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Job Satisfaction by Training: partecipa alla ricerca sulla soddisfazione lavorativa!

L’importanza dell’apprendimento in ambito lavorativo, inteso come un impegno che deve essere continuo nel corso della vita professionale di ciascuno, è per gli studenti come me, di un indirizzo formativo aziendale, una costante della maggior parte delle lezioni affrontate durante gli anni universitari.

 

Eppure, soprattutto in Italia, non si è ancora sviluppata una cultura della formazione adeguata alle esigenze che il mercato e il mondo del lavoro richiedono. Alcune organizzazioni, le Learning Organisation, sono le promotrici di una visione formativa basata sull’importanza di valorizzare le proprie risorse, intese come personale. Altre organizzazioni invece mirano ad una politica formativa basata esclusivamente su corsi meramente pratici, che riguardano ad esempio l’utilizzo di un determinato software, o comunque che racchiudono solo tutte quelle conoscenze e competenze rivolte ad un miglioramento manuale del lavoro del dipendente, senza tenere in considerazione la sua identità professionale.

Della necessità di un percorso formativo professionale per migliorare la condizione lavorativa individuale e dell’azienda, è convinto anche il Consiglio Europeo, tenutosi a Lisbona nel marzo 2000, che identifica l’apprendimento permanente come lo strumento preferenziale indicato per raggiungere l’obiettivo di sviluppare una società basata sulla conoscenza, sullo sviluppo economico sostenibile e su una maggiore coesione sociale. In uno dei suoi atti infatti recita:

“I sistemi europei di istruzione e formazione devono essere adeguati alle esigenze della società dei saperi e alla necessità di migliorare il livello e la qualità dell’occupazione. Dovranno offrire possibilità di apprendimento e formazione adeguate ai gruppi bersaglio nelle diverse fasi della vita: giovani, adulti disoccupati e persone occupate soggette al rischio che le loro competenze siano rese obsolete dai rapidi cambiamenti. Questo nuovo approccio dovrebbe avere tre componenti principali: lo sviluppo di centri locali di apprendimento, la promozione di nuove competenze di base, in particolare nelle tecnologie dell’informazione, e qualifiche più trasparenti.”

Poiché la formazione diventa sempre più una parte rilevante della carriera di un dipendente, la sua relazione con la soddisfazione lavorativa non può passare inosservata. Spetterà alle organizzazioni fornire ai dipendenti le competenze necessarie per svolgere il loro lavoro, sia rivolgendosi alle attività richieste nel presente, sia con uno sguardo alle prospettive di cambiamento futuro, in termini di collaborazione all’interno di un team con lo scopo di migliorare continuamente i processi e le tecniche professionali. I dipendenti avranno un legame sempre più forte con la formazione che potranno ricevere dai loro datori di lavoro. Ciò in quanto i ruoli professionali sono costantemente in cambiamento, e richiederanno una maggiore specializzazione delle attività peculiari per ogni figura professionale.

Le opportunità di formazione e sviluppo sono dunque fondamentali nelle decisioni riguardanti le scelte di carriera dei dipendenti. Nonostante questa consapevolezza, molti studi di ricerca sulla soddisfazione lavorativa non considerano la soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro come un elemento della soddisfazione complessiva del lavoro. Infatti molti strumenti di indagine sulla soddisfazione professionale, non includono la componente di “soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro“, soprattutto in Italia.

Alla base di questo studio vi è l’idea e la volontà di esaminare la relazione tra soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro fornita dal datore di lavoro e soddisfazione complessiva del lavoratore. I componenti della formazione professionale, compresi il tempo trascorso in formazione, le metodologie di formazione e il contenuto, sono stati considerati significativi nel loro rapporto con la soddisfazione nel job training. Principalmente dunque il sondaggio prodotto è stato costruito con lo scopo di rispondere a una domanda: qual è la relazione tra soddisfazione per la formazione sul posto di lavoro e soddisfazione complessiva del lavoro?

 

Partecipa alla ricerca

Il questionario è rivolto a PERSONE CHE ABBIANO ALMENO UN’ESPERIENZA DI LAVORO COME DIPENDENTE.
I dati saranno raccolti in FORMA ANONIMA e verranno utilizzati solo a scopo di ricerca.
La compilazione del questionario NON richiede alcun costo e dura solo pochi minuti.

VAI AL QUESTIONARIO 9998

Dott.ssa Federica Rossi, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Ricerca per tesi magistrale in facoltà “Scienze Pedagogiche”, indirizzo “Formazione nelle organizzazioni”.

Relatore di tesi: Dott. Diego Boerchi

 

Educazione sessuale ed affettiva a scuola: Italia ed Europa a confronto

La sessualità include molti aspetti che vanno oltre il mero comportamento sessuale. Educazione affettiva ed emotiva dovrebbero accompagnare e completare l’educazione sessuale.

Elena Tonazzolli e Marta Venturini – Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

La sessualità è un aspetto centrale dell’essere umano lungo tutto l’arco della vita e comprende il sesso, le identità e i ruoli di genere, l’orientamento sessuale, l’erotismo, il piacere, l’intimità e la riproduzione. La sessualità viene sperimentata ed espressa in pensieri, fantasie, desideri, convinzioni, atteggiamenti, valori, comportamenti, pratiche, ruoli e relazioni. Sebbene la sessualità possa includere tutte queste dimensioni, non tutte sono sempre esperite o espresse. La sessualità è influenzata dall’interazione di fattori biologici, psicologici, sociali, economici, politici, etici, giuridici, storici, religiosi e spirituali.

Quando si vuole educare alla sessualità quindi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, non ci si deve confondere con l’educazione riguardante il solo “comportamento sessuale”, ma si devono comprendere molte aree (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

L’educazione affettiva ed emotiva dovrebbe accompagnare e completare l’ educazione sessuale. Le molteplici emozioni che esperiamo quotidianamente sono rappresentate dai desideri, dalle simpatie/antipatie, dagli innamoramenti e dagli amori che ci mettono in gioco. Risulta a nostro avviso di fondamentale importanza estendere l’educazione alla funzione relazionale della sessualità, che è rappresentata dall’impegno a stabilire un rapporto di ascolto di noi stessi e dalla capacità di riconoscere gli “altri” come persone, imparando il rispetto per l’altro/a sia nella dimensione dell’amicizia e dell’intimità, sia nell’esperienza dell’amore e dello scambio sessuale (Giommi, 2003).

Educazione sessuale: cos’è?

La definizione fornita dagli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa è la seguente:

Educazione sessuale significa apprendere relativamente agli aspetti cognitivi, emotivi, sociali, relazionali e fisici della sessualità. L’educazione sessuale inizia precocemente nell’infanzia e continua durante l’adolescenza e la vita adulta e mira a sostenere e proteggere lo sviluppo sessuale. Gradualmente essa aumenta l’empowerment di bambini e ragazzi, fornendo loro informazioni, competenze e valori positivi per comprendere la propria sessualità e goderne, intrattenere relazioni sicure e gratificanti, comportandosi responsabilmente rispetto a salute e benessere sessuale propri e altrui.

Tutti gli individui, durante lo sviluppo, hanno diritto ad accedere all’ educazione sessuale adeguata alla loro età come affermato dai diritti umani ratificati a livello internazionale in particolare dal diritto all’accesso a informazioni adeguate relative alla salute (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Educazione sessuale secondo una concezione olistica

Gli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa suggeriscono una concezione olistica dell’ educazione sessuale, che comprende non solo la semplice prevenzione dei problemi di salute, ma si focalizza anche sulla sessualità come elemento positivo (anziché principalmente “pericoloso”) del potenziale umano e come fonte di soddisfazione e arricchimento nelle relazioni intime. Tradizionalmente l’educazione sessuale si è concentrata sui potenziali rischi della sessualità, come le gravidanze indesiderate e le infezioni sessualmente trasmesse (IST). Un tale focus negativo suscita spesso delle paure in bambini e ragazzi e, per di più, non risponde al loro bisogno di essere informati e di acquisire competenze; ancora, fin troppo spesso il focus negativo semplicemente non è di alcuna rilevanza per la vita di bambini e ragazzi. Un approccio olistico, basato sul concetto di sessualità come un’area del potenziale umano, aiuta a far maturare in bambini e ragazzi quelle competenze che li renderanno capaci di determinare autonomamente la propria sessualità e le proprie relazioni nelle varie fasi dello sviluppo. L’ educazione sessuale fa anche parte dell’educazione più generale e influenza lo sviluppo della personalità del bambino. La natura preventiva dell’educazione sessuale non solo contribuisce a evitare possibili conseguenze negative legate della sessualità, ma può anche migliorare la qualità della vita, la salute ed il benessere, contribuendo, così, a promuovere la salute generale (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Educazione sessuale “informale”

Nel corso della crescita, gradualmente, bambini e adolescenti acquisiscono conoscenze e si formano immagini, valori, atteggiamenti e competenze riguardanti il corpo umano, le relazioni intime e la sessualità. Le principali fonti di apprendimento, in particolare nelle fasi più precoci dello sviluppo, sono quelle informali, tra le quali troviamo i genitori, che sono di importanza fondamentale. Solitamente il ruolo dei professionisti, che siano di area medica, pedagogica, sociale o psicologica, non è molto pronunciato in questo processo, poiché quasi sempre si ricerca un aiuto professionale solo in presenza di una problematica. Tra le fonti di informazione non manca internet, che se da un lato è un diffuso metodo per soddisfare velocemente le proprie curiosità, dall’altro può portare i giovani ad imbattersi in informazioni frammentarie e scorrette. Già negli anni ‘90 viene trattato il tema del rischio legato alla ricerca di informazioni riguardo ad argomenti che interessano ai giovani (Bertinato et al., 1995). Il rischio, nell’entrare in contatto con fonti non attendibili, è che i giovani vengano influenzati negativamente dalle stesse, con conseguente disagio. Riteniamo che questa affermazione sia molto attuale: anche altri autori, come Alberto Pellai, hanno gettato luce sulle conseguenze della ricerca di informazioni su internet e social network (Pellai, 2015). Come sostengono Giommi e Perrotta (1992)

I genitori e gli adulti hanno spesso scelto il silenzio su questo argomento, senza considerare che il silenzio è esso stesso un modo di comunicare, che, proprio per il fatto che “di sessualità non si può parlare”, crea censure e tabù e condiziona in senso negativo i processi di crescita. Approfittando del silenzio degli adulti, prendono voce, al contrario, i cento messaggi del mondo esterno che facilmente passa contenuti e informazioni sbagliate, paurose e straordinarie.

Accanto all’educazione informale è importante la presenza di un’educazione formalizzata le cui fonti principali sono: la scuola, i libri, i pieghevoli, i volantini, i siti internet educativi, i programmi educativi e le campagne promozionali per radio e televisione ed infine i servizi (sanitari). Educazione informale e formalizzata non sono in contrasto, l’una è complementare all’altra e viceversa e la scuola può svolgere un ruolo importante per l’educazione formalizzata, pur non essendo il principale medium o fonte di informazione dei ragazzi (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Educazione sessuale nelle scuole

Tuttavia, introdurre l’educazione sessuale nelle scuole non è sempre facile: molto spesso si incontrano resistenze basate principalmente su paure ed idee erronee. Emerge spesso il timore di affrontare l’argomento prematuramente, anche se come afferma Fabio Veglia:

Domandarsi se è troppo presto, significa quasi sempre arrivare a parlarne troppo tardi (Veglia 2004).

Anche dal documento “Piano Nazionale di interventi contro HIV e AIDS” del 2017 emerge la percezione di criticità nell’affrontare l’argomento sessualità a scuola, a causa di punti di vista che spesso entrano in conflitto con le proposte e le ostacolano. A nostro avviso però sarebbe importante considerare quanto affermato dall’Istituto Superiore di Sanità, ovvero che la scuola, essendo il luogo più frequentato da bambini e ragazzi, può essere il teatro ideale per dibattere questi argomenti e divulgare i modelli comportamentali sani. Essa può avere la funzione da mediatrice tra famiglie, mass media e servizi sanitari, con l’obiettivo di favorire scelte coscienti convertibili in modelli culturali da seguire (Bertinato, Poli, Caffarelli, & Mirandola, 1995).

Secondo i già citati Standard per l’ educazione sessuale in Europa dell’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA pubblicati nel 2010 sarebbe importante inserire l’ educazione sessuale come materia curricolare e considerarla materia d’esame. L’obiettivo di questo cambiamento è dare sufficiente attenzione ed importanza agli argomenti proposti, favorendo la motivazione degli studenti. Inoltre i programmi di educazione sessuale dovrebbero essere trattati in maniera multidisciplinare, ovvero da più insegnanti sotto diversi punti di vista, e non dovrebbero essere facoltativi per gli alunni.

Educazione sessuale: un processo di apprendimento che dura tutta la vita

L’OMS suggerisce che l’educazione affettiva e sessuale è un percorso continuativo e si basa sul concetto che lo sviluppo della sessualità è un processo che dura tutta la vita. L’ educazione sessuale non è un evento singolo, bensì è basata su un progetto, e risponde alle mutevoli situazioni di vita degli allievi. Un concetto strettamente correlato è quello di “adeguatezza rispetto all’età”: gli stessi argomenti si ripresentano nel tempo e le informazioni relative sono fornite secondo l’età e lo stadio evolutivo dello studente. Proprio per questo è auspicabile introdurre l’educazione affettiva e sessuale già dalla scuola primaria, adattando i contenuti e gli argomenti all’età dei ragazzi. Questo concetto è stato promosso anche da due autori italiani, Roberta Giommi e Marcello Perrotta, che con i loro libri, già più di 20 anni fa, hanno divulgato informazioni nel campo dell’ educazione sessuale. Il “Programma di educazione sessuale”, realizzato pensando alle diverse fasce d’età dei bambini, tiene in considerazione le curiosità degli stessi con l’obiettivo di inserire la sessualità nel progetto di vita degli individui, favorendone il benessere (Giommi & Perrotta, 1992).

In Europa l’età d’inizio dell’ educazione sessuale è molto varia. Secondo il rapporto SAFE si va dall’età di 5 anni in Portogallo ai 14 anni di Spagna, Italia e Cipro (The SAFE Project, 2006). Nel leggere questi dati va tenuta in considerazione la variabilità dei programmi educativi proposti e della differente definizione di educazione sessuale. Laddove inizia ufficialmente nella scuola secondaria, solitamente è utilizzata una definizione di educazione sessuale molto più ristretta, in termini di “contatti sessuali”, mentre nei paesi dove inizia prima, la definizione e i programmi vengono estesi e comprendono non solo gli aspetti fisici e relazionali della sessualità e dei contatti sessuali, ma anche una gamma di altri aspetti come l’amicizia o i sentimenti di sicurezza, protezione e attrazione. (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010)

Alla luce di questi dati, risulta importante interrogarsi e valutare l’efficacia dei programmi di educazione sessuale che vengono proposti solo nella scuola secondaria, senza essere stati introdotti o preceduti da programmi di educazione sessuale ed affettiva durante gli anni della scuola primaria.

I bambini già dalle prime classi della primaria, arrivano a scuola con una serie di preconoscenze anche sulla sessualità, ed è proprio in questo luogo che dovrebbero poter trovare risposte ai propri quesiti e l’opportunità di un confronto produttivo con adulti e pari, al fine di favorire la ristrutturazione delle personali conoscenze anche in questo ambito.

Adolescenti e sessualità in Italia: alcuni dati

Dai dati presenti nel Report Nazionale Dati HBSC Italia del 2014, emerge che a livello nazionale, il 28% dei maschi di 15 anni dichiara di aver avuto un rapporto sessuale completo, mentre la percentuale è più bassa tra le femmine (21%). Riguardo ai metodi contraccettivi che i ragazzi dichiarano di aver utilizzato durante l’ultimo rapporto sessuale emerge da questi dati come la maggior parte degli adolescenti di 15 anni che hanno già avuto un rapporto completo riferisca l’utilizzo del preservativo (oltre il 70% dei maschi e il 66,5% delle femmine), seguito dall’interruzione del rapporto, dichiarato da più del 50% delle ragazze e dal 37% dei coetanei maschi. Complessivamente, circa l’11% riferisce l’uso della pillola e poco meno del 12% altri metodi (conteggio dei giorni fertili o altri metodi naturali) (Health Behavior in School Aged Children, 2014).

Da questi numeri si evince che, seppur una buona percentuale di giovani utilizza come metodo contraccettivo un metodo “barriera” come il preservativo (che protegge inoltre dalle infezioni sessualmente trasmesse), molti ancora ricorrono all’utilizzo dell’interruzione del rapporto, nonostante la scarsa efficacia di tale metodo. Tale dato va certamente tenuto presente nella progettazione e nella proposta di un programma di educazione sessuale a scuola.

In Italia, inoltre, malgrado il tasso di natalità sia uno dei più bassi all’interno dell’UE, e l’età della madre al primo figlio sia tra le più alte, il numero di gravidanze in età adolescenziale (14-19) rimane alto rispetto ad altri Paesi. Secondo i dati ISTAT si è verificata una diminuzione del 39% nel ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza, rispetto al 2005, passando dal 7,1 % al 4,4% nel 2016 (Istituto nazionale di statistica, 2017). Questo dato è incoraggiante ma non significa che non si debba investire in progetti di prevenzione rispetto a pratiche che possiamo considerare di “emergenza”.

Uno spunto di riflessione può essere offerto dal confronto tra il periodo storico attuale con gli anni ‘90. Nel lavoro, precedentemente citato, di Bertinato e collaboratori (1995), si legge come l’epidemia nel nostro Paese fosse ancora in critica espansione. Ciò ha fornito le basi per motivare a prevenire quanto più possibile il contagio, in un’ottica di educazione alla salute. Gli autori affermano che, per essere efficace, la prevenzione debba essere caratterizzata non solo da informazione, ma anche educazione. Per questa ragione, sottolineano, dovrebbero essere formati e coinvolti gli insegnanti della scuola dell’obbligo. Questo articolo cita il fatto che studenti e famiglie si fossero dimostrati molto disponibili a ricevere informazioni in materia di prevenzione dell’AIDS. Gli autori del PNAIDS 2017 pongono l’attenzione sul fatto che, a dispetto dell’interesse che i giovani dimostrano per l’utilizzo di internet e social network, si rileva una scarsa tendenza degli stessi ad approfondire, con questi mezzi o all’interno di discussioni con gli amici, le informazioni riguardo a HIV/AIDS ed infezioni sessualmente trasmesse (Ministero della Salute, 2017). Questo potrebbe suggerire che l’argomento non sia più ritenuto interessante come invece poteva esserlo circa 20 anni fa. La soluzione indicata, per quanto riguarda l’abbassamento del rischio di contagio, è che vengano inseriti programmi di educazione sessuale e alla salute nelle attività scolastiche curricolari.

Educazione sessuale all’estero

Da una prospettiva storica generale, i programmi di educazione sessuale possono essere raggruppati fondamentalmente in tre categorie:

  • programmi di tipo 1, che si focalizzano principalmente o esclusivamente sull’astinenza dai rapporti sessuali prematrimoniali, conosciuti come programmi “how to say no” (“come dire no”) o “abstinence only” (“solo astinenza”);
  • programmi di tipo 2, che comprendono l’astinenza come una scelta possibile ma dedicano anche attenzione alla contraccezione e alle pratiche sessuali sicure, tali programmi sono spesso indicati come “educazione sessuale estensiva” rispetto all’educazione sessuale “solo astinenza”;
  • programmi di tipo 3 che comprendono gli elementi del programma di tipo 2 ma li collocano nella più ampia prospettiva della crescita e dell’evoluzione personale (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Negli Stati Uniti d’America spesso viene promossa l’astinenza come solo metodo contraccettivo, mentre in Europa occidentale sembra predominare il terzo tipo di programmi. Tuttavia, da uno studio comparato sui risultati di programmi di tipo 1 e 2 è emerso che, per gli adolescenti di età compresa tra i 15 e i 19 anni, i programmi “solo astinenza” non hanno alcun effetto positivo sui comportamenti sessuali o sul rischio gravidanza in adolescenza. Inoltre tale studio dimostra che tra gli studenti che ricevono insegnamenti di educazione sessuale, non aumenta la percentuale di frequenza di attività sessuale né di malattie sessualmente trasmesse. È risultato tuttavia che lo stesso gruppo aveva un tasso di gravidanze inferiore rispetto a coloro i quali non partecipavano ad alcun programma di educazione sessuale (Kohler, Manhart, & Lafferty, 2008).

A differenza di quanto è emerso per gli Stati Uniti, in Europa l’educazione sessuale è in primo luogo rivolta alla crescita personale. Nell’Europa occidentale la sessualità non è percepita principalmente come un problema o un pericolo, bensì come una preziosa fonte di arricchimento per la persona.

In Europa l’educazione sessuale come materia scolastica curricolare ha una storia di oltre mezzo secolo. È nata ufficialmente in Svezia, dove divenne obbligatoria in tutte le scuole nel 1955.

A partire dagli anni ‘70 del secolo scorso molti altri paesi dell’Europa occidentale introdussero l’educazione sessuale che, come emerge dal report “Sexuality Education in Europe”, dal 2003 è materia obbligatoria in 19 Stati membri (The SAFE Project, 2006). Solamente in pochi Stati tra quelli appartenenti alla vecchia Unione Europea, specialmente nell’Europa meridionale, l’ educazione sessuale non è ancora stata introdotta nelle scuole.

Nel cercare studi riguardanti l’efficacia dei programmi di educazione sessuale nelle scuole europee e conoscenze scientifiche in merito si incontrano diverse difficoltà. La maggior parte delle pubblicazioni sono redatte nelle lingue nazionali e risultano dunque poco accessibili. (Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BZgA, 2010).

Tra la letteratura recente troviamo un interessante articolo, pubblicato nel 2017, che riporta i risultati di uno studio che ha coinvolto 3781 studenti di età compresa tra i 15 e i 16 anni, residenti in Galles (UK). Gli autori hanno preso in analisi i dati di 59 scuole raccolti attraverso questionari online che riguardavano l’ambiente scolastico e la salute sessuale dei ragazzi. Le domande riguardanti la salute sessuale erano solo 3 ed indagavano se la persona avesse mai avuto rapporti sessuali, a quale età risalisse il primo rapporto ed infine se durante l’ultimo rapporto avessero utilizzato il preservativo. Per quanto riguarda l’ambiente scolastico, le domande erano le seguenti:

Chi si occupa di insegnare educazione sessuale e alle relazioni? È presente, nella tua scuola, uno sportello di ascolto specifico per dare consigli legati alla salute sessuale? La tua scuola offre un servizio di distribuzione gratuita di preservativi?

Dallo studio è emersa un’interessante associazione tra migliori risultati di salute sessuale (tra questi, l’uso del preservativo) e la presenza di personale non docente come formatore per i percorsi di educazione sessuale e alle relazioni. Inoltre, l’uso del preservativo all’ultimo rapporto è risultato associato alla presenza dello sportello relativo alla salute sessuale ma non alla distribuzione gratuita di preservativi. Un’ipotetica spiegazione della maggiore efficacia offerta dal personale non docente è che la presenza di un estraneo modifichi le dinamiche del gruppo-classe, nel quale ogni partecipante dovrebbe auspicabilmente sentirsi al sicuro e che sono molto importanti perché il programma vada a buon fine (Young, Long, Hallingberg, Fletcher, Hewitt, Murphy and Moore, 2017).

Tali risultati possono offrire spunti interessanti nella progettazione di programmi di educazione sessuale anche per il nostro Paese.

Programmi di educazione sessuale in Italia

L’Italia, come accennato in precedenza, rientra tra i paesi dove l’ educazione sessuale viene introdotta più tardi. I programmi di prevenzione proposti dalle aziende sanitarie sono rivolti a ragazzi di età compresa tra i 13 e i 14 anni. Al momento attuale tali programmi non sono obbligatori e la scelta di aderirvi rimane dei singoli Istituti, determinando disomogeneità nell’educazione sul territorio nazionale. Il rapporto sull’educazione sessuale nelle scuole dell’Unione Europea (The SAFE Project, 2006) dedica un paragrafo al nostro Paese. Vi si legge che molte proposte di Legge per introdurre l’educazione sessuale obbligatoria a scuola sono state respinte, probabilmente a causa dell’influenza delle posizioni della Chiesa Cattolica. Viene inoltre descritto che l’argomento, se trattato, è dedicato agli alunni di età compresa tra i 14 e i 19 anni e trova solitamente lo spazio di una sola lezione all’anno. Gli autori del rapporto sottolineano come, in mancanza di leggi che uniformino l’offerta educativa, non è possibile avere dati ufficiali sull’applicazione dei programmi di educazione sessuale.

Alcuni più recenti piani regionali di prevenzione contengono obiettivi che fanno pensare ad un tipo di educazione sessuale olistica e prevedono interventi e contenuti da proporre già nella scuola primaria. Una proposta interessante viene, ad esempio, dalla Provincia Autonoma di Bolzano che, con il progetto “Educazione socio affettiva e sessuale” per classi quinte della scuola primaria e terze della secondaria di primo grado sembra molto in linea con gli obiettivi dell’OMS. Il Dipartimento della Prevenzione della Provincia rileva che, nel 2017, il 25% delle scuole ha deciso di aderire all’iniziativa (Regele, Borsoi, 2017).

Una nostra collega ha descritto la propria esperienza come conduttrice di un progetto di educazione sessuale proposto ad alcune classi quinte della scuola primaria. Dal suo lavoro emerge, in linea con ciò che abbiamo precedentemente trattato, che la scuola può fornire strumenti di integrazione tra le conoscenze che i bambini già possiedono, quelle che hanno discusso in famiglia, e quelle portate dagli esperti (Congedo, 2018). Pensiamo che sia interessante il fatto che fossero previsti due momenti di discussione con i genitori, uno iniziale e l’altro al termine del progetto. Questi incontri, come riporta l’autrice, sono stati utili in quanto i genitori si sono confrontati tra loro, scambiandosi esperienze e condividendo strategie efficaci.

Conclusioni

Alla luce di quanto emerge da questa ricerca sui programmi di educazione sessuale all’estero ed in Italia possiamo fare alcune considerazioni.

In primo luogo dall’esperienza estera emerge la necessità di proporre alle scuole programmi che si basino su un’educazione sessuale di tipo olistico, che accanto all’informazione prevedano spazi di riflessione e sviluppo delle competenze affettivo-emotive. L’esperienza di alcuni stati esteri, dove l’educazione sessuale viene introdotta già dalla scuola primaria come materia curricolare, potrebbero ispirare l’organizzazione e la progettazione di una formazione educativa scolastica anche in Italia. Il fatto che in alcune regioni italiane siano proposti progetti fa ben sperare che, in futuro, l’introduzione di programmi di educazione sessuale a scuola possa essere anticipata rispetto a quanto attualmente avviene.

Per capire quanto quello che finora viene proposto nelle scuole del nostro Paese sia utile, servirebbero più studi sull’efficacia dei programmi attualmente realizzati. Questo potrebbe aiutare a capire anche come poter personalizzare una proposta formativa, in modo che si possa adattare alla cultura del nostro Paese.

Come già citato, condividiamo la proposta degli Standard per l’Educazione Sessuale in Europa e le linee guida OMS sostenendo che i progetti di educazione sessuale, se visti come integrazione a più ampi percorsi di educazione all’affettività, adeguati alle età dei destinatari, possano fornire strumenti molto utili allo sviluppo della persona.

A nostro avviso, è importante considerare gli effetti positivi che un’educazione all’affettività e alla sessualità può avere anche su comportamenti e situazioni a rischio, quali bullismo, cyberbullismo e omofobia. Infatti attualmente vengono spesso esclusi dai programmi di educazione affettiva e sessuale argomenti importanti per il benessere psicologico, come ad esempio l’orientamento sessuale, le questioni di genere e dei ruoli (Ganci, 2015). Come sostenuto in questo articolo, essere consapevoli che esistono diversi orientamenti sessuali e conoscere persone con esperienze diverse dalla nostra può avere un effetto normalizzante ed è una delle strategie utilizzabili all’interno di un’efficace educazione all’affettività e sessualità ad ampio raggio.

In conclusione, offrire ai bambini ed ai ragazzi l’opportunità di partecipare a programmi di educazione sessuale può permettere loro di maturare consapevolmente un progetto di vita che tenga conto del benessere anche sessuale ed affettivo.

 

Cannabis: lo stato dell’arte dalla legislazione ai dati relativi all’uso e all’abuso

L’uso di sostanze con proprietà psicotrope illegali, tra cui la cannabis, viene sperimentato da un terzo della popolazione italiana almeno una volta nell’arco della vita.

Silvana Zito

 

Molte cose sono state dette riguardo il fenomeno dell’abuso di sostanze psicostimolanti anche se l’argomento resta degno di attenzione e impegno al fine di fronteggiare il gioco domanda/offerta. Il quadro legislativo internazionale sulla cannabis presenta una notevole diversificazione e mantiene rilevante l’interesse politico, medico e sociale.

La droga più comunemente usata nel mondo è la cannabis, in Italia si stima che il 32% dei giovani fa uso di cannabis, mentre l’11% della spice cannabis sintetica (Politiche Antidroga, 2017).

Si ha prova che la massima parte dei sequestri di droga è rappresentata dai derivati della cannabis: è interessante osservare che tra gli interventi delle forze di polizia entro il 2016, l’80,4% dei casi sono stati posti all’accertamento del Prefetto poiché soggetti erano di età inferiore a 30 anni (di cui il 9,1% minorenni) in possesso di cannabinoidi (Politiche Antidroga, 2017).

Generalmente, con il termine cannabis si definisce una qualsiasi delle varie parti della pianta di canapa. Per esempio, dalla cannabis sativa vengono preparati marijuana, hashish e altri farmaci poco alteranti e allucinogeni. Inoltre, è di uso comune commutare i termini “cannabis” e “marijuana”.

Dal punto di vista diagnostico il Disturbo da uso di cannabis (CUD) richiede almeno due degli 11 criteri diagnostici riportati dal – Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi mentali (DSM5), entro il periodo di 12 mesi, per essere riconosciuto.

Legislazione nel “mondo” della Cannabis

L’uso consentito di proprietà gratificanti e motivazionali come la cannabis varia da paese a paese. L’assunzione della cannabis in Italia è illegale, solo l’utilizzo personale è depenalizzato, ma comunque punito con sanzioni amministrative. Allo stesso modo opera il Regno Unito, dove nonostante un decremento negli ultimi anni (Hajarizadeh, Grebely and Dore, 2013), l’entità dell’abuso si rivela essere in linea con i dati europei (Roderick et al., 2018).

Gli Stati Uniti presentano uno status normativo diversificato in cui molti stati approvano l’uso medico, altri hanno legalizzato la cannabis a scopo ricreativo (Hasin, 2018). Il 20 giugno 2018 il parlamento canadese ha legalizzato l’uso della cannabis sia per l’uso terapeutico sia ricreativo consentendo anche una coltivazione minima.

In Asia le leggi sul consumo sono molto severe e prevedono il divieto di usare sostanze. Sono considerate reato tutte le attività collegate al consumo di marijuana come lo spaccio o il trasporto. Fanno eccezione Nepal, Laos, Cambogia, Indonesia, India dove l’uso è regolato e sanzionato, ma più tollerato.

Singolare la Corea del Nord dove il governo non considera la cannabis una droga e ne consente l’uso liberamente. Un’altra singolarità si nota in Uruguay, primo Stato al mondo che nel 2013 ha reso la marijuana monopolio di Stato legalizzando sia la coltivazione sia la vendita.

Tra gli stati europei, in Portogallo è legale il possesso di marijuana fino a 25 grammi e 5 di hashish, mentre nei Paesi Bassi è consentito il possesso fino a 5 grammi. Alcuni Stati come la Spagna e la Giamaica, che hanno legalizzato la coltivazione a scopo personale, limitano l’uso consentito di cannabis entro luoghi definiti rispettivamente social club e di culto, mentre la Repubblica Ceca consente il possesso fino a 15 grammi di marijuana. In altri stati come Belgio, Israele, Nuova Zelanda, Polonia, Francia l’uso resta illegale e punito anche con la reclusione. Questi Paesi mantengono comunque un’apertura verso i programmi di ricerca e l’efficacia medica.

L’esempio di un provvedimento che va oltre l’indicazione della quantità di “essenza” posseduta e indica il limite superiore di potenza della sostanza giunge dalla Svizzera dove anche se l’uso di cannabis è illegale, è posto un limite al contenuto di delta-9-tetraidrocannabinolo THC inferiore al 1%, per le piante di coltivazione propria (cannabis light).

Effetti della depenalizzazione

I risultati di uno studio recente che ha coinvolto alcuni stati negli USA (Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, Vermont e Maryland) riportano una riduzione del 75% della quantità di arresti correlati ai giovani abusatori di cannabis, con effetti analoghi osservati per gli adulti, a seguito della depenalizzazione. Inoltre, in diversi studi, la depenalizzazione non è stata associata ad alcun aumento del consumo totale di cannabis in alcun Stato preso in esame da questo studio. (Grucza et al., 2018)

Dalla letteratura si evince che in molti Paesi in cui è avvenuta la depenalizzazione della cannabis, la detenzione di modiche quantità che superano i grammi previsti viene penalizzata con sanzioni amministrative mentre si connota di rilevanza penale un comportamento plurirecidivo, la produzione e la commercializzazione.

In Italia, l’effetto del riesame delle pene previste dall’art. 73 DPR 309/90 (rivisitato nel 2014 a seguito sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale) ha contribuito alla diminuzione dei nuovi giunti in carcere e di quelli presenti. Si assiste quindi ad un lieve spostamento a favore dell’aspetto etico. Se consideriamo l’impatto che l’arresto di un individuo utilizzatore di sostanze può avere sulla sua salute, sulle conseguenze della perdita del lavoro o conseguenze più gravi come la detenzione in carcere, non si può sottovalutare che un quarto della popolazione carceraria è composta da detenuti tossicodipendenti e per la quasi totalità di genere maschile.

La legalizzazione della cannabis consentirebbe invece di superare i limiti quantitativi di sostanza detenuta e di abbattere il mercato commerciale con l’interruzione del circolo vizioso domanda/offerta.

Assunzione di cannabis e trend stabile

La depenalizzazione ha portato a un decremento della criminalizzazione e ad una maggiore enfasi del valore etico favorendo la scelta personale di usare sostanze illecite o lecite (come il fumo delle sigarette e l’alcol). Allo stesso modo, la depenalizzazione ha mantenuto stabili gli indici di abuso sia per gli adulti sia per gli adolescenti, senza spostamenti significativi. Si osserva infatti che nonostante gli sforzi normativi l’entità del fenomeno resta nelle sue proporzioni (rapporto mondiale dell’ONU del 2017 sulle droghe), poiché il 3,8% della popolazione mondiale ha assunto cannabis nell’ultimo anno, mostrando una percentuale pressoché invariata rispetto l’ultimo decennio (UNODOC 2017).

Dati associati all’uso e all’abuso

L’uso di sostanze con proprietà psicotrope illegali viene sperimentato da un terzo della popolazione italiana almeno una volta nell’arco della vita.

Il fenomeno dell’abuso si è considerevolmente ampliato tra i giovani adolescenti. Infatti, l’abuso di sostanze è notevolmente aumentato negli ultimi anni e l’età del primo utilizzo di sostanze è drasticamente diminuita. Si stima una percentuale quasi del 45% di consumatori tra i 15 e i 34 anni. A volte l’“esperimento” del primo utilizzo non rimane unico, più di un terzo infatti ripete l’esperienza 10 o più volte con effetti prevedibili verso la dipendenza (Politiche Antidroga, 2017). Poco più di questi ultimi ha utilizzato almeno una volta nuove sostanze psicoattive. Questo fenomeno viene definito “gateway drug”, e indica come l’uso di cannabis costituisca un primo punto in una serie di eventi che conduce al consumo di sostanze composte da elementi chimici più potenti e nocivi rispetto alla cannabis. A tal proposito si riferisce l’osservazione di molti eroinomani che hanno assunto marjuana prima dell’eroina. È però vero che la sperimentazione di nuove droghe è spesso sollecitata dallo spacciatore, per assicurare che vengano assunte sostanze che causano maggiore dipendenza.

Tuttavia è importante ricordare che l’ipotesi della gateway drug non è stata comprovata da dati statistici mentre ci sono studi che suggeriscono come la sequenza inizi con droghe legali (quali alcol e tabacco) e poi continui con sostanze illegali (Kandel and Kandel n.d.).

Mentre altre ipotesi suggeriscono sequenze alternative come la probabilità di iniziare a usare marijuana prima e poi alcol o tabacco dipenda molto da fattori demografici come il sesso, età e l’etnia. Tuttavia, iniziare con la marijuana può aumentare la probabilità di uso pesante e problematico della stessa (Fairman, Debra Furr-Holden and Johnson, 2018).

In Italia, l’allarme per la comparsa di 43 nuove sostanze psicoattive segnalate ha sensibilizzato il Sistema Nazionale di Allerta Precoce poiché tra le sostanze che vengono sequestrate si registra un’enorme varietà di principio attivo di delta-9-tetraidrocannabinolo (THC). Si calcola che il 14% della popolazione studentesca italiana sono policonsumatori mentre per poco meno di un quarto di questa, il livello di abuso viene raccomandato come problematico (Politiche Antidroga, 2017).

Rischio di sviluppare abuso e dipendenza da cannabis

Studi recenti indicano l’abuso di cannabis durante l’adolescenza come precursore del rischio elevato a sviluppare sintomi di dipendenza in età adulta (Rioux et al,. 2018)

L’influenza della cannabis viene solitamente valutata in base alle concentrazioni di THC, uno dei maggiori e più noti principi attivi, considerato il più esemplare della famiglia dei fitocannabinoidi. (D’Souza et al., 2004)

Il sistema endocannabinoide è costituito da specifici recettori contenuti nelle cellule del corpo umano. Gli endocannabinoidi sono una classe di lipidi bioattivi che condividono la capacità di legarsi ai recettori cannabinoidi, i medesimi con cui lavorano i fitocannabinoidi.

I cannabinoidi sono diversi, in ordine temporale di identificazione sono: l’anandamide (AEA), seguito dal 2-arachidonoilglicerolo (2-AG) e da almeno altri tre cannabinoidi endogeni: il 2-arachidonil-gliceril-etere (noladin, 2-AGE), uno strutturale affine del 2-AG, la virodamina e la N-arachidonoildopamina (NADA). Più recente è il palmitoiletanolamide (PEA).
Tali mediatori lipidici, unitamente con i recettori dei cannabinoidi e i processi di sintesi collegati, il trasporto e la degradazione, rappresentano il sistema endocannabinoide. Questo sistema regola le sinapsi inibitorie ed eccitatorie. Il suo ruolo è attivo sin dalle fasi iniziali dello sviluppo e durante l’adolescenza, l’esposizione ai cannabinoidi esogeni può favorire una maggiore vulnerabilità ed esiti avversi a lungo termine sul rimodellamento cerebrale e sviluppo corticale, alla corteccia somatosensoriale e prefrontale.

Molte ricerche scientifiche evidenziano come l’uso di cannabis ad alta concentrazione di THC sia predittivo di esordi psicotici. (Freeman and Winstock, 2015; Colizzi and Murray, 2018; Minică et al., 2018; Gage, Hickman and Zammit, 2016; Davies, Sullivan and Zammit, 2018).

Tuttavia, la pianta di cannabis contiene molti altri cannabinoidi, nello specifico il cannabidiolo (CBD). insieme ad altre sostanze chimiche delle piante conosciute come terpenoidi, contribuiscono alla potenza moderando gli effetti del THC. La potenziale attività del CBD favorisce risultati terapeutici diversi sia in età infantile e sia in adulta nel trattamento delle patologie neurologiche e psichiatriche (Schonhofen et al., 2018; Mandolini et al., 2018).

Cura e prevenzione

Interessante notare come negli Stati Uniti dal 2004 al 2011 le visite ambulatoriali sono notevolmente aumentate per adolescenti (12-17 anni) che fanno uso di cannabis, rispetto ai ricoveri ospedalieri connessi alla droga per giovani adulti (21-24 anni) che usano cannabis e altri farmaci. Si osserva che il numero dei ricoveri cresce all’aumentare dell’età (Zhu and Wu, 2016), mentre si evidenzia una prevalenza di abuso maggiore per gli uomini (3,5%) rispetto alle donne (Kerridge et al., 2018).

Nel 2016 in Italia sono stati registrati circa 730 casi di ricoveri ospedalieri correlati alla cannabis a fronte di 6.083 che hanno interessato indistintamente tutte le droghe. Di questi ultimi, la punta dell’iceberg è rappresentata da soggetti di età compresa tra 25 e 44 anni, mentre viene segnalato trend significativamente crescente per le fasce di età comprese tra i 15 e 24 anni e tra i 45 e i 54 anni (Politiche Antidroga, 2017).

Esaminando la letteratura si evince un’ampia descrizione delle cause determinanti l’abuso di cannabis e sembrano condividere antecedenti comuni legati a varie forme come: avversità nell’infanzia, fattori relativi al gruppo dei pari e condizioni familiari. (Farmer et al., 2015).

Nello stesso tempo, gli effetti causali dell’abuso, indipendenti da questi fattori, determinano traiettorie di vita che implicano esiti negativi dal punto di vista psicofisico e psicosociale (Lynskey and Hall, 2000). Altri studi evidenziano la relazione tra a dipendenza da cannabis e la componente genetica che può sovrapporsi ai disturbi psichiatrici (Authier et al., 2003; Minică et al., 2018). Altri studi hanno considerato l’effetto devastante dell’abuso di sostanze sia a livello strutturale sia metabolico in caso d associazione alla patologia psichiatrica come il disturbo bipolare (Altamura et al., 2017).

Prevenzione e supporto

Tra le indicazioni del Piano di Azione Nazionale (PAN) sulle Droghe un forte accento viene posto sulla prevenzione in ambito scolastico con l’obiettivo prioritario di aumentare il livello di informazione sui rischi correlati al consumo di sostanze e garantire agli adolescenti, non aderenti a regime medico, lo sviluppo di abilità sociali e di life-skills attraverso progetti ampiamente diffusi.

I fattori alla base dell’impegno sportivo nell’età evolutiva

I giovani atleti passano gran parte del loro tempo libero nel contesto sportivo, dove si sottopongono ad attività estremamente impegnative dal punto di vista psicofisico (allenamento, ansia per la prestazione ecc.) è per questo importante indagare quali fattori li motivano e li tengono ingaggiati nelle diverse attività.

 

Diversi studi hanno messo in evidenza la stretta correlazione che esiste fra lo stile relazionale dell’allenatore e il provare piacere e benessere dall’esperienza sportiva da parte dei giovani atleti. È fondamentale stabilire quali possono essere i fattori che incrementano e fanno persistere l’impegno in una pratica sportiva nell’età evolutiva, visto il dilagare della vita sedentaria e del conseguente sovrappeso e obesità nelle giovani generazioni. Queste variabili sono lo stile relazionale dell’allenatore, che deve essere finalizzato a far acquisire il senso dell’autonomia, la percezione dell’autodeterminazione delle proprie azioni di gioco e la sensazione di benessere derivante dalla pratica sportiva.

Keywords: stile relazionale dell’allenatore, sport, età evolutiva, benessere.

Attualmente diversi studi (Duda, 2013; Reynolds e McDonough, 2015) hanno messo in evidenza la stretta correlazione che esiste fra lo stile relazionale dell’allenatore e il provare piacere e benessere dall’esperienza sportiva da parte dei giovani atleti. È fondamentale stabilire quali possono essere i fattori che incrementano e fanno persistere l’impegno in una pratica sportiva nell’età evolutiva, visto il dilagare della vita sedentaria e del conseguente sovrappeso e obesità nelle giovani generazioni (Bangsbo e al., 2016).

Importante, da questo punto di vista, è la motivazione che spinge i ragazzi ad impegnarsi nella pratica sportiva. Molte ricerche hanno avuto come focus concettuale da esplorare proprio i fattori motivazionali e i legami che si creano fra essi, lo stile relazionale dell’allenatore e il benessere percepito dai giovani sportivi (Mageau e Vallerand, 2003; Duda e Balaguer, 2007; Duda e al., 2018).

Fra le diverse componenti individuate, sembra che un ruolo di rilievo lo rivesta la figura dell’allenatore, che deve incrementare l’acquisizione dell’autonomia nei suoi piccoli allievi (Ryan e Deci, 2017). In altre parole, più il coach alimenta l’autodeterminazione e, quindi, l’autonomia nei giovani giocatori e più essi ricavano delle emozioni positive dalla pratica sportiva, che divengono il paradigma fondante del benessere percepito e del proseguimento dell’impegno sportivo (Adie e al., 2012; Gonzales e al., 2016).

Di capitale importanza è proprio il benessere vissuto, in quanto tale esperienza consente di superare l’impegno che la pratica sportiva, seppure a livello amatoriale, comporta. Ci si riferisce al fatto che i giovani atleti passano gran parte del loro tempo libero nel contesto sportivo, dove si sottopongono ad attività estremamente impegnative dal punto di vista psicofisico (allenamento, ansia per la prestazione ecc.).

Il costrutto di benessere, derivante dalla pratica sportiva, è stato esplorato da diverse angolazioni, che hanno avuto lo scopo di qualificarlo cognitivamente (Balaguer e al., 2018). La sensazione di benessere in ambito sportivo si collega ad una cognizione, ovvero il pensare di essere artefice delle proprie azioni di gioco, percepite come frutto del proprio impegno e della propria forma fisica (Ryan e Deci, 2000). La percezione della forma fisica è legata ad un altro costrutto, che è rappresentato dalla vitalità. In pratica, nello sport la persona pensa di poter essere in grado di compiere fisicamente un’azione di gioco nella misura in cui si sente vitale. In accordo con Ryan e Frederick (1997), si può definire la vitalità come l’esperienza cosciente di possedere energia e vigore.

In conclusione, i ragazzi persistono nel loro impegno sportivo, una volta cominciato, grazie ad una serie di fattori, ovvero lo stile relazionale dell’allenatore, che deve essere finalizzato a far acquisire il senso dell’autonomia, la percezione dell’autodeterminazione delle proprie azioni di gioco e la sensazione di benessere derivante dalla pratica sportiva.

Liking gap: ecco perché temiamo di non piacere molto agli altri

Conversando con nuove persone i nostri interlocutori godono della nostra compagnia più di quanto immaginiamo, tuttavia la maggior parte di noi pensa di non fare una bella impressione: i ricercatori chiamano questo fenomeno Liking Gap. Cerchiamo di capire perchè ciò avviene.

 

Nella vita sociale siamo costantemente impegnati in quel processo che viene chiamato “meta-percezione”, ovvero nella percezione di come gli altri ci vedono.

Liking Gap: lo studio

Un team di ricercatori ha definito questo fenomeno Liking Gap:

La nostra ricerca suggerisce che stimare con precisione quanto si piaccia a un nuovo interlocutore, anche se questa è una parte fondamentale della vita sociale e qualcosa di cui abbiamo ampia esperienza, è un compito molto più difficile di quello che immaginiamo.

I ricercatori hanno formato coppie di partecipanti che non si erano mai incontrati prima e li hanno incaricati di svolgere una conversazione di 5 minuti con domande rompighiaccio (ad esempio: Da dove vieni? Quali sono i tuoi hobby?). Al termine della conversazione, i partecipanti hanno valutato quanto apprezzassero il loro interlocutore e quanto pensassero che il loro interlocutore li avesse apprezzati.

Liking Gap: gli altri ci apprezzano di più di quello che pensiamo

Le valutazioni hanno dimostrato che i partecipanti hanno apprezzato il loro partner più di quanto questo pensasse, a prescindere dalla lunghezza delle conversazioni. Dalle analisi delle registrazioni video si evince che i partecipanti non si rendevano conto dei segnali comportamentali dei loro partner che indicavano interesse e divertimento, commettendo un errore di stima.

I partecipanti hanno in seguito riflettuto sulle conversazioni avute in base alle valutazioni ricevute: hanno creduto che i momenti salienti che hanno modellato i pensieri del loro partner su di loro fossero più negativi dei momenti che hanno modellato i loro propri pensieri sul partner.

Sembrano essere troppo presi dalle proprie preoccupazioni su ciò che dovrebbero dire, e questo gli impedisce di vedere i segnali di gradimento, visibili chiaramente invece dagli osservatori esterni.

Le persone sono spesso titubanti, incerte sull’impressione che stanno facendo sugli altri ed eccessivamente critiche nei confronti delle proprie prestazioni

affermano Boothby e Cooney.

Alla luce del grande ottimismo della gente in altri settori, quali intelligenza e capacità di guida, il pessimismo delle persone riguardo alle loro conversazioni è sorprendente!

I ricercatori ipotizzano che questa differenza possa discendere nel contesto in cui effettuiamo queste autovalutazioni. Quando c’è un’altra persona coinvolta, come un partner di conversazione, potremmo essere più cauti e autocritici rispetto a situazioni in cui valutiamo le nostre qualità senza altre fonti di feedback.

Siamo auto-protettivamente pessimisti e non vogliamo assumere che gli altri ci piacciano prima di scoprire se è proprio vero – ha detto Clark.

Gli autori ritengono che il Liking Gap può ostacolare la nostra capacità di sviluppare nuove relazioni, per questo ritengono importante portare avanti questo studio.

Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio (2018): come raccontare la malattia oncologica ai più piccoli? – Recensione del libro

La realizzazione del libro Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio rientra in un progetto, denominato “La malattia spiegata a mio figlio” ideato e realizzato, presso l’UOSC di Ematologia Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Napoli Fondazione G. Pascale.

 

Ci sono cose di cui è molto difficile parlare. Il tumore è una di queste. E se l’interlocutore a cui ci rivolgiamo è un bambino? Come si fa a spiegare a un bambino che il genitore si è ammalato e che deve curarsi?

Spesso noi adulti ci sentiamo impreparati e preferiamo tacere, nell’illusione di proteggere il bimbo da una realtà dolorosa e incomprensibile. Se, invece, ci fosse un modo per parlare di malattia oncologica, un modo a misura di bambino?

Il libro illustrato Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio prova a spiegare quello che sta succedendo. Con parole semplici, facendo attenzione all’emotività e alla sensibilità del bambino, viene detto al piccolo lettore che il papà ha una malattia particolare.

Per guarire da quella che viene chiamata “la malattia del papà” servono cure speciali, che si possono fare solo in ospedale; vengono illustrati in modo chiaro e veritiero, ma al tempo stesso delicato, gli effetti collaterali della chemioterapia, calando un evento tanto tremendo e fuori dall’ordinario come è la malattia oncologica nella quotidianità, per rassicurare il bimbo, accogliendo le sue emozioni e le sue paure.

Qual è l’obiettivo di questo libro?

La realizzazione del libro Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio rientra in un progetto, denominato “La malattia spiegata a mio figlio” ideato e realizzato, presso l’UOSC di Ematologia Oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Napoli Fondazione G. Pascale, dalle psico-oncologhe Gabriella De Benedetta e Silvia D’Ovidio e dal direttore, il medico ematologo Antonio Pinto.

Il libro Papà uovo. La malattia spiegata a mio figlio mantiene i testi e le belle illustrazioni create dal fumettista Sergio Staino già presenti nel precedente Mamma Uovo. La malattia spiegata a mio figlio, pubblicato nel 2015.

È importante, anche se è tutt’altro che facile, riuscire a trovare il modo più opportuno per comunicare ai bambini quello che sta succedendo al genitore; se tacere potrebbe, a prima vista, sembrare la scelta migliore – per evitare di coinvolgere il bambino in ansie e preoccupazioni “da grandi” – di fatto, al contrario, l’impossibilità di parlare di quello che sta succedendo non fa che aumentare la difficoltà e l’isolamento, rendendo la situazione più difficile da affrontare di quanto già non sia.

Il progetto “La malattia spiegata a mio figlio” ha dato vita anche ad un cartone animato, che prende per mano lo spettatore e gli parla in modo dolce, in modo che possa comprendere, guardando alla malattia oncologica con gli occhi di un bambino. Uno sguardo sul mondo che aiuta anche noi adulti a ritrovare, nonostante il tema così doloroso, la leggerezza e la speranza.

Brevi riflessioni sul caso Dora di Sigmund Freud – Un articolo di Giancarlo Dimaggio

Stanley Kubrick si è mai chiesto se mettere in scena Doppio Sogno di Schnitzler, o Il caso Dora di Freud? Avrebbe comunque girato un gran film. Un racconto potente, torbido, sensuale: “La casa era in fiamme; mio padre, in piedi accanto al mio letto, mi diceva di alzarmi; mi vestii in fretta”.

Articolo scritto da Giancarlo Dimaggio per il Corriere della Sera il 25/08/18

 

Un sogno, una finestra su un quadrilatero amoroso sghembo, malato, perverso e quindi avvincente. Il padre di Dora ha una relazione con la signora K. Il signor K. di suo tenta di sedurre Dora quattordicenne.

Dora si presenta con sintomi isterici: afonia, tosse nervosa, emicrania. Si annoia. L’analisi fallì. Malgrado questo Freud ci costruì sopra teorie che purtroppo hanno rallentato il progresso della psicoterapia. Pierre Janet prima e Freud stesso fino ad allora attribuivano i sintomi isterici a eventi traumatici reali. Oggi sappiamo che è così e curiamo i pazienti di conseguenza. Freud invece insistette sulle fantasie sessuali di Dora, che immaginava necessariamente eccitata dalla corte del signor K. I sintomi isterici per lui nascevano da lì. Sono stati necessari decenni per tornare all’origine traumatica della sofferenza psichica. Oggi un terapeuta si concentrerebbe sull’impatto che la freddezza affettiva della madre e il comportamento ambiguo del padre avevano sulla ragazza. Cercherebbe di farle capire che i sintomi nascevano da motivi sensati: sei afona, non hai voce e chi non ha voce è perché sa che non viene ascoltato.

Eppure c’era del genio, me lo dice il mio amico Francesco Gazzillo, psicoanalista acuto. Il lavoro sui sogni: indagarli, perché offrono tracce del funzionamento intrapsichico e relazionale. Grande idea. E poi Freud capì che quello che chiamiamo transfert, ovvero il modo in cui il paziente vede il terapeuta, dipende sì dalla storia del paziente, dai suoi schemi relazionali. Ma in parte dalle caratteristiche reali del terapeuta. Siamo terapeuti ma anche umani, con la nostra storia e la nostra posizione del mondo. I pazienti si confrontano con questo.

Cannabis: come impatta sulle funzioni cognitive degli adolescenti

Un dato preoccupante presente in letteratura fa riferimento all’elevato tasso di utilizzo di droghe tra i giovani. La maggiore facilità attraverso cui è possibile reperire tali sostanze è accompagnata a un utilizzo sempre più precoce.

 

Nel 2017, il rapporto dell’Agenzia europea delle droghe ha pubblicato i dati relativi alle tossicodipendenze nel suo consueto rapporto annuale, relativo al 2015. Dai dati è emerso che il 19% dei ragazzi italiani, dunque quasi uno su cinque, ha fatto uso di cannabis nel corso degli ultimi dodici mesi: una percentuale inferiore solo a quella della Francia, che ha registrato il 22,1% di consumo nello stesso intervallo di età.

Sebbene molti studi abbiano evidenziato la correlazione esistente tra l’uso di cannabis e alcol e una maggiore compromissione dei processi cognitivi, un nuovo studio dei ricercatori di CHU Sainte-Justine e dell’Université de Montréal, pubblicato sull’American Journal of Psychiatry, ha sottolineato la relazione causale tra l’utilizzo di cannabis e i danni a carico di diverse funzioni cognitive. In più, secondo i ricercatori, gli effetti di questa sostanza sulle funzioni cognitive sono più pronunciati rispetto a quelli osservati per l’uso di alcol.

Cannabis e funzioni cognitive negli adolescenti: la ricerca

Lo studio ha preso in considerazione un ampio numero di studenti canadesi delle scuole superiori, precisamente 3.826, che sono stati suddivisi in tre gruppi: astinente, consumatore occasionale, consumatore abituale. Per comprendere la relazione tra alcol, uso di cannabis e sviluppo cognitivo tra gli adolescenti a tutti e tre i livelli di consumo, i ricercatori hanno seguito il campione di adolescenti per un periodo di quattro anni. Gli autori hanno studiato le variazioni durante gli anni nell’uso di sostanze in relazione allo sviluppo cognitivo. In particolare, i domini cognitivi presi in considerazione dai ricercatori erano: memoria di lavoro, ragionamento percettivo, controllo inibitorio, qualità del ricordo.

Cannabis e funzioni cognitive negli adolescenti: i risultati

Lo studio ha rilevato che l’utilizzo di cannabis e di alcol in adolescenza era associato a prestazioni generalmente inferiori su tutti i domini cognitivi presi in esame.

Tuttavia, Conrod ha messo in evidenza che l’aumento, negli anni, dell’uso di cannabis, al netto del consumo di alcol, comporta una compromissione delle stesse funzioni cognitive.

L’autore ha aggiunto:

Particolarmente preoccupante è stata la scoperta che l’uso di cannabis era associato a una compromissione duratura del controllo inibitorio. Questa relazione potrebbe spiegare perché l’uso precoce della sostanza è un fattore di rischio per altre dipendenze.

Infine, Morin ha aggiunto:

Alcuni di questi effetti sono ancora più pronunciati quando il consumo di cannabis inizia prima dell’adolescenza.

Questa ricerca sottolinea l’importanza di mettere in atto delle politiche di prevenzione nei contesti scolastici e sportivi, e una maggiore sensibilizzazione rivolta alle famiglie, rispetto ai danni che derivano dall’utilizzo della cannabis, ma anche di altre sostanze.

 

Mutismo Selettivo: caratteristiche generali, diagnosi e trattamento

Che cos’è il mutismo selettivo? Quali sono le sue caratteristiche? Che cosa comporta questo disturbo? E se fosse solo timidezza? Il mutismo selettivo è un comportamento oppositivo? Come si può intervenire?

 

Ottobre è il mese della sensibilizzazione sul mutismo selettivo, un disturbo caratterizzato dall’incapacità di parlare in determinate situazioni sociali nonostante lo sviluppo del linguaggio sia normale. Il disturbo è diffuso prevalentemente in età infantile ma può essere presente anche in età adulta. Riconoscere il disturbo, collaborare con la scuola e chiedere aiuto ad uno specialista qualificato sono elementi essenziali per aiutare il bambino.

Mutismo selettivo: definizione

Il mutismo selettivo (MS) è un disturbo d’ansia che impedisce al bambino di esprimersi attraverso una normale verbalizzazione: la caratteristica principale del disturbo è la costante incapacità di parlare in situazioni sociali nelle quali ci si aspetta che l’eloquio sia presente se pur questo sia normale e avvenga liberamente in altri contesti considerati familiari.

Il termine “selettivo” indica che il bambino riesce ad esprimersi solo con determinate persone delle quali si fida e in alcune circostanze nelle quali si sente sereno (solitamente l’ambiente familiare) ma mostra difficoltà in ambienti sociali in cui non si sente a proprio agio (in particolar modo nel contesto scolastico poiché è il luogo principale in cui il bambino è esposto a frequenti domande e richieste di prestazione). La selezione degli interlocutori può essere più o meno ampia fino ad arrivare anche ad un solo genitore.

Il grado di persistenza è variabile: può verificarsi per alcuni mesi oppure mantenersi per diversi anni. Una remissione completa del disturbo è presente nella maggior parte dei casi, tuttavia possono permanere difficoltà comunicative e relazionali.

Mutismo selettivo: storia e classificazione

I primi studi risalgono alla seconda metà dell’800 quando Kussmaul pubblicò un resoconto su tre soggetti incapaci di parlare in determinate situazioni pur avendone le capacità, definendolo con il termine “afasia volontaria” pensando quindi fosse causato da una decisione del soggetto. Tramer nel 1934 introduce per la prima volta il termine di “mutismo elettivo” per indicare la scelta del bambino che pur sapendo parlare rimaneva in silenzio; è solo nel 1983 con Hasselman che si inizia a parlare di “mutismo selettivo” per indicare la condizione del bambino incapace di esprimersi solo in determinate circostanze in risposta ad un ambiente vissuto come pauroso.

I primi manuali diagnostici DSM III-R e ICD 10 descrivono il disturbo come un persistente rifiuto di parlare da parte del bambino; nel DSM IV e nel DSM IV-TR il silenzio viene invece concettualizzato come “incapacità” di parlare. La vera rivoluzione è rappresentata dall’ultima versione del manuale americano (DSM 5) che elimina il disturbo dalla sezione “Altri disturbi dell’Infanzia, della fanciullezza o dell’adolescenza” inserendolo nella sezione “Disturbi d’ansia” in seguito alle diverse evidenze scientifiche che identificano l’ansia come una delle caratteristiche principali all’interno del quadro clinico del disturbo.

Mutismo selettivo: diffusione

Il Mutismo Selettivo è un disturbo relativamente raro: il tasso di prevalenza nei bambini oscilla tra lo 0,2% e lo 0,8% anche se negli ultimi anni la percentuale sembra in aumento. La difficoltà a stabilire con precisione una stima è dovuta alla mancanza di un modello univoco circa le cause e gli strumenti di valutazione.

Il disturbo si presenta in prevalenza nel sesso femminile probabilmente perché le bambine sono più inclini all’ansia, con un rapporto femmine-maschi di 2:1, rappresentando un’eccezione rispetto agli altri disturbi dell’età evolutiva nei quali si riscontra una prevalenza del sesso maschile.

Il Mutismo Selettivo ha un esordio precoce, tra i 2 e i 4 anni infatti emergono i primi sintomi quali timidezza, rifiuto di parlare in certe situazioni e comportamento riservato. Il disturbo è riconoscibile in modo chiaro solamente quando il bambino inizia a frequentare la scuola materna o la primaria poiché questi tendenzialmente rappresentano i primi contesti al di fuori dell’ambiente familiare in cui il bambino deve parlare.

Mutismo selettivo: cause e disturbi correlati

Le cause responsabili del Mutismo Selettivo sono ad oggi poco chiare poiché le spiegazioni presenti in letteratura sono varie e ampiamente diversificate. L’ipotesi più accreditata è che il disturbo sia una condizione eterogenea determinate da diversi fattori, in primis fattori genetici e ambientali.

Secondo il modello bio-psico-sociale, l’evidenza di tratti temperamentali costanti nei bambini con Mutismo Selettivo e la presenza di tratti simili nei genitori porta ad ipotizzare un ruolo dei fattori neurobiologici e genetico-familiari all’origine del disturbo. Accanto all’ipotesi neurobiologica risulta di fondamentale importanza il ruolo dei fattori psicologici e sociali, tuttavia contrariamente a quanto si potrebbe pensare ricerche recenti non supportano l’idea secondo la quale esperienze traumatiche vissute dai bambini siano da considerarsi potenziale causa d’insorgenza del disturbo. Un potenziale fattore di rischio è rappresentato dalla migrazione del nucleo familiare: il rischio di sviluppare la patologia in questi bambini è tre volte superiore rispetto alla popolazione nativa, tuttavia in questi casi la diagnosi è più complessa perché un periodo caratterizzato dall’assenza di comunicazione verbale è tipico in questi bambini.

Diversi modelli psicologici hanno cercato di rintracciare le cause del disturbo: secondo il modello psicodinamico l’origine del Mutismo Selettivo è da ricondursi a problematiche nell’ambito dell’oralità in rapporto ad un rigido legame con la madre. La prospettiva sistemico familiare dal canto suo chiama in causa rapporti familiari difficili, attribuendo grande peso alla relazione genitore-figlio. Il modello psicologico ad oggi maggiormente diffuso è quello cognitivo-comportamentale che vede il disturbo come il risultato di esperienze di apprendimento rinforzate negativamente: il silenzio è utilizzato come strumento per controllare e gestire l’ansia.

Il Mutismo Selettivo presenta diverse manifestazioni correlate ad altri disturbi dello sviluppo: alcuni soggetti presentano disturbi specifici o ritardi del linguaggio mentre altre ricerche hanno riscontrato difficoltà nella coordinazione motoria genarle e in quella manuale nonché deficit di processazione uditiva. La nuova categorizzazione diagnostica suggerisce comorbilità con i disturbi internalizzanti, in particolar modo la sintomatologia ansiosa risulta essere il pattern di disturbi maggiormente correlato.

Caratteristiche dei bambini con mutismo selettivo

L’idea comune a chi si trova di fronte ad un bambino selettivamente muto è che il suo comportamento sia provocatorio e di sfida, tuttavia è di fondamentale importanza comprendere che l’assenza della parola è dettata da un elevato livello d’ansia e una conseguente paura che il bambino riesce a controllare solamente tacendo.

Questi bambini sono consapevoli della loro difficoltà, provando molta sofferenza e frustrazione perché desiderano fortemente riuscire a parlare e giocare con gli amici. A causa della forte paura che le interazioni sociali suscitano in questi bambini le loro espressioni facciali risultano inespressive, vi è difficoltà a mantenere il contatto visivo con l’interlocutore e elevata sensibilità per l’ambiente circostante. Il linguaggio del corpo è impacciato e goffo quando si rivolge loro attenzione, è tipico di questi bambini voltare la testa o guardare a terra durante una conversazione, toccarsi i capelli (segnale di un elevato livello di ansia) oppure nascondersi.

Molto spesso i bambini lamentano sintomi fisici quali: mal di stomaco, mal di testa, nausea, manifestazioni di pianto o di collera; con l’aumentare dell’età i sintomi si modificano in palpitazioni cardiache, svenimenti, tremori e eccessiva sudorazione. A scuola molti bambini hanno difficoltà a chiedere di andare al bagno e a mangiare: i bambini rifiutano di nutrirsi, nascondono il cibo o attendono che i compagni abbiano terminato il pranzo e se ne siano andati.

Mutismo selettivo: valutazione diagnostica

La valutazione deve essere compiuta nel modo più completo possibile, ricorrendo ad un approccio diagnostico multimodale e considerando i possibili fattori di comorbilità. Compiere un’anamnesi dettagliata della storia di vita del bambino appare fondamentale perché alcuni segnali di allarme del disturbo possono essere rintracciati durante lo sviluppo: fattori biologici-temperamentali (difficoltà di addormentamento, disturbi del sonno, irrequietezza), fattori cognitivi-affettivi (vulnerabilità, vergogna) e fattori socio-culturali e familiari (stile educativo ansioso, scarse competenze sociali della famiglia).

Il primo passo da compiere è un colloquio approfondito con i genitori a cui seguirà l’incontro con il bambino. In questa fase l’osservazione dei disegni, del gioco libero e del linguaggio corporeo risulta molto utile. Uno strumento utile per valutare la capacità di comunicazione del bambino è la Selective Mutism Stages Communication Comfort Scale. La scala illustra in 3 livelli le diverse fasi che conducono alla comunicazione verbale. Al fine di attuare un intervento e valutarne i progressi è necessario collocare il bambino all’interno di uno di questi livelli.

Il clinico deve compiere un’analisi funzionale del comportamento del bambino per giungere alla formulazione di un percorso di trattamento il più idoneo possibile al bambino e all’ambiente in cui vive. Ciò che si può affermare con certezza è che quanto prima il disturbo viene diagnosticato e trattato nel modo corretto tanto maggiore sarà la possibilità di superare il problema.

Mutismo selettivo: il trattamento

Trovare un trattamento valido per tutti i bambini è un’impresa quasi impossibile, ogni bambino rappresenta un caso particolare e il trattamento deve essere individualizzato.

Sul versante della psicoterapia, negli ultimi anni l’approccio più citato in letteratura è sicuramente quello cognitivo-comportamentale. In questo caso lo scopo è quello di diminuire i livelli di ansia e incrementare la verbalizzazione. Le tecniche maggiormente utilizzate sono quelli di stampo comportamentale, visto che si lavora nella maggior parte di casi con bambini, spesso coinvolgendo anche altre figure significativi quali le insegnanti.

La terapia psicoanalitica sembra essere il trattamento più adatto per bambini in età prescolare (3-5 anni) perché utilizza primariamente come strumenti d’indagine il disegno e il gioco.

In alcuni casi, il supporto psicologico messo in atto precocemente solo con la coppia genitoriale si rivela molto utile conducendo ad ottimi risultati.

Recenti studi suggeriscono l’idea di considerare il trattamento farmacologico in aggiunta a quello terapeutico nel caso in cui quest’ultimo non conduca a risultati evidenti. I farmaci di prima scelta nel trattamento del MS sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), comunemente usati nel trattamento di disturbi d’ansia e dell’umore. Il meccanismo grazie al quale questi farmaci producono miglioramenti in questo disturbo non ad oggi del tutto chiaro, ad ogni modo sembrerebbero ridurre i livelli d’ansia provati dal bambino rendendo più facile il trattamento terapeutico.

Mutismo selettivo: il ruolo della famiglia e della scuola

Famiglia e scuola rappresentano i due ambienti principali in cui il bambino vive, affinché si possa realizzare un intervento efficace la psicoeducazione dei genitori e degli insegnanti è fondamentale.

Nella maggior parte dei casi, i bambini selettivamente muti intrattengono una normale conversazione nell’ambiente domestico provocando confusione nei genitori posti davanti al mutismo dei figli negli altri contesti. I genitori e i famigliari devono capire e accettare il disturbo, evitando di focalizzare l’attenzione sulla mancanza della parola. È necessario che i genitori comprendano il disagio del figlio e mettano in atto strategie per diminuire lo stato ansioso: avere una routine fissa può essere d’aiuto a questi bambini soprattutto in momenti particolari della giornata come la mattina prima della scuola. Per aiutare i propri figli i genitori dovrebbero incoraggiare le interazioni sociali, magari organizzando incontri con l’amico di scuola con cui il bambino si trova più a suo agio.

La scuola rappresenta per i bambini con MS un luogo in cui si sentono moto a disagio. Le maestre non devono forzare i bambini a parlare, ai docenti è richiesta una grande attenzione e preparazione nel saper cogliere i segnali di malessere del bambino. La maestra deve essere comprensiva e disponibile e permettere la comunicazione non verbale; è possibile e necessario valutare le conoscenze apprese come qualsiasi altro alunno ricordando però che l’ansia influenza la prestazione scolastica: è consigliabile utilizzare test non verbali senza limiti di tempo durante lo svolgimento delle prove di verifica.

Mutismo selettivo in età adulta

La maggior parte delle volte il mutismo selettivo si risolve prima dell’età adulta, tuttavia ci sono casi in cui il disturbo continua in adolescenza e oltre.

Un adolescente muto selettivo quasi certamente convive con il disturbo da molti anni nel corso dei quali ha sviluppato e rinforzato meccanismi di comportamento errato per gestire l’ansia, affrontando ogni situazione ansiogena con il silenzio. A differenza dei bambini più piccoli, i ragazzi con mutismo selettivo sono pienamente consapevoli della loro situazione e nel corso degli anni hanno imparato a mascherare i segnali d’ansia. I vissuti di questi ragazzi sono caratterizzati per la maggior parte da isolamento e solitudine.

Poca considerazione è stata riservata alla presenza del disturbo in età adulta. Dall’analisi dei dati presenti non è possibile ottenere una stima dell’incidenza del disturbo riferita a quest’età, si può ipotizzare però che la diffusione negli adulti sia inferiore all’1% in quanto, generalmente, il disturbo presenta completa risoluzione nell’infanzia. In linea generale si può affermare che soggetti adulta con una storia presente o passata di mutismo selettivo presentano disturbi principalmente legati alla sintomatologia ansiosa, in particolar modo disturbo d’ansia sociale e difficoltà relazionali.

 

Interazione Uomo-Robot e la Teoria della Mente – VIDEO

I robot, uscendo dalle fabbriche e interagendo con le persone ci hanno dato un nuovo modo di interpretare – non solo le relazioni ma – l’intera psicologia. Un campo emergente denominato Interazione Uomo-Robot (HRI) ci illumina sui meccanismi relazionali rispondendo alle domande più complesse: perché siamo portati a trattare il robot come un nostro simile, provvisto di emozioni e di una mente? Nel video ce lo spiega il dott. Claudio Lombardo

 

 

La robotica: cos’è un Robot e cosa può fare?

Ripensare la natura della cognizione: l’importanza del corpo in robotica

Tra von Neuman e Turing: verso la complessità computazionale. Le coordinate scientifiche di una visione materialistica delle basi naturali del pensiero

Perchè abbiamo paura dei robot? L’antropomorfismo e la teoria dell’uncanney valley. L’Interazione Uomo-Robot (HRI) secondo un’indagine freudiana.

“Non sono un algoritmo” – Book Trailer di Claudio Lombardo

Il Sé autentico – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 44

Come è possibile scoprire qual è il “vero, autentico me stesso”? E, soprattutto, è davvero utile farlo?

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il Sé autentico (Nr. 44)

 

In una trasmissione radio colta durante la presentazione di un libro si parlava di quanto fosse stato importante per la protagonista, una giovane donna 39enne, guardarsi sinceramente ora “allo specchio”, ora ancora più profondamente “dentro”, per capire chi fosse prima di compiere le scelte della sua vita.

Ascoltavo e annuivo compiaciuto, guidando, quasi leccandomi i baffi come quando si ascolta un’ovvietà confirmatoria che ci ribadisce la correttezza del nostro punto di vista. Ma ormai ho imparato a non fidarmi e quando provo quella sensazione di AJR (all just right “proprio tutto a posto”) è probabile che stia su una trappola o, come direbbe Montalbano “uno sfunnapedi”. Allora appizzo le orecchie e cerco di capire.

Il primo passo è sempre autoreferenziale e mi sono chiesto se io sappia chi sono, anche senza tutti quei rafforzativi tipo “veramente”, “profondamente”, “sinceramente”. La risposta forte e chiara è: assolutamente “no”! a cui seguono altre considerazioni circa il fatto che proprio per gli aspetti che mi riconosco cominciano i guai, e non solo per la bruttezza di ciò che scopro, ma per il processo in sé. Voglio sostenere che il tanto sbandierato “conosci te stesso” socratico sia contemporaneamente impossibile, inutile e spesso dannoso.

Naturalmente tutto ciò deve rimanere assolutamente segreto (e ad esso vincolo i lettori della presente) perché su questa palese cazzata la psicoterapia ha fatto la sua fortuna e la fine della crisi economica mondiale tarda ad arrivare e dunque per ora “la guerra è guerra!”

Ma andiamo per gradi dimostrandone intanto l’impossibilità, il che taglierebbe la testa al toro come nella storiella del tenente che ribatte al generale infuriato, che vuole spedirlo in corte marziale perché la sua postazione non risponde al cannonggiamento nemico, dicendo che ci sono almeno tre buone ragioni: “la prima è che non abbiamo i cannoni”.

Finchè io cerco di conoscere una mela o un altro dominio dell’esistente è tutto chiaro, c’è un osservato e un osservatore, un oggetto e un soggetto. Ciò vale ancora se l’oggetto dell’osservazione è una parte del mio corpo (esclusi gli occhi stessi) o un mio comportamento, si tratta di una mente che osserva degli oggetti e dei fatti. Ma che succede se la mente vuole guardare se stessa?

Qual è il famosissimo “vero, autentico me stesso” senza la cui conoscenza pare non si possa campare? Si finisce in un regresso all’infinito come quando due specchi ripetono all’infinito la stessa figura. L’“io” che osserva e giudica non è meno vero dell’“io” che agisce ed è giudicato e potrebbe essere a sua volta oggetto di osservazione di un terzo “io” e così via. Per fare un esempio concreto, quando mi disprezzo per dei miei comportamenti immorali, qual è il vero me stesso? Il ragazzino trasgressivo che fa ciò che non s’ha da fare o il moralista bacchettone che lo giudica tale, e chi è che giudica moralista quest’ultimo? Credo di aver dato un’idea dei problemi in cui si incorre.

Il secondo ragionamento riguarda l’utilità o la dannosità di tutto ciò. Perchè un metalivello di osservazione sul proprio funzionamento dovrebbe essere utile, se non indispensabile invece di essere magari semplicemente un intralcio? Non sarebbe meglio se la regola cui attenersi invece di essere “capisci chi sei” fosse più semplicemente “sii!” Dove sta scritto che la consapevolezza migliori l’efficacia del perseguimento dei propri scopi. Soprattutto in periodi in cui gli assetti interni ed il contesto ambientale sono sostanzialmente stabili non ce ne è alcun bisogno, come ci dimostrano gli animali con i loro istinti e le macchine con i loro programmi.

Per non parlare del fatto che il processo in sé probabilmente è peccato e certamente diminuisce la vista e rovina la pelle ma, soprattutto come diceva Quelo: “la risposta è dentro di te ed è SBAGLIATA”.

Sulla dannosità e la pesantezza che crea questo omunculo valutativo con sulle spalle un altro omunculo, fino ad averne una piramide degna degli equilibristi di un circo, non credo debba argomentare molto. La psicopatologia sta quasi tutta nelle liti condominiali tra loro. E non pensiate di cavarvela con la nomina di un amministratore: per carità, peggio!

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

L’altalena. Storia di un’anoressia (2017) di Ursula Vaniglia Orelli – Recensione del libro

«Mangia! Altrimenti ti prendi un’anoressia!», protestava mia nonna quando cercavo di negoziare con lei la quantità – esagerata – di cibo che mi metteva nel piatto. Lo diceva convinta e io, vent’anni fa, la guardavo perplessa, con il dubbio che se non avessi mangiato tutto mi sarei presa quella strana malattia. Oggi, quando ci ripenso, mi viene da sorridere.

 

Al tempo stesso si aprono nella mia testa una serie di riflessioni. Per nome, questo disturbo sembra abbastanza conosciuto (lo conosceva persino mia nonna che era nata all’inizio del secolo scorso) e nell’immaginario collettivo delle persone mi sembra ci sia un’idea molto chiara, ma stereotipata, di chi ne soffre: donne che di punto in bianco decidono di mangiare pochissimo, per avere corpi più magri, in linea con gli standard mediatici, a cui poi la situazione sfugge di mano.

Anoressia: una storia al di là dei luoghi comuni

Se si apre il manuale diagnostico dei disturbi mentali alla voce anoressia e ci si sofferma a leggere i principali criteri diagnostici (restrizione dell’apporto energetico, intesa paura di aumentare di peso, anomalia nel modo in cui si percepisce il proprio corpo) si potrebbe essere indotti a credere che quell’immagine di donna, ossessionata dalla magrezza, possa essere la giusta rappresentazione. Tuttavia, questo significa soffermarsi solo sui sintomi, perdendo l’occasione di comprendere realmente questa malattia. L’anoressia è una malattia che può essere fatale, le diagnosi nel nostro Paese sono in aumento ogni anno, i racconti di persone coraggiose, che affrontano con la penna il ricordo di quei giorni di sofferenza, sono una testimonianza importantissima, che possono aiutare questa società distratta e poco incline a guardare oltre l’apparenza. Le loro storie sono un canale per esplorare da vicino questo mondo, fatto di persone che cercano di reprimere dolore, disagio, sentimenti ed emozioni, fino a farli scomparire in un corpo sempre più piccino ed invisibile.

Anoressia: la trama del libro

L’altalena è uno straordinario romanzo d’amore, di ispirazione autobiografica, che associa al racconto della malattia e della guarigione, una trama coinvolgente. Sullo sfondo intricato del traffico illegale dei diamanti africani, in cui è coinvolta la ricca famiglia Rey, leggiamo la storia della figlia, Chiara, che, tradita dal padre e dall’uomo che amava, si ammala di anoressia ed inizia il difficile percorso di cura con il dottor Salvi. Attraverso i flashback, che emergono durante il percorso psicoterapico, al lettore verrà svelata l’intera trama della storia ma verrà anche mostrato l’evolversi e lo sviluppo dell’anoressia, imparando così a conoscerla. Nel suo racconto Ursula ci mostra come un’anoressica cerchi disperatamente di nascondere il proprio disturbo e come reagisca qualora venga scoperta. La mortificazione del corpo non è un semplice desiderio di magrezza ma il tentativo disperato di cancellare un dolore che non trova modo di uscire dal corpo. Allo stesso modo, ci viene fatta capire l’importanza della terapia per ritrovare un nuovo equilibrio e per tornare ad amare sé stessi.

L’altalena è un racconto molto interessante che non parla solo di sofferenza. È un inno all’amore, verso chi ci ama ma anche verso se stessi. È un invito a proteggere il nostro cuore, custode immaginario dei sentimenti, dalle aggressioni esterne e, soprattutto, da quelle interne perché, come scrive Ursula, possiamo essere vittime ma anche i carnefici: noi stessi possiamo diventare i mostri da combattere, poi da nascondere ed infine far sparire. Per questo è importante capire e sforzarsi di andare oltre le apparenze. Non distogliere lo sguardo da chi si nasconde può essere il primo grande passo che possiamo fare per aiutare il mondo a cancellare questa malattia.

Autostima bassa e uso di droghe: uno studio conferma l’elevata associazione

Secondo una nuova ricerca, condotta dall’Università di Binghamton, persone con bassa autostima tendono a fare un maggiore uso di oppioidi, per far fronte a situazioni di vita stressanti che incidono negativamente sulla loro vita.

 

La Threat Appraisal and Coping Theory, teoria di riferimento dello studio, suggerisce che queste persone in presenza di fattori stressanti mettano in atto comportamenti maladattivi, che nel breve termine alleviano l’angoscia ma nel lungo termine peggiorano la situazione.

Autostima bassa e droghe: lo studio

Nello studio sono state indagate tre variabili: cinque fattori potenzialmente stressanti della vita (salute, soldi, lavoro, famiglia, relazioni d’amore), autostima, uso di oppioidi. È stata prima analizzata l’associazione tra fattori stressanti e l’autostima, in seguito si è indagato sul ruolo da mediatore dell’autostima.

I soggetti della ricerca erano più di 1000 adulti statunitensi, di cui: 54% donne; 53% uomini; dai 45 anni in su; 76% bianchi; 60% con reddito uguale o superiore a 50.000$; 11% fa uso di oppioidi. I partecipanti hanno completato un sondaggio online.

Dallo studio si è evidenziata un’associazione tra bassa autostima e alto consumo di oppioidi. Inoltre, la bassa autostima è risultata essere un mediatore significativo tra fattori stressanti e uso di oppioidi. Questo indica quindi che gli eventi stressanti della vita incidono negativamente sulle persone con bassa autostima, le quali per stare meglio fanno uso di oppioidi.

Autostima bassa e droghe: ciò che resta da capire

La connessione tra queste variabili era stata riscontrata anche in ricerche passate. In questi studi era emerso che gli individui che manifestano un rifiuto sociale e che soffrono poi di depressione e bassa autostima (stati caratterizzati da una riduzione di serotonina e dopamina nel cervello) fanno un maggiore uso di oppioidi. Questo deriva dal fatto che il consumo di oppioidi permette di aumentare l’effetto della dopamina e della serotonina, attraverso un cambiamento rapido e potente nel funzionamento cerebrale.

Visti i risultati, i consumatori di oppioidi potrebbero cercare aiuto per imparare a gestire meglio queste situazioni stressanti, per aumentare la propria autostima, attraverso opportune strategie – afferma l’autore Aksen.

I risultati non sono da generalizzare a tutte le persone che affrontano periodi di vita stressanti. La ricerca presenta alcuni limiti:

  • La maggior parte del campione ha un’identità etnica bianca e reddito alto
  • La quantità di oppioidi utilizzata, la motivazione sottostante, la sequenza degli eventi che portano al consumo di oppioidi, l’esposizione ad un trattamento per uso di sostanze, potrebbero moderare l’associazione tra fattori stressanti e consumo degli oppioidi.

 

Cos’è la dipendenza da cibo? Due voci a confronto: Paul Fletcher e Paul J. Kenny

L’applicazione del termine food addiction al pari di altre forme di dipendenza si basa sul fatto che alcune caratteristiche di questo fenomeno sono simili a quelle riscontrate nel disturbo da abuso di sostanze e alcuni cibi, gustosi e saporiti, sembrano avere gli stessi effetti delle sostanze che creano dipendenza su specifici network cerebrali.

 

Non esiste chiaro consenso sulla validità del concetto di dipendenza da cibo né sul fatto che alcune persone che hanno un discontrollo sull’alimentazione possano considerarsi “dipendenti” al pari di quelle affette da un disturbo da abuso sostanze.

Paul Fletcher, del dipartimento di psichiatria dell’università di Cambridge, e Paul J. Kenny, del dipartimento di neuroscienze dell’Icahn School of Medicine at Mount Sinai di New York, sono le due voci contrapposte nel dibattito sulla caratterizzazione del concetto della food addiction recentemente pubblicato sulla rivista Neuropsychopharmacology.

Cosa si intende per food addiction?

L’applicazione del termine food addiction è basata sul fatto che alcune caratteristiche di questo fenomeno appaiono somiglianti a quelle riscontrate nel disturbo da abuso di sostanze e che alcuni cibi, gustosi e saporiti, sembrano avere gli stessi effetti delle sostanze che creano dipendenza, su specifici network cerebrali – il sistema dopaminergico mesolimbico – legati alla ricompensa.

In particolare, alcuni studi di tipo neurobiologico hanno sviluppato l’ipotesi che la facile accessibilità e sovraconsumazione di questi cibi potrebbe favorire l’attivazione dei medesimi processi cerebrali sottostanti sia comportamenti alimentari di tipo binge che sintomi di astinenza, anche se, al momento, a parere di Fletcher, non esistono delle evidenze robuste e convincenti a riguardo (Fletcher & Kenny, 2018).

Infatti i dati finora ottenuti attraverso l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale e dalla PET non supportano in modo convincente l’ipotesi che nell’uomo i cambiamenti neurobiologici osservati siano riconducibili a comportamenti di food addiction, come invece evidenziato nei modelli animali (Ziauddeen & Fletcher, 2013).

Da diverso tempo si fa riferimento alla food addiction come tentativo di spiegazione di quei pattern di comportamento, spesso osservati in ambito clinico, legati alla ricerca spasmodica di cibi ipercalorici appetitosi ad alto contenuto di zucchero e grassi, simil craving, in cui è presente una perdita di controllo al momento del loro consumo (Davis, 2014).

Per tale ragione, il concetto di food addiction, la cui validità viene attualmente discussa, spesso viene sovrapposto e collegato oltre che alle dipendenze anche a pattern di comportamenti alimentari disfunzionali e problematici, come il disturbo da alimentazione incontrollata e la bulimia in cui sono presenti le abbuffate incontrollate di cibo ipercalorico, tanto da ritenere che la food addiction non sia distinta dal sintomo del binge eating (de Vries & Meule, 2016).

La food addiction è dunque un comportamento alimentare disfunzionale oppure una vera e propria forma di dipendenza?

Per poter stabilire la validità e l’attendibilità del costrutto food addiction è necessario occuparsi anche di altri fenomeni, come la tolleranza e l’astinenza, legate maggiormente al disturbo da abuso di sostanze piuttosto che ai comportamenti alimentari disfunzionali. Infatti il piacere al consumo inversamente proporzionale alla quantità di cibo ingerito può riferirsi al fenomeno della tolleranza, così come l’ansia e la disforia presenti quando vi è penuria di cibi ipercalorici siano da classificarsi come sintomi legati all’astinenza.

Nonostante ciò, in letteratura si sono evidenziate difficoltà nel traslare in modo sistematico le evidenze neurobiologiche ottenute grazie ai modelli animali sugli umani, che potrebbero aiutare nello stabilire la categorizzazione della food addiction tra i disturbi da abuso di sostanza. A parere di Fletcher (Fletcher & Kenny, 2018), infatti, se non vi sono evidenze robuste che possano supportare l’adesione di un costrutto (la dipendenza da cibo o food addiction) ad un modello (quello delle dipendenze), non è scientificamente possibile categorizzare tale costrutto in modo sicuro anche se comunemente ci si riferisce ad alcune tipologie di cibo come a delle droghe.

Al contrario Kenny è maggiormente convinto che il sovraconsumo di cibi ipercalorici ad alto contenuto energetico possa comportare dei rimodellamenti dei circuiti legati alla motivazione in una maniera tale da costituire una vulnerabilità consistente per i soggetti sovrappeso che saranno portati più frequentemente a desiderare certe proprietà nel cibo che ingeriscono, nonostante siano assolutamente consapevoli degli effetti negativi che la loro alimentazione dannosa avrà sulla loro salute (Fletcher & Kenny, 2018), come succede nelle dipendenze.

In particolare la dipendenza da cibo condividerebbe tre caratteristiche cliniche con i disturbi da abuso di sostanze, oltre che la tolleranza e l’astinenza: la sensazione di deprivazione quando la sostanza non è disponibile al momento, una percentuale maggiore di recidiva e di mancanza di autocontrollo durante i momenti di astinenza e la persistenza nel consumo della sostanza (“il non riuscire a farne a meno”, nonostante la consapevolezza dei sue effetti negativi sulla salute).

Diverse evidenze inoltre mostrano come i cibi ipercalorici ad alto apporto energetico stimolino i circuiti della ricompensa nello striato e ciò impedirebbe ai soggetti sovrappeso di perdere il peso in eccesso, e come questi cibi siano implicati nell’alterazione dell’attività dei circuiti prefrontali, alterazione che si riscontra nella dipendenza da sostanze (Siep, Roefs et al., 2009).

In particolare, a parere di Kenny (Fletcher & Kenny, 2018), una specifica combinazione di macronutrienti nei cibi ipercalorici potrebbe determinare una “spinta sovrafisiologica” nei circuiti cerebrali legati alla motivazione, spinta che a sua volta causerebbe comportamenti consumatori.

In conclusione

Nonostante i differenti pareri, entrambi i ricercatori concordano nell’affermare che una maggiore conoscenza dei meccanismi che fanno si ché specifiche sostanze possano rimodellare i circuiti legati alla motivazione, e di conseguenza determinare comportamenti compulsivi di ricerca della sostanza stessa, possa apportare benefici, insieme a ricerche orientate ad identificare le differenze tra la food addicition e il disturbo da abuso di sostanze, alla comprensione di tale fenomeno.

Alimentazione e salute mentale – Report dal Convegno di Palermo, 28 e 29 Settembre 2018

La PsicoNutrizione si rende necessaria quando si riscontrano difficoltà ad attenersi a un modello dietetico idoneo; essa affronta le problematiche della fame emotiva e della dipendenza da cibo supportando chi vuole dimagrire ma incontra difficoltà a lungo termine.

 

Alimentazione, salute psicofisica, prevenzione, sensibilizzazione a un corretto stile di vita: questi i temi centrali del Convegno “Alimentazione e Salute Mentale. Le nuove conquiste del legame mente-corpo” svoltosi il 28 e 29 Settembre scorsi nella sontuosa cornice di Villa Igiea.

Un susseguirsi di relazioni a carattere medico e psicologico, in linea con quanto indicato dall’OMS sul concetto di salute come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, dove un ruolo centrale occupa la prevenzione delle malattie correlate all’obesità, quali le malattie cardivascolari e il diabete.

Il Convegno sottolinea la sinergia tra psicologo e nutrizionista a supporto del paziente che si accinge a seguire con successo un piano alimentare personalizzato e si pone, altresì, l’obiettivo di sensibilizzare gli aspetti di prevenzione e cura per uno stile di vita sano e duraturo nel tempo – introduce la dott.ssa Paola Di Natale, Presidente e Responsabile Scientifico del convegno – In questa direzione si muove la PsicoNutrizione come sostegno a uno stile di vita sano, prima dell’insorgenza dei problemi.

La prevenzione deve iniziare già nella vita prenatale, nella misura in cui i geni possono essere modificati dalle esperienze ambientali, così che il DNA non sia il nostro destino, come sottolinea l’epigenetica – argomenta la dott.ssa Nicoletta Salviato, Responsabile UOS Educazione e Promozione della salute, ARNAS Civico di Palermo – Una corretta prevenzione si rende necessaria per ridurre la probabilità di insorgenza della sindrome metabolica, complessa, patologia che vede associate, tra le altre, insulino-resistenza, obesità centrale e ipertensione arteriosa ed è collegata all’insorgenza dell’Alzheimer.

Oggi sempre più importanza si dà in medicina al concetto di nutraceutica, che indica come il cibo possa essere la prima efficace soluzione terapeutica – sottolinea Raffaella Mallaci Bocchio, biologo nutrizionista – In particolare i nutraceutici, come la Berberina e le fibre solubili, sono un buon coadiuvante insieme a dieta e trattamento farmacologico sia in fase di prevenzione che trattamento del diabete mellito di tipo 2, associato con aumento del rischio cardiovascolare.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Psiconutrizione_ alimentazione e salute mentale - Report dal Convegno_1

Psiconutrizione_ alimentazione e salute mentale - Report dal Convegno_2Imm. 1 e 2 – Immagini dal convegno Alimentazione e Salute Mentale

 

Dal punto di vista della lotta ai problemi di sovrappeso e obesità e considerando l’importanza di un piano alimentare sostenibile, praticabile e accettato dalla persona colpita dal disturbo alimentare, che apporti cambiamenti duraturi nel tempo, e che si interessi della gestione della fame emotiva, un ruolo di primo piano è svolto dalla PsicoNutrizione, approccio olistico e integrato tra Psicologia e Scienza dell’Alimentazione.

La PsicoNutrizione si rende necessaria quando si riscontra difficoltà ad attenersi a un modello dietetico idoneo; essa affronta le problematiche della fame emotiva e della dipendenza da cibo supportando chi vuole dimagrire, ma incontra difficoltà a lungo termine – spiega Di Natale – Ecco che lo psicologo lavorerà sulla motivazione al cambiamento, sull’immagine corporea e sull’autostima, mentre il nutrizionista, attraverso il percorso di educazione alimentare, la dieta e la perdita di peso, inciderà sugli aspetti psicologici.

Psicologia e biologia, un binomio che richiama la correlazione tra alimentazione e salute mentale, come afferma il prof. Ramilli, fondatore della Psicobiotica.

La Psicobiotica considera non solo l’importanza del cibo inteso nel senso classico, ma anche come il cibo-emotivo, poiché le emozioni possano condizionare la fisiologia e la funzionalità dell’organismo fino a creare vere e proprie patologie (stress, depressione…). È importante sottolineare, in tal senso, l’importanza dei rapporti sociali, delle relazioni amicali e degli ambienti di lavoro poiché condizionano notevolmente la nostra salute.

Un’integrazione che richiama il concetto di unità mente-corpo e che rimanda alla necessità di un monitoraggio dei propri stati mentali che, se scarsamente regolati, per esempio sul versante depressivo, si traducono in disregolazione alimentare, promuovendo malessere psicofisico e rendendo sempre più complesso, con lo strutturarsi di abitudini disfunzionali, l’obiettivo di uno stile di vita salutare, preventivo rispetto a ogni sorta di patologia dell’organismo.

Psicoterapia di Dio (2018) di B. Cyrulnik – Le riflessioni di Giancarlo Dimaggio

Tutte le estati nuoto nello Jonio. Cammino tra dune, ginepro, finocchio spinoso e sbriciolo origano, profuma. Poi mi tuffo. È l’inizio di settembre, quest’anno per la prima volta incontro una tartaruga. È grandissima. L’avvicino, mi guarda, in pochi secondi è fuori portata. Da quale mondo antico e senza tempo è arrivata?

Articolo scritto da Giancarlo Dimaggio per il Corriere della Sera il 15/09/2018

 

Forse lo stesso che ha scorto il soldato che accoglie il nuovo superiore a Guadalcanal nel film La sottile linea rossa. Gli deve fornire la mappa della situazione, con i giapponesi le cose sono complicate, dal bunker in cima alla collina sparano come dannati. E gli dice: “Hanno pesci che vivono sugli alberi”. Sono in guerra, molti moriranno, ma dalla sua voce erompe lo stupore di chi scopre una natura oltre quello che poteva concepire. La trascendenza. Boris Cyrulnik nel suo La psicoterapia di Dio evoca due vulcanologi, Katia e Maurice Krafft, morti “il 3 giugno1991, quando una colata di lava incandescente li ha raggiunti sulle pendici del monte Uzen”. La coppia sapeva che il loro amore per i vulcani un giorno li avrebbe sopraffatti, ma erano felici. La lava che erutta apriva loro uno squarcio sull’altrove.

Cyrulnik ha lavorato in uno scenario di foreste e massacri: il Congo, in una pausa tra le guerre. Quei posti dove ti chiedi più facilmente dov’è Dio: nella bellezza della natura o perso nel fragore delle raffiche di un Uzi? Ha parlato con bambini-soldato, dodici anni e già vecchi. Uno di loro da grande vuole fare il calciatore o l’autista, ha visto le macchine, ai suoi occhi spettacolari, delle ONG. Quel bambino gli chiede perché solo in chiesa veda immagini belle, invece di quelle spaventose che lo inondano senza requie. Cyrulnik si accorge di non avere una risposta, il bambino è deluso. La psicoterapia di Dio è il suo tentativo di sanare quell’animo. La sua domanda diventa: come può un’istanza eterna agire fin dentro il cervello? Da credente, ha trovato la sua spiegazione.

Si appoggia alla teoria dell’attaccamento, formulata da quel pilastro della psicoterapia che è stato John Bowlby. Il bambino nasce e immediatamente per ogni dolore, bisogno ha l’istinto a rivolgersi a degli adulti speciali. Mamme, papà, che poi la scienza rinomina: figure d’attaccamento. Il modo in cui tali figure rispondono alle richieste del bambino ne plasma il carattere. Genitori sicuri, quindi amorevoli, presenti e, per quanto possibile, prevedibili e calmi forgiano figli fiduciosi. Al contrario, sia genitori freddi, distanti, pronti al giudizio stizzito sia genitori che curano ma imbevuti d’ansia generano figli insicuri. Genitori disorganizzati, che possono abbracciare e poi odiare, abusare, andare via con la testa nei loro mondi popolati di mostri, spaccano la mente del bambino, quasi alla lettera. Cyrulnik sostiene che il modo in cui si plasma il rapporto con Dio dipende dallo stile di attaccamento. Bambini cresciuti sicuri hanno fiducia nell’intervento dall’alto, gli altri lo temono, se ne distaccano, protestano per le sue ingiustizie. Cyrulnik è un illuminato pluralista, le sue parole si rivolgono a credenti in Dei dai nomi diversi e anche ad atei e agnostici. Descrive un Dio materno e consolatore, sensuale ed esaltante, paternamente normativo. Alla fine della sua ricerca c’è un Dio psicoterapeuta, che cura, risana, conduce verso la trascendenza.

Il libro, va detto, non ha come pregio principale il rigore scientifico. Il quadro che emerge nel rapporto tra religiosità e benessere è in realtà più complesso. Alcune ricerche indicano che credere in Dio è fonte di sollievo e resilienza – la capacità di reggere all’impatto delle avversità – altre il contrario. Per molti, scopre uno studio di Gebauer e colleghi, dell’Università Humboldt di Berlino, la religiosità è benefica perché permette di sentirsi validi e accettati in società dove è un valore, più in America Latina che nella laica Scandinavia direi. Vero è invece che adattare la psicoterapia alla religione dell’individuo è utile. Molto più chiaro il potere di spiritualità e trascendenza: quella che Cyrulnik chiama “meraviglia di esistere” è benefica.

L’afferri nelle condizioni estreme. Il pastore protestante ricordato nel libro: i nazisti fermano il suo treno. Se lo arrestano e torturano può svelare i nomi dei resistenti. Si contorce dall’angoscia, ma al momento dell’arresto lo troveranno in estasi. Era andato altrove.

È come la meraviglia delle terre desolate. Appare nei libri Meridiano di sangue e La strada di Cormac McCarthy e in quello di Omar Di Monopoli Nella perfida terra di Dio. Muretti a secco, solidi già nel giorno dell’origine, abitati da rettili impassibili, costeggiati da eremiti paranoici e uomini dagli occhi opachi. Terre in cui chi cerca Dio respira polveri rosse, un minerale insidioso che induce una Fatamorgana malefica: una cattedrale romanica rovesciata e potente. Eppure c’è una trascendenza in quei mondi bruciati. La stessa che cercano i bambini-soldato del Congo, morti dentro per la fame di Coltan dei nostri smartphone. L’accesso al mondo altro di Jim Caviezel che ne La sottile linea rossa risponde a Sean Penn, nel ventre della nave che li porterà verso l’orrore: “Io sono due volte l’uomo che è lei… io ho un’altra vita l’ho vista”.

Nei nostri studi di psicoterapia incontriamo abitanti di quelle terre: hanno disimparato a sperare, il loro sguardo incagliato nell’orizzonte della sofferenza, il pensiero avvolto su sé stesso in spirali soffocanti. Per molti di loro Dio non è più o non è mai stato consolazione. Con loro lavoriamo nelle nostre serre, seminate di tecnica, ragionamento, lavoro sul corpo ed empatia, ormai giunti a piena fioritura. Di molti riduciamo il dolore, ad alcuni apriamo squarci su un altro modo di osservare il mondo.

Pinneggio verso la tartaruga, vorrei toccarla. È sorpresa, per un attimo resta immobile. I raggi fendenti che screziano le pendici vinaccia del suo carapace sono il frutto di eoni di ricombinazioni del DNA. Lo è ugualmente il movimento lento e perfetto del collo tozzo con cui si volta a guardarmi, curiosa, dubbiosa. Più rapida e sicura di me svanisce e io, due metri sott’acqua, perdo l’interesse nel reale.

Fame e tono dell’umore: come i livelli di glucosio influenzerebbero stati emotivi e comportamenti

L’improvviso calo di glucosio che sperimentiamo quando siamo affamati potrebbe influire sul nostro umore. La ricerca pubblicata su Psychopharmacology ha indagato l’impatto della fame sul comportamento emotivo.

 

La ricerca ha utilizzato topi da laboratorio. I ricercatori hanno osservato segnali di stress, quali livelli più elevati di cortisolo e comportamenti simil depressivi nei ratti dopo aver somministrato loro un bloccante del glucosio.

Fame: può determinare cattivo umore, stress ed ansia?

Per lo studio i ricercatori dell’Università di Guelph hanno somministrato un bloccante del glucosio, inducendo uno stato di ipoglicemia in alcune cavie che si trovavano in un particolare luogo fisico; nella seconda condizione è stata somministrata un’iniezione di acqua ai medesimi topi, posti però in un altro luogo. Ciò che si è osservato è che quando i topi erano liberi di muoversi nell’ambiente, evitavano attivamente il luogo in cui era stata indotta l’ipoglicemia.

Francesco Leri, professore del Dipartimento di Psicologia ha spiegato

Questo tipo di comportamento di evitamento è un’espressione di stress e ansia. Gli animali ricordano il luogo in cui hanno vissuto l’esperienza stressante e lo evitano per non riprovare più la medesima sensazione.

I ricercatori hanno monitorato i livelli ematici dei ratti dopo la somministrazione del bloccante e hanno trovato livelli più elevati di cortisolo, un indicatore di stress fisiologico; inoltre hanno osservato che le cavie apparivano più pigre in seguito all’iniezione. Questo potrebbe essere in parte giustificato dal fatto che buoni livelli di glucosio sono essenziali per la funzionalità muscolare, tuttavia quando è stato somministrato un farmaco antidepressivo di uso comune, gli animali hanno iniziato a muoversi normalmente, si è assistito quindi a un cambiamento del comportamento non giustificato dai livelli di glucosio che sono rimasti invariati.

Fame e tono dell’umore: i risultati dello studio

Questa scoperta supporta l’idea che gli animali sperimentavano stress e umore depresso nella condizione di ipoglicemia.

Leri ha affermato

Abbiamo ottenuto prove del fatto che un cambiamento nel livello di glucosio può avere un effetto duraturo sull’umore. Quando le persone pensano agli stati d’animo negativi e allo stress, pensano ai fattori psicologici e non a quelli metabolici. Io stesso ero scettico quando le persone mi dicevano che diventano scontrose se non mangiavano, ma ora ci credo. La ricerca ha rivelato che l’ipoglicemia è un forte fattore di stress psicologico, questo ci porta a sostenere che un comportamento alimentare scorretto possa avere un impatto a livello emotivo.

In conclusione le evidenze trovate rivelano che bassi livelli di glucosio determinano stati d’animo negativo.

Alla luce di ciò in futuro i ricercatori intendono capire se l’ipoglicemia cronica possa essere un fattore di rischio per lo sviluppo di comportamenti depressivi e ansiosi a lungo termine.

Leri ha detto

Cattiva alimentazione e umore depresso possono diventare elementi di un circolo vizioso: se una persona non mangia in modo adeguato, può sperimentare un calo nel tono dell’umore il quale a sua volta può indurre una riduzione del desiderio di cibo. Sperimentare costantemente questo circolo può influenzare negativamente lo stato emotivo

e ha concluso

I fattori scatenati della depressione possono essere diversi da soggetto a soggetto tuttavia sapendo che la nutrizione è un possibile fattore di rischio, si potrebbe includere la promozione di abitudini alimentari sane come parte di un trattamento.

Le ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi – Recensione del film premiato a Berlino

E’ un mondo di sole donne, gli uomini sono figure in dissolvenza, quello che racconta nel film Le ereditiere il regista Marcelo Martinessi. Un mondo quasi claustrofobico, di sguardi e di poche parole, un mondo che appare spiato dalla cinepresa nascosta dietro una porta.

È il mondo di Chela e Chiquita, due signore unite da un legame sentimentale che negli anni è diventato abitudine. Vivono ad Asuncion, capitale del Paraguay, in una casa borghese perché sono entrambe di buona famiglia. Le loro rendite però cominciano a diminuire, tocca vendere e svendere mobili, quadri, argenteria, persino piatti e bicchieri. La situazione precipita quando Chiquita, che è la forte e la più pratica nella coppia, finisce in prigione per un debito mai pagato. Chela, una donna che lotta quotidianamente con la depressione e non vorrebbe uscire mai di casa, sempre più smarrita viene affidata alle cure di una cameriera analfabeta. Dorme poco, sente rumori strani nella notte, e le visite in carcere alla compagna sono occasione di ulteriore smarrimento.

Le ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi – Trailer del film:

 

È solo per puro caso, una ricca vicina le chiede un passaggio in auto, che si ritrova a fare l’autista. Tira fuori dal garage la vecchia Daimler avuta in eredità dal padre e, sbalordita, scopre che per il suo servizio può essere pagata. Nel giro di poco tempo le anziane e ingioiellate amiche della vicina, quasi fosse un taxi privato, la chiamano sempre più spesso. I suoi pomeriggi ormai sono occupati ad accompagnarle nei ricchi salotti di una o dell’altra per le partite a carte. Il suo sguardo, prima perso nel vuoto si sofferma sui particolari, sulle persone: là fuori c’è qualcosa, qualcuno che merita attenzione, qualcuno che le dà attenzione. È la giovane e disinibita Angy, con la sua fisicità e con la sua esuberanza, a risvegliare in lei sensazioni ed emozioni che pensava ormai perdute.

Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi - Scena dal film 1
Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi. Una scena dal film.

Il regista del film in una recente intervista, ha detto che Le ereditiere è un film essenzialmente sui confini, facendo così riferimento alla situazione del suo Paese, che parole sue, è e resta “una gigantesca prigione”. Il Paraguay è stato per decenni governato da una dittatura militare e ora è in mano a una destra molto conservatrice. Le ereditiere del film, che appartengono a un’élite privilegiata, sono dunque un po’ la metafora del Paese. Di una società che ha paura del cambiamento, che si sente più sicura e protetta nei confini delle proprie accoglienti case. Meglio vendere un quadro, privarsi di un tavolo, piuttosto che rinunciare alla domestica, piuttosto che uscire e guardarsi attorno. Ma forse, suggerisce il regista nel finale del film, il mondo esterno può essere esplorato, forse c’è la possibilità di un nuovo inizio.

Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi - Scena dal film 3
Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi. Una scena del film

A chi consiglio la visione del film: a chi pensa che i nostri percorsi di vita siano fortemente influenzati dalla società in cui cresciamo. A chi piace scoprire nel cinema e nella letteratura parte della storia di un Paese (io per esempio del Paraguay non sapevo nulla e sono andata a cercarmi la sua storia su Internet).

Ecco chi invece farebbe meglio ad astenersi dalla sua visione: innanzitutto gli insofferenti, quelli che amano i film di azione. E poi chi pensa che il desiderio in una donna avviata all’età della vecchiaia sia ormai sopito.

Il film, che al Festival di Berlino ha fatto incetta di premi, l’Orso d’Oro per la migliore attrice (una bravissima Ana Brun), il premio Alfred Bauer e quello Fipresci della critica internazionale, sarà sugli schermi italiani da giovedì 18 ottobre.

Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi - Scena dal film 2
Le Ereditiere (2018) di Marcelo Martinessi – Scena dal film.
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