expand_lessAPRI WIDGET

La fallacia delle autovalutazioni e l’autocaratterizzazione – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 47

Alcuni affermano con certezza e malcelato orgoglio di avere una soglia del dolore molto alta, intendendo con ciò che resistono bene al dolore e sottintendendo che se si lamentano allora deve essere proprio molto intenso se non insopportabile. 

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La fallacia delle autovalutazioni e l’autocaratterizzazione (Nr. 47)

 

La questione sarebbe davvero di poco conto se le riflessioni che suscita non fossero estendibili a tutto ciò che uno può dire di sé non fondandosi su dati oggettivi di raffronto con un campione omogeneo ma sulla comparazione di presunti vissuti soggettivi.

Quando affermo che ho una soglia del dolore molto alta è perché valuto molto forte quel dolore che provo e riesco a tollerare, e non è forse questo l’indicatore di una bassa soglia del dolore? Insomma l’“io” soggetto che valuta che il “me” oggetto ha una alta soglia del dolore è solo perché lui ce l’ha molto bassa.

È il solito discorso per cui qualsiasi valutazione su se stessi, considerato che il soggetto è allo stesso tempo un “io” valutatore ed un “me” valutato, ci dice poco di oggettivo sul “me” e molto sull’“io” valutatore.

Un altro esempio viene dalla mia personale esperienza di direttore di una struttura con trecento psicoperatori che ogni anno deve valutare con l’ausilio dei suoi collaboratori ciascun dipendente. Regolarmente i migliori a cui venivano attribuiti dei riconoscimenti li reputavano sinceramente immeritati avendo, a loro parere, fatto solo il loro dovere e neppure sempre al meglio. Al contrario quelli che meno si impegnavano sul lavoro ritenevano di meritare premi essendosi sforzati all’inverosimile. Anche in questo caso tutto ciò è comprensibile. Un buon lavoratore ha alti standard, si valuta da quel punto di vista e si ritiene appena sufficiente. Al contrario uno sfaticato pensa che lo stipendio sia un diritto acquisito per il fatto di essere stato assunto e null’altro debba fare, talvolta neppure essere presente affidando ad altri il proprio cartellino segna presenze.

Ancora, un vero narcisista pensa di essere incredibilmente modesto rispetto alle sue potenzialità e una personalità ossessiva può percepirsi come tendente alla sciatteria.

Attenzione questo non è un invito a diffidare sistematicamente delle affermazioni che una persona ed anche un paziente fa su di sé. Ci dicono molto di lui soprattutto se poniamo l’attenzione sul punto di vista dal quale tale affermazione è fatta (per capirci sull’“io” che la fa, sul descrittore piuttosto che sul “me” che è descritto).

Quanto detto dunque non è in contraddizione con l’invito del cognitivismo ad ascoltare e prendere per buono quanto ci dice il paziente, piuttosto che spiegarcelo con le nostre teorie giustificando il suo disaccordo come una resistenza confermante la nostra ipotesi. Al contrario si tratta di ascoltarlo molto attentamente chiedendosi e chiedendogli rispetto all’affermazione che fa su di sé (sono fragile, sono generoso, sono coraggioso, ecc ecc.):

Da quale punto di vista fa questa affermazione?
A cosa gli è utile pensarsi così?
A cosa gli serve dire a me che si pensa così?

Dunque di fronte a quello strumento duttile, semplice e poco impegnativo che è l’autocaratterizzazione dobbiamo ricordarci che non è “come il paziente è” ma, in parte “come il paziente crede di essere” e soprattutto “come il paziente vuole che io creda che lui si vede”.

Tralascio il caso particolare di coloro che esordiscono con “perché io sono sincero, dico sempre ciò che penso in ogni occasione, senza peli sulla lingua” che mi accendono la scala “L” del mio interno MMPI, mi sollecitano regolarmente a rispondere con un “Io invece tendo sistematicamente a mentire e a cambiare versione a seconda del contesto e delle convenienze” e soprattutto mi fanno partire con violenza il ginocchio destro in avanti con destinazione testicolare.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Le lacrime di Nietzsche (2006) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

Le lacrime di Nietzsche di Yalom è stato una conferma. Senza dubbio. Narrazione affascinante, ritmo incalzante, stesura fluida. Niente da dire. Ma quando una fredda mattina di settembre ho concluso la lettura di questo libro non ho potuto fare a meno di provare una emozione strana.

 

Ho già avuto modo di leggere Yalom. Ho letto La cura Shopenahuer, Il dono della terapia ed ora Le lacrime di Nietzsche.

Mi sono sentita “sospesa”. Nel monitorare quello che sentivo ho rintracciato la tristezza, la mia, quella di Breuer e Nietzsche, ed un senso misterioso di speranza ed appagamento.

Le lacrime descritte non appartengono soltanto a Nietzsche ma ad ogni essere umano che si confronta con il dolore ed il dispiacere della realtà terrena, che a volte è magica e speciale ma altre volte cruda e terrorizzante. Anche Breuer, dopo un viaggio guidato nella sua mente, comprende la pienezza di quello che ha nella sua vita, mentre prima se ne sentiva appesantito: accettandone i limiti riconosce di non volere altro, di non volere più quello che credeva di volere.

Le lacrime di Nietzsche: Nietzsche e Breuer in psicoanalisi in incognito

Non potendo svelare i dettagli di questo incontro, per non anticipare troppo ai lettori, mi limito a descrivere in linee generali quello che accade.

Josef Breuer, il medico del momento, uno psichiatra che ha in cura nomi illustri viennesi, incontra Lou Salomé, una donna bellissima e affascinante che gli chiede di aiutare il suo amico Nietzsche, entrato in una profonda crisi. Il tutto, senza che quest’ultimo se ne possa rendere conto. Cosa ardua, direte. Effettivamente come si fa a curare una persona senza che questa capisca di essere un paziente in terapia? L’enigma viene risolto in modo eccellente da Breuer ed i due iniziano a scambiarsi spesso e volentieri il ruolo di paziente e terapeuta in un clima molto simile a quello che è un setting terapeutico come lo intendiamo oggi.

In Le lacrime di Nietzsche si legge anche di tecnica, di ipnosi, dell’attenzione alla relazione che noi oggi chiamiamo terapeutica. Loro parlano di “spazzare il camino” per riferirsi alle libere associazioni, parlano di tecniche comportamentali e anti-ruminatorie che troviamo nei protocolli cognitivo-comportamentlai del DOC, come la dilazione, l’esposizione con prevenzione della risposta e poi troviamo, in un modo molto grezzo e approssimativo, un accenno a quello che si intende per “narrazione vs teoria”. Breuer, infatti, scrive:

…le vostre parole sono cariche di bellezza ed efficacia, tuttavia, quando me le leggete, non mi pare che tra noi esista un rapporto personale. Il senso di ciò che dite lo capisco dal punto di vista intellettuale…ma per potermi aiutare tutto questo deve arrivare dove ha le sue radici…altrimenti non avverto nessuna crescita, non genera alcuna stella danzante! Ho unicamente confusione e caos.

In questo stralcio Breuer invita Nietzsche ad entrare nello specifico di un momento di vita ben preciso, in modo da poterne osservare insieme i dettagli piuttosto che perdersi in un racconto globale e fattuale.

In modo molto velato, questo introduce i due in una dimensione relazionale improntata alla condivisione e tale dimensione segna il punto di inizio di una esperienza in cui entrambi si aprono all’altro, al punto di risolvere alcuni sintomi che li affliggevano.

Le lacrime di Nietzsche: un dipinto sulla cura del parlare

Quella che loro chiamano “la cura del parlare” ha i suoi frutti soltanto in una relazione in cui uno sente di spostare determinate cose nella mente dell’altro e soltanto in questa modalità si realizza una conoscenza che lascia spazio agli aspetti emotivi. Proprio queste considerazioni, sperimentate realmente, fanno sì che i due si rendano conto di essere davvero paziente e terapeuta e non più solo per gioco.

È molto interessante la vicenda che riguarda Bertha Pappenheim e Breuer, che si innamora della giovane isterica passata alla storia come Anna O. A tal proposito compare la figura di Freud, come amico e confidente del professore viennese, con cui scrisse “Studi sull’isteria” in cui descrissero proprio il caso di Anna O. L’eccessiva attenzione di Breuer verso la giovane donna fu causa della crisi matrimoniale con Mathilde, evento abbondantemente conosciuto nella biografia del dottore. Allo stesso tempo, vengono sviscerate le vicissitudini che vedono Nietzsche impegnato in un rapporto pseudo-sentimentale con Lou Salomé ed il loro amico Paul Rée.

A tal proposito, l’attendibilità storica delle vicende è discutibile. Certamente alcune informazioni storico-culturali sono vere, come ad esempio il fatto che la relazione tra Nietzsche e Lou Salomé era contrastata dalla sorella di lui, Elisabeth, e che fu questo a dare avvio alla profonda depressione, con tendenze suicide, del filosofo. Di lui si parla spesso degli atroci attacchi di emicrania, che lo costrinsero a girare l’Europa alla ricerca di un trattamento efficace. Yalom sottolinea che nel 1882 la psicoanalisi ancora non era nata ma crede profondamente che Nietzsche fosse molto indirizzato allo studio dell’io e alle turbe della personalità. Per il resto, Breuer e Nietzsche non si sono mai realmente incontrati. Altri personaggi, però, sono davvero esistiti, pochi sono frutto di fantasia. Inoltre leggiamo di un backgroud storico culturale ben preciso, con le ideologie del momento. Le lacrime di Nietzsche è ambientato nel 1882, Nietzsche non aveva ancora scritto “Così parlò Zarathustra” ma Yalom lo ha più volte citato in quanto credeva che il filosofo avesse già delineato le linee di tale progetto nella sua mente.

Le lacrime di Nietzsche: perchè leggerlo

Oltre alla narrazione della storia principale, nel testo Le lacrime di Nietzsche ci sono delle lettere, alcune vere, tra i vari personaggi chiamati in causa. Quelle più intense riguardano Nietzsche e la donna verso cui provava sentimenti poco chiari. Altre parti, ugualmente notevoli, riguardano gli appunti che Breuer e Nietzsche scrivevano sull’altro dopo ogni loro incontro. Questa stesura, così dinamica, rende la lettura del testo dalle dimensioni notevoli più semplice e scorrevole.

Le lacrime di Nietzsche è un testo commovente, crudamente vicino alla realtà e spunto di riflessione sulla realtà terapeutica e clinica, all’epoca ad uno stato embrionale. Esprime, in molti tratti, la bellezza di una prosa poetica e drammatica, che interseca l’intensità delle esperienze umane a livello sentimentale e corporeo affrontando, ad esempio, aspetti legati al tradimento, alla passione intellettuale che spesso spinge al desiderio sessuale, costringendo a dare significati diversi ai ruoli che la società ci impone.

Per comprenderlo, ma soprattutto per viverlo, consiglio la lettura del testo con uno spirito di apertura e di curiosità anche se, a tratti, richiede un certo impegno intellettuale.

 

LEGGI ANCHE LE ALTRE RECENSIONI DEI LIBRI DI IRVIN YALOM:

Il dono della terapia (2016) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

 

Creature di un Giorno (2015) di Irvin D. Yalom – Recensione del libro

Sul lettino di Freud di Irvin D. Yalom (2015) – Recensione

Le lacrime di Nietzche di Irvin Yalom (2006) – Recensione

Stile genitoriale e sviluppo di comportamenti antisociali nei figli

Uno stile genitoriale più severo e autoritario si è osservato essere in relazione a un maggior rischio di sviluppo di comportamenti antisociali nei figli.

 

Un nuovo studio, pubblicato sul Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, ha rivelato che l’ambiente domestico influenza il carattere aggressivo dei figli, fungendo da fattore di rischio per lo sviluppo dei così detti Callous Unemotional (CU) ovvero i tratti legati allo sviluppo della coscienza che portano a uno stile interpersonale caratterizzato da mancanza di emotività.

Stile genitoriale: influirebbe più del fattore genetico

La ricerca, condotta presso diverse università americane, ha analizzato la presenza di piccole differenze nello stile parentale in famiglie con gemelli omozigoti per determinare se le differenze nella genitorialità sperimentata da ciascun gemello potessero predire la probabilità di comparsa di atteggiamenti antisociali.

Questo studio è l’ultimo di una serie di lavori condotti per valutare vari aspetti legati alla genitorialità. In particolare i primi studi hanno mostrato che la qualità della relazione tra i genitori biologici e i loro figli assume un ruolo decisivo nello sviluppo o meno di problemi comportamentali; risultati analoghi sono stati osservati anche in studi riguardanti genitori e figli adottivi.

L’autrice dello studio Rebecca Waller ha spiegato

Alcuni dei primi lavori sui tratti CU si sono concentrati sulle basi biologiche e genetiche, ipotizzando che questi tratti si sviluppassero in modo indipendente dal contesto di vita del bambino. Gli studi sulle adozioni però smentiscono il ruolo esclusivo della genetica, aprendo la strada alla possibilità che l’ambiente possa funzionare da fattore protettivo e impedire ad un bambino a rischio di mostrare problemi comportamentali sempre più gravi.

Il team di ricerca ha chiesto ai genitori di 227 coppie di gemelli omozigoti, con un’età compresa tra i 6 e gli 11 anni, di compilare un questionario riguardante il proprio stile educativo e il clima domestico: possibili items erano rappresentati da affermazioni quali “Mi capita spesso di perdere la pazienza con mio figlio” oppure “Mio figlio sa che lo amo”. Inoltre i ricercatori hanno valutato il comportamento del bambino tramite le risposte, fornite dalle madri, riguardanti comportamenti aggressivi e tratti CU.

Stile genitoriale e tratti antisociali nei figli: i risultati della ricerca

Dai risultati è emerso che i gemelli che avevano sperimentato un atteggiamento genitoriale severo e poco empatico erano maggiormente soggetti allo sviluppo di comportamenti aggressivi e, in generale, di tratti antisociali. 

Luke Hyde, professore del Dipartimento di Psicologia dell’Università del Michigan ha affermato

Lo studio dimostra in modo convincente che lo stile genitoriale e non solo i geni, contribuiscono allo sviluppo di tratti problematici fondamentali per lo sviluppo futuro della personalità dei figli.

Il desiderio della Waller sarebbe quello di utilizzare le evidenze emerse dalla ricerca per sviluppare interventi familiari volti a controllare lo sviluppo di questi tratti problematici, tuttavia l’autrice afferma

Nella vita quotidiana, la creazione di interventi che funzionino realmente e che siano effettivamente in grado di modificare i comportanti nei diversi ambienti familiari è complicata. Tuttavia lo studio dimostra che il modo in cui i genitori si approcciano ai figli conta molto, il nostro obiettivo a breve termine quindi è quello di adattare i programmi rivolti ai genitori affinché vengano inclusi interventi specifici relativi ai così detti tratti CU.

Il lavoro presentato amplia la comprensione del modo in cui diverse forme di comportamento antisociale emergono, tuttavia è da specificare che il lavoro non incolpa esclusivamente i genitori per l’eventuale condotta antisociale dei figli. Ciò che appare evidente è che i trattamenti possono aiutare i genitori ad arginare questi pericolosi tratti nei figli e che per tale ragione questi trattamenti appaiono d’aiuto soprattutto per i bambini più a rischio.

I ricercatori ammettono alcuni limiti presenti all’interno della ricerca, uno su tutti il fatto di aver considerato primariamente le famiglie in cui sono presenti entrambi i genitori, questo significa che i risultati potrebbero non essere generalizzabili ai nuclei monoparentali.

Non dimenticarmi (2018) di Ram Nehari: l’amore nella sofferenza psichica – Recensione del film

Non dimenticarmi uscirà nelle sale il 15 Novembre. In anteprima, per i lettori di State of Mind, la recensione del film:

 

Non dimenticarminon dimenticarminon dimenticarmi…”, finisce così, nel canto di un menestrello di ospedale psichiatrico, il film di Sam Nehari, autore israeliano alla sua opera prima.

 

E finisce, senza la certezza del lieto fine ma con la speranza ironica e leggera di poterlo immaginare, il racconto di una storia d’amore fra due mondi irrimediabilmente lontani e inesorabilmente vicini.

Tom è una ragazza anoressica ricoverata in clinica, Neil un ragazzo psicotico che entra ed esce da un centro di cura. Il primo incontro è casuale, in campo neutro, e Tom lo vince d’imperio, quasi costringendo Neil a ricevere del sesso e a scappare con lei. Neil si lascia scorrere, fluttua, accetta il piglio della ragazza seguendolo come si seguirebbe un destino che solleva il morale per il solo fatto di essere imprevedibile e diverso dal presente.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL FILM:

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 4

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 3

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 5

Non dimenticarmi: un amore che affronta il mondo

Nel loro girovagare per Tel Aviv si abbandonano a una libertà pura, ingenua, condividendo paure adulte alla maniera dei bambini, affrontando quella porzione di mondo che si presenta ai loro occhi senza darsi alcun criterio di obbedienza. E rischiano, si giocano tutto sempre all’attacco; a Tom viene in mente che sarebbe interessante tornare dalla famiglia e far vivere a Neil un “Ti presento i miei” in salsa israeliana, peccato che il padre, uomo tutto d’un pezzo che in quel pezzo concentra tutta la durezza di cui è capace, e la madre, sergente del focolare impantanata nei traumi della storia, non siano dello stesso avviso.

La permanenza a casa non s’ha da fare. Allora Neil rilancia, vorrebbe portare Tom con sé nella tournée europea di un gruppo musicale alle cui fortune dovrebbe contribuire suonando la tuba, ma forse si è inventato tutto. Forse la sua mente ha di nuovo immaginato cose che non esistono, ha di nuovo creato speranze che non possono essere sostenute dalla realtà. Fine dei sogni, rissa violenta con l’amico che non lo riconosce, ritorno in ospedale. Per Neil, e per Tom, che non ha più ragioni autosufficienti verso la libertà.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DEL FILM:

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 1

Non dimenticarmi 2018 l'amore nella sofferenza psichica - Recensione 2

Non dimenticarmi: gli aspetti del film

Unisce molti aspetti differenti questo interessantissimo film: è preciso, rigoroso nel dipingere la sofferenza psichica, specie quando mostra senza enfasi ma con puntuale nitidezza la vita da anoressica di una ragazza così sensibile e insieme quasi autoritaria; è creativo nell’immaginare scenari diversi per due persone che non possono oggettivamente cambiare la loro vita, non adesso, ma possono legittimamente aspirare a farlo; è realistico quando descrive la fine del viaggio come una tappa quasi inevitabile, ed è poetico quando affida agli sguardi silenziosi dei due ragazzi, al sorriso tenero appena accennato nel rivedersi, alle parole di lei che abbozza immagini del matrimonio sognato per loro con il candore di una creatura risoluta, infine ai versi del trovatore picchiatello, il significato più intimo di una storia che non si conclude con l’ultima scena ma continua nella nostra fantasia attraverso i sentimenti più liberi a cui vogliamo partecipare.

NON DIMENTICARMI – I VIDEOCLIP DEL FILM:

 

 

NON DIMENTICARMI – GUARDA IL TRAILER:

La guerra fredda nei social network: meccanismi psicodinamici tra stati di WhatsApp e provocazioni su Facebook

Appare ormai evidente che il mondo dei social network attraversa sempre più le persone e le relazioni. I “mi piace” su Facebook nonché i “follower” su instagram, hanno di gran lunga messo da parte l’importanza dell’amico del cuore, degli incontri al muretto, delle serenate notturne, per non parlare delle lettere inviate per corrispondenza.

 

Cambiano i modi di porsi, di relazionarsi, ma (forse ancora per poco!) non cambiano del tutto i sentimenti provati ma semplicemente la modalità attraverso la quale vengono espressi.

Se da una parte le dichiarazioni d’amore si caratterizzano per la ripetizione compulsiva di cuori di ogni colore, le malcelate dichiarazioni di odio e risentimento appaiono molto interessanti dal punto di vista psicologico. Introduco il concetto di “guerra fredda” perché proprio come lo scontro tra Stati Uniti ed Unione Sovietica non si è mai combattuto su un fronte, sentimenti di conflitto interpersonale oggi non si traducono necessariamente in scontri veri e propri ma in post e condivisioni apparentemente fini a se stessi sui social. Ma niente di pubblicato su un social è fino in fondo fine a se stesso: qualcuno dovrebbe sostituire l’indicazione della home di Facebook “A cosa stai pensando” con “Cosa vuoi mostrare”.

Quando si ha una rottura relazionale importante, indipendentemente dalla qualità del rapporto di tipo sentimentale o amicale, è fisiologico avvertire un senso di perdita, di solitudine. Questo vissuto emotivo, caro a molte teorie psicoanalitiche sullo sviluppo infantile (Lis et al., 1999) appartiene universalmente e precocemente all’esperienza umana: il bambino piccolo infatti, che vive le prime esperienze di separazione dalla madre, percepisce l’angoscia dell’abbandono. In età adulta, la perdita più o meno intenzionale di una persona cara determina una regressione (ritorno ad uno stadio precedente dello sviluppo dell’Io a seguito di una frustrazione libidica), che giustifica quindi comportamenti infantili e meccanismi di difesa primitivi.

Vediamo cosa spesso accade al giorno d’oggi, nell’utilizzo dei social network, dopo una chiusura relazionale.

Social network e gestione della mancanza

In molti casi impostare uno stato di whatsapp, una foto su instagram o un pensiero su facebook, sono azioni che sottendono palesemente (anche se indirettamente) alla necessità di comunicare con la persona persa. Necessità che il mondo dei social consente di soddisfare senza costi materiali o emotivi e soprattutto senza tempi di attesa: per una persona in piena fase regressiva questo significa soddisfare il principio del piacere (“voglio tutte le gratificazioni, comprese quelle che si contraddicono, adesso!”). Inoltre la comunicazione impersonale dei social consente l’invio di messaggi comunicativi senza entrare direttamente in relazione con l’interlocutore di rifermento, abbatte le barriere dello spazio, pone l’individuo al centro di una rete che riattiva processi di controllo onnipotente della primissima infanzia, meccanismo di difesa che pone in essere l’idea secondo cui se controllo me stesso controllerò tutta la realtà, perché la fonte di tutti gli eventi è interna (McWilliams, 1999): è possibile dunque dire tutto, subito ed a chiunque, anche a chi non abita più nel cuore, in maniera continua e reiterando le pratiche indirette tra “mi piace” e condivisione di post ambigui.

Social Network e formazione reattiva

Se, molto spesso, una prima fase dell’elaborazione della rottura può essere caratterizzata da uno sforzo intellettuale nell’esprimere riflessioni prese in prestito dalla filosofia o alla psicologia, le evidenze sembrano mostrare che quando non si fa strada una buona elaborazione della perdita si può passare ad un livello successivo, quello della più o meno consapevole formazione reattiva: si ostentano livelli di gioia e serenità che appaiono inversamente proporzionali alla sofferenza vissuta. I social diventano più che mai il nostro palcoscenico e, mentre si impiegano grandi risorse nell’indossare la maschera più bella, non ci si accorge che non si parla più, non ci si emoziona più, l’attenzione è esclusivamente concentrata sul numero di feedback ricevuti, inconsapevoli del fatto che possono anche sfiorare il centinaio per ogni post ma non avranno mail il valore dell’apprezzamento della “persona X”. Così ci si accontenta di una gratificazione a metà, che diventa di fatto il modus vivendi esteso alla vita di tutti i giorni. Questa condizione, di durata variabile, può sfociare verso le catarsi (e si riesce realmente a cambiare pagina) oppure può condurre all’espressione indiretta di rabbia ed aggressività indiretta. Cosa succede?

Social Network e attacco indiretto

Avviene un vero e proprio attacco al sistema di credenze, di valori, della persona persa, che si manifesta prendendo posizioni forti in completa antitesi.

Sentimenti di intolleranza, pensieri incorreggibili, opinioni che mirano alla creazione di muri piuttosto che di ponti, possono sottendere ad un mero processo di spostamento dei sentimenti di odio che prima erano diretti verso la persona adesso sono diretti verso le sue passioni. Probabilmente il desiderio inconscio che muove questo comportamento è quello di riuscire a farsi notare, di avere un scontro, di “essere finalmente visti”, che però purtroppo è destinato a fallire o peggio ancora nel non riuscire ad ottenere i risultati sperati. Anzi, la ricerca continua di una sua reazione può sfociare nel controllo compulsivo del suo profilo, che aumenta l’angoscia (Fiore, 2013) e la rabbia.

Le evidenze recenti in letteratura suggeriscono che l’uso dei social non è necessariamente un comportamento disfunzionale (Griffith et al., 2018) ma determinate circostanze di utilizzo possono compromettere significativamente la qualità della vita determinando ansia e depressione (Griffiths e Kuss, 2017; Marino et al., 2018). Quando si perde la vicinanza interpersonale di una persona cara, inevitabilmente si perde una parte di se stessi. L’elaborazione della perdita andrebbe affrontata attraverso lo scambio comunicativo diretto con le persona di riferimento, con le persone vicine, e soprattutto con uno psicologo quando si manifesta la forte o persistente difficoltà a gestire le emozioni, tralasciando in questo caso l’uso strumentale dei social in maniera più o meno consapevole. La regressione che scaturisce dal rammarico potrebbe consentire la messa a fuoco delle proprie responsabilità interpersonali, trasformando così la sofferenza in uno strumento utile per la crescita personale.

Violenza domestica e terapia metacognitiva interpersonale – Congresso SITCC 2018

Durante il congresso SITCC 2018 di Verona uno di noi (Andrea Pasetto) ha presentato un caso clinico di violenza domestica trattato con Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Popolo et al, 2013) all’interno di un Simposio organizzato dal Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale di Roma (CTMI) e che aveva come tema comune la TMI in condizioni relazionali estreme.

 

Il fenomeno della violenza domestica è uno dei problemi sociali più significativi e pervasivi in termini di impatto sociale, psicologico ed economico.

Si definisce violenza domestica un pattern di comportamenti che una persona agisce all’interno di una relazione affettiva per controllare e dominare l’altro partner incutendo paura e limitandone la libertà personale (Dobash, Dobash,1998). Si stima che in tutto il mondo, circa il 30% delle donne che hanno avuto una relazione affettiva abbiano subito violenza fisica e/o sessuale dal proprio partner (Misso D., Dimaggio e Schweitzer, 2018). In Italia circa una donna su tre tra i 16 ed i 70 anni riferisce di aver subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nell’arco della propria vita. I partner attuali o ex partner commettono le violenze più gravi, il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente (ISTAT 2015). Tale quadro viene confermato anche dai dati della comunità internazionale dove ben il 38% delle donne uccise sono uccise per mano del proprio compagno (WHO, 2016).

L’intervento psicoterapeutico ha bisogno di considerare l’eventuale presenza di disturbi di personalità e/o tratti di personalità, in particolare alcuni autori hanno riscontrato come i tratti di personalità relativi a disinibizione, antagonismo e distacco siano positivamente associati a questa tipologia di offenders (Dowgwillo et al., 2016). Inoltre essere di giovane età e avere un disturbo correlato all’uso di alcol oppure la presenza di disturbo di personalità del cluster B (Borderline, Narcisistico, Istrionico) o dipendente aumenta la probabilità di agire violenza all’interno della coppia (Okuda et al., 2015).

Come si presentano i Domestic Offenders in terapia? Presentano metacognizione compromessa, in particolare hanno difficoltà a riconoscere e descrivere le proprie emozioni (alessitimia), scarsa consapevolezza dei segnali emotivi attivanti (soprattutto emozioni negative), scarsa differenziazione (rappresentazioni negative di sé con l’altro prese per vere) e scarsa teoria della mente. Gli schemi interpersonali prevalenti partono dal desiderio di essere apprezzati (rango sociale) e amati (attaccamento). A fronte del loro desiderio tendono a costruire l’altro, la partner in particolare come: “mi ignora, mi trascura, mi tradisce e mi umilia”. Quando leggono il comportamento dell’altro secondo queste immagini schema-dipendenti, rispondono sentendosi innanzitutto di scarso valore e non amati, e questo conferma le immagini nucleari di sé. Accedono però con difficoltà ai sentimenti dolorosi di tristezza, solitudine, umiliazione e subito transitano verso rabbia reattiva e strategie di controllo e dominanza. Insomma molti uomini che agiscono violenza domestica agiscono in modo aggressivo e impulsivo reagendo ad emozioni dolorose che non sanno nominare e di conseguenza poi regolare e si trovano ad agire, nelle relazioni con la partner, guidati da schemi interpersonali che non sanno riconoscere.

A partire da queste considerazioni la TMI mette in risalto come le difficoltà metacognitive presentate da questa tipologia di offenders possono essere un obiettivo del trattamento per favorire l’interruzione del comportamento violento e la promozione del cambiamento. Quindi promuovere la Metacognizione li aiuta a capire il proprio funzionamento durante gli episodi di violenza, trovare soluzioni alternative al comportamento violento ed una maggiore attività regolatoria (riduzione dell’aggressività).

Come funziona? Prima di tutto il contratto: deve essere chiaro al paziente che il focus della terapia è l’aggressività e la violenza, ma all’inizio con lo scopo di capire cosa rende il coping disfunzionale, violento, così automatico e incontrollabile. Quindi l’obiettivo è concentrarsi sugli gli antecedenti psicologici dell’aggressività. Si chiede al paziente di concentrarsi e capire cosa succede dentro di lui un attimo prima dell’esplosione violenta, cosa pensa e prova, cosa sente a livello corporeo. Per fare questo è importante elicitare episodi narrativi legati a comportamenti aggressivi per allenare il monitoraggio emotivo e cognitivo. Attraverso l’analisi e l’elicitazione degli episodi narrativi personali arriviamo ad una formulazione condivisa del funzionamento del paziente per ricostruire gli schemi interpersonali tipici, ad esempio: “Desidero essere apprezzato/stimato (immagine negativa sottostante come inferiore e debole), la partner mi critica e mi svaluta – mi sento umiliato, schiacciato/sottomesso (risposta del sè) – reagisco con rabbia e la attacco”.

A partire poi dalla formulazione condivisa del funzionamento si procede con due tipi di interventi:

  • il primo intervento ha lo scopo di favorire possibili memorie associate all’episodio emerso, in modo che il paziente reagisca a qualcosa che non è connesso direttamente alla partner, ma alla propria storia personale. Si tratta quindi di promuovere la differenziazione tra gli schemi interni e la realtà esterna. Si mira quindi a  promuovere una distanza critica dai modelli interiorizzati di costruzione di significati.
  • il secondo intervento ha lo scopo di lavorare sulla regolazione dello stato emotivo attivato dalla risposta dell’altro, cercando di promuovere strategie regolatorie alternative all’aggressione per lenire lo stato affettivo doloroso.

Il caso clinico presentato all’interno del Simposio riguarda Roberto: 33 anni, celibe, diploma professionale. Lavora come imprenditore edile, presenta buone capacità lavorative. La relazione con  Barbara inizia nel 2012 e vanno a convivere nel 2014. Viene inviato dalla psicologia territoriale dopo alcuni incontri di terapia di coppia (Ottobre 2017). Riferisce precedenti interventi psicoterapici per problemi di ansia generalizzata. Non riporta uso di sostanze. Dai primi colloqui si evidenziano «tratti» di personalità di tipo paranoide, narcisistico, ed ossessivo. Roberto ammette di avere comportamenti di controllo dettato dalla gelosia, che sfociano poi in violenza verbale e fisica verso Barbara.

Roberto è guidato dai desideri di essere amato, e apprezzato/stimato. La rappresentazione di sé sottostante è: non amabile e inferiore rispetto a un altro più interessante di lui. Dagli episodi narrativi emerge il timore di Roberto di essere tradito e abbandonato da Barbara. La rappresentazione negativa di sé è connessa al ricordo di episodi in cui mamma ha preferito il fratello minore dopo la sua nascita, concentrando le attenzioni su di lui e facendo sentire Roberto come inferiore e non più amato.

Trattamento: la riduzione del comportamento violento è lo scopo a lungo termine e il comportamento violento è il focus principale del trattamento, tuttavia dobbiamo focalizzarci sugli antecedenti del comportamento violento e cosa rende la violenza così automatica, potente e non controllabile come meccanismo. A partire dal contratto quindi si passa all’ esplorazione degli episodi narrativi di violenza nei loro elementi cognitivi ed emotivi per attivare la metacognizione ed accedere agli stati mentali prevalenti. Successivamente ricostruiamo una formulazione condivisa del funzionamento e stimoliamo la connessione di memorie associate allo schema emerso per promuovere la differenziazione e la regolazione dello stato emotivo attivato dalla risposta dell’altro.

Il lavoro sugli episodi narrativi violenti per allenare il monitoraggio emotivo e cognitivo di Roberto porta il terapeuta ad una formulazione condivisa del funzionamento come di seguito: “Lei Roberto desidera essere sicuro/apprezzato/amato nella relazione con Barbara. Immagina gli altri superiori a lei e migliori di lei. Si aspetta quindi che Barbara preferisca altri a lei, la tradisca e l’abbandoni, (immagine di sé come inferiore e non amabile). Prova ansia, paura, tristezza e gelosia e a quel punto assume comportamenti di controllo perché Barbara non la tradisca, si arrabbia con lei e l’aggredisce, ma questo non fa diminuire la paura né i sentimenti di inferiorità e non-amabilità.

Con la richiesta di memorie associate a questa struttura narrativa, Roberto connette l’immagine negativa di sé non amabile ed inferiore alla sensazione di inferiorità e non amabilità sperimentata nel periodo in cui è nato il fratellino più piccolo Giovanni e mamma aveva riversato tutte le sue attenzioni su di lui. Da qui inizia la svolta del trattamento e l’inizio del processo di differenziazione, quando Roberto inizia a comprendere che lui “Non è necessariamente inferiore/sbagliato/non amabile ma guidato da questa idea (che gli ricorda quello che è successo con mamma) reagisce con violenza verso Barbara e fa delle cose che hanno conseguenze sfavorevoli”.

Roberto negli incontri successivi comprende che la paura che Barbara lo abbandoni e lo tradisca è schema-dipendente e dipende da quello che prova lui, dalle emozioni che vive internamente. L’attenzione focalizzata su Barbara che può tradire e abbandonare è schema dipendente e non corrisponde necessariamente alla realtà. Roberto in uno degli ultimi incontri riferisce: «la fonte delle mie paure non è Barbara, ma è dentro di me». Tale consapevolezza aiuta Roberto a bloccare il coping disfunzionale violento e promuove una maggiore autoregolazione con diminuzione del comportamento violento e dei comportamenti di controllo nei confronti della partner. Quest’ultima attraverso un contatto telefonico conferma la diminuzione dei comportamenti violenti sia in frequenza che in intensità.

E’ solo un gioco? La ricerca del rischio e i giochi pericolosi in adolescenza

Negli adolescenti è tipica l’esigenza di unicità e visibilità ed è proprio tale desiderio che li conduce spesso a mettere in atto comportamenti provocatori e a volte rischiosi.

 

Negli anni passati, non era previsto un periodo di transazione preciso tra l’infanzia e l’età adulta. Molti giovani trascorrevano gli anni precedenti e successivi alla pubertà entro i confini familiari. Le ragazze imparavano tra le mura domestiche a svolgere mansioni femminili, mentre i ragazzi venivano inseriti come apprendisti presso gli artigiani.

Oggi l’adolescenza è definita come una fase del ciclo di vita umano, una transazione dello stato di bambino a quello adulto. Essa ricopre un periodo lungo e mutevole da individuo a individuo in cui, a fronte delle numerose trasformazioni fisico-corporee, si assiste a profondi cambiamenti psicologici che investono le capacità cognitive, la sfera affettiva e le competenze sociali della persona.

La fase di transazione, non deve essere vista come svalutazione del contributo sociale e culturale ma un periodo di vita vissuto dagli adolescenti, come momento evolutivo per il processo di costruzione dell’identità, stato autonomo dove gli adolescenti sono capaci di concentrarsi sulla propria vita interiore.

L’adolescenza oggi: desiderio di unicità e comportamenti provocatori

Nei giovani d’oggi è tipica l’esigenza di unicità e visibilità che li conduce a mettere in atto comportamenti di provocazione. Il loro scopo è in ogni caso quello di anticipare l’adultità ed è proprio per questo che talvolta gli adolescenti mettono in atto comportamenti per loro inadeguati.

Sono definiti “sensation seeker” proprio per sottolineare il bisogno di ricercare sensazioni forti ed emozioni estreme. Sfida, impulsività, senso di invulnerabilità sono funzionali alla costruzione dell’identità e partecipazione sociale, intesa come insieme di relazioni sociali, ma se superano i limiti diventano un fattore di rischio.

La scelta di quali azioni intraprendere spetta agli adolescenti stessi che saranno influenzati non solo dall’ambiente di appartenenza, ma anche da variabili personali legate allo sviluppo di capacità individuali.

Le funzioni del comportamento a rischio che gli adolescenti possono mettere in atto sono:

  • Adultità: assunzione anticipata di comportamenti considerati normali negli adulti (es. fumo di sigarette, uso di alcol, comportamento sessuale vs partecipazione e assunzione di responsabilità);
  • Acquisizione e affermazione di autonomia: la necessità di svincolarsi dalla condizione di dipendenza dai genitori per costruirsi un’identità di adulto (es. accettazione di nuove regole, il sostenere le proprie opinioni, prendere decisioni circa il proprio futuro vs azioni devianti come l’uso di sostanze psicoattive, il comportamento sessuale o un’alimentazione distorta);
  • Identificazione e differenziazione: necessità di differenziarsi dagli adulti significativi, identificandosi come un individuo dotato di particolari caratteristiche (es. violazione di norme, abbigliamento eccentrico, messa in atto di azioni tipiche del proprio gruppo di appartenenza come fumare, etc.);
  • Affermazione e sperimentazione di sé: adozione di nuovi comportamenti per mettersi alla prova (attività produttive vs rischiose, come la guida pericolosa, giochi estremi etc);
  • Trasgressione e superamento dei limiti: trasgredire le regole del mondo adulto per aderire a regole più consone alle proprie esigenze, per dimostrare la propria capacità di decisione (es. uso sostanze psicoattive illegali);
  • Esplorazione di sensazioni: esigenza particolarmente diffusa nella cultura occidentale, dove si esalta ogni sperimentazione del nuovo (comportamenti salutari, quali quelli derivanti dalla musica, dall’arte, etc. vs comportamenti dannosi per il benessere psicofisico, come l’uso di sostanze psicoattive, giochi estremi, etc);
  • Percezione di controllo: necessità di superare il limite per dimostrare, a se stessi e agli altri, che la novità non spaventa e che si è in grado di controllare le proprie azioni senza il bisogno dell’adulto, senza lasciarsi travolgere;
  • Coping e fuga: messa in atto di strategie che consentono di far fronte in modo adattivo alle difficoltà e a problemi personali e relazionali, che però non sono sempre funzionali.

Quali sono i giochi estremi più diffusi tra gli adolescenti?

In adolescenza le relazioni che si intrattengono con la dimensione del rischio sono particolarmente intense; difatti assistiamo a cadenza periodica, a servizi giornalistici che raccontano gli orientamenti estremi più in voga tra gli adolescenti, dove il divertimento e il disagio si sovrappongono e i giovani appaiano contemporaneamente vittime e carnefici delle più folle tendenze del momento.

Ecco alcuni giochi estremi più noti con i quali gli adolescenti si misurano:

  • Balconing: è un’attività che consiste nel saltare da un balcone o da una finestra, posti a un piano elevato direttamente all’interno di una piscina o di un altro balcone. Viene solitamente effettuato sotto l’effetto di alcool e droghe e il salto viene filmato per poi essere caricato su siti web come You Tube. In alcuni casi il salto, può finire male causando la morte;
  • Binge Drinking: è l’assunzione di più bevande alcoliche in un intervallo di tempo più meno breve. Non è importante il tipo di sostanza che viene ingerita, né l’eventuale dipendenza alcolica, lo scopo principale di queste “abbuffate alcoliche” è l’ubriacatura immediata, nonché la perdita di controllo;
  • Chocking game o space monkey: è una pratica per “sballarsi”, senza far uso di droga. Si tratta di un “finto strangolamento” che attraverso una pressione sulla carotide, blocca l’afflusso di ossigeno al cervello, causando una temporanea perdita di sensi e al risveglio, una piacevole euforia. Questo tipo di gioco può creare una lesione al cervello o la morte;
  • Eye balling: si porta l’imboccatura di una bottiglia di superalcolico a livello dell’occhio, come se la si stesse bevendo. Si versa il superalcolico nell’occhio, usandolo come “collirio” per ottenere effetti di euforia ed ebbrezza. Si rischiano danni permanenti alla vista causando cecità e ischemia;
  • Batmanning: ispirata alle posizioni di Batman, ovvero appeso ai piedi e a testa in giù. I rischi sono ben elevati con il sangue alla testa.

L’ultima moda sbarcata in Italia? Stendere a terra i passanti con calci e pugni e filmare tutto e caricarlo in rete.

In conclusione

Sono infiniti i giochi pericolosi in adolescenza, ma non sono semplici frutti di incoscienza o ignoranza del pericolo, vengono intraprese insieme agli altri perché in questo modo risulta più semplice per l’adolescente vivere in modo tangibile la propria identità, presentandola al gruppo per ottenerne riconoscimento, reputazione, popolarità; sono infatti molto importanti l’accettazione pubblica e il sostegno sociale tra coetanei, lottando per differenziarsi.

Le azioni sono intraprese proprio per essere rese visibili, oltre che per fondare un legame sociale con i coetanei, legame che si rafforza attraverso ritualizzazioni e ripetizioni di gesti (es. saltare da un balcone ad un altro) che talvolta sono solo rituali di passaggio.

Gli adolescenti hanno bisogno di misurarsi con i propri coetanei e di emularli per affermare se stessi. Questo può essere un rischio per la messa in atto di comportamenti gravosi, perché contribuisce ad alterare la reale percezione del rischio spingendo l’adolescente ad esporsi in modo azzardato, mantenendo l’illusione di controllo.

I giovani usano il rischio, come una risorsa per esprimere se stessi, per rafforzare una coesione sociale e l’appartenenza del gruppo per affermare il proprio ideale di stile, gusto, tempo libero e rompere la noia, sfidare e farsi notare. Spesso fanno ricorso a queste pratiche estreme, come fuga della realtà da situazioni familiari, scolastiche, relazionali, contesti che possono suscitare ansia, paura e angoscia, senza rendersi conto degli esiti drammatici di queste attività. Pertanto, gli adolescenti sono spesso attratti dal pericolo e dal macabro.

Non si deve però mai sottovalutare l’importanza e la pericolosità di questi fenomeni, soprattutto nella fase adolescenziale, fatta di cambiamenti e fragilità, dove si è più suscettibili alle sollecitazioni esterne e attratti dal pericolo e dal rischio.

Disturbi alimentari e anomalie nel circuito del reward

Uno studio di Frank, DeGuzman e colleghi – dipartimento di Psichiatria dell’Università del Colorado e Eating Disorders Care, Colorado – ha investigato la possibile associazione tra sistema cerebrale dopaminergico del reward, restrizione dell’apporto calorico ed evitamento del cibo in un gruppo di adolescenti e giovani adulti affetti da anoressia nervosa.

 

Lo studio pubblicato su JAMA Psychiatry,  ipotizza un modello per il quale la restrizione calorica fino all’inedia avrebbe un effetto sul sistema dopaminergico tale da perpetuare il disturbo, anche a seguito di un ripristino del BMI nella norma.

Disturbi alimentari: quale ruolo ha il circuito del reward

Quando ci si avventura negli studi che trattano da un punto di vista neurobiologico i disturbi dell’alimentazione e della nutrizione per la comprensione dei meccanismi neurali sottostanti, le evidenze che se ne ricavano sono spesso poco chiare e di non facile interpretazione in quanto i modelli neurali che ne ipotizzano e descrivono l’anomalo funzionamento cerebrale sono stati ricavati per la maggior parte in gruppi di popolazione sana (Steinglass & Foerde, 2018).

Oltre a ciò, vi sono anche numerosi dubbi e titubanze tra gli esperti circa le metodologie e gli strumenti spesso utilizzati in questo tipo di ricerche, che avrebbero lo scopo di mettere in evidenza i circuiti neurali che sono coinvolti in modo specifico nel disturbo della nutrizione, i cui effetti potrebbero perpetuare il comportamento alimentare disfunzionale e mantenere in questo modo il disturbo stesso.

Pertanto una comprensione del significato delle evidenze neurali nel campo dei disturbi alimentari rimane ancora una sfida in quanto non sempre si riesce a discriminare quale sia la causa o l’effetto (è l’anomalia nel circuito cerebrale a determinare il disturbo o viceversa?).

Nonostante ciò, lo studio di Frank, DeGuzman, Shott, Pryor e colleghi (2018) ha tentato di investigare il ruolo del sistema dopaminergico del reward, già evidenziato come cruciale nei disturbi alimentari (Frank, Reynolds at al., 2012), durante un compito di condizionamento classico, nello stress e nell’ansia, nell’evitamento del danno (harm avoidance) e nella restrizione calorica.

Le risposte del sistema dopaminergico legato al reward sono state misurate tramite l’errore di predizione, cioè tramite quell’ informazione che segnala un avvenuto nuovo apprendimento nell’animale e nell’uomo, mentre le componenti legate all’ansia sono state ottenute tramite prelievo di una piccola quantità di cortisolo salivare, insieme alla somministrazione di alcuni test psicometrici come l’Eating Disorder Inventory-3, lo State-Trait Anxiety Inventory e il Temperament and Character Inventory.

Disturbi alimentari: la ricerca

Nello studio sui disturbi alimentari, alle partecipanti, un gruppo di 56 ragazze affette da anoressia nervosa tra i 12 e i 21 anni, venivano presentati diversi stimoli visivi alcuni dei quali associati ad un liquido dolce con la caratteristica che nel corso dei diversi trial l’associazione tra gli stimoli e il liquido diventava probabilistica, cioè l’associazione già appresa tra liquido e stimolo visivo veniva violata.

Ciò ha permesso di poter misurare l’errore di predizione in quanto le partecipanti erano “costrette” ha modificare le proprie aspettative circa l’associazione stimolo-liquido, a volte non presente o ricevuta in modo inaspettato e quindi ad apprenderne una nuova (Frank, DeGuzman, Shott, Pryor et al., 2018).

Tramite risonanza magnetica funzionale è stato possibile misurare i livelli di ossigenazione sanguigna di specifiche aree cerebrali, attive durante il compito, riflesso del segnale dopaminergico di errore che si verificava ad ogni violazione. Le immagini ottenute di fMRI venivano poi confrontate con quelle provenienti da un gruppo di controllo composto da 52 soggetti non affetti da patologia alimentare tra gli 11 e i 21 anni.

Le complesse analisi effettuate hanno mostrato una diretta associazione tra i segnali di errore di predizione, i punteggi legati all’evitamento del danno, in questo caso rappresentato dal liquido dolce che ha una rilevanza particolare nell’anoressia nervosa, e il BMI.

In particolare è stato rilevato un aumento dell’errore di predizione nelle aree dell’insula, del nucleo caudato e accumbens nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo, insieme ad un’associazione positiva tra le risposte della corteccia orbito frontale e l’harm avoidance e una negativa con  il circuito dell’ipotalamo preposto alla regolazione del senso di sazietà.

Disturbi alimentari: i risultati dello studio

È stato osservato come la restrizione dell’apporto calorico e la perdita di peso fossero associati ad una sensibilizzazione del sistema dopaminergico del reward, riflessa in un aumento dell’errore di predizione.

A parere degli autori dello studio, questo aumento riscontrato nei circuiti dopominergici potrebbe andare ad incidere nei meccanismi che alimentano lo stress e l’ansia andando a “sovrastare” i normali segnali omeostatici di fame provenienti dall’ipotalamo.

Nello spiegare queste evidenze, gli autori riferiscono che la perdita di peso, ottenuta tramite la restrizione calorica, sarebbe associata ad un’attivazione anomala del sistema del reward che alimenterebbe l’ansia, manifestata tramite la paura di prendere peso e l’insoddisfazione corporea, che a sua volta entrerebbe in conflitto con i segnali omeostatici di fame, per cui la persona alla fine si astiene dal mangiare.

Nel loro modello, si verrebbe a costituire un circolo vizioso che consentirebbe ai disturbi alimentari di persistere, mantenersi nel tempo attraverso la restrizione alimentare e la malnutrizione: infatti questa direzione dei risultati è stata osservata nel gruppo sperimentale ma non in quello di controllo.

Eating Problem Checklist (EPCL): un nuovo questionario per valutare la psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione e i suoi cambiamenti seduta dopo seduta

L’Unità di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda ha ideato e validato un nuovo questionario chiamato Eating Problem Checklist (EPCL) che ha lo scopo di identificare e valutare gli effetti dei sudden gains nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione.

 

Lo studio dei cambiamenti che si verificano durante i trattamenti psicologici è una delle grandi sfide nella ricerca clinica. Tuttavia, c’è una crescente evidenza che i sudden gains, cioè gli ampi, rapidi e stabili miglioramenti della sintomatologia tra due sedute consecutive di trattamento sembrano associarsi alla riduzione della sintomatologia e al miglioramento della relazione terapeutica e dell’esito, dopo la conclusione del trattamento.

Gli effetti positivi dei sudden gains sull’esito del trattamento sono stati dimostrati nella psicoterapia della depressione, dei disturbi d’ansia, del disturbo ossessivo-compulsivo, del disturbo post-traumatico da stress e del disturbo di panico.

Nel campo del trattamento psicologico dei disturbi dell’alimentazione è stata fatta poca ricerca sugli effetti dei sudden gains, a causa della mancanza di uno strumento adeguato in grado di identificarli. Infatti, mentre sono disponibili molti strumenti in grado di misurare i sintomi di ansia e depressione nei sette giorni precedenti (per es. Beck Depression Inventory e Beck Anxiety Inventory), la maggior parte degli strumenti disponibili e validati per la misurazione della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione (per es. Eating Disorder Examination interview (EDE) ed Eating Disorder Examination Questionnaire (EDE-Q)) coprono un periodo di 28 giorni e non sono stati progettati per rilevare i cambiamenti che si verificano da una seduta all’altra, ma solo per evidenziare una “risposta rapida” al trattamento, cioè un cambiamento clinicamente significativo dei sintomi specifici del disturbo entro la prima metà del percorso terapeutico.

Per far fronte a questo problema e per migliorare il trattamento dei pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione, il gruppo di ricerca clinica dell’Unità di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda ha ideato e validato un nuovo questionario, chiamato Eating Problem Checklist (EPCL).

Natura e utilizzo dell’Eating Problem Checklist (EPCL)

L’ Eating Problem Checklist (EPCL) è un questionario composto da 16 item, sviluppato per valutare la frequenza dei comportamenti e della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione negli ultimi 7 giorni.

Il questionario è suddiviso in due sezioni. La prima include 7 item che valutano il numero di episodi dei comportamenti legati al disturbo dell’alimentazione presenti negli ultimi 7 giorni, ed in particolare:

  • Abbuffate oggettive
  • Abbuffate soggettive
  • Vomito auto-indotto
  • Uso improprio di diuretici
  • Uso improprio di lassativi
  • Esercizio fisico eccessivo
  • Misurazione del peso

La seconda sezione si compone 11 item che valutano, su una scala Likert a 5 punti (0 = mai; 4 = sempre), la seguente psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, negli ultimi 7 giorni:

  • Evitamento del cibo
  • Riduzione delle porzioni
  • Check dell’alimentazione
  • Check della forma del corpo
  • Evitamento dell’esposizione del corpo
  • Preoccupazione per il peso
  • Preoccupazione per la forma del corpo
  • Preoccupazione per il controllo dell’alimentazione

L’analisi fattoriale condotta sugli item della seconda sezione ha prodotto due sottoscale:

  1. Preoccupazione per l’immagine corporea
  2. Preoccupazione per l’alimentazione

L’ Eating Problem Checklist può essere usato nella fase di assessment per valutare i comportamenti e la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione e durante il trattamento per valutare la loro modificazione. È adatto anche ad essere utilizzato nelle ricerche che valutano gli effetti del trattamento nei disturbi dell’alimentazione.

L’ EPCL è facilmente implementato nella pratica clinica perché è semplice da usare e richiede poco tempo per la sua compilazione. Attraverso la revisione dei punteggi di ogni singolo item, L’EPCL permette al terapeuta e al paziente di identificare eventuali cambiamenti che si verificano settimana dopo settimana, nelle specifiche e più importanti espressioni della psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione. L’identificazione di eventuali miglioramenti e/o peggioramenti nei singoli item dell’ EPCL permette di focalizzare il trattamento su specifiche aree di lavoro. Inoltre, attraverso la valutazione dei punteggi delle due sottoscale, questo strumento consente la valutazione settimanale dei cambiamenti nella psicopatologia dei disturbi dell’alimentazione.

Se usato durante la Terapia Cognitivo Comportamentale Migliorata (CBT-E) si consiglia di far compilare al paziente l’ Eating Problem Checklist una volta la settimana dopo la misurazione collaborativa del peso e poi rivedere con lui/lei ogni singolo item.

Questa revisione, se associata alla revisione delle schede di monitoraggio degli ultimi 7 giorni, aiuta ad evidenziare i cambiamenti avvenuti nelle varie espressioni della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione. Un cambiamento settimanale di almeno un punto in uno o più item dell’ EPCL può aiutare a identificare le espressioni comportamentali della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione del paziente da affrontare. Inoltre, registrando i dati settimanali dell’ EPCL su un foglio di calcolo, è possibile osservare se, come ipotizzato dalla CBT-E, la modificazione di determinati comportamenti (per esempio, l’adozione dell’alimentazione regolare, la riduzione della restrizione dietetica cognitiva, la misurazione collaborativa del peso, l’interruzione dei check disfunzionali della forma del corpo) si associ ad una riduzione successiva delle preoccupazioni per il peso, la forma del corpo e il controllo dell’alimentazione.

Validazione dell’ EPCL

La descrizione del questionario e della sua validazione è stata pubblicata sulla rivista Eating Disorders. Lo studio ha reclutato un campione di 161 pazienti con disturbo dell’alimentazione (87 pazienti erano ricoverati e 74 svolgevano una terapia ambulatoriale) e 379 controlli sani. Tutti i partecipanti allo studio hanno compilato l’ Eating Problem Checklist, inoltre i pazienti con disturbo dell’alimentazione hanno completato l’Eating Disorder Examination Questionnaire (EDE-Q) e il Brief Symptom Inventory (BSI).

L’analisi fattoriale, effettuata sugli 11 item che valutano la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione hanno evidenziato due sottoscale: “Preoccupazione per l’immagine corporea” e “Preoccupazione per l’alimentazione”, composte rispettivamente da 5 e 4 item.

La consistenza interna dello strumento è alta, con un Alpha di Cronbach di 0.89 e di 0.86 e 0.82 per le due sottoscale, rispettivamente.

La validità concorrente, misurata attraverso la correlazione di Pearson, ha indicato, come atteso, che lo strumento ha una forte associazione con l’EDE-Q, che misura la psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione e una più debole associazione con il BSI che, invece, valuta la psicopatologia generale.

Il confronto dei punteggi dell’ Eating Problem Checklist tra pazienti e controlli sani, indica che lo strumento è in grado di discriminare in maniera statisticamente significativa i due gruppi.

Infine, un’analisi effettuata su un sottogruppo di 75 pazienti (38 pazienti ricoverati e 37 in terapia ambulatoriale) che hanno completato almeno 20 sedute di CBT-E e compilato settimanalmente l’ EPCL, ha mostrato che lo strumento è in grado di identificare specifici miglioramenti o peggioramenti settimanali nella psicopatologia del disturbo dell’alimentazione. In particolare, nel campione ambulatoriale abbiamo osservato un cambiamento nel punteggio della sottoscala “Preoccupazioni per l’alimentazione” dalla seconda alla terza o quarta settimana, probabilmente come conseguenza della procedura dell’alimentazione regolare, mentre nel campione ricoverato il cambiamento è avvenuto dalla prima alla seconda settimana, probabilmente come risultato dell’alimentazione assistita.

Il cambiamento nel punteggio della sottoscala della “Preoccupazione per l’immagine corporea” è stato più graduale e un cambiamento significativo è stato osservato soltanto nel campione ospedaliero, nell’ultima parte del trattamento.

Assegnazione del Punteggio

Il punteggio totale è ottenuto sommando gli item della sezione due, mentre i punteggi delle due sottoscale sono ottenuti attraverso la somma dei seguenti item, sempre della seconda sezione: Preoccupazione per l’immagine corporea somma degli item 4, 5, 6, 7, 8; Preoccupazione per l’alimentazione somma degli item 1, 2, 3, 9.

Per saperne di più:

Versione italiana dell’Eating Problem Checklist (EPCL)
Scheda Riassuntiva dei cambiamenti settimanali dei punteggi dell’Eating Problem Checklist (EPCL)

Disturbi Specifici dell’Apprendimento, autostima e immagine di sé

In una scuola sempre più orientata al voto e alla performance, la prima realtà con la quale i bambini devono misurarsi è quella della valutazione, ma ciò può risultare molto difficile per un bambino con un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA) poiché, nonostante studi come o più dei suoi compagni, fatica ad arrivare ai medesimi risultati.

 

Prima di addentrarsi nei sentimenti e nelle percezioni di sé di un bambino con Disturbi Specifici dell’Apprendimento è utile ricordare che questi ultimi hanno una base neurobiologica, cioè rappresentano una diversa modalità di apprendere che si discosta dal modello dominante scolastico.

Il bambino è intelligente, non ha disfunzioni cognitive, tuttavia alcune alterazioni dei processi di automatizzazione fanno sì che prediligano apprendimenti di tipo spaziale-esperienziale piuttosto che verbale-mnemonico. Anche i tempi di apprendimento sono sensibilmente diversi da quelli standard imposti dal ritmo scolastico. Tutto ciò porta a delle serie difficoltà che il bambino si troverà a dover affrontare a scuola per raggiungere la tanto sognata sufficienza. Numerose evidenze scientifiche, infatti, hanno dimostrato che le differenze fra i bambini che falliscono o hanno successo a scuola non sono solo di tipo metacognitivo, ma anche di tipo emotivo-relazionale, un campo in cui la stima di sé ha un ruolo centrale.

Scuola ed immagine di sé

Il contesto scolastico, nel momento storico in cui viviamo adesso, è estremamente incentrato sulle performances. Ciò implica che la prima realtà con la quale i bambini devono misurarsi è quella della valutazione, ossia del voto. Questo meccanismo è terribile per un bambino che, nonostante studi come o più dei suoi compagni, non riesca ad arrivare ai medesimi risultati. L’ipotesi più plausibile è che il bambino, non avendo comprensione di questo fenomeno, inizi a pensare di non essere all’altezza dei suoi compagni, di essere mancante in qualcosa, mettendo in discussione la propria immagine di sé.

Spesso questa percezione di se stessi diventa talmente pregnante nell’organizzazione identitaria del bambino che può cominciare a generalizzarsi, manifestandosi non solo a scuola, ma anche in contesti extra-scolastici, allargandosi ad i vari contesti sociali. Quando ciò accade comincia a delinearsi un profilo caratterizzato da bassa autostima, in cui “io sono il voto che mi danno” diventa l’imperativo mentale dominante e la percezione di poter rimediare ad un insuccesso diventa sempre più sfocata.

È interessante notare, ad esempio, che i bambini con dislessia stimano talmente negativamente le proprie capacità e le loro possibilità di poter imparare a poter leggere più velocemente da adottare strategie che mirino ad “obiettivi di apprendimento” piuttosto che all’apprendimento in sé. Il più noto fra questi è la tendenza a completare le parole in base alla loro accessibilità dopo aver indentificato le prime sillabe, evitandone così la lettura completa (ad es. alla lettura di “Pan…” si completa automaticamente con “Panettiere”, quando magari la parola in questione era “pantofola”). I bambini dislessici diventano particolarmente abili ad utilizzare questo tipo di strategie compensatorie, aumentando così la loro tendenza ad attribuire all’esterno le cause dei loro successi e sperimentando sentimenti di disperazione e frustrazione ad ogni fallimento.

A completare il quadro di bassa autostima si aggiungono commenti di genitori ed insegnanti che, quando non hanno ben chiaro il quadro clinico del DSA, si lasciano andare a frasi come “Non si impegna”; “potrebbe fare di più”, etc. Queste affermazioni sono molto pesanti da metabolizzare per un bambino che ha imparato che anche il massimo dei suoi sforzi non è nemmeno lontanamente abbastanza per gli standard scolastici. Ciò accade perché anche queste frasi si muovono all’interno della semantica del giudizio, categoria che questi bambini hanno cominciato a temere. I bambini con DSA, infatti, mostrano alti livelli d’ansia per le situazioni che prevedono una valutazione (come un compito o un’interrogazione) tali da comprometterne la prestazione (Lufi, Okasha, Cohen, 2004).

Il vero nemico

Quando il bambino attiva un atteggiamento rinunciatario nei confronti della scuola, non tenta più di riuscire nei compiti giustificandosi con “tanto non sono capace”; è probabile che sia entrato nel circuito dell’impotenza appresa.

Seligman, psicologo statunitense, diede questo nome a quella sensazione di sfiducia che ci assale quando in passato siamo stati messi di fronte a situazioni simili a quella che stiamo affrontando al momento attuale, fallendo. L’equazione che scatta all’interno è qualcosa simile a “non dipende da me, non ci posso far nulla, non ci provo nemmeno”. Questa sensazione è il vero nemico dei DSA. Non le difficoltà di lettura, scrittura o calcolo (che ricordiamo, possono essere affrontante efficacemente con un buon potenziamento e con l’utilizzo degli strumenti compensativi–dispensativi), ma proprio la convinzione radicata che nulla potrà essere fatto per cambiare la situazione in cui ci si trova.

Inoltre quando questo tipo di atteggiamento porrà il bambino di fronte all’ennesimo insuccesso, questo verrà interpretato come prova della propria inadeguatezza e della propria incapacità, alimentando un circolo vizioso da cui è difficile per un bambino uscire da solo.

Cosa possiamo fare quindi?

Innanzitutto ricordiamoci che il voto ha un valore relativo. Un 7 ha un peso diverso se preso da un bambino che in matematica ha sempre avuto 10 rispetto ad un bambino che ha sempre preso 4. La prima cosa da fare, quindi, è uscire dalla gabbia dei voti, noi adulti per primi.

È importante che i bambini con DSA sentano che le loro difficoltà non minano il loro valore.

Insegniamo ai nostri bambini a riconoscere le loro abilità e ad individuare i loro limiti, riconosciamo i loro sforzi e la loro fatica anche quando i risultati non sono quelli che vorremmo e rinforziamo positivamente i loro successi.

Piano piano, riacquisita la fiducia in loro stessi, avranno risultati inediti, tali da mettere d’accordo le logiche del sistema scolastico e quelle del cuore.

Il disagio adolescenziale e il ruolo della scienza medica e psicologica – Report dal convegno di studi all’Aquila

Dalla precarietà della forma fisica al malessere psicologico, esistenziale, fino alle forme proprie del cyberbullismo, è chiaro il fatto che sono necessari interventi strutturati nel trattamento del disagio adolescenziale in cui psicologia, medicina e società agiscono in maniera sinergica sia in fase preventiva che riabilitativa.

 

Un intenso e aggiornato evento scientifico contraddistinto dall’alternarsi di esperti e relazioni che hanno riguardato vari aspetti della cura e della malattia degli adolescenti di oggi: dall’alimentazione alle malattie croniche fino alle conseguenze psicopatologiche del cyberbullismo.

Queste le caratteristiche salienti del V Corso Nazionale della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza, svoltosi lo scorso 20 Ottobre nella prestigiosa sede del Canadian Hotel della città dell’Aquila, in un momento in cui la ricostruzione della sofferenza patita da una città pareva a tratti riecheggiare la lenta e sofferta ricostruzione della traiettoria di vita di tanti adolescenti di oggi e delle loro famiglie.

Per malattia cronica ci si riferisce a tutte quelle condizioni patologiche che richiedono un’ospedalizzazione per più di un mese all’anno, come la paralisi cerebrale infantile, a cui si accompagna la disabilità, ovvero la perdita o la limitazione delle funzioni psicocorporee, e il disagio conseguente – apre i lavori Piernicola Garofalo, Dirigente medico dell’Unità operativa di Endocrinologia dell’Azienda Ospedali riuniti Villa Sofia-Cervello di Palermo – Da qui la necessità di un percorso assistenziale che definisca precisamente i professionisti, il setting, la tempistica e le procedure di cura del paziente. Il paziente con malattia cronica deve essere posto al centro dell’assistenza a lui dedicata, al fine di sviluppare le funzioni residue e promuovere la crescita del Sé, il benessere spirituale, la progettualità futura, il diritto a divenire persona adulta, meritevole di vita.

Il paziente grave esprime emozioni, anche se non visibili, che i professionisti hanno l’obbligo deontologico di captare, utilizzando l’empatia, formandosi adeguatamente sul corretto utilizzo dei presidi necessari in corso di patologia, sostenendo un percorso di cura che vada dall’ospedale alla casa, attraverso l’assistenza domiciliare, nel contempo sostenendo la famiglia, anche dopo la morte del figlio – continua Lorenzo Iughetti, Direttore UO Pediatria presso AOU Policlinico di Modena.

Adolescenti dalla salute precaria, dove sovente ciò si declina nelle forme dell’obesità, richiedendo terapie intensive, fondate, tra le altre, sull’attività sportiva.

È noto come l’attività sportiva contrasti l’obesità, inibendo il rilascio di cannabinoidi stimolanti l’assunzione di cibo, oltre che i fenomeni infiammatori dell’organismo. È altresì importante sottolineare come a durata crescente di esercizio fisico cresca l’utilizzazione dei grassi e che, in generale, l’esercizio fisico debba essere consigliato nelle malattie croniche, come il tumore e le cardiopatie, consigliando un’attività anaerobica una volta al giorno e fino a tre volte a settimana attività aerobica – commenta Giulia Cafiero, Direttore dello Studio Medico Polispecialistico A.S.A. di Roma – Ancora lo sport migliora il tono dell’umore, specialmente in età adolescenziale, caratterizzata da variabilità tipiche nell’espressione emotiva, contribuendo a formare l’identità corporea, l’affiliazione e l’aspirazione al successo.

Dalla precarietà della forma fisica al malessere psicologico, esistenziale, nelle forme proprie del cyberbullismo, un fenomeno preoccupante, dagli esiti potenzialmente fatali, e che richiede interventi strutturati, complessi, in cui psicologia, medicina e società non possono non collaborare, in fase preventiva e riabilitativa.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Il disagio adolescenziale: tra medicina e psicologia - Convegno all'Aquila

Il cyberbullismo comprende tutte quelle forme di prevaricazione su una vittima che utilizzano la potenza degli strumenti mediatici e l’anonimato dell’aggressore, con la finalità di squalificare e aggredire un soggetto debole, vuoi per disabilità di tipo fisico che sociale – spiega Angela Ganci, psicologo psicoterapeuta di Palermo, specialista nel campo dell’abuso minorile – La violenza del cyberbullo non conosce confini temporali; per proteggersi la vittima spesso si rifugia nel Web, alla ricerca disperata di conforto, con il serio rischio di imbattersi in siti pro-suicidio, ricercando in alcuni casi attivamente metodi di autosoppressione per porre fine a un’angoscia radicata. Ecco l’attenzione elevata di famiglie e scuola, chiamate a informare l’adolescente circa le modalità di attacco del bullo, denunciando tempestivamente atteggiamenti sospetti, come la richiesta di foto intime, fonte di ricatto, prevenendo la caduta nella spirale della violenza online. Un compito delicato, in cui i professionisti della salute affiancano scuola e famiglia per il benessere mentale delle future generazioni.

Fumo di sigaretta: danneggia i figli attraverso modificazioni epigenetiche

I padri che fumano potrebbero recare danni al cervello dei loro figli causando deficit cognitivi. Le responsabilità di questi danni sono dovute alle modifiche genetiche che questo vizio comporta allo sperma dei padri. 

 

I padri che fumano possono causare deficit cognitivi ai figli e persino ai nipoti, secondo uno studio pubblicato sulla rivista PLOS Biology dei ricercatori della Florida State University di Tallahassee. Non a causa del fumo passivo, ma per i cambiamenti epigenetici nei geni dello sperma.

Come spigano i ricercatori del seguente studio, già studi precedenti hanno dimostrato come la nicotina e ad altri componenti presenti nel fumo di sigarette, sono riconosciuti come fattori di rischio significativi per lo sviluppo di disordini comportamentali, come il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD). Quello che ancora non risultava chiaro era come fosse possibile da parte dei padri, visto che risultava difficile distinguere i fattori genetici da quelli ambientali.

Fumo di sigaretta: la ricerca dimostra come danneggia la progenie

Per ottenere delle risposte a questi dubbi, Deirdre McCarthy, Pradeep Bhide e colleghi hanno esposto un gruppo di topi maschi a basse dosi di nicotina somministrate attraverso l’acqua durante il periodo di vita in cui i maschi di topo producono sperma. Di seguito gli scienziati hanno fatto accoppiare i topi (ai quali era stata somministrata la nicotina) con femmine mai esposte alla nicotina. Dai dati è emerso che, mentre i padri non mostravano alcun  problema comportamentale, i figli, di entrambi i sessi, risultavano iperattivi, avevano deficit di attenzione e inflessibilità cognitiva. Quando i topi femmina di questa generazione venivano fatte accoppiare con maschi che non erano mai entrati in contatto con la nicotina, i figli mostravano meno deficit cognitivi, ma pur sempre significativi.

Le analisi eseguite sugli spermatozoi dei topi esposti alla nicotina, hanno dimostrato modifiche a livello epigenetico, in modo particolare per quanto riguarda la dopamina D2, fondamentale per lo sviluppo del cervello e dell’apprendimento, suggerendo che queste modificazioni probabilmente, potrebbero aver contribuito ai deficit cognitivi evidenziati nei topi.

Come ha detto Bhide

Gli uomini fumano più delle donne e questo  potrebbe rappresentare una minaccia per la salute pubblica.

Queste scoperte sottolineano la necessità di ulteriori ricerche sugli effetti del fumo sull’essere mano.

Gli effetti della risposta allo stress sulla memoria

Il concetto di stress, la cui natura è primariamente fisiologica, ha oggigiorno assunto un significato multiforme ed è entrato a far parte della quotidianità della maggior parte degli individui, anche per le conseguenze su memoria e attenzione.

 

È indubbio che le richieste ambientali della nostra modernità abbiano condotto a stili di vita frenetici e spesso faticosi, sia dal punto di vista fisico che mentale, conducendo talvolta a conseguenze mediche rilevanti che necessitano una presa in carico; tale è l’importanza che lo stress riveste nella nostra società che diviene essenziale la comprensione di come esso agisca sul nostro organismo determinando in primo luogo la risposta fisiologica e successivamente gli effetti su funzioni cognitive fondamentali, quali attenzione e memoria.

Stress: distinzione tra quello assoluto e quello relativo

Innanzitutto è necessario precisare che lo stress, la cui risposta ha una valenza adattiva per gli animali, può essere considerato assoluto o relativo. Nel primo caso si tratta di reazioni fisiologiche che si attivano in presenza di minacce oggettive alla propria incolumità (un predatore, un incidente, una calamità naturale), mentre il secondo riguarda eventi la cui interpretazione suscita ugualmente sensazioni di minaccia ma che, proprio per la natura interpretativa della situazione, risultano soggettive. Sebbene la risposta allo stress, in entrambe le tipologie, sia per certi aspetti la medesima, la reazione fisiologica allo stress relativo è nella maggior parte dei casi più mite, poiché non si presenta come una reazione di sopravvivenza a una minaccia concreta, bensì la minaccia viene considerata tale a seguito di una valutazione cognitiva dell’evento/situazione. In breve, un evento oggettivamente minaccioso come un disastro naturale attiverà nella quasi totalità delle persone la stessa considerevole cascata neurochimica e gli stessi agiti, mentre in concomitanza di un evento soggettivamente stressante (un carico di lavoro considerato eccessivo, la fine di una relazione sentimentale importante, la percezione di non possedere abbastanza risorse per fronteggiare un problema ecc.) la reazione sarà mediata dalle caratteristiche individuali di ciascuno di noi, con effetti quindi variabili.

Stress: cosa scatena nel nostro corpo

Il meccanismo alla base della risposta fisiologica allo stress vede implicate strutture specifiche del cervello e viene chiamato Asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (HPA). In sintesi, un evento stressante (assoluto o relativo) attiva l’ipotalamo, che rilascia l’ormone di rilascio della corticotropina (CRH), il quale a sua volta innesca la secrezione di un altro ormone chiamato adrenocorticotropina (ACTH) dall’ipofisi; attraverso il sangue l’ACTH raggiunge le ghiandole surrenali che da ultimo rilasciano i cosiddetti ormoni dello stress. I prodotti finali di questa catena neurochimica sono appunto gli ormoni dello stress, i quali si dividono in due classi principali: glucocorticoidi (corticosterone negli animali e cortisolo negli esseri umani) e catecolamine (adrenalina e noradrenalina). Se l’attivazione dell’Asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene è considerata una risposta adattiva dell’organismo in quanto prepara il corpo a reazioni di attacco-fuga davanti a pericoli per la propria sopravvivenza (ad esempio la secrezione di catecolamine è uno dei meccanismi per mezzo dei quali il sistema nervoso simpatico opera in situazione di emergenza), il suo stato di attività prolungata può determinare conseguenze negative come ipertensione e più frequente esposizione ad infezioni in quanto l’HPA sopprime temporaneamente le funzioni immunitarie. Come in molti altri casi, la modalità di attivazione cronica di HPA deve ritenersi un fattore rilevante, che comporta varie compromissioni funzionali dell’organismo e dunque una variabile da tenere in considerazione e sui cui intervenire.

Stress: come incide sulla nostra attenzione

Nonostante non vi siano studi univoci su come e quanto la sovrabbondanza di glucorticoidi, causata da una attività protratta di HPA, arrechi effetti negativi sulla funzionalità del cervello (i glucorticoidi sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica agendo quindi direttamente sul sistema nervoso), molte ricerche considerano questi ormoni come responsabili del decremento in alcuni domini cognitivi, in particolare l’attenzione (inducendo una ipovigilanza a determinati stimoli) e la memoria; si ipotizza che gli effetti sulla memoria potrebbero essere causa di una possibile riduzione del volume dell’ippocampo, area del sistema limbico implicata nel materiale mnestico di tipo dichiarativo, con il risultato di un malfunzionamento nell’elaborazione delle informazioni esplicite.

Una meta-analisi condotta da Lupien e collaboratori (2007) espone una serie di numerosi risultati i cui ambiti di ricerca riguardano appunto gli effetti dei glucorticoidi esogeni ed endogeni sulla cognizione e sul volume dell’ippocampo, trovando differenze sostanziali tra i vari studi, spesso totalmente contrastanti. Dal momento che i risultati controversi impediscono di interpretare le scoperte in una sola direzione, è necessario essere cauti e frenare qualsiasi tentativo di oggettivare la relazione stress-glucorticoidi-cognizione, tenendo aperte le porte della ricerca sperimentale.

Stress: perchè influenza la nostra memoria

Per quanto riguarda la memoria si riporta la descrizione proposta da Siegel, alla quale da qui in poi si farà riferimento:il termine memoria si riferisce al modo in cui un evento del passato influenza un processo del futuro (Siegel, 2014).

Tale descrizione considera la memoria un processo mentale che comporta un’eccitazione neuronale a seguito di un evento che verrà codificato, immagazzinato e successivamente rievocato, il cui richiamo condurrà all’attivazione di pattern simili di attivazione neuronale in un secondo momento. Il ricordo di un’esperienza passata può essere sia di tipo esplicito che implicito, dando origine alla comune classificazione della memoria che conosciamo; nonostante a livello dei substrati neurobiologici si verifichi la stessa eccitazione neuronale, ovvero gli stessi stadi di codifica, immagazzinamento e richiamo, le modalità con cui il ricordo viene percepito sono diverse a seconda che si tratti di memoria esplicita o implicita. Nello specifico, mentre nella memoria esplicita (dichiarativa) si ha la sensazione interiore di star ricordando un evento del passato (Siegel definisce questa sensazione ecforia, ovvero l’atto di richiamare alla mente), in quella implicita manca questa sensazione a livello cosciente, per cui un evento (o eventi) codificati ed immagazzinati nel passato possono presentarsi ed influire sul proprio presente senza avere reale consapevolezza. Le origini delle distorsioni cognitive (bias), di pattern emozionali e di comportamento che portano a reazioni automatizzate, persino le percezioni legate al senso del corpo, potrebbero qui trovare una robusta spiegazione scientifica, in quanto stimoli precedentemente immagazzinati nella memoria implicita e che si ripropongono senza che l’individuo ne abbia piena coscienza sono in realtà il richiamo di esperienze avvenute nel passato.

Stress: cosa succede quando è estremo

Comprendere i meccanismi di codifica, immagazzinamento e richiamo di materiale all’interno dei circuiti della memoria, può avere enormi implicazioni cliniche, poiché capita spesso di incontrare persone che iniziano percorsi psicoterapeutici a causa di esperienze stressanti o francamente sconvolgenti come un trauma. Innanzitutto è bene tenere conto che l’ippocampo, considerato la struttura cerebrale in cui avviene l’immagazzinamento di materiale dichiarativo, codifica eventi e informazioni esclusivamente in presenza di attenzione focalizzata (volontaria), mentre la memoria implicita funziona anche senza l’attenzione consapevole. A livello neurochimico una risposta allo stress molto forte con produzione eccessiva di cortisolo (glucocorticoide) induce un’inibizione della funzione dell’ippocampo, impedendo la codifica di materiale in forma esplicita; inoltre le catecolamine, anch’esse prodotte a seguito della risposta allo stress, possono condurre a compromissioni della memoria dichiarativa, dal momento che intensificano la codifica implicita della paura che avviene nell’amigdala. Dunque un evento enormemente stressante come può essere un’aggressione fisica, può portare a un blocco della codifica esplicita a favore di quella implicita, causando inevitabilmente una mancata integrazione tra i due tipi di memoria. Queste reazioni neurofisiologiche sono utili per spiegare alcuni sintomi invalidanti che compaiono nel disturbo da stress post-traumatico come flashback o sensazioni corporee intrusive: eventi, emozioni e percezioni corporee codificate implicitamente (senza quindi attenzione focalizzata) impediscono un richiamo cosciente che può condurre ad un stato confusionale e non integrato.

Conoscere come opera la memoria ha un riscontro clinico importante, come già accennato, poiché la consapevolezza di come reagiamo a determinati stimoli, il perché proviamo certe sensazioni ed emozioni, è una base fondamentale da cui partire per un lavoro terapeutico volto al raggiungimento del benessere. La memoria fa parte di quelle funzioni del cervello indispensabili per l’adattamento e la sopravvivenza per cui fornire informazioni sulle modalità e i meccanismi soggiacenti è un’opportunità clinica non trascurabile; inoltre fornire spiegazioni su come lo stress può interagire con questa funzione e comprometterne l’efficienza diviene indispensabile per incrementare la conoscenza interiore e rendere le persone capaci di percepirsi esseri attivi nella risoluzione delle loro problematiche emotive.

Le basi neurali, l’integrazione, la consapevolezza dei nostri stati interni sono tutti fattori che possono incrementare la mindsight, ovvero la vista della mente, l’essere in grado cioè di osservare e comprendere il mondo interiore proprio e degli altri, senza basarsi esclusivamente sui comportamenti manifesti: l’allenamento alla mindsight è un atto terapeutico che concediamo a noi stessi e che può aiutarci a fronteggiare le sfide della vita: la nostra vita come singoli e quella con gli altri di cui le relazioni sono la massima espressione.

Diagnosi e destino (2018) di Vittorio Lingiardi: il valore della diagnosi nella relazione di cura – Recensione del libro

Un meraviglioso libro, Diagnosi e destino (Einaudi Editore) di Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, professore ordinario di Psicologia Dinamica presso l’Università La Sapienza di Roma, che si occupa di una tematica molto cara a tutti i professionisti del settore di cura: la diagnosi.

 

Perché succede così spesso che nonostante i più sinceri sforzi da entrambe le parti il rapporto tra medico e paziente è insoddisfacente e perfino causa d’infelicità?
Michele Balint

 

Diagnosi e destino è un libro diviso in tre capitoli. Il primo, Diagnosi e tormento, pone l’accento sulle sfumature emotive di chi fa diagnosi e di chi la riceve, facendo lunghe riflessioni sull’importanza delle parole e sul peso che esse hanno non solo nel definire ma anche nel delineare prospettive di speranza o di chiusura. Le parole come strumento per raccontare e per comprendere ma anche per ridurre la componente della disperazione. In questa prima parte si apre un’interessante riflessione tra metaforici della malattia e razionalisti, alla ricerca della verità nuda e cruda senza immaginari sociali.

Il secondo capitolo, Diagnosi e difese, tra immagini e citazioni ci conduce nel corpo e nell’anima della diagnosi ponendo l’attenzione su tutte le casse di risonanza emotiva che abitano il paziente e il medico o terapeuta. Qui l’autore, parlando dell’importanza della conoscenza di tali processi interiori, ci ricorda che spesso la cura sta nelle difese che il paziente mette in atto. Guardare alle difese ci consente di seguire l’evoluzione e la trasformazione della malattia nel tempo, attivando anche la prevenzione rispetto al “destino” che si sviluppa post diagnosi.

E infine il terzo capitolo, più complesso o semplicemente più interessante, in cui il terapeuta è spinto a farsi molte domande e a posizionarsi rispetto alle due grandi categorie di chi fa diagnosi e chi dice di non farla. Lingiardi sostiene che sia impossibile non fare diagnosi, perché essa stessa è la bussola per muoverci nel terreno complicato e complesso della psichiatria e delle psicopatologia.

L’importanza della diagnosi

Un libro pieno di richiami e riflessioni, affascinante e delicato che porta il lettore a conoscenza delle tesi e della complessità di una cosa apparentemente semplice e di fatto profondamente piena di insidie, tecniche e procedure.

Sigmund Freud nel 1915 sosteneva che il compito di uno psicoterapeuta non fosse solo quello di descrivere dei fenomeni e classificarli, quanto piuttosto concepirli come indizi di un gioco di forze che si svolgono nella psiche e che diventano una modalità funzionale o disfunzionale a seconda della prospettive da cui le si guarda. I fenomeni psichici come espressione di tendenze dell’individuo orientate verso un fine e che operano insieme o in contrasto. Lo sforzo terapeutico è in tale ottica il raggiungimento di una concezione dinamica dei fenomeni psichici.

Tutti noi prima o poi nel corso della nostra vita riceviamo una diagnosi, un giorno arriva qualcuno seduto dalla parte della scrivania nella posizione di chi osserva che ci dirà qualcosa in termini diagnostici che cambierà la nostra vita in meglio o in peggio, ci farà una diagnosi che ci accompagnerà per un tratto della vita o per sempre, e che magari modificherà il nostro modo di guardare noi stessi o il futuro.

La parola diagnosi deriva dal greco e significa letteralmente “conoscere attraverso”, quindi essa è prima di tutto un processo di conoscenza che il diagnosticato vive insieme al diagnosticante, sia esso medico, psichiatra , psicoterapeuta , ecc. Tale processo di conoscenza implica fin dall’inizio uno spazio relazionale in cui tale processo si attiva e assieme ad esso si attivano molteplici processi che coinvolgono i due attori: un processo di conoscenza di se stessi, un processo di conoscenza tra l’esaminatore e l’esaminato, un processo di conoscenza tra il soggetto e i farmaci, un processo di conoscenza che implica l’incontro con diverse figure professionali, ma sopratutto l’incontro del soggetto con se stesso, con il suo corpo e tra esso e le sue reazioni alla cura. La stessa malattia può avere effetti diversi su soggetti diversi e questo lascerebbe pensare anche che è importante non sottovalutare, come diceva Ippocrate, quale malattia viene a quale paziente.

In tale ottica sembrerebbe chiaro che la persona, il suo mondo e la sua complessità debbano essere al centro dell’osservazione; non solo i suoi sintomi, che consentono la categorizzazione ma non la comprensione della complessità che abita quello specifico individuo in quanto unico e irripetibile.

La relazione medico-paziente

Perché molti medici o molti psicoterapeuti sembrano sottovalutare o trattare male questo prezioso alleato che è l’individuo con le sue mille sfumature? Perché, come dice Lingiardi: “quando si fa una tac ad un soggetto non ci si preoccupa che non prenda freddo???”

Jon Dhonne sosteneva “la miseria massima della malattia è la solitudine”, e viene naturale chiedersi come il clinico possa aiutare il paziente ad uscire da questa solitudine, determinata dalla presenza di “curatori” dimezzati, che guardano al soggetto senza guardare alle sue componenti psicologiche. Il clinico “intero” non è un medico o un terapeuta perfetto, ma è quello che comprende, che conosce e possiede delle caratteristiche che gli consentano un ascolto empatico del paziente, una visione olistica e la capacità di restituire al paziente e alla sua famiglia non solo una diagnosi e le sue procedure di cura, ma una relazione di alleanza alla quale aggrapparsi e nella quale trovare rifugio nei momenti di paura o di timore. Il medico stesso diventa in tale ottica, la cura e la relazione terapeutica che diventa un “atto terapeutico”.

Diceva Balint:

Il problema reale in un individuo è la malattia di tutta la persona, ed è la diagnosi che consente un passaggio da una situazione “non organizzata “ ad “una più organizzata”; il medico attraverso l’ascolto del paziente riconosce le sfumature anche dentro di sé, attivando una sorta di “controtransfert diagnostico”.

Spesso, sostiene Lingiardi

La malattia descritta nei trattati non coincide con la persona che ne soffre, la cosiddetta evidence-based medicine non basta a rappresentare la realtà clinica, che è più euristica che algoritmica.

avremmo bisogno, come sostiene Rugali “di una teorizzazione sulla medicina in assenza di evidenze”.

Nonostante il progresso e la tecnologia in ambito medico e terapeutico ci offrano infinite possibilità di miglioramento rispetto alla cura, noi non dobbiamo dimenticare quello che è il ruolo della semiotica nella malattia, perché, come dice Lingiardi

La fragilità a cui ci espone la diagnosi è ormai parte di noi, per poco tempo o per sempre. Con sé può portare la possibilità di ripensare la nostra storia e il nostro futuro, il nostro posto nel mondo.

In conclusione

Questo piccolo libro per dimensioni, ma enorme per contenuti, è un dono che ogni clinico dovrebbe ricevere, è uno strumento di lavoro ma anche di riflessione, che ci consente di fare un viaggio cognitivo ed emotivo personale, antropologico e sociale, in questo mondo della diagnosi che ci coinvolge e ci riguarda tutti, indipendentemente dalla posizione da cui osserviamo o siamo osservati.

L’inserimento in classe di un bambino figlio di una coppia omogenitoriale – Le risposte di FluIDsex

Sono un’insegnante della scuola dell’infanzia. A settembre mi occuperò dell’inserimento all’interno della classe di un bambino di una coppia gay. È La prima volta che mi trovo a vivere quest’esperienza. Mi potete consigliare una lettura che mi aiuti ad affrontare questa nuova avventura come insegnante e come persona? Grazie.

 

Buongiorno,

a questo proposito le consiglierei un libro appena uscito quest’anno “Incontrare persone LGB. Strumenti concettuali e interventi in ambito clinico, educativo e legale”.

Nella sezione 4, dal titolo Interventi in ambito scolastico: accogliere, insegnare, promuovere inclusione, può trovare informazioni riguardo le seguenti tematiche:

  • Attenzione a bullismo
  • Attenzione a includere certe tematiche all’interno della classe (non escludendo gli altri bambini e genitori)
  • Non patologizzare la situazione
  • Attenzione al vocabolario usato (es. consegne contenenti padre-madre declinarli a tutte le situazioni)
  • Riflettere sui propri eventuali pregiudizi e stereotipi a riguardo per poterne per lo meno esserne consapevoli

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Appisolarsi durante il giorno aiuta ad immagazzinare informazioni inconsce

Spesso si consiglia di fare un pisolino giornaliero per sentirsi meglio durante la giornata. Il perché ce lo spiegano gli esperti..

 

L’Università di Bristol ha indagato perché fare un pisolino può essere così utile nel promuovere uno stato di benessere. In particolare, è emerso che fare un pisolino ogni giorno può aiutare ad elaborare informazioni in maniera inconsapevole, con ricadute significative sul proprio comportamento e sui tempi di reazione.

La letteratura mostra diverse evidenze circa i benefici del fare un pisolino sulle funzioni cognitive e su come le informazioni vengano elaborate inconsciamente durante questi brevi momenti di sonno. Inoltre fare un pisolino sembra portare anche ad una migliore prestazione in compiti di problem solving, con un miglioramento delle funzioni cognitive al risveglio; in questo caso tuttavia ancora non è chiaro se ciò sia dovuto ad un’azione sui processi cognitivi durante o prima del sonno.

Lo studio

Nello studio condotto presso l’Università di Bristol, ai soggetti sono state presentate informazioni molto brevi per far sì che fossero elaborate inconsciamente attraverso il priming, una tecnica in cui l’esposizone ad uno stimolo influenza una risposta successiva senza che questa intenzione sia cosciente.

Allo studio hanno partecipato 16 soggetti di differenti età. Ogni partecipante doveva svolgere due compiti: il primo con informazioni presentate attraverso il priming ed il secondo, di controllo, in cui i soggetti dovevano dare determinate risposte dopo la visualizzazione sullo schermo di un riquadro rosso o blu.

Sono state realizzate due condizioni sperimentali, alcuni soggetti sono rimasti svegli mentre altri hanno fatto un pisolino di 90 minuti prima di ripetere i compiti. Con l’utilizzo di un EEG che misura l’attività cerebrale, i ricercatori hanno analizzato le differenze nelle risposte dei soggetti in relazione alla risposta prima e dopo il pisolino.

I soggetti assegnati alla condizione in cui era possibile dormire, presentavano un miglioramento nella velocità di elaborazione delle informazioni nel compito in cui le informazioni venivano presentate attraverso il priming ma non in quello di controllo. Di conseguenza, sembrerebbe che il sonno aiuti l’elaborazione delle informazioni implicite.

Dai risultati si evince quindi che ci sia un potenziamento dell’elaborazione mentale dettato dal sonno stesso e che ciò potrebbe ottimizzare le performance in tasks di problem-solving e di altra tipologia.

Concludendo, ciò che suggerisce questo studio è come le informazioni acquisite durante il periodo di veglia possano essere potenzialmente elaborate durate il sonno in modo qualitativamente migliore e più profondo, anche se in futuro per poter avere maggior conferme di questo fenomeno si dovranno effettuare ricerche con un campione più ampio, confrontando come ciò possa variare in relazione all’età, indagando cosi i meccanismi neurali sottostanti.

Si sdrai sul lettino e mi faccia un ABC: l’integrazione assimilativa in psicoterapia

L’ integrazione assimilativa è l’incorporazione di tecniche appartenenti a una terapia “ausiliaria” (in quanto non corrispondente a quella in cui il terapeuta si è formato) nella terapia primaria (quella in cui un terapeuta si è specializzato).

 

Sono diverse le variabili che portano uno psicoterapeuta a preferire uno specifico orientamento ad altri, tuttavia, compiuta la scelta, non si esclude la possibilità che il terapeuta possa rivolgere lo sguardo a tecniche provenienti da altri orientamenti con l’intento di proporle in seduta al paziente, soprattutto in quei casi in cui l’approccio psicoterapico di appartenenza si è rivelato poco efficace. Affinché ciò sia possibile, oltre alla scontata e adeguata formazione sulle tecniche che si desidera importare dagli altri orientamenti, ci sono dei precisi accorgimenti da rispettare, in virtù della tutela del paziente in primis ma anche della stessa Psicoterapia. E’ a questo proposito che l’ integrazione assimilativa entra in gioco.

Integrazione assimilativa

L’ integrazione assimilativa adotta una posizione contestualista (Pepper, 1942), in cui una tecnica terapeutica non resta scevra dalle influenze dell’approccio in cui viene importata: essa infatti deriva il suo significato all’interno delle teorie dell’orientamento terapeutico in cui è impegnata. Ad esempio, la tecnica delle due sedie, tecnica appartenente alla terapia gestaltica, impiegata da un terapeuta cognitivo-comportamentale può avvicinarsi più ad un allenamento di assertività che di risoluzione del conflitto esperienziale, scopo per cui è tipicamente impiegata nella terapia della Gestalt (Messer, in Lazarus & Messer, 1991).

Quindi, quando una procedura clinica che è stata concettualizzata e praticata all’interno di una terapia viene successivamente incorporata in una terapia di diverso orientamento, è importante considerare:

  1. la sua collocazione concettuale all’interno del nuovo quadro terapeutico (il suo aspetto accomodativo);
  2. il suo significato clinico all’interno del nuovo contesto (il suo aspetto assimilativo);
  3. e la validità empirica della sua efficacia (il suo aspetto scientifico) nel nuovo contesto.

Integrazione teorica, eclettismo tecnico e fattori comuni

Verrebbe quindi da chiederesi quale differenza ci sia tra l’utilizzo nel proprio studio di “tecniche importate”, magari da mettere nella cassettina dei nostri attrezzi pronte per essere tirare fuori all’occorrenza, e l’integrazione assimilativa. Per non creare confusione al lettore, è bene a questo riguardo, e prima di entrare nel vivo dell’argomento, distinguere tra integrazione teorica, eclettismo tecnico e fattori comuni.

  • L’integrazione teorica tenta una sintesi concettuale di diverse psicoterapie alla ricerca di un nuovo quadro teorico sovra-ordinato che può guidare significativamente la ricerca e la pratica. Lamproupolos (2001) ne sottolinea tre limiti: sebbene l’obiettivo finale e ideale dell’integrazione teorica sia l’unione di quante più teorie possibili (se non tutte), i tentativi esistenti sono riusciti ad integrare solo due o tre teorie al massimo. Un secondo limite è che, attraverso tale integrazione, ci si può concentrare solo su specifici disturbi psicologici e non su tutte le categorie diagnostiche. Una terza e maggiore debolezza dei modelli integrativi teorici esistenti è l’integrazione di solo quegli aspetti delle teorie pure che sono compatibili l’uno con l’altro. A tutto ciò vanno aggiunti gli scarsi riscontri empirici. Per questo motivo gli studiosi si sono via via spostati verso l’eclettismo tecnico.
  • L’eclettismo tecnico è un approccio empirico che mira alla combinazione delle tecniche più efficaci esistenti in terapia, indipendentemente dalla loro origine teorica, in modo tale da massimizzare i risultati terapeutici per uno specifico paziente nel minor tempo possibile. Eclettismo e abbinamento prescrittivo, basati sulla raccomandazione di ricerca di Paul (1967), secondo cui ci si deve sempre domandare “Quale trattamento, da parte di chi, è più efficace a livello individuale con quello specifico problema, e in quale serie di circostanze?“. Diverse ricerche hanno provato a fornire una struttura empiricamente validata dei criteri da seguire nell’abbinamenti prescrittivo. Un lavoro senza dubbio utile e auspicabile ma, come ricorda Lamproupolos (2001) molto difficile da realizzare e dal quale siamo ancora ben lontani.
  • L’approccio basato sui fattori comuni è la ricerca di elementi comuni in tutte le terapie efficaci indipendentemente dalla terminologia variabile. Questo approccio ha prodotto diverse liste di fattori comuni proposti (vedi Grencavage & Norcross, 1990), ha facilitato un riavvicinamento tra terapie diverse e ha dato vita a un filone di ricerca considerevole (Hubble, Duncan e Miller, 1999; Wiser, Goldfried, Raue e Vakoch, 1996). Tuttavia, ci sono molte importanti questioni metodologiche che oscurano il suo ulteriore sviluppo. Uno di questi punti deboli è che ciò che appare superficialmente essere comune tra due o più teorie, in realtà nasconde importanti differenze a uno sguardo teorico più attento (Messer & Winokur, 1980; Safran & Messer, 1997). L’approccio dei fattori comuni è dunque limitato in quanto rappresenta un consenso in un livello astratto e fornisce solo un quadro generale per l’integrazione in psicoterapia che non può guidare adeguatamente la pratica integrativa e la ricerca (Lampropoulos, 2000).

Integrazione assimilativa: un ponte tra integrazione teorica ed eclettismo tecnico

L’ integrazione assimilativa è stata suggerita da Messer (Lazarus & Messer, 1991; Messer, 1992) come alternativa all’eclettismo tecnico. Tale tipo di integrazione infatti prevede che, quando le tecniche derivanti da diversi approcci teorici sono incorporate nel proprio orientamento teorico principale, il loro significato interagisce con il significato della teoria ospitante. In questo modo sia la tecnica importata che la teoria preesistente si trasformano mutualmente e sono modellate nel prodotto finale, ovvero il nuovo modello integrativo assimilativo.

Messer spiega cosa potrebbe accadere nella mente del terapeuta che tende ad assumere la prospettiva dell’ assimilazione integrativa: “Sono stato formato e ha fatto pratica secondo uno specifico approccio teorico che mi piace e in cui credo, che è relativamente efficace con la maggior parte dei pazienti e con molte problematiche. Inoltre è piuttosto difficile, se non impossibile, integrare tutti gli aspetti della mia teoria a tutti gli aspetti di una o più delle altre teorie (come nel caso dell’integrazione teorica) o trattare scientificamente tutti i pazienti e tutte le problematiche in tutte le situazioni con il miglior intervento empiricamente validato (cioè, raggiungere l’eclettismo tecnico). Pertanto, manterrò la mia teoria originale incorporando anche quegli interventi empiricamente supportati nelle altre terapie: questo ripagherà le debolezze del mio orientamento attraverso quegli aspetti teorici compatibili con il mio orientamento ma previsti in esso, cercando di ottenere un risultato teoricamente coerente e clinicamente significativo”. In questo senso, l’ integrazione assimilativa può essere vista come un ponte tra due visioni principali ma contrastanti dell’integrazione in psicoterapia: l’integrazione teorica e l’eclettismo tecnico. L’ integrazione assimilativa può essere il modo migliore di integrare la teoria e le scoperte empiriche e di ottenere la massima flessibilità ed efficacia sotto un quadro teorico guida.

Integrazione assimilativa: i criteri a cui prestare attenzione

Tuttavia, anche nel caso dell’ integrazione assimilativa, ci sono degli criteri a cui prestare attenzione:

1. Il “dove” dell’ assimilazione: l’orientamento terapeutico di appartenenza del clinico dovrebbe avere numerose componenti empiricamente validate, prima di assimilare altre tecniche in esso.
2. Il “cosa” dell’ assimilazione: le tecniche da assimilare alla propria teoria devono essere supportate empiricamente. Ovviamente, la ragione per assimilare altre tecniche o interventi nella propria teoria dovrebbe essere quella di affrontare problemi specifici per i quali tali interventi o tecniche sono stati convalidati e per i quali la teoria primaria si è mostrata “carente” o non adeguata.
3. Il “quando” dell’ assimilazione: nella selezione delle tecniche appropriate da assimilare e utilizzare in seduta, bisogna prestare attenzione altresì al momento idoneo ad introdurre tali tecniche al paziente. Anche in questo caso, bisogna far riferimento ai dati empirici presenti in letteratura.
4. Il “come” dell’ assimilazione: il modo in cui viene effettuata l’ assimilazione richiede un’attenta riflessione da parte dei terapeuti di ciascun orientamento teorico. Non tutte le tecniche possono essere facilmente assimilate nella propria teoria, soprattutto se queste sono contraddittorie o addirittura contrarie alla visione proposta dall’approccio di riferimento (Messer, 1989).
5. La coerenza dell’ assimilazione: in linea col punto 4, il prodotto finale dell’ integrazione assimilativa messa in atto dal terapeuta deve essere teoricamente compatibile con i principi della teoria primaria, senza alterarla del tutto (Safran e Messer, 1997). In caso contrario, il risultato sarà o una nuova terapia teoricamente integrativa; o un eclettismo tecnico (Lazarus, 1992, 1995); oppure un guazzabuglio contraddittorio inutile o addirittura dannoso nella pratica.
6. L’efficacia dell’ assimilazione: le terapie effettuate tramite integrazione assimilativa vanno valutate empiricamente e (ri)validate. Il nuovo prodotto dell’ assimilazione deve essere testato in modo qualitativo e/o quantitativo attraverso nuovi studi, anche su caso singolo.

Sebbene gli interventi frutto di integrazione assimilativa possano dimostrarsi efficaci, è importante che il cambiamento di orientamento sia considerato attentamente dal terapeuta in modo tale che in seduta l’intervento avvenga nel modo più fluido e naturale possibile. Se crediamo che tale sforzo integrativo potrebbe cambiare la natura della relazione terapeutica o potrebbe compromettere il benessere del paziente in altri modi, è necessario spiegare a quest’ultimo il significato, nel nuovo contesto, della tecnica che intendiamo adoperare.

Vantaggi e svantaggi dell’ integrazione assimilativa

Il principale vantaggio dell’ integrazione assimilativa è il consentire ai terapeuti di continuare a praticare nel quadro del loro orientamento teorico senza rinunciare ai benefici delle tecniche appartenenti ad altri approcci.

Sebbene con la pratica assimilativa non vengano “minacciate” le convinzioni teoriche fondamentali dell’orientamento di appartenenza, questa aiuta a cambiare le idee periferiche in modo da adattare i propri schemi di terapia alle tecniche importate. Ovviamente, il terapeuta che opta per l’ integrazione assimilativa, non trova alcuna difficoltà in questo; ma anzi sarebbe più aperto a correggere le debolezze del proprio modello, sia nella teoria che nella pratica.

Un altro vantaggio dell’ integrazione assimilativa è quello di offrire un quadro teorico utile a guidare la pratica, in modo più rigoroso e meno dispersivo rispetto all’eclettismo tecnico.

Lo svantaggio principale dell’ integrazione assimilativa è il fatto che comporta il “rischio” di ulteriori aumenti nel numero di psicoterapie. Le 400 terapie diverse riportate da Karasu nel lontano 1986, possiamo facilmente immaginarle in continua crescita e a queste potrebbero aggiungersi i diversi approcci integrativi. Alcuni integrazionisti hanno già sottolineato i pericoli della proliferazione di psicoterapie integrative (ad es. Lazarus, in Lazarus & Messer, 1991): se contiamo i possibili interventi di integrazione assimilativa come modelli separati, i numeri diventerebbero piuttosto sconcertanti.

Avendo parlato di assimilazione il rimando teorico a Piaget viene facile. Secondo lo psicologo, negli individui la conoscenza procede in modo adeguato quando si stabilisce un buon equilibrio tra assimilazione e accomodamento. Potremmo dire lo stesso per il progredire della Psicoterapia?

Gli effetti psicologici della Brexit sugli immigrati europei

Giovedì 23 giugno 2016 la Gran Bretagna ha votato per lasciare l’Unione Europea (UE) con un referendum che ha visto la nazione divisa tra coloro che hanno votato per rimanere all’interno dell’Unione Europea (48%) e quelli che invece hanno optato per Brexit (52%).

Roberta Carugati – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Lo status dell’economia britannica, del sistema sanitario e dei leader politici si trova in un periodo di incertezza e il cambiamento è perciò inevitabile. Si sono già riscontrati molti cambiamenti da quando Brexit è stata annunciata. La sterlina è scesa al livello più basso dal 1985, David Cameron ha rassegnato le dimissioni da Primo Ministro e Theresa May è il nuovo leader politico del Paese.

Poiché la Gran Bretagna è divisa e l’economia oscilla, molti si preoccupano della futura sicurezza del lavoro e delle finanze. Non sarebbe inaspettato che durante questo periodo le persone provino sentimenti di ansia. L’ansia può svilupparsi infatti da una serie di cause, tra cui stress sul lavoro, tensioni finanziarie e persino cambiamenti politici.

Dopo Brexit, è stata inoltre segnalata un’ondata di crimini di odio e di xenofobia che secondo molti potrebbe essere spiegata come conseguenza del voto a favore di lasciare l’UE, che ha in un qualche modo legittimato un atteggiamento razzista. Le immagini negative di Nigel Farage davanti a un poster raffigurante un ammasso di immigrati e le parole “BREAKING POINT”, “L’UE ha fatto fallire tutti noi” hanno sicuramente contribuito ulteriormente all’aumento della discriminazione contro le minoranze etniche attraverso i media. Tuttavia, sebbene un obiettivo centrale della campagna a favore del “leave” è stato quello dell’anti-immigrazione, non tutti coloro che erano a favore di Brexit erano al contempo favorevoli ad una diminuzione del numero dei migranti. Nonostante ciò, questa vittoria ha determinato la crescita esponenziale di un’ostilità verso gli stranieri europei (e non) che risiedono nel Regno Unito.

Le conseguenze della Brexit sul benessere psicologico

Nel complesso, questo periodo incerto e piuttosto preoccupante può disturbare il benessere psicologico di una persona.

Negli studi degli psicologi in tutto il paese, proprio come nelle case, nei pub e negli uffici, le persone hanno cercato di venire a patti con la sorpresa e lo shock del risultato Brexit.

Molte persone si sentono trasportate in una Gran Bretagna distopica che “non riconoscono, non possono capire”. Sono migliaia gli studenti e i lavoratori europei che stanno pensando o pianificando di lasciare il paese.

I terapeuti di tutto il mondo riportano livelli di ansia e disperazione sorprendentemente elevati, con pochi pazienti che desiderano parlare di qualsiasi altra cosa.

Ma Perché il voto sulla Brexit ci riguarda così personalmente? E cosa ci dice questo sulla nostra psiche?

Lo strano e davvero inaspettato limbo di quel venerdì di Giugno mostra che le persone di entrambi i partiti sono ancora assolutamente incerte su ciò che è successo e che concretamente succederà. E l’incertezza è uno degli stati più difficili da vivere.

L’incertezza è spesso percepita dal cervello umano come una minaccia: più ci sentiamo incerti, più l’attività dell’amigdala aumenta (risposta alla minaccia) e diminuisce l’attività dello striato ventrale (risposta di ricompensa). Il nostro cervello si trova quindi in uno stato di malessere. Come esseri umani, facciamo del nostro meglio per trasformare l’incertezza in paura, cercando un oggetto da amare o da odiare, su cui dunque riversare le nostre emozioni. Così, dopo il referendum, si è cercato qualcuno da incolpare. Questo non è solo un riflesso di una reale preoccupazione politica, ma uno sforzo fondamentale per trasformare l’incertezza in paura, che è sempre più gestibile.

Sono preda di questa incertezza soprattuto gli immigrati europei nel Regno Unito. Nel 2015, gli europei residenti in UK erano circa tre milioni, il 5% della popolazione totale del Paese.

Senso di appartenenza, benessere psicologico e i sentimenti nati dopo la Brexit

Nel suo articolo del 1943 “Una teoria della motivazione umana”, lo psicologo americano Abraham Maslow citò l’appartenenza come il terzo più importante bisogno umano nella gerarchia dei bisogni umani, dopo solo ai bisogni fisiologici e di sicurezza.

Secondo uno studio dell’Università del Michigan (Williams, 2005), le persone con un maggiore sostegno sociale e che provano un senso di appartenenza più elevato riportano una minore quantità di sintomi depressivi.

È proprio il sentimento di non appartenenza, di sentirsi estranei, diversi e non più ben accetti in quello che si credeva un Paese propenso all’integrazione, che hanno provato e dichiarato per esempio numerosi italiani che vivono in UK.

Una settimana dopo il voto, il professor Martin Milton, della Regent’s University di Londra, ha suggerito che molti si sentivano “spaventati, confusi, feriti e feriti”. Dall’interno della Mental Health Foundation hanno aggiunto che i sentimenti più comuni che le persone hanno riportato sono stati una miscela di shock e rabbia, accompagnati da “tristezza, frustrazione e persino la disperazione”.

Il Dott. John McGowan, ad esempio, del Centro di Psicologia Applicata di Salomon, ha spiegato le cinque fasi del dolore, una teoria elaborata dalla psichiatra di origini svizzere e nordamericane Elisabeth Kübler-Ross. Secondo McGowan, in seguito al referendum molti si sono trovati nella prima fase della negazione (“Mi sento bene, questo non può accadere a me”) per poi passare al secondo stadio, caratterizzato dalla rabbia (“Perché io?” “Non è giusto!”). Per alcune persone le altre tre fasi di negoziazione, depressione e accettazione non si sono ancora verificate.

La realtà latinoamericana

All’interno degli uffici del Teléfono de la esperanza UK, nel sud di Londra, sono stati molto visbili gli effetti psicologici della Brexit.

All’inizio c’era un livello di angoscia, ansia e confusione tra le persone. Le frasi più frequenti di coloro che telefonavano alla nostra associazione erano “Non so cosa faremo, cosa succederà, cosa significherà, non capisco, non ci credo” “Ho fatto questo viaggio e mi sono dato una seconda possibilità” – racconta Nancy Liscano a The Prisma, presidentessa e fondatrice di questa organizzazione fondata 11 anni fa.

Con 38 volontari di lingua spagnola, di cui 14 addetti a ricevere chiamate della comunità ispano-americana residente nel Regno Unito, le ripercussioni del referendum sono davvero chiare.

Queste persone stanno ancora cercando di concentrarsi sulla loro prima migrazione in Spagna quando improvvisamente accade Brexit, senza alcuna informazione, e a peggiorare le cose, molti non parlano nemmeno l’inglese. Ciò ha portato ad una maggiore atmosfera di ansia. – spiega Liscano.

Con una media tra le 20 e le 25 chiamate di crisi ogni settimana, la maggior parte delle quali provenienti da colombiani, spagnoli ed ecuadoriani, il team di Teléfono de la esperanza UK ha percepito che l’idea di tornare in Spagna (il paese della prima migrazione) o direttamente in America Latina è attualmente considerata da molti.

Tutti i miei clienti cittadini dell’UE hanno problemi con il sonno e sono ansiosi – ha detto Emmy van Deurzen, terapeuta olandese con sede nel Regno Unito,e continua – Molti sono depressi o scoraggiati. Ho avuto diverse conversazioni con cittadini europei che hanno riportato pensieri suicidari. Altri hanno deciso di rinunciare alla Gran Bretagna e hanno già lasciato il Paese.

Le conseguenze di Brexit: psicologiche e non solo..

Nel Regno Unito, la principale causa di assenza per malattia dal lavoro è rappresentata da stress, ansia e depressione (che rappresentano quasi il 40% di tutte le assenze per malattia). Lo scorso anno più di 500.000 persone hanno sofferto di stress sul lavoro, con una media di 24 giorni lavorativi persi e una perdita annuale di oltre £ 5 miliardi. Il timore è che il conto aumenti sostanzialmente nei prossimi due anni o più, se si considerano le ripercussioni psicologiche che Brexit potrà causare sui lavoratori.

Le conseguenze psicologiche di Brexit si ripercuotono anche su altre aree del Paese, come l’economia. Questo è quanto crede ad esempio Jonathan Portes, esperto in immigrazione ed economia, docente presso il King’s College di Londra. Secondo il Professor Portes è necessario includere fattori psicologici quando si parla di analizzare i risultati degli effetti del referendum:

Ci sarà un lungo periodo di incertezza prima di sapere cosa Brexit significherà nel concreto per i cittadini dell’UE che sono già qui e per quelli nuovi che arriveranno. Se le persone non possono pianificare senza certezze è meno probabile che arrivino o restino.

Ma importanti preoccupazioni arrivano anche dall’Istat britannico. I dati pubblicati dall’Office for National Statistics (ONS) nel 2017 hanno mostrato che 122.000 europei hanno lasciato il Regno Unito entro Marzo, con un esodo senza precedenti che ha causato un calo della migrazione netta. Diversi sono i settori colpiti da questo fenomeno: il settore turistico e dell’accoglienza nel Regno Unito è composto da circa il 75% dei camerieri e dal 25% degli chef europei. Ogni anno servono 60.000 nuovi lavoratori per soddisfare la domanda di impiego. Invece Il settore sanitario e in particolare l’Nhs, il sistema sanitario nazionale, che impiega 60.000 europei, attualmente è alla ricerca di 40.000 infermieri, anche a causa della decisione di molti immigrati, in particolare dell’Europa dell’est, di tornare a casa.

Numerose Aziende hanno sollevato crescenti preoccupazioni sulla “fuga dei cervelli” da parte delle industrie del settore primario, mentre le organizzazioni che rappresentano i migranti dell’UE hanno sollecitato il governo a offrire solide garanzie sul loro status dopo Brexit.

In conclusione

Numerose sono anche le domande che i cittadini europei già residenti o che pianificano di trasferirsi si stanno chiedendo. Cosa succederà quando la Gran Bretagna uscirà definitivamente dall’UE nel 2019?

In questi due anni precedenti alla definitiva uscita del paese anglosassone, si sta verificando un susseguirsi di negoziazioni tra Regno Unito e Unione Europea. Il risultato di queste sarà l’accordo finale che decreterà il futuro delle relazioni commerciali, sociali e lavorative della UK con l’UE.

La cosa più importante per chi vive in Gran Bretagna è che per ora i cittadini europei residenti già da prima del voto potranno tranquillamente continuare ad abitarvi senza nessun pericolo di espulsione in virtù della Convenzione di Vienna stipulata nel 1969.

cancel