e la capacità di funzionare senza consapevolezza di essere stati traumatizzati. La scissione favorisce anche lo sviluppo di parti guidate da difese animali, che servono la causa della sopravvivenza di fronte al pericolo.

Per comprendere quali fattori possono determinare una frammentazione del sé è utile far riferimento alla relazione di attaccamento attraverso la quale il bambino impara a riconoscere e modulare gli stati emotivi interni e forma una sorta di ‘finestra di tolleranza’ alle attivazioni fisiologiche.

Il termine “finestra di tolleranza” fa riferimento al grado con cui si è capaci di tollerare emozioni intense a livello simpatico e sensazioni di noia, ottundimento o il “sentirsi giù” a livello parasimpatico. Dal momento che bambini traumatizzati hanno per lo più vissuto condizioni di minaccia ricorrenti o “perduranti” (Saakvitne et al. 2000), in genere hanno poche opportunità di sviluppare una finestra di tolleranza: per adattarsi, i loro corpi dovevano rimanere all’erta, pronti all’azione oppure mantenersi distaccati, intorpiditi, passivi, capaci di sopportare qualunque cosa.

Nelle situazioni psicopatologiche la finestra di tolleranza è molto piccola. In presenza di situazioni traumatiche durante l’infanzia possono determinarsi principalmente due tipi di risposte: una disposizione di allerta, di ipervigilanza o una condizione di passività, di ottundimento e di sopportazione. In entrambi i casi si può sviluppare uno stato dissociativo che viene considerato adattivo in quanto rappresenta il modo migliore che trova il bambino per rispondere a una situazione minacciosa, dove magari la ‘protezione’ sarebbe dovuta venire dalla stessa figura che lo metteva in pericolo (per esempio un genitore o un’altra figura che si occupa del bambino).

La scissione comporta, quindi, che in alcuni casi la parte traumatizzata viene tralasciata, non riconosciuta, e la persona va avanti nella sua vita grazie a una parte che viene definita ‘la parte della vita normale’.

Purtroppo molti eventi della vita quotidiana possono sollecitarci emotivamente facendo sì che la parte traumatizzata si ‘attivi’ a un livello non consapevole provocando nel soggetto uno stato emotivo negativo, di sfiducia, paura dell’abbandono, fallimento, come se il pericolo/trauma fosse attuale.

L’individuo può trovarsi in situazioni traumatiche anche in momenti successivi della vita e anche in questi frangenti la dissociazione è una possibile risposta all’evento.

Guarire la frammentazione del sé: occuparsi degli effetti odierni del trauma

Il modello proposto da Janina Fisher non si propone di ricostruire il trauma passato ma di lavorare sugli effetti di questo. L’intento è quello di modificare le memorie del trauma attraverso il lavoro con le parti nel qui e ora, nel presente; la persona deve imparare a sentirsi ‘al sicuro’ nel momento attuale. I capitoli 4 e 5 sono proprio dedicati al riconoscimento e all’accettazione delle parti del sé.

Il paziente, guidato dal terapeuta, dovrebbe trovare in sé stesso quella sicurezza che non ha ricevuto dalle figure genitoriali quando era bambino. Infatti i sintomi non sono causati solo dagli eventi traumatici, ma dal conseguente disturbo dell’attaccamento interno che si determina.

Le parti bambine (traumatizzate) tramite la mindfulness devono essere riconosciute e capite così che la parte adulta possa rassicurale e avere cura di loro. In questo modo lo stato di attivazione emotiva, che nasce dalla mancata differenziazione fra la situazione attuale e quella del trauma, si dovrebbe attenuare e la persona dovrebbe riuscire a far fronte al disagio che avverte. In sostanza il paziente dovrebbe ‘adottare’ le parti ferite e imparare a prendersi cura di loro.

Curare le ferite traumatiche e la frammentazione connessa al trauma dipende, in fin dei conti, dalla relazione che l’individuo ha con se stesso – o con i suoi ‘molteplici’ sé.

Guarire la frammentazione del sé comporta affrontare ostacoli nella relazione terapeutica

Janina Fisher nel 6 capitolo del libro Guarire la frammentazione del sé affronta un tema molto importante per la psicoterapia: le complicazioni del trattamento. Poiché una delle caratteristiche dell’attaccamento traumatico comporta che la figura che dovrebbe dare sicurezza al bambino invece provoca paura fino a poter costituire una potenziale minaccia per la sopravvivenza, qualsiasi relazione successiva, compresa quella terapeutica, rischia di evocare segnali di pericolo. Pertanto, la crescente vicinanza emotiva che si stabilisce in questo tipo di relazione può comunicare alternativamente un senso di sicurezza o una sorta di minaccia, creando una situazione difficile per il proseguimento di una terapia. In questi casi, se i terapeuti considerano le modalità relazionali ambivalenti del paziente come se fossero legate alla relazione terapeutica il problema può complicarsi. Infatti, le modalità citate andrebbero lette come aspetti interpersonali indicatori del disturbo dell’attaccamento; in questo modo il terapeuta può divenire un alleato del paziente e facilitare lo sviluppo di un‘ attaccamento sicuro guadagnato’.

Quanto proposto da Janina Fisher risulta particolarmente interessante perché permette di comprendere meglio quei clienti che pur decidendo di intraprendere una psicoterapia ne sembrano ‘spaventati’, perché magari oscillano tra un desiderio di vicinanza e la paura della relazione terapeutica; problematica analoga a quella che presentano in genere nei rapporti interpersonali. Pertanto, una difficoltà dell’intervento nasce in quanto la modalità relazionale del paziente, che in qualche modo è alla base della sua sofferenza, è la stessa che ostacola il processo di cura.

Risulta importante disporre di una cornice teorica che permetta di comprendere come aiutare i pazienti quando a causa dei vissuti emotivi complessi ed ambivalenti che questi avvertono può risultare difficile utilizzare lo strumento principale della psicoterapia: la relazione terapeutica.

Una delle sfide per ogni terapeuta dovrebbe essere provare a ricercare i motivi sottostanti alla mancanza di progressi e/o agli insuccessi che si possono verificare nell’ambito di una psicoterapia.

Sebbene in Guarire la frammentazione del sé Janina Fisher spieghi i passaggi per portare il paziente a dialogare con le parti bambine può risultare difficile comprendere come si può svolgere questo tipo di intervento (del resto la Fisher stessa illustra le difficoltà che possono avere i terapeuti e i pazienti); ma gli esiti positivi che vengono riferiti meritano di essere presi in esame.

L’autrice racconta, a questo proposito, come applicando lo schema di intervento presentato abbia ottenuto buoni successi anche con pazienti molto gravi seguiti presso i Dipartimenti di Salute Mentale del Massachusetts e del Connecticut rilevando che

(…) con un modello di trattamento organizzato attorno alla scissione e alla compartimentazione connesse al trauma questi pazienti riuscivano a iniziare a stabilizzarsi, a vivere fuori dalle mura istituzionali e a considerare i loro attacchi al corpo come l’intrepido tentativo di una parte di guadagnare un rapido e immediato sollievo dalle dolorose memorie implicite di altre parti.

Colore che vince non si cambia! – Psicologia dei colori e competizioni sportive

È possibile cambiare il risultato di una gara solo grazie al colore della maglia indossata o è pura scaramanzia? Il colore rosso aiuta a vincere? Scopriamo insieme quali sono i fattori che si nascondo sotto questo strano fenomeno..

Giulia Marton, Laura Vergani – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

La caldissima serata di Istanbul

È il 25 maggio del 2005. A Istanbul fa caldo. Molto caldo. 
Quella che sta per andare in scena allo stadio Atatürk non è una partita come le altre: è la finale di Champions League. Una sfida che, per ragioni che sfuggono a ogni spiegazione o considerazione puramente tecnico-tattica, sarà destinata a rimanere nella storia. 
Di fronte ci sono due delle squadre più blasonate in Europa: il Milan e il Liverpool. 
Gli inglesi arrivano da sfavoriti: il loro cammino non è stato privo di difficoltà, ma grazie ad una grande compattezza di squadra sono giunti in fondo. Ma dall’altra parte c’è uno squadrone: è semplicemente il miglior Milan del terzo millennio. Molto più forte di quello che due stagioni prima aveva vinto a Manchester la Champions contro la Juventus, più forte anche di quello che due anni dopo la rivincerà proprio contro il Liverpool.

Bianco contro rosso

Il Milan, come in ogni finale, gioca con la maglia bianca, mentre il Liverpool indossa la solita divisa rosso fuoco.

È quasi religioso il silenzio che accompagna gli istanti prima della partita. Una partita che ogni calciatore sogna di giocare; una partita che ogni tifoso sogna di guardare.

Ed è il fischio d’inizio.

Non è passato neanche un minuto quando Kakà si guadagna un calcio di punizione. Batte Pirlo, si inserisce Maldini da dietro e fa 1-0 col destro. Con 51 secondi, è il gol più veloce di sempre in una finale. Si mette tutto bene per il Milan, che gioca un calcio sublime: Kakà è imprendibile, Shevchenko incontenibile mentre Pirlo e Seedorf dominano il centrocampo. Dopo un gol regolare annullato a Shevchenko, il Milan trova comunque il raddoppio: da Kakà a Sheva a Crespo, che a due passi dalla porta deve solo appoggiare in rete. Al 43’ ecco la terza perla: Kakà dribbla un avversario con semplicità ed efficacia e trova il filtrante profondo per Crespo. L’argentino non la deve neanche controllare: con un delizioso tocco firma la doppietta personale. Più di cosi, era difficile fare: è l’apoteosi. Milan 3 e Liverpool 0. Finisce il primo tempo, e quando le squadre rientrano in campo dopo l’intervallo, la Coppa sembra davvero una formalità per il Milan. E invece, la ripresa mostra un’altra realtà.

I sei minuti più famosi della storia del calcio

Nei primi momenti il Milan controlla il ritmo, ma al 9’ iniziano i sei minuti più famosi della storia del calcio moderno. Sei minuti difficili da spiegare, impossibili da comprendere. Riise crossa dalla sinistra e un Gerrard solissimo trova il 3-1. Due giri di lancette e Dida non si fa trovare pronto sulla rasoiata da fuori di Smicer: 3-2. Il Milan – e ogni tifoso rossonero – inizia a preoccuparsi. Altri quattro minuti e si aprono le porte del baratro: Gattuso stende in area Gerrard. Dida para il rigore di Xabi Alonso, ma il centrocampista spagnolo segna sulla ribattuta e rimette il conto in parità.

3-3. 
Da lì in poi i rossoneri in bianco riprendono la partita in mano, senza però graffiare. Stessa storia anche nei tempi supplementari, con il Liverpool in difesa e il Milan stabilmente nella metacampo inglese. E ciò che succede al 117’ è il simbolo di tutta la serata: Sheva va di testa a botta sicura, Dudek compie il miracolo, e sulla ribattuta dello stesso Shevchenko, il tiro trova – non si sa come – il braccio del portiere polacco che si stava rialzando. Lì, probabilmente, il Milan perde la partita.

Una pioggia di coriandoli. Rossi.

Dopo, tutto quello che succede è quasi normale. Al fischio finale, sul 3 a 3, si va ai rigori. Il Milan ne sbaglia tre su cinque. Il Liverpool è campione d’Europa e festeggia sotto un tripudio di coriandoli rossi. 
Una rimonta pazzesca. Impronosticabile, leggendaria.

Come è stata possibile?

Tanti addetti ai lavori hanno cercato di dare una risposta a qualcosa che, dal punto di vista sportivo, tecnico e tattico, sfugge ad ogni spiegazione. E allora ci si appiglia ad altro. Chi, come Crespo, parla di destino. Dudek invece rivelò di aver chiesto l’aiuto dell’allora appena scomparso Papa Giovanni Paolo II.

Cosa è vero? Forse tutto, forse niente.

Ma forse una spiegazione c’è.

Le Olimpiadi di Atene

Russell Hill e Robert Barton sono due antropologi, professori e ricercatori dell’Università di Durham, nel Regno Unito. Secondo alcuni la patria del calcio ma, almeno all’inizio, il calcio non c’entra.

Il 19 maggio 2005, esattamente pochissimi giorni prima della finale di Istanbul, sulla rivista Nature viene pubblicato un articolo che riporta la loro firma (Hill & Barton, 2005). L’ipotesi è che l’abbigliamento di colore rosso possa influenzare il risultato nelle competizioni fisiche.

Come dicevamo, il pallone per il momento non c’entra nulla. C’entrano i Giochi Olimpici del 2004 che richiamano ad Atene gli sportivi professionisti più forti del mondo, compresi quelli delle categorie di lotta libera, lotta greco-romana, pugilato e teakwondo. A loro, prima di ogni incontro, viene casualmente assegnata una divisa, uguale ma di colore diverso: rosso o blu.

Se il colore non ha effetto sull’outcome delle competizioni, allora il numero dei vincitori che vestono il colore rosso dovrebbe essere statisticamente indistinguibile dal numero di vincitori che vestono di blu – scrivono Hill e Barton.

Nel paese che ha dato i natali alle Olimpiadi, i due antropologi, blocchetto dei risultati alla mano, analizzano i pattern di vittorie e sconfitte nelle quattro discipline.

E quello che scoprono ha un che di sorprendente.

Il rosso vince, alle Olimpiadi…

Sui campi da gioco illuminati dalla fiamma della torcia olimpica, gli atleti con indosso una casacca rossa ottengono – con un risultato statisticamente significativo – un maggior numero di vittorie rispetto a quante ne ottengono gli avversari vestiti di blu. Ciò è vero per tutti e quattro gli sport, nel corso di tutti i round e per tutte le categorie di peso.

Ed è vero anche per il pallone?

…e anche nel calcio

Sempre Hill e Barton presentarono i risultati di una ricerca svolta durante gli Europei di calcio del 2004 (Hill & Barton, n.d.). Si, quelli giocati in Portogallo e vinti, per la prima e storica volta, dalla nazionale greca. I due antropologi britannici analizzarono le partite di cinque squadre che per i loro match alternavano una divisa di colore rosso con una di colore diverso.

E quindi? Quando i giocatori di Croazia, Inghilterra, Lettonia, Repubblica Ceca e Spagna erano di rosso vestiti ottenevano risultati significativamente migliori nei loro match. Ma c’è di più. Hill e Barton notarono anche che segnavano più goal, costringendo i loro avversari a giocare in difesa.

Il rosso vince, dunque. Nei match di combattimento e nelle partite di calcio. Anzi, nei campionati.

Successo a lungo termine

Ad analizzare i risultati delle partite casalinghe dei team del campionato inglese di calcio, dalla seconda Guerra Mondiale fino al nuovo millennio, sono stati, ancora una volta, Barton e Hill insieme ad altri due studiosi, Attrill e Gresty (Attrill, Gresty, Hill & Barton, 2008). Le squadre vestite di rosso, nella storia del calcio inglese, hanno dunque migliori risultati casalinghi e si sono laureate campioni più spesso delle altre. Risultati che supportano l’ipotesi iniziale degli autori, cioè che divise di colore rosso influirebbero sul successo a lungo termine delle squadre.

Più e meno goal

Il rosso vince, in attacco e anche in difesa.

Questa volta il focus è sui portieri, che, secondo un articolo di Greenless, Eynon e Thelwell (Greenlees, Eynon & Thelwell, 2013), potrebbero avere un alleato nel colore della divisa indossata.

Nella loro ricerca, i tre autori hanno infatti esaminato ben 40 giocatori di calcio, pronti a battere un calcio di rigore. A difendere i pali, portieri con una divisa nera, blu, verde, gialla oppure rossa. E – ovviamente – i giocatori che fronteggiavano un portiere vestito con il colore della passione hanno segnato un numero minore di gol.

Campi reali e campi virtuali

Che il rosso faccia vincere, dunque, l’abbiamo capito. Ma l’effetto si esaurisce “solo” sui campi da gioco reali oppure si può estendere anche a quelli virtuali?

Si può sempre testare la propria abilità direttamente dal divano, con un “multiplayer first-person-shooter (FPS) computer game”. lie, Ioan, Zagrean e Moldovan (2008) hanno analizzato i risultati di più di mille match giocati “virtualmente”. E le squadre virtuali con una maglietta rossa hanno risultati realmente migliori rispetto a quelle vestite di blu.

Ma perché?

Negli anni sono numerosissimi gli studi che si sono susseguiti su questo argomento. Tanti gli autori che hanno cercato di approfondire il ruolo dei colori nelle performance sportive degli atleti, con diversi risultati e anche con diverse spiegazioni.

Dopo aver visto i risultati di questi studi, possiamo in particolare chiederci perché il rosso potrebbe influenzare il risultato delle competizioni. 
Hill e Barton citano alcuni studi che evidenziano il valore della colorazione rossa in alcuni animali, come legata al testosterone e alla dominanza maschile e anche come “segnale di qualità maschile”.

Negli uomini, inoltre, il rosso è associate alla rabbia: quando ci arrabbiamo, infatti, aumenta il flusso sanguigno e dunque la colorazione rossa. Dunque, secondo Hill e Barton, durante le competizioni aggressive, la colorazione rossa può essere associata ad una “dominanza relativa”.

Si pensa che il colore possa influenzare, nell’uomo, l’umore, l’emozione e l’aggressività espressa, ed è un elemento riconosciuto di segnalazione nelle interazioni competitive in molte specie non umane. Ma non è stato finora preso in considerazione come fattore nelle competizioni umane. Data l’ubiquità della competizione aggressiva nelle società e nella storia umane, i nostri risultati suggeriscono che la psicologia evolutiva del colore sarà probabilmente un campo fertile per ulteriori indagini. Anche le implicazioni per i regolamenti che regolano l’abbigliamento sportivo possono essere importanti – concludono Hill e Barton.

Psicologia e colori

Come accennato prima, negli ultimi anni sono numerosi gli studi che approfondiscono questo argomento e che, più in generale, si focalizzano sul legame tra colori e funzionamento psicologico.

In una recente review della letteratura, Elliot (2015) ha analizzato questo tema dal punto di vista teoretico ed empirico, citando anche tra le diverse aree di ricerca il colore e la performance atletica. Elliott sottolinea il fatto che colore e funzionamento psicologico è una tematica promettente, in cui la ricerca è ancora agli esordi con la necessità di proseguire il lavoro. Dall’altro lato, prosegue anche la ricerca sulla natura stessa del colore. Come spiegato dal professor Riccardo Manzotti, docente di Filosofia teoretica all’Università IULM di Milano, in un’intervista concessa qui su State of Mind: “oltre 300 anni dopo il testo di Newton (1704) non sappiamo ancora in modo definitivo che cosa sia il colore”.

Rosso vincente non si cambia, ma solo a volte

Mentre la ricerca prosegue il suo lavoro, possiamo ancora toglierci una curiosità.
Davvero il colore rosso è il colore della vittoria?

Basta indossare una maglietta rossa per ottenere una vittoria olimpica? Per rimontare tre gol in una finale e alzare al cielo la coppa di Champions League? O semplicemente per diventare il campione di un torneo virtuale giocato con gli amici?

Restando sulla ricerca di Hill e Barton (2005), pubblicata su Nature nel 2005, il rosso vince. Ma solo a volte.

Come scrivono gli stessi autori, e come riportano nel grafico allegato alla loro ricerca

Dato l’indubbio ruolo degli altri fattori, come abilità e forza, è vero simile che il vantaggio dato dal colore rosso determinerà il risultato solo nelle competizioni relativamente simmetriche.

Dunque, solo nelle condizioni di parità e simmetria, maglietta e pantaloncini rossi possono dare quel quid in più e portare alla vittoria.

Solo nelle competizioni tra individui di simile abilità ci sono stati significativamente più vincitori rossi che blu, con il vantaggio dato dal colore rosso che sembra declinare quando l’asimmetria tra l’abilità nelle competizioni aumenta – scrivono Hill e Barton.

Prima di correre a cambiare la divisa della propria squadra di calcetto, è meglio dunque continuare a riporre fiducia nel classico allenamento, nell’impegno e nello sforzo sul campo da gioco.

Attacchi di panico: la paura è reale, il pericolo non lo è

Non è raro, ancora oggi, che i disturbi mentali siano posti in secondo piano rispetto a quelli fisici, ma qualsiasi persona abbia vissuto uno o più attacchi di panico sa quanto possano essere spaventosi e invalidanti.

 

Saper riconoscere le emozioni

Quello che maggiormente contraddistingue la specie umana è l’incredibile naturalezza nella modalità d’interazione sociale e le emozioni ne rappresentano un aspetto basilare, permettendo la comunicazione degli stati d’animo, la classificazione e la valutazione delle situazioni. Nel corso dell’evoluzione, l’uomo ha imparato a manifestare le proprie emozioni mediante il linguaggio verbale pur mantenendo modalità espressive più arcaiche.

La paura e l’ansia possono essere esperite nello stesso momento, i sintomi si sovrappongono ma l’esperienza di tali emozioni si differenzia in base alla situazione. Sperimentiamo la paura di fronte una minaccia conosciuta o compresa, mentre l’ansia deriva da una minaccia sconosciuta o poco definita. Di fronte a un segnale di pericolo o di allerta il nostro corpo si prepara a fuggire o a rimanere per combattere. La paura genera ansia che a sua volta causa la paura (Siegel, 2013). In realtà, l’ansia può definirsi una forma più elaborata di paura, che fornisce all’individuo una maggiore capacità di adattamento e pianificazione per il futuro.

E quindi, quando l’ansia può definirsi patologica? Se interferisce con la capacità di fronteggiare al meglio le sfide quotidiane: se ci troviamo di fronte un ghepardo, l’istinto alla sopravvivenza ci fa mettere al sicuro o scappiamo; in ugual modo se proviamo la paura di fallire possiamo essere spinti a fare meglio, ma se la sensazione è troppo forte, possiamo persino smettere di provare (Steimer, 2002).

Come capire se si tratta di un disturbo di panico

Vi è mai capitato di provare all’improvviso un’intensa ansia e paura, in assenza di una vera minaccia esterna? Se la risposta é affermativa, probabilmente avete sperimentato un attacco di panico, il quale si verifica quando il normale meccanismo del cervello per reagire a una minaccia viene usato impropriamente.

Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5), un attacco di panico è caratterizzato da quattro o più dei seguenti sintomi: palpitazioni, battito cardiaco accelerato; sudorazione; tremori fini o grandi scosse; dispnea o senso di soffocamento; sensazione di asfissia; dolore o fastidio al petto; nausea o disturbi addominali; vertigine o svenimento; brividi o forte calore; sensazioni di torpore o di formicolio; sensazione di irrealtà o distacco da se stessi; paura di perdere il controllo o di impazzire; paura di morire. In seguito ad un attacco di panico, per un mese o più, il timore di poter rivivere tali sensazioni può indurre a una significativa variazione del comportamento abituale e/o all’evitamento di situazioni ritenute non familiari, quindi potenzialmente rischiose. Gli attacchi di panico possono essere attesi o situazionali se abbinati a un evidente elemento scatenante o al contrario essere inaspettati quando non è possibile rintracciare una chiara causa scatenante.

In generale, è possibile sperimentare anche un singolo attacco di panico isolato tale da non determinare un disturbo di panico (Asmundson et Al., 2014). La diagnosi di disturbo di panico deve poter escludere altre possibili cause mediche di sintomi quali il dolore toracico, la frequenza cardiaca elevata o la difficoltà a respirare senza trascurare il panico come una potenziale causa.

Attacchi di panico: le terapie

La perdita di sicurezza e protezione conseguente al disturbo di panico possono far sentire l’individuo privato della propria libertà.

Come per altri disturbi è importante comprendere lo sviluppo evolutivo del soggetto, al fine di avere un quadro diagnostico esaustivo.

Il trattamento raccomandato per gli attacchi di panico comprende la psicoterapia e i farmaci. Questi ultimi devono essere assunti in modo assiduo per almeno dodici mesi prima della riduzione, per evitare una possibile ricaduta (Locke et Al., 2015).

Come menzionato, gli attacchi di panico possono verificarsi in modo del tutto inaspettato procurando una risposta soggettiva di paura o impotenza. All’interno di una relazione terapeutica è possibile acquisire una maggiore consapevolezza di sé, dei pensieri e delle paure irrazionali (morire, svenire, imbarazzarsi) che emergono durante un attacco di panico. La psicoterapia è uno spazio mentale e fisico che permette la rielaborazione delle informazioni, dei pensieri e dei ricordi non elaborati. Le nostre emozioni e i nostri pensieri come le onde del mare sono in continuo movimento, provare a controllarli può essere un enorme dispendio di energia che di rado fornisce effettivi benefici. Possiamo, piuttosto, imparare a navigare ovvero a monitorare i nostri stati psichici mentre si presentano, mantenendo una piena consapevolezza (Chambless D. et Al, 2017).

Anche il camminare può avere un effetto positivo sull’ansia, sull’umore in generale e favorisce la riflessività. Uno studio giapponese ha scoperto che passeggiare nei boschi, farebbe diminuire i livelli di cortisolo e la frequenza cardiaca. Il tempo all’aperto può modificare il modo in cui percepiamo noi stessi e per usufruire di tali benefici non è necessario essere degli esperti escursionisti. Persino il guardare il verde attraverso una finestra, favorisce la produttività, diminuisce lo stress e l’aggressività (Yamaguchi et Al., 2006).

Netflix, SpaceX e start-up innovative: tra il timore e l’entusiasmo degli investitori

L’Università della California-Riverside e la School of Management di Rotterdam hanno messo appunto uno studio per comprendere le motivazioni ad investire nelle start-up con idee altamente innovative e visionarie.

 

Gli investitori possono essere categorizzati in relazione a due strategie di investimento. La prima si concentra sullo storico e sul successo agli esordi dell’azienda. La seconda invece si focalizza su cosa l’impresa potrebbe diventare e quindi i probabili guadagni che gli imprenditori potrebbero ottenere.

Netflix, Tesla e SpaceX: start-up visionarie

Le start-up altamente innovative, con vision che segnano il mercato e la società introducendo cambiamenti fondamentali, ricadono in questa categoria. Tra i vari esempi possiamo citare Netflix che ha stravolto il settore del noleggio video, oppure Elon Musk con i suoi progetti come Tesla e/o SpaceX con la probabile esplorazione su Marte.

Nonostante questa distinzione ben definita, ci sono stati pochi studi che hanno indagato se gli investitori sono ben disposti o meno al finanziamento verso il secondo tipo di start-up. Gli autori di questo studio appartenenti alle Università sopracitate, hanno coinvolto 918 start-up in Israele. Sono state altresì reclutate 203 persone con esperienze di investimenti pregresse al fine di intervistarle sulla loro disposizione e motivazione nell’investire su start-up altamente innovative.

Netflix, Tesla e SpaceX: per attrarre investitori è meglio non risultare troppo visionari

Dai risultati dello studio risulta che gli investitori hanno una maggiore tendenza ad investire in queste realtà anche se nel primo round di investimenti sono poco generose con basse cifre di partenza. Questo perché ciò che viene proposto dalle start-up altamente innovative, da una parte è entusiasmante per l’approccio visionario e innovativo del progetto, ma, dall’altra, risulta più rischioso e quindi si ha una maggiore cautela rispetto alla cifra da investire.

Concludendo, si può riflettere sul fatto che nel caso si sia alla ricerca di ingenti somme di denaro per realizzare un progetto in fase di start-up, i messaggi veicolati inerenti al progetto non dovrebbero risultare eccessivamente visionari e dirompenti.

 

Training di Intelligenza emotiva: efficaci nella prevenzione del burnout

Alcuni ricercatori della Loyola University di Chicago Stritch School of Medicine hanno dimostrato come una formazione dedicata agli studenti di medicina possa migliorare la loro intelligenza emotiva e ciò potrebbe aiutarli a prevenire il rischio di burnout.

 

L’intelligenza emotiva è la capacità di riconoscere e comprendere le emozioni in se stessi e negli altri e di usare questa consapevolezza per gestire il comportamento e le relazioni. Le persone con un’elevata intelligenza emotiva utilizzano strategie di coping più efficaci, che consentono loro di essere più resilienti e più capaci di gestire lo stress. A differenza del quoziente intellettivo (QI), l’intelligenza emotiva può essere insegnata e quindi incrementata (Salovey & Mayer, 1990; Goleman, 1996).

Il burnout indica un livello di stress provato durante l’attività lavorativa che determina un logorio psicofisico ed emotivo. Nel personale medico, il burnout può manifestarsi con senso di sfinimento, cinismo, distacco dal lavoro e sensazione di inefficacia; è un fenomeno sempre più frequente e oggi ha raggiunto livelli allarmanti: studi precedenti (Wessells, Kutscher, Seeland, Selder, Cherico, Clark, 2013) hanno riscontraro che il burnout colpisce almeno la metà dei medici.

Lo studio

Lo studio in questione ha incluso 11 medici in formazione dell’ospedale di Loyola che hanno completato un questionario sull’ intelligenza emotiva (Bar-On Emotional Quotient Inventory 2.0, EQ-i 2.0), prima e dopo aver frequentato un corso di formazione sulle sotto-abilità dell’ intelligenza emotiva. I medici erano professionisti già laureati, impegnati nello svolgimento del loro tirocinio post-lauream in un ospedale per periodi che variano dai 3 ai 4 anni.

In seguito alla formazione è stato notato un aumento significativo dei punteggi dei medici al questionario, compresi la gestione dello stress e il benessere generale.

Secondo i ricercatori quindi l’insegnamento delle abilità di intelligenza emotiva può migliorare le capacità di gestione dello stress, promuove il benessere e quindi può contribuire a prevenire il burnout nei medici.

I laboratori di intelligenza emotiva inseriti nel curriculum formativo dei medici tirocinanti sono focalizzati sulla consapevolezza di sé (essere consapevoli delle proprie emozioni), autogestione (capacità di raccogliere emozioni in altri) e abilità sociali. L’intervento educativo includeva inoltre insegnamento didattico, discussioni e materiale video sull’argomento.

Da questo studio ne deriva dunque un prototipo di laboratorio di promozione dell’ intelligenza emotiva tale da poter essere inserito nei programmi delle scuole di medicina per promuovere il benessere e prevenire il burnout.

Le conseguenze della separazione dalla famiglia in bambini istituzionalizzati e migranti

Molti bambini migranti sperimentano esperienze di abbandono, stress e una bassa stimolazione sociale e cognitiva. Le evidenze dimostrano un reale rischio in termini sociali e psicologici legato alla separazione a lungo termine dai caregivers in questi bambini.

 

Un recente studio, pubblicato su Jama Psychiatry, pone l’attenzione sulla possibilità di sviluppare disturbi psicopatologici associati alla separazione dai familiari, in particolar modo nel periodo di vita adolescenziale.

I risultati dello studio sono rilevanti anche per un aspetto sempre più importante nello scenario sociale contemporaneo: i flussi migratori. Molti bambini migranti sperimentano esperienze di abbandono, stress e una bassa stimolazione sociale e cognitiva. Le evidenze dimostrano un reale rischio in termini sociali e psicologici legato alla separazione a lungo termine dai caregivers in questi bambini.

I dati disponibili derivano dal Progetto di Intervento Precoce di Bucarest che coinvolge i bambini istituzionalizzati negli orfanotrofi rumeni. Il progetto, in inglese Bucharest Early Intervention Project (BEIP) è una collaborazione congiunta tra diverse Università e il Boston Children’s Hospital e si pone come obiettivo principale quello di esaminare gli effetti dell’istituzionalizzazione precoce sullo sviluppo infantile, con particolare attenzione alla crescita fisica, allo sviluppo cognitivo, socio-emotivo e ai legami di attaccamento.

Le prime evidenze mostrano che bambini cresciuti in ambienti istituzionali molto severi, con gravi privazioni sociali e condizioni di abbandono, risultano essere a rischio di problemi cognitivi, depressione, ansia e altri disturbi quali il disturbo della condotta e il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Tuttavia i dati del progetto hanno anche dimostrato che la situazione può migliorare qualora venga effettuato precocemente un intervento di adozione del bambino.

Gli ultimi dati raccolti

L’ultimo studio condotto dal BEIP ha indagato gli effetti dell’istituzionalizzazione sulla salute mentale dei bambini durante il periodo transizionale dall’infanzia all’adolescenza. I ricercatori hanno esaminato lo sviluppo di 220 bambini: 119 avevano una storia pregressa di istituzionalizzazione, di questi circa la metà è stata collocata poi in famiglie affidatarie.

Agli insegnanti e ai genitori affidatari è stato chiesto di completare un questionario riguardante la salute e il comportamento del bambino all’età di 8, 12 e 16 anni. In particolar modo le varie sottoscale indagavano aspetti quali la depressione, l’ansia, comportamenti oppositivi-provocatori, problemi di condotta, aggressività manifesta e relazionale e sintomi dell’ADHD.

I risultati trovati hanno rivelato che i bambini affidati alle famiglie, rispetto a quelli rimasti in istituto, presentavano meno sintomi psicopatologici e in particolar modo, un minor numero di comportamenti esternalizzanti quali violazioni delle regole, discussione con figure adulte, furto o aggressione tra pari. Queste differenze si riscontravano inizialmente all’età di 12 anni e diventavano maggiormente significative a 16 anni, in piena adolescenza.

Per concludere

Lo studio quindi suggerisce che esistono traiettorie divergenti nello sviluppo dei bambini rimasti in istituto rispetto a quelli collocati presso le famiglie affidatarie: queste differenze si traducono in un minor rischio d’insorgenza di psicopatologia e comportamenti problema durante l’adolescenza nei bambini cresciuti in famiglia.

Anche se le condizioni degli orfanatrofi non possono essere paragonate a quelle delle case di accoglienza per i migranti, i ricercatori ritengono che le evidenze trovate suggeriscano l’importanza dell’unione familiare durante i viaggi di migrazione. Durante i flussi migratori infatti molti bambini, giunti nel nuovo paese vengono separati dalla famiglia d’origine e collocati in comunità, sperimentando una condizione di abbandono.

Mark Wade autore dello studio ha affermato:

La nostra ricerca si aggiunge ad una letteratura, ormai lunga, che elenca i rischi correlati alla separazione a lungo termine, dalle figure di attaccamento. Anche se l’argomento è complesso, ciò che possiamo affermare con sicurezza è che un’esperienza precoce di abbandono comporta seri problemi psicopatologici che perdurano, come dimostra il nostro studio, anche in adolescenza.

e ha concluso:

La buona notizia è che se questi bambini vengono collocati in famiglie o comunità con un buon grado di assistenza, questo rischio si riduce. Ciò che appare necessario è che le politiche e i programmi sociali dei governi, in queste situazioni, impediscano la separazione dei bambini dalle figure di riferimento.

Genitori si diventa: le dinamiche psicologiche individuali e di coppia che accompagnano la nascita di un figlio

Si sente spesso dire Presto saremo genitori come se il semplice fatto di aspettare un figlio equivalga all’essere genitori. Tale affermazione presenta un grave vizio di fondo: la maggior parte delle coppie non decide di diventare genitori ma “semplicemente” di avere un figlio.

 

Diventare genitore infatti vuol dire assumersi delle responsabilità, farsi carico dei bisogni del proprio figlio e soprattutto avere le capacità adeguate per appagare tali esigenze. Il mestiere del genitore, insomma, è qualcosa che richiede tempo, anni e anni di pratica, è un percorso complesso di adattamento, elaborazione e tolleranza delle frustrazioni.

Genitorialità: desiderio di gravidanza o desiderio di un figlio?

A tal proposito pare opportuno distinguere tra due concetti: desiderio di gravidanza e desiderio di un figlio come soggetto distinto da sé. Nel primo caso, nella donna, prevale il desiderio narcisistico di sperimentare sentimenti di pienezza e di mettere alla prova il proprio corpo per dimostrare a sé e agli altri che funziona bene tanto quanto quello della madre; nel secondo caso, l’interesse è spostato sul bambino considerato un oggetto separato da sé con cui stabilire una relazione in cui prevale dunque una disponibilità ad occuparsi e prendersi cura del bambino (Bydlowski, 1984, pag. 20 ; Pines, 1982, 1988).

Queste due componenti sono presenti contemporaneamente quasi in ogni progetto di genitorialità affrontato consapevolmente ma possono anche presentarsi disgiunte determinando quadri clinici diversi. Un esempio potrebbe essere quello delle coppie che decidono di sottoporsi a fecondazione assistita nel tentativo di superare l’ostacolo biologico dell’infertilità. Di fronte all’obiettivo primario, cioè realizzare la gravidanza nel suo significato puramente procreativo, potrebbe essere difficile per questi genitori confrontarsi emotivamente con il bambino reale in quanto il lavoro della genitorialità e dunque del diventare genitori, inteso come quel processo di elaborazioni intrapsichiche che l’acquisizione del nuovo ruolo impone alla coppia, può essere reso difficile da una costrizione affettiva che per molto tempo li ha protetti da quella vulnerabilità psicologica conseguente all’incapacità di procreare.

Inoltre non bisogna dimenticare che avere un bambino è un evento importante per la maturità e lo sviluppo sia personale che della coppia. A livello individuale significa acquisire una nuova identità, come madre o come padre, a livello di coppia può rappresentare invece la realizzazione di un progetto condiviso che può essere realizzato solo attraverso il legame con l’altro. L’arrivo di un figlio è un evento che assume importanti significati anche a livello sociale e intergenerazionale: consente all’essere umano di espletare il suo ruolo sociale conservando e garantendo la prosecuzione della specie. La nascita rappresenta infatti

L’opportunità di provare il senso di appartenenza alla stirpe e di stabilire “che cosa” delle famiglie d’origine verrà continuato (Cigoli, Galbusera Colombo, 1980 , pag. 37-53).

Secondo Anthony e Benedek (1970), ogni genitore rappresenta un anello nella catena delle generazioni e attraverso la funzione genitoriale mantiene il continuum biologico, psicologico e culturale del proprio patrimonio familiare. Per quanto riguarda l’esperienza della genitorialità, inoltre, è possibile distinguere due tipi di modelli di comportamento a cui ognuno di noi fa riferimento: il primo è quello basato sull’imitazione in cui si aderisce al modello proposto dai propri genitori e si cercano di riprodurre le condizioni, le relazioni e i modelli educativi della propria esperienza per mantenere attivo il proprio romanzo familiare; il secondo è quello basato sulla contrapposizione in cui ci si propone di modificare il modello genitoriale che appartiene alla propria storia familiare per evitare ai figli quelle esperienze che sono state fonte di conflitto e sofferenza. Diventare genitori quindi può essere considerato, da un punto di vista psicologico, un’esperienza che attiva un processo di sviluppo e cambiamento in ogni soggetto e lo mantiene lungo un percorso in cui i ruoli e le relazioni sono in continua trasformazione.

Maternità: dalla gravidanza alla nascita

Attraverso i nove mesi della gravidanza i futuri genitori hanno la possibilità di prepararsi sia fisicamente che psicologicamente al nuovo ruolo che li attende. Nell’ambito della letteratura psicoanalitica diversi autori si sono interessati al tema della gravidanza. Freud, per primo, parla di gravidanza riferendosi allo sviluppo infantile: il desiderio di maternità si presenta, inizialmente, nella fase edipica, in cui la bambina considera il figlio come frutto della relazione con il padre, successivamente questo desiderio di maternità viene attribuito all’attaccamento preedipico con la madre (Freud, 1915, 1931, 1932).

Successivamente, la Bibring (1959) parla di gravidanza immaginandola come un periodo di crisi maturativa in cui la donna sperimenta un punto di svolta irreversibile del proprio ciclo di vita in cui rivive conflitti ed esperienze passate riguardanti le prime relazioni e identificazioni con la propria madre. Questa crisi maturativa viene vissuta dalla donna come un momento cruciale del proprio ciclo di vita che la condurrà ad un livello di integrazione più maturo in cui potrà elaborare e risolvere tutti i precedenti conflitti. Il concetto di crisi assume quindi una doppia valenza: evolutiva, in base a quanto detto in precedenza, e di vulnerabilità in quanto la donna, attraverso un profondo periodo di destrutturazione e riorganizzazione della propria identità, potrebbe vivere i propri cambiamenti fisici come una minaccia alla propria integrità (Bibring, 1959). I cambiamenti prodotti dalla gravidanza possono essere paragonati, in quest’ottica, ai cambiamenti che si verificano in altri due periodi cruciali nello sviluppo di ogni donna ovvero la pubertà e la menopausa (Pazzagli, Benvenuti, Rossi Monti, 1981). Altri autori hanno invece ritenuto opportuno sottolineare l’importanza della relazione reale e fantasmatica che ogni donna ha avuto con la propria madre. L’esperienza di una “buona immagine materna” permetterà alla donna, durante la fase di regressione tipica della gravidanza,

di identificarsi con una madre onnipotente e fertile e contemporaneamente con sé stessa come bambina realizzando una maturazione e crescita di sé (Pines, 1982, pag. 311-319).

La regressione però può essere vissuta anche come esperienza dolorosa in quanto determina la riattivazione di desideri di fusione con la propria madre comportando il fallimento della propria differenziazione-separazione (Pines, 1982).

Genitorialità: la coppia nelle fasi psicologiche della gravidanza

La gravidanza, definito come quel processo psicologico di adattamento alla nuova realtà e di elaborazione dei cambiamenti rispetto alla vita precedente, può essere distinto in tre periodi ognuno dei quali corrisponde a tre diverse fasi dello sviluppo fetale (Brazelton, Cramer,1990).

Nel primo stadio, la novità della gravidanza è accompagnata dai mutamenti del corpo della madre ma non è ancora evidente l’esistenza del feto. In questo momento i genitori sanno di essere entrati in una nuova fase della loro vita nella quale la dipendenza dai loro genitori deve lasciare spazio alla responsabilità e il rapporto di coppia deve modificarsi in un rapporto a tre.

Nel secondo stadio i genitori cominciano a riconoscere il feto come un essere che alla fine verrà separato dalla madre. Attraverso la percezione dei movimentali fetali, la madre comincia a individuare il bambino come diverso da sé e come possibile oggetto di una relazione. È probabile che la donna in questa fase si identifichi con il feto e riviva l’esperienza di simbiosi con la propria madre attraverso la mediazione del bambino, giungendo a quella fase di regressioni di cui parlava Pines (1982). Se il bisogno di dipendenza dalla madre è troppo grande e inappagato, la donna può vivere il bambino come rivale e il ruolo materno come frustrazione dei suoi bisogni. Questa identificazione simbiotica con il bambino rappresenta una fonte di conoscenza empatica essenziale affinché si stabilisca una relazione “sufficientemente buona” tra madre e figlio dopo la nascita (Winnicott, 1958).

Nel terzo stadio i genitori iniziano a sperimentare il figlio come individuo e anche il feto contribuisce attivamente alla propria individuazione con ritmi e livelli di attività crescenti. È proprio in questa fase che i movimenti fetali, influenzati dai vari stimoli esterni, si fanno più assidui ed iniziano a essere riconosciuti dai genitori che gli attribuiscono intenzionalità e caratteristiche personali. In questo periodo i genitori iniziano a preparare la casa per accogliere il neonato, fanno progetti su come allevarlo e gli attribuiscono caratteristiche fisiche e caratteriali per renderlo meno estraneo. Prende forma a questo punto nella mente dei genitori il cosiddetto “bambino immaginario”, cioè un’immagine di un figlio che corrisponde alle fantasie coscienti dei genitori sul bambino non ancora conosciuto. Questa immagine si sovrappone a quella del “bambino fantasmatico” o “bambino del sogno” di cui parla Vegetti Finzi (1991), ovvero quell’immagine riparatrice di ogni solitudine e sofferenza che ogni bambino immagina, ricollegabile alle fantasie inconsce dell’infanzia in cui si intrecciano le relazioni oggettuali personali della madre e i conflitti con le sue immagini parentali.

Contemporaneamente può formarsi l’immagine del “bambino mitico” che corrisponde agli elementi culturali che rappresentano l’involucro della genitorialità e dell’educazione del bambino (Lebovici, 1989a, 1989b). Inoltre, nelle fantasie materne, il bambino può assolvere funzioni “messianiche” attraverso le quali la madre viene riscattata o può essere immaginato come un “parassita” che rimanda a tendenze orali che hanno lo scopo di svuotare il sé materno. Sono presenti anche delle fantasie relative a sé come madre: la donna può rappresentarsi come “madre salvifica”, disposta a tutto pur di salvare il proprio figlio; come “madre terra” capace di donare la vita e come “madre seduttiva” che tiene il figlio legato a sé (Ferenczi, 1914). Il lavoro della gravidanza corrisponde quindi a una riorganizzazione totale dell’immagine di sé, in cui si assiste ad una continua oscillazione tra realtà e fantasia in cui un preminente sbilanciamento nei confronti dell’uno o dell’altro polo può rendere difficoltoso l’adattamento alla realtà (quando prevale l’aspetto fantasmatico) o può determinare, viceversa, una negazione del processo della gravidanza (quando si verifica una limitazione delle fantasie). Dal canto suo Pines (1972, 1982) distingue quattro stadi all’interno del processo gravidico:

  1. il primo stadio va dal concepimento alla percezione dei movimenti fetali. Assistiamo ad una regressione e “passività” come conseguenza dei cambiamenti ormonali. Possono presentarsi anche sintomi psicosomatici come nausea e vomito che rappresentano il tentativo di “espellere” il bambino ritornando alla condizione precedente;
  2. il secondo stadio va dalla percezione dei movimenti fetali fino alle ultime fasi della gravidanza. Il feto, riconosciuto come soggetto indifferenziato, suscita nella donna ansie di perdita;
  3. il terzo stadio racchiude gli ultimi momenti della gravidanza prima di giungere al parto. In questa fase la donna può sperimentare ansie e paure riguardo il travaglio, il parto e la nascita. Non di rado, i giorni che precedono il parto sono accompagnati da ansie di morte come se la nascita di una nuova vita dovesse, per forza di cose, determinare la morte di un’altra persona. È curioso scoprire come tali fantasie non siano presenti solo nella donna ma anche nelle figure familiari e professionali che la circondano (Breen, 1992);
  4. il quarto e ultimo stadio è quello rappresentato dalle fasi successive alla nascita. Questo stadio è noto anche come “decimo mese” (Lebovici, 1983).

Maternità: quali sono le rappresentazioni in gravidanza

Per esplorare le rappresentazioni materne in gravidanza abbiamo a disposizione un’intervista semistrutturata, l’IRMAG (Intervista per le rappresentazioni materne in gravidanza; Ammaniti, Baumgartner, Candelori, Pola, Tambelli, Zampino, 1990) composta da circa quarantuno domande che viene somministrata alla donna in un periodo preferibilmente compreso tra la ventottesima e la trentaduesima settimana di gestazione. Tale periodo infatti rappresenta il giusto compromesso in quanto da una parte i movimenti fetali sono chiaramente percettibili permettendo alla madre di costruire uno spazio intrapsichico dedicato al bambino e dall’altra sono ancora lontane le ansie e le preoccupazioni legate al parto. Questa intervista propone di indagare alcune aree particolari tra cui il desiderio di maternità nella storia personale e della coppia; le emozioni personali, di coppia e familiari alla notizia della gravidanza; le emozioni e i cambiamenti nel corso della gravidanza nella vita personale, di coppia e nel rapporto con la propria madre; la prospettiva del parto; le percezioni, le emozioni e le fantasie relative al “bambino interno”; le aspettative future riguardanti le caratteristiche di sé come madre e le caratteristiche del bambino; la prospettiva storica della madre, riguardante il proprio ruolo attuale e passato di figlia. In base ai punteggi ottenuti all’intervista le donne possono corrispondere a tre diverse categorie di rappresentazioni (Ammaniti, in Ammaniti, Candelori, Pola, Tambelli, 1995):

  • rappresentazioni materne integrate/equilibrate: si tratta di donne che corrispondono alla madre facilitante di Raphael-Leff (1986); presentano un’identità piuttosto stabile e definita e la gravidanza si inscrive senza troppi problemi nella loro storia personale; vivono questa fase con una buona dose di trasporto affettivo. Hanno anche una buona capacità di adattarsi in modo flessibile ai cambiamenti che la gravidanza determina;
  • rappresentazioni materne ristrette/disinvestite: corrispondono perfettamente a tutte le caratteristiche che contraddistinguono la madre regolatrice (Raphael-Leff, 1986); queste donne mostrano una certa piattezza emotiva e tendono a immaginare il bambino come già adulto ignorando quindi la loro funzione accuditiva;
  • rappresentazioni materne non integrate/ambivalenti: sono proprie di quelle donne che vivono la gravidanza, da un punto di vista affettivo, in modo contradditorio mostrando in alcuni momenti eccessivo coinvolgimento ed emozioni di gioia e in altri rabbia e depressione. Anche il rapporto con il partner e con la propria madre è vissuto in modo poco coerente: la madre può apparire a volte come un punto di appoggio a cui aggrapparsi in modo infantile e altre come una figura da cui discostarsi totalmente mostrando una finta autonomia.

Emozioni (2018) di Antonio Scarinci e Giovanni Brunori – Recensione del libro

Il libro Emozioni è un piccolo manuale di auto aiuto per capire come gestire le proprie emozioni, in particolare quelle spiacevoli e “negative” come ad esempio la rabbia, e come evitare manifestazioni incongrue e dannose.

 

Le emozioni colorano la nostra vita e le danno sapore. Ogni giorno proviamo emozioni: possiamo arrabbiarci perché un ingorgo ci impedisce di arrivare in orario ad un appuntamento, siamo felici perché nostro figlio ha superato un difficile esame universitario

Ecco come gli autori introducono il lettore a riconoscere, distinguere e regolare le proprie emozioni.

Esprimere le emozioni e non soffocarle al nostro interno è senza dubbio una buona pratica ma esplodere di rabbia e travolgere cose o persone è una strategia con costi troppo elevati rispetto ai benefici! Che possiamo fare?

Lo raccontano Scarinci e Brunori in questo piacevole manuale di facile approccio e adatto a tutti.

Prima di tutto, gli autori propongono al lettore la compilazione di un breve test sulla propria vita emotiva: Emotion Regulation Questionnaire (ERQ). Si tratta di un facile questionario composto da 10 item che misurano la tendenza a regolare le proprie emozioni in due modi:

  1. Rivalutazione cognitiva dello stimolo
  2. Soppressione espressiva.

Si risponde a ciascun item scegliendo un valore su una scala di tipo Likert a 7 punti che va da 1 (fortemente in disaccordo) a 7 (fortemente d’accordo).

Compilare questo breve test favorisce nel lettore una prima riflessione su come percepisce la proprie emozioni. La lettura prosegue con la definizione delle emozioni, la descrizione delle teorie principali circa il loro funzionamento e quali sono le strutture anatomiche del sistema nervoso coinvolte.

Emozioni: cosa differenzia le primarie dalle secondarie

Secondo Scarinci e Brunori, la conoscenza delle emozioni primarie e secondarie e di come funziona il nostro cervello sono un primo passo per capire cosa proviamo ed imparare a gestire le nostre emozioni. Le cosiddette emozioni primarie sono innate, presenti in ogni popolazione e non dipendono dalla cultura d’appartenenza, l’espressione di queste emozioni è universalmente riconoscibile in ciascun luogo. Sono emozioni primarie rabbia- pauratristezza– felicità- disgusto e sorpresa.

Le emozioni secondarie sono invece culturalmente apprese attraverso le interazioni sociali e la loro manifestazione dipende da aspetti culturali. Sono secondarie le emozioni di vergogna, senso di colpa, umiliazione, disprezzo, pena, invidia, gelosia e nostalgia. Queste emozioni sono definite anche complesse poiché spesso generate dall’unione di due emozioni primarie. Ad esempio la nostalgia è data dal senso di perdita (tristezza) per qualcosa o qualcuno che non è più raggiungibile ma che abbiamo amato a gradito e che ci ha procurato gioia.

Si deve la distinzione tra emozioni primarie e secondarie agli studi di Paul Ekman che dal 1973 condusse su una popolazione indigena di Papua Nuova Guinea. Egli evidenziò e classificò numerose espressioni facciali relative a ciascuna emozione dimostrandone l’universalità. Tutti aggrottiamo le sopracciglia se siamo arrabbiati o apriamo leggermente la bocca in caso di sorpresa.

Le emozioni sono universali e non possiamo cancellarle, il loro scopo è adattivo volto a migliorare la qualità di vita.

Emozioni: spunti per gestire quelle difficili

Talvolta le emozioni possono generare disturbi emotivi. Scarinci e Brunori ne analizzano le cause. Qualcosa può non avere funzionato nello sviluppo delle competenze emotive, che inizia già nelle prime ore di vita di un neonato; o la persona subisce esperienze avverse che non elaborate adeguatamente; o si attribuisce un significato “non corretto” a situazioni ed esperienze e si formulano pensieri irrazionali. Sono moti i fattori che contribuiscono all’insorgere dei disturbi emotivi. Gli autori forniscono alcuni esempi di come ciò possa accadere, di come ad esempio un’emozione di vergogna possa condurre a un disturbo di ansia sociale che induce la persona a evitare situazioni sociali e non esporsi in pubblico. Nella seconda parte del testo gli autori hanno tracciato una vera e propria tabella di allenamento per imparare a gestire da soli le emozioni.

Sono qui presentate tre tipologie di strategie appartenenti al panorama della terapia cognitivo comportamentale.

  • Esercizi di autoterapia razionale emotiva

Essi si basano sulla terapia razionale emotiva di A. Ellis e inducono a individuare i pensieri irrazionali che causano emozioni disfunzionali e a sostituirli con pensieri più funzionali e razionali.

  • Strategie di distacco o di detached

Esse stimolano a distaccarsi e distanziarsi dall’attività cognitiva di pensiero attraverso la quale spesso si rimane intrappolati in un pervasivo rimuginio. Il distanziamento può avvenire attraverso un atteggiamento di osservazione e consapevolezza.

  • Tecniche immaginative per regolare le emozioni

Queste tecniche si basano sulla capacità immaginativa di ciascuno di noi. Il fine è di creare nuove cognizioni in grado di far sperimentare stati emotivi positivi. Immagini nuove e positive possono modulare il tono dell’umore e stimolare cambiamenti nel comportamento.

Brunori e Scarinci guidano il lettore ad applicare e sperimentare queste strategie e a monitorarne l’effetto. Ecco un esempio di esercizio tratto dal testo (pag. 106). Lo scopo dell’esercizio è imparare ad accogliere un’emozione, identificarla e viverla senza giudicarla o tentare di eliminarla.

Considera l’emozione come se fosse un’onda.
Prendi atto della sua esistenza
Lascia che l’emozione abbia il suo andamento, crescerà, poi diminuirà.
Non cercare di combatterla o di controllarla, di allontanarla.
Non la prolungare
Respirala
Smetti di lottare
Rilassati
Cavalca l’onda.

Il libro è ottimo strumento per capire le emozioni e migliorare l’abilità a gestirle, permettendo alla loro funzione adattiva di emergere. Questo manuale di auto aiuto è indicato a tutti! Tuttavia gli autori pongono l’accento su alcune raccomandazioni:

Naturalmente non sempre è possibile risolvere momenti di difficoltà che ci si presentano e in alcuni frangenti possiamo attraversare periodi particolarmente disagevoli che provocano un malessere persistente e invasivo. In questi casi è bene rivolgersi ad un esperto. I pazienti con disturbi emotivi rappresentano il 20% dei pazienti che si rivolgono ai Medici di Medicina Generale. Gli studi in questo ambito riferiscono che il 50% di essi non è riconosciuto né appropriatamente trattato. In questi casi è lo psicoterapeuta che può valutare l’esigenza di un lavoro psicologico più approfondito, e la necessità di un trattamento farmacologico appropriato.

Buona lettura e buona comprensione delle emozioni!

La curiosità di associare ad un approccio psicoeducazionale tecniche mind-body in ambito riabilitativo – Congresso SITCC 2018

La curiosità di associare ad un approccio psicoeducazionale tecniche mind-body in ambito riabilitativo

Antonia Pierobon, Martina Vigorè, Nicolò Granata, Elisa Covini, Laura Ranzini, Anna Giardini, Simona Callegari

 

Numerose ricerche negli ultimi anni hanno evidenziato come la valutazione psicologica del paziente con Obstructive Sleep Apnea Syndrome (OSAS) e in trattamento con terapia ventilatoria fornisca dati utili ad una comprensione più olistica del quadro clinico e ad una ottimizzazione della gestione a breve e a lungo termine di questi pazienti. Nonostante ciò, in letteratura, il numero di studi circa interventi specifici di tipo psicologico è ancora limitato.

Lo scopo del presente lavoro è di presentare un progetto di ricerca che valuti l’efficacia di un intervento multidisciplinare in ambito riabilitativo con l’aggiunta o meno di interventi psicologici clinici di supporto o psicoeducazionali comprensivi di tecniche mente-corpo. La relazione si focalizzarà in particolare sulla presentazione dell’intervento strutturato che fa riferimento al modello Information Motivation Strategy-IMS (Di Matteo et al., 2010) utilizzato per favorire e mantenere l’aderenza al trattamento e a tecniche di mind-body-MB derivate dal trattamento Mindfulness Based Stress Reduction (Jon Kabat-Zinn, 1990).

Il campione dello studio è composto da pazienti affetti da OSAS di età inferiore ai 75 anni, che non presentano gravi condizioni cliniche o gravi disturbi psichiatrici, reclutati presso Istituti Clinici Scientifici Maugeri Spa – SB – IRCCS, Montescano (PV). I partecipanti che seguono di routine l’intervento riabilitativo multidisciplinare verranno divisi in tre gruppi in base alla presenza o assenza di intervento psicologico. Verrà offerto: al primo gruppo (G1) supporto psicologico individuale; al secondo gruppo (G2) un supporto psicologico strutturato da un intervento psicoeducazionale individuale (IMS) e di gruppo (MB); al terzo gruppo definito di controllo (GC) solo l’attività di routine senza supporto psicologico.

Dati clinici, socio-anagrafici, psicologici e di qualità di vita dei pazienti OSAS verranno raccolti in tre tempi (basale, durante il ricovero post-adattamento alla terapia ventilatoria, nei follow-up ambulatoriali o ospedalieri annuali) al fine di descrivere il campione e di valutare l’efficacia dei diversi interventi. I dati clinici, funzionali e comportamentali riguardano: Apnea–Hypopnea Index (AHI), Epworth Sleepness Scale (ESS), Body Max Index (BMI) e abitudine tabagica. I test psicologici e di qualità di vita utilizzati sono: Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS), Life Orientation Test – Revised (LOT-R), Satisfaction Profile (8 Item SAT-P), EuroQol-5 Dimension (EQ-5D) e EuroQoL VAS.

Dai risultati di questo studio ci aspettiamo che un trattamento riabilitativo multidisciplinare unito a un intervento di supporto psicologico, psicoeducazionale e a tecniche mind-body (G2) sia maggiormente efficace rispetto a interventi di routine ospedaliera con l’assenza (GC) o la presenza di supporto psicologico non strutturato (G1) per quanto riguarda aspetti clinici e soggettivi dei pazienti con OSAS in terapia ventilatoria.

 

Il dono della terapia (2016) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

Per un giovane terapeuta l’incontro con Irvin Yalom non può che essere un momento apicale della propria crescita personale e professionale: il suo stile narrativo, ben evidente nel libro Il dono della terapia, lo rendono unico nel suo genere ed il modo in cui unisce il tecnicismo alla passione ed alla crudeltà della realtà è davvero spiazzante.

 

Irvin Yalom è un insegnante di psichiatria della Stanford University e vive a Palo Alto, in California. E’ l’autore di magnifici testi molto conosciuti come La cura Shopenhauer (2005), Le lacrime di Nietzsche (2006) e Sul lettino di Freud (2015), in cui si può rintracciare l’unione tra varie discipline come la filosofia e la psicologia e come risulta facilmente intuibile dai titoli stessi. Quando ci si imbatte in una scrittura così calda e contemporaneamente struggente, chi legge può ritrovarsi in alcune righe relative a stralci di vita comuni, di persone comuni, fatti personali che appartengono a tutti.

Il dono della terapia: l’importanza della relazione terapeutica

Il dono della terapia è un testo stampato in varie versioni, una delle ultime risale al 2016 e, nel leggerlo, ho pensato a quanto fosse di grande attualità. In questo momento storico in cui la psicologia e la psicoterapia sembrano letteralmente perdersi tra metodi, strumenti, protocolli, Irvin Yalom ci ricorda come, fin dalle origini, l’arte di curare le persone sia fondamentalmente unica ed in essa la relazione terapeutica è l’arma più potente. Stare nel qui ed ora con il paziente senza avere un occhio di riguardo a quello che sta accadendo nel vivo della seduta è come gettarsi in un’arena senza protezione. Il terapeuta può ben sapere come ristrutturare un pensiero, come favorire l’elaborazione di un ricordo traumatico, come aiutare il paziente a sbarazzarsi di un coping fastidioso e come imbattersi in una nuova versione di sé ma tutto ciò sembra davvero impensabile senza fare ricorso, continuamente, alla relazione terapeutica.

Irvin Yalom scrive Il dono della terapia dedicando piccoli capitoli a vari temi, eppure sembra che vi sia un fil rouge che accompagna il testo dalla prima all’ultima pagina. Questo è relativo al fatto che paziente e terapeuta non sono due entità divise e separate ma creano una squadra di lavoro. Lo sa bene chi, oltre a vedere pazienti, è anche stato paziente a sua volta. Se pensassimo ai successi terapeutici, saremmo sciocchi a dare unica responsabilità alla tecnica applicata o al protocollo seguito pedissequamente: sono tutti elementi fondamentali, sia chiaro, ma se ha funzionato è perché è esistito quel clima di fiducia e di comprensione. Già Bordin, nel 1979, ha concettualizzato l’alleanza terapeutica come un legame affettivo positivo tra paziente e terapeuta fatto di simpatia, stima e fiducia che comprende un accordo sugli scopi del trattamento e sui compiti reciproci. Irvin Yalom ci fornisce dei suggerimenti in tal senso e ci invita ad essere terapeuti aperti e sinceri e, per farlo, ad essere coraggiosi. Invita a lavorare su se stessi, a conoscersi a fondo, per poter essere consapevoli di quello che si muove dentro di noi nel tempo condiviso con il paziente e per essere più pronti a

condividere l’oscurità dell’ombra…e portare i pazienti più lontano di dove siete arrivati voi stessi

per citare l’autore.

Il dono della terapia e l’aprirsi del terapeuta

Inoltre sottolinea l’uso e l’utilità della rivelazione di sé, argomento ben approfondito da Safran e Muran (2000) i quali hanno descritto l’uso delle metacomunicazioni e delle self-disclosure come meccanismi di disciplina interiore per intervenire sulle rotture terapeutiche. Irvin Yalom, a tal proposito, ci dice di ponderare bene le proprie narrazioni, non per evitarle ma per valutarne l’utilità e il timing. Inoltre ci suggerisce come modulare le interazioni intime, quelle che riguardano temi particolari come il sesso e gli eventuali impulsi sessuali vissuti da uno dei due partecipanti alla terapia, oppure di temi crudi come la morte.

Vi è una sezione che si intitola “Rischi e privilegi del terapeuta” in cui leggiamo indicazioni pratiche: prendersi il giusto tempo tra una seduta e l’altra, non esagerare con il numero di pazienti ricevuti nell’arco della giornata invitando, in modo molto esplicito, a non essere avari e a non badare ai soldi. Come l’autore stesso dice, il nostro non è un lavoro che ci porta necessariamente ad essere ricchi, non possiamo permettercelo, in nome di quell’onestà di cui si parlava prima. Ancora, Irvin Yalom fa riflessioni rilevanti su come soffermarsi sul processo piuttosto che sul contenuto dei prodotti mentali, in termini di pensieri o immagini, non molto diversamente da come ha concettualizzato Wells (2009) nella sua terapia metacognitiva.

Chi scrive, scrive di questo già tempo fa, ma è tutto molto attuale. Più volte mi sono soffermata nel riflettere quanto quelle indicazioni e suggerimenti sono quello che ancora ad oggi mi affanno a ricercare e raggiungere, a studiare sui testi, a sperimentare nel vivo delle sedute. E poter condividere con il paziente la ricerca di un clima collaborativo e di sincera condivisione rende il nostro lavoro il più bello in assoluto. Il dono della terapia è un titolo emozionante, ci fa sentire persone speciali, probabilmente attiva il narcisismo che è in ognuno di noi. Ma in quei pochi giorni in cui ho letteralmente mangiato le pagine del testo, in cui la mia mente è stata assorbita, ho pensato che essere un terapeuta è difficile, sembra essere un percorso senza traguardo, ma si, ho pensato che è davvero un dono.

Il dono della terapia: perchè leggerlo

La lettura, rispetto ad altri romanzi, è molto tecnica quindi effettivamente di difficile comprensione per i non addetti ai lavori ma il fatto che sia suddivisa per aree tematiche ed in piccoli capitoli rende il tutto più scorrevole. Inoltre, Irvin Yalom arricchisce la narrazione, come nel suo stile, fornendo molti esempi di casi clinici ma, oltre a questo, possiamo leggere dei veri e propri suggerimenti, interventi, cose da dire o da fare (come nel capitolo “Stratagemmi per accelerare la terapia” oppure “Cronaca giornaliera del paziente”) e, sotto questo punto di vista, il libro entra di diritto nella categoria dei testi pratici, che può essere apprezzabile per il lettore interessato al concreto. Ad esempio ci mette in guardia dal dare direttive e per farlo, egli narra di un suo caso in cui aveva suggerito al paziente di lasciare una donna, con conseguenze rilevanti in futuro. La sezione relativa ai sogni è molto interessante, in primis perché narra di alcuni sogni di pazienti e di come sono stati interpretati durante la terapia ma, soprattutto, perché ci aiuta a capire cosa farne quando il paziente in seduta ce ne racconta uno ed inoltre, ci invita a fare attenzione non solo ai sogni dei pazienti ma anche a quelli nostri, del terapeuta.

Non meno importante, nel testo vi è un approfondimento circa l’utilità di spronare e spingere i pazienti ad andare oltre i sintomi, oltre alle rappresentazioni di sé come vulnerabili, indegni, inetti. Alcune parti sane devono essere davvero costruite da zero, ed in questo la terapia metacognitiva interpersonale (Dimaggio et al., 2013) ci viene in aiuto.

Come ultima considerazione, i titoli dei capitoli. Essi sono interessanti: alcuni sobri, altri irriverenti come “Evitare le diagnosi, tranne che le compagnie assicurative” oppure “Quali bugie mi ha raccontato?” altri ironici come “Guardate dal finestrino del paziente” per immetterci nel tema dell’empatia. Molti sono imperativi: “Siate coinvolgenti”, “Siate un sostegno”, “Siate reali, non uno schermo bianco”, “Siate gentili”.

Consiglio vivamente la lettura di questo testo a tutti i miei colleghi, per ricordare piccoli dettagli a cui a volte non facciamo più caso oppure per apprendere nuovi punti di vista, nuove direzioni da cui guardare il dono che ci è stato fatto.

Psicopatia, narcisismo e machiavellismo: il fattore D come comun denominatore

I tratti più “oscuri” della personalità, come la psicopatia, il narcisismo, il machiavellismo, a primo impatto possono sembrare diversi tra loro, ma una nuova ricerca danese-tedesca sostiene che in realtà sono strettamente collegati tra loro e si basano su una stessa tendenza dell’individuo: un estremo egoismo.

 

Il comune denominatore di questi dark traits, chiamato fattore D, è definito come la tendenza generale a massimizzare la propria utilità individuale a discapito degli altri. In altre parole, persone con questi tratti sono accomunate dal perseguire i propri obiettivi e interessi senza considerare il prossimo, fino al punto di provare piacere nel ferire gli altri. I comportamenti che mettono in atto sono giustificati da una serie di credenze a cui queste persone fanno riferimento per prevenire sensi di colpa, vergogna ed emozioni simili.

Cosa è stato scoperto?

Gli autori dello studio hanno dimostrato come il fattore D sia presente in diversi tratti “oscuri” della personalità, in particolare ne sono stati studiati nove (egoismo, machiavellismo, disimpegno morale, narcisismo, superiorità psicologica, psicopatia, sadismo, self-interest, malignità). Per esempio, nel narcisista c’è la tendenza ad essere completamente assorbiti da sé e ad avere un estremo bisogno dell’attenzione degli altri; nella psicopatia c’è mancanza di empatia e di self-control, combinati con comportamenti impulsivi; il machiavellico è manipolativo ed ha la convinzione che il fine giustifica i mezzi; il sadico desidera infliggere alle persone sofferenze mentali o fisiche per il proprio piacere.

Sono stati effettuati diversi studi in cui a circa 2500 persone è stato chiesto il grado di accordo con frasi del tipo “a volte vale la pena soffrire un po’ per vedere gli altri ricevere la punizione che meritano”, oppure “so di essere speciale perché tutti me lo dicono”, o ancora “è difficile andare avanti senza tagliare la strada a qualcuno”.

L’autore Zettler afferma:

Gli aspetti oscuri della personalità hanno un comune denominatore, si può dire quindi che sono espressioni diverse delle stessa tendenza.

Inoltre, aggiunge:

Per esempio in una persona il fattore D si può manifestare come narcisismo, o come psicopatia, o come una combinazione di questi. Con il nostro studio, però, si può semplicemente diagnosticare un alto livello di fattore D.

Avere il fattore D indica che in un individuo c’è la probabilità di mettere in atto una serie di comportamenti associati con uno o più tratti oscuri della personalità. Se una persona è propensa ad assumere un determinato comportamento, ad esempio umiliare gli altri, c’è una buona probabilità che ne metta in atto altri, come imbrogliare, mentire, rubare.

Gli autori precisano che i nove tratti di personalità non sono assolutamente uguali, ed ognuno ha un esatto schema di comportamento, ma il “cuore” di questi tratti è molto più simile di quanto si pensi. La conoscenza del fattore D può essere di aiuto per ricercatori e terapeuti che lavorano con queste personalità.

Job Satisfaction by Training: partecipa alla ricerca sulla soddisfazione lavorativa!

L’importanza dell’apprendimento in ambito lavorativo, inteso come un impegno che deve essere continuo nel corso della vita professionale di ciascuno, è per gli studenti come me, di un indirizzo formativo aziendale, una costante della maggior parte delle lezioni affrontate durante gli anni universitari.

 

Eppure, soprattutto in Italia, non si è ancora sviluppata una cultura della formazione adeguata alle esigenze che il mercato e il mondo del lavoro richiedono. Alcune organizzazioni, le Learning Organisation, sono le promotrici di una visione formativa basata sull’importanza di valorizzare le proprie risorse, intese come personale. Altre organizzazioni invece mirano ad una politica formativa basata esclusivamente su corsi meramente pratici, che riguardano ad esempio l’utilizzo di un determinato software, o comunque che racchiudono solo tutte quelle conoscenze e competenze rivolte ad un miglioramento manuale del lavoro del dipendente, senza tenere in considerazione la sua identità professionale.

Della necessità di un percorso formativo professionale per migliorare la condizione lavorativa individuale e dell’azienda, è convinto anche il Consiglio Europeo, tenutosi a Lisbona nel marzo 2000, che identifica l’apprendimento permanente come lo strumento preferenziale indicato per raggiungere l’obiettivo di sviluppare una società basata sulla conoscenza, sullo sviluppo economico sostenibile e su una maggiore coesione sociale. In uno dei suoi atti infatti recita:

“I sistemi europei di istruzione e formazione devono essere adeguati alle esigenze della società dei saperi e alla necessità di migliorare il livello e la qualità dell’occupazione. Dovranno offrire possibilità di apprendimento e formazione adeguate ai gruppi bersaglio nelle diverse fasi della vita: giovani, adulti disoccupati e persone occupate soggette al rischio che le loro competenze siano rese obsolete dai rapidi cambiamenti. Questo nuovo approccio dovrebbe avere tre componenti principali: lo sviluppo di centri locali di apprendimento, la promozione di nuove competenze di base, in particolare nelle tecnologie dell’informazione, e qualifiche più trasparenti.”

Poiché la formazione diventa sempre più una parte rilevante della carriera di un dipendente, la sua relazione con la soddisfazione lavorativa non può passare inosservata. Spetterà alle organizzazioni fornire ai dipendenti le competenze necessarie per svolgere il loro lavoro, sia rivolgendosi alle attività richieste nel presente, sia con uno sguardo alle prospettive di cambiamento futuro, in termini di collaborazione all’interno di un team con lo scopo di migliorare continuamente i processi e le tecniche professionali. I dipendenti avranno un legame sempre più forte con la formazione che potranno ricevere dai loro datori di lavoro. Ciò in quanto i ruoli professionali sono costantemente in cambiamento, e richiederanno una maggiore specializzazione delle attività peculiari per ogni figura professionale.

Le opportunità di formazione e sviluppo sono dunque fondamentali nelle decisioni riguardanti le scelte di carriera dei dipendenti. Nonostante questa consapevolezza, molti studi di ricerca sulla soddisfazione lavorativa non considerano la soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro come un elemento della soddisfazione complessiva del lavoro. Infatti molti strumenti di indagine sulla soddisfazione professionale, non includono la componente di “soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro“, soprattutto in Italia.

Alla base di questo studio vi è l’idea e la volontà di esaminare la relazione tra soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro fornita dal datore di lavoro e soddisfazione complessiva del lavoratore. I componenti della formazione professionale, compresi il tempo trascorso in formazione, le metodologie di formazione e il contenuto, sono stati considerati significativi nel loro rapporto con la soddisfazione nel job training. Principalmente dunque il sondaggio prodotto è stato costruito con lo scopo di rispondere a una domanda: qual è la relazione tra soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro e soddisfazione complessiva del lavoro?

 

Partecipa alla ricerca

Il questionario è rivolto a PERSONE CHE ABBIANO ALMENO UN’ESPERIENZA DI LAVORO COME DIPENDENTE.
I dati saranno raccolti in FORMA ANONIMA e verranno utilizzati solo a scopo di ricerca.
La compilazione del questionario NON richiede alcun costo e dura solo pochi minuti.

VAI AL QUESTIONARIO 9998

Dott.ssa Federica Rossi, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Ricerca per tesi magistrale in facoltà “Scienze Pedagogiche”, indirizzo “Formazione nelle organizzazioni”.

Relatore di tesi: Dott. Diego Boerchi

 

Educazione sessuale ed affettiva a scuola: Italia ed Europa a confronto

La sessualità include molti aspetti che vanno oltre il mero comportamento sessuale. Educazione affettiva ed emotiva dovrebbero accompagnare e completare l’educazione sessuale.

Elena Tonazzolli e Marta Venturini – Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

La sessualità è un aspetto centrale dell’essere umano lungo tutto l’arco della vita e comprende il sesso, le identità e i ruoli di genere, l’orientamento sessuale, l’erotismo, il piacere, l’intimità e la riproduzione. La sessualità viene sperimentata ed espressa in pensieri, fantasie, desideri, convinzioni, atteggiamenti, valori, comportamenti, pratiche, ruoli e relazioni. Sebbene la sessualità possa includere tutte queste dimensioni, non tutte sono sempre esperite o espresse. La sessualità è influenzata dall’interazione di fattori biologici, psicologici, sociali, economici, politici, etici, giuridici, storici, religiosi e spirituali.

Quando si vuole educare alla sessualità quindi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, non ci si deve confondere con l’educazione riguardante il solo “comportamento sessuale”, ma si devono comprendere molte aree (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

L’educazione affettiva ed emotiva dovrebbe accompagnare e completare l’ educazione sessuale. Le molteplici emozioni che esperiamo quotidianamente sono rappresentate dai desideri, dalle simpatie/antipatie, dagli innamoramenti e dagli amori che ci mettono in gioco. Risulta a nostro avviso di fondamentale importanza estendere l’educazione alla funzione relazionale della sessualità, che è rappresentata dall’impegno a stabilire un rapporto di ascolto di noi stessi e dalla capacità di riconoscere gli “altri” come persone, imparando il rispetto per l’altro/a sia nella dimensione dell’amicizia e dell’intimità, sia nell’esperienza dell’amore e dello scambio sessuale (Giommi, 2003).

Educazione sessuale: cos’è?

La definizione fornita dagli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa è la seguente:

Educazione sessuale significa apprendere relativamente agli aspetti cognitivi, emotivi, sociali, relazionali e fisici della sessualità. L’educazione sessuale inizia precocemente nell’infanzia e continua durante l’adolescenza e la vita adulta e mira a sostenere e proteggere lo sviluppo sessuale. Gradualmente essa aumenta l’empowerment di bambini e ragazzi, fornendo loro informazioni, competenze e valori positivi per comprendere la propria sessualità e goderne, intrattenere relazioni sicure e gratificanti, comportandosi responsabilmente rispetto a salute e benessere sessuale propri e altrui.

Tutti gli individui, durante lo sviluppo, hanno diritto ad accedere all’ educazione sessuale adeguata alla loro età come affermato dai diritti umani ratificati a livello internazionale in particolare dal diritto all’accesso a informazioni adeguate relative alla salute (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Educazione sessuale secondo una concezione olistica

Gli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa suggeriscono una concezione olistica dell’ educazione sessuale, che comprende non solo la semplice prevenzione dei problemi di salute, ma si focalizza anche sulla sessualità come elemento positivo (anziché principalmente “pericoloso”) del potenziale umano e come fonte di soddisfazione e arricchimento nelle relazioni intime. Tradizionalmente l’educazione sessuale si è concentrata sui potenziali rischi della sessualità, come le gravidanze indesiderate e le infezioni sessualmente trasmesse (IST). Un tale focus negativo suscita spesso delle paure in bambini e ragazzi e, per di più, non risponde al loro bisogno di essere informati e di acquisire competenze; ancora, fin troppo spesso il focus negativo semplicemente non è di alcuna rilevanza per la vita di bambini e ragazzi. Un approccio olistico, basato sul concetto di sessualità come un’area del potenziale umano, aiuta a far maturare in bambini e ragazzi quelle competenze che li renderanno capaci di determinare autonomamente la propria sessualità e le proprie relazioni nelle varie fasi dello sviluppo. L’ educazione sessuale fa anche parte dell’educazione più generale e influenza lo sviluppo della personalità del bambino. La natura preventiva dell’educazione sessuale non solo contribuisce a evitare possibili conseguenze negative legate della sessualità, ma può anche migliorare la qualità della vita, la salute ed il benessere, contribuendo, così, a promuovere la salute generale (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Educazione sessuale “informale”

Nel corso della crescita, gradualmente, bambini e adolescenti acquisiscono conoscenze e si formano immagini, valori, atteggiamenti e competenze riguardanti il corpo umano, le relazioni intime e la sessualità. Le principali fonti di apprendimento, in particolare nelle fasi più precoci dello sviluppo, sono quelle informali, tra le quali troviamo i genitori, che sono di importanza fondamentale. Solitamente il ruolo dei professionisti, che siano di area medica, pedagogica, sociale o psicologica, non è molto pronunciato in questo processo, poiché quasi sempre si ricerca un aiuto professionale solo in presenza di una problematica. Tra le fonti di informazione non manca internet, che se da un lato è un diffuso metodo per soddisfare velocemente le proprie curiosità, dall’altro può portare i giovani ad imbattersi in informazioni frammentarie e scorrette. Già negli anni ‘90 viene trattato il tema del rischio legato alla ricerca di informazioni riguardo ad argomenti che interessano ai giovani (Bertinato et al., 1995). Il rischio, nell’entrare in contatto con fonti non attendibili, è che i giovani vengano influenzati negativamente dalle stesse, con conseguente disagio. Riteniamo che questa affermazione sia molto attuale: anche altri autori, come Alberto Pellai, hanno gettato luce sulle conseguenze della ricerca di informazioni su internet e social network (Pellai, 2015). Come sostengono Giommi e Perrotta (1992)

I genitori e gli adulti hanno spesso scelto il silenzio su questo argomento, senza considerare che il silenzio è esso stesso un modo di comunicare, che, proprio per il fatto che “di sessualità non si può parlare”, crea censure e tabù e condiziona in senso negativo i processi di crescita. Approfittando del silenzio degli adulti, prendono voce, al contrario, i cento messaggi del mondo esterno che facilmente passa contenuti e informazioni sbagliate, paurose e straordinarie.

Accanto all’educazione informale è importante la presenza di un’educazione formalizzata le cui fonti principali sono: la scuola, i libri, i pieghevoli, i volantini, i siti internet educativi, i programmi educativi e le campagne promozionali per radio e televisione ed infine i servizi (sanitari). Educazione informale e formalizzata non sono in contrasto, l’una è complementare all’altra e viceversa e la scuola può svolgere un ruolo importante per l’educazione formalizzata, pur non essendo il principale medium o fonte di informazione dei ragazzi (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Educazione sessuale nelle scuole

Tuttavia, introdurre l’educazione sessuale nelle scuole non è sempre facile: molto spesso si incontrano resistenze basate principalmente su paure ed idee erronee. Emerge spesso il timore di affrontare l’argomento prematuramente, anche se come afferma Fabio Veglia:

Domandarsi se è troppo presto, significa quasi sempre arrivare a parlarne troppo tardi (Veglia 2004).

Anche dal documento “Piano Nazionale di interventi contro HIV e AIDS” del 2017 emerge la percezione di criticità nell’affrontare l’argomento sessualità a scuola, a causa di punti di vista che spesso entrano in conflitto con le proposte e le ostacolano. A nostro avviso però sarebbe importante considerare quanto affermato dall’Istituto Superiore di Sanità, ovvero che la scuola, essendo il luogo più frequentato da bambini e ragazzi, può essere il teatro ideale per dibattere questi argomenti e divulgare i modelli comportamentali sani. Essa può avere la funzione da mediatrice tra famiglie, mass media e servizi sanitari, con l’obiettivo di favorire scelte coscienti convertibili in modelli culturali da seguire (Bertinato, Poli, Caffarelli, & Mirandola, 1995).

Secondo i già citati Standard per l’ educazione sessuale in Europa dell’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA pubblicati nel 2010 sarebbe importante inserire l’ educazione sessuale come materia curricolare e considerarla materia d’esame. L’obiettivo di questo cambiamento è dare sufficiente attenzione ed importanza agli argomenti proposti, favorendo la motivazione degli studenti. Inoltre i programmi di educazione sessuale dovrebbero essere trattati in maniera multidisciplinare, ovvero da più insegnanti sotto diversi punti di vista, e non dovrebbero essere facoltativi per gli alunni.

Educazione sessuale: un processo di apprendimento che dura tutta la vita

L’OMS suggerisce che l’educazione affettiva e sessuale è un percorso continuativo e si basa sul concetto che lo sviluppo della sessualità è un processo che dura tutta la vita. L’ educazione sessuale non è un evento singolo, bensì è basata su un progetto, e risponde alle mutevoli situazioni di vita degli allievi. Un concetto strettamente correlato è quello di “adeguatezza rispetto all’età”: gli stessi argomenti si ripresentano nel tempo e le informazioni relative sono fornite secondo l’età e lo stadio evolutivo dello studente. Proprio per questo è auspicabile introdurre l’educazione affettiva e sessuale già dalla scuola primaria, adattando i contenuti e gli argomenti all’età dei ragazzi. Questo concetto è stato promosso anche da due autori italiani, Roberta Giommi e Marcello Perrotta, che con i loro libri, già più di 20 anni fa, hanno divulgato informazioni nel campo dell’ educazione sessuale. Il “Programma di educazione sessuale”, realizzato pensando alle diverse fasce d’età dei bambini, tiene in considerazione le curiosità degli stessi con l’obiettivo di inserire la sessualità nel progetto di vita degli individui, favorendone il benessere (Giommi & Perrotta, 1992).

In Europa l’età d’inizio dell’ educazione sessuale è molto varia. Secondo il rapporto SAFE si va dall’età di 5 anni in Portogallo ai 14 anni di Spagna, Italia e Cipro (The SAFE Project, 2006). Nel leggere questi dati va tenuta in considerazione la variabilità dei programmi educativi proposti e della differente definizione di educazione sessuale. Laddove inizia ufficialmente nella scuola secondaria, solitamente è utilizzata una definizione di educazione sessuale molto più ristretta, in termini di “contatti sessuali”, mentre nei paesi dove inizia prima, la definizione e i programmi vengono estesi e comprendono non solo gli aspetti fisici e relazionali della sessualità e dei contatti sessuali, ma anche una gamma di altri aspetti come l’amicizia o i sentimenti di sicurezza, protezione e attrazione. (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010)

Alla luce di questi dati, risulta importante interrogarsi e valutare l’efficacia dei programmi di educazione sessuale che vengono proposti solo nella scuola secondaria, senza essere stati introdotti o preceduti da programmi di educazione sessuale ed affettiva durante gli anni della scuola primaria.

I bambini già dalle prime classi della primaria, arrivano a scuola con una serie di preconoscenze anche sulla sessualità, ed è proprio in questo luogo che dovrebbero poter trovare risposte ai propri quesiti e l’opportunità di un confronto produttivo con adulti e pari, al fine di favorire la ristrutturazione delle personali conoscenze anche in questo ambito.

Adolescenti e sessualità in Italia: alcuni dati

Dai dati presenti nel Report Nazionale Dati HBSC Italia del 2014, emerge che a livello nazionale, il 28% dei maschi di 15 anni dichiara di aver avuto un rapporto sessuale completo, mentre la percentuale è più bassa tra le femmine (21%). Riguardo ai metodi contraccettivi che i ragazzi dichiarano di aver utilizzato durante l’ultimo rapporto sessuale emerge da questi dati come la maggior parte degli adolescenti di 15 anni che hanno già avuto un rapporto completo riferisca l’utilizzo del preservativo (oltre il 70% dei maschi e il 66,5% delle femmine), seguito dall’interruzione del rapporto, dichiarato da più del 50% delle ragazze e dal 37% dei coetanei maschi. Complessivamente, circa l’11% riferisce l’uso della pillola e poco meno del 12% altri metodi (conteggio dei giorni fertili o altri metodi naturali) (Health Behavior in School Aged Children, 2014).

Da questi numeri si evince che, seppur una buona percentuale di giovani utilizza come metodo contraccettivo un metodo “barriera” come il preservativo (che protegge inoltre dalle infezioni sessualmente trasmesse), molti ancora ricorrono all’utilizzo dell’interruzione del rapporto, nonostante la scarsa efficacia di tale metodo. Tale dato va certamente tenuto presente nella progettazione e nella proposta di un programma di educazione sessuale a scuola.

In Italia, inoltre, malgrado il tasso di natalità sia uno dei più bassi all’interno dell’UE, e l’età della madre al primo figlio sia tra le più alte, il numero di gravidanze in età adolescenziale (14-19) rimane alto rispetto ad altri Paesi. Secondo i dati ISTAT si è verificata una diminuzione del 39% nel ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza, rispetto al 2005, passando dal 7,1 % al 4,4% nel 2016 (Istituto nazionale di statistica, 2017). Questo dato è incoraggiante ma non significa che non si debba investire in progetti di prevenzione rispetto a pratiche che possiamo considerare di “emergenza”.

Uno spunto di riflessione può essere offerto dal confronto tra il periodo storico attuale con gli anni ‘90. Nel lavoro, precedentemente citato, di Bertinato e collaboratori (1995), si legge come l’epidemia nel nostro Paese fosse ancora in critica espansione. Ciò ha fornito le basi per motivare a prevenire quanto più possibile il contagio, in un’ottica di educazione alla salute. Gli autori affermano che, per essere efficace, la prevenzione debba essere caratterizzata non solo da informazione, ma anche educazione. Per questa ragione, sottolineano, dovrebbero essere formati e coinvolti gli insegnanti della scuola dell’obbligo. Questo articolo cita il fatto che studenti e famiglie si fossero dimostrati molto disponibili a ricevere informazioni in materia di prevenzione dell’AIDS. Gli autori del PNAIDS 2017 pongono l’attenzione sul fatto che, a dispetto dell’interesse che i giovani dimostrano per l’utilizzo di internet e social network, si rileva una scarsa tendenza degli stessi ad approfondire, con questi mezzi o all’interno di discussioni con gli amici, le informazioni riguardo a HIV/AIDS ed infezioni sessualmente trasmesse (Ministero della Salute, 2017). Questo potrebbe suggerire che l’argomento non sia più ritenuto interessante come invece poteva esserlo circa 20 anni fa. La soluzione indicata, per quanto riguarda l’abbassamento del rischio di contagio, è che vengano inseriti programmi di educazione sessuale e alla salute nelle attività scolastiche curricolari.

Educazione sessuale all’estero

Da una prospettiva storica generale, i programmi di educazione sessuale possono essere raggruppati fondamentalmente in tre categorie:

  • programmi di tipo 1, che si focalizzano principalmente o esclusivamente sull’astinenza dai rapporti sessuali prematrimoniali, conosciuti come programmi “how to say no” (“come dire no”) o “abstinence only” (“solo astinenza”);
  • programmi di tipo 2, che comprendono l’astinenza come una scelta possibile ma dedicano anche attenzione alla contraccezione e alle pratiche sessuali sicure, tali programmi sono spesso indicati come “educazione sessuale estensiva” rispetto all’educazione sessuale “solo astinenza”;
  • programmi di tipo 3 che comprendono gli elementi del programma di tipo 2 ma li collocano nella più ampia prospettiva della crescita e dell’evoluzione personale (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Negli Stati Uniti d’America spesso viene promossa l’astinenza come solo metodo contraccettivo, mentre in Europa occidentale sembra predominare il terzo tipo di programmi. Tuttavia, da uno studio comparato sui risultati di programmi di tipo 1 e 2 è emerso che, per gli adolescenti di età compresa tra i 15 e i 19 anni, i programmi “solo astinenza” non hanno alcun effetto positivo sui comportamenti sessuali o sul rischio gravidanza in adolescenza. Inoltre tale studio dimostra che tra gli studenti che ricevono insegnamenti di educazione sessuale, non aumenta la percentuale di frequenza di attività sessuale né di malattie sessualmente trasmesse. È risultato tuttavia che lo stesso gruppo aveva un tasso di gravidanze inferiore rispetto a coloro i quali non partecipavano ad alcun programma di educazione sessuale (Kohler, Manhart, & Lafferty, 2008).

A differenza di quanto è emerso per gli Stati Uniti, in Europa l’educazione sessuale è in primo luogo rivolta alla crescita personale. Nell’Europa occidentale la sessualità non è percepita principalmente come un problema o un pericolo, bensì come una preziosa fonte di arricchimento per la persona.

In Europa l’educazione sessuale come materia scolastica curricolare ha una storia di oltre mezzo secolo. È nata ufficialmente in Svezia, dove divenne obbligatoria in tutte le scuole nel 1955.

A partire dagli anni ‘70 del secolo scorso molti altri paesi dell’Europa occidentale introdussero l’educazione sessuale che, come emerge dal report “Sexuality Education in Europe”, dal 2003 è materia obbligatoria in 19 Stati membri (The SAFE Project, 2006). Solamente in pochi Stati tra quelli appartenenti alla vecchia Unione Europea, specialmente nell’Europa meridionale, l’ educazione sessuale non è ancora stata introdotta nelle scuole.

Nel cercare studi riguardanti l’efficacia dei programmi di educazione sessuale nelle scuole europee e conoscenze scientifiche in merito si incontrano diverse difficoltà. La maggior parte delle pubblicazioni sono redatte nelle lingue nazionali e risultano dunque poco accessibili. (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Tra la letteratura recente troviamo un interessante articolo, pubblicato nel 2017, che riporta i risultati di uno studio che ha coinvolto 3781 studenti di età compresa tra i 15 e i 16 anni, residenti in Galles (UK). Gli autori hanno preso in analisi i dati di 59 scuole raccolti attraverso questionari online che riguardavano l’ambiente scolastico e la salute sessuale dei ragazzi. Le domande riguardanti la salute sessuale erano solo 3 ed indagavano se la persona avesse mai avuto rapporti sessuali, a quale età risalisse il primo rapporto ed infine se durante l’ultimo rapporto avessero utilizzato il preservativo. Per quanto riguarda l’ambiente scolastico, le domande erano le seguenti:

Chi si occupa di insegnare educazione sessuale e alle relazioni? È presente, nella tua scuola, uno sportello di ascolto specifico per dare consigli legati alla salute sessuale? La tua scuola offre un servizio di distribuzione gratuita di preservativi?

Dallo studio è emersa un’interessante associazione tra migliori risultati di salute sessuale (tra questi, l’uso del preservativo) e la presenza di personale non docente come formatore per i percorsi di educazione sessuale e alle relazioni. Inoltre, l’uso del preservativo all’ultimo rapporto è risultato associato alla presenza dello sportello relativo alla salute sessuale ma non alla distribuzione gratuita di preservativi. Un’ipotetica spiegazione della maggiore efficacia offerta dal personale non docente è che la presenza di un estraneo modifichi le dinamiche del gruppo-classe, nel quale ogni partecipante dovrebbe auspicabilmente sentirsi al sicuro e che sono molto importanti perché il programma vada a buon fine (Young, Long, Hallingberg, Fletcher, Hewitt, Murphy and Moore, 2017).

Tali risultati possono offrire spunti interessanti nella progettazione di programmi di educazione sessuale anche per il nostro Paese.

Programmi di educazione sessuale in Italia

L’Italia, come accennato in precedenza, rientra tra i paesi dove l’ educazione sessuale viene introdotta più tardi. I programmi di prevenzione proposti dalle aziende sanitarie sono rivolti a ragazzi di età compresa tra i 13 e i 14 anni. Al momento attuale tali programmi non sono obbligatori e la scelta di aderirvi rimane dei singoli Istituti, determinando disomogeneità nell’educazione sul territorio nazionale. Il rapporto sull’educazione sessuale nelle scuole dell’Unione Europea (The SAFE Project, 2006) dedica un paragrafo al nostro Paese. Vi si legge che molte proposte di Legge per introdurre l’educazione sessuale obbligatoria a scuola sono state respinte, probabilmente a causa dell’influenza delle posizioni della Chiesa Cattolica. Viene inoltre descritto che l’argomento, se trattato, è dedicato agli alunni di età compresa tra i 14 e i 19 anni e trova solitamente lo spazio di una sola lezione all’anno. Gli autori del rapporto sottolineano come, in mancanza di leggi che uniformino l’offerta educativa, non è possibile avere dati ufficiali sull’applicazione dei programmi di educazione sessuale.

Alcuni più recenti piani regionali di prevenzione contengono obiettivi che fanno pensare ad un tipo di educazione sessuale olistica e prevedono interventi e contenuti da proporre già nella scuola primaria. Una proposta interessante viene, ad esempio, dalla Provincia Autonoma di Bolzano che, con il progetto “Educazione socio affettiva e sessuale” per classi quinte della scuola primaria e terze della secondaria di primo grado sembra molto in linea con gli obiettivi dell’OMS. Il Dipartimento della Prevenzione della Provincia rileva che, nel 2017, il 25% delle scuole ha deciso di aderire all’iniziativa (Regele, Borsoi, 2017).

Una nostra collega ha descritto la propria esperienza come conduttrice di un progetto di educazione sessuale proposto ad alcune classi quinte della scuola primaria. Dal suo lavoro emerge, in linea con ciò che abbiamo precedentemente trattato, che la scuola può fornire strumenti di integrazione tra le conoscenze che i bambini già possiedono, quelle che hanno discusso in famiglia, e quelle portate dagli esperti (Congedo, 2018). Pensiamo che sia interessante il fatto che fossero previsti due momenti di discussione con i genitori, uno iniziale e l’altro al termine del progetto. Questi incontri, come riporta l’autrice, sono stati utili in quanto i genitori si sono confrontati tra loro, scambiandosi esperienze e condividendo strategie efficaci.

Conclusioni

Alla luce di quanto emerge da questa ricerca sui programmi di educazione sessuale all’estero ed in Italia possiamo fare alcune considerazioni.

In primo luogo dall’esperienza estera emerge la necessità di proporre alle scuole programmi che si basino su un’educazione sessuale di tipo olistico, che accanto all’informazione prevedano spazi di riflessione e sviluppo delle competenze affettivo-emotive. L’esperienza di alcuni stati esteri, dove l’educazione sessuale viene introdotta già dalla scuola primaria come materia curricolare, potrebbero ispirare l’organizzazione e la progettazione di una formazione educativa scolastica anche in Italia. Il fatto che in alcune regioni italiane siano proposti progetti fa ben sperare che, in futuro, l’introduzione di programmi di educazione sessuale a scuola possa essere anticipata rispetto a quanto attualmente avviene.

Per capire quanto quello che finora viene proposto nelle scuole del nostro Paese sia utile, servirebbero più studi sull’efficacia dei programmi attualmente realizzati. Questo potrebbe aiutare a capire anche come poter personalizzare una proposta formativa, in modo che si possa adattare alla cultura del nostro Paese.

Come già citato, condividiamo la proposta degli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa e le linee guida OMS sostenendo che i progetti di educazione sessuale, se visti come integrazione a più ampi percorsi di educazione all’affettività, adeguati alle età dei destinatari, possano fornire strumenti molto utili allo sviluppo della persona.

A nostro avviso, è importante considerare gli effetti positivi che un’educazione all’affettività e alla sessualità può avere anche su comportamenti e situazioni a rischio, quali bullismo, cyberbullismo e omofobia. Infatti attualmente vengono spesso esclusi dai programmi di educazione affettiva e sessuale argomenti importanti per il benessere psicologico, come ad esempio l’orientamento sessuale, le questioni di genere e dei ruoli (Ganci, 2015). Come sostenuto in questo articolo, essere consapevoli che esistono diversi orientamenti sessuali e conoscere persone con esperienze diverse dalla nostra può avere un effetto normalizzante ed è una delle strategie utilizzabili all’interno di un’efficace educazione all’affettività e sessualità ad ampio raggio.

In conclusione, offrire ai bambini ed ai ragazzi l’opportunità di partecipare a programmi di educazione sessuale può permettere loro di maturare consapevolmente un progetto di vita che tenga conto del benessere anche sessuale ed affettivo.

 

Cannabis: lo stato dell’arte dalla legislazione ai dati relativi all’uso e all’abuso

L’uso di sostanze con proprietà psicotrope illegali, tra cui la cannabis, viene sperimentato da un terzo della popolazione italiana almeno una volta nell’arco della vita.

Silvana Zito

 

Molte cose sono state dette riguardo il fenomeno dell’abuso di sostanze psicostimolanti anche se l’argomento resta degno di attenzione e impegno al fine di fronteggiare il gioco domanda/offerta. Il quadro legislativo internazionale sulla cannabis presenta una notevole diversificazione e mantiene rilevante l’interesse politico, medico e sociale.

La droga più comunemente usata nel mondo è la cannabis, in Italia si stima che il 32% dei giovani fa uso di cannabis, mentre l’11% della spice cannabis sintetica (Politiche Antidroga, 2017).

Si ha prova che la massima parte dei sequestri di droga è rappresentata dai derivati della cannabis: è interessante osservare che tra gli interventi delle forze di polizia entro il 2016, l’80,4% dei casi sono stati posti all’accertamento del Prefetto poiché soggetti erano di età inferiore a 30 anni (di cui il 9,1% minorenni) in possesso di cannabinoidi (Politiche Antidroga, 2017).

Generalmente, con il termine cannabis si definisce una qualsiasi delle varie parti della pianta di canapa. Per esempio, dalla cannabis sativa vengono preparati marijuana, hashish e altri farmaci poco alteranti e allucinogeni. Inoltre, è di uso comune commutare i termini “cannabis” e “marijuana”.

Dal punto di vista diagnostico il Disturbo da uso di cannabis (CUD) richiede almeno due degli 11 criteri diagnostici riportati dal – Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi mentali (DSM5), entro il periodo di 12 mesi, per essere riconosciuto.

Legislazione nel “mondo” della Cannabis

L’uso consentito di proprietà gratificanti e motivazionali come la cannabis varia da paese a paese. L’assunzione della cannabis in Italia è illegale, solo l’utilizzo personale è depenalizzato, ma comunque punito con sanzioni amministrative. Allo stesso modo opera il Regno Unito, dove nonostante un decremento negli ultimi anni (Hajarizadeh, Grebely and Dore, 2013), l’entità dell’abuso si rivela essere in linea con i dati europei (Roderick et al., 2018).

Gli Stati Uniti presentano uno status normativo diversificato in cui molti stati approvano l’uso medico, altri hanno legalizzato la cannabis a scopo ricreativo (Hasin, 2018). Il 20 giugno 2018 il parlamento canadese ha legalizzato l’uso della cannabis sia per l’uso terapeutico sia ricreativo consentendo anche una coltivazione minima.

In Asia le leggi sul consumo sono molto severe e prevedono il divieto di usare sostanze. Sono considerate reato tutte le attività collegate al consumo di marijuana come lo spaccio o il trasporto. Fanno eccezione Nepal, Laos, Cambogia, Indonesia, India dove l’uso è regolato e sanzionato, ma più tollerato.

Singolare la Corea del Nord dove il governo non considera la cannabis una droga e ne consente l’uso liberamente. Un’altra singolarità si nota in Uruguay, primo Stato al mondo che nel 2013 ha reso la marijuana monopolio di Stato legalizzando sia la coltivazione sia la vendita.

Tra gli stati europei, in Portogallo è legale il possesso di marijuana fino a 25 grammi e 5 di hashish, mentre nei Paesi Bassi è consentito il possesso fino a 5 grammi. Alcuni Stati come la Spagna e la Giamaica, che hanno legalizzato la coltivazione a scopo personale, limitano l’uso consentito di cannabis entro luoghi definiti rispettivamente social club e di culto, mentre la Repubblica Ceca consente il possesso fino a 15 grammi di marijuana. In altri stati come Belgio, Israele, Nuova Zelanda, Polonia, Francia l’uso resta illegale e punito anche con la reclusione. Questi Paesi mantengono comunque un’apertura verso i programmi di ricerca e l’efficacia medica.

L’esempio di un provvedimento che va oltre l’indicazione della quantità di “essenza” posseduta e indica il limite superiore di potenza della sostanza giunge dalla Svizzera dove anche se l’uso di cannabis è illegale, è posto un limite al contenuto di delta-9-tetraidrocannabinolo THC inferiore al 1%, per le piante di coltivazione propria (cannabis light).

Effetti della depenalizzazione

I risultati di uno studio recente che ha coinvolto alcuni stati negli USA (Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, Vermont e Maryland) riportano una riduzione del 75% della quantità di arresti correlati ai giovani abusatori di cannabis, con effetti analoghi osservati per gli adulti, a seguito della depenalizzazione. Inoltre, in diversi studi, la depenalizzazione non è stata associata ad alcun aumento del consumo totale di cannabis in alcun Stato preso in esame da questo studio. (Grucza et al., 2018)

Dalla letteratura si evince che in molti Paesi in cui è avvenuta la depenalizzazione della cannabis, la detenzione di modiche quantità che superano i grammi previsti viene penalizzata con sanzioni amministrative mentre si connota di rilevanza penale un comportamento plurirecidivo, la produzione e la commercializzazione.

In Italia, l’effetto del riesame delle pene previste dall’art. 73 DPR 309/90 (rivisitato nel 2014 a seguito sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale) ha contribuito alla diminuzione dei nuovi giunti in carcere e di quelli presenti. Si assiste quindi ad un lieve spostamento a favore dell’aspetto etico. Se consideriamo l’impatto che l’arresto di un individuo utilizzatore di sostanze può avere sulla sua salute, sulle conseguenze della perdita del lavoro o conseguenze più gravi come la detenzione in carcere, non si può sottovalutare che un quarto della popolazione carceraria è composta da detenuti tossicodipendenti e per la quasi totalità di genere maschile.

La legalizzazione della cannabis consentirebbe invece di superare i limiti quantitativi di sostanza detenuta e di abbattere il mercato commerciale con l’interruzione del circolo vizioso domanda/offerta.

Assunzione di cannabis e trend stabile

La depenalizzazione ha portato a un decremento della criminalizzazione e ad una maggiore enfasi del valore etico favorendo la scelta personale di usare sostanze illecite o lecite (come il fumo delle sigarette e l’alcol). Allo stesso modo, la depenalizzazione ha mantenuto stabili gli indici di abuso sia per gli adulti sia per gli adolescenti, senza spostamenti significativi. Si osserva infatti che nonostante gli sforzi normativi l’entità del fenomeno resta nelle sue proporzioni (rapporto mondiale dell’ONU del 2017 sulle droghe), poiché il 3,8% della popolazione mondiale ha assunto cannabis nell’ultimo anno, mostrando una percentuale pressoché invariata rispetto l’ultimo decennio (UNODOC 2017).

Dati associati all’uso e all’abuso

L’uso di sostanze con proprietà psicotrope illegali viene sperimentato da un terzo della popolazione italiana almeno una volta nell’arco della vita.

Il fenomeno dell’abuso si è considerevolmente ampliato tra i giovani adolescenti. Infatti, l’abuso di sostanze è notevolmente aumentato negli ultimi anni e l’età del primo utilizzo di sostanze è drasticamente diminuita. Si stima una percentuale quasi del 45% di consumatori tra i 15 e i 34 anni. A volte l’“esperimento” del primo utilizzo non rimane unico, più di un terzo infatti ripete l’esperienza 10 o più volte con effetti prevedibili verso la dipendenza (Politiche Antidroga, 2017). Poco più di questi ultimi ha utilizzato almeno una volta nuove sostanze psicoattive. Questo fenomeno viene definito “gateway drug”, e indica come l’uso di cannabis costituisca un primo punto in una serie di eventi che conduce al consumo di sostanze composte da elementi chimici più potenti e nocivi rispetto alla cannabis. A tal proposito si riferisce l’osservazione di molti eroinomani che hanno assunto marjuana prima dell’eroina. È però vero che la sperimentazione di nuove droghe è spesso sollecitata dallo spacciatore, per assicurare che vengano assunte sostanze che causano maggiore dipendenza.

Tuttavia è importante ricordare che l’ipotesi della gateway drug non è stata comprovata da dati statistici mentre ci sono studi che suggeriscono come la sequenza inizi con droghe legali (quali alcol e tabacco) e poi continui con sostanze illegali (Kandel and Kandel n.d.).

Mentre altre ipotesi suggeriscono sequenze alternative come la probabilità di iniziare a usare marijuana prima e poi alcol o tabacco dipenda molto da fattori demografici come il sesso, età e l’etnia. Tuttavia, iniziare con la marijuana può aumentare la probabilità di uso pesante e problematico della stessa (Fairman, Debra Furr-Holden and Johnson, 2018).

In Italia, l’allarme per la comparsa di 43 nuove sostanze psicoattive segnalate ha sensibilizzato il Sistema Nazionale di Allerta Precoce poiché tra le sostanze che vengono sequestrate si registra un’enorme varietà di principio attivo di delta-9-tetraidrocannabinolo (THC). Si calcola che il 14% della popolazione studentesca italiana sono policonsumatori mentre per poco meno di un quarto di questa, il livello di abuso viene raccomandato come problematico (Politiche Antidroga, 2017).

Rischio di sviluppare abuso e dipendenza da cannabis

Studi recenti indicano l’abuso di cannabis durante l’adolescenza come precursore del rischio elevato a sviluppare sintomi di dipendenza in età adulta (Rioux et al,. 2018)

L’influenza della cannabis viene solitamente valutata in base alle concentrazioni di THC, uno dei maggiori e più noti principi attivi, considerato il più esemplare della famiglia dei fitocannabinoidi. (D’Souza et al., 2004)

Il sistema endocannabinoide è costituito da specifici recettori contenuti nelle cellule del corpo umano. Gli endocannabinoidi sono una classe di lipidi bioattivi che condividono la capacità di legarsi ai recettori cannabinoidi, i medesimi con cui lavorano i fitocannabinoidi.

I cannabinoidi sono diversi, in ordine temporale di identificazione sono: l’anandamide (AEA), seguito dal 2-arachidonoilglicerolo (2-AG) e da almeno altri tre cannabinoidi endogeni: il 2-arachidonil-gliceril-etere (noladin, 2-AGE), uno strutturale affine del 2-AG, la virodamina e la N-arachidonoildopamina (NADA). Più recente è il palmitoiletanolamide (PEA).
Tali mediatori lipidici, unitamente con i recettori dei cannabinoidi e i processi di sintesi collegati, il trasporto e la degradazione, rappresentano il sistema endocannabinoide. Questo sistema regola le sinapsi inibitorie ed eccitatorie. Il suo ruolo è attivo sin dalle fasi iniziali dello sviluppo e durante l’adolescenza, l’esposizione ai cannabinoidi esogeni può favorire una maggiore vulnerabilità ed esiti avversi a lungo termine sul rimodellamento cerebrale e sviluppo corticale, alla corteccia somatosensoriale e prefrontale.

Molte ricerche scientifiche evidenziano come l’uso di cannabis ad alta concentrazione di THC sia predittivo di esordi psicotici. (Freeman and Winstock, 2015; Colizzi and Murray, 2018; Minică et al., 2018; Gage, Hickman and Zammit, 2016; Davies, Sullivan and Zammit, 2018).

Tuttavia, la pianta di cannabis contiene molti altri cannabinoidi, nello specifico il cannabidiolo (CBD). insieme ad altre sostanze chimiche delle piante conosciute come terpenoidi, contribuiscono alla potenza moderando gli effetti del THC. La potenziale attività del CBD favorisce risultati terapeutici diversi sia in età infantile e sia in adulta nel trattamento delle patologie neurologiche e psichiatriche (Schonhofen et al., 2018; Mandolini et al., 2018).

Cura e prevenzione

Interessante notare come negli Stati Uniti dal 2004 al 2011 le visite ambulatoriali sono notevolmente aumentate per adolescenti (12-17 anni) che fanno uso di cannabis, rispetto ai ricoveri ospedalieri connessi alla droga per giovani adulti (21-24 anni) che usano cannabis e altri farmaci. Si osserva che il numero dei ricoveri cresce all’aumentare dell’età (Zhu and Wu, 2016), mentre si evidenzia una prevalenza di abuso maggiore per gli uomini (3,5%) rispetto alle donne (Kerridge et al., 2018).

Nel 2016 in Italia sono stati registrati circa 730 casi di ricoveri ospedalieri correlati alla cannabis a fronte di 6.083 che hanno interessato indistintamente tutte le droghe. Di questi ultimi, la punta dell’iceberg è rappresentata da soggetti di età compresa tra 25 e 44 anni, mentre viene segnalato trend significativamente crescente per le fasce di età comprese tra i 15 e 24 anni e tra i 45 e i 54 anni (Politiche Antidroga, 2017).

Esaminando la letteratura si evince un’ampia descrizione delle cause determinanti l’abuso di cannabis e sembrano condividere antecedenti comuni legati a varie forme come: avversità nell’infanzia, fattori relativi al gruppo dei pari e condizioni familiari. (Farmer et al., 2015).

Nello stesso tempo, gli effetti causali dell’abuso, indipendenti da questi fattori, determinano traiettorie di vita che implicano esiti negativi dal punto di vista psicofisico e psicosociale (Lynskey and Hall, 2000). Altri studi evidenziano la relazione tra a dipendenza da cannabis e la componente genetica che può sovrapporsi ai disturbi psichiatrici (Authier et al., 2003; Minică et al., 2018). Altri studi hanno considerato l’effetto devastante dell’abuso di sostanze sia a livello strutturale sia metabolico in caso d associazione alla patologia psichiatrica come il disturbo bipolare (Altamura et al., 2017).

Prevenzione e supporto

Tra le indicazioni del Piano di Azione Nazionale (PAN) sulle Droghe un forte accento viene posto sulla prevenzione in ambito scolastico con l’obiettivo prioritario di aumentare il livello di informazione sui rischi correlati al consumo di sostanze e garantire agli adolescenti, non aderenti a regime medico, lo sviluppo di abilità sociali e di life-skills attraverso progetti ampiamente diffusi.

I fattori alla base dell’impegno sportivo nell’età evolutiva

I giovani atleti passano gran parte del loro tempo libero nel contesto sportivo, dove si sottopongono ad attività estremamente impegnative dal punto di vista psicofisico (allenamento, ansia per la prestazione ecc.) è per questo importante indagare quali fattori li motivano e li tengono ingaggiati nelle diverse attività.

 

Diversi studi hanno messo in evidenza la stretta correlazione che esiste fra lo stile relazionale dell’allenatore e il provare piacere e benessere dall’esperienza sportiva da parte dei giovani atleti. È fondamentale stabilire quali possono essere i fattori che incrementano e fanno persistere l’impegno in una pratica sportiva nell’età evolutiva, visto il dilagare della vita sedentaria e del conseguente sovrappeso e obesità nelle giovani generazioni. Queste variabili sono lo stile relazionale dell’allenatore, che deve essere finalizzato a far acquisire il senso dell’autonomia, la percezione dell’autodeterminazione delle proprie azioni di gioco e la sensazione di benessere derivante dalla pratica sportiva.

Keywords: stile relazionale dell’allenatore, sport, età evolutiva, benessere.

Attualmente diversi studi (Duda, 2013; Reynolds e McDonough, 2015) hanno messo in evidenza la stretta correlazione che esiste fra lo stile relazionale dell’allenatore e il provare piacere e benessere dall’esperienza sportiva da parte dei giovani atleti. È fondamentale stabilire quali possono essere i fattori che incrementano e fanno persistere l’impegno in una pratica sportiva nell’età evolutiva, visto il dilagare della vita sedentaria e del conseguente sovrappeso e obesità nelle giovani generazioni (Bangsbo e al., 2016).

Importante, da questo punto di vista, è la motivazione che spinge i ragazzi ad impegnarsi nella pratica sportiva. Molte ricerche hanno avuto come focus concettuale da esplorare proprio i fattori motivazionali e i legami che si creano fra essi, lo stile relazionale dell’allenatore e il benessere percepito dai giovani sportivi (Mageau e Vallerand, 2003; Duda e Balaguer, 2007; Duda e al., 2018).

Fra le diverse componenti individuate, sembra che un ruolo di rilievo lo rivesta la figura dell’allenatore, che deve incrementare l’acquisizione dell’autonomia nei suoi piccoli allievi (Ryan e Deci, 2017). In altre parole, più il coach alimenta l’autodeterminazione e, quindi, l’autonomia nei giovani giocatori e più essi ricavano delle emozioni positive dalla pratica sportiva, che divengono il paradigma fondante del benessere percepito e del proseguimento dell’impegno sportivo (Adie e al., 2012; Gonzales e al., 2016).

Di capitale importanza è proprio il benessere vissuto, in quanto tale esperienza consente di superare l’impegno che la pratica sportiva, seppure a livello amatoriale, comporta. Ci si riferisce al fatto che i giovani atleti passano gran parte del loro tempo libero nel contesto sportivo, dove si sottopongono ad attività estremamente impegnative dal punto di vista psicofisico (allenamento, ansia per la prestazione ecc.).

Il costrutto di benessere, derivante dalla pratica sportiva, è stato esplorato da diverse angolazioni, che hanno avuto lo scopo di qualificarlo cognitivamente (Balaguer e al., 2018). La sensazione di benessere in ambito sportivo si collega ad una cognizione, ovvero il pensare di essere artefice delle proprie azioni di gioco, percepite come frutto del proprio impegno e della propria forma fisica (Ryan e Deci, 2000). La percezione della forma fisica è legata ad un altro costrutto, che è rappresentato dalla vitalità. In pratica, nello sport la persona pensa di poter essere in grado di compiere fisicamente un’azione di gioco nella misura in cui si sente vitale. In accordo con Ryan e Frederick (1997), si può definire la vitalità come l’esperienza cosciente di possedere energia e vigore.

In conclusione, i ragazzi persistono nel loro impegno sportivo, una volta cominciato, grazie ad una serie di fattori, ovvero lo stile relazionale dell’allenatore, che deve essere finalizzato a far acquisire il senso dell’autonomia, la percezione dell’autodeterminazione delle proprie azioni di gioco e la sensazione di benessere derivante dalla pratica sportiva.

Liking gap: ecco perché temiamo di non piacere molto agli altri

Conversando con nuove persone i nostri interlocutori godono della nostra compagnia più di quanto immaginiamo, tuttavia la maggior parte di noi pensa di non fare una bella impressione: i ricercatori chiamano questo fenomeno Liking Gap. Cerchiamo di capire perchè ciò avviene.

 

Nella vita sociale siamo costantemente impegnati in quel processo che viene chiamato “meta-percezione”, ovvero nella percezione di come gli altri ci vedono.

Liking Gap: lo studio

Un team di ricercatori ha definito questo fenomeno Liking Gap:

La nostra ricerca suggerisce che stimare con precisione quanto si piaccia a un nuovo interlocutore, anche se questa è una parte fondamentale della vita sociale e qualcosa di cui abbiamo ampia esperienza, è un compito molto più difficile di quello che immaginiamo.

I ricercatori hanno formato coppie di partecipanti che non si erano mai incontrati prima e li hanno incaricati di svolgere una conversazione di 5 minuti con domande rompighiaccio (ad esempio: Da dove vieni? Quali sono i tuoi hobby?). Al termine della conversazione, i partecipanti hanno valutato quanto apprezzassero il loro interlocutore e quanto pensassero che il loro interlocutore li avesse apprezzati.

Liking Gap: gli altri ci apprezzano di più di quello che pensiamo

Le valutazioni hanno dimostrato che i partecipanti hanno apprezzato il loro partner più di quanto questo pensasse, a prescindere dalla lunghezza delle conversazioni. Dalle analisi delle registrazioni video si evince che i partecipanti non si rendevano conto dei segnali comportamentali dei loro partner che indicavano interesse e divertimento, commettendo un errore di stima.

I partecipanti hanno in seguito riflettuto sulle conversazioni avute in base alle valutazioni ricevute: hanno creduto che i momenti salienti che hanno modellato i pensieri del loro partner su di loro fossero più negativi dei momenti che hanno modellato i loro propri pensieri sul partner.

Sembrano essere troppo presi dalle proprie preoccupazioni su ciò che dovrebbero dire, e questo gli impedisce di vedere i segnali di gradimento, visibili chiaramente invece dagli osservatori esterni.

Le persone sono spesso titubanti, incerte sull’impressione che stanno facendo sugli altri ed eccessivamente critiche nei confronti delle proprie prestazioni

affermano Boothby e Cooney.

Alla luce del grande ottimismo della gente in altri settori, quali intelligenza e capacità di guida, il pessimismo delle persone riguardo alle loro conversazioni è sorprendente!

I ricercatori ipotizzano che questa differenza possa discendere nel contesto in cui effettuiamo queste autovalutazioni. Quando c’è un’altra persona coinvolta, come un partner di conversazione, potremmo essere più cauti e autocritici rispetto a situazioni in cui valutiamo le nostre qualità senza altre fonti di feedback.

Siamo auto-protettivamente pessimisti e non vogliamo assumere che gli altri ci piacciano prima di scoprire se è proprio vero – ha detto Clark.

Gli autori ritengono che il Liking Gap può ostacolare la nostra capacità di sviluppare nuove relazioni, per questo ritengono importante portare avanti questo studio.

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