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Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio (2018): come raccontare la malattia oncologica ai più piccoli? – Recensione del libro

La realizzazione del libro Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio rientra in un progetto, denominato “La malattia spiegata a mio figlio” ideato e realizzato, presso l’UOSC di Ematologia Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Napoli Fondazione G. Pascale.

 

Ci sono cose di cui è molto difficile parlare. Il tumore è una di queste. E se l’interlocutore a cui ci rivolgiamo è un bambino? Come si fa a spiegare a un bambino che il genitore si è ammalato e che deve curarsi?

Spesso noi adulti ci sentiamo impreparati e preferiamo tacere, nell’illusione di proteggere il bimbo da una realtà dolorosa e incomprensibile. Se, invece, ci fosse un modo per parlare di malattia oncologica, un modo a misura di bambino?

Il libro illustrato Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio prova a spiegare quello che sta succedendo. Con parole semplici, facendo attenzione all’emotività e alla sensibilità del bambino, viene detto al piccolo lettore che il papà ha una malattia particolare.

Per guarire da quella che viene chiamata “la malattia del papà” servono cure speciali, che si possono fare solo in ospedale; vengono illustrati in modo chiaro e veritiero, ma al tempo stesso delicato, gli effetti collaterali della chemioterapia, calando un evento tanto tremendo e fuori dall’ordinario come è la malattia oncologica nella quotidianità, per rassicurare il bimbo, accogliendo le sue emozioni e le sue paure.

Qual è l’obiettivo di questo libro?

La realizzazione del libro Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio rientra in un progetto, denominato “La malattia spiegata a mio figlio” ideato e realizzato, presso l’UOSC di Ematologia Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Napoli Fondazione G. Pascale, dalle psico-oncologhe Gabriella De Benedetta e Silvia D’Ovidio e dal direttore, il medico ematologo Antonio Pinto.

Il libro Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio mantiene i testi e le belle illustrazioni create dal fumettista Sergio Staino già presenti nel precedente Mamma Uovo. La malattia spiegata a mio figlio, pubblicato nel 2015.

È importante, anche se è tutt’altro che facile, riuscire a trovare il modo più opportuno per comunicare ai bambini quello che sta succedendo al genitore; se tacere potrebbe, a prima vista, sembrare la scelta migliore – per evitare di coinvolgere il bambino in ansie e preoccupazioni “da grandi” – di fatto, al contrario, l’impossibilità di parlare di quello che sta succedendo non fa che aumentare la difficoltà e l’isolamento, rendendo la situazione più difficile da affrontare di quanto già non sia.

Il progetto “La malattia spiegata a mio figlio” ha dato vita anche ad un cartone animato, che prende per mano lo spettatore e gli parla in modo dolce, in modo che possa comprendere, guardando alla malattia oncologica con gli occhi di un bambino. Uno sguardo sul mondo che aiuta anche noi adulti a ritrovare, nonostante il tema così doloroso, la leggerezza e la speranza.

Brevi riflessioni sul caso Dora di Sigmund Freud – Un articolo di Giancarlo Dimaggio

Stanley Kubrick si è mai chiesto se mettere in scena Doppio Sogno di Schnitzler, o Il caso Dora di Freud? Avrebbe comunque girato un gran film. Un racconto potente, torbido, sensuale: “La casa era in fiamme; mio padre, in piedi accanto al mio letto, mi diceva di alzarmi; mi vestii in fretta”.

Articolo scritto da Giancarlo Dimaggio per il Corriere della Sera il 25/08/18

 

Un sogno, una finestra su un quadrilatero amoroso sghembo, malato, perverso e quindi avvincente. Il padre di Dora ha una relazione con la signora K. Il signor K. di suo tenta di sedurre Dora quattordicenne.

Dora si presenta con sintomi isterici: afonia, tosse nervosa, emicrania. Si annoia. L’analisi fallì. Malgrado questo Freud ci costruì sopra teorie che purtroppo hanno rallentato il progresso della psicoterapia. Pierre Janet prima e Freud stesso fino ad allora attribuivano i sintomi isterici a eventi traumatici reali. Oggi sappiamo che è così e curiamo i pazienti di conseguenza. Freud invece insistette sulle fantasie sessuali di Dora, che immaginava necessariamente eccitata dalla corte del signor K. I sintomi isterici per lui nascevano da lì. Sono stati necessari decenni per tornare all’origine traumatica della sofferenza psichica. Oggi un terapeuta si concentrerebbe sull’impatto che la freddezza affettiva della madre e il comportamento ambiguo del padre avevano sulla ragazza. Cercherebbe di farle capire che i sintomi nascevano da motivi sensati: sei afona, non hai voce e chi non ha voce è perché sa che non viene ascoltato.

Eppure c’era del genio, me lo dice il mio amico Francesco Gazzillo, psicoanalista acuto. Il lavoro sui sogni: indagarli, perché offrono tracce del funzionamento intrapsichico e relazionale. Grande idea. E poi Freud capì che quello che chiamiamo transfert, ovvero il modo in cui il paziente vede il terapeuta, dipende sì dalla storia del paziente, dai suoi schemi relazionali. Ma in parte dalle caratteristiche reali del terapeuta. Siamo terapeuti ma anche umani, con la nostra storia e la nostra posizione del mondo. I pazienti si confrontano con questo.

Cannabis: come impatta sulle funzioni cognitive degli adolescenti

Un dato preoccupante presente in letteratura fa riferimento all’elevato tasso di utilizzo di droghe tra i giovani. La maggiore facilità attraverso cui è possibile reperire tali sostanze è accompagnata a un utilizzo sempre più precoce.

 

Nel 2017, il rapporto dell’Agenzia europea delle droghe ha pubblicato i dati relativi alle tossicodipendenze nel suo consueto rapporto annuale, relativo al 2015. Dai dati è emerso che il 19% dei ragazzi italiani, dunque quasi uno su cinque, ha fatto uso di cannabis nel corso degli ultimi dodici mesi: una percentuale inferiore solo a quella della Francia, che ha registrato il 22,1% di consumo nello stesso intervallo di età.

Sebbene molti studi abbiano evidenziato la correlazione esistente tra l’uso di cannabis e alcol e una maggiore compromissione dei processi cognitivi, un nuovo studio dei ricercatori di CHU Sainte-Justine e dell’Université de Montréal, pubblicato sull’American Journal of Psychiatry, ha sottolineato la relazione causale tra l’utilizzo di cannabis e i danni a carico di diverse funzioni cognitive. In più, secondo i ricercatori, gli effetti di questa sostanza sulle funzioni cognitive sono più pronunciati rispetto a quelli osservati per l’uso di alcol.

Cannabis e funzioni cognitive negli adolescenti: la ricerca

Lo studio ha preso in considerazione un ampio numero di studenti canadesi delle scuole superiori, precisamente 3.826, che sono stati suddivisi in tre gruppi: astinente, consumatore occasionale, consumatore abituale. Per comprendere la relazione tra alcol, uso di cannabis e sviluppo cognitivo tra gli adolescenti a tutti e tre i livelli di consumo, i ricercatori hanno seguito il campione di adolescenti per un periodo di quattro anni. Gli autori hanno studiato le variazioni durante gli anni nell’uso di sostanze in relazione allo sviluppo cognitivo. In particolare, i domini cognitivi presi in considerazione dai ricercatori erano: memoria di lavoro, ragionamento percettivo, controllo inibitorio, qualità del ricordo.

Cannabis e funzioni cognitive negli adolescenti: i risultati

Lo studio ha rilevato che l’utilizzo di cannabis e di alcol in adolescenza era associato a prestazioni generalmente inferiori su tutti i domini cognitivi presi in esame.

Tuttavia, Conrod ha messo in evidenza che l’aumento, negli anni, dell’uso di cannabis, al netto del consumo di alcol, comporta una compromissione delle stesse funzioni cognitive.

L’autore ha aggiunto:

Particolarmente preoccupante è stata la scoperta che l’uso di cannabis era associato a una compromissione duratura del controllo inibitorio. Questa relazione potrebbe spiegare perché l’uso precoce della sostanza è un fattore di rischio per altre dipendenze.

Infine, Morin ha aggiunto:

Alcuni di questi effetti sono ancora più pronunciati quando il consumo di cannabis inizia prima dell’adolescenza.

Questa ricerca sottolinea l’importanza di mettere in atto delle politiche di prevenzione nei contesti scolastici e sportivi, e una maggiore sensibilizzazione rivolta alle famiglie, rispetto ai danni che derivano dall’utilizzo della cannabis, ma anche di altre sostanze.

 

Mutismo Selettivo: caratteristiche generali, diagnosi e trattamento

Che cos’è il mutismo selettivo? Quali sono le sue caratteristiche? Che cosa comporta questo disturbo? E se fosse solo timidezza? Il mutismo selettivo è un comportamento oppositivo? Come si può intervenire?

 

Ottobre è il mese della sensibilizzazione sul mutismo selettivo, un disturbo caratterizzato dall’incapacità di parlare in determinate situazioni sociali nonostante lo sviluppo del linguaggio sia normale. Il disturbo è diffuso prevalentemente in età infantile ma può essere presente anche in età adulta. Riconoscere il disturbo, collaborare con la scuola e chiedere aiuto ad uno specialista qualificato sono elementi essenziali per aiutare il bambino.

Mutismo selettivo: definizione

Il mutismo selettivo (MS) è un disturbo d’ansia che impedisce al bambino di esprimersi attraverso una normale verbalizzazione: la caratteristica principale del disturbo è la costante incapacità di parlare in situazioni sociali nelle quali ci si aspetta che l’eloquio sia presente se pur questo sia normale e avvenga liberamente in altri contesti considerati familiari.

Il termine “selettivo” indica che il bambino riesce ad esprimersi solo con determinate persone delle quali si fida e in alcune circostanze nelle quali si sente sereno (solitamente l’ambiente familiare) ma mostra difficoltà in ambienti sociali in cui non si sente a proprio agio (in particolar modo nel contesto scolastico poiché è il luogo principale in cui il bambino è esposto a frequenti domande e richieste di prestazione). La selezione degli interlocutori può essere più o meno ampia fino ad arrivare anche ad un solo genitore.

Il grado di persistenza è variabile: può verificarsi per alcuni mesi oppure mantenersi per diversi anni. Una remissione completa del disturbo è presente nella maggior parte dei casi, tuttavia possono permanere difficoltà comunicative e relazionali.

Mutismo selettivo: storia e classificazione

I primi studi risalgono alla seconda metà dell’800 quando Kussmaul pubblicò un resoconto su tre soggetti incapaci di parlare in determinate situazioni pur avendone le capacità, definendolo con il termine “afasia volontaria” pensando quindi fosse causato da una decisione del soggetto. Tramer nel 1934 introduce per la prima volta il termine di “mutismo elettivo” per indicare la scelta del bambino che pur sapendo parlare rimaneva in silenzio; è solo nel 1983 con Hasselman che si inizia a parlare di “mutismo selettivo” per indicare la condizione del bambino incapace di esprimersi solo in determinate circostanze in risposta ad un ambiente vissuto come pauroso.

I primi manuali diagnostici DSM III-R e ICD 10 descrivono il disturbo come un persistente rifiuto di parlare da parte del bambino; nel DSM IV e nel DSM IV-TR il silenzio viene invece concettualizzato come “incapacità” di parlare. La vera rivoluzione è rappresentata dall’ultima versione del manuale americano (DSM 5) che elimina il disturbo dalla sezione “Altri disturbi dell’Infanzia, della fanciullezza o dell’adolescenza” inserendolo nella sezione “Disturbi d’ansia” in seguito alle diverse evidenze scientifiche che identificano l’ansia come una delle caratteristiche principali all’interno del quadro clinico del disturbo.

Mutismo selettivo: diffusione

Il Mutismo Selettivo è un disturbo relativamente raro: il tasso di prevalenza nei bambini oscilla tra lo 0,2% e lo 0,8% anche se negli ultimi anni la percentuale sembra in aumento. La difficoltà a stabilire con precisione una stima è dovuta alla mancanza di un modello univoco circa le cause e gli strumenti di valutazione.

Il disturbo si presenta in prevalenza nel sesso femminile probabilmente perché le bambine sono più inclini all’ansia, con un rapporto femmine-maschi di 2:1, rappresentando un’eccezione rispetto agli altri disturbi dell’età evolutiva nei quali si riscontra una prevalenza del sesso maschile.

Il Mutismo Selettivo ha un esordio precoce, tra i 2 e i 4 anni infatti emergono i primi sintomi quali timidezza, rifiuto di parlare in certe situazioni e comportamento riservato. Il disturbo è riconoscibile in modo chiaro solamente quando il bambino inizia a frequentare la scuola materna o la primaria poiché questi tendenzialmente rappresentano i primi contesti al di fuori dell’ambiente familiare in cui il bambino deve parlare.

Mutismo selettivo: cause e disturbi correlati

Le cause responsabili del Mutismo Selettivo sono ad oggi poco chiare poiché le spiegazioni presenti in letteratura sono varie e ampiamente diversificate. L’ipotesi più accreditata è che il disturbo sia una condizione eterogenea determinate da diversi fattori, in primis fattori genetici e ambientali.

Secondo il modello bio-psico-sociale, l’evidenza di tratti temperamentali costanti nei bambini con Mutismo Selettivo e la presenza di tratti simili nei genitori porta ad ipotizzare un ruolo dei fattori neurobiologici e genetico-familiari all’origine del disturbo. Accanto all’ipotesi neurobiologica risulta di fondamentale importanza il ruolo dei fattori psicologici e sociali, tuttavia contrariamente a quanto si potrebbe pensare ricerche recenti non supportano l’idea secondo la quale esperienze traumatiche vissute dai bambini siano da considerarsi potenziale causa d’insorgenza del disturbo. Un potenziale fattore di rischio è rappresentato dalla migrazione del nucleo familiare: il rischio di sviluppare la patologia in questi bambini è tre volte superiore rispetto alla popolazione nativa, tuttavia in questi casi la diagnosi è più complessa perché un periodo caratterizzato dall’assenza di comunicazione verbale è tipico in questi bambini.

Diversi modelli psicologici hanno cercato di rintracciare le cause del disturbo: secondo il modello psicodinamico l’origine del Mutismo Selettivo è da ricondursi a problematiche nell’ambito dell’oralità in rapporto ad un rigido legame con la madre. La prospettiva sistemico familiare dal canto suo chiama in causa rapporti familiari difficili, attribuendo grande peso alla relazione genitore-figlio. Il modello psicologico ad oggi maggiormente diffuso è quello cognitivo-comportamentale che vede il disturbo come il risultato di esperienze di apprendimento rinforzate negativamente: il silenzio è utilizzato come strumento per controllare e gestire l’ansia.

Il Mutismo Selettivo presenta diverse manifestazioni correlate ad altri disturbi dello sviluppo: alcuni soggetti presentano disturbi specifici o ritardi del linguaggio mentre altre ricerche hanno riscontrato difficoltà nella coordinazione motoria genarle e in quella manuale nonché deficit di processazione uditiva. La nuova categorizzazione diagnostica suggerisce comorbilità con i disturbi internalizzanti, in particolar modo la sintomatologia ansiosa risulta essere il pattern di disturbi maggiormente correlato.

Caratteristiche dei bambini con mutismo selettivo

L’idea comune a chi si trova di fronte ad un bambino selettivamente muto è che il suo comportamento sia provocatorio e di sfida, tuttavia è di fondamentale importanza comprendere che l’assenza della parola è dettata da un elevato livello d’ansia e una conseguente paura che il bambino riesce a controllare solamente tacendo.

Questi bambini sono consapevoli della loro difficoltà, provando molta sofferenza e frustrazione perché desiderano fortemente riuscire a parlare e giocare con gli amici. A causa della forte paura che le interazioni sociali suscitano in questi bambini le loro espressioni facciali risultano inespressive, vi è difficoltà a mantenere il contatto visivo con l’interlocutore e elevata sensibilità per l’ambiente circostante. Il linguaggio del corpo è impacciato e goffo quando si rivolge loro attenzione, è tipico di questi bambini voltare la testa o guardare a terra durante una conversazione, toccarsi i capelli (segnale di un elevato livello di ansia) oppure nascondersi.

Molto spesso i bambini lamentano sintomi fisici quali: mal di stomaco, mal di testa, nausea, manifestazioni di pianto o di collera; con l’aumentare dell’età i sintomi si modificano in palpitazioni cardiache, svenimenti, tremori e eccessiva sudorazione. A scuola molti bambini hanno difficoltà a chiedere di andare al bagno e a mangiare: i bambini rifiutano di nutrirsi, nascondono il cibo o attendono che i compagni abbiano terminato il pranzo e se ne siano andati.

Mutismo selettivo: valutazione diagnostica

La valutazione deve essere compiuta nel modo più completo possibile, ricorrendo ad un approccio diagnostico multimodale e considerando i possibili fattori di comorbilità. Compiere un’anamnesi dettagliata della storia di vita del bambino appare fondamentale perché alcuni segnali di allarme del disturbo possono essere rintracciati durante lo sviluppo: fattori biologici-temperamentali (difficoltà di addormentamento, disturbi del sonno, irrequietezza), fattori cognitivi-affettivi (vulnerabilità, vergogna) e fattori socio-culturali e familiari (stile educativo ansioso, scarse competenze sociali della famiglia).

Il primo passo da compiere è un colloquio approfondito con i genitori a cui seguirà l’incontro con il bambino. In questa fase l’osservazione dei disegni, del gioco libero e del linguaggio corporeo risulta molto utile. Uno strumento utile per valutare la capacità di comunicazione del bambino è la Selective Mutism Stages Communication Comfort Scale. La scala illustra in 3 livelli le diverse fasi che conducono alla comunicazione verbale. Al fine di attuare un intervento e valutarne i progressi è necessario collocare il bambino all’interno di uno di questi livelli.

Il clinico deve compiere un’analisi funzionale del comportamento del bambino per giungere alla formulazione di un percorso di trattamento il più idoneo possibile al bambino e all’ambiente in cui vive. Ciò che si può affermare con certezza è che quanto prima il disturbo viene diagnosticato e trattato nel modo corretto tanto maggiore sarà la possibilità di superare il problema.

Mutismo selettivo: il trattamento

Trovare un trattamento valido per tutti i bambini è un’impresa quasi impossibile, ogni bambino rappresenta un caso particolare e il trattamento deve essere individualizzato.

Sul versante della psicoterapia, negli ultimi anni l’approccio più citato in letteratura è sicuramente quello cognitivo-comportamentale. In questo caso lo scopo è quello di diminuire i livelli di ansia e incrementare la verbalizzazione. Le tecniche maggiormente utilizzate sono quelli di stampo comportamentale, visto che si lavora nella maggior parte di casi con bambini, spesso coinvolgendo anche altre figure significativi quali le insegnanti.

La terapia psicoanalitica sembra essere il trattamento più adatto per bambini in età prescolare (3-5 anni) perché utilizza primariamente come strumenti d’indagine il disegno e il gioco.

In alcuni casi, il supporto psicologico messo in atto precocemente solo con la coppia genitoriale si rivela molto utile conducendo ad ottimi risultati.

Recenti studi suggeriscono l’idea di considerare il trattamento farmacologico in aggiunta a quello terapeutico nel caso in cui quest’ultimo non conduca a risultati evidenti. I farmaci di prima scelta nel trattamento del MS sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), comunemente usati nel trattamento di disturbi d’ansia e dell’umore. Il meccanismo grazie al quale questi farmaci producono miglioramenti in questo disturbo non ad oggi del tutto chiaro, ad ogni modo sembrerebbero ridurre i livelli d’ansia provati dal bambino rendendo più facile il trattamento terapeutico.

Mutismo selettivo: il ruolo della famiglia e della scuola

Famiglia e scuola rappresentano i due ambienti principali in cui il bambino vive, affinché si possa realizzare un intervento efficace la psicoeducazione dei genitori e degli insegnanti è fondamentale.

Nella maggior parte dei casi, i bambini selettivamente muti intrattengono una normale conversazione nell’ambiente domestico provocando confusione nei genitori posti davanti al mutismo dei figli negli altri contesti. I genitori e i famigliari devono capire e accettare il disturbo, evitando di focalizzare l’attenzione sulla mancanza della parola. È necessario che i genitori comprendano il disagio del figlio e mettano in atto strategie per diminuire lo stato ansioso: avere una routine fissa può essere d’aiuto a questi bambini soprattutto in momenti particolari della giornata come la mattina prima della scuola. Per aiutare i propri figli i genitori dovrebbero incoraggiare le interazioni sociali, magari organizzando incontri con l’amico di scuola con cui il bambino si trova più a suo agio.

La scuola rappresenta per i bambini con MS un luogo in cui si sentono moto a disagio. Le maestre non devono forzare i bambini a parlare, ai docenti è richiesta una grande attenzione e preparazione nel saper cogliere i segnali di malessere del bambino. La maestra deve essere comprensiva e disponibile e permettere la comunicazione non verbale; è possibile e necessario valutare le conoscenze apprese come qualsiasi altro alunno ricordando però che l’ansia influenza la prestazione scolastica: è consigliabile utilizzare test non verbali senza limiti di tempo durante lo svolgimento delle prove di verifica.

Mutismo selettivo in età adulta

La maggior parte delle volte il mutismo selettivo si risolve prima dell’età adulta, tuttavia ci sono casi in cui il disturbo continua in adolescenza e oltre.

Un adolescente muto selettivo quasi certamente convive con il disturbo da molti anni nel corso dei quali ha sviluppato e rinforzato meccanismi di comportamento errato per gestire l’ansia, affrontando ogni situazione ansiogena con il silenzio. A differenza dei bambini più piccoli, i ragazzi con mutismo selettivo sono pienamente consapevoli della loro situazione e nel corso degli anni hanno imparato a mascherare i segnali d’ansia. I vissuti di questi ragazzi sono caratterizzati per la maggior parte da isolamento e solitudine.

Poca considerazione è stata riservata alla presenza del disturbo in età adulta. Dall’analisi dei dati presenti non è possibile ottenere una stima dell’incidenza del disturbo riferita a quest’età, si può ipotizzare però che la diffusione negli adulti sia inferiore all’1% in quanto, generalmente, il disturbo presenta completa risoluzione nell’infanzia. In linea generale si può affermare che soggetti adulta con una storia presente o passata di mutismo selettivo presentano disturbi principalmente legati alla sintomatologia ansiosa, in particolar modo disturbo d’ansia sociale e difficoltà relazionali.

 

Interazione Uomo-Robot e la Teoria della Mente – VIDEO

I robot, uscendo dalle fabbriche e interagendo con le persone ci hanno dato un nuovo modo di interpretare – non solo le relazioni ma – l’intera psicologia. Un campo emergente denominato Interazione Uomo-Robot (HRI) ci illumina sui meccanismi relazionali rispondendo alle domande più complesse: perché siamo portati a trattare il robot come un nostro simile, provvisto di emozioni e di una mente? Nel video ce lo spiega il dott. Claudio Lombardo

 

 

La robotica: cos’è un Robot e cosa può fare?

Ripensare la natura della cognizione: l’importanza del corpo in robotica

Tra von Neuman e Turing: verso la complessità computazionale. Le coordinate scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero

Perchè abbiamo paura dei robot? L’antropomorfismo e la teoria dell’uncanney valley. L’Interazione Uomo-Robot (HRI) secondo un’indagine freudiana.

“Non sono un algoritmo” – Book Trailer di Claudio Lombardo

Il Sé autentico – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 44

Come è possibile scoprire qual è il “vero, autentico me stesso”? E, soprattutto, è davvero utile farlo?

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il Sé autentico (Nr. 44)

 

In una trasmissione radio colta durante la presentazione di un libro si parlava di quanto fosse stato importante per la protagonista, una giovane donna 39enne, guardarsi sinceramente ora “allo specchio”, ora ancora più profondamente “dentro”, per capire chi fosse prima di compiere le scelte della sua vita.

Ascoltavo e annuivo compiaciuto, guidando, quasi leccandomi i baffi come quando si ascolta un’ovvietà confirmatoria che ci ribadisce la correttezza del nostro punto di vista. Ma ormai ho imparato a non fidarmi e quando provo quella sensazione di AJR (all just right “proprio tutto a posto”) è probabile che stia su una trappola o, come direbbe Montalbano “uno sfunnapedi”. Allora appizzo le orecchie e cerco di capire.

Il primo passo è sempre autoreferenziale e mi sono chiesto se io sappia chi sono, anche senza tutti quei rafforzativi tipo “veramente”, “profondamente”, “sinceramente”. La risposta forte e chiara è: assolutamente “no”! a cui seguono altre considerazioni circa il fatto che proprio per gli aspetti che mi riconosco cominciano i guai, e non solo per la bruttezza di ciò che scopro, ma per il processo in sé. Voglio sostenere che il tanto sbandierato “conosci te stesso” socratico sia contemporaneamente impossibile, inutile e spesso dannoso.

Naturalmente tutto ciò deve rimanere assolutamente segreto (e ad esso vincolo i lettori della presente) perché su questa palese cazzata la psicoterapia ha fatto la sua fortuna e la fine della crisi economica mondiale tarda ad arrivare e dunque per ora “la guerra è guerra!”

Ma andiamo per gradi dimostrandone intanto l’impossibilità, il che taglierebbe la testa al toro come nella storiella del tenente che ribatte al generale infuriato, che vuole spedirlo in corte marziale perché la sua postazione non risponde al cannonggiamento nemico, dicendo che ci sono almeno tre buone ragioni: “la prima è che non abbiamo i cannoni”.

Finchè io cerco di conoscere una mela o un altro dominio dell’esistente è tutto chiaro, c’è un osservato e un osservatore, un oggetto e un soggetto. Ciò vale ancora se l’oggetto dell’osservazione è una parte del mio corpo (esclusi gli occhi stessi) o un mio comportamento, si tratta di una mente che osserva degli oggetti e dei fatti. Ma che succede se la mente vuole guardare se stessa?

Qual è il famosissimo “vero, autentico me stesso” senza la cui conoscenza pare non si possa campare? Si finisce in un regresso all’infinito come quando due specchi ripetono all’infinito la stessa figura. L’“io” che osserva e giudica non è meno vero dell’“io” che agisce ed è giudicato e potrebbe essere a sua volta oggetto di osservazione di un terzo “io” e così via. Per fare un esempio concreto, quando mi disprezzo per dei miei comportamenti immorali, qual è il vero me stesso? Il ragazzino trasgressivo che fa ciò che non s’ha da fare o il moralista bacchettone che lo giudica tale, e chi è che giudica moralista quest’ultimo? Credo di aver dato un’idea dei problemi in cui si incorre.

Il secondo ragionamento riguarda l’utilità o la dannosità di tutto ciò. Perchè un metalivello di osservazione sul proprio funzionamento dovrebbe essere utile, se non indispensabile invece di essere magari semplicemente un intralcio? Non sarebbe meglio se la regola cui attenersi invece di essere “capisci chi sei” fosse più semplicemente “sii!” Dove sta scritto che la consapevolezza migliori l’efficacia del perseguimento dei propri scopi. Soprattutto in periodi in cui gli assetti interni ed il contesto ambientale sono sostanzialmente stabili non ce ne è alcun bisogno, come ci dimostrano gli animali con i loro istinti e le macchine con i loro programmi.

Per non parlare del fatto che il processo in sé probabilmente è peccato e certamente diminuisce la vista e rovina la pelle ma, soprattutto come diceva Quelo: “la risposta è dentro di te ed è SBAGLIATA”.

Sulla dannosità e la pesantezza che crea questo omunculo valutativo con sulle spalle un altro omunculo, fino ad averne una piramide degna degli equilibristi di un circo, non credo debba argomentare molto. La psicopatologia sta quasi tutta nelle liti condominiali tra loro. E non pensiate di cavarvela con la nomina di un amministratore: per carità, peggio!

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

L’altalena. Storia di un’anoressia (2017) di Ursula Vaniglia Orelli – Recensione del libro

«Mangia! Altrimenti ti prendi un’anoressia!», protestava mia nonna quando cercavo di negoziare con lei la quantità – esagerata – di cibo che mi metteva nel piatto. Lo diceva convinta e io, vent’anni fa, la guardavo perplessa, con il dubbio che se non avessi mangiato tutto mi sarei presa quella strana malattia. Oggi, quando ci ripenso, mi viene da sorridere.

 

Al tempo stesso si aprono nella mia testa una serie di riflessioni. Per nome, questo disturbo sembra abbastanza conosciuto (lo conosceva persino mia nonna che era nata all’inizio del secolo scorso) e nell’immaginario collettivo delle persone mi sembra ci sia un’idea molto chiara, ma stereotipata, di chi ne soffre: donne che di punto in bianco decidono di mangiare pochissimo, per avere corpi più magri, in linea con gli standard mediatici, a cui poi la situazione sfugge di mano.

Anoressia: una storia al di là dei luoghi comuni

Se si apre il manuale diagnostico dei disturbi mentali alla voce anoressia e ci si sofferma a leggere i principali criteri diagnostici (restrizione dell’apporto energetico, intesa paura di aumentare di peso, anomalia nel modo in cui si percepisce il proprio corpo) si potrebbe essere indotti a credere che quell’immagine di donna, ossessionata dalla magrezza, possa essere la giusta rappresentazione. Tuttavia, questo significa soffermarsi solo sui sintomi, perdendo l’occasione di comprendere realmente questa malattia. L’anoressia è una malattia che può essere fatale, le diagnosi nel nostro Paese sono in aumento ogni anno, i racconti di persone coraggiose, che affrontano con la penna il ricordo di quei giorni di sofferenza, sono una testimonianza importantissima, che possono aiutare questa società distratta e poco incline a guardare oltre l’apparenza. Le loro storie sono un canale per esplorare da vicino questo mondo, fatto di persone che cercano di reprimere dolore, disagio, sentimenti ed emozioni, fino a farli scomparire in un corpo sempre più piccino ed invisibile.

Anoressia: la trama del libro

L’altalena è uno straordinario romanzo d’amore, di ispirazione autobiografica, che associa al racconto della malattia e della guarigione, una trama coinvolgente. Sullo sfondo intricato del traffico illegale dei diamanti africani, in cui è coinvolta la ricca famiglia Rey, leggiamo la storia della figlia, Chiara, che, tradita dal padre e dall’uomo che amava, si ammala di anoressia ed inizia il difficile percorso di cura con il dottor Salvi. Attraverso i flashback, che emergono durante il percorso psicoterapico, al lettore verrà svelata l’intera trama della storia ma verrà anche mostrato l’evolversi e lo sviluppo dell’anoressia, imparando così a conoscerla. Nel suo racconto Ursula ci mostra come un’anoressica cerchi disperatamente di nascondere il proprio disturbo e come reagisca qualora venga scoperta. La mortificazione del corpo non è un semplice desiderio di magrezza ma il tentativo disperato di cancellare un dolore che non trova modo di uscire dal corpo. Allo stesso modo, ci viene fatta capire l’importanza della terapia per ritrovare un nuovo equilibrio e per tornare ad amare sé stessi.

L’altalena è un racconto molto interessante che non parla solo di sofferenza. È un inno all’amore, verso chi ci ama ma anche verso se stessi. È un invito a proteggere il nostro cuore, custode immaginario dei sentimenti, dalle aggressioni esterne e, soprattutto, da quelle interne perché, come scrive Ursula, possiamo essere vittime ma anche i carnefici: noi stessi possiamo diventare i mostri da combattere, poi da nascondere ed infine far sparire. Per questo è importante capire e sforzarsi di andare oltre le apparenze. Non distogliere lo sguardo da chi si nasconde può essere il primo grande passo che possiamo fare per aiutare il mondo a cancellare questa malattia.

Autostima bassa e uso di droghe: uno studio conferma l’elevata associazione

Secondo una nuova ricerca, condotta dall’Università di Binghamton, persone con bassa autostima tendono a fare un maggiore uso di oppioidi, per far fronte a situazioni di vita stressanti che incidono negativamente sulla loro vita.

 

La Threat Appraisal and Coping Theory, teoria di riferimento dello studio, suggerisce che queste persone in presenza di fattori stressanti mettano in atto comportamenti maladattivi, che nel breve termine alleviano l’angoscia ma nel lungo termine peggiorano la situazione.

Autostima bassa e droghe: lo studio

Nello studio sono state indagate tre variabili: cinque fattori potenzialmente stressanti della vita (salute, soldi, lavoro, famiglia, relazioni d’amore), autostima, uso di oppioidi. È stata prima analizzata l’associazione tra fattori stressanti e l’autostima, in seguito si è indagato sul ruolo da mediatore dell’autostima.

I soggetti della ricerca erano più di 1000 adulti statunitensi, di cui: 54% donne; 53% uomini; dai 45 anni in su; 76% bianchi; 60% con reddito uguale o superiore a 50.000$; 11% fa uso di oppioidi. I partecipanti hanno completato un sondaggio online.

Dallo studio si è evidenziata un’associazione tra bassa autostima e alto consumo di oppioidi. Inoltre, la bassa autostima è risultata essere un mediatore significativo tra fattori stressanti e uso di oppioidi. Questo indica quindi che gli eventi stressanti della vita incidono negativamente sulle persone con bassa autostima, le quali per stare meglio fanno uso di oppioidi.

Autostima bassa e droghe: ciò che resta da capire

La connessione tra queste variabili era stata riscontrata anche in ricerche passate. In questi studi era emerso che gli individui che manifestano un rifiuto sociale e che soffrono poi di depressione e bassa autostima (stati caratterizzati da una riduzione di serotonina e dopamina nel cervello) fanno un maggiore uso di oppioidi. Questo deriva dal fatto che il consumo di oppioidi permette di aumentare l’effetto della dopamina e della serotonina, attraverso un cambiamento rapido e potente nel funzionamento cerebrale.

Visti i risultati, i consumatori di oppioidi potrebbero cercare aiuto per imparare a gestire meglio queste situazioni stressanti, per aumentare la propria autostima, attraverso opportune strategie – afferma l’autore Aksen.

I risultati non sono da generalizzare a tutte le persone che affrontano periodi di vita stressanti. La ricerca presenta alcuni limiti:

  • La maggior parte del campione ha un’identità etnica bianca e reddito alto
  • La quantità di oppioidi utilizzata, la motivazione sottostante, la sequenza degli eventi che portano al consumo di oppioidi, l’esposizione ad un trattamento per uso di sostanze, potrebbero moderare l’associazione tra fattori stressanti e consumo degli oppioidi.

 

Cos’è la dipendenza da cibo? Due voci a confronto: Paul Fletcher e Paul J. Kenny

L’applicazione del termine food addiction al pari di altre forme di dipendenza si basa sul fatto che alcune caratteristiche di questo fenomeno sono simili a quelle riscontrate nel disturbo da abuso di sostanze e alcuni cibi, gustosi e saporiti, sembrano avere gli stessi effetti delle sostanze che creano dipendenza su specifici network cerebrali.

 

Non esiste chiaro consenso sulla validità del concetto di dipendenza da cibo né sul fatto che alcune persone che hanno un discontrollo sull’alimentazione possano considerarsi “dipendenti” al pari di quelle affette da un disturbo da abuso sostanze.

Paul Fletcher, del dipartimento di psichiatria dell’università di Cambridge, e Paul J. Kenny, del dipartimento di neuroscienze dell’Icahn School of Medicine at Mount Sinai di New York, sono le due voci contrapposte nel dibattito sulla caratterizzazione del concetto della food addiction recentemente pubblicato sulla rivista Neuropsychopharmacology.

Cosa si intende per food addiction?

L’applicazione del termine food addiction è basata sul fatto che alcune caratteristiche di questo fenomeno appaiono somiglianti a quelle riscontrate nel disturbo da abuso di sostanze e che alcuni cibi, gustosi e saporiti, sembrano avere gli stessi effetti delle sostanze che creano dipendenza, su specifici network cerebrali – il sistema dopaminergico mesolimbico – legati alla ricompensa.

In particolare, alcuni studi di tipo neurobiologico hanno sviluppato l’ipotesi che la facile accessibilità e sovraconsumazione di questi cibi potrebbe favorire l’attivazione dei medesimi processi cerebrali sottostanti sia comportamenti alimentari di tipo binge che sintomi di astinenza, anche se, al momento, a parere di Fletcher, non esistono delle evidenze robuste e convincenti a riguardo (Fletcher & Kenny, 2018).

Infatti i dati finora ottenuti attraverso l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale e dalla PET non supportano in modo convincente l’ipotesi che nell’uomo i cambiamenti neurobiologici osservati siano riconducibili a comportamenti di food addiction, come invece evidenziato nei modelli animali (Ziauddeen & Fletcher, 2013).

Da diverso tempo si fa riferimento alla food addiction come tentativo di spiegazione di quei pattern di comportamento, spesso osservati in ambito clinico, legati alla ricerca spasmodica di cibi ipercalorici appetitosi ad alto contenuto di zucchero e grassi, simil craving, in cui è presente una perdita di controllo al momento del loro consumo (Davis, 2014).

Per tale ragione, il concetto di food addiction, la cui validità viene attualmente discussa, spesso viene sovrapposto e collegato oltre che alle dipendenze anche a pattern di comportamenti alimentari disfunzionali e problematici, come il disturbo da alimentazione incontrollata e la bulimia in cui sono presenti le abbuffate incontrollate di cibo ipercalorico, tanto da ritenere che la food addiction non sia distinta dal sintomo del binge eating (de Vries & Meule, 2016).

La food addiction è dunque un comportamento alimentare disfunzionale oppure una vera e propria forma di dipendenza?

Per poter stabilire la validità e l’attendibilità del costrutto food addiction è necessario occuparsi anche di altri fenomeni, come la tolleranza e l’astinenza, legate maggiormente al disturbo da abuso di sostanze piuttosto che ai comportamenti alimentari disfunzionali. Infatti il piacere al consumo inversamente proporzionale alla quantità di cibo ingerito può riferirsi al fenomeno della tolleranza, così come l’ansia e la disforia presenti quando vi è penuria di cibi ipercalorici siano da classificarsi come sintomi legati all’astinenza.

Nonostante ciò, in letteratura si sono evidenziate difficoltà nel traslare in modo sistematico le evidenze neurobiologiche ottenute grazie ai modelli animali sugli umani, che potrebbero aiutare nello stabilire la categorizzazione della food addiction tra i disturbi da abuso di sostanza. A parere di Fletcher (Fletcher & Kenny, 2018), infatti, se non vi sono evidenze robuste che possano supportare l’adesione di un costrutto (la dipendenza da cibo o food addiction) ad un modello (quello delle dipendenze), non è scientificamente possibile categorizzare tale costrutto in modo sicuro anche se comunemente ci si riferisce ad alcune tipologie di cibo come a delle droghe.

Al contrario Kenny è maggiormente convinto che il sovraconsumo di cibi ipercalorici ad alto contenuto energetico possa comportare dei rimodellamenti dei circuiti legati alla motivazione in una maniera tale da costituire una vulnerabilità consistente per i soggetti sovrappeso che saranno portati più frequentemente a desiderare certe proprietà nel cibo che ingeriscono, nonostante siano assolutamente consapevoli degli effetti negativi che la loro alimentazione dannosa avrà sulla loro salute (Fletcher & Kenny, 2018), come succede nelle dipendenze.

In particolare la dipendenza da cibo condividerebbe tre caratteristiche cliniche con i disturbi da abuso di sostanze, oltre che la tolleranza e l’astinenza: la sensazione di deprivazione quando la sostanza non è disponibile al momento, una percentuale maggiore di recidiva e di mancanza di autocontrollo durante i momenti di astinenza e la persistenza nel consumo della sostanza (“il non riuscire a farne a meno”, nonostante la consapevolezza dei sue effetti negativi sulla salute).

Diverse evidenze inoltre mostrano come i cibi ipercalorici ad alto apporto energetico stimolino i circuiti della ricompensa nello striato e ciò impedirebbe ai soggetti sovrappeso di perdere il peso in eccesso, e come questi cibi siano implicati nell’alterazione dell’attività dei circuiti prefrontali, alterazione che si riscontra nella dipendenza da sostanze (Siep, Roefs et al., 2009).

In particolare, a parere di Kenny (Fletcher & Kenny, 2018), una specifica combinazione di macronutrienti nei cibi ipercalorici potrebbe determinare una “spinta sovrafisiologica” nei circuiti cerebrali legati alla motivazione, spinta che a sua volta causerebbe comportamenti consumatori.

In conclusione

Nonostante i differenti pareri, entrambi i ricercatori concordano nell’affermare che una maggiore conoscenza dei meccanismi che fanno si ché specifiche sostanze possano rimodellare i circuiti legati alla motivazione, e di conseguenza determinare comportamenti compulsivi di ricerca della sostanza stessa, possa apportare benefici, insieme a ricerche orientate ad identificare le differenze tra la food addicition e il disturbo da abuso di sostanze, alla comprensione di tale fenomeno.

Alimentazione e salute mentale – Report dal Convegno di Palermo, 28 e 29 Settembre 2018

La PsicoNutrizione si rende necessaria quando si riscontrano difficoltà ad attenersi a un modello dietetico idoneo; essa affronta le problematiche della fame emotiva e della dipendenza da cibo supportando chi vuole dimagrire ma incontra difficoltà a lungo termine.

 

Alimentazione, salute psicofisica, prevenzione, sensibilizzazione a un corretto stile di vita: questi i temi centrali del Convegno “Alimentazione e Salute Mentale. Le nuove conquiste del legame mente-corpo” svoltosi il 28 e 29 Settembre scorsi nella sontuosa cornice di Villa Igiea.

Un susseguirsi di relazioni a carattere medico e psicologico, in linea con quanto indicato dall’OMS sul concetto di salute come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, dove un ruolo centrale occupa la prevenzione delle malattie correlate all’obesità, quali le malattie cardivascolari e il diabete.

Il Convegno sottolinea la sinergia tra psicologo e nutrizionista a supporto del paziente che si accinge a seguire con successo un piano alimentare personalizzato e si pone, altresì, l’obiettivo di sensibilizzare gli aspetti di prevenzione e cura per uno stile di vita sano e duraturo nel tempo – introduce la dott.ssa Paola Di Natale, Presidente e Responsabile Scientifico del convegno – In questa direzione si muove la PsicoNutrizione come sostegno a uno stile di vita sano, prima dell’insorgenza dei problemi.

La prevenzione deve iniziare già nella vita prenatale, nella misura in cui i geni possono essere modificati dalle esperienze ambientali, così che il DNA non sia il nostro destino, come sottolinea l’epigenetica – argomenta la dott.ssa Nicoletta Salviato, Responsabile UOS Educazione e Promozione della salute, ARNAS Civico di Palermo – Una corretta prevenzione si rende necessaria per ridurre la probabilità di insorgenza della sindrome metabolica, complessa, patologia che vede associate, tra le altre, insulino-resistenza, obesità centrale e ipertensione arteriosa ed è collegata all’insorgenza dell’Alzheimer.

Oggi sempre più importanza si dà in medicina al concetto di nutraceutica, che indica come il cibo possa essere la prima efficace soluzione terapeutica – sottolinea Raffaella Mallaci Bocchio, biologo nutrizionista – In particolare i nutraceutici, come la Berberina e le fibre solubili, sono un buon coadiuvante insieme a dieta e trattamento farmacologico sia in fase di prevenzione che trattamento del diabete mellito di tipo 2, associato con aumento del rischio cardiovascolare.

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Psiconutrizione_ alimentazione e salute mentale - Report dal Convegno_1

Psiconutrizione_ alimentazione e salute mentale - Report dal Convegno_2Imm. 1 e 2 – Immagini dal convegno Alimentazione e Salute Mentale

 

Dal punto di vista della lotta ai problemi di sovrappeso e obesità e considerando l’importanza di un piano alimentare sostenibile, praticabile e accettato dalla persona colpita dal disturbo alimentare, che apporti cambiamenti duraturi nel tempo, e che si interessi della gestione della fame emotiva, un ruolo di primo piano è svolto dalla PsicoNutrizione, approccio olistico e integrato tra Psicologia e Scienza dell’Alimentazione.

La PsicoNutrizione si rende necessaria quando si riscontra difficoltà ad attenersi a un modello dietetico idoneo; essa affronta le problematiche della fame emotiva e della dipendenza da cibo supportando chi vuole dimagrire, ma incontra difficoltà a lungo termine – spiega Di Natale – Ecco che lo psicologo lavorerà sulla motivazione al cambiamento, sull’immagine corporea e sull’autostima, mentre il nutrizionista, attraverso il percorso di educazione alimentare, la dieta e la perdita di peso, inciderà sugli aspetti psicologici.

Psicologia e biologia, un binomio che richiama la correlazione tra alimentazione e salute mentale, come afferma il prof. Ramilli, fondatore della Psicobiotica.

La Psicobiotica considera non solo l’importanza del cibo inteso nel senso classico, ma anche come il cibo-emotivo, poiché le emozioni possano condizionare la fisiologia e la funzionalità dell’organismo fino a creare vere e proprie patologie (stress, depressione…). È importante sottolineare, in tal senso, l’importanza dei rapporti sociali, delle relazioni amicali e degli ambienti di lavoro poiché condizionano notevolmente la nostra salute.

Un’integrazione che richiama il concetto di unità mente-corpo e che rimanda alla necessità di un monitoraggio dei propri stati mentali che, se scarsamente regolati, per esempio sul versante depressivo, si traducono in disregolazione alimentare, promuovendo malessere psicofisico e rendendo sempre più complesso, con lo strutturarsi di abitudini disfunzionali, l’obiettivo di uno stile di vita salutare, preventivo rispetto a ogni sorta di patologia dell’organismo.

Psicoterapia di Dio (2018) di B. Cyrulnik – Le riflessioni di Giancarlo Dimaggio

Tutte le estati nuoto nello Jonio. Cammino tra dune, ginepro, finocchio spinoso e sbriciolo origano, profuma. Poi mi tuffo. È l’inizio di settembre, quest’anno per la prima volta incontro una tartaruga. È grandissima. L’avvicino, mi guarda, in pochi secondi è fuori portata. Da quale mondo antico e senza tempo è arrivata?

Articolo scritto da Giancarlo Dimaggio per il Corriere della Sera il 15/09/2018

 

Forse lo stesso che ha scorto il soldato che accoglie il nuovo superiore a Guadalcanal nel film La sottile linea rossa. Gli deve fornire la mappa della situazione, con i giapponesi le cose sono complicate, dal bunker in cima alla collina sparano come dannati. E gli dice: “Hanno pesci che vivono sugli alberi”. Sono in guerra, molti moriranno, ma dalla sua voce erompe lo stupore di chi scopre una natura oltre quello che poteva concepire. La trascendenza. Boris Cyrulnik nel suo La psicoterapia di Dio evoca due vulcanologi, Katia e Maurice Krafft, morti “il 3 giugno1991, quando una colata di lava incandescente li ha raggiunti sulle pendici del monte Uzen”. La coppia sapeva che il loro amore per i vulcani un giorno li avrebbe sopraffatti, ma erano felici. La lava che erutta apriva loro uno squarcio sull’altrove.

Cyrulnik ha lavorato in uno scenario di foreste e massacri: il Congo, in una pausa tra le guerre. Quei posti dove ti chiedi più facilmente dov’è Dio: nella bellezza della natura o perso nel fragore delle raffiche di un Uzi? Ha parlato con bambini-soldato, dodici anni e già vecchi. Uno di loro da grande vuole fare il calciatore o l’autista, ha visto le macchine, ai suoi occhi spettacolari, delle ONG. Quel bambino gli chiede perché solo in chiesa veda immagini belle, invece di quelle spaventose che lo inondano senza requie. Cyrulnik si accorge di non avere una risposta, il bambino è deluso. La psicoterapia di Dio è il suo tentativo di sanare quell’animo. La sua domanda diventa: come può un’istanza eterna agire fin dentro il cervello? Da credente, ha trovato la sua spiegazione.

Si appoggia alla teoria dell’attaccamento, formulata da quel pilastro della psicoterapia che è stato John Bowlby. Il bambino nasce e immediatamente per ogni dolore, bisogno ha l’istinto a rivolgersi a degli adulti speciali. Mamme, papà, che poi la scienza rinomina: figure d’attaccamento. Il modo in cui tali figure rispondono alle richieste del bambino ne plasma il carattere. Genitori sicuri, quindi amorevoli, presenti e, per quanto possibile, prevedibili e calmi forgiano figli fiduciosi. Al contrario, sia genitori freddi, distanti, pronti al giudizio stizzito sia genitori che curano ma imbevuti d’ansia generano figli insicuri. Genitori disorganizzati, che possono abbracciare e poi odiare, abusare, andare via con la testa nei loro mondi popolati di mostri, spaccano la mente del bambino, quasi alla lettera. Cyrulnik sostiene che il modo in cui si plasma il rapporto con Dio dipende dallo stile di attaccamento. Bambini cresciuti sicuri hanno fiducia nell’intervento dall’alto, gli altri lo temono, se ne distaccano, protestano per le sue ingiustizie. Cyrulnik è un illuminato pluralista, le sue parole si rivolgono a credenti in Dei dai nomi diversi e anche ad atei e agnostici. Descrive un Dio materno e consolatore, sensuale ed esaltante, paternamente normativo. Alla fine della sua ricerca c’è un Dio psicoterapeuta, che cura, risana, conduce verso la trascendenza.

Il libro, va detto, non ha come pregio principale il rigore scientifico. Il quadro che emerge nel rapporto tra religiosità e benessere è in realtà più complesso. Alcune ricerche indicano che credere in Dio è fonte di sollievo e resilienza – la capacità di reggere all’impatto delle avversità – altre il contrario. Per molti, scopre uno studio di Gebauer e colleghi, dell’Università Humboldt di Berlino, la religiosità è benefica perché permette di sentirsi validi e accettati in società dove è un valore, più in America Latina che nella laica Scandinavia direi. Vero è invece che adattare la psicoterapia alla religione dell’individuo è utile. Molto più chiaro il potere di spiritualità e trascendenza: quella che Cyrulnik chiama “meraviglia di esistere” è benefica.

L’afferri nelle condizioni estreme. Il pastore protestante ricordato nel libro: i nazisti fermano il suo treno. Se lo arrestano e torturano può svelare i nomi dei resistenti. Si contorce dall’angoscia, ma al momento dell’arresto lo troveranno in estasi. Era andato altrove.

È come la meraviglia delle terre desolate. Appare nei libri Meridiano di sangue e La strada di Cormac McCarthy e in quello di Omar Di Monopoli Nella perfida terra di Dio. Muretti a secco, solidi già nel giorno dell’origine, abitati da rettili impassibili, costeggiati da eremiti paranoici e uomini dagli occhi opachi. Terre in cui chi cerca Dio respira polveri rosse, un minerale insidioso che induce una Fatamorgana malefica: una cattedrale romanica rovesciata e potente. Eppure c’è una trascendenza in quei mondi bruciati. La stessa che cercano i bambini-soldato del Congo, morti dentro per la fame di Coltan dei nostri smartphone. L’accesso al mondo altro di Jim Caviezel che ne La sottile linea rossa risponde a Sean Penn, nel ventre della nave che li porterà verso l’orrore: “Io sono due volte l’uomo che è lei… io ho un’altra vita l’ho vista”.

Nei nostri studi di psicoterapia incontriamo abitanti di quelle terre: hanno disimparato a sperare, il loro sguardo incagliato nell’orizzonte della sofferenza, il pensiero avvolto su sé stesso in spirali soffocanti. Per molti di loro Dio non è più o non è mai stato consolazione. Con loro lavoriamo nelle nostre serre, seminate di tecnica, ragionamento, lavoro sul corpo ed empatia, ormai giunti a piena fioritura. Di molti riduciamo il dolore, ad alcuni apriamo squarci su un altro modo di osservare il mondo.

Pinneggio verso la tartaruga, vorrei toccarla. È sorpresa, per un attimo resta immobile. I raggi fendenti che screziano le pendici vinaccia del suo carapace sono il frutto di eoni di ricombinazioni del DNA. Lo è ugualmente il movimento lento e perfetto del collo tozzo con cui si volta a guardarmi, curiosa, dubbiosa. Più rapida e sicura di me svanisce e io, due metri sott’acqua, perdo l’interesse nel reale.

Fame e tono dell’umore: come i livelli di glucosio influenzerebbero stati emotivi e comportamenti

L’improvviso calo di glucosio che sperimentiamo quando siamo affamati potrebbe influire sul nostro umore. La ricerca pubblicata su Psychopharmacology ha indagato l’impatto della fame sul comportamento emotivo.

 

La ricerca ha utilizzato topi da laboratorio. I ricercatori hanno osservato segnali di stress, quali livelli più elevati di cortisolo e comportamenti simil depressivi nei ratti dopo aver somministrato loro un bloccante del glucosio.

Fame: può determinare cattivo umore, stress ed ansia?

Per lo studio i ricercatori dell’Università di Guelph hanno somministrato un bloccante del glucosio, inducendo uno stato di ipoglicemia in alcune cavie che si trovavano in un particolare luogo fisico; nella seconda condizione è stata somministrata un’iniezione di acqua ai medesimi topi, posti però in un altro luogo. Ciò che si è osservato è che quando i topi erano liberi di muoversi nell’ambiente, evitavano attivamente il luogo in cui era stata indotta l’ipoglicemia.

Francesco Leri, professore del Dipartimento di Psicologia ha spiegato

Questo tipo di comportamento di evitamento è un’espressione di stress e ansia. Gli animali ricordano il luogo in cui hanno vissuto l’esperienza stressante e lo evitano per non riprovare più la medesima sensazione.

I ricercatori hanno monitorato i livelli ematici dei ratti dopo la somministrazione del bloccante e hanno trovato livelli più elevati di cortisolo, un indicatore di stress fisiologico; inoltre hanno osservato che le cavie apparivano più pigre in seguito all’iniezione. Questo potrebbe essere in parte giustificato dal fatto che buoni livelli di glucosio sono essenziali per la funzionalità muscolare, tuttavia quando è stato somministrato un farmaco antidepressivo di uso comune, gli animali hanno iniziato a muoversi normalmente, si è assistito quindi a un cambiamento del comportamento non giustificato dai livelli di glucosio che sono rimasti invariati.

Fame e tono dell’umore: i risultati dello studio

Questa scoperta supporta l’idea che gli animali sperimentavano stress e umore depresso nella condizione di ipoglicemia.

Leri ha affermato

Abbiamo ottenuto prove del fatto che un cambiamento nel livello di glucosio può avere un effetto duraturo sull’umore. Quando le persone pensano agli stati d’animo negativi e allo stress, pensano ai fattori psicologici e non a quelli metabolici. Io stesso ero scettico quando le persone mi dicevano che diventano scontrose se non mangiavano, ma ora ci credo. La ricerca ha rivelato che l’ipoglicemia è un forte fattore di stress psicologico, questo ci porta a sostenere che un comportamento alimentare scorretto possa avere un impatto a livello emotivo.

In conclusione le evidenze trovate rivelano che bassi livelli di glucosio determinano stati d’animo negativo.

Alla luce di ciò in futuro i ricercatori intendono capire se l’ipoglicemia cronica possa essere un fattore di rischio per lo sviluppo di comportamenti depressivi e ansiosi a lungo termine.

Leri ha detto

Cattiva alimentazione e umore depresso possono diventare elementi di un circolo vizioso: se una persona non mangia in modo adeguato, può sperimentare un calo nel tono dell’umore il quale a sua volta può indurre una riduzione del desiderio di cibo. Sperimentare costantemente questo circolo può influenzare negativamente lo stato emotivo

e ha concluso

I fattori scatenati della depressione possono essere diversi da soggetto a soggetto tuttavia sapendo che la nutrizione è un possibile fattore di rischio, si potrebbe includere la promozione di abitudini alimentari sane come parte di un trattamento.

Le ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi – Recensione del film premiato a Berlino

E’ un mondo di sole donne, gli uomini sono figure in dissolvenza, quello che racconta nel film Le ereditiere il regista Marcelo Martinessi. Un mondo quasi claustrofobico, di sguardi e di poche parole, un mondo che appare spiato dalla cinepresa nascosta dietro una porta.

È il mondo di Chela e Chiquita, due signore unite da un legame sentimentale che negli anni è diventato abitudine. Vivono ad Asuncion, capitale del Paraguay, in una casa borghese perché sono entrambe di buona famiglia. Le loro rendite però cominciano a diminuire, tocca vendere e svendere mobili, quadri, argenteria, persino piatti e bicchieri. La situazione precipita quando Chiquita, che è la forte e la più pratica nella coppia, finisce in prigione per un debito mai pagato. Chela, una donna che lotta quotidianamente con la depressione e non vorrebbe uscire mai di casa, sempre più smarrita viene affidata alle cure di una cameriera analfabeta. Dorme poco, sente rumori strani nella notte, e le visite in carcere alla compagna sono occasione di ulteriore smarrimento.

Le ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi – Trailer del film:

 

È solo per puro caso, una ricca vicina le chiede un passaggio in auto, che si ritrova a fare l’autista. Tira fuori dal garage la vecchia Daimler avuta in eredità dal padre e, sbalordita, scopre che per il suo servizio può essere pagata. Nel giro di poco tempo le anziane e ingioiellate amiche della vicina, quasi fosse un taxi privato, la chiamano sempre più spesso. I suoi pomeriggi ormai sono occupati ad accompagnarle nei ricchi salotti di una o dell’altra per le partite a carte. Il suo sguardo, prima perso nel vuoto si sofferma sui particolari, sulle persone: là fuori c’è qualcosa, qualcuno che merita attenzione, qualcuno che le dà attenzione. È la giovane e disinibita Angy, con la sua fisicità e con la sua esuberanza, a risvegliare in lei sensazioni ed emozioni che pensava ormai perdute.

Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi - Scena dal film 1
Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi. Una scena dal film.

Il regista del film in una recente intervista, ha detto che Le ereditiere è un film essenzialmente sui confini, facendo così riferimento alla situazione del suo Paese, che parole sue, è e resta “una gigantesca prigione”. Il Paraguay è stato per decenni governato da una dittatura militare e ora è in mano a una destra molto conservatrice. Le ereditiere del film, che appartengono a un’élite privilegiata, sono dunque un po’ la metafora del Paese. Di una società che ha paura del cambiamento, che si sente più sicura e protetta nei confini delle proprie accoglienti case. Meglio vendere un quadro, privarsi di un tavolo, piuttosto che rinunciare alla domestica, piuttosto che uscire e guardarsi attorno. Ma forse, suggerisce il regista nel finale del film, il mondo esterno può essere esplorato, forse c’è la possibilità di un nuovo inizio.

Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi - Scena dal film 3
Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi. Una scena del film

A chi consiglio la visione del film: a chi pensa che i nostri percorsi di vita siano fortemente influenzati dalla società in cui cresciamo. A chi piace scoprire nel cinema e nella letteratura parte della storia di un Paese (io per esempio del Paraguay non sapevo nulla e sono andata a cercarmi la sua storia su Internet).

Ecco chi invece farebbe meglio ad astenersi dalla sua visione: innanzitutto gli insofferenti, quelli che amano i film di azione. E poi chi pensa che il desiderio in una donna avviata all’età della vecchiaia sia ormai sopito.

Il film, che al Festival di Berlino ha fatto incetta di premi, l’Orso d’Oro per la migliore attrice (una bravissima Ana Brun), il premio Alfred Bauer e quello Fipresci della critica internazionale, sarà sugli schermi italiani da giovedì 18 ottobre.

Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi - Scena dal film 2
Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi – Scena dal film.

La nuove sfide della stimolazione magnetica cerebrale, intervista al Dott. Giuseppe Fazzari

La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS), ci racconta Giuseppe Fazzari, è stata messa a punto come metodica a metà degli anni ottanta e ha trovato indicazioni nel trattamento in particolare dei disturbi dell’umore, soprattutto come seconda scelta in caso di trattamenti farmacologici inefficaci.

 

Nonostante abbia dato i natali a Bini e Cerletti, i padri della terapia elettroconvulsiva (TEC), l’Italia rispetto ad altri paesi industrializzati ha sempre mostrato una sorta di pregiudizio e riluttanza nei confronti di terapie psichiatriche che usassero macchinari (i cosiddetti devices), prediligendo di gran lunga farmaci e psicoterapia. Negli ultimi anni le cose stanno un po’ cambiando con la diffusione anche nel nostro paese, per ora solo in alcuni centri privati, della stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS).

A differenza della TEC, questa metodica non invasiva e non dolorosa viene effettuata senza preparazioni particolari del paziente, con effetti reversibili sulla corteccia cerebrale. Si utilizza un’apparecchiatura costituita da un generatore di corrente ad elevata intensità e da una sonda mobile, che può essere montata su un casco, che è a diretto contatto con lo scalpo del paziente e che va a stimolare la corteccia dorsolaterale prefrontale. Le sedute (giornaliere) durano 20 minuti e il trattamento dura mediamente dalle 4 alle 6 settimane. Non sono riportati particolari effetti collaterali e l’unica controindicazione al trattamento è la presenza nel corpo del paziente di impianti metallici e pacemaker.

Messa a punto come metodica a metà degli anni ottanta, inizialmente la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) ha trovato indicazioni nei disturbi dell’umore, soprattutto come seconda scelta in caso di trattamenti farmacologici inefficaci. Più recentemente le indicazioni si sono allargate anche all’addiction, in particolare nella dipendenza di cocaina (Lapo Elkan in alcune interviste ha dichiarato pubblicamente di averne tratto beneficio), ma anche in altri disturbi (disturbi alimentari, DOC resistente) e anche singoli sintomi psichiatrici (autolesionismo). Sembra davvero un trattamento molto interessante e promettente per i tanti casi psichiatrici resistenti sia ai farmaci che alla psicoterapia.

Abbiamo parlato di questa metodica con il Dott. Giuseppe Fazzari, direttore scientifico e responsabile organizzativo del Mood Center di Brescia ed esperto da tanti anni di brain stimulation.

Intervista al Dott. Giuseppe Fazzari

I (intervistatore): Salve Dott. Fazzari e grazie per questa intervista. Ci racconta della vostra attività al Mood Center e in particolare all’uso della rTMS?

GF (Giuseppe Fazzari): Il nostro centro è nato lo scorso maggio, ma abbiamo già una casistica notevole di pazienti affetti da disturbi dell’umore e addiction. Sono tanti anni che mi occupo di stimolazione cerebrale a partire dalla mia precedente esperienza lavorativa all’ospedale di Montichiari. I pazienti per cui proponiamo la deep rTMS solitamente hanno già una storia psichiatrica con almeno un trattamento farmacologico fallito. La deep rTMS è difficilmente un trattamento di prima linea, a meno che non sia una richiesta esplicita del paziente. Nelle indicazioni non ci sono solo diagnosi psichiatriche ma ormai anche sintomi, nell’ambito di pratiche psichiatriche sempre più precise e mirate. Abbiamo avuto esperienze positive anche in casi di insonnia resistente, autolesionismo e i comportamenti suicidari. Il nostro centro collabora per ricerca e supervisione dei casi più complicati con centri universitari israeliani e americani.

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rTMS e applicazioni cliniche - Intervista al Dott. Giuseppr Fazzari_1

rTMS e applicazioni cliniche - Intervista al Dott. Giuseppr Fazzari_2Imm. 1 e 2 –  Dettagli dell’apparecchiatura rTMS 

 

I: Ci potrebbe raccontare qualcosa di più sul meccanismo d’azione di questa metodica?

GF: La TMS funziona secondo il principio dell’Induzione Elettromagnetica: se vi è un passaggio di corrente entro una bobina metallica (coil), si genera un campo elettromagnetico perpendicolare al flusso di corrente presente nella bobina. Se un secondo conduttore (scalpo) viene posizionato entro il campo magnetico, verrà indotta corrente in questo secondo mezzo. I campi elettrici generati attraverso l’induzione elettromagnetica sono perpendicolari rispetto allo stimolatore e quindi si rivelano adatti all’eccitazione dei neuroni corticali. Si determina, pertanto, una corrente indotta, in grado di produrre dei potenziali di azione in neuroni eccitabili della corteccia. Il razionale della rTMS a livello della corteccia dorsofrontolaterale sin (DLPFC) risiede nelle osservazioni fatte sul metabolismo di questa porzione della corteccia nei pazienti depressi. Dopo tentativi poco convincenti di applicazione a livello del vertice del capo o della corteccia motoria, George et al. (1995) furono i primi a stimolare la DLPFC sinistra ad alta frequenza, con risultati incoraggianti; in seguito questa è stata l’area stimolata nella grande maggioranza degli studi successivi. Rispetto alla rTMS, la deep rTMS facilita la stimolazione selettiva di diverse aree cerebrali e permette di raagiungeree una profondità di stimolo di 5cm rispetto ai 1-2 cm delle altre TMS.

I: Dunque quali sono i casi dove la rTMS è maggiormente indicata e più efficace?

GF: Disturbi dell’umore, in particolare episodi depressivi, ma anche stati misti e mania cronica moderata, addiction (abuso di sostanze – cocaina, cannabis, alcool, nicotina -, gambling patologico, dipendenza da internet), disturbo ossessivo compulsivo, disturbi del comportamento alimentare (sia bulimia che anoressia), autolesionismo, emicrania, tinnito cronico, allucinazioni uditive farmacoresistenti, forme inziali di Alzheimer, gravi difficoltà di sonno.

I: Può essere utile integrare il trattamento con la psicoterapia? Se sì in quali fasi (prima, durante o dopo)?

GF: Dipende dalle situazioni. Ci accade di trattare pazienti inviati dallo psicoterapeuta che li ha in carico. Se il paziente non è in psicoterapia e riteniamo che possa essere utile, lo inviamo nel corso del trattamento stesso o al termine del trattamento.

I: Dopo il trattamento delle venti sedute sono previsti richiami e follow up?

GF: Per alcuni pazienti può essere necessario un richiamo dopo alcuni mesi, ma non in tutti i casi. In qualche caso, quando trattiamo per esempio depressioni resistenti, dipendenza da cocaina, forme iniziali di Alzheimer, prevediamo anche la possibilità di un trattamento di mantenimento.

I: Che reazioni avete avuto da parte di colleghi e pazienti a questa proposta terapeutica? Immagino ci sia qualche pregiudizio.

GF: In Italia c’è un grande interesse per la neurostimolazione, ma c’è ancora il taboo rispetto alla TEC. C’è una sorta di paura per tutto quello che ha a che fare con la corrente elettrica. In questo caso è fondamentale fare un lavoro di informazione per far capire che il trattamento non c’entra con la TEC, che comunque è un trattamento di grande efficacia con le giuste indicazioni, diffuso in molti paesi. In Italia c’è una scarsissima conoscenza anche in ambito accademico della neurostimolazione, salve alcuni rari casi, e nelle scuole di specialità non viene insegnato quasi nulla a riguardo. Negli Stati Uniti invece il 24% del mercato della salute mentale è caratterizzato dall’uso di devices, per intenderci. Ho dedicato almeno 15 anni di studio a questo tipo di stimolazione e all’inizio anche io avevo qualche pregiudizio. Vedo con piacere che il clima sta nettamente cambiando e i giovani psichiatri hanno meno pregiudizi anche in Italia. È un peccato che molti colleghi si privino di una possibile risorsa, che negli ultimi studi ha mostrato un’efficacia fino al 75% dei casi.

I: Molti sono critici verso la TEC per i possibili effetti avversi ad esempio sulla memoria. Ci conferma che effetti collaterali del trattamento rTMS sono minimi?

GF: Sì sono veramente trascurabili, a volte un po’ di mal di testa (che raramente richiede assunzione di un po’ di tachipirina) o il fastidio per il rumore della macchina (fa il rumore simile a una Risonanza Magnetica), per il quale a volte usiamo tappi per le orecchie. Rispetto alla terapia farmacologica, la rTMS ha innegabili vantaggi per quanto riguarda l’aumento di peso, le problematiche sessuali e si è dimostrata praticabile anche in situazioni delicate come la gravidanza.

I: Qual è la modalità di accesso al vostro centro e quali sono i costi del trattamento?

GF: I pazienti provengono da tutta Italia e anche dall’estero a volte. Riusciamo a fornire un aiuto per trovare una soluzione alberghiera. Il trattamento costa 150 euro per ogni seduta, che viene ridotta a 100 se l’invio viene fatta da una struttura pubblica come un CPS o un SERT. Il costo medio dell’intero trattamento di venti sedute si aggira intorno ai 3000 euro, ma abbiamo l’obiettivo di creare una Fondazione per garantire il trattamento anche a chi non ha la possibilità di permetterselo.

L’esperienza ipnotica in psicoterapia (2017) di C. Casilli: alla scoperta dell’incontro tra ipnosi e terapia cognitiva, attraverso un pratico manuale – Recensione

L’esperienza ipnotica in psicoterapia è un testo di Costantino Casilli scorrevole nella lettura e stimolante, dove aspetti teorici si incontrano con molteplici esempi tratti dalla clinica. Adatto a tutti i terapeuti che desiderano comprendere come l’ipnosi possa rappresentare una valida risorsa nella pratica clinica, integrandosi ed arricchendo l’approccio cognitivo alla malattia e alla cura.

 

You use hypnosis not as a cure
but as a means of establishing
a favorable climate in which to learn.
Milton Erickson

 

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un notevole incremento dell’interesse scientifico sull’ipnosi clinica, non solo come fenomeno distinto in sé ma soprattutto come “clima relazionale” entro cui il paziente ha la possibilità di sperimentare e co-costruire con il terapeuta nuove vie, nuove esperienze emotive, nuovi nessi associativi che concretamente possano integrarsi nella sua vita favorendone un maggiore benessere.

L’ipnosi non è più quindi solo una risposta fisiologica o una risposta alle suggestioni (qualcosa che richiede un certo grado di suggestionabilità da parte del paziente) o ancora uno stato particolare della mente del paziente. Diventa invece un’esperienza ipnotica condivisa in cui paziente e terapeuta sperimentano e utilizzano la trance come terreno entro cui “creare, arricchire e modificare”.

È di questo che parla il testo L’esperienza ipnotica in psicoterapia di Costantino Casilli, di come l’ipnosi sia non solo un processo intrapsichico ma relazionale, e di come nella pratica clinica l’approccio ipnotico Ericksoniano possa sposarsi e integrarsi con la prospettiva cognitiva post-razionalista e sistemico-processuale di Guidano.

L’esperienza ipnotica in psicoterapia: un manuale pratico di ipnoterapia cognitiva

Il testo L’esperienza ipnotica in psicoterapia parla quindi di cosa sia l’ipnoterapia cognitiva e soprattutto di cosa significa lavorare con il paziente all’interno di questa prospettiva, allo scopo di differenziare, articolare e integrare i significati del paziente, creando nuove reti associative, nuove letture del mondo, che siano più fluide, articolate e funzionali per il paziente.

Casilli parte da un approfondimento dell’approccio ipnotico tradizionale, dove l’accento è posto sull’induzione ipnotica come rituale di transizione che consente il passaggio da uno ad un altro stato di coscienza (con un ruolo centrale della dissociazione), rendendo il paziente più pronto, più ricettivo rispetto alle suggestioni del terapeuta, più aperto al cambiamento. Casilli descrive, fornendo utili esempi, le varianti di induzione tradizionale, approfondendo la letteratura circa le suggestioni maggiormente utilizzate e più efficaci con i pazienti affetti da ansia e fobia, depressione e disturbi del comportamento alimentare.

Il capitolo successivo si concentra sul contributo che Milton Erickson ha dato all’ipnoterapia, rivoluzionando il ruolo che paziente e terapeuta avevano in una visione più classica. Dalla distinzione tra pazienti ipnotizzabili/non ipnotizzabili all’idea che ogni persona è potenzialmente capace di sperimentare la trance nella misura in cui fa naturalmente esperienza nella sua vita di momenti di discontinuità o modificazione del proprio stato di coscienza (le “comuni trance quotidiane”). Dall’idea che esista un solo modo di fare ipnosi, alla centralità dei significati personali del paziente: il terapeuta diventa quindi un facilitatore, che aiuta il paziente a rievocare in seduta esperienze di trance quotidiana mediante l’utilizzo di un linguaggio permissivo, analogico e metaforico che sia rispettoso dei vissuti del paziente. E se una buona trance nel paziente dipende dalle capacità tecniche dell’ipnotista (pena l’emergere della resistenza) è pur vero che il terapeuta non può non “cucire su misura” l’induzione sul paziente, che significa costruire e coltivare la relazione terapeutica e la sintonizzazione reciproca. La tecnica è quindi importante, ma ancor di più lo è la capacità del terapeuta di impostare il suo intervento sulla base della storia del paziente, nel rispetto delle sue difficoltà, risorse e peculiarità. A partire da queste considerazioni Costantino Casilli approfondisce con chiarezza espositiva e con diversi esempi clinici le quattro tipologie di esperienze che favoriscono l’accesso del paziente in stati simil-ipnotici, e che possono rappresentare dei validi aiuti all’induzione, se adeguatamente scelti sulla base delle caratteristiche del paziente.

L’incontro tra ipnoterapia e terapia cognitiva: l’ipnoterapia cognitiva

Estremamente interessante è quindi la nuova idea che l’ipnosi non sia circoscritta ad un momento ben definito della seduta o della terapia, ma che la seduta stessa sia ipnotica: anche senza indurre la trance in modo formale il terapeuta può costruire dinamiche relazionali ipnotiche, che favoriscano l’avvio di una forma di comune trance quotidiana. Non solo. Ma così come il paziente sperimenta quotidianamente nella sua vita momenti di “distacco” non di per sé disfunzionali, interessante è l’idea che il disturbo del paziente, la sua “emergenza sintomatica” possa essere pensato come uno stato simil-ipnotico, una trance problematica in cui la persona è completamente assorta e focalizzata dentro la sua personale lettura rigida del mondo e di se stresso.

Questo il punto di contatto tra ipnoterapia e terapia cognitiva: l’ipnoterapia cognitiva come approccio in grado di modificare i contenuti (le auto-dichiarazioni automatiche di Beck, i pensieri irrazionali di Ellis e il dialogo interno di Meichenbaum) e i processi di pensiero disfunzionali (le distorsioni cognitive di Beck), e di affrontare e lavorare sulle strutture cognitive (la conoscenza tacita che ha preso forma nella storia biografica del paziente). Casilli approfondisce le affinità teorico-applicative tra il modello ipnotico ericksoniano con la Schema Therapy di Young e il modello post-razionalista e sistemico-processuale di Guidano, quest’ultimo maggiormente affine ai principi dell’ipnoterapia. Le Organizzazioni di Significato Personale (OSP) intese come “specifiche modalità di ordinamento della percezione di sé e del mondo” diventano per l’ipnotista una mappa di riferimento, utile al fine di orientarsi nella comprensione della storia del paziente e del sintomo e dunque di tagliare l’intervento ad hoc su di lui. E se i pazienti non posso cambiare nel corso della vita la propria Organizzazione di Significato Personale possono però rendere più flessibili e articolate le sue componenti.

Come sottolinea Casilli lavorare in ipnosi cognitiva significa quindi “sapere entrare in, e partecipare ad, un gioco di induzioni ipnotiche reciproche in cui ciascuno chiede all’altro di “chiudere gli occhi” e di vedere e ascoltare veramente – anche dentro di sé – quello che viene detto”. Presupposto della terapia non è quindi più solo che il paziente vada in trance ma che anche il terapeuta possa sperimentare uno stato di trance, attivando una ricerca dentro di sé finalizzata a cogliere le strutture profonde che sostengono il racconto del paziente, per poi utilizzarle in terapia promuovendo nuovi nessi associativi.

Casilli dedica gli ultimi capitoli de L’esperienza ipnotica in psicoterapia ad un approfondimento dell’applicazione dell’ipnoterapia cognitivo-evolutiva nei pazienti che presentano una Organizzazione di Significato Personale fobica, ossessiva, depressiva e del comportamento alimentare. L’accento viene posto non solo su come leggere il sintomo in chiave ipnotica, ma anche come gestire l’induzione e le possibili problematiche insorgenti.

Un lavoro, quello dell’autore, di scorrevole lettura e stimolante, dove aspetti teorici si incontrano con molteplici esempi tratti dalla clinica. L’esperienza ipnotica in psicoterapia è adatto a tutti i terapeuti che desiderano comprendere come l’ipnosi può rappresentare una valida risorsa nella pratica clinica, integrandosi ed arricchendo l’approccio cognitivo alla malattia e alla cura.

Biomarker urinari per una diagnosi più oggettiva dei disturbi ansiosi e depressivi

Un recente studio cinese pubblicato su Translational Psychiatry, ha sottolineato l’importanza, nella pratica clinica, di identificare specifici biomarker che possano costituire test diagnostici oggettivi di laboratorio da accompagnare ai classici self-report, per una corretta differenziazione e diagnosi di ansia e depressione nei pazienti.

 

I sintomi ansiosi e depressivi per le loro somiglianze spesso si sovrappongono e frequentemente si osservano in comorbilità; spesso la presenza di sintomi depressivi può mascherare la presenza di quelli ansiosi e viceversa (Coplan, Aaronson et al., 2015).

L’alta percentuale di comorbilità, dal 40 all’80%, per ansia e depressione, fa si che il disturbo ansioso o depressivo si aggravi e determini un peggior funzionamento psicosociale, oltre che una ridotta qualità di vita e una necessità maggiore di accesso alle cure. La comorbilità aumenta anche la persistenza e la durata nel tempo della psicopatologia rispetto al disturbo preso singolarmente, aumentando il rischio di cronicità della malattia.

In aggiunta, il mancato riconoscimento o la non corretta diagnosi della comorbilità appare legata ad un aumento della resistenza al trattamento e della percentuale di rischio per un’ospedalizzazione psichiatrica dovuta alla ricomparsa di alcuni sintomi dopo un trattamento che ha avuto come bersaglio soltanto uno dei due disturbi (Chen, Bai, Li, Zhou et al., 2018).

Ansia e depressione: un aiuto nella diagnosi differenziale grazie all’individuazione di biomarker metabolici

Diventa pertanto centrale una valutazione e uno screening accurato della sintomatologia, che sia in grado di individuare nel modo più oggettivo possibile la comorbilità e che possa aiutare poi il clinico a realizzare un efficace piano di trattamento per il paziente, caratterizzando adeguatamente l’eterogeneità e la complessità dei due disturbi ugualmente presenti.

Per questa ragione, già in precedenza, gli autori Zheng, Chen e Wang (2013) si erano mossi ad identificare dei biomarker metabolici per una più accurata diagnosi di disturbo depressivo maggiore; dei biomarker in particolare che potessero supportare una diagnosi oggettiva, di laboratorio, da accompagnare ai self-report dei sintomi riportati soggettivamente dal paziente.

Nello studio attualmente preso in considerazione di Chen, Bai, Li, Zhou e colleghi (2018), l’obiettivo è stato quello di identificare i differenti metaboliti presenti nelle urine e usarli come marker specifici per la presenza di ansia e depressione in un gruppo di 32 pazienti affetti da disturbi ansiosi e depressivi, per poi confrontare i dati con un gruppo di controllo.

Per distinguere i due gruppi e per esplorare le differenze metaboliche nei due gruppi, gli autori hanno utilizzato un’analisi ortogonale discriminante che ha caratterizzato il gruppo dei pazienti con un’elevata concentrazione nelle urine di circa 20 metaboliti rispetto a quello di controllo. In seguito, per semplificare il riconoscimento di quei metaboliti più rappresentati e che maggiormente potevano costituire il gruppo di biomarker, i ricercatori hanno sottoposto i risultati ottenuti ad ulteriori analisi individuando quattro metaboliti urinari che, in modo significativo, distinguevano i due gruppi (soggetti sperimentali e controlli): N-metilnicotinamide, l’acido amino malonico, l’acido azelaico e l’acido ippurico.

N-metilnicotinamide è il prodotto finale del metabolismo della nicotinammide che a sua volta è legato all’acido nicotinico e al triptofano, precursore biochimico della serotonina; il suo coinvolgimento nel gruppo dei biomarker potrebbe indicare delle anomalie nella biosintesi della serotonina le cui alterazioni sono implicate nell’eziopatologia dei disturbi d’ansia e depressivi.

Al contempo anche la presenza di un aumento dell’acido amino malonico nel gruppo dei pazienti potrebbe suggerire un legame con anomalie nella neurotrasmissione della serotonina, come già evidenziato da studi sulla venlafaxina, un antidepressivo SSRI, che riduce il livello di tale acido nell’ippocampo dei ratti (Bai, Hu, Chen et al., 2017).

Per quanto riguarda l’acido azelaico e l’acido ippurico, il presente studio ha mostrato un aumento della concentrazione di entrambi nelle urine del gruppo dei pazienti. Questi sono legati al metabolismo intestinale e la loro assegnazione al gruppo dei biomaker per ansia e depressione potrebbe essere giustificata dal fatto che studi hanno dimostrato un coinvolgimento del microbiota intestinale nello sviluppo di ansia e depressione (Zheng, Zhou, Liu et al., 2016).

Nonostante le numerose limitazioni sottolineate dagli stessi autori, appare evidente come questi risultati possano essere di preparazione per future ricerche che approfondiranno i metodi diagnostici oggettivi basati su test di laboratorio, in questo caso analisi delle urine, per un assessment più accurato dei disturbi d’ansia, depressivi e della loro comorbilità.

 

Altruismo nei bambini: la sensibilità ai volti che esprimono paura sarebbe predittore di comportamenti prosociali

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista PLOS Biology, da Tobias Grossman e colleghi della University of Virginia, l’attenzione dei bambini rivolta ai volti impauriti predispone all’ altruismo.

 

Altruismo e comportamenti derivati, come aiutare una persona sconosciuta che ne ha bisogno, sono considerati una caratteristica chiave della cooperazione nelle società umane.

Altruismo e sensibilità ai volti che esprimono paura

La nostra propensione a impegnarci nel compiere gesti di altruismo varia considerevolmente da persona a persona: troviamo donatori straordinariamente altruisti e persone altamente antisociali.

Precedenti studi hanno suggerito che una maggiore sensibilità ai volti impauriti è correlata ad alti livelli di comportamento pro-sociale, che possono essere già visti nei bambini in età prescolare. Esaminare la capacità di rispondere ai volti che esprimono paura e la loro variabilità all’inizio dello sviluppo umano rappresenta un’occasione unica per far luce sui precursori del comportamento altruistico.

Altruismo: la sensibilità ai volti impauriti ne sarebbe un predittore

Per affrontare questo problema Grossmann e colleghi hanno monitorato i movimenti oculari per analizzare la capacità di reagire nel vedere gli altri in difficoltà (mostrando volti che esprimevano paura). Le risposte misurate durante la visualizzazione di volti spaventati a 7 mesi di età erano segnali che predicevano il comportamento altruistico a 14 mesi (periodo in cui, secondo i ricercatori, è possibile vedere per la prima volta il comportamento prosociale).

Lo studio ha confermato che il comportamento di altruismo nei bambini piccoli era previsto dall’attenzione dei bambini ai volti impauriti ma non ai volti felici o arrabbiati.

Secondo gli autori, sin dall’inizio dello sviluppo, la variabilità del comportamento di aiuto altruistico è legata alla nostra capacità di rispondere quando vediamo gli altri in difficoltà e ai processi cerebrali implicati nel controllo dell’attenzione.

Gli effetti della trascuratezza su bambini e adolescenti. L’ultimo studio del Bucharest Early Intervention Project (BEIP)

All’inizio degli anni ’90, a Bucarest, esistevano numerose strutture statali alle quali venivano affidati bambini che non avevano più i genitori o altre persone che si potessero prendere cura di loro: in questo contesto è stato possibile studiare quali fossero gli effetti dovuti all’esposizione ad un ambiente di sviluppo caratterizzato da deprivazione emotiva.

 

È risaputo che un’adeguata stimolazione sociale, cognitiva, etc. è fondamentale per una crescita sana. Le interazioni dei bambini con i genitori e con altri adulti significativi assumono dunque un ruolo importante in quanto permettono ai più piccoli di sviluppare alcune importanti abilità. In tal senso, una distinzione necessaria è quella tra periodo critico e periodo sensibile.

Il periodo critico si caratterizza per finestre temporali molto ristrette nel corso dello sviluppo, durante le quali una specifica esperienza deve avvenire perché una particolare funzione si sviluppi in modo normale.

Il periodo sensibile fa riferimento a quei momenti nel corso dello sviluppo durante i quali l’organismo è particolarmente sensibile a specifiche esperienze, senza necessariamente escludere che queste esperienze possano favorire lo sviluppo di una particolare funzione anche in momenti successivi, anche se in grado minore.

BEIP: il progetto di intervento precoce di Bucarest

Intorno all’inizio degli anni ’90, a Bucarest, esistevano strutture statali a cui molti bambini venivano affidati. In questo contesto è stato possibile studiare quali fossero gli effetti dovuti all’esposizione ad un ambiente caratterizzato da deprivazione emotiva.

A tal proposito, il progetto di intervento precoce di Bucarest (BEIP), che coinvolge bambini negli orfanotrofi rumeni, ha dimostrato che i bambini allevati in ambienti istituzionali negligenti, caratterizzati da grave privazione sociale e cognitiva e da grave deprivazione emotiva, sono maggiormente a rischio di problemi cognitivi, depressione, ansia, comportamenti distruttivi e disordine da deficit di attenzione e iperattività, rispetto ai bambini cresciuti in famiglia. Tale studio, ha anche dimostrato che l’affidamento di questi bambini a delle famiglie accudenti ha un effetto positivo sulla loro crescita, soprattutto se questo avviene precocemente.

Effetti della deprivazione emotiva su bambini e adolescenti istituzionalizzati. I dati dell’ultimo studio BEIP

L’ultimo studio BEIP, pubblicato nei giorni scorsi da JAMA Psychiatry, ha indagato gli effetti della deprivazione emotiva sulla salute mentale dei bambini istituzionalizzati, nel passaggio all’adolescenza. I risultati a otto, dodici e sedici anni, hanno messo in evidenza traiettorie di sviluppo divergenti tra i bambini rimasti in istituto rispetto a quelli scelti a caso per il collocamento con famiglie affidatarie attentamente controllate.

I ricercatori guidati da Mark Wade, PhD, e Charles Nelson, PhD, della divisione di Medicina dello sviluppo presso l’ospedale pediatrico di Boston, hanno studiato 220 bambini di cui 119 hanno trascorso almeno un po’ di tempo in istituti. Dei 119, metà era stata posta in affidamento.

Nel corso degli anni, insegnanti e tutori hanno somministrato a questi ragazzi il “questionario sulla salute e il comportamento di MacArthur”, che comprende una serie di sotto-scale inerenti a depressione, ansia, abbandono, comportamento oppositivo provocatorio, problemi della condotta, aggressività fisica, aggressività relazionale e ADHD.

Dai risultati è emerso che i bambini collocati in famiglie affidatarie di qualità, rispetto a quelli rimasti nelle istituzioni, mostravano uno migliore stato di salute mentale; in particolare, presentavano un minor numero di comportamenti esternalizzanti come violazione di regole, discussioni eccessive con figure autorevoli, furto o aggressione tra pari. Tali differenze iniziarono ad emergere a circa dodici anni e divennero significative a sedici anni.

Wade ha affermato:

I nostri risultati si aggiungono a una letteratura crescente su ciò che potrebbe accadere allo sviluppo psicologico a lungo termine di un bambino quando sperimentano la separazione da un caregiver primario all’inizio dello sviluppo.

L’autore continua dicendo:

La buona notizia è che se vengono collocati in famiglie di alta qualità con una buona assistenza, questo rischio è ridotto, ma tendono ancora ad avere più difficoltà rispetto ai loro coetanei che non hanno mai sperimentato questa forma di privazione nei primi anni di vita.

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