expand_lessAPRI WIDGET

Biomarker urinari per una diagnosi più oggettiva dei disturbi ansiosi e depressivi

Un recente studio cinese pubblicato su Translational Psychiatry, ha sottolineato l’importanza, nella pratica clinica, di identificare specifici biomarker che possano costituire test diagnostici oggettivi di laboratorio da accompagnare ai classici self-report, per una corretta differenziazione e diagnosi di ansia e depressione nei pazienti.

 

I sintomi ansiosi e depressivi per le loro somiglianze spesso si sovrappongono e frequentemente si osservano in comorbilità; spesso la presenza di sintomi depressivi può mascherare la presenza di quelli ansiosi e viceversa (Coplan, Aaronson et al., 2015).

L’alta percentuale di comorbilità, dal 40 all’80%, per ansia e depressione, fa si che il disturbo ansioso o depressivo si aggravi e determini un peggior funzionamento psicosociale, oltre che una ridotta qualità di vita e una necessità maggiore di accesso alle cure. La comorbilità aumenta anche la persistenza e la durata nel tempo della psicopatologia rispetto al disturbo preso singolarmente, aumentando il rischio di cronicità della malattia.

In aggiunta, il mancato riconoscimento o la non corretta diagnosi della comorbilità appare legata ad un aumento della resistenza al trattamento e della percentuale di rischio per un’ospedalizzazione psichiatrica dovuta alla ricomparsa di alcuni sintomi dopo un trattamento che ha avuto come bersaglio soltanto uno dei due disturbi (Chen, Bai, Li, Zhou et al., 2018).

Ansia e depressione: un aiuto nella diagnosi differenziale grazie all’individuazione di biomarker metabolici

Diventa pertanto centrale una valutazione e uno screening accurato della sintomatologia, che sia in grado di individuare nel modo più oggettivo possibile la comorbilità e che possa aiutare poi il clinico a realizzare un efficace piano di trattamento per il paziente, caratterizzando adeguatamente l’eterogeneità e la complessità dei due disturbi ugualmente presenti.

Per questa ragione, già in precedenza, gli autori Zheng, Chen e Wang (2013) si erano mossi ad identificare dei biomarker metabolici per una più accurata diagnosi di disturbo depressivo maggiore; dei biomarker in particolare che potessero supportare una diagnosi oggettiva, di laboratorio, da accompagnare ai self-report dei sintomi riportati soggettivamente dal paziente.

Nello studio attualmente preso in considerazione di Chen, Bai, Li, Zhou e colleghi (2018), l’obiettivo è stato quello di identificare i differenti metaboliti presenti nelle urine e usarli come marker specifici per la presenza di ansia e depressione in un gruppo di 32 pazienti affetti da disturbi ansiosi e depressivi, per poi confrontare i dati con un gruppo di controllo.

Per distinguere i due gruppi e per esplorare le differenze metaboliche nei due gruppi, gli autori hanno utilizzato un’analisi ortogonale discriminante che ha caratterizzato il gruppo dei pazienti con un’elevata concentrazione nelle urine di circa 20 metaboliti rispetto a quello di controllo. In seguito, per semplificare il riconoscimento di quei metaboliti più rappresentati e che maggiormente potevano costituire il gruppo di biomarker, i ricercatori hanno sottoposto i risultati ottenuti ad ulteriori analisi individuando quattro metaboliti urinari che, in modo significativo, distinguevano i due gruppi (soggetti sperimentali e controlli): N-metilnicotinamide, l’acido amino malonico, l’acido azelaico e l’acido ippurico.

N-metilnicotinamide è il prodotto finale del metabolismo della nicotinammide che a sua volta è legato all’acido nicotinico e al triptofano, precursore biochimico della serotonina; il suo coinvolgimento nel gruppo dei biomarker potrebbe indicare delle anomalie nella biosintesi della serotonina le cui alterazioni sono implicate nell’eziopatologia dei disturbi d’ansia e depressivi.

Al contempo anche la presenza di un aumento dell’acido amino malonico nel gruppo dei pazienti potrebbe suggerire un legame con anomalie nella neurotrasmissione della serotonina, come già evidenziato da studi sulla venlafaxina, un antidepressivo SSRI, che riduce il livello di tale acido nell’ippocampo dei ratti (Bai, Hu, Chen et al., 2017).

Per quanto riguarda l’acido azelaico e l’acido ippurico, il presente studio ha mostrato un aumento della concentrazione di entrambi nelle urine del gruppo dei pazienti. Questi sono legati al metabolismo intestinale e la loro assegnazione al gruppo dei biomaker per ansia e depressione potrebbe essere giustificata dal fatto che studi hanno dimostrato un coinvolgimento del microbiota intestinale nello sviluppo di ansia e depressione (Zheng, Zhou, Liu et al., 2016).

Nonostante le numerose limitazioni sottolineate dagli stessi autori, appare evidente come questi risultati possano essere di preparazione per future ricerche che approfondiranno i metodi diagnostici oggettivi basati su test di laboratorio, in questo caso analisi delle urine, per un assessment più accurato dei disturbi d’ansia, depressivi e della loro comorbilità.

 

Altruismo nei bambini: la sensibilità ai volti che esprimono paura sarebbe predittore di comportamenti prosociali

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista PLOS Biology, da Tobias Grossman e colleghi della University of Virginia, l’attenzione dei bambini rivolta ai volti impauriti predispone all’ altruismo.

 

Altruismo e comportamenti derivati, come aiutare una persona sconosciuta che ne ha bisogno, sono considerati una caratteristica chiave della cooperazione nelle società umane.

Altruismo e sensibilità ai volti che esprimono paura

La nostra propensione a impegnarci nel compiere gesti di altruismo varia considerevolmente da persona a persona: troviamo donatori straordinariamente altruisti e persone altamente antisociali.

Precedenti studi hanno suggerito che una maggiore sensibilità ai volti impauriti è correlata ad alti livelli di comportamento pro-sociale, che possono essere già visti nei bambini in età prescolare. Esaminare la capacità di rispondere ai volti che esprimono paura e la loro variabilità all’inizio dello sviluppo umano rappresenta un’occasione unica per far luce sui precursori del comportamento altruistico.

Altruismo: la sensibilità ai volti impauriti ne sarebbe un predittore

Per affrontare questo problema Grossmann e colleghi hanno monitorato i movimenti oculari per analizzare la capacità di reagire nel vedere gli altri in difficoltà (mostrando volti che esprimevano paura). Le risposte misurate durante la visualizzazione di volti spaventati a 7 mesi di età erano segnali che predicevano il comportamento altruistico a 14 mesi (periodo in cui, secondo i ricercatori, è possibile vedere per la prima volta il comportamento prosociale).

Lo studio ha confermato che il comportamento di altruismo nei bambini piccoli era previsto dall’attenzione dei bambini ai volti impauriti ma non ai volti felici o arrabbiati.

Secondo gli autori, sin dall’inizio dello sviluppo, la variabilità del comportamento di aiuto altruistico è legata alla nostra capacità di rispondere quando vediamo gli altri in difficoltà e ai processi cerebrali implicati nel controllo dell’attenzione.

Gli effetti della trascuratezza su bambini e adolescenti. L’ultimo studio del Bucharest Early Intervention Project (BEIP)

All’inizio degli anni ’90, a Bucarest, esistevano numerose strutture statali alle quali venivano affidati bambini che non avevano più i genitori o altre persone che si potessero prendere cura di loro: in questo contesto è stato possibile studiare quali fossero gli effetti dovuti all’esposizione ad un ambiente di sviluppo caratterizzato da deprivazione emotiva.

 

È risaputo che un’adeguata stimolazione sociale, cognitiva, etc. è fondamentale per una crescita sana. Le interazioni dei bambini con i genitori e con altri adulti significativi assumono dunque un ruolo importante in quanto permettono ai più piccoli di sviluppare alcune importanti abilità. In tal senso, una distinzione necessaria è quella tra periodo critico e periodo sensibile.

Il periodo critico si caratterizza per finestre temporali molto ristrette nel corso dello sviluppo, durante le quali una specifica esperienza deve avvenire perché una particolare funzione si sviluppi in modo normale.

Il periodo sensibile fa riferimento a quei momenti nel corso dello sviluppo durante i quali l’organismo è particolarmente sensibile a specifiche esperienze, senza necessariamente escludere che queste esperienze possano favorire lo sviluppo di una particolare funzione anche in momenti successivi, anche se in grado minore.

BEIP: il progetto di intervento precoce di Bucarest

Intorno all’inizio degli anni ’90, a Bucarest, esistevano strutture statali a cui molti bambini venivano affidati. In questo contesto è stato possibile studiare quali fossero gli effetti dovuti all’esposizione ad un ambiente caratterizzato da deprivazione emotiva.

A tal proposito, il progetto di intervento precoce di Bucarest (BEIP), che coinvolge bambini negli orfanotrofi rumeni, ha dimostrato che i bambini allevati in ambienti istituzionali negligenti, caratterizzati da grave privazione sociale e cognitiva e da grave deprivazione emotiva, sono maggiormente a rischio di problemi cognitivi, depressione, ansia, comportamenti distruttivi e disordine da deficit di attenzione e iperattività, rispetto ai bambini cresciuti in famiglia. Tale studio, ha anche dimostrato che l’affidamento di questi bambini a delle famiglie accudenti ha un effetto positivo sulla loro crescita, soprattutto se questo avviene precocemente.

Effetti della deprivazione emotiva su bambini e adolescenti istituzionalizzati. I dati dell’ultimo studio BEIP

L’ultimo studio BEIP, pubblicato nei giorni scorsi da JAMA Psychiatry, ha indagato gli effetti della deprivazione emotiva sulla salute mentale dei bambini istituzionalizzati, nel passaggio all’adolescenza. I risultati a otto, dodici e sedici anni, hanno messo in evidenza traiettorie di sviluppo divergenti tra i bambini rimasti in istituto rispetto a quelli scelti a caso per il collocamento con famiglie affidatarie attentamente controllate.

I ricercatori guidati da Mark Wade, PhD, e Charles Nelson, PhD, della divisione di Medicina dello sviluppo presso l’ospedale pediatrico di Boston, hanno studiato 220 bambini di cui 119 hanno trascorso almeno un po’ di tempo in istituti. Dei 119, metà era stata posta in affidamento.

Nel corso degli anni, insegnanti e tutori hanno somministrato a questi ragazzi il “questionario sulla salute e il comportamento di MacArthur”, che comprende una serie di sotto-scale inerenti a depressione, ansia, abbandono, comportamento oppositivo provocatorio, problemi della condotta, aggressività fisica, aggressività relazionale e ADHD.

Dai risultati è emerso che i bambini collocati in famiglie affidatarie di qualità, rispetto a quelli rimasti nelle istituzioni, mostravano uno migliore stato di salute mentale; in particolare, presentavano un minor numero di comportamenti esternalizzanti come violazione di regole, discussioni eccessive con figure autorevoli, furto o aggressione tra pari. Tali differenze iniziarono ad emergere a circa dodici anni e divennero significative a sedici anni.

Wade ha affermato:

I nostri risultati si aggiungono a una letteratura crescente su ciò che potrebbe accadere allo sviluppo psicologico a lungo termine di un bambino quando sperimentano la separazione da un caregiver primario all’inizio dello sviluppo.

L’autore continua dicendo:

La buona notizia è che se vengono collocati in famiglie di alta qualità con una buona assistenza, questo rischio è ridotto, ma tendono ancora ad avere più difficoltà rispetto ai loro coetanei che non hanno mai sperimentato questa forma di privazione nei primi anni di vita.

Psicoterapia dell’insonnia: l’efficacia dei trattamenti cognitivo-comportamentali online

Uno studio dell’Università di Oxford e della Northwestern Medicine ha scoperto che grazie alle terapie cognitivo-comportamentali digitali, si può migliorare lo stato di salute in generale ed in particolare il sonno.

 

L’insonnia è uno dei fattori di rischio connessi allo sviluppo di disturbi mentali, malattie cardiovascolari e diabete di tipo 2. Il trattamento di questo disturbo con terapie cognitivo-comportamentali (CBT) è poco frequente data la mancanza di terapisti specializzati in questo settore e il numero sempre crescente di pazienti. L’American College of Physicians nel 2016 ha raccomandato, per curare l’insonnia, l’utilizzo della CBT come primo step anche prima di trattamenti farmacologici.

Insonnia: lo studio

Questo studio è durato all’incirca un anno, e ha coinvolto 1711 soggetti. Sono state utilizzate delle piattaforme online, rendendo il trattamento più accessibile e personalizzato alle esigenze delle persone coinvolte, quindi sono stati portati avanti dei trattamenti in linea alle tipologie di sonno degli utenti. Ognuno ha seguito il trattamento utilizzando un’app associata al programma digitale di miglioramento del sonno Sleepio che utilizza tecniche CBT, contenuti comportamentali, cognitivi ed educativi. Lo svolgimento del trattamento è avvenuto in sei sessioni dalla durata media di 20 minuti per un massimo di 12 settimane. I partecipanti sono stati valutati in quattro condizioni temporali: la baseline a zero settimane; il trattamento intermedio a quattro settimane; il post-trattamento ad otto settimane; infine il follow-up a ventiquattro settimane.

Insonnia: i risultati del trattamento online

Il trattamento è stato associato ad un miglioramento significativo della salute e del benessere. Inoltre il quest’ultimo ha avuto un ruolo di mediazione su: sintomi depressivi, ansia, sonnolenza, fallimenti cognitivi, produttività e soddisfazione lavorativa.

 

Validazione della versione italiana dell’Anger Cognition Scale per bambini e adolescenti – Congresso SITCC 2018

Validazione della versione italiana per adolescenti dell’Anger Cognition Scale

R. Piron, S. Nicoli, C. Caruso, G.M. Ruggiero, R. DiGiuseppe, S. Scaini

 

La terapia cognitivo-comportamentale si è rivelato il trattamento privilegiato per quanto riguarda i disturbi cognitivi, emotivi e comportamentali correlati alla rabbia, eppure la ricerca sui processi cognitivi connessi alla rabbia è relativamente scarsa (Martin & Dahalen, 2007).

In Italia molti bambini e adolescenti presentano difficoltà connesse a una cattiva gestione della rabbia, ma nella pratica clinica diventa difficile una valutazione accurata poiché non abbiamo a disposizione scale italiane che misurino il costrutto della rabbia in età evolutiva. Il presente lavoro ha lo scopo di validare la versione italiana per bambini e adolescenti dell’ Anger Cognition Scale (ACS, DiGiuseppe et al., in preparation), uno degli strumenti più completi per valutare i pensieri legati alla rabbia. La validazione di questa scala permetterebbe di valutare i pensieri rabbiosi nei ragazzi, sia con finalità di screening in contesti di popolazione generale, sia per la rilevazione clinica in contesti di patologia.

Nel presente studio 180 soggetti di età compresa tra gli 10 e i 19 anni sono stati reclutati a random presso la scuola media statale di Carpineti (RE) e presso la scuola superiore Sacro Cuore di Gesù di Modena.

Emozioni (2018) di Antonio Scarinci e Giovanni Brunori – Recensione del manuale di auto aiuto

La cultura della psicoeducazione emotiva sta assumendo importanza sempre maggiore in Italia sia in ambito clinico che in ambito educativo, anche grazie alla spinta della psicologia evoluzionistica e di tecniche terapeutiche come la Terapia dialettico comportamentale (DBT) di Marsha Linehan.

 

Come ci ricordano Scarinci e Brunori, i pazienti con disturbi emotivi comuni rappresentano circa il 20% dei pazienti che si rivolgono ai Medici di Medicina Generale e solo il 50% di essi riceve trattamenti appropriati.

Emozioni: cosa sono e a cosa servono

Le emozioni si legano in modo complesso ai nostri pensieri, alle nostre valutazioni, e spesso non riusciamo bene a identificarle, riconoscerle e regolarle. Si possono sviluppare così persino disturbi emotivi di una certa gravità, un’intensa ansia che ci rende persistentemente preoccupati, una rabbia incontrollabile che si somatizza in qualche disturbo gastrointestinale, una profonda tristezza che rende il nostro umore deflesso e ci fa perdere i piaceri della vita, una paura che ci blocca e ci impedisce di vivere liberamente. Questo manuale si rivolge in particolare agli utenti come strumento di auto-aiuto, ma può essere una lettura di estremo interesse anche per gli operatori, soprattutto quelli più lontani dal mondo della psicoterapia cognitivo comportamentale.

Gli autori partono spiegando cosa siano e a cosa servano le emozioni, con alcuni riferimenti ai correlati neuroanatomici delle stesse.

Le emozioni primarie (tristezza, paura, gioia, rabbia, disgusto) e secondarie (sorpresa, vergogna, disprezzo, pena, invidia, gelosia, noia, nostalgia, tenerezza) vengono illustrate nei propri significati partendo dalla tristezza che ci informa che abbiamo perso qualcosa, fino alla gioia che ci segnala che un nostro scopo è stato raggiunto.

Emozioni: quando sono parte di disturbi emotivi

C’è una parte dedicata ai disturbi emotivi, con riferimenti a ansia e depressione e successivamente viene affrontato il tema della regolazione emotiva, partendo dal presupposto che in termini evolutivi non esistono emozioni positive o negative, ma quello che rende disfunzionale l’attivazione può essere l’intensità, la durata, il manifestarsi dell’emozione in modo incongruo. Vengono proposte diverse tecniche immaginative e strategie regolatorie (strategie di distacco), con esercizi e schede di autosservazione,

La semplicità e la capacità di sintesi sono uno dei punti forti di questo libro; come ci ricorda anche Roberto Lorenzini nella presentazione

Scarinci e Brunori riescono a conservare nella pagina scritta quella stessa semplicità e vividezza che me li ha sempre fatti invidiare quando queste cose le spiegavano a centinaia di pazienti, ai loro famigliari e agli allievi.

 

Il giardino dell’umano. Counseling di Gruppo nelle Organizzazzioni (2017): una guida nella comprensione delle organizzazioni – Recensione del libro

Il giardino dell’umano è un testo che offre, in un clima di sviluppo di nuove tendenze nel counseling di gruppo per le organizzazioni, un insieme di metodi per facilitare il benessere e l’accettazione, un insieme di capacità come l’ascolto e la cooperazione. Offre uno stimolo allo sviluppo personale e alla risoluzione di problemi nel luogo di lavoro.

 

Il giardino dell’umano: mentoring, coaching e counseling

Nel capitolo 1 de Il giardino dell’umano, viene proposta una descrizione degli inquadramenti teorici che sostengono i diversi approcci culturali del counseling organizzativo.

Esistono differenze significative tra mentoring, coaching e il counseling.

Il mentoring nasce nel contesto universitario ed è quell’attività di sostegno culturale-scientifico (nelle università) o professionale (nelle aziende) che un esperto in un dato campo culturale/professionale trasmette ad un collega junior, aiutandolo ad apprendere determinate competenze grazie al lavoro di affiancamento che svolgono insieme. Il mentoring si basa pertanto sull’accettazione di una modalità di supporto gerarchica, in cui una persona riconosce la maggiore competenza culturale dell’altra e gli si affida proprio per questo.

Il coaching nasce nell’ambito sportivo (Gallway, 1974) ed è poi stato traslato nel management; è una modalità di sostegno individualizzato, finalizzato a migliorare un qualche tipo di performance manageriale. Nel coaching il cliente (coachee) è in rapporto paritario con il coach.

Il counseling, come sappiamo, nasce nel campo socio-formativo (Parsons, 1906) e rappresenta una relazione d’aiuto non direttiva in cui il counselor facilita l’empowerment del cliente mediante un’esplorazione della criticità che il cliente porta e della successiva individuazione di risorse personali da poter utilizzare per far fronte al problema e identificare delle soluzioni possibili.
Il counseling di gruppo riesce a stimolare aspetti cognitivi ed emozionali in misura diversa e più efficace di altre modalità, va a costruire un autenico sviluppo personale all’interno di un processo di crescita fondato sulla consapevolezza e sulla padronanza delle proprie risorse cognitive, corporee ed emotive, in un’ottica di potenziamento complessivo della persona rispetto alle situazioni attuali e future.

L’individualizzazione fonte di tensione

Nel capitolo 2 si affronta la questione del rapporto tra persone e organizzazione mettendo al centro la questione dell’individualizzazione come fonte di tensioni di difficile gestione.

Il punto centrale dello schema di intervento riguarda necessariamente la correlazione dell’azione individuale con il contesto. Lo schema indica da un lato l’agency – l’agire, i flussi delle condotte individuali – dall’altro la structure – l’insieme delle regole e delle risorse nonché dei condizionamenti e delle facilitazioni che il contesto offre all’agency. (Giddens, 1991, 1994)

La crescita individuale all’interno del gruppo avviene sulla base di una varietà di pratiche e interazioni che consentono ai partecipanti di riconoscere ed elaborare i propri vissuti, i propri pensieri e comportamenti, ed evolvere scoprendo nuovi nessi e significati, in se stessi e nella relazione con gli altri.

Il counseling e la trasformazione interiore

Nel capitolo 3 de Il giardino dell’umano, vengono proposte alcune riflessioni inerenti al processo di trasformazione interiore che il counseling organizzativo si propone di favorire.

Per ‹conoscere› la realtà non puoi starne fuori e definirla; devi entrarci dentro, esserla, sentirla. (Alan W. Watts)

La dimensione più importante di lavoro è l’ascolto profondo nei gruppi, che consente ai partecipanti di osservare onestamente se stessi, quindi sperimentare nuove parti di sé. Ascoltare profondamente, significa incontrare gli altri con curiosità, sospendendo il giudizio e creando spazio per il nuovo.

L’ascolto nel counseling di gruppo rappresenta quindi la leva grazie alla quale il singolo e il gruppo nel suo insieme progrediscono gradualmente verso una maggiore autenticità e intimità. Quando il gruppo in counseling sviluppa una qualità di ascolto profondo, i partecipanti scoprono una diversa capacità di lavorare insieme.

Essere consapevoli, in ascolto, presenti a ciò che stiamo vivendo, ci permette di accedere ad una conoscenza più ampia di noi stessi e della realtà, consentendo a idee e intuizioni di emergere.

La dimensione dell’accettazione ci permette infine di attuare il cambiamento. La dimensione spirituale in ultimo vede la ricerca di “scopo” spesso coincidere con un’evoluzione dello sguardo, un ampliamento della visione che consente di riconoscere l’interconnessione che lega tutte le cose e favorisce un contatto più ricco con ciò che viviamo.

Il counseling di gruppo organizzativo si configura anch’esso come metodologia principalmente dedicata a una trasformazione profonda che coinvolge l’atteggiamento mentale (mindset) della persona, il suo approccio nelle differenti situazioni di vita e relazione, sulla base di un modello di lavoro basato sulla sperimentazione e sull’apprendimento riflessivo.

Il giardino dell’umano: le attività per i gruppi

Nel capitolo 4 de Il giardino dell’umano, viene proposta un’esemplificazione di “attività possibili” da realizzare nei gruppi di counseling organizzativo, qui sintetizzata genericamente per punti:

  1. Analisi della domanda: ascolto delle esigenze tramite questionari strutturati, focus group o colloqui individuali
  2. Progettazione di un percorso di counseling di gruppo attraverso un disegno generale del percorso, la composizione dei gruppi e una suddivisione in ulteriori sottogruppi così da facilitare i processi di approfondimento, esplorazione, presa di decisione e creatività. La durata dell’intervento va da un minimo di tre ad un massimo di dieci incontri
  3. Il processo di counseling deve continuamente accogliere, stimolare, sostenere il gruppo e i suoi componenti
  4. L’intervento di counseling è stato efficace se le risposte dei partecipanti vengono in maniera continuativa stimolate ponendo domande sul livello di gradimento e soddisfazione del percorso. Anche i lavori dei partecipanti e i feedback dati al commitente rappresentano uno strumento di rilevazione di efficacia del percorso.

Nel capitolo 5 de Il giardino dell’umano, viene compiutamente descritta l’esperienza realizzata in Sogei S.p.A.

Il capitolo 6 del libro amplia le considerazioni e gli esempi a livello internazionale, permettendo al lettore di comprendere quanto lo strumento si stia diffondendo e con quali modalità ed obiettivi.

Il percorso di counseling di gruppo in un’organizzazione integra una gestione tradizionale, aperta e consapevole del gruppo-cliente con molteplici attività esperienziali finalizzate a stimolare la partecipazione emotiva, cognitiva e corporea dei membri del gruppo.

Il fine ultimo è lo sviluppo di una sana consapevolezza della persona rispetto alle scelte di vita che possano facilitare il raggiungimento e il mantenimento del benessere.

La gentilezza, in tutti i suoi aspetti, può diventare una straordinaria avventura interiore che cambia in modo radicale la nostra maniera di pensare e di essere e ci fa fare molti passi avanti nella nostra crescita personale e interiore […] sembra una cosa da niente, un peso leggero, invece è un fattore centrale nella nostra esistenza perlomeno se la intendiamo nel significato esteso della parola. Ha un sorprendente potere di trasformarci, forse più di qualsiasi altro atteggiamento o di qualsiasi tecnica di cui veniamo in possesso (Ferrucci, 2004, p. 9).

L’epoca degli attacchi di panico

Il panico è un sintomo, un’emozione, uno stato mentale o una condizione dell’anima o qualcosa di tutto questo assieme. Dipende da esperienze precoci di separazione e di perdita oppure si tratta di una valutazione -a suo modo razionale- fatta dalla mente nel qui e ora del presente.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su linkiesta il 06/10/18

 

Possiamo gestirla controllandola razionalmente o accettandola saggiamente oppure subirla in uno stato di completa impotenza emotiva. Impotenza che è diminuita nel corso delle epoche storiche man mano che ci si liberava di vecchi modi di pensare magici e religiosi, ma che va incontro a inevitabili ritorni nell’irrazionale anche nella modernità. L’umanità ha progredito nella sua evoluzione da una condizione di scarso controllo degli istinti e degli stati mentali emotivi e impulsivi a forme di autocontrollo psicologico, sociale e culturale sempre più estese. Il fenomeno non è recente: il grande Pan è morto, scrisse una volta Plutarco in una delle sue prose più note, Sul Tramonto degli Oracoli. Così scriveva Plutarco:

(Epiterse) mi raccontò che una volta, navigando verso l’Italia, si era imbarcato su una nave che trasportava merci con molti passeggeri a bordo. Di sera, quando già si trovavano presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave, trascinata dalla corrente, giunse nei pressi di Paxos; la maggior parte dei passeggeri era sveglia, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo. All’improvviso si sentì una voce dall’isola di Paxos, come di uno che chiamasse a gran voce Thamus, tanto che restarono sbalorditi. Thamus era un pilota egiziano, ma a molti dei passeggeri non era noto per nome. Chiamato per due volte, dunque, lui stette zitto, ma alla terza rispose a chi chiamava; e quello, alzando il tono di voce, disse: “Quando sarai a Palodes, annuncia che il grande Pan è morto”

La morte del dio Pan andava insieme alla crescente incredulità degli antichi verso gli oracoli, i miti, le credenze magiche, le feste pagane, e così via. La storia di Plutarco avvenne durante il regno di Tiberio imperatore, tra il 14 e il 37 dopo Cristo. Un’epoca di crescente scetticismo filosofico? D’illuminismo culturale? Certo, ma anche di conversione degli animi verso nuove fedi, nuovi timori e nuove forme di panico. Secondo Eusebio di Cesarea, la morte di Pan era la fine di un’oscura era pagana, che cedeva all’inizio di un nuovo mondo sotto la luce di Cristo, morto appunto sotto l’impero di Tiberio.

Forse lo stesso avviene in questi tempi di crescente scetticismo in cui però l’incredulità non è solo manifestazione di pensiero critico ma sembra colorarsi d’irrazionalità. La perdita di fiducia nella scienza, per esempio nel caso dei vaccini, non avviene in nome di una fede irrazionale ma nel nome di una forma estrema di scetticismo che somiglia a una caricatura della scienza stessa. In fondo non si tratta altro che di un’applicazione estrema del principio del dubbio: puoi garantirmi che i vaccini …? E chi lo ha detto che i vaccini …? E così via. Il principio del dubbio divora se stesso e ci rende più consapevoli che non possiamo passare il nostro tempo a dubitare di tutto e che un minimo fede ci tocca, se non altro per vaccinarci.

E poi pare che tutto questo abbia un’origine molto emotiva. Gli studi di psicologia dello sviluppo infantile correlano sempre più la suscettibilità al panico alle esperienze precoci di separazione dai genitori, soprattutto dalla madre. Un elegante esperimento condotto dall’equipe scientifica del prof. Marco Battaglia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, ha trovato un interessante risultato. Ha dimostrato un rapporto tra panico e ansia da separazione, ovvero l’ansia eccessiva che coglie alcune persone al momento di lasciare la propria casa o di separarsi da persone a cui è particolarmente attaccato: genitori, parenti, educatori, perfino amici.

Conta ancora di più l’eleganza dell’esperimento di Battaglia e quel che ci racconta. Battaglia e i suoi ricercatori hanno lavorato su cucciolate di roditori, sapendo che questi animali mostrano un livello di cura per la prole paragonabile a quello dell’uomo: la femmina del roditore non solo nutre ma coccola all’inverosimile i propri cuccioli. Il colpo di genio dei ricercatori è stato fare qualcosa di diverso dai soliti esperimenti di separazione, così dolorosi per i poveri animali. Si sono limitati a sostituire ogni 24 ore le madri di ogni cucciolata. Nel primo giorno c’era la madre biologica, dal secondo giorno in poi prendevano il suo posto una serie di madri adottive, una al giorno per un po’ fino alla ricomparsa della madre biologica. Il colpo di genio dell’esperimento risiede nel fatto che queste madri adottive, per la natura intensamente affettiva del comportamento genitoriale dei roditori, erano altrettanto affettuose della madre biologica del primo giorno. E anch’esse, come le madri biologiche, allattavano i piccoli.

Ebbene, l’affettività delle madri adottive non bastava. I cuccioli trattati a questa maniera manifestavano comportamenti animali in qualche modo associabili a una reazione umana di panico: più vocalizzazioni ultrasoniche, risposte iperventilatorie più pronunciate (maggiore volume corrente e incrementi di volume minuto) all’esposizione all’aria arricchita di CO2 e maggiore avversione verso gli ambienti arricchiti di CO2 rispetto agli individui normalmente allevati.

Insomma, almeno in questi roditori non bastava l’affetto delle madri adottive, i cuccioli “volevano” la madre biologica. Risultato interessante. Ci dice forse qualcosa per questi nostri tempi così pieni di timor panico (in questi giorni le cronache giornalistiche sembrano interessate al problema) e al tempo stesso così pieni di scetticismo e incredulità? Forse che si, forse che no. Forse abbiamo bisogno di maggiore conforto in qualcosa di radicato e di incontrovertibile come l’origine biologica oppure forse no, ormai non ne abbiamo più bisogno e ce la caviamo così, non attaccati a nulla e affezionati a tutto, e con qualche attacco di panico in più col quale convivere.

Burrhus Skinner: il padre del condizionamento operante – Introduzione alla Psicologia

Burrhus Skinner è stato uno dei più influenti psicologi del XX secolo nell’ambito del comportamentismo. Il suo principale interesse fu comprendere come il comportamento umano varii in relazione alle diverse modificazioni ambientali. Per questo divenne il padre del paradigma del condizionamento operante.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Burrhus Skinner: la vita

Burrhus Frederic Skinner nacque nel 1904 in una piccola cittadina della Pennsylvania, Susquehanna. Suo padre era un avvocato, sua madre una casalinga e suo fratello minore morì all’età di 16 anni per un aneurisma cerebrale.

Burrhus Skinner frequentò l’Hamilton College a New York con l’intento di diventare scrittore, ma, presto, si rese conto di non essere molto interessato all’ambito in questione, poiché era più avezzo a descrivere e analizzare il comportamento umano. Nel 1927, Skinner decise di dedicarsi allo studio della psicologia ad Harvard e nel 1931 conseguì il Dottorato di Ricerca in Psicologia. Successivamente, iniziò a insegnare prima ad Harvard e poi presso l’università del Minnesota, dove divenne presidente del dipartimento di psicologia.

Nel 1948 ritornò ad Harvard dove rimase per il resto dei suoi anni. Nel 1973 Burrhus Skinner fu uno dei firmatari dello Humanist Manifesto II e fu autore di molti lavori, tra cui il Beyond Freedom, Dignity e il Walden. Nel 1990 gli fu conferito il Lifetime Achievement dall’American Psychology Association, l’Outstanding member, nel 1991 il Distinguished Professional Achievement Award, dalla Society for Performance Improvement, e, il più importante, nel 1997 lo Scholar Hall of Fame Award dall’Academy of Resource and Development.

Skinner morì nel 1990 a causa di una leucemia.

Burrhus Skinner: il contributo teorico

Burrhus Skinner partì approfondendo gli studi condotti da Edward Lee Thorndike, in particolare la legge dell’effetto e introdusse un nuovo concetto: il rinforzo. Secondo Skinner l’apprendimento avviene per prove ed errori e si attua seguendo la Legge dell’Effetto, per cui si instaura la connessione tra uno stimolo e una risposta. La risposta, se attrattiva, ha come effetto una conseguenza piacevole o positiva e il soggetto tende a ripetere il comportamento. Se, invece, la risposta è avversiva ha come effetto una conseguenza sgradevole o negativa e il soggetto tende ad abbandonare il comportamento. 

Attraverso la realizzazione di quello che divenne il suo maggiore esperimento, denominato “Skinner box”, affermò l’importanza di questo concetto.

Lo Skinner Box consiste nell’osservare il comportamento di un topo all’interno di una gabbia, nella quale è presente una leva che se premuta rilascia cibo. Il topo all’inizio dell’esperimento tende a girare casualmente per osservare l’ambiente, ma ad un certo punto spinge, per caso, la leva e ottiene del cibo. La prima volta in cui ciò accade, il topo non si rende conto della connessione tra leva e cibo, ma dopo vari tentativi capisce la connessione e di conseguenza inizia a premere continuamente la leva per ottenere cibo finché non avrà soddisfatto totalmente la sua fame.

Burrhus Skinner definì questo processo rinforzo. Il rinforzo, dunque, è un processo per cui uno stimolo aumenta la probabilità che un comportamento precedente, messo in atto, possa essere ripetuto. Il cibo invece è chiamato rinforzatore ed è uno elemento che aumenta la probabilità che un comportamento sia ripetuto.

Uno stimolo può diventare un rinforzatore solo se assolve a una serie di preferenze individuali. I rinforzatori, inoltre, possono essere primari e secondari. I primari soddisfano bisogni biologici e operano in modo naturale, come ad esempio il cibo soddisfa la nostra fame; i secondari diventano rinforzanti in seguito ad un’associazione con un rinforzatore primario, ad esempio il denaro è utile in quanto ci permette di acquistare del cibo.

I rinforzatori hanno la stessa funzione della ricompensa, ovvero entrambi aumentano la probabilità che un comportamento possa essere ripetuto. Esiste però una sostanziale differenza che li distingue: la ricompensa riguarda eventi unicamente positivi, i rinforzatori includono anche quelli negativi.

Il rinforzatore positivo, dunque, è uno stimolo aggiunto all’ambiente che aumenta la probabilità di ripetere un comportamento precedente. Il rinforzatore negativo, invece, è uno stimolo spiacevole la cui rimozione aumenta la probabilità di ripetere un comportamento.

La punizione, al contrario, diminuisce le probabilità che un comportamento possa ripetersi. La punizione, dunque, è in grado di indebolire una risposta mediante l’applicazione di uno stimolo spiacevole o la rimozione di qualcosa di piacevole.

La punizione, dunque, rappresenta la strada più immediata per modificare un comportamento.

Le applicazioni pratiche del contributo di Skinner

Partendo dalla teoria di Burrhus Skinner e sulla base della frequenza e del timing del rinforzo sono stati messi a punto dei programmi di rinforzo in cui si distinguono due tipologie:

  • Programma di rinforzo continuo che consiste nel rinforzare il comportamento ogni volta che viene emesso;
  • Programma di rinforzo intermittente che consiste nel rinforzare il comportamento alcune volte ma non ogni volta che viene emesso.

Un comportamento, dunque, è appreso più facilmente se esposto a un rinforzo continuo, ma è soggetto ad un’estinzione più precoce. Al contrario, con un rinforzo intermittente l’apprendimento è più lento, ma più duraturo nel tempo.

Sono stati esaminati differenti programmi di rinforzo intermittente, essi possono essere ripartiti in due categorie:

  • Programmi che considerano il numero di risposte emesse, prima che venga somministrato il rinforzo. Si possono distinguere in programmi a rapporto fisso, dove il rinforzo è somministrato in seguito a uno specifico numero di risposte, e a rapporto variabile, dove è somministrato il rinforzo in base alla media delle risposte.
  • Programmi che considerano l’intervallo di tempo che trascorre prima che sia fornito il rinforzo. Si distingue in programmi a intervallo fisso, dove il rinforzo è fornito dopo un determinato intervallo di tempo, e a intervallo variabile, dove l’intervallo di tempo tra i rinforzi varia intorno alla media invece di essere fisso.

Tali programmi sono spesso utilizzati durante le normali pratiche di apprendimento in diversi ambiti che variano da quello sportivo a quello musicale, in ambito educativo, per il trattamento di disturbi della condotta e nel trattamento delle dipendenze.

L’uso delle sostanze può essere letto come una forma di un condizionamento operante, in cui la ripetuta associazione tra assunzione di sostanze (risposta comportamentale) e attivazione del sistema della ricompensa (rinforzo positivo) può portare prima all’aumento della risposta comportamentale, cioè l’uso di sostanza.

Secondo la terapia comportamentale, la gestione della contingenza è volta a cambiare la struttura di rinforzo che porta ad assumere la sostanza. Ciò è possibile erogando rinforzi positivi come conseguenza dell’astinenza o di comportamenti che possono competere con l’uso della sostanza e, quindi della dipendenza.

In concreto un intervento di gestione della contingenza nelle dipendenze può prevedere un controllo frequente delle urine, per verificare l’astinenza, e l’immediato rinforzo contingente per ogni campione negativo o pulito.

Gli psicologi cognitivi comportamentali utilizzano spesso il condizionamento per indurre i pazienti al cambiamento.

Un esempio di attuazione del condizionamento operante lo si può osservare nei disturbi d’ansia. Ad esempio un individuo per non sperimentare ansia mette in atto strategie di coping, che gli forniscono un’immediata ricompensa non facendogli provare questa emozione. Le tecniche usate per gestire l’ansia da parte del paziente sono: la risposta di fuga, che consiste nell’allontanamento dalla situazione dopo l’esperienza negativa; la risposta d’evitamento che riduce la probabilità un’ulteriore punizione.

Queste ultime diventano, alla lunga, disfunzionali ma resistenti in quanto portano alla diminuzione dell’ansia provocata dalla presenza di stimoli spiacevoli per l’individuo.

L’evitamento, presente nelle fobie, rende molto difficile l’eliminazione spontanea della paura, in quanto non porta la persona ad affrontare attivamente lo stimolo ansiogeno. Quando, al contrario, nell’ambiente mancano le possibilità che inducono all’evitamento, si verifica un senso d’impotenza appreso (learned helplessness), che è alla base della formazione della depressione.

Nel momento in cui queste strategie di coping disfunzionale vengono interrotte all’interno di un precorso terapeutico, l’ansia va incontro ad processo di estinzione che si attua attraverso una gestione della stessa.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Il paradigma teorico metacognitivo e i suoi sviluppi clinici – Congresso SITCC 2018

Il paradigma teorico metacognitivo e i suoi sviluppi clinici

Gabriele Caselli, Giovanni M. Ruggiero, Sandra Sassaroli

 

 

Finestre sul futuro. Fondamenti di Psicologia Digitale (2018) – Recensione del libro

Finestre sul futuro. Fondamenti di Psicologia Digitale si colloca tra i primi contributi di un settore emergente, la Psicologia Digitale. Quest’ultima è un’area di ricerca e intervento che analizza l’effetto dei nuovi media sul funzionamento mentale, comportamentale e relazionale di tutti noi

 

La Psicologia Digitale analizza gli effetti dei nuovi media ma non si focalizza necessariamente sulle connotazioni patologiche e applica queste conoscenze anche alla creazione e all’utilizzo di nuovi strumenti che possano coadiuvare e affiancare il clinico nella sua attività con pazienti con diversi tipi di problematiche, oltre che promuovere la conoscenza e l’importanza del benessere psicologico.

Finestre sul futuro: i temi trattati dal libro

Si tratta di tool flessibili che si adattano ai diversi approcci ed interpretazioni: la loro forza risiede non nelle loro premesse teoriche formali quanto nel fornire un mezzo adattabile e versatile. Sebbene l’approccio cognitivo comportamentale si sia dimostrato il modello più adattabile, probabilmente perché già di per sé strutturato, anche approcci psicoanalitici possono trarne beneficio, un esempio fra tutti riguarda le sessioni ipnotiche online.

Questo libro ci propone in modo snello e sintetico un cammino nel mondo digitale che si sviluppa lungo due filoni: da un lato Barbato e Di Natale ci raccontano e spiegano da dove nascono e come si sono sviluppati realtà virtuale e intelligenze artificiali, con brevi excursus sulla loro storia ed evoluzione; dall’altro approfondiscono questi temi in maniera molto concreta e pratica analizzando gli interventi e gli strumenti psicologici e psicoterapeutici online ora a disposizione dei clinici, in particolare e-therapy, realtà virtuale (VR) e intelligenza artificiale (IA). Proprio questi ultimi sono il focus su cui si concentra il libro.

La Psicologia Digitale e l’e-therapy

L’e-therapy, termine con il quale ci si riferisce agli interventi psicoterapeutici web-mediati, non sostituisce la terapia vis à vis né si è mai proposta di aspirare a modello terapeutico esclusivo. Quello che sottolineano Barbato e Di Natale è che a fronte di alcuni anni in cui il dibattito sulla sua valenza si è focalizzato su una contrapposizione tra quest’ultima e la terapia face-to-face, si è ora passati a evidenziare che l’e-therapy permette l’avvicinamento, la sensibilizzazione e l’educazione su diversi fronti. Utilizzare una realtà mediata dal computer permette infatti di raggiungere persone che prima non erano a conoscenza di un’opportunità terapeutica o diffidenti circa il reale beneficio che possono trarne, oppure, dato che l’e-therapy permette di abbattere barriere fisiche e materiali (dato che è fattibile praticamente in qualsiasi luogo e a costi ridotti), consente di raggiungere persone con limitata capacità di spostamento o poco abbienti. Non da ultimo la possibilità di praticarla in luoghi più riservati rispetto a centri clinici o studi elude lo stigma sociale che purtroppo ancora si associa a chi si rivolge al “medico dei pazzi”, permettendo anche a chi si sentirebbe a disagio per il solo fatto di essere in terapia di non avere questo ostacolo. In generale, gli strumenti più utilizzati vanno dalle email alle chat, a Skype o MSN; proprio alle forme di comunicazione scritta Finestre sul futuro. Fondamenti di Psicologia Digitale dedica un approfondimento in cui sono spiegate le possibili problematiche e vengono forniti suggerimenti pratici su come preservare la prestazione terapeutica senza dimenticare la tutela della privacy, tema sensibile su cui è bene tenersi sempre aggiornati soprattutto quando vengono coinvolte forme di comunicazione mediata che aprono nuovi scenari (si pensi ad esempio al fatto che software come Skype conservano automaticamente le nostre conversazioni).

Per disciplinare e dare agli iscritti dei mezzi per meglio comprendere ed utilizzare le potenzialità del mondo virtuale, l’Ordine degli Psicologi lo scorso anno ha pubblicato per la prima volta delle Linee Guida (Digitalizzazione della professione e dell’intervento psicologico mediato dal web, CNOP 2017) che offrono agli psicologi delle raccomandazioni su come praticare al meglio l’intervento psicologico digitalizzato.

Finestre sul futuro: le potenziaità della realtà virtuale

La realtà virtuale (VR) poi può essere considerata quasi un medium a sé, caratterizzato da senso di presenza, immersività e trasparenza. Senso di presenza che si riassume nella capacità di mettere in atto delle intenzioni motorie, la percezione di un ambiente vivido e reale e la percezione di elementi significativi e rilevanti: in definitiva la sensazione di essere realmente all’interno di questo ambiente. La VR è un medium immersivo e trasparente perché l’esperienza virtuale è così coinvolgente e ‘avvolgente’ che la persona dimentica l’esistenza del medium stesso ed è completamente immersa a livello sensoriale e percettivo nel mondo virtuale.

Il termine realtà virtuale si riferisce ad un ambiente tridimensionale virtuale, quindi generato dal computer, in cui i soggetti possono interagire con l’ambiente come se fossero realmente in esso. L’interazione rappresenta l’utente come parte attiva della sua esperienza e gli consente di sperimentare in un ambiente sicuro situazioni che egli stesso percepisce come reali in ambienti che hanno le stesse caratteristiche degli ambienti reali. Proprio la validità ecologica è uno dei vantaggi fondamentali della VR, oltre alla sua flessibilità, date le infinite possibilità di simulazioni e alla registrazione delle esperienze utile soprattutto per analizzare i dati.

I campi di applicazione, secondo Barbato e Di Natale sono molteplici perché la VR permette di praticare protocolli di intervento controllati, adattati alle specificità del singolo paziente e gli stimoli possono essere presentati gradualmente secondo necessità. Ci sono evidenze che sia un valido aiuto nel trattamento di diversi disturbi, da quelli di ansia, a quelli alimentari fino ad arrivare agli ambiti dello sport e della riabilitazione neuropsicologica.

Finestre sul futuro: le intelligenze artificiali

Infine, Barbato e Di Natale dedicano altro spazio del libro Finestre sul futuro. Fondamenti di Psicologia Digitale alle intelligenze artificiali (IA). Probabilmente si fa prima a fare degli esempi delle sue applicazioni che a definirla (si pensi ai dispositivi wearable per esempio), ma in breve possiamo dire che per IA si intende un qualsiasi hardware o software che svolge compiti tipicamente umani. Tali compiti possono essere dominio specifici (IA debole), per cui l’IA replica molto bene solo un singolo aspetto dell’intelligenza umana, oppure ad un livello superiore l’IA (detta in questo caso forte) può replicare le abilità cognitive umane necessarie alla risoluzione di compiti nuovi e non familiari, attività di problem solving tipicamente umana. Le applicazioni in ambito clinico più recenti sono i chatbot come Woebot, ovvero IA con le quali un utente può interagire in chat tramite apposita App o Messenger di Facebook. Il vantaggio è che sono disponibili sempre e ovunque, naturalmente vanno visti più come un supporto in un momento di emergenza che come strumenti terapeutici in sé.

E-therapy, VR e IA sono strumenti utili che possono supportare il clinico nel suo dialogo col paziente e che non potranno mai sostituirsi ad esso.

Lo psicologo contemporaneo dovrebbe avere un atteggiamento di apertura e consapevolezza nei confronti di questi tool e dei nuovi media, di conoscenza e approfondimento circa le nuove opportunità di oggi e di domani, senza sottovalutare quanto nella pratica professionale sia necessario essere al passo con le trasformazioni culturali e sociali come quella che ci sta portando l’evoluzione digitale.

Condivisione e cooperazione: sono contagiose?

Il fenomeno della condivisione e della cooperazione si presenta in varie forme; può comprendere il donare il sangue, la condivisione di servizi, il fare beneficienza e molto altro. Inoltre, tutto questo “dare” è fatto senza aspettarsi un ritorno personale. Può essere contagioso?

 

Gli studiosi del settore hanno cercato di comprendere come questo fenomeno si generi, conducendo uno studio durato sei anni ad Hadza, in Tanzania, su una popolazione locale di cacciatori-raccoglitori.

Condivisione e cooperazione: uno stile di vita

I ricercatori hanno scelto la Tanzania poiché la popolazione ha uno stile di sussistenza simile a quello dei nostri antenati, dove la condivisione del cibo è fondamentale per la sopravvivenza. Questo è uno stile basato sulla caccia e la raccolta, la cui analisi permette di ottenere informazioni su come avviene la cooperazione.

Gli studiosi, per portare avanti questa ricerca, hanno osservato per sei anni 56 campi di coltivazione. Sono stati coinvolti circa 400 adulti, ad ognuno è stato chiesto di eseguire un gioco in cui dovevano decidere se assegnare a se stessi o agli altri, appartenenti al proprio gruppo di riferimento, una tipologia di cibo tipica del luogo.

Dai risultati si evince come la popolazione di Hadza sia disposta a cooperare e condividere, anche se questo comportamento si modifica con il passare del tempo. Infatti già dopo due mesi questa tendenza variava in relazione al gruppo di appartenenza in cui il soggetto era inserito in quel momento. Inoltre gli individui non manifestavano nessuna preferenza nel vivere con persone più cooperative o meno. Quindi la volontà individuale cambia nel tempo, al fine di corrispondere a quella del gruppo di appartenenza. Pertanto, le norme e il comportamento del gruppo determinano i gradi di maggiore o minore cooperazione.

Concludendo, possiamo ritenere che la flessibilità della cooperazione agisce sui comportamenti positivi e li modifica: ad esempio la generosità diventa contagiosa per tutti coloro che fanno parte del gruppo di appartenenza.

 

Bullismo: gli effetti sugli spettatori

La continua sensibilizzazione sul fenomeno del bullismo ha portato ad una maggiore attenzione, da parte degli adulti, alle dinamiche che lo sottendono. Nonostante questo, gli episodi di bullismo sono molto frequenti tra i giovani e in alcuni casi possono avere conseguenze tragiche, non solo sulla vittima ma anche sugli spettatori.

 

Molti studi hanno preso in considerazione gli effetti negativi sulla vittima di bullismo, ma meno studi hanno indagato gli effetti sugli spettatori.

Bullismo: ne soffre anche lo spettatore

A tal proposito, uno studio condotto da Michel Janosz della School of Psycho-Education di UdeM e il suo team internazionale, ha indagato gli effetti che l’essere esposti a situazioni di bullismo ha sugli spettatori. La ricerca ha coinvolto quasi quattromila studenti delle scuole superiori del Quebec, al fine di indagare la relazione tra l’esposizione a episodi di bullismo e il successivo comportamento antisociale (uso di droghe, delinquenza), disagio emotivo (ansia sociale, sintomi depressivi) e adattamento all’ambiente scolastico (rendimento accademico, coinvolgimento).

I ricercatori hanno anche messo in relazione il contributo delle diverse forme di violenza, messe in atto all’interno del contensto scolastico, con l’emergere di un particolare disagio a lungo termine.

La co-autrice Linda Pagani, anche lei professoressa presso la School of Psycho-Education, ha affermato che assistere a episodi di violenza può avere delle ricadute negative a lungo termine, e che gli effetti sugli spettatori erano molto simili a quelli alla vittima che subisce direttamente la violenza.

Bullismo: i risultati dello studio

Da questo studio sul bullismo emerge che essere testimoni delle violenze più gravi, come aggressioni fisiche e trasportare armi, è associato a un successivo uso di droghe e delinquenza. L’effetto era lo stesso per la continua esposizione a violenza nascosta o velata, come furto e vandalismo. D’altra parte, l’esposizione a eventi di violenza minore, come minacce e insulti, era associata ad aumenti nell’uso di droghe, ansia sociale, sintomi depressivi e diminuzione dell’impegno e nel coinvolgimento scolastico.

Janosz ha riportato che la maggior parte degli studenti che hanno preso parte alla ricerca, hanno riferito di aver assistito a episodi di violenza. Janosz sostiene l’importanza di interventi volti alla prevenzione che includano non solo le vittime ma anche gli spettatori e che prendano in considerazione non solo episodi di violenza fisica, ma tutte le forme di violenza che avvengono all’interno dei contesti scolastici.

 

La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico (2017) – Recensione del libro

La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico è un testo a cura di Marcellino Vetere che ha lo scopo di aiutare i clinici nell’intervento con le famiglie ricomposte (famiglie create a seguito di separazioni o lutti), oggi sempre più numerose e con dinamiche e tematiche specifiche da affrontare in terapia.

 

A partire da una mancanza si possono trovare soluzioni nuove. Mancanza di valori, modelli culturali, norme e codici sociali per le famiglie ricomposte (famiglie create a seguito di separazioni o lutti). Mancanza di interventi adeguati per i clinici. A partire da quello che non c’è si può iniziare a costruire. Per noi terapeuti significa progettare strumenti e tecniche da inserire nella famosa “cassetta degli attrezzi”; per i componenti delle famiglie ricomposte significa dare un senso alla propria storia e inquadrarla in un presente meno nebuloso.

Questo, come riportato da Marcellino Vetere in La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico, unisce clinici e pazienti nel percorso terapeutico familiare descritto nel volume.

La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico è un testo utile a colmare quel vuoto, per evitare la paralisi che sentiamo a seguito della sofferenza legata al senso di inadeguatezza e alla confusione. I colleghi ci aiutano a camminare, ci prendono la mano e ci accompagnano nel percorso per poter poi fare noi lo stesso con i genitori biologici e acquisiti che si presentano in studio.

Struttura e obiettivi del libro

Nel testo gli autori offrono suggerimenti già per il primo contatto telefonico e aggiungono uno strumento non molto comune per i libri: videoregistrazioni. Oltre al classico testo scritto si accede tramite web ad alcuni video dove i terapeuti ripropongono un caso clinico reale. Si restituisce così alla comunicazione non verbale il posto privilegiato che merita. Il libro La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico è innovazione in tutto e per tutto, utilizza canali comunicativi di questa generazione e parla di una realtà attualissima, di un cambiamento sociale in atto che è ormai impossibile non tenere in considerazione.

Nella famiglia ricomposta il contesto plurinucleare sembra centrale nelle problematiche di coppia o dei figli. Nel primo video questo è estremamente chiaro quando il terapeuta si alza dalla sedia e fa spostare la coppia (in terapia per un tradimento) davanti ad una lavagna quando percepisce che si sta parlando di precedenti matrimoni. Il collega, con i suoi pennarelli colorati, inizia a tracciare il complesso sistema familiare con il disegno genografico. La rappresentazione è necessaria poiché “di solito, le coppie, nel riportare il disagio che vivono, tenderebbero ognuno ad attribuirne la causa al carattere dell’altro e/o al diminuito amore. La rappresentazione grafica rende drammaticamente evidente quanta influenza possa essere, invece, attribuita al fatto che anche i rispettivi partner provengono da precedenti nuclei familiari o vanno a costruirne di nuovi.”

Il testo vuole sottolineare che il trattamento con le famiglie ricomposte si muove da basi completamente differenti rispetto ad una famiglia tradizionale. Come precisano gli autori la famiglia ricomposta è “seduta su una polveriera” e ha sulla testa una “spada di Damocle”. La famiglia tradizionale non ha alla base le ceneri della separazione e del lutto e non incombe, costante, il timore di una nuova rottura.

Materie quali la sociologia, la psicologia sociale e l’antropologia, a mio avviso, possono essere un supporto fondamentale in questo percorso di ricostruzione di una mancanza terapeutica sottovalutata. Parlare di famiglie ricomposte significa porre l’attenzione su argomenti come le rappresentazioni sociali, i miti, i pregiudizi, gli stereotipi e i riti di passaggio, che non possono essere sottovalutati.

Un aspetto importante: la gestione dei figli

Tra i vari punti che il libro La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico prende in considerazione sento di porre l’attenzione su un ultimo importante aspetto: la gestione dei figli. Qui, oltre ai classici problemi che possono avere i genitori biologici, abbiamo genitori acquisiti che hanno a che fare con la gestione di rapporti complessi e aspettative non chiare.

L’ambiguità di ruolo infatti è uno dei problemi maggiori in quanto, in Italia, da una parte non ci sono obblighi legali ma dall’altra le implicazioni emotive e la quotidianità dicono l’esatto opposto. Gli studi dimostrano che per le donne questa difficoltà è ancora più grande poiché “si chiede a queste donne (e queste chiedono a se stesse) di adempiere ad un compito paradossale: amare dei figli che non hanno partorito e non hanno visto crescere “come se” fossero propri senza però amarli troppo”. In aggiunta a questo anche i genitori acquisiti affrontano il dolore della perdita che si esplicita nella rinuncia alla propria libertà, intimità, quotidianità per essere inseriti, a volte, in una casa non propria in cui sentirsi un “ospite” e/o “intruso”.

Mentre leggevo il libro ho pensato che per il genitore acquisito (specialmente quello che non ha figli biologici) stare nella famiglia ricomposta, è come giocare ad uno sport di squadra senza assolutamente conoscerlo. Pensando ad un amico mi è venuto in mente il basket.

Ecco come la vedo. Vieni inserito in una squadra di basket. Sei stato preso e ne sei felice. Impaurito a tratti perché ti sbattono dentro senza libretto di istruzioni e, come accennato, tu non hai mai giocato. Palleggi, tiri la palla… ma poi non capisci perché l’arbitro fischia e fischia e dopo cinque falli, cavolo sono già cinque, sei espulso. Non avevi capito, per esempio, che non potevi toccare la mano del giocatore avversario quando era in possesso della palla. E se ci rifletti non sapevi nemmeno in che ruolo giocavi. E poi, mentre sei solo negli spogliatoi con le lacrime agli occhi, pensi che forse non sentivi nemmeno di appartenere a quella squadra… in quale eri effettivamente? Di che colore era la tua maglia?

Ma da tutta questa confusione si può uscire. Ce lo insegnano Vetere e colleghi. Basta cercare un buon allenatore che ti spieghi chi sei, che potenziale hai, il tuo ruolo, quello che puoi fare e ciò che è meglio evitare. E per illustrarti meglio e fare chiarezza inizia con strumenti semplici: lavagna e pennarello. E con quegli schemi le cose appaiono più chiare… sai dove sei collocato, a chi è meglio tirare la palla, sai chi effettivamente vuole giocare con te, sai quali sono le regole e tentativo dopo tentativo inizi a fare canestro.

Il modello LIBET applicato alla coppia: teoria e pratica nella descrizione di un caso clinico – Congresso SITCC 2018

Il modello LIBET applicato alla coppia: teoria e pratica nella descrizione di un caso clinico

A. Gemelli, D. Rebecchi, A. Offredi, S. Giuri, M.P. Boldrini, A. Chiappelli, C. Bellardi, G. Gualdi, C. Ferrari

 

Il presente lavoro ha come cornice il modello LIBET (Life Themes and Plans Implicated in Biases: Elicitation and Treatment), un modello integrato di concettualizzazione del caso clinico utile per la diagnosi, la progettazione e la valutazione del percorso psicoterapico, che il gruppo ricerca Studi Cognitivi sta sviluppando ormai da anni nell’intervento sul singolo e sulla coppia. All’interno della terapia di coppia offre qualcosa in più della gestione della conflittualità o della situazione problematica,  in termini di credenze distorte o comportamenti comunicativi e relazionali da modificare, già presenti nella terapia cognitiva standard, e interviene sulle convinzioni distorte di ogni partner e su come queste interagiscono, in termini evolutivi e scopistici. La concettualizzazione di coppia LIBET mira a identificare i temi di vita dei partner, i piani di vita del singolo e della coppia, la rottura, i cicli di mantenimento della sofferenza e i cicli interpersonali attivati da entrambi e permette al terapeuta di formalizzare un’ipotesi di trattamento e gli strumenti idonei per l’intervento.

La presente relazione illustrerà le specificità del modello nell’intervento di coppia attraverso la presentazione di una concettualizzazione di un caso.

 

La bellezza – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 43

In cosa consiste l’esperienza della bellezza? Cosa intendiamo quando diciamo che una cosa è bella? Quali sono gli ingredienti mentali indispensabili nell’esperienza della bellezza e a cosa serve fare questa esperienza? Sono solo alcune delle domande a cui cercheremo di rispondere in una riflessione aperta sul tema della bellezza.

 

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La bellezza (Nr. 43)

 

La bellezza è l’eternità che si mira in uno specchio. 
(Kahlil Gibran)
La bellezza è soltanto la promessa della felicità. 
(Stendhal)
Lasciamo le belle donne agli uomini senza fantasia. 
(Marcel Proust)

 

Prima che un neuroscienziato di qualche sconosciuta università statunitense risolva il discorso sulla bellezza identificando un’area ficcata in qualche anfratto del cervello, dove scoprirà che alla chetichella giungono afferenze secondarie dei cinque sensi e che attivandosi, come la risonanza magnetica funzionale segnala, accendendo tutti gli special da antico flipper, genera l’esperienza soggettiva del bello e la nomini, chissà perché, “Beauty 301/15”, credo doveroso ragionare su quanto la cultura occidentale ha prodotto nei millenni sul tema in questione.

Probabilmente anche il neuroscienziato yankee muoverà dal grande interesse della psicologia per il fatto che la proporzione aurea costituisca una regola pressoché costante nell’arte occidentale, dagli egizi, ai greci, al Rinascimento, quando ancora non se ne conosceva il calcolo matematico. Infatti Il “De Architectura” di Vitruvio (I secolo a.C.), reso noto dal famosissimo disegno di Leonardo Da Vinci chiamato appunto “l’uomo vitruviano”, tramanderà sia al Medio Evo che al Rinascimento istruzioni per la realizzazione di proporzioni architettoniche ottimali. 
La sezione aurea, la divina proporzione di cui parla Fra Luca Bartolomeo de Pacioli vissuto nel XV° secolo religioso, matematico ed economista italiano, autore della “Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni e Proportionalità e della Divina Proportione”, molto noto tra i commercialisti per aver inventato “la partita doppia”, è quel rapporto che si realizza in un segmento AB quando, posto un punto C di divisione, AB sta a AC come AC sta a CB. 
Lo studioso americano da questo fatto – oltre che dalle leggi della Gestalt – riterrà confermata la tesi dell’esistenza nell’uomo di parametri estetici universalmente dati, vale a dire specie-specifici, caratteristici della specie umana e citerà gli studi dei fisiologi della visione Stone e Collins che spiegano la preferenza per la proporzione aurea basandosi sulla configurazione rettangolare del campo visivo umano con dimensioni il cui rapporto è molto vicino a quello della sezione aurea stessa.

Per noi del vecchio mondo il tema meriterebbe un approccio multidisciplinare coordinato, ad averlo, da un filosofo. Per questo dalla mia prospettiva psicologica mi limiterò ad una serie di enunciati, senza scrupoloso obbligo di non contraddizione per porre domande, piuttosto che trovare risposte.

I cinque quesiti che intendo pormi sono:

  1. Cosa intendiamo quando diciamo che una cosa è bella?
  2. In cosa consiste l’esperienza della bellezza?
  3. Cos’hanno in comune un paesaggio, un’opera d’arte, una musica, un corpo che consideriamo belli?
  4. Quali sono gli ingredienti mentali indispensabili nell’esperienza della bellezza e, infine, serve a qualcosa ed eventualmente a cosa?
  5. Insomma esiste un’essenza della bellezza, in cosa consiste, quanto è oggettiva o soggettiva (Umberto Eco sostiene che né la bellezza fisica né di altro genere sia immutabile nel tempo e nello spazio e che i criteri che la definiscono cambiano continuamente)? E che farne?

Sono tutti quesiti che non credo perdano di importanza anche quando il solerte ragazzo a stelle e strisce avrà identificato l’area “Beauty 301/15”.

Ecco alcune tesi:

La bellezza è un esperienza assolutamente soggettiva che esprime una relazione tra un oggetto e un soggetto dotato di sensi e intelletto. Se, a mio avviso, la realtà oggettiva esiste anche senza un testimone umano per cui un albero si può dire che sia effettivamente caduto al centro di una foresta anche se nessuno lo vedrà o lo saprà mai, non altrettanto si può affermare della bellezza: senza una mente che la coglie non c’è bellezza.

Ci appare bello ciò che ci sembra in grado di poter soddisfare un nostro bisogno o scopo. In questo modo si spiega la diversità individuale, storica e culturale del giudizio di “bello” perché diversi sono i pattern motivazionali delle varie culture e, al loro interno, dei vari soggetti che hanno dunque gusti individualissimi. Se alcune cose, pochissime per la verità (basti pensare ai diversi giudizi sulle varie correnti artistiche) appaiono belle quasi a tutti e ci fanno pensare all’esistenza di una bellezza oggettiva è semplicemente perché apparteniamo tutti alla specie umana e condividiamo un’ampia parte dei nostri scopi, primi fra tutti quelli inerenti la sopravvivenza (alimentazione, protezione dalle minacce, mantenimento dell’omeostasi) e la riproduzione. Proprio sulla bellezza fisica, connessa a quest’ultimo aspetto e così all’ordine del giorno nella nostra cultura attuale è sorta con mio figlio questa riflessione interrogandoci banalmente su quale fosse l’essenza ultima della commovente bellezza del femminile che la stagione calda esalta. Seguendo questa prospettiva di equilibrio tra universalità ed individualità si potrebbero elencare una serie di bisogni comuni degli esseri umani, fisici e psicologici, che si personalizzano in ogni individuo e per ciascuno di essi immaginare un certo tipo di bellezza, consistente nell’aspettativa che la relazione con quell’oggetto possa portare alla soddisfazione di quel bisogno.

La bellezza è sopratutto una promessa di felicità. Gotthold Ephraim Lessing, un filosofo tedesco del ‘700 affermava precorrendo la pubblicità del Campari red passion che “l’aspettativa del piacere è essa stessa piacere” e, secondo Freud, ha il compito di tenere l’apparato psichico in uno stato di costante contenuta eccitazione. Prima che effettivamente lo faccia: la bellezza è l’anticipazione, la promessa, l’aspettativa di un soddisfacimento.

L’esperienza soggettiva della bellezza è una emozione genericamente positiva accompagnata da una valutazione positiva di bello, buono, giusto e vero (Keats diceva riprendendo un concetto aristotelico e platonico che “la bellezza è verità e la verità è bellezza) e da un’attrazione verso l’oggetto bello.

L’esperienza della bellezza immediata e irriflessa è appunto la sintesi di tutte le valutazioni positive che dunque sussume, è il totalmente OK (per farmi capire dal collega d’oltreoceano che magari perderà tempo a leggerci) e tale valutazione è emotiva così come la paura è la valutazione di una minaccia più immediata e rapida della consapevolezza analitica cosciente della presenza di un pericolo.

Il dolore della bellezza. La bellezza, come sopra detto ci fa intuire la possibilità dell’appagamento di un desiderio o di un bisogno profondo senza che questo avvenga veramente, il che eliminerebbe il desiderio stesso. Percepire una bellezza equivale ad avvertire una mancanza e la possibilità di colmarla. Plotino afferma che il bello è un ideale irraggiungiubile, qualcosa verso cui tendere, da cui il senso di incompletezza che ad esso è necessariamente connesso (mille esempi in tal senso vengono in mente circa l’esperienza amorosa caratterizzata dal desiderio di un incontro che non si basta mai e non è mai del tutto appagato). La percezione di questa mancanza dà ragione di un aspetto dolente presente nell’esperienza della grande bellezza che rimanda, appunto, alla propria incompiutezza. Sta forse in questo il rischio di morte immediata per chi veda il volto di Dio che dunque, garbatamente, si mostra al massimo sotto le sembianze di roveto ardente.

La bellezza è inutile. Secondo Kant due sono le caratteristiche del bello: è colto intuitivamente senza bisogno di ragionamenti o spiegazioni coscienti che semmai possono sostenerlo ma subentrano in un secondo momento (credo sia quello che fanno i critici dell’arte) ed è un fine in sé e non un mezzo per qualcos’altro ed è in tal senso “inutile”, superfluo.

Natura e cultura nella bellezza. Tutti gli autori concordano sulla duplice origine biologico/ereditaria e culturale dei canoni della bellezza. Quelli biologici/ereditari sono certamente più universali e prioritari sopratutto per quanto riguarda la bellezza fisica e la connessa appetibilità sessuale a scopo riproduttivo. Sono considerati belli (con un diverso peso nei due sessi a motivo del diverso ruolo che giocano nella vicenda riproduttiva) gli indicatori di salute, giovinezza e forza che promettono una lunga durata e dei marcati caratteri sessuali indici di fecondità. Spesso si è attratti inconsciamente da aspetti complementari a quelli che si possiedono (ciò che ci manca) come se si ricercasse di ricreare nella prole un equilibrio.

Eros e Tanatos. La bellezza è fortemente connessa alla vita e dunque alla temporalità e come tale alla morte, da cui l’indissolubile intreccio tra eros e tanatos. Del resto, il valore della vita stessa è dato dalla sua finitezza: è legge di mercato che il valore di un bene sia direttamente proporzionale alla sua limitatezza. La bellezza, l’amore, come la vita stessa, sono preziosi proprio perché caduchi ed hanno dunque connaturato un aspetto drammatico, particolarmente sottolineato da Stendhal.

La bellezza oggettiva. Pur privilegiando in queste riflessioni un approccio soggettivistico e relazionale al tema del bello è doveroso e utile riportare gli sforzi di quegli autori che hanno cercato di darne una definizione quanto più possibile oggettiva. Tra questi va ricordato William Hogarth pittore e scrittore del 18° secolo autore de “the analysis of beauty” in cui esprime i sei criteri del bello e la sua teoria della curva della bellezza una linea curva a forma di “S” che cattura l’attenzione dell’osservatore suscitando l’idea della vivacità, dell’armonia e del movimento e che, personalmente, ritrovo per quanto riguarda la bellezza fisica femminile nella schiena che si fa sedere, nella curvatura controgravitazionale della coscia che si fa a sua volta sedere, del torace che si solleva in seno e nell’alternarsi di concavità e convessità, rotondità, vette e precipizi oscuri e segreti del corpo femminile. Secondo questo autore sono sei i principi del bello:

  1. la fitness, intendendo con ciò la complementarietà con l’ambiente circostante, vale a dire che una cosa è più o meno bella a seconda di come si armonizza con ciò che ha intorno e rimanda, a mio avviso, alla piacevolezza di un puzzle che si completa dando l’esperienza del “tutto al suo posto”
  2. la varietà, opposta all’uguaglianza e alla monotonia e ciò forse in relazione al fatto che tutti i nostri organi di senso apprezzano sopratutto le differenze, i cambiamenti, le discontinuità
  3. la regolarità, che mitiga la varietà stessa e trasmette il rassicurante senso di prevedibilità e familiarità, tanto caro soprattutto ai bambini
  4. la semplicità, che consente di afferrare tutto l’oggetto contemporaneamente con un solo atto percettivo. In questa semplicità consiste l’eleganza di teorie e formule matematiche definite appunto belle
  5. complementare seppure apparentemente contradditoria alla semplicità è la intricacy, da intendere come complessità che attiva il desiderio di capire ed il piacere esplorativo
  6. l’ultimo criterio è la grandezza, da intendere come quantità e abbondanza

Tensione. Mi sembra interessante notare nello sforzo di Hogarth come i criteri che identifica siano spesso polarità opposte e ciò mi suggerisce che ad un livello “meta” si possa dire che la bellezza sia essenzialmente una continua tensione tra opposti. Ad esempio, in particolare per quanto riguarda la bellezza femminile si alternano nella storia due opposti modelli: uno è la venere greca che predomina attualmente con fattezze efebiche e adolescenziali; l’altro è la venere paleolitica grassa, con grosso seno e enorme sedere. Nella storia del gusto si alternano modelli tondeggianti (simboli di fertilità) e modelli più sottili e slanciati (tipici dell’adolescenza). 
Le donne di Rubens e di Renoir richiamano certe caratteristiche della Venere paleolitica mentre la Venere del Botticelli si propone come sintesi avendo forme sensuali e slanciate allo stesso tempo. Forse è davvero in questa tensione armonica tra gli opposti che va ricercata l’essenza della bellezza come già sosteneva Eraclito dicendo che “se esistono nell’universo degli opposti, delle realtà che paiono non conciliarsi, come l’unità e la molteplicità, l’amore e l’odio, la pace e la guerra, la calma e il movimento, l’armonia tra questi opposti non si realizzerà annullando uno di essi, ma proprio lasciando vivere entrambi in una tensione continua. L’armonia non è assenza bensì equilibrio di contrasti”.

L’amore dolente. Questa concezione, che pone la sublimità nel contrasto e nella tensione, si è estesa anche ai sentimenti con la concezione dell’amor cortese, che nasce nell’XI° secolo con la poesia dei trovatori provenzali, seguita dai romanzi cavallereschi del ciclo Bretone e dalla poesia degli stilnovisti italiani. 
In tutti questi testi si fa strada una particolare immagine della donna, come oggetto d’amore casto e sublimato, desiderata e irraggiungibile, e spesso desiderata proprio in quanto irraggiungibile. 
Sorge un ideale di bellezza femminile, e di passione amorosa, in cui il desiderio viene amplificato dall’interdizione, la dama alimenta nel cavaliere uno stato permanente di sofferenza, che il cavaliere accetta con gioia, di qui le fantasie di un possesso sempre dilazionato, in cui più la donna è vista come irraggiungibile, più s’alimenta il desiderio. 
Questa concezione dell’amore impossibile, nata nel tardo medioevo, è stata poi amplificata dall’interpretazione romantica, ma si può dire che l'”invenzione” dell’amore-passione (nella sua forma cioè di passione eternamente insoddisfatta, fonte di dolce infelicità) sia nata proprio allora, e da lì abbia colonizzato l’arte moderna, dalla poesia al romanzo, all’opera lirica.

Delle domande iniziali è rimasta ancora fuori quella sull’utilità del senso della bellezza e attenzione perché il solo tentare di rispondervi sembrerebbe contraddire quanto affermato con Kant al punto 7 sull’inutilità della bellezza ma non è così perché stiamo parlando di due livelli logici diversi. Certo l’oggetto bello non serve ad altro, è bello e basta. Ma a cosa ci serve come individui e come specie il senso della bellezza: la capacità di percepirla e di esserne attratti?

Credo che consistendo essa in una valutazione spontanea immediata e complessiva della positività di qualcosa la sequela della bellezza sia la strada maestra verso la vita. Ai giovani potremmo dire “seguite la bellezza e vivrete a lungo felici e contenti e avrete tanti figli (belli)”.

Però Daje!!

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Lettura e Teoria della mente: la narrativa aiuta a comprendere meglio gli altri?

Recentemente Kidd & Castano (2018) hanno condotto diversi esperimenti replicando in parte i metodi e le procedure utilizzati nel loro primo studio (2013) sulla capacità della lettura di libri di narrativa di migliorare la teoria della mente.

 

Recentemente Kidd & Castano (2018) hanno condotto diversi esperimenti replicando in parte i metodi e le procedure utilizzati nel loro primo studio (Kidd & Castano, 2013) sulla capacità della lettura di libri di narrativa di migliorare negli adulti l’abilità di identificare e comprendere i propri e gli altrui stati mentali, trovando, diversamente dal primo studio, risultati misti e non concordi nelle performance del gruppo assegnato alla lettura di narrativa rispetto a quelle del gruppo assegnato a diverse altre letture.

Il nuovo editoriale del mese di settembre di Nature Human Behaviour ha preso lo studio come riferimento per affrontare la spinosa questione della replicabilità di esperimenti in ambito scientifico partendo proprio da questa recente riproposizione del primo studio del 2013 di Kid & Castano, pubblicato su Science.

Lettura e teoria della mente: i risultati sono replicabili?

L’esperimento condotto per la prima volta nel 2013 nacque dall’idea che la narrativa potesse fungere da supporto per lo sviluppo della componente emotiva della teoria della mente, quella legata maggiormente alla capacità di accedere agli stati emotivi propri e altrui e all’instaurazione di relazioni interpersonali emotivamente ed empaticamente coinvolgenti; la narrativa rispetto ad altri generi letterari sembrerebbe ampliare la conoscenza del lettore circa le esistenze e le esperienze di vita altrui, aiutandolo a fare differenze o a notare somiglianze tra esse e le proprie.

In particolare sembrerebbe che la narrativa possa modificare non soltanto cosa il lettore pensa degli altri, ad esempio dei personaggi, ma soprattutto lo possa aiutare a ripensare le modalità attraverso le quali egli fotografa e successivamente comprende i personaggi del libro, i loro stati cognitivi ed emotivi costringendolo a cercare significati, spiegazioni e ad avere sullo stesso oggetto più prospettive e punti di vista (Mar, Oatley et al., 2009).

Il primo esperimento condotto dai ricercatori (Kidd & Castano, 2013) aveva dimostrato questa ipotesi per cui leggere libri di narrativa aiutava il lettore ad ingaggiarsi in processi legati alla teoria della mente, migliorandone le performance in specifici compiti; tuttavia la riproposizione, a distanza di tempo, dello studio non ha evidenziato alcun miglioramento nei compiti di teoria della mente nel gruppo sperimentale impegnato nella lettura di narrativa.

Replicabilità: sono fondamentali metodo e procedura

A quale studio credere?

Gli esperimenti che costituivano la prima pubblicazione erano stati condotti nell’ordine nel quale erano stati poi riportati nell’articolo: l’ipotesi che seguiva il primo esperimento si limitava a voler testare l’idea che la narrativa con la complessità dei suoi personaggi e intrecci avrebbe migliorato i compiti di teoria della mente rispetto a letture più stereotipate e semplici (Kidd & Castano, 2013)

Al contrario, gli esperimenti successivi (Kidd & Castano, 2018) hanno introdotto cambiamenti più raffinati e rigorosi nella metodologia come l’aumento del campione preso in considerazione, la selezione più oculata degli stimoli (le letture), la scelta di far leggere l’intero libro anziché soltanto estratti e l’esclusione dei cosiddetti lettori “inattivi” o poco esperti cioè quelli che impiegavano più di trenta secondi nella lettura di una pagina, rendendo così lo studio recente più attendibile e robusto rispetto al primo.

Quest’ultima “replica” dell’esperimento, seguendo la nuova procedura, non ha di fatto riprodotto i medesimi risultati della prima pubblicazione che pertanto è da non considerarsi più metodologicamente replicabile; tuttavia nonostante i risultati misti prodotti dall’ultimo esperimento, l’ipotesi di partenza per cui la narrativa potrebbe migliorare le performance in compiti di teoria della mente non può essere scartata.

In conclusione, da questo esempio, appare chiaro quanto sia di cruciale importanza il metodo e la procedura utilizzati all’interno di una ricerca scientifica e quanto essi, seguendo specifici criteri, possa assicurarne l’accuratezza e la riproducibilità.

Giaguari invisibili (2018) di Rocco Civitarese – Recensione del libro

Confesso: non sono una appassionata lettrice di narrativa contemporanea, e men che mai italiana. Allora, cosa ho trovato dunque in Giaguari invisibili? In questo volume, non brevissimo, di Rocco Civitarese, un diciottenne liceale di Pavia?

Clara Mucci

 

Ho perfino ignorato tutta la saga della Ferrante, e prima o poi ne pagherò il fio; chi mi conosce bene, e qui farò inorridire molti sapendo che sono stata Ordinaria di Letteratura inglese, sa che detesto leggere romanzi, di ogni epoca, di qualsiasi nazione, classici francesi o russi, minimalisti americani o grandi epopee dell’Ottocento, tutti subiscono la stessa sorte. Con rarissime eccezioni (che posso contare sulla punta delle mie dita). Semplicemente, io non reggo: sarà il respiro troppo lungo che la narrativa richiede, ma io mi annoio, mi sento che solo se fossi a letto malata e con tutto il tempo possibile da riempire potrei forse dedicarmi a questo stillicidio interminabile che per me è la lettura di un romanzo, e, ripeto, non faccio molte distinzioni. Il grande Peter Brook (Reading for the Plot: The Desire for the End) parlava di “senso della fine”, una specie di pulsione di morte, che il romanzo riuscirebbe a ingannare, allontanandolo magicamente, rinviandolo con il passo narrativo. Per me è il contrario, io vi affondo.

Giaguari invisibili: perchè leggerlo

Cosa ho trovato nel libro scritto da Rocco Civitarese, un liceale di fiere origini abruzzesi (la narrativa in Abruzzo tra i contemporanei vanta già un illustre precedente, non diciottenne ma vincitrice di premi rinomati, Donatella Di Pietrantonio), che me lo ha fatto leggere piuttosto d’un fiato, velocemente, allegramente? Direi, credo, innanzitutto il passo, il ritmo: un ritmo realistico e veloce, quotidiano e dinamico, accattivante e gustoso. Non si ha l’impressione di leggere le cose a posteriori, di un racconto a cose fatte; di, appunto, una “narrazione”, cioè la ripetizione logica di una catena di eventi che si snodano nel momento presente riandando al momento passato in cui le cose sono accadute, in cui c’è una catena temporale, lineare, che si dipana, qualcosa a cui si assiste nella migliore delle ipotesi a posteriori (e che per me è insopportabile; spesso di un romanzo se proprio devo leggerlo, leggo un po’ l’inizio, poi la fine, poi pizzico qua e là e decreto di solito la fine del tempo che gli ho attribuito).

In Giaguari invisibili non è così, sembra piuttosto di essere lì in contemporanea, di avere presenti i giovanissimi protagonisti delle varie storie che si intrecciano, di sentirne la voce attraverso i dialoghi serratissimi e costanti, e in più di leggere contemporaneamente nei loro pensieri, di rintracciare doppi sensi interiori, scarti tra le cose dette e le cose fatte, o le aspirazioni, in una modalità che sinceramente la narrativa di solito mi sembra fa fatica a rintracciare; piuttosto sono altre arti a farlo, a ricostruire tutti i piani interiori ed esteriori in contemporanea. Forse direi che Rocco Civitarese ha usato il passo cinematografico di una camera da presa in diretta: mi mancano i termini cinematografici giusti, ma insomma assistiamo in diretta al divenire, sia interno che esterno, sia individuale che collettivo, il più possibile veloce, sentito ed esperito piuttosto che descritto, con in più la presa diretta della voce interiore del protagonista, una sorta di coscienza o Super-io. Faccio un esempio (pp. 28-29), quasi a caso:

La madre di Anna ha agguantato i nipotini, zuppi e contenti nelle loro Crocs trasparenti, e sollecita la figlia a raggiungerla.

–Anna! È tardi, vieni!

–Resto qui a studiare!

La donna protesta e si allontana.

Ora la spiaggia è deserta. Gli ombrelloni sono stati rimossi e i lettini ammassati sotto gli alberi.

Tra il mare e la baia più carina di Camogli sono rimasti solo loro due.

Ma cos’è questa leggerezza che mi secca la gola e mi ridà vita?

La ragazza, cui il solo sta dorando la pelle bruna, si metteva mano a visiera sulle sopracciglia e sgrana gli occhi.

(Ti ho beccato, scappa! Cosa speravi, che le si scoprisse un capezzolo mentre giocava con quei quattro marmocchi? Che si spalmasse i seni con olio abbronzante? Stalker, maniaco, ficcanaso!). Pietro si butta in acqua e si nasconde dietro i frangiflutti. Si aggrappa alle rocce e, trovato uno spiraglio, riprende a guardare la ragazza.
Anna si china e si tocca le dita dei piedi con le mani. I capelli fanno muro davanti alle gambe. Poi si stiracchia, arcua la schiena, culetto indietro e pancia in fuori, e immerge un piede in acqua.

Brrr.

Giaguari invisibili: il corpo e la fisicità

Oltre al senso della sequenza cinematografica con dentro una specie di contemporaneo stream of consciousness, affiora qui un’altra caratteristica di questa scrittura direi fragrante, e lo dico apposta, come si trattasse di pane profumato: è una scrittura-visione che traduce quasi epidermicamente la reazione fisica e sensoriale della scena, con un gusto tutto speciale per il corpo; si potrebbe dire un gusto sessuale e in parte lo è, ma è un gusto per il corpo in sé e per una sensorialità tutta esperita, sentita, provata, non certo solo immaginata. Tanto che vale anche per i piccoli gesti quotidiani per esempio, tra cane e padrone, piccoli tocchi che rendono la sensazione del legame e del momento (p. 259):

Sofia grattò il naso a fragola di Tabù e prese a frugargli nel pelo stopposo. Il cane cacciò fuori la lingua

Sembra di esserci, di vedere la scena, ma anche di essere sia Sofia che il cane Tabù.

“Momenti di essere” (avrebbe detto la nostra illustre Virginia) senza alcuna presunzione o prosopopea, con una leggerezza frizzante, ingenua e quasi pudica nel suo essere esplicita e insieme rivelatrice con complice e accattivante autoironia… una gioiosa messa a nudo di momenti personali e intimi che rivelano un animo, uno spirito, in divenire. Spesso sono quasi tutti i sensi ad essere presenti, predominando il tatto e la vista, o l’immaginazione sensoriale in cui il tatto il gusto e l’odorato fanno la loro parte (p. 71):

Concentrati. Oggi è domenica. Che devi fare?

Prima i cornflakes…

Contrasse gli addominali, fece leva con le braccia e si alzò. Si grattò il sedere e, spalle curve e braccia penzoloni (provavo un gusto ancestrale nell’atteggiarsi, la mattina, a gorilla pieno di pulci), entrò in cucina.

I suoi se la ronfavano. La sorella Sofia, una bambolina di quinta ginnasio, era a casa Pettirosso per un pigiama party organizzato da Debora (pandistelle, reggiseni imbottiti e chiacchiere sui grandi di terza liceo fino alle due di notte! La colazione se la doveva preparare da solo.

… Fuori dalla finestra il sole si spandeva sul fogliame giallo e arancio della flora pavese.

Oppure, ancora a p. 95:

Lo accolsero il calduccio, l’odore delle pizzette appena sfornate e l’intimità di quattro gatti che si sfamano in solitudine.

Giaguari invisibili: entrare nel mondo degli adolescenti

Gli eventi che accadono nel libro di Civitarese sono quelli importantissimi e apparentemente irrilevanti di adolescenti che si affacciano al mondo, tra test d’ingresso da sfangare, concerti, partite di pallacanestro, feste e tutti i rituali sociali non scontati di chi si apre alla vita con l’entusiasmo e la vitalità di chi non ha ancora incontrato le (inevitabili) sconfitte della vita futura, a cominciare da un corpo che invece di farsi più bello e rotondo (come nella descrizione delle ragazze che passano dalla prima adolescenza alla piena adolescenza con i corpi che si arrotondano e gioiscono di come sono) e si fa più brutto e cadente, di speranze che non hanno ancora incontrato il vaglio della fatica quotidiana della resistenza della casualità della malattia, insomma degli eventi di vita.

Sia pure in modo scanzonato, senza prendersi apparentemente sul serio, Giaguari invisibili ha l’incanto di questa prima messa a fuoco di un mondo fatto soprattutto di sensazioni, emozioni fisiche, progetti più o meno chiari per il futuro senza ipocrisie, sotterfugi, colpevoli ritardi, sulla scia di un innamoramento che per il protagonista colora tutto… Che la visione sia nitida e tersa lo si vede dall’occhio che la presa diretta-narrante ha per la natura (p. 93):

la note spazzata dallo zefiro e dell’odore di salsedine lo accompagnò sul lungomare

Per chi si aspettava un mondo dissociato e sballato di internet e droghe o alcol e disturbi di genere o di personalità, o disturbi alimentari come spesso mi sembra la narrativa ritrae i più giovani, questo libro disincantato lo spiazzerà per la sua assenza di grandi vite da sdraiati attaccati al computer, di chiusure generazionali (certo è vero che i genitori dei ragazzi protagonisti non hanno un grande ruolo, e questo forse di per sé è rivelatorio di come veniamo visti, o di come sia irrilevante il mondo degli altri, o dei vecchi). Tranne la pessima figura che ci fa la madre del protagonista, propinatrice di broccoli, non ci sono adulti degni di nota, ma protagonista è proprio il “mondo dei pari”, come si usa dire in gergo per il gruppo dei ragazzi adolescenti che, per gli adolescenti, sono appunto l’unico mondo esistente, insieme agli animali compagni, credo).

Forse questo è un elemento di riflessione per lo spettatore, e mi ricorda il fatto che dopo le grandi traumatizzazioni sociali i gruppi di bambini e adolescenti fanno parte a sé. Ma forse questo è un mio vizio da psicoanalista abituata a leggere gli esiti post-traumatici generazionali anche quando non ci sono, e mi viene del tutto a posteriori, come retrogusto, non certo dalla lettura del romanzo che anzi lascia come sensazione finale la specie di carezza del sorriso del protagonista sognatore e sognante (p. 275, ultime parole del romanzo):

Madonna se era cotto. Pietro fece partire il conto alla rovescia per il prossimo messaggio e si addormentò col sorriso di chi fa finta di dormire mente qualcuno gli accarezza i capelli.

Una lieta sorpresa per la letteratura contemporanea, un certo sollievo per noi adulti credo.

Ecco, direi che forse io non leggo romanzi perché mi piacerebbe assaporarli, e Giaguari invisibili si lascia assaporare. E credo di aver trovato la sensazione di una capacità di immersione nella vita che è ancora colorata da una fertile e gioiosa attesa, come quando la luce dorata del sole del tramonto attraversa le giornate… e invece di alludere alla fine del giorno attuale prelude alla luce della giornata che verrà. E dipende solo dai punti di vista.

 

Leggi anche il booktrailer del romanzo GIAGUARI INVISIBILI

cancel