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Condivisione e cooperazione: sono contagiose?

Il fenomeno della condivisione e della cooperazione si presenta in varie forme; può comprendere il donare il sangue, la condivisione di servizi, il fare beneficienza e molto altro. Inoltre, tutto questo “dare” è fatto senza aspettarsi un ritorno personale. Può essere contagioso?

 

Gli studiosi del settore hanno cercato di comprendere come questo fenomeno si generi, conducendo uno studio durato sei anni ad Hadza, in Tanzania, su una popolazione locale di cacciatori-raccoglitori.

Condivisione e cooperazione: uno stile di vita

I ricercatori hanno scelto la Tanzania poiché la popolazione ha uno stile di sussistenza simile a quello dei nostri antenati, dove la condivisione del cibo è fondamentale per la sopravvivenza. Questo è uno stile basato sulla caccia e la raccolta, la cui analisi permette di ottenere informazioni su come avviene la cooperazione.

Gli studiosi, per portare avanti questa ricerca, hanno osservato per sei anni 56 campi di coltivazione. Sono stati coinvolti circa 400 adulti, ad ognuno è stato chiesto di eseguire un gioco in cui dovevano decidere se assegnare a se stessi o agli altri, appartenenti al proprio gruppo di riferimento, una tipologia di cibo tipica del luogo.

Dai risultati si evince come la popolazione di Hadza sia disposta a cooperare e condividere, anche se questo comportamento si modifica con il passare del tempo. Infatti già dopo due mesi questa tendenza variava in relazione al gruppo di appartenenza in cui il soggetto era inserito in quel momento. Inoltre gli individui non manifestavano nessuna preferenza nel vivere con persone più cooperative o meno. Quindi la volontà individuale cambia nel tempo, al fine di corrispondere a quella del gruppo di appartenenza. Pertanto, le norme e il comportamento del gruppo determinano i gradi di maggiore o minore cooperazione.

Concludendo, possiamo ritenere che la flessibilità della cooperazione agisce sui comportamenti positivi e li modifica: ad esempio la generosità diventa contagiosa per tutti coloro che fanno parte del gruppo di appartenenza.

 

Bullismo: gli effetti sugli spettatori

La continua sensibilizzazione sul fenomeno del bullismo ha portato ad una maggiore attenzione, da parte degli adulti, alle dinamiche che lo sottendono. Nonostante questo, gli episodi di bullismo sono molto frequenti tra i giovani e in alcuni casi possono avere conseguenze tragiche, non solo sulla vittima ma anche sugli spettatori.

 

Molti studi hanno preso in considerazione gli effetti negativi sulla vittima di bullismo, ma meno studi hanno indagato gli effetti sugli spettatori.

Bullismo: ne soffre anche lo spettatore

A tal proposito, uno studio condotto da Michel Janosz della School of Psycho-Education di UdeM e il suo team internazionale, ha indagato gli effetti che l’essere esposti a situazioni di bullismo ha sugli spettatori. La ricerca ha coinvolto quasi quattromila studenti delle scuole superiori del Quebec, al fine di indagare la relazione tra l’esposizione a episodi di bullismo e il successivo comportamento antisociale (uso di droghe, delinquenza), disagio emotivo (ansia sociale, sintomi depressivi) e adattamento all’ambiente scolastico (rendimento accademico, coinvolgimento).

I ricercatori hanno anche messo in relazione il contributo delle diverse forme di violenza, messe in atto all’interno del contensto scolastico, con l’emergere di un particolare disagio a lungo termine.

La co-autrice Linda Pagani, anche lei professoressa presso la School of Psycho-Education, ha affermato che assistere a episodi di violenza può avere delle ricadute negative a lungo termine, e che gli effetti sugli spettatori erano molto simili a quelli alla vittima che subisce direttamente la violenza.

Bullismo: i risultati dello studio

Da questo studio sul bullismo emerge che essere testimoni delle violenze più gravi, come aggressioni fisiche e trasportare armi, è associato a un successivo uso di droghe e delinquenza. L’effetto era lo stesso per la continua esposizione a violenza nascosta o velata, come furto e vandalismo. D’altra parte, l’esposizione a eventi di violenza minore, come minacce e insulti, era associata ad aumenti nell’uso di droghe, ansia sociale, sintomi depressivi e diminuzione dell’impegno e nel coinvolgimento scolastico.

Janosz ha riportato che la maggior parte degli studenti che hanno preso parte alla ricerca, hanno riferito di aver assistito a episodi di violenza. Janosz sostiene l’importanza di interventi volti alla prevenzione che includano non solo le vittime ma anche gli spettatori e che prendano in considerazione non solo episodi di violenza fisica, ma tutte le forme di violenza che avvengono all’interno dei contesti scolastici.

 

La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico (2017) – Recensione del libro

La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico è un testo a cura di Marcellino Vetere che ha lo scopo di aiutare i clinici nell’intervento con le famiglie ricomposte (famiglie create a seguito di separazioni o lutti), oggi sempre più numerose e con dinamiche e tematiche specifiche da affrontare in terapia.

 

A partire da una mancanza si possono trovare soluzioni nuove. Mancanza di valori, modelli culturali, norme e codici sociali per le famiglie ricomposte (famiglie create a seguito di separazioni o lutti). Mancanza di interventi adeguati per i clinici. A partire da quello che non c’è si può iniziare a costruire. Per noi terapeuti significa progettare strumenti e tecniche da inserire nella famosa “cassetta degli attrezzi”; per i componenti delle famiglie ricomposte significa dare un senso alla propria storia e inquadrarla in un presente meno nebuloso.

Questo, come riportato da Marcellino Vetere in La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico, unisce clinici e pazienti nel percorso terapeutico familiare descritto nel volume.

La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico è un testo utile a colmare quel vuoto, per evitare la paralisi che sentiamo a seguito della sofferenza legata al senso di inadeguatezza e alla confusione. I colleghi ci aiutano a camminare, ci prendono la mano e ci accompagnano nel percorso per poter poi fare noi lo stesso con i genitori biologici e acquisiti che si presentano in studio.

Struttura e obiettivi del libro

Nel testo gli autori offrono suggerimenti già per il primo contatto telefonico e aggiungono uno strumento non molto comune per i libri: videoregistrazioni. Oltre al classico testo scritto si accede tramite web ad alcuni video dove i terapeuti ripropongono un caso clinico reale. Si restituisce così alla comunicazione non verbale il posto privilegiato che merita. Il libro La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico è innovazione in tutto e per tutto, utilizza canali comunicativi di questa generazione e parla di una realtà attualissima, di un cambiamento sociale in atto che è ormai impossibile non tenere in considerazione.

Nella famiglia ricomposta il contesto plurinucleare sembra centrale nelle problematiche di coppia o dei figli. Nel primo video questo è estremamente chiaro quando il terapeuta si alza dalla sedia e fa spostare la coppia (in terapia per un tradimento) davanti ad una lavagna quando percepisce che si sta parlando di precedenti matrimoni. Il collega, con i suoi pennarelli colorati, inizia a tracciare il complesso sistema familiare con il disegno genografico. La rappresentazione è necessaria poiché “di solito, le coppie, nel riportare il disagio che vivono, tenderebbero ognuno ad attribuirne la causa al carattere dell’altro e/o al diminuito amore. La rappresentazione grafica rende drammaticamente evidente quanta influenza possa essere, invece, attribuita al fatto che anche i rispettivi partner provengono da precedenti nuclei familiari o vanno a costruirne di nuovi.”

Il testo vuole sottolineare che il trattamento con le famiglie ricomposte si muove da basi completamente differenti rispetto ad una famiglia tradizionale. Come precisano gli autori la famiglia ricomposta è “seduta su una polveriera” e ha sulla testa una “spada di Damocle”. La famiglia tradizionale non ha alla base le ceneri della separazione e del lutto e non incombe, costante, il timore di una nuova rottura.

Materie quali la sociologia, la psicologia sociale e l’antropologia, a mio avviso, possono essere un supporto fondamentale in questo percorso di ricostruzione di una mancanza terapeutica sottovalutata. Parlare di famiglie ricomposte significa porre l’attenzione su argomenti come le rappresentazioni sociali, i miti, i pregiudizi, gli stereotipi e i riti di passaggio, che non possono essere sottovalutati.

Un aspetto importante: la gestione dei figli

Tra i vari punti che il libro La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico prende in considerazione sento di porre l’attenzione su un ultimo importante aspetto: la gestione dei figli. Qui, oltre ai classici problemi che possono avere i genitori biologici, abbiamo genitori acquisiti che hanno a che fare con la gestione di rapporti complessi e aspettative non chiare.

L’ambiguità di ruolo infatti è uno dei problemi maggiori in quanto, in Italia, da una parte non ci sono obblighi legali ma dall’altra le implicazioni emotive e la quotidianità dicono l’esatto opposto. Gli studi dimostrano che per le donne questa difficoltà è ancora più grande poiché “si chiede a queste donne (e queste chiedono a se stesse) di adempiere ad un compito paradossale: amare dei figli che non hanno partorito e non hanno visto crescere “come se” fossero propri senza però amarli troppo”. In aggiunta a questo anche i genitori acquisiti affrontano il dolore della perdita che si esplicita nella rinuncia alla propria libertà, intimità, quotidianità per essere inseriti, a volte, in una casa non propria in cui sentirsi un “ospite” e/o “intruso”.

Mentre leggevo il libro ho pensato che per il genitore acquisito (specialmente quello che non ha figli biologici) stare nella famiglia ricomposta, è come giocare ad uno sport di squadra senza assolutamente conoscerlo. Pensando ad un amico mi è venuto in mente il basket.

Ecco come la vedo. Vieni inserito in una squadra di basket. Sei stato preso e ne sei felice. Impaurito a tratti perché ti sbattono dentro senza libretto di istruzioni e, come accennato, tu non hai mai giocato. Palleggi, tiri la palla… ma poi non capisci perché l’arbitro fischia e fischia e dopo cinque falli, cavolo sono già cinque, sei espulso. Non avevi capito, per esempio, che non potevi toccare la mano del giocatore avversario quando era in possesso della palla. E se ci rifletti non sapevi nemmeno in che ruolo giocavi. E poi, mentre sei solo negli spogliatoi con le lacrime agli occhi, pensi che forse non sentivi nemmeno di appartenere a quella squadra… in quale eri effettivamente? Di che colore era la tua maglia?

Ma da tutta questa confusione si può uscire. Ce lo insegnano Vetere e colleghi. Basta cercare un buon allenatore che ti spieghi chi sei, che potenziale hai, il tuo ruolo, quello che puoi fare e ciò che è meglio evitare. E per illustrarti meglio e fare chiarezza inizia con strumenti semplici: lavagna e pennarello. E con quegli schemi le cose appaiono più chiare… sai dove sei collocato, a chi è meglio tirare la palla, sai chi effettivamente vuole giocare con te, sai quali sono le regole e tentativo dopo tentativo inizi a fare canestro.

Il modello LIBET applicato alla coppia: teoria e pratica nella descrizione di un caso clinico – Congresso SITCC 2018

Il modello LIBET applicato alla coppia: teoria e pratica nella descrizione di un caso clinico

A. Gemelli, D. Rebecchi, A. Offredi, S. Giuri, M.P. Boldrini, A. Chiappelli, C. Bellardi, G. Gualdi, C. Ferrari

 

Il presente lavoro ha come cornice il modello LIBET (Life Themes and Plans Implicated in Biases: Elicitation and Treatment), un modello integrato di concettualizzazione del caso clinico utile per la diagnosi, la progettazione e la valutazione del percorso psicoterapico, che il gruppo ricerca Studi Cognitivi sta sviluppando ormai da anni nell’intervento sul singolo e sulla coppia. All’interno della terapia di coppia offre qualcosa in più della gestione della conflittualità o della situazione problematica,  in termini di credenze distorte o comportamenti comunicativi e relazionali da modificare, già presenti nella terapia cognitiva standard, e interviene sulle convinzioni distorte di ogni partner e su come queste interagiscono, in termini evolutivi e scopistici. La concettualizzazione di coppia LIBET mira a identificare i temi di vita dei partner, i piani di vita del singolo e della coppia, la rottura, i cicli di mantenimento della sofferenza e i cicli interpersonali attivati da entrambi e permette al terapeuta di formalizzare un’ipotesi di trattamento e gli strumenti idonei per l’intervento.

La presente relazione illustrerà le specificità del modello nell’intervento di coppia attraverso la presentazione di una concettualizzazione di un caso.

 

La bellezza – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 43

In cosa consiste l’esperienza della bellezza? Cosa intendiamo quando diciamo che una cosa è bella? Quali sono gli ingredienti mentali indispensabili nell’esperienza della bellezza e a cosa serve fare questa esperienza? Sono solo alcune delle domande a cui cercheremo di rispondere in una riflessione aperta sul tema della bellezza.

 

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La bellezza (Nr. 43)

 

La bellezza è l’eternità che si mira in uno specchio. 
(Kahlil Gibran)
La bellezza è soltanto la promessa della felicità. 
(Stendhal)
Lasciamo le belle donne agli uomini senza fantasia. 
(Marcel Proust)

 

Prima che un neuroscienziato di qualche sconosciuta università statunitense risolva il discorso sulla bellezza identificando un’area ficcata in qualche anfratto del cervello, dove scoprirà che alla chetichella giungono afferenze secondarie dei cinque sensi e che attivandosi, come la risonanza magnetica funzionale segnala, accendendo tutti gli special da antico flipper, genera l’esperienza soggettiva del bello e la nomini, chissà perché, “Beauty 301/15”, credo doveroso ragionare su quanto la cultura occidentale ha prodotto nei millenni sul tema in questione.

Probabilmente anche il neuroscienziato yankee muoverà dal grande interesse della psicologia per il fatto che la proporzione aurea costituisca una regola pressoché costante nell’arte occidentale, dagli egizi, ai greci, al Rinascimento, quando ancora non se ne conosceva il calcolo matematico. Infatti Il “De Architectura” di Vitruvio (I secolo a.C.), reso noto dal famosissimo disegno di Leonardo Da Vinci chiamato appunto “l’uomo vitruviano”, tramanderà sia al Medio Evo che al Rinascimento istruzioni per la realizzazione di proporzioni architettoniche ottimali. 
La sezione aurea, la divina proporzione di cui parla Fra Luca Bartolomeo de Pacioli vissuto nel XV° secolo religioso, matematico ed economista italiano, autore della “Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni e Proportionalità e della Divina Proportione”, molto noto tra i commercialisti per aver inventato “la partita doppia”, è quel rapporto che si realizza in un segmento AB quando, posto un punto C di divisione, AB sta a AC come AC sta a CB. 
Lo studioso americano da questo fatto – oltre che dalle leggi della Gestalt – riterrà confermata la tesi dell’esistenza nell’uomo di parametri estetici universalmente dati, vale a dire specie-specifici, caratteristici della specie umana e citerà gli studi dei fisiologi della visione Stone e Collins che spiegano la preferenza per la proporzione aurea basandosi sulla configurazione rettangolare del campo visivo umano con dimensioni il cui rapporto è molto vicino a quello della sezione aurea stessa.

Per noi del vecchio mondo il tema meriterebbe un approccio multidisciplinare coordinato, ad averlo, da un filosofo. Per questo dalla mia prospettiva psicologica mi limiterò ad una serie di enunciati, senza scrupoloso obbligo di non contraddizione per porre domande, piuttosto che trovare risposte.

I cinque quesiti che intendo pormi sono:

  1. Cosa intendiamo quando diciamo che una cosa è bella?
  2. In cosa consiste l’esperienza della bellezza?
  3. Cos’hanno in comune un paesaggio, un’opera d’arte, una musica, un corpo che consideriamo belli?
  4. Quali sono gli ingredienti mentali indispensabili nell’esperienza della bellezza e, infine, serve a qualcosa ed eventualmente a cosa?
  5. Insomma esiste un’essenza della bellezza, in cosa consiste, quanto è oggettiva o soggettiva (Umberto Eco sostiene che né la bellezza fisica né di altro genere sia immutabile nel tempo e nello spazio e che i criteri che la definiscono cambiano continuamente)? E che farne?

Sono tutti quesiti che non credo perdano di importanza anche quando il solerte ragazzo a stelle e strisce avrà identificato l’area “Beauty 301/15”.

Ecco alcune tesi:

La bellezza è un esperienza assolutamente soggettiva che esprime una relazione tra un oggetto e un soggetto dotato di sensi e intelletto. Se, a mio avviso, la realtà oggettiva esiste anche senza un testimone umano per cui un albero si può dire che sia effettivamente caduto al centro di una foresta anche se nessuno lo vedrà o lo saprà mai, non altrettanto si può affermare della bellezza: senza una mente che la coglie non c’è bellezza.

Ci appare bello ciò che ci sembra in grado di poter soddisfare un nostro bisogno o scopo. In questo modo si spiega la diversità individuale, storica e culturale del giudizio di “bello” perché diversi sono i pattern motivazionali delle varie culture e, al loro interno, dei vari soggetti che hanno dunque gusti individualissimi. Se alcune cose, pochissime per la verità (basti pensare ai diversi giudizi sulle varie correnti artistiche) appaiono belle quasi a tutti e ci fanno pensare all’esistenza di una bellezza oggettiva è semplicemente perché apparteniamo tutti alla specie umana e condividiamo un’ampia parte dei nostri scopi, primi fra tutti quelli inerenti la sopravvivenza (alimentazione, protezione dalle minacce, mantenimento dell’omeostasi) e la riproduzione. Proprio sulla bellezza fisica, connessa a quest’ultimo aspetto e così all’ordine del giorno nella nostra cultura attuale è sorta con mio figlio questa riflessione interrogandoci banalmente su quale fosse l’essenza ultima della commovente bellezza del femminile che la stagione calda esalta. Seguendo questa prospettiva di equilibrio tra universalità ed individualità si potrebbero elencare una serie di bisogni comuni degli esseri umani, fisici e psicologici, che si personalizzano in ogni individuo e per ciascuno di essi immaginare un certo tipo di bellezza, consistente nell’aspettativa che la relazione con quell’oggetto possa portare alla soddisfazione di quel bisogno.

La bellezza è sopratutto una promessa di felicità. Gotthold Ephraim Lessing, un filosofo tedesco del ‘700 affermava precorrendo la pubblicità del Campari red passion che “l’aspettativa del piacere è essa stessa piacere” e, secondo Freud, ha il compito di tenere l’apparato psichico in uno stato di costante contenuta eccitazione. Prima che effettivamente lo faccia: la bellezza è l’anticipazione, la promessa, l’aspettativa di un soddisfacimento.

L’esperienza soggettiva della bellezza è una emozione genericamente positiva accompagnata da una valutazione positiva di bello, buono, giusto e vero (Keats diceva riprendendo un concetto aristotelico e platonico che “la bellezza è verità e la verità è bellezza) e da un’attrazione verso l’oggetto bello.

L’esperienza della bellezza immediata e irriflessa è appunto la sintesi di tutte le valutazioni positive che dunque sussume, è il totalmente OK (per farmi capire dal collega d’oltreoceano che magari perderà tempo a leggerci) e tale valutazione è emotiva così come la paura è la valutazione di una minaccia più immediata e rapida della consapevolezza analitica cosciente della presenza di un pericolo.

Il dolore della bellezza. La bellezza, come sopra detto ci fa intuire la possibilità dell’appagamento di un desiderio o di un bisogno profondo senza che questo avvenga veramente, il che eliminerebbe il desiderio stesso. Percepire una bellezza equivale ad avvertire una mancanza e la possibilità di colmarla. Plotino afferma che il bello è un ideale irraggiungiubile, qualcosa verso cui tendere, da cui il senso di incompletezza che ad esso è necessariamente connesso (mille esempi in tal senso vengono in mente circa l’esperienza amorosa caratterizzata dal desiderio di un incontro che non si basta mai e non è mai del tutto appagato). La percezione di questa mancanza dà ragione di un aspetto dolente presente nell’esperienza della grande bellezza che rimanda, appunto, alla propria incompiutezza. Sta forse in questo il rischio di morte immediata per chi veda il volto di Dio che dunque, garbatamente, si mostra al massimo sotto le sembianze di roveto ardente.

La bellezza è inutile. Secondo Kant due sono le caratteristiche del bello: è colto intuitivamente senza bisogno di ragionamenti o spiegazioni coscienti che semmai possono sostenerlo ma subentrano in un secondo momento (credo sia quello che fanno i critici dell’arte) ed è un fine in sé e non un mezzo per qualcos’altro ed è in tal senso “inutile”, superfluo.

Natura e cultura nella bellezza. Tutti gli autori concordano sulla duplice origine biologico/ereditaria e culturale dei canoni della bellezza. Quelli biologici/ereditari sono certamente più universali e prioritari sopratutto per quanto riguarda la bellezza fisica e la connessa appetibilità sessuale a scopo riproduttivo. Sono considerati belli (con un diverso peso nei due sessi a motivo del diverso ruolo che giocano nella vicenda riproduttiva) gli indicatori di salute, giovinezza e forza che promettono una lunga durata e dei marcati caratteri sessuali indici di fecondità. Spesso si è attratti inconsciamente da aspetti complementari a quelli che si possiedono (ciò che ci manca) come se si ricercasse di ricreare nella prole un equilibrio.

Eros e Tanatos. La bellezza è fortemente connessa alla vita e dunque alla temporalità e come tale alla morte, da cui l’indissolubile intreccio tra eros e tanatos. Del resto, il valore della vita stessa è dato dalla sua finitezza: è legge di mercato che il valore di un bene sia direttamente proporzionale alla sua limitatezza. La bellezza, l’amore, come la vita stessa, sono preziosi proprio perché caduchi ed hanno dunque connaturato un aspetto drammatico, particolarmente sottolineato da Stendhal.

La bellezza oggettiva. Pur privilegiando in queste riflessioni un approccio soggettivistico e relazionale al tema del bello è doveroso e utile riportare gli sforzi di quegli autori che hanno cercato di darne una definizione quanto più possibile oggettiva. Tra questi va ricordato William Hogarth pittore e scrittore del 18° secolo autore de “the analysis of beauty” in cui esprime i sei criteri del bello e la sua teoria della curva della bellezza una linea curva a forma di “S” che cattura l’attenzione dell’osservatore suscitando l’idea della vivacità, dell’armonia e del movimento e che, personalmente, ritrovo per quanto riguarda la bellezza fisica femminile nella schiena che si fa sedere, nella curvatura controgravitazionale della coscia che si fa a sua volta sedere, del torace che si solleva in seno e nell’alternarsi di concavità e convessità, rotondità, vette e precipizi oscuri e segreti del corpo femminile. Secondo questo autore sono sei i principi del bello:

  1. la fitness, intendendo con ciò la complementarietà con l’ambiente circostante, vale a dire che una cosa è più o meno bella a seconda di come si armonizza con ciò che ha intorno e rimanda, a mio avviso, alla piacevolezza di un puzzle che si completa dando l’esperienza del “tutto al suo posto”
  2. la varietà, opposta all’uguaglianza e alla monotonia e ciò forse in relazione al fatto che tutti i nostri organi di senso apprezzano sopratutto le differenze, i cambiamenti, le discontinuità
  3. la regolarità, che mitiga la varietà stessa e trasmette il rassicurante senso di prevedibilità e familiarità, tanto caro soprattutto ai bambini
  4. la semplicità, che consente di afferrare tutto l’oggetto contemporaneamente con un solo atto percettivo. In questa semplicità consiste l’eleganza di teorie e formule matematiche definite appunto belle
  5. complementare seppure apparentemente contradditoria alla semplicità è la intricacy, da intendere come complessità che attiva il desiderio di capire ed il piacere esplorativo
  6. l’ultimo criterio è la grandezza, da intendere come quantità e abbondanza

Tensione. Mi sembra interessante notare nello sforzo di Hogarth come i criteri che identifica siano spesso polarità opposte e ciò mi suggerisce che ad un livello “meta” si possa dire che la bellezza sia essenzialmente una continua tensione tra opposti. Ad esempio, in particolare per quanto riguarda la bellezza femminile si alternano nella storia due opposti modelli: uno è la venere greca che predomina attualmente con fattezze efebiche e adolescenziali; l’altro è la venere paleolitica grassa, con grosso seno e enorme sedere. Nella storia del gusto si alternano modelli tondeggianti (simboli di fertilità) e modelli più sottili e slanciati (tipici dell’adolescenza). 
Le donne di Rubens e di Renoir richiamano certe caratteristiche della Venere paleolitica mentre la Venere del Botticelli si propone come sintesi avendo forme sensuali e slanciate allo stesso tempo. Forse è davvero in questa tensione armonica tra gli opposti che va ricercata l’essenza della bellezza come già sosteneva Eraclito dicendo che “se esistono nell’universo degli opposti, delle realtà che paiono non conciliarsi, come l’unità e la molteplicità, l’amore e l’odio, la pace e la guerra, la calma e il movimento, l’armonia tra questi opposti non si realizzerà annullando uno di essi, ma proprio lasciando vivere entrambi in una tensione continua. L’armonia non è assenza bensì equilibrio di contrasti”.

L’amore dolente. Questa concezione, che pone la sublimità nel contrasto e nella tensione, si è estesa anche ai sentimenti con la concezione dell’amor cortese, che nasce nell’XI° secolo con la poesia dei trovatori provenzali, seguita dai romanzi cavallereschi del ciclo Bretone e dalla poesia degli stilnovisti italiani. 
In tutti questi testi si fa strada una particolare immagine della donna, come oggetto d’amore casto e sublimato, desiderata e irraggiungibile, e spesso desiderata proprio in quanto irraggiungibile. 
Sorge un ideale di bellezza femminile, e di passione amorosa, in cui il desiderio viene amplificato dall’interdizione, la dama alimenta nel cavaliere uno stato permanente di sofferenza, che il cavaliere accetta con gioia, di qui le fantasie di un possesso sempre dilazionato, in cui più la donna è vista come irraggiungibile, più s’alimenta il desiderio. 
Questa concezione dell’amore impossibile, nata nel tardo medioevo, è stata poi amplificata dall’interpretazione romantica, ma si può dire che l'”invenzione” dell’amore-passione (nella sua forma cioè di passione eternamente insoddisfatta, fonte di dolce infelicità) sia nata proprio allora, e da lì abbia colonizzato l’arte moderna, dalla poesia al romanzo, all’opera lirica.

Delle domande iniziali è rimasta ancora fuori quella sull’utilità del senso della bellezza e attenzione perché il solo tentare di rispondervi sembrerebbe contraddire quanto affermato con Kant al punto 7 sull’inutilità della bellezza ma non è così perché stiamo parlando di due livelli logici diversi. Certo l’oggetto bello non serve ad altro, è bello e basta. Ma a cosa ci serve come individui e come specie il senso della bellezza: la capacità di percepirla e di esserne attratti?

Credo che consistendo essa in una valutazione spontanea immediata e complessiva della positività di qualcosa la sequela della bellezza sia la strada maestra verso la vita. Ai giovani potremmo dire “seguite la bellezza e vivrete a lungo felici e contenti e avrete tanti figli (belli)”.

Però Daje!!

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Lettura e Teoria della mente: la narrativa aiuta a comprendere meglio gli altri?

Recentemente Kidd & Castano (2018) hanno condotto diversi esperimenti replicando in parte i metodi e le procedure utilizzati nel loro primo studio (2013) sulla capacità della lettura di libri di narrativa di migliorare la teoria della mente.

 

Recentemente Kidd & Castano (2018) hanno condotto diversi esperimenti replicando in parte i metodi e le procedure utilizzati nel loro primo studio (Kidd & Castano, 2013) sulla capacità della lettura di libri di narrativa di migliorare negli adulti l’abilità di identificare e comprendere i propri e gli altrui stati mentali, trovando, diversamente dal primo studio, risultati misti e non concordi nelle performance del gruppo assegnato alla lettura di narrativa rispetto a quelle del gruppo assegnato a diverse altre letture.

Il nuovo editoriale del mese di settembre di Nature Human Behaviour ha preso lo studio come riferimento per affrontare la spinosa questione della replicabilità di esperimenti in ambito scientifico partendo proprio da questa recente riproposizione del primo studio del 2013 di Kid & Castano, pubblicato su Science.

Lettura e teoria della mente: i risultati sono replicabili?

L’esperimento condotto per la prima volta nel 2013 nacque dall’idea che la narrativa potesse fungere da supporto per lo sviluppo della componente emotiva della teoria della mente, quella legata maggiormente alla capacità di accedere agli stati emotivi propri e altrui e all’instaurazione di relazioni interpersonali emotivamente ed empaticamente coinvolgenti; la narrativa rispetto ad altri generi letterari sembrerebbe ampliare la conoscenza del lettore circa le esistenze e le esperienze di vita altrui, aiutandolo a fare differenze o a notare somiglianze tra esse e le proprie.

In particolare sembrerebbe che la narrativa possa modificare non soltanto cosa il lettore pensa degli altri, ad esempio dei personaggi, ma soprattutto lo possa aiutare a ripensare le modalità attraverso le quali egli fotografa e successivamente comprende i personaggi del libro, i loro stati cognitivi ed emotivi costringendolo a cercare significati, spiegazioni e ad avere sullo stesso oggetto più prospettive e punti di vista (Mar, Oatley et al., 2009).

Il primo esperimento condotto dai ricercatori (Kidd & Castano, 2013) aveva dimostrato questa ipotesi per cui leggere libri di narrativa aiutava il lettore ad ingaggiarsi in processi legati alla teoria della mente, migliorandone le performance in specifici compiti; tuttavia la riproposizione, a distanza di tempo, dello studio non ha evidenziato alcun miglioramento nei compiti di teoria della mente nel gruppo sperimentale impegnato nella lettura di narrativa.

Replicabilità: sono fondamentali metodo e procedura

A quale studio credere?

Gli esperimenti che costituivano la prima pubblicazione erano stati condotti nell’ordine nel quale erano stati poi riportati nell’articolo: l’ipotesi che seguiva il primo esperimento si limitava a voler testare l’idea che la narrativa con la complessità dei suoi personaggi e intrecci avrebbe migliorato i compiti di teoria della mente rispetto a letture più stereotipate e semplici (Kidd & Castano, 2013)

Al contrario, gli esperimenti successivi (Kidd & Castano, 2018) hanno introdotto cambiamenti più raffinati e rigorosi nella metodologia come l’aumento del campione preso in considerazione, la selezione più oculata degli stimoli (le letture), la scelta di far leggere l’intero libro anziché soltanto estratti e l’esclusione dei cosiddetti lettori “inattivi” o poco esperti cioè quelli che impiegavano più di trenta secondi nella lettura di una pagina, rendendo così lo studio recente più attendibile e robusto rispetto al primo.

Quest’ultima “replica” dell’esperimento, seguendo la nuova procedura, non ha di fatto riprodotto i medesimi risultati della prima pubblicazione che pertanto è da non considerarsi più metodologicamente replicabile; tuttavia nonostante i risultati misti prodotti dall’ultimo esperimento, l’ipotesi di partenza per cui la narrativa potrebbe migliorare le performance in compiti di teoria della mente non può essere scartata.

In conclusione, da questo esempio, appare chiaro quanto sia di cruciale importanza il metodo e la procedura utilizzati all’interno di una ricerca scientifica e quanto essi, seguendo specifici criteri, possa assicurarne l’accuratezza e la riproducibilità.

Giaguari invisibili (2018) di Rocco Civitarese – Recensione del libro

Confesso: non sono una appassionata lettrice di narrativa contemporanea, e men che mai italiana. Allora, cosa ho trovato dunque in Giaguari invisibili? In questo volume, non brevissimo, di Rocco Civitarese, un diciottenne liceale di Pavia?

Clara Mucci

 

Ho perfino ignorato tutta la saga della Ferrante, e prima o poi ne pagherò il fio; chi mi conosce bene, e qui farò inorridire molti sapendo che sono stata Ordinaria di Letteratura inglese, sa che detesto leggere romanzi, di ogni epoca, di qualsiasi nazione, classici francesi o russi, minimalisti americani o grandi epopee dell’Ottocento, tutti subiscono la stessa sorte. Con rarissime eccezioni (che posso contare sulla punta delle mie dita). Semplicemente, io non reggo: sarà il respiro troppo lungo che la narrativa richiede, ma io mi annoio, mi sento che solo se fossi a letto malata e con tutto il tempo possibile da riempire potrei forse dedicarmi a questo stillicidio interminabile che per me è la lettura di un romanzo, e, ripeto, non faccio molte distinzioni. Il grande Peter Brook (Reading for the Plot: The Desire for the End) parlava di “senso della fine”, una specie di pulsione di morte, che il romanzo riuscirebbe a ingannare, allontanandolo magicamente, rinviandolo con il passo narrativo. Per me è il contrario, io vi affondo.

Giaguari invisibili: perchè leggerlo

Cosa ho trovato nel libro scritto da Rocco Civitarese, un liceale di fiere origini abruzzesi (la narrativa in Abruzzo tra i contemporanei vanta già un illustre precedente, non diciottenne ma vincitrice di premi rinomati, Donatella Di Pietrantonio), che me lo ha fatto leggere piuttosto d’un fiato, velocemente, allegramente? Direi, credo, innanzitutto il passo, il ritmo: un ritmo realistico e veloce, quotidiano e dinamico, accattivante e gustoso. Non si ha l’impressione di leggere le cose a posteriori, di un racconto a cose fatte; di, appunto, una “narrazione”, cioè la ripetizione logica di una catena di eventi che si snodano nel momento presente riandando al momento passato in cui le cose sono accadute, in cui c’è una catena temporale, lineare, che si dipana, qualcosa a cui si assiste nella migliore delle ipotesi a posteriori (e che per me è insopportabile; spesso di un romanzo se proprio devo leggerlo, leggo un po’ l’inizio, poi la fine, poi pizzico qua e là e decreto di solito la fine del tempo che gli ho attribuito).

In Giaguari invisibili non è così, sembra piuttosto di essere lì in contemporanea, di avere presenti i giovanissimi protagonisti delle varie storie che si intrecciano, di sentirne la voce attraverso i dialoghi serratissimi e costanti, e in più di leggere contemporaneamente nei loro pensieri, di rintracciare doppi sensi interiori, scarti tra le cose dette e le cose fatte, o le aspirazioni, in una modalità che sinceramente la narrativa di solito mi sembra fa fatica a rintracciare; piuttosto sono altre arti a farlo, a ricostruire tutti i piani interiori ed esteriori in contemporanea. Forse direi che Rocco Civitarese ha usato il passo cinematografico di una camera da presa in diretta: mi mancano i termini cinematografici giusti, ma insomma assistiamo in diretta al divenire, sia interno che esterno, sia individuale che collettivo, il più possibile veloce, sentito ed esperito piuttosto che descritto, con in più la presa diretta della voce interiore del protagonista, una sorta di coscienza o Super-io. Faccio un esempio (pp. 28-29), quasi a caso:

La madre di Anna ha agguantato i nipotini, zuppi e contenti nelle loro Crocs trasparenti, e sollecita la figlia a raggiungerla.

–Anna! È tardi, vieni!

–Resto qui a studiare!

La donna protesta e si allontana.

Ora la spiaggia è deserta. Gli ombrelloni sono stati rimossi e i lettini ammassati sotto gli alberi.

Tra il mare e la baia più carina di Camogli sono rimasti solo loro due.

Ma cos’è questa leggerezza che mi secca la gola e mi ridà vita?

La ragazza, cui il solo sta dorando la pelle bruna, si metteva mano a visiera sulle sopracciglia e sgrana gli occhi.

(Ti ho beccato, scappa! Cosa speravi, che le si scoprisse un capezzolo mentre giocava con quei quattro marmocchi? Che si spalmasse i seni con olio abbronzante? Stalker, maniaco, ficcanaso!). Pietro si butta in acqua e si nasconde dietro i frangiflutti. Si aggrappa alle rocce e, trovato uno spiraglio, riprende a guardare la ragazza.
Anna si china e si tocca le dita dei piedi con le mani. I capelli fanno muro davanti alle gambe. Poi si stiracchia, arcua la schiena, culetto indietro e pancia in fuori, e immerge un piede in acqua.

Brrr.

Giaguari invisibili: il corpo e la fisicità

Oltre al senso della sequenza cinematografica con dentro una specie di contemporaneo stream of consciousness, affiora qui un’altra caratteristica di questa scrittura direi fragrante, e lo dico apposta, come si trattasse di pane profumato: è una scrittura-visione che traduce quasi epidermicamente la reazione fisica e sensoriale della scena, con un gusto tutto speciale per il corpo; si potrebbe dire un gusto sessuale e in parte lo è, ma è un gusto per il corpo in sé e per una sensorialità tutta esperita, sentita, provata, non certo solo immaginata. Tanto che vale anche per i piccoli gesti quotidiani per esempio, tra cane e padrone, piccoli tocchi che rendono la sensazione del legame e del momento (p. 259):

Sofia grattò il naso a fragola di Tabù e prese a frugargli nel pelo stopposo. Il cane cacciò fuori la lingua

Sembra di esserci, di vedere la scena, ma anche di essere sia Sofia che il cane Tabù.

“Momenti di essere” (avrebbe detto la nostra illustre Virginia) senza alcuna presunzione o prosopopea, con una leggerezza frizzante, ingenua e quasi pudica nel suo essere esplicita e insieme rivelatrice con complice e accattivante autoironia… una gioiosa messa a nudo di momenti personali e intimi che rivelano un animo, uno spirito, in divenire. Spesso sono quasi tutti i sensi ad essere presenti, predominando il tatto e la vista, o l’immaginazione sensoriale in cui il tatto il gusto e l’odorato fanno la loro parte (p. 71):

Concentrati. Oggi è domenica. Che devi fare?

Prima i cornflakes…

Contrasse gli addominali, fece leva con le braccia e si alzò. Si grattò il sedere e, spalle curve e braccia penzoloni (provavo un gusto ancestrale nell’atteggiarsi, la mattina, a gorilla pieno di pulci), entrò in cucina.

I suoi se la ronfavano. La sorella Sofia, una bambolina di quinta ginnasio, era a casa Pettirosso per un pigiama party organizzato da Debora (pandistelle, reggiseni imbottiti e chiacchiere sui grandi di terza liceo fino alle due di notte! La colazione se la doveva preparare da solo.

… Fuori dalla finestra il sole si spandeva sul fogliame giallo e arancio della flora pavese.

Oppure, ancora a p. 95:

Lo accolsero il calduccio, l’odore delle pizzette appena sfornate e l’intimità di quattro gatti che si sfamano in solitudine.

Giaguari invisibili: entrare nel mondo degli adolescenti

Gli eventi che accadono nel libro di Civitarese sono quelli importantissimi e apparentemente irrilevanti di adolescenti che si affacciano al mondo, tra test d’ingresso da sfangare, concerti, partite di pallacanestro, feste e tutti i rituali sociali non scontati di chi si apre alla vita con l’entusiasmo e la vitalità di chi non ha ancora incontrato le (inevitabili) sconfitte della vita futura, a cominciare da un corpo che invece di farsi più bello e rotondo (come nella descrizione delle ragazze che passano dalla prima adolescenza alla piena adolescenza con i corpi che si arrotondano e gioiscono di come sono) e si fa più brutto e cadente, di speranze che non hanno ancora incontrato il vaglio della fatica quotidiana della resistenza della casualità della malattia, insomma degli eventi di vita.

Sia pure in modo scanzonato, senza prendersi apparentemente sul serio, Giaguari invisibili ha l’incanto di questa prima messa a fuoco di un mondo fatto soprattutto di sensazioni, emozioni fisiche, progetti più o meno chiari per il futuro senza ipocrisie, sotterfugi, colpevoli ritardi, sulla scia di un innamoramento che per il protagonista colora tutto… Che la visione sia nitida e tersa lo si vede dall’occhio che la presa diretta-narrante ha per la natura (p. 93):

la note spazzata dallo zefiro e dell’odore di salsedine lo accompagnò sul lungomare

Per chi si aspettava un mondo dissociato e sballato di internet e droghe o alcol e disturbi di genere o di personalità, o disturbi alimentari come spesso mi sembra la narrativa ritrae i più giovani, questo libro disincantato lo spiazzerà per la sua assenza di grandi vite da sdraiati attaccati al computer, di chiusure generazionali (certo è vero che i genitori dei ragazzi protagonisti non hanno un grande ruolo, e questo forse di per sé è rivelatorio di come veniamo visti, o di come sia irrilevante il mondo degli altri, o dei vecchi). Tranne la pessima figura che ci fa la madre del protagonista, propinatrice di broccoli, non ci sono adulti degni di nota, ma protagonista è proprio il “mondo dei pari”, come si usa dire in gergo per il gruppo dei ragazzi adolescenti che, per gli adolescenti, sono appunto l’unico mondo esistente, insieme agli animali compagni, credo).

Forse questo è un elemento di riflessione per lo spettatore, e mi ricorda il fatto che dopo le grandi traumatizzazioni sociali i gruppi di bambini e adolescenti fanno parte a sé. Ma forse questo è un mio vizio da psicoanalista abituata a leggere gli esiti post-traumatici generazionali anche quando non ci sono, e mi viene del tutto a posteriori, come retrogusto, non certo dalla lettura del romanzo che anzi lascia come sensazione finale la specie di carezza del sorriso del protagonista sognatore e sognante (p. 275, ultime parole del romanzo):

Madonna se era cotto. Pietro fece partire il conto alla rovescia per il prossimo messaggio e si addormentò col sorriso di chi fa finta di dormire mente qualcuno gli accarezza i capelli.

Una lieta sorpresa per la letteratura contemporanea, un certo sollievo per noi adulti credo.

Ecco, direi che forse io non leggo romanzi perché mi piacerebbe assaporarli, e Giaguari invisibili si lascia assaporare. E credo di aver trovato la sensazione di una capacità di immersione nella vita che è ancora colorata da una fertile e gioiosa attesa, come quando la luce dorata del sole del tramonto attraversa le giornate… e invece di alludere alla fine del giorno attuale prelude alla luce della giornata che verrà. E dipende solo dai punti di vista.

 

Leggi anche il booktrailer del romanzo GIAGUARI INVISIBILI

Giaguari invisibili (2018) di Rocco Civitarese – BookTrailer

Giaguari invisibili è il romanzo d’esordio di Rocco Civitarese, edito da Feltrinelli, che narra “una storia di gruppo e anzi di branco, di ragazzi sulle soglie dell’età adulta”, una storia ambientata all’ultimo anno del Liceo…

 

In anteprima per State of Mind, un estratto del libro:

Pietro sciolse due zollette di zucchero nel tè.
Il movimento risalì dal braccio fino al collo e lì una fitta lo spezzò in due.
(Fermo).
Immerse una macina.
La contrazione dell’avambraccio si trasmise di tendine in tendine e lo frustò sotto la mandibola.
(Cosa non ti è chiaro di una spina di branzino che ti trafigge l’esofago?)
Pietro cedette.
Ho una spina in gola.
Aveva diciannove anni, ma il musone e le occhiaie lo facevano sembrare più vecchio. Le punte della frangetta si arrotolavano come fuochi d’artificio a girella e gli occhi erano castani, però d’estate diventavano verdi.
Si ficcò un tozzo di baguette in bocca, poi deglutì per vedere se aveva funzionato.
Brividi dalla radice del mollusco al pomo d’Adamo.
Croste, tisane, beveroni di caffè misto a Red Bull e bi-alcol. Doveva sfilarsi quella spina anche a costo di far staccare le pareti interne dell’esofago come pezzi d’intonaco.
(Sarebbe tempo perso. Vai di là e apri il computer).
Iniziò a bere a piccoli sorsi.
Cinque minuti. Ancora cinque minuti.
Dalla tazza il vapore gli investiva la faccia e la sua pelle, come uno scolapasta, cacciava fuori dai pori grasso, sudiciume e malumore.
Appena finì il tè non ebbe più scuse.
Buttò fuori l’aria e ciabattò fino in camera.
Un tavolo ricoperto da post-it fucsia e giallo limone con su scritto piani di studio, «20.00-21.00: chimica», «22.20-24.00: simulazione», e titoli di libri. Sotto la luce di una lampada vintage, manuali crocettati, moduli d’iscrizione, il Mac Book Air.
(Conta fino a tre, a due apri e guarda il tuo punteggio. Come si fa per rimettere a posto una spalla lussata. Conta fino a tre, a due apri).
Pietro provò a distrarsi… Un sorriso gli increspò le labbra.
Nelle prime e, a conti fatti, uniche settimane di studio, era riuscito a modificare il proprio concetto di divertimento. Passatempo uguale scioglilingua. Scioglilingua uguale definizione. E definizione uguale… I secondi termini dell’ultima uguaglianza abbondavano gialli e sottolineati sulle pagine dei libri che, mentre (test test test) il senso del dovere gli rimbombava in testa spingendolo a prepararsi al test di Medicina come Dio comanda, Pietro aveva divorato, setacciato e mandato a memoria.
Il guscio di valenza è il livello energetico più esterno…
Aveva aperto il computer.
La rivista dell’illuminismo italiano è Il caffè…
Aveva aperto Safari e cliccato sulla graduatoria degli ammessi a Medicina e Chirurgia presso l’Università di Pavia.
(Ti serve il codice della tua prova).
Pietro scorreva con il mouse sulla sfilza dei nomi delle persone entrate nella prima graduatoria.
Giovanni Lorusso… Stefania Masi… Niccolò Manto… Pie…


Pietro!
Si stropicciò gli occhi.
Piero Muso.
Pietro Mazzoccone non era in graduatoria.
Sentì guance, palpebre e labbra sfaldarsi e colare giù.
(Il codice. Non sei tra i primi, ma se hai fatto un buon punteggio entri per scorrimento. Qui la soglia minima è 78).
Tre punti e mezzo in più rispetto al test dell’anno passato.
Con le lacrime che premevano, Pietro si mise a frugare. Cassetto della scrivania, cestino, le tasche delle quattro paia di pantaloni appallottolati per terra.
Controllò se l’aveva usato come segnalibro o per appuntarsi qualche parola di scusa. Il codice non…
(Questa pagliacciata deve finire. Apri il tuo account di posta elettronica).
Pietro si accasciò sulla sedia ed eseguì.
Ecco la mail unipv.
Codice: 22mp617akc5wc6. Copiò, accedette al sito dell’Università e incollò.
Caricamen…
Caricamento in…
Caricamento in corso…
Il trucco della sorpresa fece cilecca e la spina gli trapassò la gola da parte a parte.
51.
Non era possibile.
5-1. Cinquantuno. Meno ventisette dal punteggio minimo.
Lo scorrimento non sarebbe bastato. Pietro aveva fallito il test di Medicina e se ne riparlava l’anno prossimo.
(Cerca di ripercorrere la catena di eventi che ti hanno portato a essere qui, in questo preciso istante, con il fallimento addosso, i tuoi amici chissà dove e un piede nel coma dei prossimi trecentosessantacinque giorni. Pensa, Pietro. Nella successione di casi governata dal principio di causa-effetto, qual è lo stacco? Qual è la scelta, forse, che presa in buona fede con il manuale di sopravvivenza in mano ha invece provocato l’inizio del tuo declino?)
Pietro si stropicciò la confezione di un pocket coffee tra le mani.
L’invito ad abbuffarsi di crostacei e riso nel giapponese di periferia sarebbe dovuto arrivare due giorni fa.
Peggio per loro. Vorrà dire che non mi becco la salmonella.
Gonfiò il petto, trattene il fiato, si protese in avanti…
No. Se controllava sulla graduatoria tra i cognomi che iniziano per p il suo orgoglio avrebbe perso il braccio di ferro con la curiosità.
(… e con Anna. Tieni duro. Vedrai che la Pettirosso salta fuori a bollirti ancora po’).

 

GIAGUARI INVISIBILI – Leggi la recensione del romanzo

XIX Congresso Nazionale SITCC 2018: Migrazione e Psicoterapia, le sfide della Multiculturalità – Report dal Simposio

Sabato 22 settembre 2018, nell’ambito del XIX congresso nazionale SITCC, si è tenuto il simposio “ Migrazione e Psicoterapia: le sfide della Multiculturalità”, con il dott. Maurizio Brasini, didatta della Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC, nel ruolo di chair e la dott.ssa Maria Grazia Foschino Barbaro, Direttore della Scuola di specializzazione in Psicoterpia Cognitiva AIPC di Bari, nel ruolo di discussant. Come già chiaramente si evince dal titolo, il focus è su un tema fino ad oggi poco approfondito dai vari approcci alla psicoterapia

 

Nell’ultimo decennio il fenomeno migratorio in Italia è cresciuto in maniera esponenziale; si pensi che solo nel 2017 si è assistito all’ingresso di circa 15731 minori stranieri non accompagnati (MSNA). In poco tempo, dunque, il nostro Paese si è arricchito di gruppi comunitari provenienti da paesi dell’Europa orientale ed anche di altri continenti, in particolar modo l’Africa, connotati da culture, lingue e religioni eterogenee. Si è imposta la necessità di integrazione in tutti gli ambiti, da quello culturale a quello sociale, e non in ultimo all’interno dei percorsi sanitari.

I diversi contributi presentati al congresso SITCC 2018 sul tema della migrazione

Il primo contributo Trauma complesso e migrazione: i casi di Alioum e Mohamed a confronto” è stato presentato dal Dott. Alberto Barbieri, del Centro MEDU Psychè e della SPC di Grosseto. Partendo dal confronto di due casi, entrambi descritti negli aspetti salienti – funzionamento interno, intervento terapeutico ed esiti di trattamento – ha mostrato come, pur partendo da storie traumatiche per molti versi simili, l’evoluzione psicopatologica abbia seguito traiettorie assai differenti, per tipologia di problematiche, gravità delle stesse ed anche risposta al trattamento. La comparazione dei due casi ha infatti evidenziato come alcuni stili di personalità possano agire da elementi di vulnerabilità per lo sviluppo di un Disturbo da Stress Post traumatico complesso (cPTSD). L’obiettivo è stato dunque quello di dissipare una credenza diffusa, pur basata su limitate fondamenta scientifiche, secondo la quale la gran parte dei migranti esposti a traumi interpersonali estremi e cumulativi, sviluppino inesorabilmente quadri clinici di carattere traumatico. L’esperienza clinica di Medici per i Diritti Umani suggerisce, infatti, diversamente, che solo una minoranza dei migranti sopravvissuti sviluppa sindromi trauma-correlate.

Il secondo contributo, presentato dalla Dott.ssa Antonella Stellacci, psicologa e psicoterapeuta presso il Cara di Bari-Palese, specializzata presso la sede SPC di Ancona, nelle stesse corde del precedente, orienta l’attenzione sulla dimensione della Crescita Post Traumatica: “A forza di essere vento: approcci esplorativi alla Crescita Post traumatica in ambito migratorio”. Benchè gli esiti sulla salute fisica e psicologica determinati dagli eventi traumatici trovino oramai ampia e indiscutibile conferma in letteratura di più ambiti disciplinari, è altrettanto dimostrato che le risposte psicologiche al trauma migratorio non siano esclusivamente negative. Negli ultimi anni è, infatti, in crescita un filone di ricerca volto ad indagare gli aspetti positivi conseguenti all’esposizione al trauma che concorrono alla cosiddetta Crescita Post Traumatica. Alla luce di queste considerazioni, dopo una breve disamina sui principali approcci esplorativi sulla promozione di tale dimensione rivolti ai migranti richiedenti asilo, la dottoressa ha presentato il piano di trattamento integrato del trauma migratorio progettato ed implementato dal proprio gruppo di lavoro. Con efficacia è dunque riuscita a mostrare come gli interventi psicologici positivi possano essere integrati efficacemente con le azioni mirate alla riduzione della sintomatologia e che la Terapia Cognitiva possa giocare un ruolo importante nella promozione della dimensione della Crescita Post Traumatica.

Il terzo contributo, “La cura del Minore Straniero Non Accompagnato”, è stato a cura della dottoressa Leonarda Valentina Vergatti, psicologa psicoterapeuta dell’AIPC di Bari. La parte introduttiva è volta a sostanziare su un piano squisitamente clinico la dimensione di complessità che generalmente grava sui percorsi di cura dei minori migranti. La gestione del disagio psichico in questi minori richiede, infatti, in primis, uno sforzo di integrazione dell’approccio bio-psico-sociale, specifico della cultura occidentale, con quello magico-religioso che prevale in molte culture “altre”. È seguita, dunque, la presentazione di alcune indicazioni metodologiche rilevanti per la strutturazione di un piano di cura del paziente Minore Straniero non Accompagnato e la predisposizione di un setting terapeutico a componente transculturale che gli consenta di sperimentare la protezione e la sicurezza negate nelle precedenti esperienze di vita, altresì la ridefinizione dei modelli operativi di sé e dell’Altro.

In chiusura, il contributo della Dott.ssa Federica Visco-Comandini, psicologa e psicoterapeuta in formazione (SPC di Grosseto), del Centro MEDU Psychè, dal titolo “Trauma complesso e Disturbo da Stress Post Traumatico in un campione di migranti provenienti dall’Africa Subsahariana”. Sono stati presentati i risultati ottenuti dallo studio effettuato su un campione di 36 migranti provenienti dall’Africa Subsahariana esposti a traumi nel proprio paese d’origine o durante il viaggio migratorio. I dati emersi hanno confermato quanto già avevo anticipato il dott. Barbieri nella sua presentazione: circa l’80% dei soggetti ha mostrato una diagnosi di PTSD, solo nella restante parte, una piccola minoranza dunque, è stato diagnostico il Disturbo da Stress Post Traumatico Complesso. Tali dati avvalorano dunque l’ipotesi secondo la quale solo un piccola minoranza dei migranti sviluppa un quadro traumatico complesso e ciò sembra essere in relazione con elementi di vulnerabilità individuale.

Questo simposio ha dunque offerto interessanti spunti di riflessione teorica nell’ambito del tema migrazione e prassi di psicoterapia, raccogliendo al suo interno anche il riferimento ad innovative prassi di intervento da sperimentare nella pratica clinica quotidiana in favore di questa classe di popolazione.

Emozioni: manuale di auto aiuto per conoscere e regolare gli stati emotivi (2018) di Scarinci A. e Brunori G. – Recensione del libro

Buona parte della psicologia moderna negli ultimi decenni ha indirizzato la sua attenzione agli aspetti emotivi della vita psichica. Questo crescente interesse è stato supportato da importanti ricerche in ambito scientifico, per cui oggi siamo in grado di sostenere con certezza che le emozioni giocano uno ruolo di primaria importanza nella salute dell’individuo.

 

Ne sono ben consapevoli Antonio Scarinci e Giovanni Brunori, gli autori del libro Emozioni: manuale di auto aiuto per conoscere e regolare gli stati emotivi, che con il loro lavoro hanno creato un piccolo manuale di “self-help” per aiutare i lettori ad accrescere le loro capacità di regolazione emotiva.

Emozioni: Scarinci e Brunori per il grande pubblico

Emozioni è un libro da leggere attentamente, scritto con un linguaggio semplice anche per chi non è del settore, pieno di esempi pratici, esercizi, test e case report. Gli obiettivi degli autori sono due: uno è quello d’istruire il pubblico su cosa sono le emozioni e il ruolo che esse hanno nella salute psico-fisica; il secondo è quello di equipaggiare il lettore di strumenti pratici volti a sviluppare consapevolezza e capacità di auotoregolazione emotiva.

Nelle primissime pagine Scarinci e Brunori propongono un test molto semplice di valutazione della propria intelligenza emotiva; con questo test il lettore può misurare i progressi che è possibile fare se si seguono tutti gli esercizi che il testo offre.

Emozioni: la struttura del libro

Il libro è suddiviso in 3 parti principali, ognuna delle quali affronta un aspetto diverso. La prima parte descrive in maniera chiara e sintetica cosa sono le emozioni, la loro importanza ed il loro ruolo nella salute. Non mancano in questa sezione riferimenti a gli studi scientifici più accreditati e più importanti in ambito neuroscientifico.

La seconda parte è invece dedicata agli aspetti psicologici e terapeutici legati alle emozioni. Una buona capacità di ascolto dei propri vissuti emotivi è in grado di prevenire tutti quei disturbi che sono associati ad una scarsa capacità di autoregolazione. A sostegno delle tesi esposte gli autori citano numerosi casi riportando esempi che ne facilitano la comprensione.

La terza ed ultima parte di Emozioni contieni gli aspetti pratici che fanno di questo libro un manuale di auto-accrescimento, sono infatti presenti numerosi test ed esercitazioni volte ad accrescere le proprie competenze in termini di intelligenza emotiva. La parte pratica è ben sviluppata ed oltre a fornire un metodo per conoscersi meglio, è anche un valido strumento che il professionista può adottare nella sua pratica clinica.

Nonostante questo libro sia un valido strumento conoscitivo sul tema, appare chiaro che esso non si sostituisce ad un professionista della salute mentale, le cui capacità sono determinanti nel aiutare chi presenta problematiche complesse.

Nel complesso il lavoro dei due autori si presenta come una soluzione semplice, interessante, ben scritta e ben argomentata per chi, professionisti e non, voglia approfondire le implicazioni che una sana vita emotiva può avere nell’ esistenza di ognuno.

 

Dieta in gravidanza: mangiare pesce grasso migliorerebbe lo sviluppo celebrale del neonato

Secondo una ricerca finlandese pubblicata su Pediatric Research, seguire una dieta in gravidanza ricca di pesce grasso contribuirebbe a migliorare lo sviluppo del cervello nonché la vista del nascituro. Questa ricerca inoltre rileva anche l’importanza degli acidi grassi polinsaturi.

 

Dieta in gravidanza: gli effetti sul neonato

Il principale autore dello studio, Kirsi Laitinen, dell’Università di Turku, afferma che la dieta di una madre durante la gravidanza e l’allattamento al seno è la via principale per l’assunzione di preziosi acidi grassi polinsaturi, che diventano disponibili per il feto e agiscono in particolare sul cervello durante quello che può essere considerato un periodo di massimo sviluppo cerebrale.

Tali acidi grassi modellano le cellule nervose, importanti non solo per il cervello, ma anche per l’apparato visivo, in particolare per la retina. Sono anche importanti nel formare le sinapsi, vitali nel trasporto di messaggi tra i neuroni nel sistema nervoso.

I ricercatori hanno analizzato le diete di 56 madri che hanno dovuto tenere un diario alimentare regolare, in cui annotavano ciò che mangiavano durante la gravidanza. Sono stati presi in considerazione altri fattori, tra cui il peso, il livello di zucchero nel sangue, la pressione sanguigna, eventuali abitudini o stili di vita.

Dieta in gravidanza: i benefici di pesce grasso, acidi grassi polinsaturi e vitamine

I bambini sono stati seguiti fino al secondo anno di età e sono stati analizzati i loro apparati visivi.

I risultati hanno mostrato che i bambini le cui madri mangiavano pesce tre o più volte a settimana durante l’ultimo trimestre della gravidanza avevano migliori risultati durante i test visivi, rispetto ai bambini le cui madri non mangiavano pesce oppure ne mangiavano solo due porzioni a settimana.

Litinen sostiene che:

I risultati del nostro studio suggeriscono che il consumo regolare di pesce da parte delle madri durante la gravidanza risulta benefico per lo sviluppo del bambino non ancora nato. Questo può essere attribuibile agli acidi grassi polinsaturi all’interno del pesce, ma anche a altri nutrienti come la vitamina D ed E, anch’essi importanti per lo sviluppo.

Perdita ambigua, perdere un caro pur avendolo vicino: il dolore dei famigliari di persone con demenza

Il termine “perdita ambigua” è stato introdotto da Pauline Boss, e si riferisce ad una perdita che non è chiara, che non ha nessuna risoluzione. La perdita ambigua determina una sofferenza senza sbocco, senza possibilità di chiusura.

 

Perdita ambigua: origine e definizione del costrutto

In origine, il concetto di perdita ambigua venne utilizzato negli studi sulle famiglie dei soldati dispersi in combattimento. Attualmente è possibile individuare e definire due tipi di perdita ambigua. La prima si riferisce a quei casi in cui un individuo è psicologicamente presente nella mente della famiglia ma fisicamente assente, come ad es. una persona scomparsa. Il secondo tipo di perdita ambigua si verifica quando la persona è fisicamente presente ma psicologicamente assente, come nel caso delle persone affette da demenza, da malattie mentali, o abuso di sostanze. Questa ambiguità può generare un senso di impotenza e propensione alla depressione, all’ansia e ai conflitti relazionali: l’ambiguità che caratterizza la malattia rende la persona (caregiver) confusa, incapace di prendere decisioni.

La perdita indefinita scaturisce dalla mancanza di certezza sulla presenza o assenza di una persona e dall’angoscia derivante dalla conseguente costante ricerca di coerenza. Talvolta persino la certezza della morte risulta più accettabile della continuità di un dubbio. La persona si sente defraudata dei rituali simbolici che ordinariamente supportano una perdita evidente. A causa di ciò, la sua esperienza manca di verifica da parte della comunità che la circonda, non esiste quindi condivisione dei propri sentimenti e vissuti.

Perdita ambigua e morte: due dolori riconosciuti diversamente

L’esperienza di perdita ambigua si distingue da quella della morte perché la persona amata vive ancora. Vi è la mancanza di un senso della fine, che è tipica della morte, in cui anche il caregiver sperimenta una perdita graduale. Generalmente, la nostra società non dà alla perdita ambigua lo stesso peso della morte, perché la persona continua a vivere. La perdita ambigua è, invece, significativa e dolorosa.

Nel caso della demenza, i caregiver sono costretti a vivere continuamente la perdita della persona che un tempo conoscevano e amavano, continuando a fornire loro assistenza.

Cognitivamente bloccate, molte persone mettono in atto risposte irrazionali e si comportano come se il congiunto fosse già mancato, oppure arrivano viceversa a negare l’esistenza della malattia stessa, interagendo con la persona come se non esistesse il problema. I caregiver che forniscono assistenza in giovane età, proprio in ragione del fatto che prestano assistenza prematuramente rispetto a quanto si sarebbero aspettati, sperimentano una forma complessa di perdita ambigua: soffrono sia della perdita della persona che amano, sia della perdita della loro identità in relazione alla persona amata. Ogni atto di cura, come somministrare i farmaci o pagare le bollette, ricorda che il loro caro non ha più le facoltà mentali per farlo, e quindi che la persona amata non c’è più. Per molti giovani caregiver, questo può significare un cambiamento trasformativo nella percezione della loro identità all’interno della famiglia. Alcuni caregiver si sentono costretti a venire a patti con una perdita delle loro interazioni “normali” con la persona amata. Alcuni di loro dicono di sentirsi “i genitori” della persona, piuttosto che i figli.

I caregiver delle persone con demenza che affrontano una perdita ambigua possono ricercare un supporto professionale. Uno psicologo in questi casi può valutare il livello di dolore e la capacità di resilienza del caregiver. La terapia può aiutare la persona a trovare un significato, vivere con l’incertezza e ridefinire relazioni e identità. Scoprire la speranza attraverso nuovi piani di vita e sogni può rafforzare la capacità del caregiver di affrontare il futuro.

Disgusto e moralità nel DOC: evidenze sperimentali – Report del Congresso SITCC 2018, Verona

Il simposio sul legame tra disgusto e moralità, organizzato dalla Dott.ssa Luppino (Scuola di Psicoterapia Cognitiva – SPC, Roma) e presentato al convegno SITCC 2018 tenutosi a Verona nei giorni scorsi, presenta quattro lavori che portano prove a favore della stretta relazione tra disgusto fisico e disgusto morale.

 

In generale, il disgusto è stato considerato un’emozione di base che porta il soggetto ad allontanare una sostanza nociva o disgustosa, come feci o vomito, mentre il disgusto morale nello specifico riguarderebbe azioni immorali, come rubare o mentire.

È stato ampiamente dimostrato come il disgusto abbia un ruolo nella fenomenologia di diverse patologie (fobie, disturbi alimentari, disturbi sessuali). In questo simposio i relatori hanno delineato le caratteristiche del disgusto nel Disturbo Ossessivo Compulsivo e i suoi legami non solo con il timore di contaminazione, ma anche con il senso di colpa deontologico, portando dati da studi di neuroimaging e psicofisiologici.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

 

disgusto morale e doc SITCC 2018

 

Cristina Ottaviani (Dipartimento di Psicologia Università di Roma La Sapienza, Laboratorio di Neuroimmagini IRCCS Fondazione Santa Lucia, Roma) ha presentato una relazione dal titolo Mi lavo ossessivamente perché il mio senso di colpa deontologica mi fa sentire disgustato!

Nello studio hanno ipotizzato l’esistenza di una relazione tra il senso di colpa deontologico, i correlati fisiologici del disgusto e comportamenti di lavaggio simil ossessivo-compulsivi. A tal fine hanno confrontato due gruppi di soggetti, ad uno inducevano senso di colpa altruistico, all’altro la colpa deontologica. Successivamente, veniva chiesto loro di lavare un cubo, durante questo compito veniva monitorata la frequenza cardiaca e lo stato emotivo tramite VAS (scale visuo-analogiche). Ciò che hanno osservato è che il senso di colpa deontologico ha correlati psicofisiologici (livelli di Heart Rate Variability) simili all’emozione del disgusto (attivazione del parasimpatico) e si associa ad un aumento dei comportamenti compulsivi (maggiori controlli nel lavaggio del cubo). In seguito al compito di lavaggio si osserva inoltre la riduzione del battito cardiaco, attribuibile alla riduzione del disgusto data dal lavaggio. Questi effetti si sono osservati maggiormente nei soggetti con tendenze ossessive elevate.

Annalisa Bello (Associazione di Psicologia Cognitiva, Lecce) ha presentato il lavoro sperimentale intitolato “Rubber Hand Illusion: an ally against OCD”, nel quale, utilizzando il paradigma dell’illusione della mano di gomma (Rubber Hand Illusion, RHI) hanno ipotizzato che il disgusto fisico e morale potessero influire sulla consapevolezza e sul senso di ownership (i.e. appartenenza).

La mano di gomma utilizzata è stata contaminata da stimoli che evocano sia disgusto fisico (false feci) sia disgusto morale (calco della mano di un pedofilo). È stata misurata anche la frequenza cardiaca. Dai risultati si è dimostrato che il disgusto morale tende ad avere un effetto significativamente diverso da quello fisico, in quanto riduce l’illusione e il senso di appartenenza che generalmente si osserva in tale paradigma. In altre parole, il disgusto morale influisce significativamente sull’illusione percettiva.

Marzia Albanese (Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Roma) ha presentato “Correlati Elettrofisiologici del Disgusto Morale e Fisico”, il cui obiettivo era quello di distinguere i correlati neurofisiologici dei due tipi di disgusto mediante la registrazione dei potenziali eventi correlati (ERP).

Gli autori hanno sviluppato un paradigma sperimentale specifico che prevede la registrazione ERP durante l’osservazione di scenari fisicamente o moralmente disgustosi abbinati a stimoli. I risultati confermano che i correlati elettrofisiologici si mostrano diversi per i due tipi di disgusto.

Infine, Brunetto De Sanctis (Scuola di Psicoterapia Cognitiva – SPC, Roma), con il lavoro “Contro-condizionamento (Cc) e modulazione del disgusto: uno studio pilota su un campione non clinico”, partendo dalla considerazione che l’Esposizione con Prevenzione della Risposta sembra avere maggiore efficacia nella riduzione dell’ansia ma non su quella del disgusto, ha indagato l’efficacia delle tecniche di contro-condizionamento su un campione non clinico.

I soggetti sono stati divisi in tre condizioni (Cc classico vs autoefficacia percepita vs fierezza morale). I soggetti sono stati esposti a stimoli disgustosi e poi controcondizionati con stimoli piacevoli diversi nelle varie condizioni. Gli autori hanno osservato una riduzione dei livelli di disgusto a seguito di contro-condizionamento, in particolare nella condizione di Cc morale.

I risultati degli studi presentati si mostrano interessanti in termini di maggiore comprensione del ruolo del disgusto nel DOC, ma anche di implementazione di tecniche di intervento focalizzate sul disgusto morale, utili per il trattamento di questo disturbo.

La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale (2018) di Davide Sisto – Recensione del libro

La morte si fa social: morte digitale, come scompariamo sui social? Molto prima della rivoluzione digitale, di film come Matrix e di serie tv come Black Mirror, anche i filosofi si sono interrogati sulla gestione della nostra identità di fronte alla possibilità della nostra scomparsa.

 

Una quarantina di anni fa, quindi molto prima della rivoluzione digitale, il filosofo della mente Daniel Dennett proponeva un curioso esperimento mentale, per offrire l’occasione di riflettere su quanto la nostra identità coincida o meno con la nostra memoria, cioè con le informazioni che sono state immagazzinate dal nostro cervello (o dalla nostra anima, o dal nostro hardware, a seconda dei punti di vista).

La morte si fa social: l’esperimento di Dennett

Chi leggeva doveva immaginare di trovarsi solo (o sola) su Marte in una situazione nella quale, per il guasto dell’astronave, non sarebbe stato possibile in nessun caso tornare sulla Terra. O quasi in nessun caso. Così Dennett presentava lo scenario:

Forse però una speranza c’è: nella sezione di trasmissione del veicolo immobilizzato trovi un Teleclone modello IV con le istruzioni per l’uso. Se accendi il televettore, ne sintonizzi il raggio sul ricevitore Teleclone che è sulla Terra ed entri nella cabina di trasmissione, esso, rapido e indolore, smonterà il tuo corpo, lo copierà molecola per molecola e trasmetterà la copia sulla Terra; qui il ricevitore, con i suoi serbatoi ben forniti degli atomi necessari, quasi all’istante, in base alle istruzioni trasmesse, genererà… te! (Dennett, 1981, p. 15)

Il risultato del trasferimento sarebbe stato una persona assolutamente indistinguibile dall’originale, che avrebbe potuto interagire con i propri amici e parenti raccontando le “proprie” avventure proprio come fosse reduce da un puro e semplice ritorno fisico via astronave. Dennett invitava a riflettere sull’identità dell’Io trasferito sulla Terra, frutto della morte del corpo e del sacrificio della persona originale in favore della possibilità di non essere definitivamente perduta per i propri cari. In qualche modo, del resto, la permanenza totale della memoria, del corpo, della personalità avrebbe reso la copia talmente indistinguibile dall’originale da lasciarla (la copia) pensare di essere realmente la persona clonata. E in un certo senso è possibile convincersi che questa identificazione sia legittima. Salvo, meditava Dennett, fino all’invenzione del Teleclone modello V, che avrebbe potuto eseguire la copia senza danneggiare l’originale. In questo caso i due Io avrebbero condiviso la vita fino al momento della duplicazione, ma avrebbero immediatamente cominciato a distinguersi, acquisendo esperienze differenti.

Black Mirror: dopo Dennett, continuiamo a fantasticare sulla nostra identità

Simili esperimenti mentali sono ormai in qualche modo familiari anche a chi non frequenti la filosofia della mente, grazie al successo universale prima della fantascienza cyber-punk, inaugurata da libri come Neuromancer di Alexander Gibson; ma poi soprattutto da film e serie televisive, da Matrix e Strange days fino al vero e proprio caso di Black Mirror. L’idea che l’identità (soprattutto di una persona morta o a rischio di morte) possa essere copiata e possa interagire con altri in un ambiente virtuale o reale fa parte ormai quasi dei luoghi comuni delle sceneggiature a carattere distopico ed è entrata nell’immaginario collettivo.

Di fatto, la progressiva digitalizzazione del nostro mondo rende questo futuro molto più palpabile e vicino di quanto possiamo ritenere di primo acchito. Se la nostra memoria è una parte così sostanziale della nostra identità, l’esistenza di supporti informatici che conservino una parte rilevante dei nostri ricordi rende possibile, da una parte, un’esistenza parallela nella rete: la nostra presenza nei social costruisce una sorta di alter ego, sufficientemente concreto da rendere, per esempio, possibile il furto di identità (una volta che un profilo sia stato hackerato, anche un conoscente stretto può scambiare il ladro per l’originale). D’altra parte, si rende possibile anche una sopravvivenza digitale, che può avere effetti significativi, anche paradossali, sul mondo circostante.

La morte si fa social di Davide Sisto

Il libro La morte si fa social di Davide Sisto esamina le conseguenze che ha sulla cultura della morte la “quarta rivoluzione” (Floridi, 2014), cioè la creazione della cosiddetta infosfera. La morte si fa social ha l’indubbio merito di svolgere il tema tanto sul piano informativo (come esame dell’emergere di nuovi fenomeni); quanto dal punto filosofico (come riflessione sui problemi aperti da tali fenomeni sul tema della morte e su quello correlato della death education).

Il giovane tanatologo parte dalla constatazione che la nostra società ha da molto tempo un rapporto molto difficile con la morte, che in genere viene attivamente cancellata dalle nostre esistenze come un problema non reale. Quando la morte colpisce gli altri viene affrontata con sorpresa, come se non costituisse una possibilità sempre presente nella nostra vita; viene diluita dai neologismi, come succede allorché si dice, per esempio, che qualcuno è stato “stroncato da un male incurabile” (l’espressione “morto di tumore” sarebbe accolta con profondo disagio in una conversazione tra persone cosiddette educate). Paradossalmente, in effetti, si potrebbe osservare che anche i pensatori che hanno tematizzato la questione della mortalità negli ultimi due secoli (gli irrazionalisti come Schopenhauer e Kierkegaard nell’Ottocento e gli esistenzialisti come Heidegger e Sartre nel Novecento) hanno in fondo più esorcizzato la questione della morte che tematizzato il suo significato. Perfino l’identificazione heideggeriana dell’essere umano come “essere-per-la-morte” (Heidegger, 1927) costituisce in fondo – più che una riflessione sulla morte come tale – una premessa per rifondare su nuove basi l’ontologia, cioè l’analisi del significato dell’Essere.

L’esistenza di una vita digitale, accanto a quella fisica, apre scenari nuovi perché si accompagna alla certezza di una morte digitale che non coincide con quella reale.

Il problema filosofico fondamentale implicito nella Digital Death è, quindi, nel ritorno perentorio della morte nel mondo dei vivi: ogni volta che termina un’esistenza psicofisica, unica e mai ripetibile, la sua vita digitale continua a essere attiva in innumerevoli formati e per un tempo incalcolabile (Sisto, 2018, p. 30).

La morte si fa social: ma non è uguale su tutti i social network

“Spettri digitali” si aggirano sul web: se è stato calcolato che sono stati aperti due miliardi di utenze Facebook, dalla sua creazione, si stima anche che cinquanta milioni dei relativi intestatari siano nel frattempo deceduti, nota Sisto nel libro La morte si fa social. Il destino dei loro account costituisce una questione affrontata solo recentemente: una rassegna delle politiche seguite dai diversi social network si trova alle pp. 100-104 del libro e offre di per sé spunti di riflessione. Il team di Facebook, per esempio, quando ha la certezza del decesso, trasforma il profilo in “pagina celebrativa”: la home reciterà “in memoria di X”, e verrà impedita la possibilità di postare a nome del titolare. Twitter blocca completamente l’account. In generale, le scelte assai differenti testimoniano di come il problema sia delicato e complesso.

In assenza di una decisione presa in anticipo dall’utente, comunque, cioè di un “testamento digitale”, è difficile valutare in astratto quale debba essere il destino di un account dopo la morte del suo titolare. L’atteggiamento dei parenti e degli amici può variare. C’è chi preferisce eliminare il profilo dalle proprie amicizie ma anche chi continua a interagire con la pagina come se il titolare fosse ancora vivo (e quindi non gradisce la trasformazione dell’account in pagina celebrativa). Fino ad arrivare al caso limite, citato da Sisto, della madre di un ragazzo defunto che postò per mesi ogni giorno sul suo profilo nuovi contenuti, come se fosse lo stesso ragazzo a farlo, cioè attraverso una completa identificazione con lui.

Sisto osserva opportunamente che ciò che a uno sguardo superficiale potrebbe sembrare solo la fonte di azioni singolari (se non nevrotiche), costituisce invece anche una grande opportunità. I social network possono cambiare il nostro rapporto con la morte, modificando i termini del “diritto alla sopravvivenza”. Proprio la quantità di “memoria” che viene progressivamente immagazzinata nella rete rende possibile mantenere in vita, se non la personalità di ognuno, almeno una sua immagine digitale sufficientemente fedele da offrire conforto per la perdita. Ormai non appare più impossibile il cosiddetto mind-uploading:

il processo che permette di creare una copia perfetta del cervello la quale, caricata su supporti elettronici, eviterà il deperimento organico del corpo (Sisto, 2018, p. 39).

La morte si fa social: molti gli aspetti da definire

Le possibilità offerte dai nuovi mezzi ai fini delle scelte in merito alla sopravvivenza e all’oblio dei dati sono comunque già talmente complesse da lasciar prevedere qualcuno che una professione in procinto di diffondersi potrebbe essere quella del digital death manager (tradotto in italiano nel ben più crudo “becchino virtuale”). Se infatti il “diritto alla sopravvivenza” costituisce un tema di grande interesse, non meno fondamentale può apparire l’opposto “diritto all’oblio”, cioè la possibilità di decidere di vedere dimenticata la propria storia, o almeno quella parte di essa che si voglia cancellare (o, più facilmente nella rete “de-indicizzare”, ovvero sganciate dalla possibilità di essere scovate da un motore di ricerca).

Più o meno nella stessa epoca in cui Dennett ragionava sul Teleclone, Norbert Elias scriveva:

Una delle carenze delle società avanzate si palesa nell’isolamento prematuro – anche se non deliberato – cui sono condannati i morenti. Questo isolamento testimonia quanto siano limitate le capacità degli individui di identificarsi gli uni con gli altri (Elias, 1982, p. 20).

Il fenomeno della diffusione dei social network ha sicuramente cambiato lo scenario. Il mondo iper-connesso offre al morente la possibilità di non essere confinato in uno spazio solitario. Se questo però coincida anche con una maggiore empatia collettiva è un problema che meriterebbe ulteriore approfondita riflessione, questa volta anche da parte degli psicologi.

Psicoanalisti in seduta. Glossario clinico di Psicoanalisi contemporanea (2018) A cura di L. Danon-Boileau, J. Tamet e R. Galiani – Recensione

Psicoanalisti in seduta. Glossario clinico di Psicoanalisi contemporanea, a cura di Laurent Danon-Boileau, Jean-Yves Tamet e Riccardo Galiani, rispettivamente appartenenti alla Società Psicoanalitica di Parigi, all’Associazione Psicoanalitica Francese e alla Società Psicoanalitica Italiana, è un esteso e importante lavoro che, nella forma del glossario clinico, raccoglie vocaboli, espressioni e intuizioni che guidano il lavoro psicoanalitico.

 

I sedici capitoli di cui si compone, distinti nelle due macro sezioni Lo spazio della seduta e Lo spazio della psiche, accolgono i contributi di più di cinquanta autori che, con prospettive diverse e inscritti nel panorama psicoanalitico, si occupano di trasportare il lettore in quel moto che li vede oscillare dalla clinica alla teoria quando sono in seduta. A questo scopo, per ogni voce illustrata, gli autori si servono di un frammento clinico che consente di rendere traducibile in una costruzione teorica, con i limiti riconosciuti, la processualità della seduta e di rintracciare, pur nella diversità di orizzonti, il presentarsi di un’impasse che si rivela utile a far evolvere il lavoro psicoanalitico.

Nello scenario offerto, che si propone di descrivere in chiave contemporanea il lavoro compiuto da analista e paziente, chiarendone le condizioni indispensabili al suo sviluppo (setting e transfert di base), il lettore si fa spettatore del dispiegarsi imprevedibile, affascinante e apparentemente incomprensibile nesso che tra passato e presente viene a costruirsi nello spazio della seduta.

In altri termini, egli assiste al modo in cui “uno scatto verbale involontario”, il ricorso agli avverbi, ai motti di spirito, il fluire delle associazioni, ricordi e sensazioni, analogie e comportamenti violenti, nella veglia e nei sogni, acquistano senso attraverso il contributo di ciascun membro della coppia analitica.

La rappresentazione che viene a delinearsi del lavoro interpretativo segnala il compito tutt’altro che semplice dell’analista e le condizioni in cui l’interpretazione può essere sfavorevole. In sostanza, un’idea della possibilità di invalidare la funzione interpretativa è contenuta in queste parole:

L’analista si trova così di fronte a un aspetto del funzionamento del paziente ma, se tenta di mostrarglielo direttamente, si ritrova nella posizione di un traslocatore che prende un mobile per spostarlo da un posto ad un altro

(Parsons, 2018, p.65). Vale a dire che quello a cui è chiamato è un procedere fluttuante – che non può che avvenire nel transfert – tra il meno esplicito e il più esplicito contributo che può fornire, in relazione al paziente e ai diversi momenti della cura.

Psicoanalisti in seduta tra transfert e controtransfert

A questo scopo, immerso nelle correnti transferali e controtransferali, egli si serve di due condizioni essenziali come la rêverie e la capacità negativa, ma anche della, meno indagata, qualità del suo investimento nei confronti del paziente. In questo modo di procedere, in cui si abbandona alle immagini, resta fiducioso nell’incertezza e ascolta i propri movimenti interni, l’analista conserva anche l’attenzione sul quadro e sugli effetti di un suo possibile cambiamento.

È nel dialogo continuo tra teoria e prassi che si dispiega nel testo Psicoanalisti in seduta un itinerario che, supportato anche dalla dimensione artistica, s’impegna a fornire al lettore una narrazione dapprima riservata allo spazio della seduta, poi alla dimensione intrapsichica del paziente.

Nel percorrerlo egli si trova, ad un certo punto, dinanzi ad “agonie primitive”, stati regressivi, condizioni traumatiche, pulsioni sessuali e aggressive, stati melanconici, “contratti narcisistici”, separazioni difficili, imago genitoriali negative, relazioni incestuali o triangolate impossibili dalle quali il paziente si protegge con un corredo di difese più o meno primitivo.

In queste situazioni, che il più delle volte svelano un funzionamento borderline nel paziente, egli scopre un analista alle prese con quei processi che, in contrasto con la funzione analitica, ne minano la prosecuzione.

In altri termini, il lavoro analitico viene turbato dai comportamenti del paziente tesi a evitare il pericolo proveniente dal pensiero associativo, d’indifferenza verso il mondo interno, rabbia nei confronti dell’analista che incarna oggetti del passato, come pure da “reazioni terapeutiche negative” che si oppongono alla guarigione.

Se da una parte la processualità analitica mostra le difficoltà che possono comparire nel corso della cura e i tentativi consapevoli e non dello psicoanalista di farvi fronte, con la stessa chiarezza essa non manca di rivelare i momenti evolutivi in cui l’intuizione facilita nel paziente un’acquisizione di senso rispetto ai suoi movimenti interni.

Stare fiduciosamente nel “va e vieni” dalla clinica alla teoria, è ciò che consente di tenere d’occhio i processi, le dinamiche, le difese di ciascun membro della coppia analitica, nonché l’esperienza asimmetrica e intersoggettiva co-costruita.

Di fatto, quando l’attenzione si sposta sulla relazione tra analista e paziente, essa consente di scorgere un processo in divenire nato proprio dal loro incontro. Accade allora che, come fa notare Fiamma Vassallo (2018),

Non c’è una verità da scoprire sul paziente, ma da costruire sulla relazione delle due menti in seduta, su quanto si genera nel campo che esse co-costruiscono (p. 315).

Per di più, laddove il vertice di osservazione si allarga al rapporto tra cultura e cura, la riflessione raggiunge sentieri, forse, poco esplorati, e diviene possibile riconoscere l’esistenza di effetti ambivalenti nel riferimento culturale comune tra paziente e analista, come pure il lavoro compiuto dalla psicoanalisi non solo sul singolo, ma anche sulla civiltà.

Psicoanalisti in seduta: ricchezza di riflessioni

Per concludere, il testo Psicoanalisti in seduta, così strutturato e rispondente alla volontà di rappresentare l’evoluzione del sapere psicoanalitico, si presta alla consultazione di quanti, a mio avviso, addetti ai lavori, siano interessati a conoscere e/o approfondire i concetti che guidano oggi il lavoro psicoanalitico, i differenti approcci al materiale clinico e le corrispondenze, seppur meno indagate, comunque esistenti tra di essi. Più nel dettaglio, i suoi contributi affrontano il lavoro psicoanalitico alla luce degli apporti dei più importanti esponenti del panorama psicoanalitico del passato e contemporanei e aprono numerosi spazi di riflessioni sulle sfide poste dal lavoro con il paziente e le necessarie trasformazioni che attraversano la pratica psicoanalitica e l’identità personale e professionale di ciascun analista. Infatti, molti dei concetti e delle intuizioni qui contenute rappresentano proprio il prodotto di questo banco di prova; un avanzamento creativo e in costante trasformazione che ha dato un nome a fenomeni complessi, come “empatia psicoanalitica” e ha promosso, negli ultimi tempi e con maggiore impatto, un doveroso interrogarsi sui vissuti dello “psicoanalista ferito” nel corpo e sul ruolo della self-revelation e della self-disclosure in momenti talmente delicati del processo di cura.

Un’auspicabile e costante curiosità dovrebbe animare la lettura del libro Psicoanalisti in seduta, al fine di poter cogliere le prospettive che da esso si dipanano sul campo vasto e complesso che esplora e non smarrirsi nella densità di contributi che propone.

Felicità: una nuova ricerca svela come essere felici più a lungo

Un gruppo di ricercatori dell’Università del Minnesota e della Texas A&M University hanno condotto una ricerca con lo scopo di comprendere come gli obiettivi che ci prefiggiamo influiscano sulla felicità.

 

Chi di noi non vorrebbe che la felicità che proviamo in alcuni momenti della nostra vita durasse per sempre? Molti studiosi si sono occupati dell’argomento.

Felicità e obiettivi smart

In letteratura è stato dimostrato che per stare bene bisogna porsi obiettivi specifici, concreti e facili da misurare. Secondo gli autori dello studio, però, questo non sempre è vero. In determinati ambiti, come il lavoro o l’esercizio fisico, avere un approccio simile permette di raggiungere più facilmente ciò che si desidera, ma quando si tratta della nostra felicità la situazione cambia.

Gli autori sostengono che quando lo scopo è essere felici, potrebbe essere più utile avere obbiettivi più ampi, più generali, perché permetterebbero ad un individuo di essere più aperto e di sperimentare diverse emozioni positive.

Ad esempio, guardare un film con il solo obiettivo di provare emozioni forti, fa passare in secondo piano altri elementi altrettanto importanti come il significato o le scene divertenti.

Gli autori della ricerca, dunque, hanno ipotizzato che persone con obiettivi più generali avrebbero sia provato un range più ampio di emozioni, sia avrebbero sperimentato una felicità più duratura.

Felicità: dura in base a come formuliamo gli obiettivi

Quest’emozione è stata studiata in relazione ai comportamenti di consumo, perciò nell’esperimento è stato chiesto ai partecipanti di descrivere gli obiettivi di un acquisto appena effettuato. Le descrizioni emerse sono principalmente tre, delle quali solo la prima con un obiettivo generale:

  1. Aumentare il livello di gioia e felicità nella vita
  2. Diventare più felici cercando di aumentare le proprie emozioni
  3. Diventare più felici cercando di rilassarsi

In seguito, i partecipanti hanno risposto a delle domande circa il livello di felicità sperimentato, a distanza di diversi intervalli di tempo: subito dopo l’acquisto e dopo due e sei settimane dall’acquisto.

È emerso che, sebbene i livelli di felicità fossero uguali per tutti subito dopo l’acquisto, solo le persone che perseguivano l’obiettivo più generale, “aumentare il livello di gioia e felicità nella vita”, riportavano più felicità con il passare del tempo.

Secondo l’autore Ahluwalia le persone possono scegliere la quantità di felicità che vogliono ottenere da un determinato evento. Gli obiettivi generali permettono di far durare più a lungo le emozioni positive che derivano da un’esperienza, che può essere non solo l’acquisto di un vestito ma anche andare in vacanza, o ascoltare della musica.

Nonostante siano necessari ulteriori studi, secondo l’autore, questi risultati aiutano a comprendere come basti un piccolo cambiamento nel modo in cui formuliamo i nostri obiettivi, per avere una felicità più duratura.

Ascoltarsi e ascoltare: la persona al centro della propria vita – Giornata Nazionale della Psicologia 2018

Giornata Nazionale della Psicologia 2018

Ascoltarsi e ascoltare: la persona al centro della propria vita

 

Il 10 ottobre 2018 si celebrerà la terza edizione della Giornata Nazionale della Psicologia, dedicata quest’anno al tema Ascoltarsi e ascoltare: la persona al centro della propria vita, evento promosso dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e patrocinato dal Ministero della Salute. Per tutta la settimana che include tale data, sono previste iniziative organizzate dalla comunità professionale degli psicologi italiani su tutto il territorio nazionale, con l’obiettivo di informare i cittadini su temi di pertinenza psicologica e di sensibilizzare rispetto alle potenzialità di questa scienza nel promuovere il cambiamento e il benessere psicofisico, migliorando la qualità di vita delle persone.

La Giornata Nazionale della Psicologia coincide, e non a caso, con la Giornata Mondiale della Salute Mentale; espressione, quella di Salute Mentale, che identifica secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità:

Uno stato di benessere in cui ogni individuo realizza il proprio potenziale, è in grado di far fronte agli eventi stressanti della vita, è in grado di lavorare in modo produttivo e fruttuoso ed è in grado di fornire un contributo alla comunità.

La tutela della dimensione psichica della salute è una conquista fondamentale ma recente da parte della società e delle istituzioni; in Italia, a partire dalla rivoluzionaria Legge Basaglia del 1978 e successivamente attraverso i due Progetti Obiettivo del 1994 e 1999, si è solo gradualmente passati da un’assistenza mirata non solo alla cura e alla diagnosi di malattia, quanto piuttosto orientata alla tutela e alla promozione della salute anche nelle sue componenti di ordine psicologico (sociali, relazionali e comportamentali). Una tendenza riconosciuta dai nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (gli interventi ritenuti indispensabili e utili per la salute e che Stato e Regioni s’impegnano a garantire) del 2017, che sanciscono l’importanza di usare la psicologia per intervenire efficacemente in termini preventivi, per impedire che il disagio divenga malattia, per promuovere le risorse delle persone e dei contesti.

Tutto ciò considerato, è dunque rilevante analizzare il dato riportato dal rapporto OsMed pubblicato a settembre dall’AIFA relativo al consumo di farmaci in Italia nel 2017, secondo cui è stato rilevato un aumento considerevole, dell’8%, del consumo di una classe di psicofarmaci con proprietà ansiolitiche, sedative e miorilassanti (le benzodiazepine), consumo che addirittura rappresenta la prima voce di spesa fra i farmaci di classe C (a carico del cittadino) per una spesa di 348 milioni di euro.

Un aspetto interessante riguarda le differenze regionali nella prescrizione di questi psicofarmaci: il loro utilizzo è più diffuso al Nord, e in particolare la Liguria è la regione con più prescrizioni, con 74,9 DDD/1000ab die (dosi al giorno per 1000 abitanti), mentre tutto il centro sud mostra una prevalenza inferiore alla media nazionale (47.9 DDD/1000ab die). Un dato da non sottovalutare e che necessiterebbe di ulteriori approfondimenti, nella possibilità che possa rappresentare l’indice sia di un aumento dei livelli di stress e disagio psichico nella popolazione che, contemporaneamente, di una tendenza ad affrontare e gestire la sofferenza psichica e l’instaurarsi di una sintomatologia in termini “anestetizzanti” e caratterizzati da immediatezza, attraverso l’assunzione di farmaci che, sebbene di grande aiuto, possono determinare problematiche legate a dipendenza e assuefazione, ma soprattutto dimostrano un’efficacia longitudinale limitata quando il loro uso non è affiancato da un intervento psicologico.

È in questo panorama che il tema della Giornata Nazionale della Psicologia di quest’anno, Ascoltarsi e ascoltare: la persona al centro della propria vita, assume significato e rilevanza: ascolto inteso dunque come opportunità per riportare l’attenzione verso i segnali del proprio corpo e della propria mente, per dar loro, e quindi a se stessi, spazio e legittimità, invece di negazione o evitamento. Ascoltarsi, quindi, in un contesto, quello della psicologia, in cui l’ascolto è anche strumento per conoscere, in un’ottica di aiuto e d’intervento mirato al cambiamento, al perseguimento di una rinnovata progettualità e maggiore benessere.

La Giornata Nazionale della Psicologia è dunque un’occasione per far conoscere le potenzialità della Psicologia, fornendo opportunità d’incontro tra professionisti e cittadini. Sul sito web dell’Ordine Nazionale degli Psicologi è possibile consultare le iniziative organizzate nelle diverse regioni italiane. Fra queste vi è la proposta Studi Aperti, in cui sarà possibile confrontarsi con psicologi e psicoterapeuti su temi riguardanti le difficoltà che possono necessitare di uno spazio d’ascolto. Gli interessati potranno inoltre ricevere informazioni sull’offerta terapeutica validata ed efficace rispetto ai problemi proposti.

 

ASCOLTARSI E ASCOLTARE – Scopri gli eventi:

 

 

 

Disturbo da Stress Post Traumatico: due tipologie a confronto

Nel DSM 5 il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) è definito dalla coesistenza di 4 cluster sintomatologici. Un importante articolo del 2010 ha individuato delle sotto-catagorie di PTSD e da allora si è aperto il dibattito.

 

Ecco i cluster sintomatologici che definiscono il PTSD secoondo il DSM 5

  • Riesperienza (pensieri intrusivi, flashbacks, incubi)
  • Evitamento (deficit di memoria, senso di distacco, tentativo di evitare il pensiero di luoghi o di persone associati al trauma, rinuncia alla socializzazione
  • Alterazioni negative (umore, memoria, cognizione)
  • Ipereccitabilità (tendenza a trasalire, ipervigilanza, irritabilità, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione)

Disturbo da Stress Post Traumatico: le sottocategorie individuate da Lanius e collaboratori nel 2010

Nell’articolo scritto da Lanius e altri collaboratori, del 2010 e pubblicato sull’American Journal of Psychiatry, viene profilata una sotto-categoria di Disturbo da Stress Post Traumatico a partire da uno studio di neuroimaging tramite fMRI effettuato su pazienti affetti da PTSD.

In questo studio si osservano differenti attivazioni di zone coinvolte nella gestione della memoria traumatica che sembravano rispondere a diversi “stili” di PTSD: con e senza sintomi dissociativi invalidanti. Questo ha permesso agli autori di ipotizzare l’esistenza di una sotto-categoria del PTSD (quella dissociativa), che in termini clinici rappresenterebbe un elemento importante per effettuare diagnosi differenziali.

Inoltre, gli attuali sviluppi relativi al Disturbo da Stress Post Traumatico che si rifanno alla teoria polivagale di Porges, sembrano corroborare la tesi che esistano diverse tipologie di risposte a delineare, come in questo articolo è sostenuto, due tipologie diverse di PTSD:

  • quella “classica”, con i sintomi da PTSD canonici (iper-arousal e pensieri intrusivi ricorrenti), osservata su soggetti meno “inibiti” dall’effetto modulatore della corteccia prefrontale (“emotional undermodulation”)
  • quella “dissociativa”, osservata nei pazienti con maggiore inibizione limbica: in questo caso si osservava un “collassare” delle competenze cognitive, insieme ad una generale impressione di “ipoarousal”. Gli autori parlano in questo caso della dissociazione come di una strategia estrema di coping: “gli autori suggeriscono che questi dati vadano a supportare la teoria che la dissociazione sia una strategia di regolazione invocata per far fronte a un arousal estremo nel PTSD, ottenuto attraverso l’iperinibizione delle regioni limbiche -e che questa strategia di fronteggiamento sia più attiva durante un vissuto cosciente di minaccia”

PTSD: le diverse tipologie dal punto di vista neuroanatomico

In senso neuroanatomico, si è osservato in queste due modalità distinte di gestione del Disturbo da Stress Post Traumatico, una differente attivazione delle aree cerebrali che avrebbero modulato l’attivazione limbica in caso di minaccia:

  • nel PTSD non dissociativo, vi sarebbe stata una sotto-inibizione della fisiologica risposta limbica al senso di minaccia (e da qui il riproporsi del ricordo traumatico altamente intrusivo);
  • nel caso invece del sottotipo dissociativo, vi sarebbe stata una iper-inibizione della risposta limbica (e la risposta dissociativa come diretta conseguenza, con tutti i crolli cognitivi associati -memoria, attenzione, etc.).

Gli autori propongono un modello che vede diversi livelli di gravità del Disturbo da Stress Post Traumatico: Lanius, autrice del volume La cura del sé traumatizzato, è d’accordo sul pensare che esista una sorta di meccanismo a “dente di sega” per cui uno stimolo traumatico viene elaborato fino a quando è possibile: il cervello se ne fa carico, ma oltre una certa soglia, vi sarebbe un collasso difensivo (come si osserva nei casi più gravi di PTSD), mediato dall’intervento “regolativo” della corteccia prefrontale:

The corticolimbic inhibition model postulates that once a threshold of anxiety is reached, the medial prefrontal cortex inhibits emotional processing in limbic structures (the amygdala), which in turn leads to a dampening of sympathetic output and reduced emotional experiencing

In questo articolo, inoltre, vengono citati moltissimi altri lavori in cui viene delineata la presenza di due tipologie distinte di Disturbo da Stress Post Traumatico, con un funzionamento simile a quello descritto, che andrebbero a supportare l’ipotesi iniziale.

PTSD: i trattamenti d’elezione delle diverse tipologie

Per quanto riguarda il tipo non-dissociativo di Disturbo da Stress Post Traumatico, in questo articolo viene raccomandato un utilizzo prudente della terapia espositiva (verso una desensibilizzazione al ricordo del trauma). Per quanto riguarda il tipo dissociativo di PTSD, la questione si fa più complessa perchè il quadro dissociativo inibisce, tra le altre cose, la possibilità di apprendere dall’esperienza secondo un modello classico di condizionamento classico (che è il cuore della terapia espositiva). Gli autori ritengono più utile in questo caso rifarsi al modello “tri-fasico” usato in ambito di psicotraumatologia.

 

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