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Percezione del dolore nei neonati: il ruolo di specifiche regioni cerebrali

In che modo i neonati provano dolore? Secondo una ricerca pubblicata su eLife i neonati percepiscono le sensazioni di dolore in modo simile agli adulti.

 

I ricercatori del Dipartimento di Pediatria e del Wellcome Center for Integrative Neuroimaging dell’Università di Oxford hanno identificato la rete neurale che controllerebbe la risposta cerebrale al dolore nei neonati.

Questi stessi ricercatori in un precedente studio, condotto nel 2015, avevano già dichiarato che i neonati provavano dolore allo stesso modo dei soggetti adulti. Rebecca Slater, autore principale dello studio e docente di Neuroscienze Pediatriche dell’Università inglese ha affermato:

Nel nostro lavoro precedente abbiamo usato una tecnica di imaging chiamata risonanza magnetica funzionale per dimostrare che l’attività cerebrale correlata al dolore nei neonati è simile a quella osservata negli adulti. Questa indagine invece si spinge oltre a questo: vogliamo infatti capire se il sistema di modulazione discendente del dolore è in qualche modo implicato nel determinare l’attività cerebrale correlata alle sensazioni dolorose.

Il sistema di modulazione discendente del dolore (in inglese Descending Pain Modulatory System – DPMS) è una rete di regioni cerebrali che lavorano per regolare sia gli input sensoriali in ingresso destinati al sistema nervoso centrale sia le reazioni comportamentali in risposta al dolore.

La ricerca

Con un disegno di ricerca simile a quello ideato per il primo studio, il team di ricercatori ha analizzato i dati della risonanza magnetica funzionale di 13 neonati che avevano, in media, 4 giorni di vita, reclutati presso il reparto maternità del John Radcliffe Hospital di Oxford. 
La risposta dolorosa veniva elicitata “colpendo” il piedino del neonato con una speciale asta.

Le scansioni hanno dimostrato che una maggior connettività della rete neurale mediata dal DPMS ha portato ad una minore attività cerebrale in risposta allo stimolo doloroso suggerendo così che questo insieme di regioni cerebrali influenza l’attivazione cerebrale connessa al dolore.

Un altro autore Sezgi Goksan, ricercatore presso i due centri di ricerca inglesi, ha spiegato i risultati ottenuti:

Nei soggetti adulti, una maggiore attività della rete DPMS è correlata a risposte comportamentali più basse in seguito a percezioni dolorose. Ciò detto, una possibile interpretazione dei nostri risultati potrebbe essere che: quando le regioni all’interno della rete DPMS sono funzionalmente connesse tra loro, i bambini, anche molto piccoli, presentano una maggior capacità di regolare la loro esperienza dolorosa con una conseguente diminuzione dell’attività cerebrale in risposta a questi stimoli.

Conclusioni e Prospettive future

Questo meccanismo risulta sorprendentemente simile a ciò che avviene nel cervello adulto. Tuttavia per comprendere a pieno come si sviluppa il DPMS durante la prima infanzia e in che modo questo sia influenzato dalle esperienze vissute in questo periodo sono necessari ulteriori studi che indaghino lo sviluppo di queste regioni cerebrali.

Goksan ha concluso:

Si è osservato che uno sviluppo anomalo della rete DPMS nella prima infanzia può portare ad una vulnerabilità a lungo temine in situazioni di dolore cornico. Ciò che sarebbe interessante studiare ulteriormente è proprio come queste anomalie possano avere conseguenze nei neonati in particolar modo in quelli nati pretermine.

L’esperienza ipnotica in psicoterapia. Manuale pratico di ipnoterapia cognitiva (2017) – Recensione del libro

L’esperienza ipnotica in psicoterapia. Manuale pratico di ipnoterapia cognitiva è un testo adatto agli “addetti ai lavori”, che traccia le linee guida, conoscitive ed applicative, per una efficace utilizzazione delle esperienze ipnotiche, cercando di evidenziarne il loro valore in psicoterapia.

 

Presupposti di base del libro sono le sempre più numerose nozioni apportate dalla ricerca nel campo delle neuroscienze, che ci consentono oggi sempre più di studiare, comprendere e almeno in parte spiegare i complessi meccanismi neurali di moltissimi eventi psichici, compresi quelli legati all’esperienza della trance ipnotica, quali l’empatia, la regolazione emotiva, il riconoscimento emozionale, la metacognizione, la flessibilità cognitiva, l’immaginazione e l’organizzazione delle azioni, l’esperienza della trance quotidiana spontanea.

L’esperienza ipnotica in psicoterapia: il contributo delle neuroscienze

I ricercatori sono riusciti infatti ad individuare le aree cerebrali maggiormente coinvolte in questi fenomeni, come la corteccia cingolata anteriore, l’ippocampo, la corteccia pre-frontale ventro-mediale; hanno illuminato l’oscura complessità di altri fenomeni psichici, anch’essi profondamente connessi con l’ipnosi, come la coscienza e la dissociazione, rendendone ancora più ardua la piena comprensione. Inoltre hanno individuato fenomeni psichici nuovi come il Default Mode Network, una rete neurale distribuita in diverse regioni corticali e sottocorticali, che viene generalmente attivata durante le ore di riposo e di attività “passive”, nell’ipnosi e nella meditazione (sembrerebbe legata anche ad importantissime funzioni come la capacità di accedere ai ricordi della propria vita, di riflettere sui propri e altrui stati mentali, di riconoscere stimoli familiari e non, e di provare emozioni in relazione a situazioni sociali che riguardano noi stessi o gli altri, di valutare le reazioni proprie e degli altri in alcune situazioni emotive).

Gli studiosi hanno soprattutto confermato l’influenza della dimensione sociale sullo sviluppo filogenetico di funzioni cognitive come i sistemi motivazionali, “al punto che alcuni studiosi vorrebbero ridenominare la nostra specie come Homo sapiens socialis“.

Ipnoterapia cognitiva: la prospettiva di Guidano

Partendo da queste considerazioni, e definendo i disturbi psichici primariamente come disturbi della socialità, questo il libro L’esperienza ipnotica in psicoterapia. Manuale pratico di ipnoterapia cognitiva osserva, analizza, descrive la dimensione sociale dell’ipnosi, spiegandone le caratteristiche peculiari, il significato e la potenziale utilità clinica; l’autore propone infatti l’ipnosi come processo privilegiato per la costruzione condivisa (con il paziente) di Organizzazioni di Significato Personale più adattative, nella prospettiva cognitivista che fa riferimento alle concettualizzazioni di Vittorio Guidano.

Secondo l’autore, la relazione ipnotica aiuta gli psicoterapeuti a riconoscere gli stati di trance spontanea che il paziente vive non solo durante l’emergenza sintomatica, ma anche nella sua vita quotidiana e all’interno delle sedute di psicoterapia. Le esperienze ipnotiche indotte in psicoterapia, invece, hanno una qualità relazionale a cui il paziente non è abituato e per questo possono avere un’intrinseca qualità curativa. L’esperienza ipnotica terapeutica consiste infatti in una particolare sospensione dall’orientamento conscio abituale che dà al paziente la possibilità di arricchire e articolare “la sinergia tra mente conscia e mente inconscia”.

La prima parte del libro L’esperienza ipnotica in psicoterapia. Manuale pratico di ipnoterapia cognitiva introduce quindi i concetti sopramenzionati, sottolineando le peculiarità delle tecniche ipnotiche, sulle vulnerabilità di talune auto-induzioni ipnotiche, ed introducendo il lettore ai concetti della mutua induzione ipnotica. Successivamente, il testo si focalizza su aspetti applicativi delle tecniche ipnotiche a varie organizzazioni di personalità: fornendo un esempio pratico per ciascuno di essi: il paziente fobico, il paziente ossessivo, il paziente depresso, il paziente con organizzazione “disturbi alimentari psicogeni.

Attività del progetto Psicologica del centro privato Studi Cognitivi Modena – Congresso SITCC 2018

Attività del progetto Psicologica del centro privato Studi Cognitivi Modena

Offredi Alessia, Caselli Gabriele, Giuri Simona, Brugnoni Alessandra, Gemelli Antonella, Manfredi Chiara, Piron Rossana

 

Sebbene l’approccio cognitivo e cognitivo comportamentale indichi tra gli elementi fondamentali del trattamento un’adeguata valutazione del caso, le modalità con cui essa viene condotta nella pratica clinica sono tra le più svariate. Ciò accade soprattutto nel setting privato, laddove ogni terapeuta, tra le mura del proprio studio, mette in atto scelte cliniche basate sulla propria formazione e esperienza. Nonostante sia comprensibile alla luce della scelta di chi effettua un lavoro come libero professionista, tale abitudine determina una frammentazione delle prove di efficacia della terapia cognitiva e cognitivo comportamentale, che spesso risultano difficili da confrontare anche tra chi condivide la stessa matrice teorica. Esistono alcune realtà molto ristrette in cui è ancora possibile, talvolta a discapito di preferenze individuali, condividere modalità univoche di valutazione in ingresso, monitoraggio dell’andamento, outcomes e follow up dei pazienti presi in carico. Il Centro Clinico di Studi Cognitivi Modena si pone da anni questo obiettivo attraverso il Gruppo di Valutazione Psicodiagnostica, che non solo offre prestazioni relative a strumenti testistici, ma si occupa della creazione di database per la raccolta dati e dell’analisi delle valutazioni di follow up.

Dimenticare uno stronzo. Il metodo detox in 3 settimane (2016): una guida pratica per superare una delusione d’amore – Recensione del libro

Cosa succede quando in una relazione l’amore è a senso unico? E cosa fare quando il pensare a lui/lei diventa un’ossessione del tipo: “Cosa starà facendo? Con chi uscirà? Devo controllare il suo ultimo accesso su WhatsApp! Cosa scrive su Facebook?”?

 

Ce lo spiega Federica Bosco nel suo libro Dimenticare uno stronzo. Il metodo detox in 3 settimane, in cui descrive cosa accade quando ci si innamora di chi non ci ama e cosa si può fare.

Non siamo di fronte ad un manuale di psichiatria o psicopatologia, ma a mio avviso il libro è in grado di fornire alcuni spunti interessanti di riflessione: affronta in modo semplice temi dolorosi come rifiuto, abbandono e solitudine e pone i riflettori su accettazione di sé, prendersi cura di sé e autostima come “strumenti” per il benessere.

L’autrice sceglie un punto di vista femminile, tenendo però presente che ciò di cui scrive può accadere anche agli uomini. Il libro Dimenticare uno stronzo. Il metodo detox in 3 settimane si potrebbe divedere in tre parti.

Nella prima parte l’autrice spiega gli elementi teorici e le caratteristiche relazionali che potrebbero essere alla base di storie d’amore con uomini poco disponibili e poco propensi ad intraprendere relazioni durature e che crescano nel tempo. Questo può provocare nella donna innamorata sofferenza, che alimenta pensieri ossessivi, simili ad un dialogo interiore con se stessi, dai quali diventa molto difficile liberarsi: “… Perché non gli scrivi qualcosa? Dai rileggi la chat! … Chissà dov’è adesso? …”. Tali pensieri sono nocivi perché mantengono la sofferenza, innescando un circolo vizioso.

Trovo che il libro possa stimolare il processo di defusione cognitiva: leggere nero su bianco pensieri e situazioni simili, se non addirittura identici, a ciò che si è vissuto o si sta vivendo, può aiutare a prenderne più facilmente le distanze e ci si potrebbe anche sentire meno strani per le proprie ossessioni (in fin dei conti se ci hanno anche scritto un libro, non sarò l’unica/o a stare così!) assumendo quindi un punto di vista nuovo dal quale guardare ciò che sta accadendo dentro di noi.

La defusione è uno dei processi terapeutici fondamentali nell’ACT (Acceptance and commitment Therapy) e si riferisce alla capacità di osservare il proprio pensare separandosi dai propri pensieri, immagini e ricordi senza esserne catturati, ma lasciandoli andare e venire “come se fossero semplicemente automobili che passano davanti a casa nostra”.

Tutto ciò consente di raggiungere la consapevolezza che è “normale” quello che si sta provando-pensando-facendo, ma che è anche fondamentale ad un certo punto provare a fare qualcosa per andare oltre. Ed è proprio per questo che, nella seconda parte del libro, la Bosco propone il “bootcamp”: il campo di addestramento per disintossicarsi e caratterizzato da attività pratiche volte ad interrompere il circolo vizioso descritto prima. Il bootcamp riguarda comportamenti, mente, corpo e anima: vengono forniti suggerimenti pratici (dal “cancellare il suo numero” alla mindfulness) per affrontare e superare il periodo più difficile di distacco dall’amato/a.

Lo stile di scrittura semplice e a volte anche ironico riesce ad affrontare in modo diretto, ma anche gentile, argomenti delicati e dolorosi: il sentirsi abbandonati, il non sentirsi abbastanza.

Dimenticare uno stronzo. Il metodo detox in 3 settimane: affrontare il dolore della fine di una storia

L’essere lasciati causa un dolore simile a quello che si prova in seguito ad un lutto. Questo dolore non possiamo eliminarlo, ma è importante continuare a prendersi cura di se stessi. All’inizio non sarà così facile farlo e non sarà scontato sentirsi subito meglio, ma rappresenta “Lo Scopo” e quindi se è importante “perdersi cura di sé” devo iniziare a fare ciò che mi fa stare bene: “dopo che ho controllato le foto del mio ex sui social come sto?” Se la risposta è “sto male ogni volta”, allora quello che sto facendo non è una cosa che mi fa stare bene e perciò, per il mio benessere, sarebbe opportuno che io smetta!

Si arriva così all’ultima parte del libro Dimenticare uno stronzo. Il metodo detox in 3 settimane, in appendice, dove l’autrice immagina di intervistare un uomo del tipo descritto nella prima parte. Tale intervista diventa lo strumento per dissipare gli ultimi dubbi, se mai a quel punto del libro ancora ve ne fossero, di quanto sia più importate e utile occuparsi di sé piuttosto che di lui.

Il libro dà numerosi suggerimenti, ma è anche necessario tempo per mettere a punto delle nuove strategie ed è importante concederselo. La Bosco scrive che “in 15 giorni possiamo rimpiazzare le vecchie odiose, opprimenti e malsane abitudini con delle nuove e piacevoli”, in questo tempo, che potrebbe anche durare più di 15 giorni, rimane fondamentale non dimenticare l’obiettivo primario e vitale: prendersi cura di sé.

Cellule senescenti: scoperto il loro ruolo nello sviluppo delle malattie neurodegenerative

Particolari tipi di cellule, chiamate cellule senescenti, non vanno mai incontro alla morte e, al tempo stesso, sono incapaci di eseguire le normali funzioni di una cellula. Le cellule senescenti sono correlate a diverse malattie associate all’invecchiamento.

Uno studio pubblicato su Nature ha rivelato che proprio queste cellule guiderebbero in modo attivo il deterioramento del tessuto cerebrale contribuendo allo sviluppo delle malattie neurodegenerative.

Cellule senescenti: lo studio

I ricercatori della Mayo Clinic in America, hanno scoperto che le cellule senescenti si accumulano in alcune aree cerebrali prima del deterioramento cognitivo tipico delle malattie neurodegenerative. La scoperta sorprendente consiste nel fatto che impedendo l’accumulo di queste cellule, il team è stato in grado di diminuire l’aggregazione della proteina tau, evitando la perdita della memoria conseguente alla morte neuronale.

Darren Baker, biologo molecolare e autore principale dello studio ha dichiarato

Negli studi precedentemente condotti abbiamo scoperto come l’eliminazione delle cellule senescenti nei topi invecchiati produceva un miglioramento della loro condizione; è ormai risaputo che, anche nell’uomo, con l’avanzare dell’età questo particolare tipo di cellule si accumula nelle aree associate alle malattie dell’invecchiamento quali ad esempio il Parkinson e l’Alzheimer.

Nel presente studio, il team di ricercatori ha riprodotto gli effetti del morbo di Alzheimer in un modello murino: sono stati ricreati, nei neuroni delle cavie, gli ammassi di proteine tau tipiche della malattia, inoltre i ricercatori sono stati in grado di consentire l’eliminazione delle cellule senescenti grazie a modificazioni genetiche. Ciò che si è osservato è che quando le cellule senescenti sono state rimosse, gli animali malati non sviluppavano più ammassi neurofibrillari, mantenevano la normale massa cerebrale ed i segni di infiammazione scomparivano.

Cellule senescenti: il loro ruolo nelle malattie neurodegenerative

Il dottor Baker ha aggiunto:

Siamo stati in grado anche di identificare il tipo specifico di cellula che è diventata senescente: due tipi diversi di cellule cerebrali, la microglia e gli astrociti, sono risultate essere senescenti quando abbiamo esaminato il tessuto cerebrale. Queste cellule sono entrambe importanti per la comunicazione neuronale quindi è verosimilmente plausibile che la loro senescenza produca un effetto negativo sulla salute cerebrale.

I risultati trovati mostrano che le cellule senescenti giocano un ruolo chiave nell’iniziazione e nella progressione delle malattie neurodegenerative; l’evidenza è piuttosto sorprendete poiché mai prima d’ora si era stabilito un nesso causale tra queste cellule e le malattie neurodegenerative.

Baker ha concluso:

Fino ad ora non sapevamo in che modo le cellule senescenti contribuissero allo sviluppo delle malattie cerebrali, scoprire che gli astrociti e la microglia sono inclini alla senescenza è sicuramente un passo molto importante. I lavori futuri intendo esaminare le specifiche alterazioni molecolari che si verificano nelle cellule colpite al fine di poter applicare questo approccio molecolare in ambito clinico.

Le parole non bastano per comunicare le proprie emozioni, soprattutto in adolescenza!

Mentre gli adulti sono in grado di leggere con precisione una gamma di emozioni nelle voci degli adolescenti, la capacità di comprendere ciò che qualcuno sente basandosi sul tono di voce può essere difficile in adolescenza (13-15 anni). 

 

Gli adolescenti sono molto meno in grado di capire cosa sta succedendo con i propri coetanei, in particolare quando si tratta di toni di voce che esprimono rabbia, meschinità, disgusto o felicità.

Un recente studio ha cercato di capire se la fisicità dello stimolo acustico (età dell’emittente e tipo di espressione trasmessa) interagisce con lo stadio di sviluppo degli ascoltatori influenzando il grado di accuratezza del riconoscimento degli ascoltatori. Nello specifico, Michele Morningstar, dottorato presso la McGill University ha valutato la lettura delle inflessioni nella decodificazione emotiva dell’emittente.

La ricerca

Morningstar e colleghi hanno creato un totale di 140 registrazioni fatte da attori bambini e adulti, ai quali è stato chiesto di recitare frasi neutrali quali “Non posso credere che tu l’abbia fatto”, che potrebbero essere espresse con varie intonazioni per trasmettere sentimenti diversi.

Le registrazioni sono state fatte ascoltare a 50 adolescenti tra i 13 ed i 15 anni e a 86 adulti di età compresa tra i 18 ed i 30 anni.
A tutti i partecipanti è stato chiesto di selezionare l’ emozione espressa in ciascuna registrazione, selezionando l’ emozione espressa dal tono del parlante, da una lista di cinque emozioni base (rabbia, disgusto, paura, felicità e tristezza) e da espressioni sociali di affiliazione (cordialità) oppure ostilità (meschinità).

I risultati hanno mostrato come gli adulti non hanno avuto problemi, generalmente, nel leggere le emozioni dei loro coetanei e hanno avuto relativamente pochi problemi nel discernere le emozioni degli adolescenti.

È inoltre emerso che gli adolescenti riuscivano a leggere le emozioni degli adulti senza difficoltà, ma hanno fatto fatica a comprendere le espressioni dei loro coetanei.

Il primo autore dello studio Michele Morningstar afferma:

I nostri risultati suggeriscono che gli adolescenti non hanno ancora raggiunto la maturità né nella loro capacità di identificare le emozioni vocali, né di esprimerle. Questo significa che gli adolescenti affrontano una sfida abbastanza grande nella loro sfera sociale: devono interpretare spunti poco espressi con abilità di riconoscimento immature, capire come impariamo le capacità di comunicazione emotiva sarà importante per aiutare gli adolescenti che lottano socialmente.

Una possibile spiegazione del fenomeno, affrontata da Morningstar nel suo precedente lavoro (2017), suggerisce che gli adolescenti siano meno capaci degli adulti di produrre emozioni riconoscibili con le loro voci.

La maggiore abilità degli adulti nel riconoscere le emozioni può diventare più evidente quando si tenta di decodificare segnali più impegnativi.

Melanie Dirks, autore senior dello studio, in conclusione aggiunge:

I genitori non dovrebbero scoraggiarsi troppo da queste scoperte – e continua: – Sebbene ciò che abbiamo mostrato è che gli adolescenti hanno bisogno di più tempo per riconoscere e identificare i sentimenti degli altri di quanto non si pensasse in precedenza, la nostra ricerca suggerisce che potrebbe essere solo una questione di sviluppo del cervello, che le cose arriveranno con il tempo.

Dipendenza affettiva, rifiuto nella relazione e stalking – Congresso SITCC 2018

Nel corso del Congresso SITCC 2018, ho avuto la possibilità di partecipare al simposio sulle “Dipendenze affettive tra teoria e pratica” con un contributo dal titolo: “Dalla dipendenza affettiva allo stalking”. Il razionale dell’argomentazione trattata è di sviluppare l’attenzione alla modalità attraverso cui il fenomeno della dipendenza affettiva coniuga con la pericolosità dello stalking.

 

Dal 20 al 23 settembre 2018 a Verona si è tenuto il XIX Congresso Sitcc, Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva, alla quale afferisco come socio ordinario.

La partecipazione al congresso è stata interessante e coinvolgente dal punto di vista delle tematiche trattate e dello stato attuale della ricerca scientifica portata avanti dai colleghi, fonte di stimolo per future ricerche necessarie ad affrontare con metodo scientifico/clinico il malessere portato dai nostri pazienti.

Ho avuto la possibilità di partecipare al simposio sulle “Dipendenze affettive tra teoria e pratica” con un contributo dal titolo: “Dalla dipendenza affettiva allo stalking”

La dipendenza affettiva, o love addiction, è caratterizzata da comportamenti di dipendenza all’interno di una relazione romantica (affettiva) in cui un partner ha bisogno dell’altro per mantenere il proprio equilibrio emotivo.

Il razionale dell’argomentazione trattata è di sviluppare l’attenzione alla modalità attraverso cui il fenomeno della dipendenza affettiva coniuga con la pericolosità dello stalking.

Quando la relazione sentimentale presenta caratteristiche di amore non corrisposto, patologico o inappropriato tali da porre il soggetto dipendente nella condizione di estrema sofferenza, dove le sfere sociali, professionali e famigliari vengono perturbate, nasce la necessità consapevole di interrompere la relazione patologica per riuscire (finalmente) a sopravvivere. Succede così che la capacità di fronteggiare gli eventi della vita quotidiana non è più tale da garantire un livello soddisfacente di benessere, ponendo il soggetto nell’incapacità di arginare la sofferenza e di conseguenza entrare nel vortice caratterizzato dalla sensazione di non governare più la propria esistenza.

La scelta di interrompere la relazione sentimentale patologica è posta quindi come obiettivo certo e realizzabile, spesso con l’aiuto di un professionista psicoterapeuta.

Dalla letteratura scientifica, ma anche dalla narrativa letteraria, sono molti i riferimenti del dolore e trauma sorti a seguito del rifiuto in amore, ossia la rottura della relazione sentimentale amorosa da parte del partner.

La sofferenza percepita ed agita si esprime con modalità soggettive che vanno dal superamento del lutto e del malessere fino ad atti autolesivi e anticonservativi, o eterodiretti come nei comportamenti assillanti e molesti, di cui lo stalking è un fenomeno conosciuto e diffuso nella società.

Lo scopo dell’articolo, e dell’intervento al congresso, è di sottolineare l’importanza della prevenzione del rischio di comportamenti violenti, fornendo suggerimenti ai clinici per affrontare i casi con modalità di intervento mirate.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Dipendenza affettiva, rifiuto nella relazione e stalking - SITCC 2018 -IMM1

IMM. 1 – Congresso SITCC 2018, il programma del simposio “Dipendenze affettive tra teoria e pratica”

L’amore è una dipendenza?

Dall’analisi dei dati della ricerca effettuata da Ahmadi e colleghi (2013) su 290 studenti, emerge che la prevalenza di love addiction è del 17,9%; inoltre emerge che lo stile di attaccamento insicuro-ambivalente oltre ad essere significativo, viene considerato il predittore del fenomeno in esame.

In letteratura è ormai ampiamento accettato che la relazione amorosa presenta le stesse caratteristiche sintomatologiche e neurofisiologiche della dipendenza da uso ed abuso di sostanza.

Avviene soprattutto nella prima fase della relazione affettiva, caratterizzata da amore di tipo passionale; la persona amata è al centro della vita psichica dell’innamorato, il tempo e lo spazio assumono significati diversi, aumenta l’energia e i pensieri ossessivi, insieme ad altre manifestazioni, pongono il soggetto nella condizione di vivere il piacere e la gioia del momento. Il periodo dell’amore passionale è breve ed è seguito dalla formazione del legame di coppia, spesso seguito dall’intenzione di co-costruire il futuro con investimenti importanti. Tale periodo iniziale può protrarsi nel tempo e assumere una veste stabile e patologica, causa di sofferenza e disinvestimento su di sé.

Innumerevoli studi hanno individuato il sistema di ricompensa come network neuronale implicato nella generazione della dipendenza da sostanza, sistema che utilizza la dopammina come neurotrasmettitore prodotto nell’Area Tegmentale Ventrale (VTA) con proiezioni al Nucleus Accumbens e verso le aree corticali pre-frontali.

Come indicato da Fiorilli (2018):

Tale assunto è il punto di partenza da cui si origina una dipendenza patologica, dal momento che una sostanza di abuso o un comportamento compulsivo con iniziali conseguenze piacevoli attivano cascate di reazioni chimiche che coinvolgono circuiti cerebrali legati alla gratificazione e alla soddisfazione dei bisogni. I numerosi studi di neurobiologia sono tutti concordi nel ritenere il circuito meso-cortico-limbico il principale substrato neurale implicato nell’ addiction, e la dopamina come principale neuromodulatore. Infatti le aree di questo circuito costituito dall’area tegmentale ventrale e dal nucleo accumbens (striato ventrale) e parte della corteccia pre-frontale, giocano un ruolo cruciale nel sistema di rinforzo e ricompensa ed è stato osservato che una sostanza psicostimolante è in grado di iperattivare i neuroni dopaminergici presenti in questa porzione cerebrale provocando sensazioni di benessere e dando così alla sostanza di abuso una valenza edonica positiva (alto valore di salienza).

La dipendenza affettiva presenta elementi sintomatologici in comune con le dipendenze da uso e abuso di sostanza e dipendenze comportamentali; sono la dipendenza fisica ed emotiva verso il rinforzo, la tolleranza, l’astinenza e le recidive. “Senza di lui/lei non riuscirò a vivere”, “Senza di lui/lei non saprò chi sono e nulla avrà più significato” sono le tipiche frasi riportate dai dipendenti affettivi nell’esprimere la sofferenza soverchiante che li attraversa.

Il rifiuto in amore è una dipendenza?

Il pericolo del craving e delle recidive pone il soggetto (dipendente o rifiutato) nella condizione di evitare qualsiasi rinforzo che riattivi il desiderio e pregiudichi gli sforzi effettuati per uscire dallo stato precedente di dipendenza affettiva. I rinforzi rispetto la relazione finita accendono il desiderio anche in coloro che sono stati rifiutati dall’ex-partner, il quale, con chiari messaggi inequivocabili, ha confermato la volontà di non riaprire la relazione.

Fisher et al. (2010) descrivono la ricaduta in amore sostenendo che oggetti, pensieri, ecc che rimandano al ricordo della persona rifiutante ancora amata possono innescare nuovamente la memoria e sviluppare craving, pensieri ossessivi e/o contatti compulsivi, scrivere o sperare, approcciarsi ad essa nonostante i soggetti rifiutati sappiano che le conseguenze possono essere avverse (es. dolore e tristezza).

La ricerca è stata effettuata su 15 individui; i criteri di inclusione prevedevano che i soggetti fossero stati respinti ed ancora innamorati del ex-partner rifiutante dopo un lasso di tempo, pari a 63 giorni nello specifico del campione.

Il progetto della ricerca prevedeva che ai soggetti venissero mostrate immagini neutre ed immagini della persona ancora amata mentre erano sottoposti a scansione encefalica tramite la risonanza magnetico funzionale. I risultati rivelano che il campione dichiarava di provare passione romantica, gioia, disperazione, memorie dolorose, ruminazioni sugli eventi che hanno condotto alla rottura ed infine la valutazione mentale sulla perdita e sul guadagno rispetto l’esperienza. Dopodiché, dall’analisi dei dati ricavati tramite la fRMI emerge la correlazione tra le aree cerebrali coinvolte e i circuiti neurali che si attivano nel craving causato dalla cocaina e abuso di droghe.

In conclusione, gli autori suggeriscono come il rifiuto all’interno della relazione affettiva amorosa presenti le caratteristiche della dipendenza da sostanze.

Rifiuto e molestie

Meloy, J. R., & Fisher, H. (2005) sostengono che lo stalking è un comportamento associato con l’amore romantico. Inoltre, nell’analisi del fenomeno suggeriscono che i perpetratori mettono in atto comportamenti caratteristici delle dipendenze; tra questi emerge l’attenzione focalizzata sull’oggetto, l’aumento dell’energia, i comportamenti di inseguimento e i pensieri ossessivi.

Tra gli obiettivi della ricerca, gli studiosi pongono l’esplorazione dei correlati neuronali, giungendo alla conclusione che lo stalking attivi pattern cerebrali del sistema di ricompensa. Incoraggiati dall’analisi dei dati, i ricercatori sostengono che i comportamenti assillanti reiterati potrebbero avere una base in comune con le dipendenze sia da sostanza sia comportamentali.

Va considerato come all’interno dell’insieme dei soggetti rifiutati, solo un sottoinsieme di essi reagisce mettendo in atto comportamenti stalkizzanti. Altri soggetti possono attuare comportamenti disadattivi autodiretti, mentre soggetti reagiscono sul versante della riconquista, con il pericolo di riattivare in alcuni casi valenze relazionali di coppia patologiche. Fortunatamente, il soggetto rifiutato nella relazione amorosa spesso si rivolge ai professionisti psicoterapeuti per sopravvivere al trauma e riappropriarsi della conduzione della propria vita. In altri casi al professionista giungono indirettamente soggetti rifiutati con grado di sofferenza tale da mostrare disturbi dell’umore con diversi livelli di gravità.

Prevenzione dello stalking

Il fenomeno dello stalking non è da sottovalutare e la prevenzione primaria rappresenta il miglior insieme di azioni finalizzate a debellare all’origine l’origine dello stesso. Ricordo che il fenomeno dello stalking si ripercuote anche sui famigliari e soggetti a stretto contatto con la vittima, le cui conseguenze sono deleterie sul piano psichico e fisico, lavorativo e sociale. Arginare il fenomeno e le ripercussioni rappresenta quindi la priorità.

Come ho evidenziato nell’articolo su State Of Mind (Zedda, 2018), a prescindere della natura di genere del perpetratore:

la prevenzione è uno strumento efficace per arginare il fenomeno e le sue conseguenze, può contribuire ad attivare le risorse individuali e la rete sociale che insieme possono fermare il fenomeno: l’aiuto degli altri (amici, famigliari, colleghi, ecc.) spesso risulta essere un valido deterrente alla campagna messa in atto dallo/dalla stalker. L’isolamento sociale è infatti una delle prime conseguenze della vittimizzazione, rompere il silenzio significa essere consapevoli dei danni che la campagna di stalking arreca alla salute propria e a quella degli affetti più cari.

Qualora la rete sociale non riesca a migliorare il benessere esperito dalla vittima, lo psicoterapeuta è l’interlocutore privilegiato per affrontare un percorso terapeutico.

Come suggerimento terapeutico, lo psicoterapeuta, nell’ambito della cura della dipendenza affettiva e del rifiuto in amore, dovrebbe essere attento ai segnali indicatori di una possibile campagna di stalking finalizzata a riallacciare i contatti con l’ex-partner. La campagna viene agita dal soggetto rifiutato, il quale può essere il paziente in terapia o, nel caso in cui la terapia aiuti il dipendente affettivo, l’ex-partner. La ricerca di contatto persistente è frutto del desiderio di prolungare la relazione, anche se con vissuti di dolore; tali emozioni disagevoli hanno minor intensità rispetto il dolore provato durante la perdita di senso e significato della vita senza la presenza della persona investita di attenzioni.

Qualora emergano segnali tali da far ipotizzare il pericolo di condotte stalkizzanti, è necessaria la “tolleranza zero” e bloccare immediatamente i comportamenti molesti. Le conseguenze sulla dimensione giuridica e personale del soggetto molestante sarebbero gravi e peggiorative di una situazione già di per sé disadattiva.

Come ho indicato in un altro articolo su State of Mind (2017):

La campagna di stalking ha un peso non indifferente sulla resilienza e l’equilibrio psicofisico del soggetto molestato; frequentemente si esperisce un senso di estrema vulnerabilità, legato a uno stato di disagio in previsione di un possibile assalto. Tecniche quali la desensibilizzazione, l’EMDR, il rilassamento e la terapia per il trauma sono particolarmente efficaci.

Per concludere

In letteratura non è ancora presente una definizione univoca della dipendenza affettiva, la quale viene nominata in varie modalità, così come non sono presenti protocolli e linee guida di trattamento del paziente.

Nell’intervento al congresso SITCC ho presentato una rassegna di suggerimenti raccolti da vari autori e ricercatori, con l’obiettivo di fornire ai clinici del materiale utile alla gestione dei casi.

Nel futuro prossimo è auspicabile l’aumento dell’interesse verso il fenomeno e la definizione di interventi focalizzati al problema .

Come ti divento bella (2018): quando la vera bellezza passa dal pensiero – Recensione del film

Nella commedia Come ti divento bella, fin da subito è chiaro chi sia la nemica di Renée, protagonista del film: l’insicurezza. Un’insicurezza paralizzante, alla base della sua goffaggine, alla base del suo essere single, alla base di una carriera che non riesce a spiccare. 

 

Sarà stato l’avvicinarsi della settimana della moda a Milano (che ormai chiamo “Settimana dell’autostima in ferie”…data la quantità industriale di modelle che si vedono in giro per la città), sarà stata la voglia di affrontare in modo più resiliente la fine dei weekend estivi, mi sono concessa una serata al cinema e, dopo una lunga lotta interna tra l’ultimo colossale b-movie e una commedia americana, ho deciso di optare per quest’ultima.

Scelgo così di vedere Come ti divento bella, il trailer mi aveva incuriosito, e poi vuoi mettere la voglia di scoprire qualche falla nella recitazione della Ratajkowski tanto da poter dire a pieni polmoni, in modo autoconsolatorio, “sì.. sarà bella quanto vuoi, ma a recitare proprio no!


Come ti divento bella parla di Renée (interpretata da Amy Schumer), una ragazza impacciata, goffa, alle prese con l’eterna lotta contro i chili in più. Il copione è noto…ragazza in carne circondata da giovani donne bellissime dal fisico statuario, eppure anche loro impegnate nella ricerca (o nel mantenimento) del corpo perfetto. E il contrasto protagonista-ambiente si fa sin dalle prime scene divertente, non si ride della protagonista, si ride perché si inizia a riflette su quanto sia comune imbattersi in certe situazioni “tragicomiche”, e di quanto spesso si cerchi di affrontarle mascherando con un sorriso quella piccola voglia di guardare negli occhi l’altra persona e domandarle “Ma mi stai prendendo in giro?”. Ne è un esempio (congruente anche al film) quel che accade alle persone con qualche chilo in più quando si sentono dire dall’amica filiforme “Vorrei tanto ingrassare ma guarda, mangio di tutto e proprio non ci riesco”, o ciò che capita a chi arriva con difficoltà a fine mese ma viene ammorbato dal vicino che si lamenta “Quante spese ad agosto! Tra Santorini e Formentera, è andato via tutto lo stipendio!”.

Viene facile però riprendersi dall’ ilarità e chiedersi “Sarà mica la classica banale commedia in cui le belle sono arpie patentate e la grassottelle sono ingenue Candy Candy?

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO – COME TI DIVENTO BELLA: IL TRAILER

Come ti divento bella: l’insicurezza come antagonista

In realtà non è così…la vita di Renée è fatta di una grande passione: la moda. Legge riviste di moda e lavora in una casa di moda, ma in una sede distaccata, in un sottoscala, in un appartamento di China Town. Il sogno è quello di ricoprire la posizione di receptionist ai piani alti, proprio lì dove il suo idolo, nonché amministratrice dell’azienda per cui lavora, Avery Laclaire, bellissima, ha i suoi uffici e scambia idee con i suoi dipendenti, anche loro bellissimi.

Fin da subito è chiaro chi sia la nemica di Renée: l’insicurezza. Un’insicurezza paralizzante, alla base della sua goffaggine, alla base del suo essere single, alla base di una carriera che non riesce a spiccare. Renée non riesce a vedersi come vorrebbe, nonostante gli sforzi, nonostante le amiche che le ricordano che la bellezza è fuori dalle lucide riviste di gossip. La protagonista è costantemente bloccata da tutta quella insicurezza.

In una delle sue lezioni in palestra, però, Renée cade da una cyclette (la goffaggine non aiuta), battendo violentemente la testa. Si risveglierà dopo la botta e…finalmente vedrà allo specchio una Renée diversa (sebbene gli altri continueranno a vederla come prima), una Renée bellissima, dal fisico stupendo che non ha nulla da invidiare alle modelle delle riviste che legge: la Renée che la stessa Renée ha sempre sognato. Una ristrutturazione cognitiva lampo, insomma, o una sessione di imagery molto vivida e lo sguardo di Renée verso se stessa e soprattutto verso la vita cambia drasticamente.

La protagonista diventa finalmente più sicura di sé, ed è grazie a questo che riesce ad affrontare la vita mettendo in mostra i suoi lati positivi, quelli che le consentono di piacere realmente agli altri, al di là dell’aspetto fisico.

Riacquisita la sicurezza che le mancava, come cambierà la vita di Renée? Di sicuro in meglio, perché migliorare la propria autostima fa bene a tutti (senza cadere in un marcato egoismo però, e questo anche il film lo sottolinea).

Come ti divento bella: l’importanza di vedere realmente l’altro

Sebbene la trama si possa immaginare, non sarebbe corretto farvi ulteriori spoiler, tuttavia ci tengo a precisare che un altro messaggio che il film passa (e che per fortuna lo porta a non cadere nell’analogia ragazza bella=arpia, ragazza in carne=ingenua Candy Candy) è che anche le persone che ci sembrano perfette, a volte hanno un aspetto di sé o una difficoltà contro cui devono combattere tutti i giorni.

Questo ci porta a riflettere quindi su come spesso, lo stesso sguardo a nostro dire superficiale, che crediamo che gli altri rivolgano a noi, lo rivolgiamo spesso anche noi verso gli altri, con il rischio che nessuno veda davvero chi ha di fronte e che, distratti dall’aspetto esteriore, nessuno capisca davvero i problemi altrui. Insomma, una sorta di validazione e normalizzazione sul grande schermo, che riesce a rendere più simpatici l’amica filiforme e il vicino vacanziero di cui sopra (e la Ratajkowski, sulle cui doti recitative mi sono dovuta ricredere).

Assolutamente degna di nota anche la scelta di non mostrare mai, nel film, qual è la versione post-botta che Renée vede di sé allo specchio. L’ho trovato un modo per far comprendere al pubblico quanto basti solo modificare il pensiero che si ha di sé, per stare bene, per riprendere in mano la propria vita. Non serve altro. Una ristrutturazione cognitiva che farebbe bene a tutti insomma…evitando magari le botte in testa!

Il terapeuta sintonizzato: premessa al resoconto sul IV Seminario sulla Disciplina Interiore del Terapeuta

Quando penso alla sintonizzazione, per come l’ho capita negli anni, penso che a noi terapeuti l’enigma della Sfinge ci fa un baffo. Per evitare di essere divorato dal paziente – o meglio, da ciò che il paziente rappresenta per lui – il terapeuta deve rispondere correttamente a tre domande che il paziente gli pone. In assenza di indizi. E per di più poste da una Sfinge che non è assolutamente consapevole di porre queste domande.

 

Il terapeuta e il paziente sono sullo stesso sentiero

(D. Brazier)

Il comportamento di attaccamento,

che emerge durante il primo anno di vita,

richiede tempo per svilupparsi,

mentre una conversazione intima

può verificarsi con uno sconosciuto,

che si potrebbe non rivedere mai più

(Russel Meares)

 

“Mi chiede insistentemente cosa deve fare. Se deve lasciare o no il fidanzato.

È un fiume in piena, mi racconta una valanga di informazioni e se cerco di intervenire ho anche la sensazione che si infastidisca. Non riesco mai a far finire la seduta in tempo.

Viene da quasi un anno in terapia e non posso fare a meno di pensare che non ci siamo mossi di un passo.

Mi manda messaggi chilometrici, ormai quasi ogni giorno, più volte al giorno, e se non rispondo mi manda un ultimo messaggio tagliente per farmi capire che è arrabbiato, e poi nella seduta successiva è faticosissimo fargli capire che non ho risposto perché proprio non potevo.

Si mette a parlare male della moglie per venti minuti di orologio, concludendo che forse non è mai stata veramente adatta a lui, perché nella vita lui si sente un leader e ha bisogno di un’altra, della donna giusta accanto. Lì non ho potuto fare a meno di mettermi nei panni di questa povera donna, ed è stato più forte di me, non me ne fregava di sbagliare: sono stato capace di dirgli, testuali parole: ‘veramente dai suoi discorsi non si evincono tanto le caratteristiche del leader; un leader vero me lo immagino come una persona capace prima di tutto di capire l’animo del prossimo, e dai suoi discorsi non si sente tanto questa tendenza”

Ai terapeuti roba del genere capita. È spesso la ragione per cui molti terapeuti portano un caso in supervisione. Sì, d’accordo, state pensando: ‘niente di nuovo, i soliti cicli interpersonali (Safran & Segal, 1993; Dimaggio & Semerari, 2007) da cui un terapeuta sufficientemente addestrato può riuscire a disingaggiarsi. Per esempio, il paziente incalza, vuole soluzioni pratiche ai suoi problemi; il terapeuta si sente impotente e inefficace perché alla scuola di specializzazione, nei week end in cui insegnavano a piegare la realtà come Doctor Strange della Marvel, aveva l’influenza; quindi eroga interventi e protocolli un po’ a casaccio, oppure si arrocca sul proprio modello (nel disperato tentativo di sentirsi meno inefficace); interventi, protocolli e modelli tendono a non funzionare (tende a capitare, se l’assetto interno di chi li dispensa è problematico); il paziente non si sente compreso e incalza ancora di più, e così via, fino a eventuali rotture o stalli.

Il fatto è che c’è un problema che viene prima dei cicli interpersonali e che molto spesso – al netto delle dinamiche patologiche del paziente – predispone alla loro occorrenza. In tutti i frammenti riportati all’inizio il problema che viene prima è che il terapeuta non è sintonizzato con il paziente, forse non è stato sintonizzato sin dall’inizio. I cicli possono essere una delle conseguenze generate della mancata sintonizzazione; ma la mancata sintonizzazione costituisce un problema, prima che per ciò che genera, per ciò che non genera: non genera le risposte adeguate a una serie di domande implicite poste dal paziente.

Quando penso alla sintonizzazione, per come l’ho capita negli anni, penso che a noi terapeuti l’enigma della Sfinge ci fa un baffo. Per evitare di essere divorato (o strangolato, secondo altre fonti), Edipo doveva rispondere a un solo quesito sulla base di tre indizi (chi è contemporaneamente bipede, tripede e quadrupede?). Per evitare di essere divorato dal paziente – o meglio, da ciò che il paziente rappresenta per lui – il terapeuta deve rispondere correttamente a tre domande che il paziente gli pone. In assenza di indizi. E per di più poste da una Sfinge che non è assolutamente consapevole di porre queste domande.

Sicurezza: la prima domanda del paziente

La prima domanda è quella di sicurezza, nel senso inteso da Stephen Porges (2014, 2018); domanda che l’autore considerava, con densità di significato secondo me sottovalutata dalla maggior parte dei clinici, un preambolo all’attaccamento: la sua soddisfazione è precondizione per l’instaurarsi di un attaccamento sicuro. Il paziente che incontra il terapeuta incontra pur sempre un estraneo. Il suo sistema di rilevazione della minaccia registrerà al di fuori della consapevolezza se l’estraneo e l’ambiente dell’incontro sono sicuri, e quanto c’è veramente da fidarsi dell’autenticità dei segnali di ingaggio sociale che l’altro sta inviando. A livelli impliciti, corporei, attraverso un processo inconscio che Porges chiama neurocezione, l’organismo del paziente letteralmente reagirà all’organismo del terapeuta. Prendiamo un terapeuta che incontra un nuovo paziente, o che incontra di nuovo un paziente con cui c’è uno stallo. Diciamo che è un terapeuta preparato, colto, intelligente, capace di mostrare un’attitudine interpersonale limata dallo studio approfondito dei processi della relazione terapeutica; ma magari è sottilmente ansioso, perché la seduta è per lui un banco di prova del proprio valore, e il demone del giudizio che di solito sonnecchia inizia a dare i primi segni di un imminente risveglio. Non se ne rende conto, ma compie atti respiratori superficiali, ha una frequenza cardiaca accelerata, e parlerà al paziente – dicendo cose intelligentissime, per carità – con una voce poco prosodica, forse con frasi brevi e smorzate. Nel complesso, questo terapeuta trasmetterà all’organismo del paziente segnali che a livelli altrettanto sottili lo agiteranno, o aumenteranno l’agitazione già presente, o comunque gli impediranno l’accesso a quello stato di sicurezza che predispone la mente a osservare sé stessa. A esplorare i contenuti psicologici.

Un terapeuta capace di sintonizzarsi è invece quello che non vive l’incontro con l’altro come uno spazio in cui ci sarà qualcosa da dimostrare a qualcuno. Che è capace di rilassarsi e vivere la seduta con curiosità e partecipazione. Che è abituato a compiere profonde espirazioni mentre dialoga, e a usare una voce prosodica e ricca di modulazioni, un’espressione mimica che risuona prontamente e senza sforzo alle espressioni e ai contenuti manifestati dal paziente. Questo terapeuta dice all’organismo del paziente qui sei al sicuro, e il tuo corpo ricorderà questa esperienza, vorrà ripeterla, quindi puoi rilassarti, e possiamo esplorare insieme il tuo mondo interno.

Essere visto: la seconda domanda del paziente

Un terapeuta sintonizzato è quello capace di rispondere correttamente anche alla seconda domanda implicita del paziente. Si tratta del bisogno che porterebbe chiunque di noi, come disse uno scrittore della mia città “a consegnarsi mani e piedi a un estraneo” pur di vederlo esaudito: essere visto, veramente. La speranza è che un altro riconosca e capisca l’unicità e il valore del flusso della propria esperienza interiore. Sappia scorgere in noi lo strato profondo, il “nucleo di esistenza personale”. James lo chiamava il Sé di tutti gli altri sé, paragonandolo a un santuario racchiuso all’interno di una cittadella (1890). Una cittadella molto spesso inespugnabile, inaccessibile al suo stesso possessore. Il terapeuta sintonizzato è quello che mantiene costantemente accesa la sonda che rileva il flusso dell’esperienza interiore del paziente. Russerl Meares (2005), rispolverando James (che tra l’altro, non ha manco tanto bisogno di essere rispolverato), parla della sintonizzazione come una connessione tra un “me” e un altro che viene avvertito come parte della mia esperienza. L’altro, il terapeuta, media la consapevolezza della costante presenza in me di una vita interiore, o come direbbe James, del flusso di coscienza in cui consiste nella sostanza il Sé. Questo flusso sta, soprattutto all’inizio della terapia, e soprattutto con i pazienti meno capaci di stabilire un contatto con quel flusso, dietro le parole e le conversazioni “convenzionali”. La conversazione “convenzionale” è fatta di segni, ossia ciò che dice il paziente rimanda ad aspetti “convenzionali” della realtà collettivamente percepita. La fidanzata o il fidanzato rompiscatole rimandano a fidanzate o fidanzati rompiscatole come convenzionalmente intesi, non diversamente da come un altro segno, le strisce di attraversamento pedonale, rimandano per tutti noi a quel segnale che fa capire che è proprio lì che è meglio attraversare la strada se si vuole ridurre il rischio di essere investiti.

Il terapeuta sintonizzato è quello che dietro la “stessa storia monotona” come la definiva Janet (1911, cit in Meares, 2005), dietro il flusso dei segni convenzionali del paziente, riesce a rintracciare momento per momento un processo interiore in atto, che deve restituire al paziente. Quello che mette il paziente in condizione di connettersi meglio possibile con la propria soggettività, con il flusso delle proprie esperienze interne. Il terapeuta non sintonizzato è invece quello che, non interessato ad azionare (o non capace di farlo) la sonda che dietro la comunicazione segnica ricerca costantemente il flusso di esperienza interna, si assesta sul registro della comunicazione convenzionale. Non azionare quella sonda determina la più desolante delle conseguenze rispetto al dialogo terapeutico: la tendenza a entrare nel merito. Entrare nel merito può significare, per esempio, pensare che si stia veramente parlando di fidanzate rompiscatole. E magari cercare di confutare le convinzioni del paziente su quanto sia rompiscatole la sua fidanzata, o addirittura chiedersi se non sia forse meglio aiutarlo a lasciarla per farlo stare meglio (pensa il terapeuta: ‘se lascia la fidanzata non soffrirà più, se non altro smetterà di lamentarsi, la terapia riuscirà, e io mi piacerò di più allo specchio domattina’,). Esattamente il contrario di quello che serve per condurre una buona seduta, una buona terapia, che dovrebbe partire dal presupposto che ciò che dice il paziente è solo il significante degli elementi del flusso dell’esperienza interna che è nostro obiettivo intercettare; dal presupposto che la fidanzata rompiscatole è una delle molteplici tracce che un elemento dell’esperienza interna può lasciare alla coscienza per aiutarla ad accedere a quel santuario del Sé. Così, per esempio, percorrendo in modo tecnicamente orientato il flusso dell’esperienza interna, a partire dal significante fidanzata rompiscatole, si può pervenire a un nucleo insospettato: l’angoscia di sentirsi sbagliato, deludente per chiunque diventi significativo.

Accettare i bigliettini da visita: la terza domanda del paziente

Infine, la terza domanda implicita posta da ogni paziente. Che la pancia del terapeuta comprenda un punto fondamentale (e agisca di conseguenza): il paziente non ha alcuna colpa se le sue tasche sono state riempite a sua insaputa da innumerevoli copie di un biglietto da visita. Il biglietto da visita che ci presenta sin dal primo momento della prima seduta. Anzi, a molti capita già al telefono, quando ci accordiamo per l’appuntamento. Quando tra colleghi, magari nella pausa pranzo, parliamo di pazienti, per la maggior parte del tempo parliamo di questo biglietto da visita e dell’effetto che ci fa. Sul biglietto da visita sono scritti, che so, gli occhi fissi sulle nostre scrivanie e mai nei nostri occhi; le risposte monosillabiche alle nostre domande, che dopo un po’ nostro malgrado diventano poliziesche; le richieste urgenti e tiranniche di aiuto, e i velati rimproveri se l’aiuto non arriva prontamente; la delusione malcelata per i risultati-che-non-arrivano-eppure-sono già-quaranta-secondi-che-sto-in-terapia; l’espressione sfottente mentre ci imbraniamo con la compilazione di una fattura (manco fossimo Fantozzi davanti al MegaDirettoreGalattico). Non solo cose sgradevoli, anche cose gradevolissime: sul biglietto possono esserci anche i complimenti che ci fanno sentire speciali e ci rendono improvvisamente più recettivi ai colori e agli odori della natura quando lasciamo lo studio, soprattutto se l’estate è abbastanza vicina.

Come vuole la nostra TMI (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013; Dimaggio, Ottavi, Popolo & Salvatore, in corso di stampa), quel biglietto da visita è la manifestazione di una contromisura contro gli effetti devastanti dell’aspettativa negativa di come il mondo risponderà a bisogni fondamentali. Vorrei essere amato e accudito, mi aspetto di essere maltrattato, divento diffidente; la cosa funziona perché la diffidenza mi fa sentire forte e intelligente, non di cristallo come si sente di solito il me maltrattato; e siccome funziona, si automantiene; pura e semplice questione di sopravvivenza; e finisce che tratto l’altro come se avesse fatto qualcosa di gravissimo. Quando l’altro è il terapeuta, quest’ultimo davanti a me si sentirà in colpa e non saprà perché, e gli verranno in mente ricordi di patatine rubate di nascosto alle feste di compleanno delle elementari. O ancora, vorrei essere apprezzato per le mie qualità, mi aspetto di essere umiliato, la mia vita diventa una costante ricerca di un pubblico ammirante per tener a debita distanza lo spettro dell’umiliazione. Il terapeuta che si comporti come il pubblico fiacco di un artista nella fase calante della carriera subirà la condanna della sconfitta umiliante che io passo la vita a cercare di scongiurare.

Il terapeuta dovrebbe accettare con gentilezza, apertura, curiosità il biglietto da visita, soprattutto sulla base della consapevolezza che anche nelle sue tasche c’è un biglietto simile, e che per il paziente come per sé stesso le cose più importanti sono quelle scritte nella facciata posteriore. Solo così gli sarà possibile stabilire una risonanza interpersonale (Lewenson, 1995, cit in Meares, 2005), con cui si intende quel processo che ha l’effetto di innescare la trasformazione di un sistema in precedenza lineare in un altro dotato di complessità. Il terapeuta capace di accettare con rispetto e delicatezza il biglietto da visita del paziente, di rispettare le strategie relazionali stratificate sui nuclei più profondi dell’identità, sarà in grado di accompagnare il paziente ai bisogni fondamentali che stanno dietro.

Paziente e terapauta tra sistemi motivazionali

Ora, torniamo a quei cinque scenari descritti all’inizio di questo scritto. Che sta succedendo nell’animo – e nell’organismo – del terapeuta in quei cinque scenari? Il quesito si può formulare anche in modo più tecnico: quale sistema motivazionale è attivo e sta guidando il terapeuta? Qualche indizio: in tutti e cinque i casi, poco ma sicuro, qualsiasi cosa anche remotamente assimilabile alla gioia di vivere è lontanissima dalla stanza della terapia. In tutti e cinque i casi le emozioni evocate dalla relazione con il paziente hanno tono edonico negativo. Noia, irritazione, rabbia, sovraccarico, costrizione, indignazione. La soluzione all’indovinello è facile. L’assetto interno del terapeuta è regolato dal sistema di affermazione e difesa del rango. Ogni terapeuta, in fondo al proprio animo, lo sa come funziona peculiarmente questo sistema dentro di sé. Al netto della quota regolata, per tutti noi, dalla lotta della sopravvivenza, che è anche lotta per la sopravvivenza di un’immagine positiva di noi stessi (a quanto pare veniamo al mondo con la consegna genetica di essere per forza superiori a qualcuno per poter respirare a pieni polmoni) cosa rimane? Gli elementi della propria storia personale che conferiscono una trama specifica, una declinazione idiosincratica a quella lotta a cui siamo destinati. E quegli elementi autobiografici in moltissimi casi rendono quella trama avvincente e tragica, perché ne costituiscono le innumerevoli violazioni di canonicità: sono i pezzi della storia di vita dove stanno le cose andate per il verso storto, gli intoppi nel percorso che nel migliore dei mondi possibili dovrebbe condurre all’essere in pace con sé stessi, consapevoli del proprio valore. Sguardi delusi di madri davanti ai nostri segni di insicurezza, commenti rapidi e taglienti di padri, magari sul percorso di studi scelto (‘ma in fondo che fa esattamente uno psicologo, si fa pagare per parlare?’), giudizi caustici nei momenti in cui c’era bisogno solo di un abbraccio. Sono i ‘la tua amica ha avuto 9, perché tu hai avuto 8 visto che non sei certo meno brava di lei?’; gli innumerevoli ‘potevi fare meglio’; i ‘sei il più bravo della classe’ detti con l’intonazione dell’aposiopesi, perché la parte più rilevante è la postilla omessa: ‘quindi mi aspetto che tu lo sia sempre’). E tanto, tanto altro.

Questo è il carico che tutti i terapeuti sostengono. Certo, i giovani di più. Ma non è detto. Forse gli esperti hanno solo imparato meglio a ignorarlo, o hanno accumulato fonti alternative di gratificazione dell’autostima, utilissime a rendere inoffensiva la minaccia di un paziente che non risponde ai loro interventi, ai loro modelli, ai loro protocolli.

In sintesi: il paziente fa solo il suo mestiere, soffre, spesso tanto, ma non sa perché, o crede solo di saperlo, e vorrebbe risposte, vorrebbe solo essere traghettato il più lontano possibile dalla sofferenza. È facile, soprattutto se la richiesta del paziente è pressante e “magica”, e soprattutto se – accade quasi sempre, ed è pure comprensibile – il paziente non ha una rappresentazione chiara di cosa si fa in una psicoterapia e di come esattamente la psicoterapia possa aiutarlo, che il terapeuta senta minacciata l’immagine positiva di sé, e che la voglia difendere coi denti. Il sistema del rango è attivo, gli schemi del terapeuta attivano strategie di coping cablate su sistemi motivazionali tendenzialmente incompatibili con la sintonizzazione: il paziente diventa un avversario. E se il paziente diventa un avversario, si verifica il problema che credo sia alla base di tutto ciò che non funziona in una seduta e in una terapia: è ostacolato il processo di sintonizzazione.

Aiutare i terapeuti a superare gli ostacoli personali al processo di sintonizzazione con il paziente è l’obiettivo dei Seminari sulla Disciplina Interiore del Terapeuta.

Nella prossima puntata riporteremo una serie di testimonianze redatte dai partecipanti dopo l’esperienza del IV Seminario.

Bambini e status sociale: i più piccoli riconoscono gli individui di status elevato?

I bambini non solo sono in grado di percepire le dinamiche che coinvolgono lo status sociale ma, come avviene anche in altri animali, sembrano preferire le persone di status elevato ma solo se il loro ruolo è riconosciuto dagli altri e non rivendicato con la forza fisica.

 

Abbandonata la visione comportamentista che concepiva l’individuo alla nascita come una tabula rasa, moltissime ricerche, negli ultimi decenni, hanno evidenziato la presenza di una moltitudine di abilità nei neonati. Sulla base di questi studi, si è passati da una visione del neonato come passivo nei confronti dell’ambiente, ad attivo costruttore della propria esperienza.

A tal proposito, uno studio recente condotto dai ricercatori di Aarhus BSS e dall’Università della California Irvine ha messo in evidenza che i bambini sono in grado di percepire le dinamiche inerenti allo status sociale e, sulla base di questo, scegliere quali persone preferiscono o non preferiscono.

In precedenza, Lotte Thomsen, professore di psicologia all’Università di Oslo e professore associato presso Aarhus BSS, e i suoi colleghi, avevano dimostrato che i neonati di nove mesi erano in grado di cogliere situazioni in cui vi erano dei conflitti di interessi.

Sulla base di questo studio, il nuovo obiettivo dei ricercatori è stato quello di comprendere come i bambini percepiscono lo status sociale e come reagiscono a individui di alto e basso status. A questo riguardo, Ashley Thomas della UCI Irvine afferma che il modo in cui ci si comporti in un conflitto di interessi rivela qualcosa sul proprio status sociale.

La ricerca

Per rispondere a tali quesiti, gli studiosi hanno utilizzato un paradigma di base che prevedeva la presenza di due burattini che tentavano di attraversare un palco in direzioni opposte. Quando questi si incontravano nel mezzo, si bloccavano a vicenda. Un burattino poi cedeva all’altro spostandosi di lato, permettendo così all’altro burattino di continuare e raggiungere l’obiettivo di attraversare il palco.

Successivamente, ai bambini, tra 21 e 31 mesi, sono stati presentati i due pupazzi. In questa condizione sperimentale, venti bambini su ventitrè hanno raggiunto il fantoccio che aveva “vinto” il conflitto, ovvero il fantoccio che aveva attraversato il palco. I bambini preferivano il burattino di alto rango rispetto a quello a cui altri si arrendevano volontariamente.

A seguire, lo scopo dei ricercatori è stato quello di esplorare se i bambini avessero preferito ancora il burattino vincente nel caso in cui quest’ultimo avesse vinto utilizzando la forza.

A questo punto, i ricercatori hanno esposto un nuovo gruppo di neonati alla stessa situazione sperimentale con la differenza che, questa volta, un burattino avrebbe forzatamente colpito l’altro fantoccio per raggiungere il suo obiettivo.

In questa condizione sperimentale, diciotto bambini su ventidue hanno evitato il burattino vincente e hanno invece raggiunto la vittima.

Conclusioni

I bambini, quindi, non solo sono in grado di percepire le dinamiche che coinvolgono lo status sociale ma, come avviene anche in altri animali, sembrano preferire le persone di status elevato, ma solo se il loro ruolo è riconosciuto dagli altri. Al contrario, i neonati sembrano evitare coloro che per mantenere il proprio ruolo ricorrono all’utilizzo della forza fisica.

È interessante notare come i bambini, in questa condizione, differiscono dai nostri parenti primati più vicini, le scimmie bonobo, che invece raggiungono ancora coloro che usano la forza fisica per mantenere alto il proprio rango.

Lo stile di attaccamento influenza il modo in cui utilizziamo i Social Network? Il caso di Facebook

Recentemente l’uso di Facebook è stato associato a diversi fattori psicologici negativi quali solitudine, ansia, bassa autostima e depressione, che alcuni autori hanno cercato di mettere in relazione anche rispetto allo stile di attaccamento degli utenti.

 

Una nuova ricerca, pubblicata su BMC Psychology, ha esaminato il legame esistente tra un uso problematico di Facebook e lo stile di attaccamento di una persona. L’autrice dello studio, Sally Flynn, riferisce che: “Vista la crescita smisurata nell’utilizzo dei social media, ci è sembrato interessante analizzarne le conseguenze a livello psicologico, in quanto riteniamo non siano state indagate abbastanza”.

Recentemente l’uso di Facebook è stato infatti associato a diversi fattori psicologici negativi, quali aumento di solitudine, ansia, bassa autostima e depressione. Incuriositi da ciò, gli autori dello studio hanno cercato di capire cosa potesse nascondersi all’origine di un uso problematico di Facebook.

I pressuposti teorici dello studio

La Teoria dell’ attaccamento, nei contributi dei diversi autori che nel corso degli anni si sono approcciati allo studio di questo argomento, ha rappresentato l’assunto teorico di riferimento sul quale è stato sviluppato l’intero progetto di ricerca di Flynn e colleghi. Secondo i sostenitori della Teoria dell’ attaccamento, tutti gli individui nascono con un innato desiderio di formare legami affettivi con gli altri, desiderio che permane per tutta la vita. Il primo e fondamentale legame è quello che nasce con la madre (o caregiver) con cui si sviluppa un tipo di attaccamento che potrà essere sicuro o insicuro.

Avere un attaccamento sicuro significa sentirsi sicuri e protetti, mentre avere uno stile di attaccamento insicuro implica una serie di emozioni contrastanti verso la propria figura di accudimento primaria; sono stati identificati diversi tipi di attaccamento insicuro: evitante, ansioso-ambivalente e disorganizzato.

Per tutta la durata della vita gli individui continuano a cercare legami e connessioni con gli altri, che cambiano a seconda del tipo di attaccamento che si ha. Nella fase di vita adulta, per esempio, persone che hanno uno stile di attaccamento ansioso concordano con affermazioni del tipo “Ho paura che perderò l’amore del mio partner”; invece, persone con uno stile di attaccamento evitante concordano maggiormente con frasi del tipo “Mi sento a disagio quando il mio partner vuole essere molto vicino”.

Gli autori sostengono che le persone, su Facebook, assumono una serie di comportamenti coerenti con il proprio stile di attaccamento e quando lo stile di attaccamento è insicuro i comportamenti online potrebbero risultare problematici.

Stile di attaccamento e utilizzo di Facebook: la ricerca

Lo studio ha coinvolto 717 utenti di Facebook, ai quali è stato richiesto di rispondere ad un test che aveva lo scopo di indagare diverse variabili psicologiche, tra cui l’autostima e lo stile di attaccamento, inoltre è stato esaminato il comportamento di questi utenti su Facebook.

È emerso che coloro i quali avevano un stile di attaccamento di tipo ansioso su Facebook tendevano ad assumere comportamenti specifici quali: fare confronti tra sé e gli altri, creare una falsa immagine di sé e condividere eccessivamente informazioni personali; inoltre tendevano ad un sovrautilizzo di Facebook a scapito di altre attività.

I partecipanti con un attaccamento evitante, invece, presentavano solo alcuni di questi comportamenti quali: creare una falsa immagine di sé e sovrautilizzo di Facebook a scapito di altre attività.

Inoltre, è emerso che questi comportamenti disadattivi sono più forti per le persone che hanno bassa autostima e alto disagio psicologico.

Conclusioni e limiti dello studio

Il punto cruciale della questione, che i ricercatori tengono a sottolineare, sta nel fatto che non è Facebook ad essere in sé e per sé pericoloso, ma è piuttosto il modo in cui alcune persone si approcciano ad esso che può risultare problematico.

Gli autori sperano che lo studio possa rendere gli utenti più consapevoli dei propri comportamenti disadattivi assunti online e che possa aiutare a modificare gli aspetti in questione.

D’altro canto, lo studio presenta alcuni limiti: il campionamento trasversale non permette di trarre conclusioni causa-effetto, inoltre l’utilizzo di self-report può aver determinato alcuni bias rispetto ai risultati.

Alcune questioni rimangono ancora aperte e da approfondire. Mentre è chiara infatti l’associazione tra disagio psicologico, autostima e uso problematico di Facebook, sono invece necessari ulteriori approfondimenti sulla correlazione esistente tra stile di attaccamento e specifici comportamenti online.

Sulla mia pelle (2018) di Alessio Cremonini: l’indifferenza che ha ucciso Stefano Cucchi – Recensione del film

Senza parole, paralizzati tra la vergogna e la confusione, con un sottofondo di rabbia che mette sottosopra le viscere…Purtroppo si fa a fatica ad arrivare alla fine di Sulla mia pelle, il dolore ti travolge e ti scava dentro fino a lasciarti senza parole, senza la forza di argomentare.

 

Uno Stefano Cucchi raccontato con tutti i suoi difetti e con quel carattere un po’ ribelle, la corruzione a più livelli di tutti gli organi istituzionali che sono intervenuti, e il dolore di una famiglia a cui non è stato concesso nulla, neanche la possibilità di accompagnare il figlio alla morte.

Il film Sulla mia pelle di Alessio Cremonini non fa sconti a nessuno, e racconta minuziosamente la storia di Stefano Cucchi arrestato per spaccio a ottobre del 2009 e morto dopo 7 giorni nella completa solitudine e nella totale indifferenza di tutti coloro che hanno interagito con lui in quei giorni.

Sulla mia pelle: nel labirinto dell’omertà

Dopo l’evento iniziale di un pestaggio gratuito da parte dei carabinieri che lo arrestano, si assiste lentamente ad una serie di incurie, vizi del sistema, omertà, che lo lasceranno morire nella più totale solitudine, che lasceranno che quel corpo si spenga senza nessuna pietà. L’unico interlocutore affettuoso è un altro carcerato di cui si sente solo la voce, che a tratti gli dona sostegno e accompagna le sue notti buie e agonizzanti.

Quello che più colpisce non è il pestaggio da parte delle forze dell’ordine, che dovrebbero assicurare una protezione di fatto negata, ma il dopo, un labirinto di omertà in cui tutti sanno e nessuno si assume la responsabilità: la cecità di un giudice che interroga l’indagato e non lo guarda in faccia, la cecità di un pubblico ministero che non prende provvedimenti, l’indifferenza, la mancanza di professionalità da parte di medici e infermieri, che non curano e non sostengono, l’impotenza dei volontari, l’egoismo e la cecità della guardia carceraria che si occupa solo di sapere “se c’è un certificato perché non vuole problemi”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO – SULLA MIA PELLE: IL TRAILER DEL FILM

Tutti ciechi e muti, di fronte ad uno Stefano Cucchi interpretato da un eccellente Alessandro Borghi, che in qualche modo ci prova a chiedere aiuto e a denunciare . La famiglia scossa e disorientata non capisce in tempo, non ha strumenti e nella solitudine di istituzioni assenti e ostili prova a cercare di capire; nessuno risponde, nessuno si assume le proprie responsabilità.

Di qualunque cosa un uomo sia colpevole, lo Stato, la giustizia e le istituzioni non dovrebbero mai sostituirsi alla legge. Una vicenda che lascia scossi, arrabbiati, indignati, non perché Stefano Cucchi fosse un santo, ma perché nessuna istituzione è stata in grado di fermare l’orribile giostra della violenza e della menzogna. Bastava solo guardarlo in faccia “se si cade dalle scale è strano che si pestano gli occhi e il naso rimane intatto“. Non solo è grave che sia accaduto il fatto ma ancor di più lo sono le menzogne e i ritocchini sugli atti pubblici.

Non ha funzionato il sistema, non ha funzionato l’amore della sua famiglia, non ha funzionato il personale del carcere, non hanno funzionato i medici, non ha funzionato la Magistratura, non ha funzionato nessuno e forse non funzioniamo noi che non ci riprendiamo la libertà e la dignità di riprenderci uno Stato che ci tuteli e che non ci metta in pericolo. L’indifferenza che fa da padrona crea morte e distruzione.

Sulla mia pelle, un film emotivamente sfiancante, che toglie il respiro, ma che andrebbe visto in tutte le scuole, in tutte le case, in tutti i luoghi, non per santificare un uomo che di torti ne aveva tanti, ma solo per comprendere che non sempre si può sottovalutare e dare per scontato di essere al sicuro. Un film per riflettere insieme su compiti e responsabilità, sul confine tra male e bene, sulla possibilità di restaurare un sistema pieno di gente per bene che però in alcuni casi fa acqua da tutte le parti, un film per farci pensare che siamo tutti responsabili della società in cui viviamo, che non scegliere è comunque una scelta, che non puoi non decidere da che parte stare, che se rimani immobile il destino segna il posto per te.

 

Country for old men (2018): l’ emigrazione dei pensionati verso Paesi dalla fiscalità più accogliente – Recensione del film documentario

Nel 2007 i fratelli Coen, col loro Non è un paese per vecchi, creavano un film che sarebbe diventato iconico, simbolo anche linguistico di derive umane e sociali che percorrevano le nostre latitudini; nel 2017 Stefano Cravero e Pietro Jona realizzano un documentario, in uscita tra pochi giorni, dal titolo esattamente opposto, Country for old men.

 

E il tema è a suo modo singolare, originale. Cittadini americani in esilio a Cotacachi, Ecuador. Pensionati spinti sulle Ande dall’impossibilità di vivere dignitosamente nel loro paese, dall’insofferenza verso un’America che non riconoscono (più), da entrambe le motivazioni o da qualcosa che per ciascuno di loro è soggettivo, personale. L’emigrazione di pensionati da paesi del mondo occidentale verso lidi dalla fiscalità più accogliente, con un sistema economico alla loro portata e talvolta il beneficio accessorio di un clima temperato non è di per sé una notizia né una novità.

Non più, ormai. Ciò che Country for old men esplora è una dimensione più inaspettata, un caso singolo che si discosta almeno in parte dalle logiche che governano gli altri. L’America dei nuovi muri, l’America dei gringos invasori commerciali si rivela insospettabilmente – o forse con acquisita prevedibilità – terra di sfilacciamenti che cercano di ricomporsi altrove.

Ci sono pensionati che non ce la fanno e riparano a Cotacachi dove i loro dollari risicati diventano sufficienti, persino abbondanti a volte; gente comune logorata dall’America delle guerre immaginarie, delle armi anche in tempo di pace, gente comune che vuole sentirsi finalmente al sicuro nelle benedette politiche ecuadoregne di contrasto alle armi; madri che dopo morte non vorranno fare ritorno in patria ma sciogliersi in ceneri fra le acque del fiume, anche a costo di finire in bocca a una trota.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM DOCUMENTARIO COUNTRY FOR OLD MEN:

L’integrazione di questa umanità segue e rispetta i modi di ogni integrazione in qualunque luogo del mondo: alcuni cercano, quasi buffi, di imparare la lingua locale per muoversi al mercato senza sentirsi stranieri, altri escono a fare la spesa e tornano a casa per esserlo, stranieri attaccati ai notiziari americani; se alcuni vivono il materializzarsi di un esilio ben poco eroico, per altri è la rinascita dello stare insieme, del ballo, della condivisione.

Si finisce addirittura per detestare l’arrivo di nuovi americani, ché un luogo dove ci si sente finalmente liberi non diventi una nuova colonia con le gabbie di ogni colonia. Cotacachi è un universo inconcepibile per chi ha trascorso la sua prima vita immerso nei valori del sogno americano, nel sentimento anti latinos e nella contrapposizione, tanto reale negli esiti concreti quanto distorta dalle fantasie (guidate?) dei popoli, fra due culture diffidenti l’una dell’altra, impossibili da assimilare per mentalità e stili di vita.

Un movimento alla volta e i due mondi appaiono sovrapponibili, si confondono per diventare uno solo. Il pensionato americano scopre di poter essere curato negli ospedali del sistema rivale, sentendosi forse più al sicuro e meno strangolato dalla morsa competitiva che lo poneva sempre a confronto con lo spettro dell’esclusione.

Country for old men è un racconto, dà voce a esperienze che restituiscono il senso di una similarità capace di umanizzare le differenze; un viaggio in un luogo piccolo, custodito, al quale si giunge mossi da una condizione di debolezza, talvolta di malinconia, quasi sempre dovendo affrontare un cambiamento che in altre fasi della vita non si sarebbe previsto né desiderato. E questi anziani migranti americani colpiscono perché la maggior parte di loro riesce a dare significato a ciò che altrimenti sarebbe un crepuscolo venato di un senso di ingiustizia; la migrazione diventa incontro sorprendente, una riscoperta di sé che Country for old men osserva e ricostruisce bilanciando le parole consapevoli, i passi incerti, l’energia matura o ingenua di chi fugge o rinasce a Cotacachi.

COUNTRY FOR OLD MEN: LA PAROLA A PIETRO JONA E STEFANO CRAVERO

Piperazine: usi ed effetti della droga – Introduzione alla Psicologia

Le piperazine si trovano sotto forma di capsule o pasticche, più raramente sotto forma di polvere, costituiscono un’alternativa all’ecstasy e hanno addirittura superato la vendita della stessa.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La piperazina, detta anche “droga legale”, è un composto chimico appartenente alla classe degli eterociclici, di formula bruta C4H₁0N₂, con struttura di esaidroderivato della pirazina che include la benzilpiperazina (BZP) gruppo limitato di derivati di tipo benzilico. Essa, in sostanza, deriva dalla sintesi del 1,2-dicloroetano e da ammoniaca. Si tratta di un composto eterociclico esa-atomico in cui sono presenti due atomi di azoto in posizione 1,4 che si mostra sotto forma di cristalli deliquescenti dal gusto salino. Il suo nome deriva dalla somiglianza con la piperidina, un costituente della piperina estratta dal pepe nero. I derivati della piperazina rappresentano un’ampia classe di composti chimici dall’importante attività farmacologica. Tra questi si annoverano, ad esempio, il viagra e il levitra, l’imatinib, la ciclizina, il trazodone, il nefazodone, gli antielmintici e varie droghe da abuso.

I giovani definiscono questa droga attraverso diversi nomi: pep, euphoria, nemesis, Arlequin, Regenboogies, Duhovka, Rainbow o bliss. Le piperazine si trovano sotto forma di capsule o pasticche, e più raramente sotto forma di polvere. Le piperazine sono un’alternativa all’ecstasy e hanno, addirittura, superato la vendita della stessa. Infatti, 40 mm di benzilpiperazina (BZP) hanno l’effetto di 120 mm di ecstasy, con un costo molto ridotto. Inoltre, rappresentano uno degli ingredienti principali dei cocktail di stupefacenti più in voga.

La piperazina nasce come farmaco per trattare i parassiti del bestiame ed è spesso utilizzata come antielmintico, attivo elettivamente sugli Ascaridi e, seppure in misura minore, sugli Ossiuri. La piperazina non uccide i parassiti, ma esercita un’intensa azione paralizzante sulla muscolatura degli elminti, che provoca la loro espulsione attraverso l’intestino.

La piperazina allo stato puro si mostra come un liquido incolore, solubile in acqua e di odore sgradevole, mentre in soluzioni acquose si separa e forma un solido cristallino esaidrato.

Storia

La piperazina, fin dalla fine dell’Ottocento, è stata una dei prodotti di punta dell’azienda di Leon Midy, fondata nel 1867 a Parigi che, attualmente, prende il nome di Sanofi Aventis. La piperazina per anni ha garantito gran parte del fatturato di questa azienda e di conseguenza, era al centro di una enorme campagna pubblicitaria eseguita attraverso la diffusione di veri e propri santini, cioè immagini sacre aventi sul retro la pubblicità del prodotto.

La piperazina era considerato un potente antisettico utilizzato contro litiasi renale, gotta, coliche nefritiche ed infezioni all’apparato urinario. La piperazina, inoltre, era anche un potente inquinante dell’ambiente acquatico e molti dei suoi derivati erano stati classificati come delle vere e proprie droghe. Ad esempio, la benzilpiperazina (BZP), utilizzata per trattare le infezioni enteroparassitarie negli animali d’allevamento, e quindi facilmente acquistabile anche in farmacia.

Sul grande mercato è arrivata nel 2006 e ben presto si è diffusa in tutto il mondo.

Effetti

La BZP è uno stimolante del Sistema Nervoso Centrale che genera un aumento delle pulsazioni, della pressione sanguigna e la dilatazione pupillare. Provoca scarso appetito, sudorazione, nausea, dolori addominali, emicrania, tremori, perdita del sonno, dell’energia, confusione, irritabilità.

La BZP, inoltre, è un irritante della pelle e persone che ne inalano la polvere o che ne maneggiano le compresse possono sviluppare mal di gola o irritazioni alle vie respiratorie. Essa è in grado di generare ansia, vertigini, confusione, brividi, sensibilità alla luce e al rumore, emicrania, paura di perdere il controllo e attacchi di panico.

Gli effetti fisiologici e soggettivi raggiungono il loro picco dopo 1-2 ore dall’assunzione per via orale.

I sintomi causati dalle piperazine possono persistere anche per 24 ore. Assunte a dosi elevate possono produrre allucinazioni, convulsioni e depressione respiratoria. Invece, se prese con regolarità possono portare a dipendenza e assuefazione.

I sintomi di overdose da ecstasy e da benzilpiperazina sono simili, e senza esami del sangue è difficile individuare la presenza di questa sostanza, visto che manca anche un kit specifico per l’analisi tossicologica delle urine.

Per questo, è arduo agire tempestivamente e di conseguenza determina elevata mortalità. 
La piperazina, insomma, fa parte di quel gruppo di molecole che di per sé è innocua, ma se combinata con altro diventa pericolosa.

Conseguenze

Le piperazine sono droghe stimolanti che possono causare gravi problemi per la salute e gli effetti si amplificano se assunta a amfetamine o con altre droghe. In Europa sono stati registrati vari casi di intossicazione acuta da piperazine che hanno richiesto il ricovero presso strutture ospedaliere e sono purtroppo noti anche casi di decesso correlati all’assunzione di piperazine.

I rifornimenti di piperazine arrivano principalmente dalla Nuova Zelanda, dove risulta che il 20 per cento della popolazione abbia provato la droga almeno una volta. Una delle maggiori società produttrici di piperazine vende un milione di pillole all’anno, per un giro d’affari di milioni di euro.

Il consumo e il possesso di BZP non sono proibiti totalmente, perché esistono dei surrogati di questa sostanza ancora del tutto legali. In Inghilterra, in particolare, è possibile prenderla in farmacia dietro prescrizione medica. Inoltre, tantissimi giovani riescono a procurarsi la droga via Internet.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Cognitivismo Clinico: la Terapia Cognitiva italiana compie 40 anni – Editoriale

Il 19 gennaio del 2018 si è svolto presso il Teatro Italia a Roma il Convegno “La terapia cognitiva italiana compie 40 anni”.

Antonino Carcione, Antonio Fenelli, Michele Procacci

 

46 anni fa, il 30 dicembre 1972, nasceva a Roma la “Società Italiana di Terapia del Comportamento”, che diventerà in seguito “Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva”, con uno statuto firmato da Vittorio Guidano e Giovanni Liotti. Qualche anno dopo gli stessi fondarono lo storico Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma, in via degli Scipioni 245, che è considerato il luogo di nascita della cosiddetta Scuola Romana di Psicoterapia Cognitiva. Insieme a loro c’erano “… Mario Reda, Georgianna Gardner, Gabriele Chiari e Francesco Mancini. A questo primo nucleo si aggiunsero rapidamente altri colleghi che diedero un importante contributo al successo della Scuola Romana, tra i quali Antonio Semerari, Sandra Sassaroli, Toni Fenelli, Roberto Lorenzini, Adele De Pascale, Maurizio Dodet, ma l’elenco completo sarebbe davvero molto lungo…” (citiamo da Lorenzini, Semerari e Mancini, in questo numero).

Il convegno celebra proprio il quarantennale di quello che poi diventò il Primo Centro, dal momento che i cognitivisti diventarono sempre più numerosi e così i centri con lo stesso nome in cui si svolgeva la psicoterapia. Il nome non fu scelto a caso: lo scopo non era quello di creare uno studio professionale, ma un luogo dove fare cultura, dove discutere e confrontarsi, dove scambiarsi le idee.

I primi maestri, Guidano e Liotti, ci hanno purtroppo lasciati. Guidano è scomparso prematuramente nel 1999, lasciando un grande vuoto, ma anche tanti riferimenti che tutti i suoi allievi e amici hanno contribuito a usare come faro e a diffondere in Italia e nel mondo. Il Convegno di gennaio ha visto, invece, l’ultima commovente partecipazione pubblica di Giovanni Liotti, appena rientrato nella vita scientifica attiva e pubblica dopo una malattia che lo aveva colpito e che poi, dopo qualche mese, ci ha privato di godere ancora della sua presenza. Celebrare Guidano e Liotti merita un lavoro a sé, ma un modo anche per ricordarli è proprio questo numero, edito congiuntamente dalle riviste Cognitivismo clinico e Quaderni di Psicoterapia Cognitiva, che raccoglie le relazioni scritte da chi quel giorno ha partecipato come relatore.

I lavori sono una sapiente miscela di contributi scientifici e ricordi diretti dei relatori stessi, pezzi di storia personale, aneddoti, storia della terapia cognitiva, integrati con lo stato dell’arte tra punti critici e linee di sviluppo che, ci auguriamo, sapranno catturare l’attenzione di lettori giovani e meno giovani stimolando curiosità, interesse, entusiasmo per il futuro e, forse, anche qualche lacrima di commozione.

Un rapido excursus tra i contributi dei relatori che hanno partecipato al convegno

Il teatro era gremito in ogni ordine di posto, terapeuti esperti uniti a giovani terapeuti in formazione, e la sensazione era che si stava partecipando a un evento particolare, che si sarebbe ricordato nel tempo.

Sul palco alcuni tra i più prestigiosi e validi esponenti della terapia cognitiva che, alternando racconti di storie passate e rassegne di ricerche in corso, hanno stimolato idee, concetti, studi, ricerche, e citato quei testi che hanno accompagnato molti di noi nella loro formazione, nella pratica clinica, nella discussione di tanti convegni e giornate di studio. Dall’epistemologia costruttivista, alla psicologia evoluzionistica, alla spinta relazionale, senza dimenticare quanto di buono viene dalla cosiddetta Terapia Cognitiva Standard. Traspaiono sempre i principi del falsificazionismo popperiano, sottolineando l’importanza del contributo della ricerca per il bene della psicoterapia e dei pazienti che a noi si rivolgono.

L’ordine degli articoli ricalca il programma che si è sviluppato nel corso del convegno, introdotto sapientemente da Toni Fenelli.

Il primo articolo è scritto a due mani da Farina e Liotti. Proprio Liotti, tra gli applausi profusi in una standing ovation, ha aperto il convegno e non si può non commuoversi al pensiero che è stato l’ultimo suo intervento pubblico. Sappiamo quanto è caro questo scritto a Farina e quanto sia stato, però, anche duro per lui concluderlo senza il suo Maestro della cui opera sarà certamente degno prosecutore. Affettivo sicuramente, quindi, ma anche altamente scientifico il valore di questo lavoro che, ricco di riferimenti scientifici e culturali, sottolinea l’importanza della relazione terapeutica per l’efficacia della psicoterapia, declinando le modalità con cui questa particolare e intima relazione umana diventa una relazione di cura. La passione degli autori per la ricerca scientifica unita all’attenzione alla specificità di ogni singola persona è declinata nel monito con cui l’articolo si conclude, citando i recenti studi di epigenetica:

L’esempio dell’epigenetica è uno dei tanti argomenti che sembra invitarci a non ritenere mai del tutto certa alcuna teoria scientifica, incluse le teorie psicologiche generali, patogenetiche e teorie della cura proposte ai lettori di questo articolo. Vorremmo dunque concludere sostenendo un atteggiamento di apertura a possibili confutazioni che, piuttosto che fonte di desolato scetticismo, diventi veicolo di arricchimento della teoria stessa.

Mario Reda ci riporta con il suo scritto alle origini del cognitivismo italiano: i corridoi polverosi e caotici della I Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma, lui testimone e partecipe dei primi momenti in cui Guidano e Liotti raccolsero attorno a loro il nucleo primigenio di quello che costituirà il I Centro di Terapia Cognitiva a Roma a Via degli Scipioni n. 245. Nel titolo “Cognitivismum Nostrum” Reda, tra memorie personali e citazioni, ricorda come, attraverso il confronto con autori del cognitivismo internazionale, la diffusione della cultura cognitivista attraverso le varie “scuole romane” abbia prodotto un approccio caratterizzato dall’attenzione alla complessità dei fenomeni psichici che influenza il pensiero e la prassi di gran parte del cognitivismo italiano, spesso apprezzato anche in ambito internazionale.

Francesco Mancini e Mauro Giacomoantonio trattano un argomento meno insolito di quel che si possa pensare per i cognitivisti, seppure certamente spesso e troppo trascurato dai cognitivisti secondo gli autori: i conflitti intrapsichici. Mancini e Giacomantonio ne ipotizzano innanzitutto le ragioni storiche, dovute sia al radicale distacco di Beck ed Ellis dalla teoria psicoanalitica, che fino ad allora praticavano, sia al ritorno dei neofreudiani con l’attenzione eccessiva ai traumi reali piuttosto che ai conflitti interni. Descrivono così vari tipi di conflitti intrapsichici alla luce non già di una teoria pul- sionale, ma sulla base di una prospettiva finalistica della motivazione. Gli autori sottolineano come i conflitti intrapsichici siano esperienza comune dell’essere umano, ma se rimangono senza soluzione sufficientemente rapida determinano disagio e sofferenza. Quindi diventa necessario identificare le condizioni che li generano e quelle che ne ostacolano la risoluzione, e gli autori suggeriscono strategie di intervento che non possono non passare attraverso processi di accettazione.

A seguire, Antonio Semerari espone in modo sistematizzato il lavoro di studi, ricerca e clinica del III Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma condotte nell’ambito delle scuole di terapia cognitiva APC, SPC e SICC. Semerari ripercorre i vari momenti di questa ricerca descrivendo la costruzione delle ipotesi, la costruzione degli strumenti e il controllo delle ipotesi stesse, seguendo una prospettiva scientifica volta allo sviluppo di trattamenti efficaci, in particolare per i Disturbi di Personalità. Anche Semerari usa e attiva nei lettori ricordi personali che descrivono la nascita sia di quello che ormai è noto semplicemente come “Terzocentro” (sic!), sia dell’idea che la metacognizione, come poi le ricerche (non solo del terzocentro) hanno dimostrato, potesse essere un fattore generale sottostante alla patologia della personalità.

Tra aneddoti personali e ricordi

Sia Semerari sia Reda, con i loro aneddoti personali, ci fanno notare come in molte parti d’Italia, in modo del tutto spontaneo e spinti da curiosità intellettuale, gruppi di clinici, alcuni divenuti anche ricercatori e formatori, si sono conosciuti, riuniti e hanno iniziato importanti collaborazioni i cui frutti sono presenti nel vasto ambito in cui il cognitivismo clinico si è diffuso nella penisola e spesso anche fuori da essa.

Lorenzini, anche lui senza tralasciare ricordi e con il suo stile personale, utilizza i concetti di costruttivismo, teoria degli scopi e credenze applicandoli alla descrizione e spiegazione del delirio paranoide. Il testo è arricchito da procedure di valutazione e formulazione del caso clinico e da procedure terapeutiche da applicare con il paziente. L’autore illustra l’importanza della relazione terapeutica dando attenzione ai significati personali in una patologia oggetto di interesse da sempre degli psicopatologi, che ha affascinato generazioni di psichiatri e, poi, di psicoterapeuti: il delirio. Qual è il suo senso, come possiamo leggerlo e utilizzarlo senza far sentire il paziente che lo riferisce invalidato o, peggio, minacciato? Lorenzini racconta la sua esperienza di psichiatra del servizio di salute mentale (è stato a capo di un dipartimento di salute mentale – DSM) e di come l’esperienza e la conoscenza della letteratura lo hanno spinto a cercare un metodo che potesse ottenere ciò che qui condivide con i lettori, fornendo anche delle schede da utilizzare con i pazienti nel corso della psicoterapia.

Infine la tavola rotonda che vede presenti Lorenzini, Mancini e Semerari. I temi trattati sono un tentativo di considerare la terapia cognitiva tra le sue contraddizioni attuali e le prospettive future. Sulle prime si argomenta sulle controversie tra psichiatria biologica e psicoterapia, dicotomie classiche come quella annosa tra mente e cervello, sulla questione nosografica e la crisi dei paradigmi diagnostici, sui limiti e i vantaggi dei protocolli passando attraverso la supremazia del ragionamento clinico, sul ruolo sociale della psichiatria e della psicoterapia. Sulle prospettive invece il ragionamento dei partecipanti verte sulle nuove proposte della terapia cognitiva anche in setting diversi da quelli tradizionali e si conclude ragionando su quale funzione sociale la terapia cognitiva potrebbe essere chiamata ad assolvere nei prossimi anni.

Il Congresso si chiude qui e così i lavori ivi presentati, ma non si chiude qui il numero. I primi di aprile giunge a uno di noi (A.C.) un email di Liotti, da parte sua e di Lorenzini, con un manoscritto per Cognitivismo clinico. Doveva essere il lavoro, già pronto per la stampa e persino perfettamente in linea con le norme editoriali, con cui gli autori avrebbero dovuto inaugurare il prossimo congresso nazionale della SITCC a Verona. L’email aveva scherzosamente come oggetto “Narcisi a Verona”. Gianni (permettete qui il tono più informale) ci ha lasciati poco dopo, non ha avuto il tempo di fare questa presentazione. L’articolo ha come oggetto il narcisismo secondo una prospettiva cognitiva ed evoluzionista. Pubblicarlo su questo numero consentirà di dargli il giusto e meritato rilievo e la maggiore diffusione possibile. Un minimo omaggio, per il quale siamo a grati a Roberto Lorenzini che ne ha concesso la pubblicazione su entrambe le riviste, con cui ringraziare Gianni Liotti anche di questo ultimo regalo.

L’ultima parola è ovviamente affidata ai lettori che crediamo e speriamo numerosi. Quaderni nell’occasione darà una copia cartacea in omaggio agli iscritti al XIX Congresso Nazionale della SITCC che si svolgerà a Verona dal 20 al 23 settembre 2018. Il numero sarà comunque pubblicato on line sui siti di Cognitivismo clinico e di Quaderni on line.

Worry and waiting: come il supporto del partner può aiutarci in momenti di forte stress

Secondo una recente ricerca, condotta presso la University of California-Riverside, nei periodi in cui siamo in attesa di qualcosa, come per esempio il responso di alcune analisi mediche o il feedback di un colloquio di lavoro, percepire supporto da parte del proprio partner può essere di grande aiuto.

 

L’autrice dello studio Kate Sweeny ha effettuato diversi lavori riguardo questo tema, chiamato “worry and waiting”, ed afferma che in questi momenti caratterizzati da forte incertezza, molte delle strategie che usiamo possono non funzionare. Tra le strategie che la Sweeny suggerisce come più efficai nel ridurre lo stress in queste situazioni sicuramente la meditazione mindfulness, che aiuta a focalizzarsi sul presente.

Nel suo lavoro più recente ha riscontrato una connessione tra supporto dal proprio partner e riduzione dello stress.

A ragione di ciò, anche diversi studi precedenti riguardo il tema del supporto psicologico avevano evidenziato l’esistenza di diverse tipologie di supporto, in grado di generare effetti diversi sulle persone, in particolare si distingue tra: supporto ricevuto e supporto percepito. Il primo corrisponde all’effettivo scambio di risorse che avviene tra membri appartenenti ad una rete sociale, mentre il secondo corrisponde alle valutazioni che un individuo fa rispetto alla possibilità di ricevere supporto dalla propria rete sociale in caso di necessità.

Si discute ancora oggi su quale, tra questi due tipi di supporto, incida maggiormente sulla salute fisica e psicologica. Le precedenti ricerche hanno dimostrato che il supporto percepito, a differenza di quello ricevuto, permetta un migliore adattamento ad esperienze di vita stressanti (Moretti, Simonelli, Melloni & Ronconi, 2012). Sembrerebbe quindi che la percezione di supporto e non l’effettivo supporto sia di maggior aiuto per il benessere dell’individuo.

Cosa emerge dallo studio di Sweeny

A conferma di questi dati, i ricercatori hanno notato nello studio condotto come, in presenza di un supporto ricevuto, non si è verificato alcun tipo di beneficio. Questo effetto è stato chiamato “paradosso del ricevere supporto sociale:

a volte avere un aiuto concreto da altre persone può provocare sentimenti di incompetenza, d’instabilità emotiva o portare le persone a sentirsi eccessivamente bisognosi – riferisce Sweeny.

Al contrario, percepire supporto può essere di gran lunga più benefico.

Dalla ricerca emerge anche che la percezione del supporto da parte del partner non è stabile nel tempo, infatti, si notano dei picchi all’inizio e alla fine del periodo di attesa, e non durante. Ciò potrebbe essere dovuto dal fatto che la preoccupazione non è un’esperienza statica, bensì è molto elevata all’inizio del periodo di attesa, in quanto l’incertezza è nuova, e alla fine, quando la risposta è imminente. Il partner di conseguenza sentirà di dover essere più presente in questi periodi di elevata preoccupazione e di poter invece esserlo meno quando il partner è più calmo.

I benefici di questo supporto percepito sono diversi: oltre al riuscire a fronteggiare meglio la situazione, il partner stressato riesce a dormire in modo migliore e a sentirsi più sano.

Sembra inoltre che le persone più ottimiste e speranzose percepiscono un supporto maggiore in generale dal partner. Si verifica invece l’opposto per le persone pessimiste.

Caratteristiche del campione di studio

L’autrice ha scelto una particolare categoria di soggetti per la ricerca: persone neolaureate in giurisprudenza, che hanno appena sostenuto l’esame d’avvocatura e devono aspettare 4 mesi prima di avere i risultati. I 168 studenti scelti erano anche in una relazione sentimentale. L’autrice ha selezionato queste persone in quanto era molto semplice poter osservare tanti soggetti insieme in una fase così stressante della loro vita.

Ricordo di Bernie Carducci

È mancato domenica 22 settembre Bernardo “Bernie” Carducci, professore di psicologia all’Università dell’Indiana Southeast e studioso della timidezza, di cui aveva disegnato un modello cognitivo rigoroso e diffuso in un libro pubblicato nell’anno 2000 con Susan Golant.

Nel 1997 aveva fondato lo “Shyness Research Institute”, sempre nella sede dell’Indiana University Southeast, per promuovere la comprensione psicologica della timidezza.

Il modello di Bernardo Carducci si muoveva nell’area della psicologia dell’accettazione –anche se la terminologia che lui usava era più tradizionale- e infatti il suo scopo era di aiutare i timidi a diventare “successful shy”, timidi di successo, ovvero senza negare la loro natura ma valorizzandola. Valorizzando quindi la tendenza all’introversione come sensibilità introspettiva e la difficoltà a relazionarsi come capacità di stabilire contatti intimi e profondi, sebbene meno abbondanti rispetto agli estroversi. Il suo lavoro psicologico aveva anche dei correlati clinici nell’area dell’ansia sociale.

Oltre il suo libro principale sulla timidezza aveva poi scritto numerosi altri volumi e manuali di auto-aiuto, sempre nell’area della timidezza. Inoltre Carducci era anche uno studioso della personalità e aveva scritto un volume di teoria generale della personalità pubblicato nel 2009.

Timidezza definizione componenti cognitive e trattamento - Report dal XIV Congresso Europeo di Psicologia
Prof. Bernardo Carducci con alcuni colleghi di Studi Cognitivi, Durante il XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP), Milano 2015

Ricordiamo “Bernie” Carducci anche perché aveva collaborato con noi e con gli istituti dove lavorano molti colleghi del nostro gruppo professionale. Proprio questa estate abbiamo concluso un articolo scritto con lui –naturalmente sulla timidezza- in quella che forse potrebbe essere stata la sua ultima pubblicazione scientifica.

Lo avevamo conosciuto a Honolulu, al congresso del 2013 dell’American Psychological Association, l’APA, e lo avevamo intervistato. Oltre a condividere con noi gli interessi scientifici, Carducci era anche appassionatamente affezionato a noi come recupero di quelle che lui chiamava le sue “roots”, essendo lui molto orgoglioso delle origini italiane della sua famiglia. Scherzosamente diceva anche che la sua speranza era di essere un discendente di Giosuè Carducci.

 


Articoli di Bernie Carducci per State of Mind:

Shyness – Is being introverted the same of being shy? – A lesson from Bernardo Carducci

 

Bernardo Carducci on the distinction between shyness and social anxiety

Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti – Recensione del libro

È legittima la contraccezione e l’uso di pratiche anticoncezionali per limitare il numero di nascite e giovare al benessere fisico, psichico ed economico della società? Se sì, come mai in passato è stato considerato illegittimo?

 

Indossare un preservativo o assumere la pillola anticoncezionale sono gesti che oggi ci appaiono a dir poco scontati. In realtà condom, pillola, spirale, diaframma sono molto più che semplici mezzi contraccettivi: sono simbolo di emancipazione femminile e sociale. Rappresentano l’emancipazione della donna dall’unico ruolo riconosciutole per molto tempo dalla società, quello di madre, e rappresentano la possibilità di vivere una vita sessuale libera e (si spera) appagante, svincolata dalla procreazione.

In Italia la diffusione dei mezzi anticoncezionali è il risultato di una lunga battaglia iniziata a cavallo tra Ottocento e Novecento all’interno di una società profondamente bigotta e moralista. Matteo Loconsole nel suo breve saggio Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti ne ripercorre le origini, approfondendo in maniera molto accurata, anche grazie a una corposa ricerca bibliografica, gli accesi dibattiti che infiammarono il nostro Paese su temi quali igiene sessuale, contraccezione, controllo responsabile delle nascite, prevenzione sessuale, evidenziandone le contraddizioni e le ipocrisie.

Storia della contraccezione in Italia: il saggio si articola in tre capitoli

Il primo capitolo è dedicato alla cosiddetta questione neomalthusiana che interessò l’Italia risorgimentale: rispetto alle classi sociali più abbienti quelle più povere tendono a mettere al mondo più figli, determinando un peggioramento della propria qualità di vita, già minata da peggiori condizioni economiche, igieniche, sanitarie, limitato accesso alle risorse, ridotte prospettive lavorative, aumentato tasso di mortalità, ecc. Da qui il quesito: è legittimo l’uso di pratiche anticoncezionali per limitare il numero di nascite e giovare al benessere fisico, psichico ed economico della società? Se sì, come mai in passato è stato considerato illegittimo?

La risposta la troviamo nel secondo capitolo del saggio Storia della contraccezione in Italia. Loconsole analizza le contraddizioni e le ipocrisie che hanno caratterizzato il dibattito in Italia, mostrandoci come qualsiasi tipo di “indagine scientifica del corpo e della sessualità umani, imperando una morale di stampo spiritualista, fosse additata come oltraggiosa, immorale e, soprattutto, anticristiana”, tanto da considerare l’educazione sessuale alla stregua della pornografia; inoltre ci illustra come i risultati della scienza venissero piegati alla morale del tempo per dimostrare l’inferiorità della donna rispetto all’uomo e ribadirne il ruolo di sola “fattrice”.

Il terzo capitolo, infine, si concentra sulla fondazione nel 1913 de “L’educazione sessuale”, la rivista di divulgazione neomalthusiana rivolta al popolo, che osò “sfidare la morale consolidata” del tempo, “facendosi però scudo di un discorso che fosse il più scientifico possibile”. Tale rivista ebbe infatti il merito di rendere libera e pubblica la discussione sulla sessualità, sulla procreazione consapevole e il controllo delle nascite; un dibattito che abbiamo la possibilità di rivivere grazie a stralci di articoli che riportano le riflessioni e i punti di vista di orientamenti di pensiero differenti, un vero e proprio tuffo nel passato.

L’importanza della pedagogia sessuale e di un’istruzione sessuale scolastica, così come la promozione di un cambiamento culturale che riconoscesse alle donne “gli stessi diritti concessi all’uomo dalla cultura” (affrontando tematiche quali l’adulterio, il divorzio, la libertà di procreazione) sono solo alcuni degli interessanti temi trattati.

Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti non solo ci restituisce un pezzo di storia dell’Italia poco conosciuto, ma ci spinge inevitabilmente a riflettere sulla situazione italiana odierna:

[…] potremmo, nel momento presente, dire con sincerità di esserci del tutto emancipati da quell’ingombrante bagaglio di pregiudizi culturali che, tra Otto e Novecento, ostacolarono una libera e pubblica discussione scientifica? – si domanda Loconsole.

In un paese in cui l’educazione sessuale resta ancora un tabù, la risposta, purtroppo, appare scontata.

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