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Giaguari invisibili (2018) di Rocco Civitarese – BookTrailer

Giaguari invisibili è il romanzo d’esordio di Rocco Civitarese, edito da Feltrinelli, che narra “una storia di gruppo e anzi di branco, di ragazzi sulle soglie dell’età adulta”, una storia ambientata all’ultimo anno del Liceo…

 

In anteprima per State of Mind, un estratto del libro:

Pietro sciolse due zollette di zucchero nel tè.
Il movimento risalì dal braccio fino al collo e lì una fitta lo spezzò in due.
(Fermo).
Immerse una macina.
La contrazione dell’avambraccio si trasmise di tendine in tendine e lo frustò sotto la mandibola.
(Cosa non ti è chiaro di una spina di branzino che ti trafigge l’esofago?)
Pietro cedette.
Ho una spina in gola.
Aveva diciannove anni, ma il musone e le occhiaie lo facevano sembrare più vecchio. Le punte della frangetta si arrotolavano come fuochi d’artificio a girella e gli occhi erano castani, però d’estate diventavano verdi.
Si ficcò un tozzo di baguette in bocca, poi deglutì per vedere se aveva funzionato.
Brividi dalla radice del mollusco al pomo d’Adamo.
Croste, tisane, beveroni di caffè misto a Red Bull e bi-alcol. Doveva sfilarsi quella spina anche a costo di far staccare le pareti interne dell’esofago come pezzi d’intonaco.
(Sarebbe tempo perso. Vai di là e apri il computer).
Iniziò a bere a piccoli sorsi.
Cinque minuti. Ancora cinque minuti.
Dalla tazza il vapore gli investiva la faccia e la sua pelle, come uno scolapasta, cacciava fuori dai pori grasso, sudiciume e malumore.
Appena finì il tè non ebbe più scuse.
Buttò fuori l’aria e ciabattò fino in camera.
Un tavolo ricoperto da post-it fucsia e giallo limone con su scritto piani di studio, «20.00-21.00: chimica», «22.20-24.00: simulazione», e titoli di libri. Sotto la luce di una lampada vintage, manuali crocettati, moduli d’iscrizione, il Mac Book Air.
(Conta fino a tre, a due apri e guarda il tuo punteggio. Come si fa per rimettere a posto una spalla lussata. Conta fino a tre, a due apri).
Pietro provò a distrarsi… Un sorriso gli increspò le labbra.
Nelle prime e, a conti fatti, uniche settimane di studio, era riuscito a modificare il proprio concetto di divertimento. Passatempo uguale scioglilingua. Scioglilingua uguale definizione. E definizione uguale… I secondi termini dell’ultima uguaglianza abbondavano gialli e sottolineati sulle pagine dei libri che, mentre (test test test) il senso del dovere gli rimbombava in testa spingendolo a prepararsi al test di Medicina come Dio comanda, Pietro aveva divorato, setacciato e mandato a memoria.
Il guscio di valenza è il livello energetico più esterno…
Aveva aperto il computer.
La rivista dell’illuminismo italiano è Il caffè…
Aveva aperto Safari e cliccato sulla graduatoria degli ammessi a Medicina e Chirurgia presso l’Università di Pavia.
(Ti serve il codice della tua prova).
Pietro scorreva con il mouse sulla sfilza dei nomi delle persone entrate nella prima graduatoria.
Giovanni Lorusso… Stefania Masi… Niccolò Manto… Pie…


Pietro!
Si stropicciò gli occhi.
Piero Muso.
Pietro Mazzoccone non era in graduatoria.
Sentì guance, palpebre e labbra sfaldarsi e colare giù.
(Il codice. Non sei tra i primi, ma se hai fatto un buon punteggio entri per scorrimento. Qui la soglia minima è 78).
Tre punti e mezzo in più rispetto al test dell’anno passato.
Con le lacrime che premevano, Pietro si mise a frugare. Cassetto della scrivania, cestino, le tasche delle quattro paia di pantaloni appallottolati per terra.
Controllò se l’aveva usato come segnalibro o per appuntarsi qualche parola di scusa. Il codice non…
(Questa pagliacciata deve finire. Apri il tuo account di posta elettronica).
Pietro si accasciò sulla sedia ed eseguì.
Ecco la mail unipv.
Codice: 22mp617akc5wc6. Copiò, accedette al sito dell’Università e incollò.
Caricamen…
Caricamento in…
Caricamento in corso…
Il trucco della sorpresa fece cilecca e la spina gli trapassò la gola da parte a parte.
51.
Non era possibile.
5-1. Cinquantuno. Meno ventisette dal punteggio minimo.
Lo scorrimento non sarebbe bastato. Pietro aveva fallito il test di Medicina e se ne riparlava l’anno prossimo.
(Cerca di ripercorrere la catena di eventi che ti hanno portato a essere qui, in questo preciso istante, con il fallimento addosso, i tuoi amici chissà dove e un piede nel coma dei prossimi trecentosessantacinque giorni. Pensa, Pietro. Nella successione di casi governata dal principio di causa-effetto, qual è lo stacco? Qual è la scelta, forse, che presa in buona fede con il manuale di sopravvivenza in mano ha invece provocato l’inizio del tuo declino?)
Pietro si stropicciò la confezione di un pocket coffee tra le mani.
L’invito ad abbuffarsi di crostacei e riso nel giapponese di periferia sarebbe dovuto arrivare due giorni fa.
Peggio per loro. Vorrà dire che non mi becco la salmonella.
Gonfiò il petto, trattene il fiato, si protese in avanti…
No. Se controllava sulla graduatoria tra i cognomi che iniziano per p il suo orgoglio avrebbe perso il braccio di ferro con la curiosità.
(… e con Anna. Tieni duro. Vedrai che la Pettirosso salta fuori a bollirti ancora po’).

 

GIAGUARI INVISIBILI – Leggi la recensione del romanzo

XIX Congresso Nazionale SITCC 2018: Migrazione e Psicoterapia, le sfide della Multiculturalità – Report dal Simposio

Sabato 22 settembre 2018, nell’ambito del XIX congresso nazionale SITCC, si è tenuto il simposio “ Migrazione e Psicoterapia: le sfide della Multiculturalità”, con il dott. Maurizio Brasini, didatta della Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC, nel ruolo di chair e la dott.ssa Maria Grazia Foschino Barbaro, Direttore della Scuola di specializzazione in Psicoterpia Cognitiva AIPC di Bari, nel ruolo di discussant. Come già chiaramente si evince dal titolo, il focus è su un tema fino ad oggi poco approfondito dai vari approcci alla psicoterapia

 

Nell’ultimo decennio il fenomeno migratorio in Italia è cresciuto in maniera esponenziale; si pensi che solo nel 2017 si è assistito all’ingresso di circa 15731 minori stranieri non accompagnati (MSNA). In poco tempo, dunque, il nostro Paese si è arricchito di gruppi comunitari provenienti da paesi dell’Europa orientale ed anche di altri continenti, in particolar modo l’Africa, connotati da culture, lingue e religioni eterogenee. Si è imposta la necessità di integrazione in tutti gli ambiti, da quello culturale a quello sociale, e non in ultimo all’interno dei percorsi sanitari.

I diversi contributi presentati al congresso SITCC 2018 sul tema della migrazione

Il primo contributo Trauma complesso e migrazione: i casi di Alioum e Mohamed a confronto” è stato presentato dal Dott. Alberto Barbieri, del Centro MEDU Psychè e della SPC di Grosseto. Partendo dal confronto di due casi, entrambi descritti negli aspetti salienti – funzionamento interno, intervento terapeutico ed esiti di trattamento – ha mostrato come, pur partendo da storie traumatiche per molti versi simili, l’evoluzione psicopatologica abbia seguito traiettorie assai differenti, per tipologia di problematiche, gravità delle stesse ed anche risposta al trattamento. La comparazione dei due casi ha infatti evidenziato come alcuni stili di personalità possano agire da elementi di vulnerabilità per lo sviluppo di un Disturbo da Stress Post traumatico complesso (cPTSD). L’obiettivo è stato dunque quello di dissipare una credenza diffusa, pur basata su limitate fondamenta scientifiche, secondo la quale la gran parte dei migranti esposti a traumi interpersonali estremi e cumulativi, sviluppino inesorabilmente quadri clinici di carattere traumatico. L’esperienza clinica di Medici per i Diritti Umani suggerisce, infatti, diversamente, che solo una minoranza dei migranti sopravvissuti sviluppa sindromi trauma-correlate.

Il secondo contributo, presentato dalla Dott.ssa Antonella Stellacci, psicologa e psicoterapeuta presso il Cara di Bari-Palese, specializzata presso la sede SPC di Ancona, nelle stesse corde del precedente, orienta l’attenzione sulla dimensione della Crescita Post Traumatica: “A forza di essere vento: approcci esplorativi alla Crescita Post traumatica in ambito migratorio”. Benchè gli esiti sulla salute fisica e psicologica determinati dagli eventi traumatici trovino oramai ampia e indiscutibile conferma in letteratura di più ambiti disciplinari, è altrettanto dimostrato che le risposte psicologiche al trauma migratorio non siano esclusivamente negative. Negli ultimi anni è, infatti, in crescita un filone di ricerca volto ad indagare gli aspetti positivi conseguenti all’esposizione al trauma che concorrono alla cosiddetta Crescita Post Traumatica. Alla luce di queste considerazioni, dopo una breve disamina sui principali approcci esplorativi sulla promozione di tale dimensione rivolti ai migranti richiedenti asilo, la dottoressa ha presentato il piano di trattamento integrato del trauma migratorio progettato ed implementato dal proprio gruppo di lavoro. Con efficacia è dunque riuscita a mostrare come gli interventi psicologici positivi possano essere integrati efficacemente con le azioni mirate alla riduzione della sintomatologia e che la Terapia Cognitiva possa giocare un ruolo importante nella promozione della dimensione della Crescita Post Traumatica.

Il terzo contributo, “La cura del Minore Straniero Non Accompagnato”, è stato a cura della dottoressa Leonarda Valentina Vergatti, psicologa psicoterapeuta dell’AIPC di Bari. La parte introduttiva è volta a sostanziare su un piano squisitamente clinico la dimensione di complessità che generalmente grava sui percorsi di cura dei minori migranti. La gestione del disagio psichico in questi minori richiede, infatti, in primis, uno sforzo di integrazione dell’approccio bio-psico-sociale, specifico della cultura occidentale, con quello magico-religioso che prevale in molte culture “altre”. È seguita, dunque, la presentazione di alcune indicazioni metodologiche rilevanti per la strutturazione di un piano di cura del paziente Minore Straniero non Accompagnato e la predisposizione di un setting terapeutico a componente transculturale che gli consenta di sperimentare la protezione e la sicurezza negate nelle precedenti esperienze di vita, altresì la ridefinizione dei modelli operativi di sé e dell’Altro.

In chiusura, il contributo della Dott.ssa Federica Visco-Comandini, psicologa e psicoterapeuta in formazione (SPC di Grosseto), del Centro MEDU Psychè, dal titolo “Trauma complesso e Disturbo da Stress Post Traumatico in un campione di migranti provenienti dall’Africa Subsahariana”. Sono stati presentati i risultati ottenuti dallo studio effettuato su un campione di 36 migranti provenienti dall’Africa Subsahariana esposti a traumi nel proprio paese d’origine o durante il viaggio migratorio. I dati emersi hanno confermato quanto già avevo anticipato il dott. Barbieri nella sua presentazione: circa l’80% dei soggetti ha mostrato una diagnosi di PTSD, solo nella restante parte, una piccola minoranza dunque, è stato diagnostico il Disturbo da Stress Post Traumatico Complesso. Tali dati avvalorano dunque l’ipotesi secondo la quale solo un piccola minoranza dei migranti sviluppa un quadro traumatico complesso e ciò sembra essere in relazione con elementi di vulnerabilità individuale.

Questo simposio ha dunque offerto interessanti spunti di riflessione teorica nell’ambito del tema migrazione e prassi di psicoterapia, raccogliendo al suo interno anche il riferimento ad innovative prassi di intervento da sperimentare nella pratica clinica quotidiana in favore di questa classe di popolazione.

Emozioni: manuale di auto aiuto per conoscere e regolare gli stati emotivi (2018) di Scarinci A. e Brunori G. – Recensione del libro

Buona parte della psicologia moderna negli ultimi decenni ha indirizzato la sua attenzione agli aspetti emotivi della vita psichica. Questo crescente interesse è stato supportato da importanti ricerche in ambito scientifico, per cui oggi siamo in grado di sostenere con certezza che le emozioni giocano uno ruolo di primaria importanza nella salute dell’individuo.

 

Ne sono ben consapevoli Antonio Scarinci e Giovanni Brunori, gli autori del libro Emozioni: manuale di auto aiuto per conoscere e regolare gli stati emotivi, che con il loro lavoro hanno creato un piccolo manuale di “self-help” per aiutare i lettori ad accrescere le loro capacità di regolazione emotiva.

Emozioni: Scarinci e Brunori per il grande pubblico

Emozioni è un libro da leggere attentamente, scritto con un linguaggio semplice anche per chi non è del settore, pieno di esempi pratici, esercizi, test e case report. Gli obiettivi degli autori sono due: uno è quello d’istruire il pubblico su cosa sono le emozioni e il ruolo che esse hanno nella salute psico-fisica; il secondo è quello di equipaggiare il lettore di strumenti pratici volti a sviluppare consapevolezza e capacità di auotoregolazione emotiva.

Nelle primissime pagine Scarinci e Brunori propongono un test molto semplice di valutazione della propria intelligenza emotiva; con questo test il lettore può misurare i progressi che è possibile fare se si seguono tutti gli esercizi che il testo offre.

Emozioni: la struttura del libro

Il libro è suddiviso in 3 parti principali, ognuna delle quali affronta un aspetto diverso. La prima parte descrive in maniera chiara e sintetica cosa sono le emozioni, la loro importanza ed il loro ruolo nella salute. Non mancano in questa sezione riferimenti a gli studi scientifici più accreditati e più importanti in ambito neuroscientifico.

La seconda parte è invece dedicata agli aspetti psicologici e terapeutici legati alle emozioni. Una buona capacità di ascolto dei propri vissuti emotivi è in grado di prevenire tutti quei disturbi che sono associati ad una scarsa capacità di autoregolazione. A sostegno delle tesi esposte gli autori citano numerosi casi riportando esempi che ne facilitano la comprensione.

La terza ed ultima parte di Emozioni contieni gli aspetti pratici che fanno di questo libro un manuale di auto-accrescimento, sono infatti presenti numerosi test ed esercitazioni volte ad accrescere le proprie competenze in termini di intelligenza emotiva. La parte pratica è ben sviluppata ed oltre a fornire un metodo per conoscersi meglio, è anche un valido strumento che il professionista può adottare nella sua pratica clinica.

Nonostante questo libro sia un valido strumento conoscitivo sul tema, appare chiaro che esso non si sostituisce ad un professionista della salute mentale, le cui capacità sono determinanti nel aiutare chi presenta problematiche complesse.

Nel complesso il lavoro dei due autori si presenta come una soluzione semplice, interessante, ben scritta e ben argomentata per chi, professionisti e non, voglia approfondire le implicazioni che una sana vita emotiva può avere nell’ esistenza di ognuno.

 

Dieta in gravidanza: mangiare pesce grasso migliorerebbe lo sviluppo celebrale del neonato

Secondo una ricerca finlandese pubblicata su Pediatric Research, seguire una dieta in gravidanza ricca di pesce grasso contribuirebbe a migliorare lo sviluppo del cervello nonché la vista del nascituro. Questa ricerca inoltre rileva anche l’importanza degli acidi grassi polinsaturi.

 

Dieta in gravidanza: gli effetti sul neonato

Il principale autore dello studio, Kirsi Laitinen, dell’Università di Turku, afferma che la dieta di una madre durante la gravidanza e l’allattamento al seno è la via principale per l’assunzione di preziosi acidi grassi polinsaturi, che diventano disponibili per il feto e agiscono in particolare sul cervello durante quello che può essere considerato un periodo di massimo sviluppo cerebrale.

Tali acidi grassi modellano le cellule nervose, importanti non solo per il cervello, ma anche per l’apparato visivo, in particolare per la retina. Sono anche importanti nel formare le sinapsi, vitali nel trasporto di messaggi tra i neuroni nel sistema nervoso.

I ricercatori hanno analizzato le diete di 56 madri che hanno dovuto tenere un diario alimentare regolare, in cui annotavano ciò che mangiavano durante la gravidanza. Sono stati presi in considerazione altri fattori, tra cui il peso, il livello di zucchero nel sangue, la pressione sanguigna, eventuali abitudini o stili di vita.

Dieta in gravidanza: i benefici di pesce grasso, acidi grassi polinsaturi e vitamine

I bambini sono stati seguiti fino al secondo anno di età e sono stati analizzati i loro apparati visivi.

I risultati hanno mostrato che i bambini le cui madri mangiavano pesce tre o più volte a settimana durante l’ultimo trimestre della gravidanza avevano migliori risultati durante i test visivi, rispetto ai bambini le cui madri non mangiavano pesce oppure ne mangiavano solo due porzioni a settimana.

Litinen sostiene che:

I risultati del nostro studio suggeriscono che il consumo regolare di pesce da parte delle madri durante la gravidanza risulta benefico per lo sviluppo del bambino non ancora nato. Questo può essere attribuibile agli acidi grassi polinsaturi all’interno del pesce, ma anche a altri nutrienti come la vitamina D ed E, anch’essi importanti per lo sviluppo.

Perdita ambigua, perdere un caro pur avendolo vicino: il dolore dei famigliari di persone con demenza

Il termine “perdita ambigua” è stato introdotto da Pauline Boss, e si riferisce ad una perdita che non è chiara, che non ha nessuna risoluzione. La perdita ambigua determina una sofferenza senza sbocco, senza possibilità di chiusura.

 

Perdita ambigua: origine e definizione del costrutto

In origine, il concetto di perdita ambigua venne utilizzato negli studi sulle famiglie dei soldati dispersi in combattimento. Attualmente è possibile individuare e definire due tipi di perdita ambigua. La prima si riferisce a quei casi in cui un individuo è psicologicamente presente nella mente della famiglia ma fisicamente assente, come ad es. una persona scomparsa. Il secondo tipo di perdita ambigua si verifica quando la persona è fisicamente presente ma psicologicamente assente, come nel caso delle persone affette da demenza, da malattie mentali, o abuso di sostanze. Questa ambiguità può generare un senso di impotenza e propensione alla depressione, all’ansia e ai conflitti relazionali: l’ambiguità che caratterizza la malattia rende la persona (caregiver) confusa, incapace di prendere decisioni.

La perdita indefinita scaturisce dalla mancanza di certezza sulla presenza o assenza di una persona e dall’angoscia derivante dalla conseguente costante ricerca di coerenza. Talvolta persino la certezza della morte risulta più accettabile della continuità di un dubbio. La persona si sente defraudata dei rituali simbolici che ordinariamente supportano una perdita evidente. A causa di ciò, la sua esperienza manca di verifica da parte della comunità che la circonda, non esiste quindi condivisione dei propri sentimenti e vissuti.

Perdita ambigua e morte: due dolori riconosciuti diversamente

L’esperienza di perdita ambigua si distingue da quella della morte perché la persona amata vive ancora. Vi è la mancanza di un senso della fine, che è tipica della morte, in cui anche il caregiver sperimenta una perdita graduale. Generalmente, la nostra società non dà alla perdita ambigua lo stesso peso della morte, perché la persona continua a vivere. La perdita ambigua è, invece, significativa e dolorosa.

Nel caso della demenza, i caregiver sono costretti a vivere continuamente la perdita della persona che un tempo conoscevano e amavano, continuando a fornire loro assistenza.

Cognitivamente bloccate, molte persone mettono in atto risposte irrazionali e si comportano come se il congiunto fosse già mancato, oppure arrivano viceversa a negare l’esistenza della malattia stessa, interagendo con la persona come se non esistesse il problema. I caregiver che forniscono assistenza in giovane età, proprio in ragione del fatto che prestano assistenza prematuramente rispetto a quanto si sarebbero aspettati, sperimentano una forma complessa di perdita ambigua: soffrono sia della perdita della persona che amano, sia della perdita della loro identità in relazione alla persona amata. Ogni atto di cura, come somministrare i farmaci o pagare le bollette, ricorda che il loro caro non ha più le facoltà mentali per farlo, e quindi che la persona amata non c’è più. Per molti giovani caregiver, questo può significare un cambiamento trasformativo nella percezione della loro identità all’interno della famiglia. Alcuni caregiver si sentono costretti a venire a patti con una perdita delle loro interazioni “normali” con la persona amata. Alcuni di loro dicono di sentirsi “i genitori” della persona, piuttosto che i figli.

I caregiver delle persone con demenza che affrontano una perdita ambigua possono ricercare un supporto professionale. Uno psicologo in questi casi può valutare il livello di dolore e la capacità di resilienza del caregiver. La terapia può aiutare la persona a trovare un significato, vivere con l’incertezza e ridefinire relazioni e identità. Scoprire la speranza attraverso nuovi piani di vita e sogni può rafforzare la capacità del caregiver di affrontare il futuro.

Disgusto e moralità nel DOC: evidenze sperimentali – Report del Congresso SITCC 2018, Verona

Il simposio sul legame tra disgusto e moralità, organizzato dalla Dott.ssa Luppino (Scuola di Psicoterapia Cognitiva – SPC, Roma) e presentato al convegno SITCC 2018 tenutosi a Verona nei giorni scorsi, presenta quattro lavori che portano prove a favore della stretta relazione tra disgusto fisico e disgusto morale.

 

In generale, il disgusto è stato considerato un’emozione di base che porta il soggetto ad allontanare una sostanza nociva o disgustosa, come feci o vomito, mentre il disgusto morale nello specifico riguarderebbe azioni immorali, come rubare o mentire.

È stato ampiamente dimostrato come il disgusto abbia un ruolo nella fenomenologia di diverse patologie (fobie, disturbi alimentari, disturbi sessuali). In questo simposio i relatori hanno delineato le caratteristiche del disgusto nel Disturbo Ossessivo Compulsivo e i suoi legami non solo con il timore di contaminazione, ma anche con il senso di colpa deontologico, portando dati da studi di neuroimaging e psicofisiologici.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

 

disgusto morale e doc SITCC 2018

 

Cristina Ottaviani (Dipartimento di Psicologia Università di Roma La Sapienza, Laboratorio di Neuroimmagini IRCCS Fondazione Santa Lucia, Roma) ha presentato una relazione dal titolo Mi lavo ossessivamente perché il mio senso di colpa deontologica mi fa sentire disgustato!

Nello studio hanno ipotizzato l’esistenza di una relazione tra il senso di colpa deontologico, i correlati fisiologici del disgusto e comportamenti di lavaggio simil ossessivo-compulsivi. A tal fine hanno confrontato due gruppi di soggetti, ad uno inducevano senso di colpa altruistico, all’altro la colpa deontologica. Successivamente, veniva chiesto loro di lavare un cubo, durante questo compito veniva monitorata la frequenza cardiaca e lo stato emotivo tramite VAS (scale visuo-analogiche). Ciò che hanno osservato è che il senso di colpa deontologico ha correlati psicofisiologici (livelli di Heart Rate Variability) simili all’emozione del disgusto (attivazione del parasimpatico) e si associa ad un aumento dei comportamenti compulsivi (maggiori controlli nel lavaggio del cubo). In seguito al compito di lavaggio si osserva inoltre la riduzione del battito cardiaco, attribuibile alla riduzione del disgusto data dal lavaggio. Questi effetti si sono osservati maggiormente nei soggetti con tendenze ossessive elevate.

Annalisa Bello (Associazione di Psicologia Cognitiva, Lecce) ha presentato il lavoro sperimentale intitolato “Rubber Hand Illusion: an ally against OCD”, nel quale, utilizzando il paradigma dell’illusione della mano di gomma (Rubber Hand Illusion, RHI) hanno ipotizzato che il disgusto fisico e morale potessero influire sulla consapevolezza e sul senso di ownership (i.e. appartenenza).

La mano di gomma utilizzata è stata contaminata da stimoli che evocano sia disgusto fisico (false feci) sia disgusto morale (calco della mano di un pedofilo). È stata misurata anche la frequenza cardiaca. Dai risultati si è dimostrato che il disgusto morale tende ad avere un effetto significativamente diverso da quello fisico, in quanto riduce l’illusione e il senso di appartenenza che generalmente si osserva in tale paradigma. In altre parole, il disgusto morale influisce significativamente sull’illusione percettiva.

Marzia Albanese (Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Roma) ha presentato “Correlati Elettrofisiologici del Disgusto Morale e Fisico”, il cui obiettivo era quello di distinguere i correlati neurofisiologici dei due tipi di disgusto mediante la registrazione dei potenziali eventi correlati (ERP).

Gli autori hanno sviluppato un paradigma sperimentale specifico che prevede la registrazione ERP durante l’osservazione di scenari fisicamente o moralmente disgustosi abbinati a stimoli. I risultati confermano che i correlati elettrofisiologici si mostrano diversi per i due tipi di disgusto.

Infine, Brunetto De Sanctis (Scuola di Psicoterapia Cognitiva – SPC, Roma), con il lavoro “Contro-condizionamento (Cc) e modulazione del disgusto: uno studio pilota su un campione non clinico”, partendo dalla considerazione che l’Esposizione con Prevenzione della Risposta sembra avere maggiore efficacia nella riduzione dell’ansia ma non su quella del disgusto, ha indagato l’efficacia delle tecniche di contro-condizionamento su un campione non clinico.

I soggetti sono stati divisi in tre condizioni (Cc classico vs autoefficacia percepita vs fierezza morale). I soggetti sono stati esposti a stimoli disgustosi e poi controcondizionati con stimoli piacevoli diversi nelle varie condizioni. Gli autori hanno osservato una riduzione dei livelli di disgusto a seguito di contro-condizionamento, in particolare nella condizione di Cc morale.

I risultati degli studi presentati si mostrano interessanti in termini di maggiore comprensione del ruolo del disgusto nel DOC, ma anche di implementazione di tecniche di intervento focalizzate sul disgusto morale, utili per il trattamento di questo disturbo.

La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale (2018) di Davide Sisto – Recensione del libro

La morte si fa social: morte digitale, come scompariamo sui social? Molto prima della rivoluzione digitale, di film come Matrix e di serie tv come Black Mirror, anche i filosofi si sono interrogati sulla gestione della nostra identità di fronte alla possibilità della nostra scomparsa.

 

Una quarantina di anni fa, quindi molto prima della rivoluzione digitale, il filosofo della mente Daniel Dennett proponeva un curioso esperimento mentale, per offrire l’occasione di riflettere su quanto la nostra identità coincida o meno con la nostra memoria, cioè con le informazioni che sono state immagazzinate dal nostro cervello (o dalla nostra anima, o dal nostro hardware, a seconda dei punti di vista).

La morte si fa social: l’esperimento di Dennett

Chi leggeva doveva immaginare di trovarsi solo (o sola) su Marte in una situazione nella quale, per il guasto dell’astronave, non sarebbe stato possibile in nessun caso tornare sulla Terra. O quasi in nessun caso. Così Dennett presentava lo scenario:

Forse però una speranza c’è: nella sezione di trasmissione del veicolo immobilizzato trovi un Teleclone modello IV con le istruzioni per l’uso. Se accendi il televettore, ne sintonizzi il raggio sul ricevitore Teleclone che è sulla Terra ed entri nella cabina di trasmissione, esso, rapido e indolore, smonterà il tuo corpo, lo copierà molecola per molecola e trasmetterà la copia sulla Terra; qui il ricevitore, con i suoi serbatoi ben forniti degli atomi necessari, quasi all’istante, in base alle istruzioni trasmesse, genererà… te! (Dennett, 1981, p. 15)

Il risultato del trasferimento sarebbe stato una persona assolutamente indistinguibile dall’originale, che avrebbe potuto interagire con i propri amici e parenti raccontando le “proprie” avventure proprio come fosse reduce da un puro e semplice ritorno fisico via astronave. Dennett invitava a riflettere sull’identità dell’Io trasferito sulla Terra, frutto della morte del corpo e del sacrificio della persona originale in favore della possibilità di non essere definitivamente perduta per i propri cari. In qualche modo, del resto, la permanenza totale della memoria, del corpo, della personalità avrebbe reso la copia talmente indistinguibile dall’originale da lasciarla (la copia) pensare di essere realmente la persona clonata. E in un certo senso è possibile convincersi che questa identificazione sia legittima. Salvo, meditava Dennett, fino all’invenzione del Teleclone modello V, che avrebbe potuto eseguire la copia senza danneggiare l’originale. In questo caso i due Io avrebbero condiviso la vita fino al momento della duplicazione, ma avrebbero immediatamente cominciato a distinguersi, acquisendo esperienze differenti.

Black Mirror: dopo Dennett, continuiamo a fantasticare sulla nostra identità

Simili esperimenti mentali sono ormai in qualche modo familiari anche a chi non frequenti la filosofia della mente, grazie al successo universale prima della fantascienza cyber-punk, inaugurata da libri come Neuromancer di Alexander Gibson; ma poi soprattutto da film e serie televisive, da Matrix e Strange days fino al vero e proprio caso di Black Mirror. L’idea che l’identità (soprattutto di una persona morta o a rischio di morte) possa essere copiata e possa interagire con altri in un ambiente virtuale o reale fa parte ormai quasi dei luoghi comuni delle sceneggiature a carattere distopico ed è entrata nell’immaginario collettivo.

Di fatto, la progressiva digitalizzazione del nostro mondo rende questo futuro molto più palpabile e vicino di quanto possiamo ritenere di primo acchito. Se la nostra memoria è una parte così sostanziale della nostra identità, l’esistenza di supporti informatici che conservino una parte rilevante dei nostri ricordi rende possibile, da una parte, un’esistenza parallela nella rete: la nostra presenza nei social costruisce una sorta di alter ego, sufficientemente concreto da rendere, per esempio, possibile il furto di identità (una volta che un profilo sia stato hackerato, anche un conoscente stretto può scambiare il ladro per l’originale). D’altra parte, si rende possibile anche una sopravvivenza digitale, che può avere effetti significativi, anche paradossali, sul mondo circostante.

La morte si fa social di Davide Sisto

Il libro La morte si fa social di Davide Sisto esamina le conseguenze che ha sulla cultura della morte la “quarta rivoluzione” (Floridi, 2014), cioè la creazione della cosiddetta infosfera. La morte si fa social ha l’indubbio merito di svolgere il tema tanto sul piano informativo (come esame dell’emergere di nuovi fenomeni); quanto dal punto filosofico (come riflessione sui problemi aperti da tali fenomeni sul tema della morte e su quello correlato della death education).

Il giovane tanatologo parte dalla constatazione che la nostra società ha da molto tempo un rapporto molto difficile con la morte, che in genere viene attivamente cancellata dalle nostre esistenze come un problema non reale. Quando la morte colpisce gli altri viene affrontata con sorpresa, come se non costituisse una possibilità sempre presente nella nostra vita; viene diluita dai neologismi, come succede allorché si dice, per esempio, che qualcuno è stato “stroncato da un male incurabile” (l’espressione “morto di tumore” sarebbe accolta con profondo disagio in una conversazione tra persone cosiddette educate). Paradossalmente, in effetti, si potrebbe osservare che anche i pensatori che hanno tematizzato la questione della mortalità negli ultimi due secoli (gli irrazionalisti come Schopenhauer e Kierkegaard nell’Ottocento e gli esistenzialisti come Heidegger e Sartre nel Novecento) hanno in fondo più esorcizzato la questione della morte che tematizzato il suo significato. Perfino l’identificazione heideggeriana dell’essere umano come “essere-per-la-morte” (Heidegger, 1927) costituisce in fondo – più che una riflessione sulla morte come tale – una premessa per rifondare su nuove basi l’ontologia, cioè l’analisi del significato dell’Essere.

L’esistenza di una vita digitale, accanto a quella fisica, apre scenari nuovi perché si accompagna alla certezza di una morte digitale che non coincide con quella reale.

Il problema filosofico fondamentale implicito nella Digital Death è, quindi, nel ritorno perentorio della morte nel mondo dei vivi: ogni volta che termina un’esistenza psicofisica, unica e mai ripetibile, la sua vita digitale continua a essere attiva in innumerevoli formati e per un tempo incalcolabile (Sisto, 2018, p. 30).

La morte si fa social: ma non è uguale su tutti i social network

“Spettri digitali” si aggirano sul web: se è stato calcolato che sono stati aperti due miliardi di utenze Facebook, dalla sua creazione, si stima anche che cinquanta milioni dei relativi intestatari siano nel frattempo deceduti, nota Sisto nel libro La morte si fa social. Il destino dei loro account costituisce una questione affrontata solo recentemente: una rassegna delle politiche seguite dai diversi social network si trova alle pp. 100-104 del libro e offre di per sé spunti di riflessione. Il team di Facebook, per esempio, quando ha la certezza del decesso, trasforma il profilo in “pagina celebrativa”: la home reciterà “in memoria di X”, e verrà impedita la possibilità di postare a nome del titolare. Twitter blocca completamente l’account. In generale, le scelte assai differenti testimoniano di come il problema sia delicato e complesso.

In assenza di una decisione presa in anticipo dall’utente, comunque, cioè di un “testamento digitale”, è difficile valutare in astratto quale debba essere il destino di un account dopo la morte del suo titolare. L’atteggiamento dei parenti e degli amici può variare. C’è chi preferisce eliminare il profilo dalle proprie amicizie ma anche chi continua a interagire con la pagina come se il titolare fosse ancora vivo (e quindi non gradisce la trasformazione dell’account in pagina celebrativa). Fino ad arrivare al caso limite, citato da Sisto, della madre di un ragazzo defunto che postò per mesi ogni giorno sul suo profilo nuovi contenuti, come se fosse lo stesso ragazzo a farlo, cioè attraverso una completa identificazione con lui.

Sisto osserva opportunamente che ciò che a uno sguardo superficiale potrebbe sembrare solo la fonte di azioni singolari (se non nevrotiche), costituisce invece anche una grande opportunità. I social network possono cambiare il nostro rapporto con la morte, modificando i termini del “diritto alla sopravvivenza”. Proprio la quantità di “memoria” che viene progressivamente immagazzinata nella rete rende possibile mantenere in vita, se non la personalità di ognuno, almeno una sua immagine digitale sufficientemente fedele da offrire conforto per la perdita. Ormai non appare più impossibile il cosiddetto mind-uploading:

il processo che permette di creare una copia perfetta del cervello la quale, caricata su supporti elettronici, eviterà il deperimento organico del corpo (Sisto, 2018, p. 39).

La morte si fa social: molti gli aspetti da definire

Le possibilità offerte dai nuovi mezzi ai fini delle scelte in merito alla sopravvivenza e all’oblio dei dati sono comunque già talmente complesse da lasciar prevedere qualcuno che una professione in procinto di diffondersi potrebbe essere quella del digital death manager (tradotto in italiano nel ben più crudo “becchino virtuale”). Se infatti il “diritto alla sopravvivenza” costituisce un tema di grande interesse, non meno fondamentale può apparire l’opposto “diritto all’oblio”, cioè la possibilità di decidere di vedere dimenticata la propria storia, o almeno quella parte di essa che si voglia cancellare (o, più facilmente nella rete “de-indicizzare”, ovvero sganciate dalla possibilità di essere scovate da un motore di ricerca).

Più o meno nella stessa epoca in cui Dennett ragionava sul Teleclone, Norbert Elias scriveva:

Una delle carenze delle società avanzate si palesa nell’isolamento prematuro – anche se non deliberato – cui sono condannati i morenti. Questo isolamento testimonia quanto siano limitate le capacità degli individui di identificarsi gli uni con gli altri (Elias, 1982, p. 20).

Il fenomeno della diffusione dei social network ha sicuramente cambiato lo scenario. Il mondo iper-connesso offre al morente la possibilità di non essere confinato in uno spazio solitario. Se questo però coincida anche con una maggiore empatia collettiva è un problema che meriterebbe ulteriore approfondita riflessione, questa volta anche da parte degli psicologi.

Psicoanalisti in seduta. Glossario clinico di Psicoanalisi contemporanea (2018) A cura di L. Danon-Boileau, J. Tamet e R. Galiani – Recensione

Psicoanalisti in seduta. Glossario clinico di Psicoanalisi contemporanea, a cura di Laurent Danon-Boileau, Jean-Yves Tamet e Riccardo Galiani, rispettivamente appartenenti alla Società Psicoanalitica di Parigi, all’Associazione Psicoanalitica Francese e alla Società Psicoanalitica Italiana, è un esteso e importante lavoro che, nella forma del glossario clinico, raccoglie vocaboli, espressioni e intuizioni che guidano il lavoro psicoanalitico.

 

I sedici capitoli di cui si compone, distinti nelle due macro sezioni Lo spazio della seduta e Lo spazio della psiche, accolgono i contributi di più di cinquanta autori che, con prospettive diverse e inscritti nel panorama psicoanalitico, si occupano di trasportare il lettore in quel moto che li vede oscillare dalla clinica alla teoria quando sono in seduta. A questo scopo, per ogni voce illustrata, gli autori si servono di un frammento clinico che consente di rendere traducibile in una costruzione teorica, con i limiti riconosciuti, la processualità della seduta e di rintracciare, pur nella diversità di orizzonti, il presentarsi di un’impasse che si rivela utile a far evolvere il lavoro psicoanalitico.

Nello scenario offerto, che si propone di descrivere in chiave contemporanea il lavoro compiuto da analista e paziente, chiarendone le condizioni indispensabili al suo sviluppo (setting e transfert di base), il lettore si fa spettatore del dispiegarsi imprevedibile, affascinante e apparentemente incomprensibile nesso che tra passato e presente viene a costruirsi nello spazio della seduta.

In altri termini, egli assiste al modo in cui “uno scatto verbale involontario”, il ricorso agli avverbi, ai motti di spirito, il fluire delle associazioni, ricordi e sensazioni, analogie e comportamenti violenti, nella veglia e nei sogni, acquistano senso attraverso il contributo di ciascun membro della coppia analitica.

La rappresentazione che viene a delinearsi del lavoro interpretativo segnala il compito tutt’altro che semplice dell’analista e le condizioni in cui l’interpretazione può essere sfavorevole. In sostanza, un’idea della possibilità di invalidare la funzione interpretativa è contenuta in queste parole:

L’analista si trova così di fronte a un aspetto del funzionamento del paziente ma, se tenta di mostrarglielo direttamente, si ritrova nella posizione di un traslocatore che prende un mobile per spostarlo da un posto ad un altro

(Parsons, 2018, p.65). Vale a dire che quello a cui è chiamato è un procedere fluttuante – che non può che avvenire nel transfert – tra il meno esplicito e il più esplicito contributo che può fornire, in relazione al paziente e ai diversi momenti della cura.

Psicoanalisti in seduta tra transfert e controtransfert

A questo scopo, immerso nelle correnti transferali e controtransferali, egli si serve di due condizioni essenziali come la rêverie e la capacità negativa, ma anche della, meno indagata, qualità del suo investimento nei confronti del paziente. In questo modo di procedere, in cui si abbandona alle immagini, resta fiducioso nell’incertezza e ascolta i propri movimenti interni, l’analista conserva anche l’attenzione sul quadro e sugli effetti di un suo possibile cambiamento.

È nel dialogo continuo tra teoria e prassi che si dispiega nel testo Psicoanalisti in seduta un itinerario che, supportato anche dalla dimensione artistica, s’impegna a fornire al lettore una narrazione dapprima riservata allo spazio della seduta, poi alla dimensione intrapsichica del paziente.

Nel percorrerlo egli si trova, ad un certo punto, dinanzi ad “agonie primitive”, stati regressivi, condizioni traumatiche, pulsioni sessuali e aggressive, stati melanconici, “contratti narcisistici”, separazioni difficili, imago genitoriali negative, relazioni incestuali o triangolate impossibili dalle quali il paziente si protegge con un corredo di difese più o meno primitivo.

In queste situazioni, che il più delle volte svelano un funzionamento borderline nel paziente, egli scopre un analista alle prese con quei processi che, in contrasto con la funzione analitica, ne minano la prosecuzione.

In altri termini, il lavoro analitico viene turbato dai comportamenti del paziente tesi a evitare il pericolo proveniente dal pensiero associativo, d’indifferenza verso il mondo interno, rabbia nei confronti dell’analista che incarna oggetti del passato, come pure da “reazioni terapeutiche negative” che si oppongono alla guarigione.

Se da una parte la processualità analitica mostra le difficoltà che possono comparire nel corso della cura e i tentativi consapevoli e non dello psicoanalista di farvi fronte, con la stessa chiarezza essa non manca di rivelare i momenti evolutivi in cui l’intuizione facilita nel paziente un’acquisizione di senso rispetto ai suoi movimenti interni.

Stare fiduciosamente nel “va e vieni” dalla clinica alla teoria, è ciò che consente di tenere d’occhio i processi, le dinamiche, le difese di ciascun membro della coppia analitica, nonché l’esperienza asimmetrica e intersoggettiva co-costruita.

Di fatto, quando l’attenzione si sposta sulla relazione tra analista e paziente, essa consente di scorgere un processo in divenire nato proprio dal loro incontro. Accade allora che, come fa notare Fiamma Vassallo (2018),

Non c’è una verità da scoprire sul paziente, ma da costruire sulla relazione delle due menti in seduta, su quanto si genera nel campo che esse co-costruiscono (p. 315).

Per di più, laddove il vertice di osservazione si allarga al rapporto tra cultura e cura, la riflessione raggiunge sentieri, forse, poco esplorati, e diviene possibile riconoscere l’esistenza di effetti ambivalenti nel riferimento culturale comune tra paziente e analista, come pure il lavoro compiuto dalla psicoanalisi non solo sul singolo, ma anche sulla civiltà.

Psicoanalisti in seduta: ricchezza di riflessioni

Per concludere, il testo Psicoanalisti in seduta, così strutturato e rispondente alla volontà di rappresentare l’evoluzione del sapere psicoanalitico, si presta alla consultazione di quanti, a mio avviso, addetti ai lavori, siano interessati a conoscere e/o approfondire i concetti che guidano oggi il lavoro psicoanalitico, i differenti approcci al materiale clinico e le corrispondenze, seppur meno indagate, comunque esistenti tra di essi. Più nel dettaglio, i suoi contributi affrontano il lavoro psicoanalitico alla luce degli apporti dei più importanti esponenti del panorama psicoanalitico del passato e contemporanei e aprono numerosi spazi di riflessioni sulle sfide poste dal lavoro con il paziente e le necessarie trasformazioni che attraversano la pratica psicoanalitica e l’identità personale e professionale di ciascun analista. Infatti, molti dei concetti e delle intuizioni qui contenute rappresentano proprio il prodotto di questo banco di prova; un avanzamento creativo e in costante trasformazione che ha dato un nome a fenomeni complessi, come “empatia psicoanalitica” e ha promosso, negli ultimi tempi e con maggiore impatto, un doveroso interrogarsi sui vissuti dello “psicoanalista ferito” nel corpo e sul ruolo della self-revelation e della self-disclosure in momenti talmente delicati del processo di cura.

Un’auspicabile e costante curiosità dovrebbe animare la lettura del libro Psicoanalisti in seduta, al fine di poter cogliere le prospettive che da esso si dipanano sul campo vasto e complesso che esplora e non smarrirsi nella densità di contributi che propone.

Felicità: una nuova ricerca svela come essere felici più a lungo

Un gruppo di ricercatori dell’Università del Minnesota e della Texas A&M University hanno condotto una ricerca con lo scopo di comprendere come gli obiettivi che ci prefiggiamo influiscano sulla felicità.

 

Chi di noi non vorrebbe che la felicità che proviamo in alcuni momenti della nostra vita durasse per sempre? Molti studiosi si sono occupati dell’argomento.

Felicità e obiettivi smart

In letteratura è stato dimostrato che per stare bene bisogna porsi obiettivi specifici, concreti e facili da misurare. Secondo gli autori dello studio, però, questo non sempre è vero. In determinati ambiti, come il lavoro o l’esercizio fisico, avere un approccio simile permette di raggiungere più facilmente ciò che si desidera, ma quando si tratta della nostra felicità la situazione cambia.

Gli autori sostengono che quando lo scopo è essere felici, potrebbe essere più utile avere obbiettivi più ampi, più generali, perché permetterebbero ad un individuo di essere più aperto e di sperimentare diverse emozioni positive.

Ad esempio, guardare un film con il solo obiettivo di provare emozioni forti, fa passare in secondo piano altri elementi altrettanto importanti come il significato o le scene divertenti.

Gli autori della ricerca, dunque, hanno ipotizzato che persone con obiettivi più generali avrebbero sia provato un range più ampio di emozioni, sia avrebbero sperimentato una felicità più duratura.

Felicità: dura in base a come formuliamo gli obiettivi

Quest’emozione è stata studiata in relazione ai comportamenti di consumo, perciò nell’esperimento è stato chiesto ai partecipanti di descrivere gli obiettivi di un acquisto appena effettuato. Le descrizioni emerse sono principalmente tre, delle quali solo la prima con un obiettivo generale:

  1. Aumentare il livello di gioia e felicità nella vita
  2. Diventare più felici cercando di aumentare le proprie emozioni
  3. Diventare più felici cercando di rilassarsi

In seguito, i partecipanti hanno risposto a delle domande circa il livello di felicità sperimentato, a distanza di diversi intervalli di tempo: subito dopo l’acquisto e dopo due e sei settimane dall’acquisto.

È emerso che, sebbene i livelli di felicità fossero uguali per tutti subito dopo l’acquisto, solo le persone che perseguivano l’obiettivo più generale, “aumentare il livello di gioia e felicità nella vita”, riportavano più felicità con il passare del tempo.

Secondo l’autore Ahluwalia le persone possono scegliere la quantità di felicità che vogliono ottenere da un determinato evento. Gli obiettivi generali permettono di far durare più a lungo le emozioni positive che derivano da un’esperienza, che può essere non solo l’acquisto di un vestito ma anche andare in vacanza, o ascoltare della musica.

Nonostante siano necessari ulteriori studi, secondo l’autore, questi risultati aiutano a comprendere come basti un piccolo cambiamento nel modo in cui formuliamo i nostri obiettivi, per avere una felicità più duratura.

Ascoltarsi e ascoltare: la persona al centro della propria vita – Giornata Nazionale della Psicologia 2018

Giornata Nazionale della Psicologia 2018

Ascoltarsi e ascoltare: la persona al centro della propria vita

 

Il 10 ottobre 2018 si celebrerà la terza edizione della Giornata Nazionale della Psicologia, dedicata quest’anno al tema Ascoltarsi e ascoltare: la persona al centro della propria vita, evento promosso dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e patrocinato dal Ministero della Salute. Per tutta la settimana che include tale data, sono previste iniziative organizzate dalla comunità professionale degli psicologi italiani su tutto il territorio nazionale, con l’obiettivo di informare i cittadini su temi di pertinenza psicologica e di sensibilizzare rispetto alle potenzialità di questa scienza nel promuovere il cambiamento e il benessere psicofisico, migliorando la qualità di vita delle persone.

La Giornata Nazionale della Psicologia coincide, e non a caso, con la Giornata Mondiale della Salute Mentale; espressione, quella di Salute Mentale, che identifica secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità:

Uno stato di benessere in cui ogni individuo realizza il proprio potenziale, è in grado di far fronte agli eventi stressanti della vita, è in grado di lavorare in modo produttivo e fruttuoso ed è in grado di fornire un contributo alla comunità.

La tutela della dimensione psichica della salute è una conquista fondamentale ma recente da parte della società e delle istituzioni; in Italia, a partire dalla rivoluzionaria Legge Basaglia del 1978 e successivamente attraverso i due Progetti Obiettivo del 1994 e 1999, si è solo gradualmente passati da un’assistenza mirata non solo alla cura e alla diagnosi di malattia, quanto piuttosto orientata alla tutela e alla promozione della salute anche nelle sue componenti di ordine psicologico (sociali, relazionali e comportamentali). Una tendenza riconosciuta dai nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (gli interventi ritenuti indispensabili e utili per la salute e che Stato e Regioni s’impegnano a garantire) del 2017, che sanciscono l’importanza di usare la psicologia per intervenire efficacemente in termini preventivi, per impedire che il disagio divenga malattia, per promuovere le risorse delle persone e dei contesti.

Tutto ciò considerato, è dunque rilevante analizzare il dato riportato dal rapporto OsMed pubblicato a settembre dall’AIFA relativo al consumo di farmaci in Italia nel 2017, secondo cui è stato rilevato un aumento considerevole, dell’8%, del consumo di una classe di psicofarmaci con proprietà ansiolitiche, sedative e miorilassanti (le benzodiazepine), consumo che addirittura rappresenta la prima voce di spesa fra i farmaci di classe C (a carico del cittadino) per una spesa di 348 milioni di euro.

Un aspetto interessante riguarda le differenze regionali nella prescrizione di questi psicofarmaci: il loro utilizzo è più diffuso al Nord, e in particolare la Liguria è la regione con più prescrizioni, con 74,9 DDD/1000ab die (dosi al giorno per 1000 abitanti), mentre tutto il centro sud mostra una prevalenza inferiore alla media nazionale (47.9 DDD/1000ab die). Un dato da non sottovalutare e che necessiterebbe di ulteriori approfondimenti, nella possibilità che possa rappresentare l’indice sia di un aumento dei livelli di stress e disagio psichico nella popolazione che, contemporaneamente, di una tendenza ad affrontare e gestire la sofferenza psichica e l’instaurarsi di una sintomatologia in termini “anestetizzanti” e caratterizzati da immediatezza, attraverso l’assunzione di farmaci che, sebbene di grande aiuto, possono determinare problematiche legate a dipendenza e assuefazione, ma soprattutto dimostrano un’efficacia longitudinale limitata quando il loro uso non è affiancato da un intervento psicologico.

È in questo panorama che il tema della Giornata Nazionale della Psicologia di quest’anno, Ascoltarsi e ascoltare: la persona al centro della propria vita, assume significato e rilevanza: ascolto inteso dunque come opportunità per riportare l’attenzione verso i segnali del proprio corpo e della propria mente, per dar loro, e quindi a se stessi, spazio e legittimità, invece di negazione o evitamento. Ascoltarsi, quindi, in un contesto, quello della psicologia, in cui l’ascolto è anche strumento per conoscere, in un’ottica di aiuto e d’intervento mirato al cambiamento, al perseguimento di una rinnovata progettualità e maggiore benessere.

La Giornata Nazionale della Psicologia è dunque un’occasione per far conoscere le potenzialità della Psicologia, fornendo opportunità d’incontro tra professionisti e cittadini. Sul sito web dell’Ordine Nazionale degli Psicologi è possibile consultare le iniziative organizzate nelle diverse regioni italiane. Fra queste vi è la proposta Studi Aperti, in cui sarà possibile confrontarsi con psicologi e psicoterapeuti su temi riguardanti le difficoltà che possono necessitare di uno spazio d’ascolto. Gli interessati potranno inoltre ricevere informazioni sull’offerta terapeutica validata ed efficace rispetto ai problemi proposti.

 

ASCOLTARSI E ASCOLTARE – Scopri gli eventi:

 

 

 

Disturbo da Stress Post Traumatico: due tipologie a confronto

Nel DSM 5 il Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) è definito dalla coesistenza di 4 cluster sintomatologici. Un importante articolo del 2010 ha individuato delle sotto-catagorie di PTSD e da allora si è aperto il dibattito.

 

Ecco i cluster sintomatologici che definiscono il PTSD secoondo il DSM 5

  • Riesperienza (pensieri intrusivi, flashbacks, incubi)
  • Evitamento (deficit di memoria, senso di distacco, tentativo di evitare il pensiero di luoghi o di persone associati al trauma, rinuncia alla socializzazione
  • Alterazioni negative (umore, memoria, cognizione)
  • Ipereccitabilità (tendenza a trasalire, ipervigilanza, irritabilità, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione)

Disturbo da Stress Post Traumatico: le sottocategorie individuate da Lanius e collaboratori nel 2010

Nell’articolo scritto da Lanius e altri collaboratori, del 2010 e pubblicato sull’American Journal of Psychiatry, viene profilata una sotto-categoria di Disturbo da Stress Post Traumatico a partire da uno studio di neuroimaging tramite fMRI effettuato su pazienti affetti da PTSD.

In questo studio si osservano differenti attivazioni di zone coinvolte nella gestione della memoria traumatica che sembravano rispondere a diversi “stili” di PTSD: con e senza sintomi dissociativi invalidanti. Questo ha permesso agli autori di ipotizzare l’esistenza di una sotto-categoria del PTSD (quella dissociativa), che in termini clinici rappresenterebbe un elemento importante per effettuare diagnosi differenziali.

Inoltre, gli attuali sviluppi relativi al Disturbo da Stress Post Traumatico che si rifanno alla teoria polivagale di Porges, sembrano corroborare la tesi che esistano diverse tipologie di risposte a delineare, come in questo articolo è sostenuto, due tipologie diverse di PTSD:

  • quella “classica”, con i sintomi da PTSD canonici (iper-arousal e pensieri intrusivi ricorrenti), osservata su soggetti meno “inibiti” dall’effetto modulatore della corteccia prefrontale (“emotional undermodulation”)
  • quella “dissociativa”, osservata nei pazienti con maggiore inibizione limbica: in questo caso si osservava un “collassare” delle competenze cognitive, insieme ad una generale impressione di “ipoarousal”. Gli autori parlano in questo caso della dissociazione come di una strategia estrema di coping: “gli autori suggeriscono che questi dati vadano a supportare la teoria che la dissociazione sia una strategia di regolazione invocata per far fronte a un arousal estremo nel PTSD, ottenuto attraverso l’iperinibizione delle regioni limbiche -e che questa strategia di fronteggiamento sia più attiva durante un vissuto cosciente di minaccia”

PTSD: le diverse tipologie dal punto di vista neuroanatomico

In senso neuroanatomico, si è osservato in queste due modalità distinte di gestione del Disturbo da Stress Post Traumatico, una differente attivazione delle aree cerebrali che avrebbero modulato l’attivazione limbica in caso di minaccia:

  • nel PTSD non dissociativo, vi sarebbe stata una sotto-inibizione della fisiologica risposta limbica al senso di minaccia (e da qui il riproporsi del ricordo traumatico altamente intrusivo);
  • nel caso invece del sottotipo dissociativo, vi sarebbe stata una iper-inibizione della risposta limbica (e la risposta dissociativa come diretta conseguenza, con tutti i crolli cognitivi associati -memoria, attenzione, etc.).

Gli autori propongono un modello che vede diversi livelli di gravità del Disturbo da Stress Post Traumatico: Lanius, autrice del volume La cura del sé traumatizzato, è d’accordo sul pensare che esista una sorta di meccanismo a “dente di sega” per cui uno stimolo traumatico viene elaborato fino a quando è possibile: il cervello se ne fa carico, ma oltre una certa soglia, vi sarebbe un collasso difensivo (come si osserva nei casi più gravi di PTSD), mediato dall’intervento “regolativo” della corteccia prefrontale:

The corticolimbic inhibition model postulates that once a threshold of anxiety is reached, the medial prefrontal cortex inhibits emotional processing in limbic structures (the amygdala), which in turn leads to a dampening of sympathetic output and reduced emotional experiencing

In questo articolo, inoltre, vengono citati moltissimi altri lavori in cui viene delineata la presenza di due tipologie distinte di Disturbo da Stress Post Traumatico, con un funzionamento simile a quello descritto, che andrebbero a supportare l’ipotesi iniziale.

PTSD: i trattamenti d’elezione delle diverse tipologie

Per quanto riguarda il tipo non-dissociativo di Disturbo da Stress Post Traumatico, in questo articolo viene raccomandato un utilizzo prudente della terapia espositiva (verso una desensibilizzazione al ricordo del trauma). Per quanto riguarda il tipo dissociativo di PTSD, la questione si fa più complessa perchè il quadro dissociativo inibisce, tra le altre cose, la possibilità di apprendere dall’esperienza secondo un modello classico di condizionamento classico (che è il cuore della terapia espositiva). Gli autori ritengono più utile in questo caso rifarsi al modello “tri-fasico” usato in ambito di psicotraumatologia.

 

Le psicoterapie orientate alla mindfulness (2018): una guida all’uso della mindfulness come strumento di benessere per pazienti e terapeuti – Recensione del libro

Il volume Le psicoterapie orientate alla mindfulness, indirizzato ai professionisti clinici, mostra in che modo sia possibile utilizzare la mindfulness all’interno della psicoterapia sottolineando che l’utilizzo della meditazione nel lavoro terapeutico non è una strategia che si impara ma una pratica da allenare quotidianamente in prima persona.

 

L’edizione italiana del manuale, a cura di Andrea Bassanini, è una novità importante all’interno dello scenario letterario della psicologia italiana poiché fornisce la traduzione di una pratica, quella della mindfulness, che si sta sempre più diffondendo negli ultimi anni riscontrando molti consensi.

La mindfulness fa parte di quella che nella cornice cognitivo-comportamentale viene definita third waves ovvero terza ondata, successiva al periodo comportamentista e cognitivista. Rispetto al passato gli approcci di quest’ultima ondata sono maggiormente interessati a interventi esperienziali e meditativi come nel caso della mindfulness e ai processi mentali come nella terapia metacognitiva.

Mindfulness: caratteristiche

Jon Kabat-Zinn, uno dei nomi più importanti dell’ambiente, definisce la mindfulness come

consapevolezza aperta, momento per momento, non giudicante.

La caratteristica fondamentale quindi appare essere l’accettazione delle esperienze che si stanno vivendo nel presente con tutte le emozioni ad esse connesse. In ambito terapeutico la mindfulness può essere utilizzata all’interno di approcci molto diversi tra loro: dalle psicoterapie psicodinamiche e umanistiche alla psicologia positiva. Sul versante della psicoterapia cognitivo-comportamentale alcuni programmi fondati sulla mindfulness hanno aperto le porte ai molti studi e protocolli clinici sviluppati negli ultimi anni; i primi programmi di trattamento sono stati: mindfulness-based stress reduction (MBSR, Kabat-Zinn, 1990), mindfulness-based cognitive therapy per il trattamento della depressione (MBCT, Segal et al. 2012), dialectical behavior therapy utilizzati principalmente nei disturbi borderline di personalità (DBT, Linehan, 1993) e l’acceptance and commitment therapy (ACT, Hayes et al., 1999).

In questa cornice di riferimento il manuale Le psicoterapie orientate alla mindfulness intende offrire un contributo pratico sul modo in cui psicoterapia e mindfulness si possono fondere per aiutare il terapeuta non tanto nel lavoro con il paziente quanto piuttosto nello sviluppo di una maggior consapevolezza del Sé e nella creazione di una miglior alleanza terapeutica.

La presentazione dell’edizione italiana, a cura di Fabio Giommi, psicologo e psicoterapeuta nonché presidente dell’Associazione Italiana per la Mindfulness, sottolinea il prezioso valore della traduzione del volume nella nostra lingua e chiarisce in che modo psicoterapie e mindfulness si possono incontrare. È interessante notare come, fin da queste pagine introduttive, si colga l’importanza di una conoscenza profonda della materia ma soprattutto la necessità della pratica individuale da parte del terapeuta, non a caso gli autori dell’edizione originale e i curatori di quella italiana sono tutti praticanti e istruttori di pratiche mindfulness.

Le psicoterapie orientate alla mindfulness: struttura del libro

Articolato in 16 capitoli e suddiviso in 4 parti, il corposo manuale Le psicoterapie orientate alla mindfulness si apre con una necessaria riflessione sul significato della mindfulness, dalla definizione all’utilità della tecnica per poi passare ad una riflessione sui punti di contatto tra la psicologia occidentale e la filosofia buddista, culla delle pratiche di meditazione. Il capitolo spiega anche in che modo la mindfulness si può unire alla psicoterapia. Fondamentalmente esistono tre tipi di psicoterapia orientata alla mindfulness: il clinico può praticare la mindfulness per migliorare il proprio ruolo di terapeuta oppure può far riferimento a teorie derivanti dalla pratica della meditazione o dalla psicologia buddista (psicoterapia informata dalla mindfulness) o ancora utilizzare la mindfulness nel lavoro con il paziente insegnando come si pratica (psicoterapia basata sulla mindfulness). Questi tre livelli, che si possono definire gerarchici, richiedono competenze diverse oltre a sessioni di pratica sempre più impegnative.

La parte seconda di Le psicoterapie orientate alla mindfulness affronta una delle componenti più importanti all’interno di una psicoterapia: la relazione clinico-paziente ovvero la mindfulness relazionale. Si esamina il modo in cui la mindfulness può aiutare il terapeuta nel migliorare la propria presenza durante la seduta fornendo suggerimenti per coltivare elementi quali l’attenzione, l’empatia e la regolazione emotiva.

Con la terza parte si accede a quella che definirei la parte più clinica e pratica del volume. Si affrontano infatti le applicazioni cliniche che la pratica della mindfulness può riservare. La premessa necessaria, ampiamente affrontata nel corso del capitolo introduttivo alla sezione, riguarda il fatto che il paziente debba essere disposto e propenso alla pratica della mindfulness evitando quindi ogni tipo di imposizione. In sequenza il manuale illustra, attraverso esempi di tecniche e presentazione di casi clinici, l’utilizzo della pratica nei disturbi depressivi e ansiosi passando poi ai disturbi psicofisiologici legati allo stress, al trattamento dei traumi e delle dipendenze. Conclude un intero capitolo dedicato al lavoro con i bambini che mostra come la mindfulness possa creare una maggior sintonia con i piccoli utile per chi riveste il ruolo di terapeuta ma anche di genitore.

La sezione conclusiva riassume gli aspetti della pratica di meditazione analizzando i contributi che la mindfulness ha portato anche attraverso evidenze scientifiche e neurobiologiche per poi volgere lo sguardo al futuro cercando punti di contatto con la psicologia positiva. Conclude il manuale un breve appendice che chiarisce i vari concetti incontrati durante la lettura per meglio orientarsi nel mare aperto della psicologia buddista.

Le psicoterapie orientate alla mindfulness è un libro sicuramente da avere in libreria per i terapeuti che vogliono ampliare il proprio campo, per chi è interessato o anche solo per chi ne è incuriosito. Uno scritto che fornisce sicuramente molte informazioni e offre utili spunti per il lavoro terapeutico ma che al tempo stesso pone non pochi interrogativi, lasciando questioni aperte e spunti di riflessione. Un ottimo volume che presenta la mindfulness in un’ottica terapeutica, mai scordando però che non può esistere un buon terapeuta mindfulness che non pratichi in prima persona.

Buona lettura mindfull a tutti.

L’ipnosi in pratica (2018) di F. Petruccelli, M.N. Grimaldo, M. Rabuffi – Recensione del libro

L’ ipnosi non è sempre stata una pratica psicologica riconosciuta, ma, come sostengono gli autori dell’interessante manuale L’ ipnosi in pratica, ha impiegato molto tempo per uscire dal misticismo che da sempre l’ha attorniata.

 

Uno dei principali motivi per cui l’ ipnosi ha avuto grandi difficoltà ad essere riconosciuta come pratica psicologica, è dipeso in particolare dall’ osteggiamento che le pose Freud, sostenendo che l’ ipnosi potesse produrre soltanto risultati di natura transitoria e che i suggerimenti dati ai pazienti in stato di trance andassero a sovrapporre i veri conflitti degli stessi. In realtà si è supposto che Freud abbia abbandonato tale pratica in quanto non capace di usarla, dal momento che un cancro alla mandibola gli rendeva difficile quella chiarezza di parola necessaria per l’induzione in ipnosi (Hambleton, 2005).

Ipnosi in pratica.. di cosa si tratta

L’American Psychological Association (APA) Division Of Psychological Hypnosis definisce l’ ipnosi come una procedura durante la quale si suggeriscono cambiamenti in sensazioni, percezioni, pensieri, sentimenti e, di conseguenza, concepisce l’ ipnosi come uno stato diverso di coscienza;  infatti, in linea con questa definizione alcuni autori ritengono che non esista uno stato ipnotico ma, piuttosto, un non stato (Barber, 1969).

In questo caso, l’ ipnosi è ritenuta come una condizione di suscettibilità alle suggestioni, le quali funzionano tanto nello stato di veglia quanto nello stato ipnotico: sono tanto potenti quanto l’individuo sotto ipnosi riuscirà a rispondere a questa esperienza (Barber, 1978).

C’è da dire che, sul punto suddetto, il libro L’ ipnosi in pratica non fornisce un approccio teorico unilaterale, in quanto Petruccelli, Grimaldo e Rabuffi passano dal descrivere il processo ipnotico all’interno di una cornice neuropsicologica, come stato fisiologico/attentivo dettagliato (cap 2), al descriverla all’interno di una cornice psicodinamica, come una sorta di ponte di accesso all’inconscio (cap.8), definendo la mente in forma dualistica (conscio vs inconscio) .

In realtà, questo dualismo teorico non è un elemento dissonante del libro ma alla base della complessa storia dell’ ipnosi e delle svariate tecniche percettive sensoriali e immaginative che essa comporta.

L’ ipnotismo non ha avuto un processo evolutivo lineare bensì un susseguirsi di momenti di disinteresse, oblio, rifiuto sia delle tecniche che dei fenomeni inconsci ed è per questo che la sua storia appare come una continua riscoperta che ha permesso un miglior adattamento ai mutamenti storico-culturali determinando dei cambiamenti nelle tecniche e nel linguaggio ipnotico.

Occorre tener presente che l’ipnosi è l’unica esperienza simile a quelle che facciamo in molte occasioni della vita: Erikson, forse il più grande ipnotista di tutti i tempi, sosteneva, infatti, che tutto fosse ipnosi: come tutte le esperienze umane, anche l’ ipnosi è dunque caratterizzata da discontinuità nel fluire dell’esperienza ed é dipendente dalla soggettività.

Gli esseri umani non sono tutti ipnotizzabili allo stesso modo e per gli stessi scopi; quindi prima di iniziare una pratica ipnotica è molto importante una valutazione della suscettibilità all’ ipnosi.

Ipnosi in pratica: utlità del libro

Perché comprare il libro L’ ipnosi in pratica allora?

Per prima cosa perchè Petruccelli, Grimaldo e Rabuffi mantengono le promesse: è chiaro, semplice e pratico, di 10 capitoli solo quattro sono a carattere teorico, ma sono scritti in maniera semplice, sono i più brevi e contengono informazioni utili ed essenziali. I restanti capitoli, quelli pratici, accompagnano il lettore alla pratica ipnotica, descrivendo chiaramente le istruzioni adatte per praticarla.

Consigli pratici da chi vi scrive in questo momento che, oltre ad aver letto il libro L’ ipnosi in pratica ha praticato per diversi anni l’ ipnosi sperimentale e l’ induzione ipnotica per uno studio sul dolore cronico, sono: leggere molto bene questo libro prima di praticare queste tecniche, provare con amici e parenti a metterle in atto e solo quando vi sentirete a vostro agio con la pratica, potrete selezionare per quale caso è utile praticare l’ ipnosi solo dopo averne richiesto il consenso informato.

Questi consigli sono riportati anche nel Cap.10 di questo prezioso libro, ed è utile seguirli sopratutto per chi non ha mai partecipato a corsi di ipnosi o non ha mai praticato su pazienti forme di rilassamento progressivo.

Il ruolo della curiosità nella formazione in Psicoterapia – Congresso SITCC 2018

Il ruolo della curiosità nella formazione in Psicoterapia

Antonia Pierobon, Paola Boldrini, Alessia Minniti, Andrea Bassanini e Luca Calzolari

 

La curiosità nella pratica clinica ci permette di esplorare il mondo mentale del paziente stimolando esso stesso a esserne curioso e andando a costituire di fatto uno di pilastri centrali dell’alleanza terapeutica. Di conseguenza un’adeguata formazione in psicoterapia non può non prescindere dallo stimolare un atteggiamento curioso nello studente che, però, soprattutto all’inizio del quadriennio è inibito, quasi temuto. L’idea di questo simposio, preparato e realizzato con stimati colleghi con cui da diverso tempo portiamo avanti progetti comuni preziosi nelle sedi congressuali e del percorso spesso faticoso della curiosità nello studente in formazione, mi venne dopo un’esperienza avuta durante il mio primo anno di didattica, nello specifico descrivendo le basi del primo colloquio clinico. A fine della parte teorica ci fu una simulata in cui la terapeuta, una specializzanda, aveva come scopo quello di raccogliere le informazioni utili in un primo colloquio e di fare un abc sulla situazione problematica presentata dal paziente, che in quel caso ero io didatta, di cui non sapeva nulla. Il colloquio fu condotto molto bene e nonostante avvertissi una certa tensione da parte dell’allieva le domande furono congrue rispetto all’ obiettivo così come l’abc. L’unica cosa che mancò, e glielo feci notare, fu di chiedermi il nome, età e altre informazioni utili a capire il contesto personale. Le riflessioni che ne seguirono in classe furono estremamente interessanti perché evidenziarono lo stato mentale della studentessa e quanto lo stesso fosse condiviso da diversi altri allievi, molto centrato sul problema portato dalla persona e meno sull’ essere curiosa della persona portatrice di quella sofferenza. Le credenze dell’allieva erano sulla performance in cui emergeva un tema centrale di inadeguatezza “oddio se non riuscirò a fare un buon colloquio sarò un’incapace”, pensieri che in maniera del tutto congrua le facevano vivere un’esperienza di profonda ansia regolata, in quel caso, da un comportamento di controllo “devo incasellare le informazioni nel modo corretto”. Riflettere su quell’episodio fu particolarmente utile ancora di più perchè in un contesto clinico lo stesso episodio avrebbe potuto portare quel determinato paziente a non sentirsi capito, vedendo il terapeuta troppo occupato ad incasellare le informazioni piuttosto che ad ascoltare ciò che lui, forse per la prima volta, cercava di descrivere. Stiamo parlando, quindi, di un potenziale drop out, con conseguente lettura di sé da parte del terapeuta in termini di conferma della propria inadeguatezza; ciò che fa quella persona, il terapeuta in questo caso, per non sentirsi incapace, è proprio ciò che ha un ruolo chiave nel farlo accedere a quel tema così sensibile. In sede di formazione penso sia molto utile ed importante per noi didatti far emergere il funzionamento mentale dell’allievo cercando di aiutarlo a capire il motivo per cui si è comportato in quel determinato modo. Ad esempio, l’utilizzo di una tecnica di riconosciuta efficacia terapeutica quale l’abc può diventare strumento di esplorazione, nella mente di un allievo centrato sulla curiosità, o di regolazione di ansia, nel caso di cui ho fatto riferimento prima. L’obiettivo è quindi quello di stimolare il ragionamento clinico con quell’apertura che un atteggiamento curioso ci può dare. Per fare questo, ma soprattutto per normalizzare oltre che capire la reazione di ansia degli allievi, potrebbe essere utile parlare dei propri di errori all’interno della nostra formazione e pratica clinica, portando anche i nostri primi colloqui con lo scopo di riflettere con gli studenti su quale stato mentale governava quel determinato momento del colloquio e come abbiamo reagito, magari sbagliando.

Dimentichi spesso le password dei tuoi account online? Ecco perché e come ciò accade

Nell’era del digitale e delle nuove tecnologie, ogni accesso, sito internet, app o personal device è protetto da password, non per tutti però è facile tenere a mente queste informazioni! Alcuni studiosi si sono interrogati sui processi che si nascondo dietro alla tendenza a dimenticare queste “parole segrete”.

 

Attraverso uno studio condotto alla Rutgers University, New Brunswick, sono state indagate le modalità e le motivazioni sottese alla tendenza che molte persone hanno a dimenticare le password di accesso ai vari siti internet.

I siti web si concentrano sul dire agli utenti se le loro password sono deboli o forti, ma non fanno nulla per aiutare le persone a ricordarle.

afferma Janne Lindqvist, coautrice di studi e assistente professore presso il Dipartimento di ingegneria elettrica e informatica della School of Engineering.

È risaputo che, nonostante i siti consiglino o impongano password contenenti lettere minuscole e maiuscole, numeri e caratteri speciali, le persone preferiscono password semplici e poco sicure.

Gli autori di questo studio hanno ipotizzato che il recupero mnemonico possa dipendere dall’importanza della password e dalla frequenza con cui la si utilizza.

Cosa rivela lo studio

I partecipanti allo studio sono stati reclutati pubblicando volantini nel campus, attraverso annunci sul web e tramite mailing list universitarie, per un totale di 100 partecipanti, di cui il 52% donne e 48% uomini, di età compresa tra i 18 ed i 62 anni (età media 24), tra cui studenti universitari, laureati e impiegati.

La procedura sperimentale consisteva nel chiedere ai partecipanti di creare 8 password per accedere a 8 account diversi e di fare il log-in con una certa frequenza.

Dai risultati è emerso che la frequenza dei log-in aiuta le persone a memorizzare le proprie password. Ovvero, più accessi si fanno a un determinato account e più le probabilità di ricordarci una password aumentano. Inoltre, è emerso come le tipologie di account (esempio sito della banca, piuttosto che social o sito per lo shopping) non influenzano i processi mnemonici.

Infine, l’elaborazione semantica della password ha un suo peso nella memorizzazione e nel recupero di questa.

È stato inoltre chiesto ai partecipanti di condividere con i ricercatori le strategie con le quali essi memorizzano le proprie password. Le strategie emerse sono:

  1. Creare password contenenti nomi di familiari, delle scuole frequentate o date significative
  2. Memorizzare la password in base ad un determinato ordine sulla tastiera
  3. Usare la password frequentemente
  4. Associare una password ad un determinato sito web
  5. Generare password particolarmente semplici, contenenti ad esempio il proprio cognome

Il nostro modello potrebbe essere utilizzato per prevedere la facilità di memorizzazione delle password, misurare se le persone le ricordano e richiedere ai progettisti di sistemi di password di fornire incentivi alle persone per accedere regolarmente – ha detto Lindqvist.

Apprendimento trasformativo e implicazioni teoriche legate alla trasformazione della propria identità professionale in età adulta

Secondo i teorici dell’ apprendimento trasformativo, avere una capacità critica della propria esperienza progettuale in fatto di collocazione professionale produce nel soggetto una maggior resilienza a cambiamenti improvvisi all’interno del contesto di lavoro.

 

La teoria di Jack Mezirow (1978) ha profondamente mutato le condizioni legate alle capacità organizzative di singole persone e di contesti aziendali. In più ha permesso di aprire in modo flessibile canali di comunicazione con aree psicologiche e pedagogiche in fatto di ri-modulazione dei propri stati interni legati a scelte cruciali come quelle che toccano da vicino la professione e la propria identità professionale, specie in età adulta.

In questo mio contributo intendo selezionare, dal punto di vista teorico, le correlazioni più importanti che si evidenziano tra l’area della trasformazione dell’apprendimento e l’area della definizione del sé, campo questo di pertinenza psicologica.

Habermas (1981) e Chomsky hanno svolto importanti studi sugli aspetti di ricostruzione e sul concetto di agire comune nell’ambito dell’apprendimento in età adulta.

Dall’altro lato la Psicologia del sé (se pensiamo a H. Kohut negli anni ’70) pone in stretta considerazione la possibilità che il bambino (poi adulto), nel proprio arco di vita, sviluppi un sentimento di attaccamento e vicinanza con la propria madre, nella quale rispecchiarsi. Tale processo, però, può subire continui rimaneggiamenti, momenti di empasse, situazioni nelle quali questa corrispondenza madre-bambino risulta carente.

Parole chiave: apprendimento trasformativo, generatività del sé, Kohut, Mezirow, Teoria del sé

 

L’ apprendimento trasformativo in un contesto di crescita personale

All’interno dell’ampia cornice teorica relativa ai processi di apprendimento nell’arco di vita, la prospettiva di Mezirow sottolinea l’importanza di una concezione critica e autonoma, da parte dell’individuo, la quale consente di strutturare un proprio nucleo critico e teso all’autonomia rispetto alle esperienze lavorative del soggetto.

Questo è l’assunto di base che i teorici dell’ apprendimento trasformativo sostengono all’interno del loro apparato teorico. Avere una capacità critica della propria esperienza progettuale in fatto di collocazione professionale, produce nel soggetto una maggior resilienza a cambiamenti improvvisi all’interno del contesto di lavoro.

Apprendere è dunque imparare, sin da subito, a pensare come un adulto, tanto più che il pensiero adulto è in grado di non stigmatizzare e di rendere flessibili idee e preconcetti. Non si tratta altro che di un “dialogo interno” tra il sé dell’individuo e quello che si lega al contesto professionale di appartenenza.

Ogni contesto di apprendimento è dunque un “agglomerato” di nuove costruzioni ideative rispetto alla percezione di un senso del sé inserito in un contesto professionale.

L’ apprendimento trasformativo come dialogo interno

La teoria dell’ apprendimento trasformativo ha da sempre coinvolto, come detto in premessa, l’area della Psicologia del sé. L’aspetto “intrapsichico” di tale teoria ha a che fare con la capacità del soggetto di stare a contatto con le parti più mature e sviluppate del proprio sé. Non è un caso che si parli di apprendimento secondo varie stratificazioni, ovvero l’apprendimento si modifica con il progredire della crescita maturazionale, soprattutto da un punto di vista cognitivo.

Trasformandosi, dunque, l’apparato “pensante”, di conseguenza si apprende in modo sempre più complesso e variegato. L’adulto può disporre di una gamma eterogenea di canali conoscitivi, dal più elementare, al più complesso.

L’ apprendimento trasformativo, però, introduce un riferimento importante al concetto di trasformazione delle potenzialità che la persona possiede e che può criticamente ri-visitare e modellare. Il senso critico e la possibilità di cambiamento sono parte dell’assunto di Mezirow. Si instaura una sorta di “dialogo interno” del soggetto che lo condurrà alla presa di consapevolezza di determinate caratteristiche della propria persona e del proprio interesse lavorativo.

Mezirow sosteneva che gli individui hanno difficoltà a cambiare perché le loro visioni del mondo diventano fotogrammi “inconsci” di riferimento costruiti attraverso abitudini mentali. Egli sostiene che quel particolare punto di vista può diventare così radicato che ci vuole un potente catalizzatore umano, un argomento forte o quello che definisce un dilemma disorientante per scuoterli.

In una raccolta di articoli intitolata In Defence of the LifeWorld (Welton, 1995), Mezirow fece continuo riferimento al suo noto studio del 1978 condotto per conto del Ministero della Pubblica Istruzione americano. Il suo studio potrebbe essere descritto come un progetto di “ricerca sul campo” (Lewin, 1946 e Kemmis e McTaggart, 1998) poiché era collaborativo, partecipativo e cercò a lungo di migliorare un aspetto della società, in questo caso, l’istruzione come “seconda opportunità” per le donne. Il Dipartimento si chiedeva perché così tante donne stavano tornando a studiare e quali effetti avevano i loro studi su di loro. Mezirow fu in grado di riferire che un ritorno allo studio spesso porta ad un processo di “sensibilizzazione” da parte di molte donne e che il processo tende generalmente a verificarsi in una serie di passaggi, ovvero:

  • Dilemma disorientante
  • Autoesame
  • Senso di alienazione
  • Relazionare ad altri il proprio malcontento
  • Spiegare le opzioni di un nuovo comportamento
  • Costruire la fiducia in nuovi modi
  • Pianificare una linea d’azione
  • Affinare la conoscenza per attuare piani strategici
  • Sperimentare nuovi ruoli
  • Reintegrazione

Sulla base di questo primo studio, Mezirow, nel dialogo e nel dibattito con altri teorici sull’educazione degli adulti, ha postulato, tradotto e, a volte, rivisto la sua teoria dell’ apprendimento trasformativo.

Si è visto che un elemento essenziale della teoria di Mezirow è la necessità di sviluppare capacità comunicative in modo che i conflitti interni ed esterni, che risultano dai cambiamenti di prospettiva, possano essere risolti attraverso un discorso razionale che dia un senso a questi cambiamenti.

Mezirow (1989) ha sostenuto che il cosiddetto dialogo basato sulla razionalità richiede informazioni complete e accurate, libertà dalla coercizione, una capacità di valutare le prove e valutare obiettivamente gli argomenti, un’apertura verso altri punti di vista, una pari opportunità di partecipazione, una riflessione critica delle ipotesi.

È chiaro che Mezirow (1981) ha sempre dato ampio spazio alla costruzione di un sé critico del soggetto, in particolare modo dell’universo femminile, tanto da proporre una visione ottimistica di una realtà lavorativa non sempre incoraggiante, soprattutto per il sesso femminile.

Mi avvicino, dunque, verso l’altro ambito che è quello della Psicologia psicoanalitica, in particolare all’area dello sviluppo del sé.

H. Kohut e la costruzione dell’identità

Il concetto di sé per Kohut si collega al disturbo narcisistico presente in alcune persone, le quali non hanno potuto sperimentare situazioni di attaccamento con le figure genitoriali responsive e in grado di prospettare loro una crescita organica del sé, da una parte e dell’Io dall’altra.

Si sviluppano quindi persone con un deficit, con una scarsa capacità empatica nelle relazioni interpersonali, insieme ad un grandioso senso del sé che, il più delle volte, nasconde un senso di vuoto e di inferiorità.

Ma, al di là di questi dati diagnostici, la teoria del sé, oltre ad occuparsi di relazioni oggettuali, sviluppa un filone interessante per quanto riguarda la costruzione di una propria identità personale, frutto di processi di sviluppo che fanno parte della anamnesi di ogni singolo soggetto. E allora, come Mezirow ha sempre sostenuto, la trasformazione di ciò che è parte di noi avviene nel tempo e secondo una prospettiva disorientante (“dilemma disorientante”), qualcosa che scuote il soggetto e che lo riporta ad un “nuovo inizio” e da lì riprende il suo cammino.

Il ripristino ad uno stadio “precedente” permette al soggetto di ri-proporsi a sé e all’ambiente circostante secondo una prospettiva diversa. Ad esempio, un soggetto traumatizzato può, se non opportunamente sostenuto nella rielaborazione del trauma (Counselor, Educatore, Psicoterapeuta), non essere in grado di affrontare, nel corso della propria vita, i passaggi più cruciali (Adolescenza, adultità, prime esperienze sentimentali, matrimonio, nascita dei figli….) e perdersi nel gestire queste fasi dell’arco di vita. Allo stesso modo può capitare che un adulto, che non abbia potuto consolidare le proprie capacità di assimilazione di nuove conoscenze tramite percorsi di apprendimento, possa poi necessitare di un aiuto nel tentativo di trasformare i livelli di apprendimento sino a quel momento introiettati, in processi realmente trasformativi di sé come individuo, nonché rispetto alle proprie scelte professionalizzanti.

Reintegrarsi alla luce di nuove competenze

È secondo questa prospettiva che il percorso di un individuo prende corpo, ovvero tramite la conoscibilità del proprio mondo interno che risulta sempre in contatto con l’ambiente e con le esperienze di cui lo stesso (ambiente) è intriso.

Si tratta dunque di declinare le proprie competenze, di apprendimento e non, nei confronti di una realtà circostante in continuo cambiamento. L’adultità è di per sé una fase circoscritta ma in cui riemergono pilastri fondamentali del nostro passato, del nostro presente e del nostro futuro.

Organizzare il proprio processo formativo non è affatto banale. La Psicologia cognitiva, ad esempio, con Bruner ha dato sostanza al pensiero contemplativo, a quel tipo di pensiero che porta il soggetto a porre attenzione ai processi cognitivi (chiarificazione, riformulazione di dati di partenza, ecc….) ma non solo, ha posto interrogativi importanti, su come sia possibile attingere e far proprie certe informazioni presenti nella realtà esterna, assimilandole e facendole proprie.

Questo processo è di per sé un processo trasformativo, se visto in chiave critica, ovvero se mi rendo conto che i contenuti appresi vanno a ri-visitare ciò che è dentro di me, o meglio ancora, il modo in cui riesco a percepire e a costruire nuovi modelli di una stessa realtà.

Clinica delle Passioni (2018): Massimo Termini ci accompagna in un entusiasmante viaggio nel concetto di passione – Recensione del libro

Massimo Termini, psicoanalista lacaniano, nel suo libro Clinica delle passioni propone un vero e proprio viaggio nel concetto di passione.  

 

Se una passione ci prende, ci afferra, è perché siamo appunto appassionati a qualcosa. Ma da cosa esattamente?

Ecco il punto: in Clinica delle passioni, Massimo Termini descrive come a livello inconscio le nostre pulsioni vengano guidate dagli affetti. L’esplorazione delle passioni, il suo avvicinamento e la sua riformulazione nello svolgimento dell’esperienza analitica costituisce il tema centrale del libro.

Clinica delle passioni: le tappe del nostro viaggio

In Clinica delle passioni le passioni vengono intese come affetto, come legame del soggetto con l’Altro, è a questo oggetto speciale, unico e differente da tutti gli altri che rispondono le passioni. La via propriamente analitica per agire su di esse, essendo interconnessa con l’Altro, implica la modifica del rapporto che ciascuno intrattiene, nell’inconscio, con tale oggetto.

È nel variegato campo degli affetti che Lacan introduce il concetto di passione, smarcandosi al tempo stesso da quello di motivazione ed emozione.

Le passioni vengono trattate in modo approfondito: dalla felicità, all’amore, alla sfera sessuale, ma anche dalla tristezza, all’odio e all’addiction. Una grande importanza viene data all’angoscia, quindi alla paura e al senso di vuoto.

 Clinica delle passioni spazia su numerosi argomenti ed è denso di significati per ogni tema trattato. Spiega che la certezza non si incontra nel cammino della ragione e nemmeno lungo la strada del dubbio, ma su quella dell’affetto.

Questo vero e proprio viaggio nel concetto di passione con le pagine tocca numerosi punti fino a giungere al momento della conclusione dell’analisi, affronta dunque l’entusiasmo, quella passione che secondo Lacan permane oltre l’ultima seduta.

È un libro ricco di significati, che può apparire complesso per chi non ha delle basi di psicoanalisi e fonte di numerosissimi spunti per chi invece le ha.

È inevitabile percepire la passione con la quale l’autore stesso ha affrontato i così tanti argomenti, approfondendoli e facendo riflettere sulle possibili trasformazioni dettate da una crescita lungo un percorso più vero.

Le Psicoterapie orientate alla Mindfulness (2018) di K. Germer, R. D. Siegel e P. R. Fulton a cura di A. Bassanini – Recensione del libro

Il libro Le Psicoterapie orientate alla Mindfulness è un tomo corposo che cerca di ritagliarsi un posto importante nell’ampio panorama di volumi che trattano il tema della mindfulness.

 

 Mindfulness (1921) o Sati in lingua Pali significa (consapevolezza, attenzione e ricordo) prestare attenzione in un modo particolare: significa prestare attenzione con intenzione nel momento presente, in modo non giudicante (Jon Kabat Zinn), fiducioso, benevolo ed equanime sviluppando al contempo contatto intimo, ma allo stesso tempo, una distanza fra la mente che osserva e gli oggetti osservati.

La mindfulness come un viaggio

L’ impegno nella pratica è la visione di ciò che si desidera per se stessi, una volta che lo si è scoperti ci si libera dagli automatismi, ed è forse questo l’aspetto principale: un percorso più strettamente individuale di consapevolezza e scelta.

La Mindfulness è vista solitamente come un viaggio che si articola su tre livelli:

  • la teoria (temi centrali) dà la cornice concettuale in cui si fa esperienza
  • le condivisioni (esercizi) mettono a fuoco e traducono in termini semantici l’esperienza, ed il suo cuore che è la pratica
  • la pratica: ossia esperienza individuale del presente attraverso i sensi, che è vissuto e non può essere compiutamente spiegato in termini concettuali.

Attraverso la Mindfulness si pratica la facoltà della presenza mentale o consapevolezza del momento presente, in maniera non giudicante, quindi con l’inquiring si investigano i fenomeni che si sono colti, durante la pratica, in termine di nuova acquisizione di concetto.

Le Psicoterapie orientate alla Mindfulness: struttura e contenuti del libro

La particolarità di questo tomo, rispetto alla maggior parte in commercio, è quello di aver pensato la Mindfulness all’interno di un percorso psicoterapico programmatico. Molte psicoterapie, in particolar modo le psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza onda, come l’ACT, la DBT o la FAP, usano protocolli clinici o elementi basati sulla Mindfulness, ma sono rari i manuali che hanno un focus diretto alla psicoterapia come processo; questo perché ad oggi esistono molti protocolli Mindfulness pensati per diversi campioni clinici ed il dibattito se sia una pratica/tecnica o un tipo di psicoterapia è attualmente molto acceso in ambito scientifico.

Il libro Le Psicoterapie orientate alla Mindfulness si divide in quattro parti: la prima riguarda il significato della Mindfulness, la seconda riguarda la relazione terapeutica, la terza le applicazioni cliniche e infine, la quarta parte, tratta le conclusioni generali e le prospettive future della pratica della Mindfulness.

Solo un altro libro ha, ad oggi, provato un’ impresa simile: Manuale clinico di Mindfulness di Fabrizio di Donna, edito da Franco Angeli nel 2012.

A differenza del libro di Di Donna, che si divideva anch’esso in 4 parti, si può notare come in questo tomo si dia molto spazio agli aspetti relazionali nella Mindfulness e alle sue origini con la psicologia buddista.

Questo manuale presenta una chiara visione della mindfulness all’interno della psicoterapia e raccoglie elementi storici e dati scientifici, costruendo una narrazione organica che sembra una direzione quasi politica: la Psicoterapia orientata alla Mindfulness, un capovolgimento del costrutto teorico.

Non è la mindfulness che si adatta alla psicoterapia come strumento, ma è la psicoterapia che si costruisce intorno ai principi di consapevolezza, presenza e accettazione.

Si nota, in tutto il libro Le Psicoterapie orientate alla Mindfulness, uno sforzo di integrazione della mindfulness, non solo con le psicoterapie cognitivo-comportamentali, ma anche con quelle psicodinamiche, proprio nei termini dell’ importanza della gestione della relazione terapeutica :

ovviamente, dato che le connessioni umane hanno il potenziale di risanare ferite emotive (Cozolino,2010, Karsol, 2011; Siegel,2010), la relazione terapeutica può essere considerata una componente fondamentale di tutte le psicoterapie orientate alla mindfulness (pag. 56 -cap 1).

Le Psicoterapie orientate alla Mindfulness: l’integrazione con psicoterapie psicodinamiche e psicologia buddista

Gli autori sono stati, infatti, molto attenti all’integrazione con le terapie psicodinamiche e la psicologia buddista.

L’aspetto scientifico più orientato all’evidenza, tipico degli approcci cognitivo comportamentali, non sembra però averne risentito ed il tomo mantiene un’ impostazione anglosassone chiara, dove le applicazioni cliniche vengono trattate molto bene, soprattutto da un punto di vista processuale, piuttosto che protocollare.

E’ sicuramente un libro da acquistare per qualsiasi terapeuta che voglia utilizzare, comprendere e insegnare la mindfulness, perchè è molto chiaro, scritto molto bene ed è organico nel suo insieme; ha in sé degli spunti pratici interessanti in ogni suo capitolo, e l’edizione italiana è curata benissimo, dall’ottimo Andrea Bassanini.

Se proprio mi devo sforzare a trovare un limite nella strutturazione di questo prezioso manuale è forse l’eccessiva attenzione agli aspetti interpersonali nella relazione terapeutica, non perchè ritengo che non siano importanti, ma perchè la mindfulness è per sua natura una crescita e un percorso individuale; la pratica quotidiana ci permette di disidentificarci rispetto ai nostri contenuti semantici: adottarla per focalizzarci su un’ esperienza specifica, come quella della relazione terapeutica, potrebbe snaturarla della sua funzione principale, ossia, entrare in relazione con tutte le esperienze, piacevoli, spiacevoli e neutre al di là dei giudizi e sopratutto delle preferenze.

Il vantaggio della Mindfulness ed il suo successo sono, infatti, che è possibile insegnarla a tutti e la cosa migliore per impararla è proprio praticarla ogni giorno, ogni momento, in ogni contesto, ma sopratutto quando è utile.

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