expand_lessAPRI WIDGET

La pedagogia di Maria Montessori – Un articolo di Giancarlo Dimaggio

Mia figlia aveva tre anni. Mia moglie e io parlavamo con la maestra Renata. Una donna magra, alta, dagli occhi azzurri che ti entravano dentro, uno scrutare implacabile e gentile. Di quelle donne verso le quali sviluppi una gratitudine che non morirà mai. Diceva: “Vostra figlia è una bambina” e faceva una pausa “impegnativa”. Sorrideva, non poneva alcun accento negativo sul termine.

Articolo scritto da Giancarlo Dimaggio per Il Corriere della Sera il 19/08/2018

 

Non puoi semplicemente dirle le cose, ci devi ragionare”. Mia figlia ora ha sedici anni e non è cambiata. Renata teneva un piccolo asilo Montessori. Nell’educazione dei miei figli è stato un pilastro. Non solo dei miei.

Maria Montessori era un genio. Una donna che, nata in un paese poco incline al metodo scientifico, fonda una pedagogia scientifica e inventa un metodo educativo che ancora oggi ha pochi eguali. Partiva da un’idea semplice, chiara:

che i bambini possano liberamente esprimersi e così rivelarci bisogni e attitudini che rimangono nascosti o repressi quando non esista un ambiente adatto a permettere la loro attività spontanea.

A questa accompagnava un corollario: realizzazione personale e progresso vengono dalla vocazione, dalla fiamma interna, quel piccolo fuoco sacro dal potere di rendere ogni individuo speciale. La stessa idea, più di un secolo dopo, guida il mio operato di psicoterapeuta: portare gli adulti sofferenti a contatto con quella scintilla interiore e farle prendere vento.

Lei sosteneva che la pedagogia dovesse rispettare la libertà del bambino. Oggi so che si riferiva ad altro, a concetti che oggi chiamiamo autonomia, autoregolazione, agency. Forgiare nel piccolo il senso di competenza, così che padroneggi il piccolo mondo che lo circonda. Era una visionaria, immaginò una pedagogia basata sulla creatività e non sulla disciplina. L’aveva sviluppata sui bambini che all’epoca chiamava “idioti”, scoprendo che poteva portarli al livello dei bambini “normali”. E allora si disse: perché non estenderla? Si industriò e, in una cultura che non favoriva una donna scienziato, ci riuscì.

Arriva l’obiezione: libertà? E che ne è del dovuto rigore necessario a temperare i naturali impulsi vandali dei bambini? Ho una testimonianza diretta: per tutti gli anni che ho accompagnato, visitato, ripreso i miei figli da Renata, non ho mai sentito urlare. L’effetto magico del metodo Montessori: un’educazione individualizzata che insegna a vivere meglio in gruppo.

Sono scienziato anche io, tendo a formulare domande logiche. Premessa, ragionamento, conclusioni. Mi chiedo: abbiamo avuto una delle più grandi pedagoghe di sempre, quindi l’educazione primaria in Italia sarà basata in prevalenza sul metodo Montessori? Mi rispondo: sì. La risposta vera è: no. La domanda che segue è: perché? Mi paralizzo.

Quando sono perplesso reagisco sempre nella stessa maniera, studio. Voglio risposte sensate. Magari questo metodo Montessori è superato, obsoleto. Mi imbatto negli studi di Angeline Lillard, Università della Virginia (è negli Stati Uniti, non in Italia), una psicologa che ha dedicato la sua ricerca al mondo dell’immaginazione. Con sanissima vocazione empirica anglosassone, per loro fortuna non hanno dovuto fare i conti con Benedetto Croce, si è chiesta: il metodo Montessori funziona? Ci ha fatto, guarda un po’, delle ricerche.

I risultati sono impressionanti. I bambini che hanno frequentato asili Montessori, purché vi si applicasse il metodo con fedeltà, acquisivano più abilità che in altre scuole. Aumentava la loro capacità di regolare gli impulsi e di risolvere problemi sociali. Sono entrambe doti che predispongono ad una vita scolastica e di relazione di successo. Non è quello che speriamo per i nostri figli? Per inciso, migliore capacità di regolare gli impulsi da bambini significa minor rischio di diventare criminali da adulti. Ancora: negli asili Montessori imparavano a leggere prima e avevano un vocabolario più ampio. Sviluppavano una migliore teoria della mente e in parallelo avevano maggiore senso di giustizia e tenevano in considerazione il punto di vista dell’altro. Un altro risultato straordinario? Avevano più fiducia nell’affrontare problemi difficili: ci provo perché credo di potercela fare. Ed erano più creativi.

Un altro risultato da pelle d’oca: notoriamente i bambini che vengono da famiglie più povere hanno risultati peggiori a scuola. Negli asili Montessori il gap si riduceva. Coerentemente con lo spirito che nel 1907 portò a fondare nel quartiere San Lorenzo a Roma la prima Casa dei bambini, è possibile fare crescere le abilità anche di chi parte svantaggiato.

Forse ho visto troppi episodi di Black Mirror – la serie TV -, a volte vivo in una realtà parallela. Mi convinco che le ricerche che ho descritto sono state effettuate in Veneto, Sicilia, Lazio. Ci sto comodo per un po’, poi mi risveglio. Erano in Connecticut.

Pubblicare l’opera di Maria Montessori? Sperando che svolgano le prossime ricerche in Italia? Perché non sognare? Io intanto mi tengo stretti i ricordi di quando parlavo con la maestra Renata dei miei figli e con la coda dell’occhio scorgevo bambini attivi, vitali, curiosi.

Il dolore negato. Affrontare il lutto per la morte di un animale domestico (2018) di Pier Luigi Gallucci – Recensione del libro

Il dolore negato è un piccolo contributo – come lo definisce l’autore – per affrontare un tema tanto diffuso quanto poco trattato. Il tema in questione è il lutto, quel lacerante percorso che tutti conosciamo, stavolta però relativo ad un ambito davvero poco trattato e forse ancora poco compreso: la perdita di un compagno speciale, il proprio animale.

 

Un lutto che non trova spazi di condivisione

Nato dall’esperienza clinica di uno psicologo, Il dolore negato, vincitore del premio Bastet 2018, scende dolcemente nei vissuti di quanti hanno subito la perdita del proprio amico animale.

Un lutto specifico, perché sebbene la sofferenza sia grande, e secondo alcuni studi simile alla perdita di una persona cara, il dolore per la perdita di un animale amato appare socialmente ignorato o poco compreso.

Chi vive il dolore per la perdita, quindi, sperimenta anche un senso di solitudine, di esclusione, di vergogna: in letteratura, un lutto delegittimato, minimizzato, banalizzato. Nessuna ritualità del distacco, nessun sostegno sociale.

Il messaggio che passa tra le righe è che si debba riuscire, in tempi brevi, a dimenticarsi del proprio animale e continuare a guardare avanti e vivere felici.

Il dolore negato: sentimenti e processi

L’autore descrive il profondo legame di attaccamento tra uomo ed animale, spesso membro a tutti gli effetti della famiglia, della quale condivide storie e situazioni. Un amore incondizionato e capace di costituire un’importante base di sostegno in molti casi (ad esempio per le persone anziane, o per chi fisicamente o psicologicamente è impossibilitato al movimento o alle relazioni).

Inevitabilmente, la perdita di un legame così importante necessita di un processo di elaborazione ampiamente sovrapponibile a quello conseguente alla morte di una persona. Stordimento, shock, sintomi fisici e psicologici (senso di colpa, tristezza, rabbia, nostalgia) sono passaggi inevitabili del percorso che conduce all’accettazione e alla riorganizzazione della propria vita senza l’animale.

Il dolore negato: validare le proprie emozioni

Tempo, spazio, condivisione. L’autore tratteggia piccoli e fondamentali suggerimenti per fronteggiare il dolore, che invertono la rotta socialmente consona: non negazione ma legittimazione, non solitudine ma condivisione. Spazio, dunque, alle emozioni. Spazio al pianto e alla tristezza, alla rabbia o alla colpa – reprimerli acuisce la sofferenza e rallenta il processo di elaborazione.

Ma anche condivisione e tempo: tempo per esprimere ciò che si prova, per chiedere comprensione, per parlarne con le persone care, per commemorare il proprio amato animale, per chiedere aiuto – se se ne avverte il bisogno.

Il dolore negato: il Ponte dell’Arcobaleno

Il libro si conclude con un racconto, che arriva tra le pagine come un dono che delicatamente l’autore porge al lettore. Non un oggetto ma un luogo: il Ponte dell’Arcobaleno, quel posto speciale dove – narra la leggenda dei nativi americani – ciascuno di noi rivedrà il proprio amico animale corrergli felice incontro.

Nel leggerlo, la sensazione provata è quella del ristoro, della speranza, di un delicato abbraccio finale a quanti sperimentano il dolore negato.

Genitori e insegnanti: fondamentali nella prevenzione della depressione infantile

In merito al problema della depressione nei bambini, The Anxiety and Depression Association of America sostiene che circa il 2-3% dei bambini di età compresa tra 6 e 12 anni potrebbe avere un disturbo depressivo maggiore

 

Questa patologia si presenta in modo differente nei bambini rispetto agli adulti; in questi ultimi, vi è una maggiore presenza di sintomi cognitivi, come eccessivi sensi di colpa e ideazione suicidaria.

Nel caso di depressione nei bambini si riscontra un fenotipo diverso, caratterizzato soprattutto da sintomi fisici e comportamentali, come irritabilità, scarso interesse per il gioco, lamentele somatiche, aggressività.

Depressione nei bambini: la ricerca

Rilevare i segnali che indicano la presenza di un disturbo depressivo maggiore non sempre è un compito facile, e in molti casi, richiede una certa preparazione e attenzione. A tal proposito, Keith Herman, professore nel MU College of Education, afferma che quando viene chiesto, a insegnanti e genitori, di valutare il grado di depressione nei bambini, di solito c’è una bassa sovrapposizione nelle loro valutazioni, pari al 5-10% dei casi. Ad esempio, come riporta Keith Herman, l’insegnante potrebbe segnalare che un bambino ha difficoltà a farsi degli amici in classe, ma il genitore potrebbe non rilevare questo problema a casa.

Keith Herman e Wendy Reinke hanno portato avanti l’analisi del profilo di 643 bambini che frequentavano la scuola elementare, allo scopo di osservare il livello di concordanza tra insegnanti, genitori e bambini, rispetto allo stato di salute mentale di questi ultimi.

I ricercatori hanno scoperto che, anche se il 30% dei bambini che partecipavano allo studio riportava di sentirsi depresso con un livello che poteva andare da lieve a grave, spesso genitori e insegnanti non riuscivano a riconoscerli come depressi.

Insegnanti e genitori erano però discretamente abili nell’identificare altri sintomi importanti, che se rilevati in tempo sono in grado di prevedere il rischio a lungo termine per la depressione nei bambini, ad esempio problemi sociali, disattenzione e deficit di abilità. A tal proposito, Herman ha scoperto che i bambini che mostravano gravi segni di depressione, avevano sei volte più probabilità di avere deficit di abilità rispetto ai loro coetanei.

In conclusione

Sulla base di questi risultati, Herman ha affermato che per quanto il parere degli insegnanti e dei genitori sullo stato mentale dei bambini sia fondamentale, è sempre importante effettuare una valutazione che coinvolga entrambe le figure, e quindi integrare le infomazioni provenienti dalle diverse fonti.

Ad esempio, nel caso in cui il bambino riportasse di non sentirsi depresso, l’identificazione di certi comportamenti da parte degli adulti, come ritiro sociale, scarso interesse per il gioco etc., assumono un ruolo fondamentale per prevenire i problemi a lungo termine che si manifestano con un disturbo depressivo maggiore.

Herman sostiene anche che, per identificare precocemente la presenza di alcuni segni/sintomi tipici della depressione nei bambini e per favorire uno stato di benessere, la presenza di professionisti della salute mentale sia di fondamentale importanza all’interno dei contesti scolastici/sportivi. Così come una corretta campagna di sensibilizzazione sull’identificazione di alcuni segni, sintomi e/o comportamenti indicativi, rivolta a genitori e insegnanti, può avere un ruolo cruciale in un lavoro di prevenzione della patologia.

In ricordo di Walter Mischel, non solo lo psicologo dell’esperimento del marshmallow

Il 12 settembre è venuto a mancare a 88 anni Walter Mischel, uno dei più citati psicologi del Novecento. Numerosi quotidiani americani hanno così ricordato il suo famoso esperimento del marshmallow.

Prof. Renato Foschi – Università La Sapienza, Roma

 

In breve negli anni Sessanta Walter Mischel dimostrò che, posti di fronte ad una scelta fra mangiare subito un marshmallow o attendere 20 minuti e ricevere un secondo marshmallow, i bambini capaci di attendere diventavano poi adulti di successo e maggiormente soddisfatti rispetto agli altri. Walter Mischel divenne così noto al grande pubblico e l’esperimento del marshmallow continuò ad essere una delle prove maggiormente riprodotte e discusse della psicologia contemporanea.

Mischel non fu però solo il rappresentante di una psicologia accademica che si limitava a condurre esperimenti in linea con una cultura democratica che desiderava un individuo saggio, previdente e coscienzioso e tendeva a celebrarne il primato rispetto ad un individuo incapace di autocontrollo.

Walter Mischel e la critica ai dogmi della psicologia contemporanea

Da un punto di vista metodologico, Walter Mischel fu invece uno psicologo radicale che mise in crisi, criticando duramente, alcuni dogmi della psicologia contemporanea. Nel 1968 pubblicò il volume Personality and Assessment in cui prendeva sistematicamente di mira l’uso dei questionari che misuravano disposizioni e fattori invarianti della personalità che seppure risultavano significativi erano in grado di spiegare proporzioni di variabilità modeste e correlavano comunque solo limitatamente con i comportamenti osservati.

A partire da queste evidenze, Walter Mischel diede la massima importanza alle situazioni in cui emergevano comportamenti che sembravano invarianti ed in realtà invece erano condizionati e moderati dall’interazione individuo-contesto. Mischel fu dunque uno dei socio-cognitivisti più critici di una psicologia oggettivista e realista che ancora oggi si riduce a generalizzare delle dimensioni interindividuali considerate come fattori latenti in grado di determinare la vita delle persone.

La sua visione invece si fondava sull’analisi e l’individuazione dei particolari contesti psicologici che favoriscono o impediscono la messa in atto di uno specifico comportamento da parte di uno specifico individuo. L’approccio di Walter Mischel era dunque sostanzialmente orientato alla ricerca di particolari pattern di comportamento in un’ottica che poneva al centro della sua attenzione l’interazione fra i fattori psicologici di un individuo e una specifica situazione. Nelle sue ricerche più recenti ad esempio i comportamenti aggressivi dei bambini erano studiati covariando comportamenti e singole situazioni sperimentali in grado di fermare o accentuare l’aggressività.

Le invarianti comportamentali in questa concezione non erano più i tratti o le disposizioni ma invece i singoli contesti di interazione individuo-situazione.

La prospettiva socio-cognitiva di Walter Mischel ha, quindi, proposto un approccio fortemente indirizzato a dare rilievo scientifico alle caratteristiche psicologiche, soprattutto socio-cognitive, che costruiscono l’individualità.

In tal senso, nella concezione di Mischel, anche l’incapacità di rimandare la gratificazione dei bambini che tendevano a mangiare il marshmallow non era considerata una disposizione immodificabile ma legata invece anch’essa all’individuo che estrae regole di comportamento da contesti specifici che memorizza, seleziona e agisce in funzione dei propri obiettivi.

WALTER MISCHEL SPIEGA IL MARSHMALLOW TEST – GUARDA IL VIDEO:

Per saperne di più:

 

Le terapie di riconversione sessuale: una nuova maschera per il pregiudizio omofobico?

L’idea cardine che regola l’articolato mondo delle terapie riparative e delle associazioni che le sostengono è quella secondo cui l’ omosessualità sarebbe un problema di natura emotiva, derivante da bisogni insoddisfatti dell’infanzia, specialmente nella relazione con il genitore dello stesso sesso.

 

Gli studi sulla terapia «riparativa» impiegano teorie che rendono difficile la formulazione di parametri di selezione scientifica per la pratica terapeutica. Questi studi non solo ignorano il peso dello stigma sociale sottostante alle richieste di curare l’ omosessualità, ma la stigmatizzano anche in maniera attiva […] ( American Psychiatric Association, 2000 )

Negli ultimi decenni il nostro Paese, come buona parte dell’Europa e degli Stati Uniti, ha avuto la possibilità di assistere ad una radicale trasformazione del pregiudizio omofobico in una sorta di moderna intolleranza, più sottile e subdola (Aronson, Wilson, Akert, 2006) che, facendo leva sugli intenti etici e filantropici insiti nella terapia psicologica, ha permesso alle schiere del potere ecclesiastico di avanzare la pretesa di poter curare o “porre rimedio” all’ omosessualità; tutto ciò attraverso l’offerta di servizi di assistenza e consulenza la cui utilità e fondatezza professionale, come vedremo, risultano assai dubbie.

Terapie riparative: quando nascono e come possiamo definirle

Sotto il nome di terapie riparative (reparative theraphy), o di riconversione, cade una serie abbastanza ampia di modelli terapeutici tesi a modificare l’orientamento o l’identità sessuale di un individuo, da omosessuale a eterosessuale. L’approccio “riparativo” all’ omosessualità nasce nei primi anni ‘80 dagli studi di Elizabeth Moberly, una teologa inglese, che, nel testo Homosexuality: A New Christian Ethic (1983), individua tra le cause dell’ omosessualità, “incomprensioni” nel rapporto tra padre e figlio.

Le terapie riparative hanno assunto visibilità mediatica internazionale per il lavoro di Charls Socarides, uno psichiatra americano, e Joseph Nicolosi, uno psicologo clinico americano, cattolico conservatore, fondatore e direttore della Thomas Aquinas Psychological Clinic ed ex presidente del Narth, l’Associazione Nazionale per la Ricerca e la Terapia dell’ omosessualità. Nicolosi fornisce altresì, una descrizione chiara e al contempo articolata dell’intero paradigma teorico-applicativo a pilastro delle terapie di riconversione, nel suo libro Reparative Therapy of Male omosexuality: A New Clinical Approach (1997).

Proprio grazie a Nicolosi, Socarides e Kaufman, la “moda” delle terapie di riconversione prende piede negli Stati Uniti a partire dagli anni ‘80, sino a raggiungere il suo apice nel 1992 con la fondazione della già citata NARTH, inizialmente gestita dallo stesso Nicolosi, in qualità di presidente. Tuttavia, prima ancora di immergerci in quelle che secondo Nicolosi sarebbero le origini psico-sociali dell’ omosessualità, è bene fare riferimento all’insieme dei principi religiosi fondamentalisti sui cui, come risulta noto, poggiano le terapie riparative.

L’ideologia fondamentalista evangelica e quella cattolica, espressa a suo tempo da Benedetto XVI, definisce i principi dogmatici, come l’ordine eterosessuale dell’umanità, valori non negoziabili: verità assolute e del tutto inopinabili. L’ordine sacro prevede solo due identità, “maschile” e “femminile”, contraddistinte da qualità differenti e complementari su ogni piano dell’essere. Le due sole identità possibili corrispondono, infatti, a due costituzioni naturali diverse e, dunque, a scopi, ruoli, espressioni, psicologie e poteri diversi (Rigliano, Ciliberto, Ferrari, 2012).

In linea con i principi evangelici lo stesso Nicolosi ha affermato a più riprese che

La natura stessa è eterosessista […], aspetto fondamentale per la sopravvivenza del genere umano […] Io parto dalla premessa che tutti gli esseri umani, per loro stessa natura sono eterosessuali, e che alcuni individui hanno un problema omosessuale[…] uso il termine “omosessuale” come abbreviazione di “persona eterosessuale con un problema omosessuale (Nicolosi, 2002).

Unicamente gli eterosessuali con problemi di omosessualità possono essere tollerati, in quanto, riconoscendosi in una condizione problematica, bisogna avere compassione di essi. Forti di tali certezze i terapeuti riparativi pretendono che ogni dinamica psichica sia sottomessa all’ordine naturale eterosessuale in quanto matrice che Dio ha stabilito per il corretto sviluppo umano (Rigliano, Ciliberto, Ferrari, 2012).

Principi cardine delle terapie riparative

L’idea cardine che regola l’articolato mondo delle terapie riparative e delle associazioni che le sostengono – tra le quali anche NARTH Italia, Exodus International, Courage etc – è quella secondo cui l’ omosessualità sarebbe un problema di natura emotiva, un problema derivante dai bisogni insoddisfatti dell’infanzia, specialmente nella relazione con il genitore dello stesso sesso: in altre parole l’attrazione per il proprio sesso è ridotta a sintomo della mancata connessione emotiva del ragazzo con il proprio padre, e della ragazza con la propria madre (Donatio, 2010).

Nello specifico, la dimensione epistemologica delle terapie riparative trae fondamento da alcuni princìpi (destituiti di ogni fondamento scientifico), di cui Rigliano e colleghi (2012) forniscono una visione fortemente chiara ed esaustiva. Tuttavia, per questioni di maggiore sinteticità, risulta vantaggioso fare riferimento solo ad alcuni di essi, ovvero:

  • l’ omosessualità è una tendenza all’atto sessuale, un impulso solo comportamentale: è una compulsione sessuale (essa rappresenta un comportamento oggettivo, individuabile ma soprattutto eliminabile);
  • l’ omosessualità è una parte superficiale ed estranea, una cosa aliena dal soggetto, una tendenza avulsa dal suo essere e dal suo “vero io mascolino” (essa è una parte morbosa dell’individuo, una cosa aliena, un escrescenza erotica);
  • l’ omosessualità è un difetto di mascolinità, dovuto a una carente identificazione con il genitore dello stesso sesso (secondo Nicolosi l’omosessuale erotizzerebbe ciò in cui non si identifica);
  • gli uomini omosessuali sono persone che hanno queste tendenze a causa di una fissazione che impedisce l’identificazione con la mascolinità;
  • le relazioni d’amore omosessuali sono impossibili.

Distanti anni luce dal processo di depatologizzazione dell’ omosessualità, inaugurato agli inizi della seconda metà del XX secolo grazie agli studi condotti da Alfred Kinsey e da Evelyn Hooker ( Lingiardi & Nardelli, 2014), i terapeuti riparativi possono illudere i pazienti di asportare con una sorta di chirurgia psicoterapeutica dall’organismo sano, la malattia dell’ omosessualità; il tutto mediante una sorta di teopsicologia che vede nell’autoinvalidazione dell’omosessuale, nonché nella preghiera, i pilastri della guarigione da una patologia che oggi sappiamo non essere tale ( Rigliano, Ciliberto, Ferrari, 2012).

Talvolta, nonostante le accortezze professionali che si acquisiscono lungo il percorso di formazione alla psicoterapia, alcuni interventi clinici, pur non essendo espressamente definibili come “riparativi”, sono comunque caratterizzati da bias antiomosessuali e da scarsa informazione. In definitiva, tanto più il terapeuta sarà condizionato da bias antiomosessuali, tanto più tenderà al modello riparativo propriamente detto, in maniera più o meno consapevole (Lingiardi & Nardelli, 2014).

Una critica alle terapie riparative

Attraverso un auspicabile spirito di riflessione critica e di onestà intellettuale, ciò che in questa sede si vuole evidenziare, non è altro che l’attuale assenza di fondatezza scientifica del corpus di pratiche o metodologie cliniche connotanti l’articolata dimensione delle terapie di riconversione sessuale. In tal senso, Serovich (2008), attraverso la revisione di 28 studi empirici riguardanti il controverso tema della riconversione sessuale, ha messo in luce la possibilità di “identificare un certo numero di problemi metodologici, che suggerisce che questi studi sono privi di rigore scientifico. Le limitazioni includono mancanza di teoría, definizioni e misurazioni inconsistenti dell’orientamento sessuale, campioni limitati, mancanza di disegni longitudinali e disparità dei sessi”. Non di meno, ulteriori ricerche, hanno individuato la possibilià d’insorgenza di seri danni a carico della sfera personale, relazionale e della relazione terapeutica, legati ai percorsi terapeutici di riconversione sessuale ( Haldeman, 2001; Shildo & Schroeder, 2002; Beckstead & Morrow, 2004).

Alla luce di quanto fin qui detto e in controtendenza rispetto al paradigma delle terapie riparative, risulta doveroso sottolineare che lo psicologo (o psicoterapeuta che sia) deve ascoltare e capire quella che è la rappresentazione mentale ed emotiva che il paziente ha di sé, dei propri desideri e della propria sessualità. Il tentativo ultimo dovrebbe essere quello di promuovere un “ascolto rispettoso” per arrivare a comprendere, insieme, le motivazioni del disagio e cosa sottende il desiderio di diventare eterosessuale: quali aspettative, quali certezze infrante, quali paure (Donatio, 2010).

In ultimo, ma non per minore importanza, anche il Codice Deontologico degli Psicologi mette in guardia i professionisti dall’adozione di pratiche professionali invalidanti, lesive della dignità umana e di dubbia, se non inesistente, fondatezza scientifica. Il Testo, infatti, in maniera del tutto disambiguante, all’art.4 recita testualmente:

Nell’esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità. Lo psicologo utilizza metodi e tecniche che salvaguardando tali principi, e rifiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli stessi […] ( Calvi e Gullotta, 2012).

Per concludere, lungi dal rischio di cadere in un processo di ri-patologizzazione “pseudo-competente” dell’ omosessualità, ci si dovrebbe chiedere che peso specifico abbia l’esigenza/urgenza di integrare nei percorsi formativi dei professionisti della salute mentale, l’acquisizione di competenze nette e imprescindibili in materia di deontologia; il tutto, come fine inderogabile di una disciplina (la psicologia) che, anche in seno all’etica, riesca a rivendicare il suo statuto di scienza a pieno titolo.

Relational Frame Theory: i principi e i meriti della teoria e i contributi alla moderna psicoterapia

La Relational Frame Theory (RFT) vanta numerosi studi empirici e teorici nella letteratura psicologica dell’ultimo decennio, ma la teoria resta ancora poco conosciuta o non condivisa dalla maggior parte degli psicologi cognitivi e comportamentali (Blackledge, 2003). I principi della Relational Frame Theory assumono oggi notevole importanza in quanto costituiscono il background teorico dell’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) (Hayes, Strosahl e Wilson, 1999).

 

La Relational Frame Theory, infatti, oltre allo studio del linguaggio, estende il suo campo di applicazione anche alla cognizione e alla psicopatologia, nonostante risulti ancora poco chiara e di difficile comprensione.

Blackledge, in un suo studio del 2003, ha tentato di semplificare i principi della Relatonal Frame Theory in modo da rendere più evidenti i contributi di questa teoria alla psicopatologia. A questo scopo Blackledge parte dall’analisi di un modello ampiamente conosciuto: il fear network di Lang (1985). Tale modello presenta alcune analogie con la RFT: è a partire da questo modello che può risultare più chiara la descrizione dei principi presenti nella RFT.

Dal fear network di Lang alla Relational Frame Theory

Secondo Lang, tutta la conoscenza è rappresentata da unità concettuali che racchiudono informazioni sugli oggetti, sulle relazioni e sugli eventi. Queste unità di informazione, sono definite “proposizioni” e si distinguono in proposizioni-stimolo, proposizioni-risposta e proposizioni-significato:

  • le proposizioni-stimolo implicano informazioni sugli stimoli esterni e il contesto in cui si verificano (es. se vedo un serpente nel bosco, “Serpente” e “Bosco” saranno due proposizioni stimolo);
  • le proposizioni-risposta si riferiscono alle informazioni sulla risposta in questo contesto, inclusi il comportamento verbale espressivo, reazioni viscerali ed eventi somatici che mediano le azioni (es.”Il battito cardiaco accelera”);
  • le proposizioni-significato invece si riferiscono a informazioni che definiscono il significato dello stimolo e risposta (“Il serpente è pericoloso”).

Lang sostiene che queste reti di stimoli sono immagazzinate come schemi nella memoria a lungo termine e vengono attivate quando ci si imbatte in uno degli stimoli. Seguendo l’esempio del serpente, semplicemente camminando in una zona boscosa e vedendo movimenti furtivi fuori dall’angolo degli occhi, potrebbe aumentare la frequenza cardiaca e avere paura. Le proposizioni-stimolo forniscono l’input iniziale, che saranno poi eventualmente alterate dalle proposizioni-significato della rete. Le proposizioni-risposta sono il risultato quasi inevitabile dell’elaborazione cognitiva.

Queste reti e i loro componenti, possono essere apprese apprese o per esperienza diretta, o per conoscenza e istruzione o per modellamento.

Il modello di Lang include componenti che riguardano pensieri, emozioni, sensazioni fisiologiche e comportamenti manifesti. Allo stesso modo la Relational Frame Theory incorpora tutte queste classi di stimoli. Inoltre, secondo Lang, vi sono delle relazioni implicite ed esplicite tra le componenti di una rete: ad esempio ci sono relazioni causali tra stimoli (il pensiero causa l’azione), rapporti di equivalenza approssimativa tra stimoli (“serpente” = “pericolo”, per esempio) o relazioni gerarchiche tra stimoli.

Inoltre diversi stimoli possono condividere alcune delle funzioni degli altri stimoli presenti nella rete in virtù della loro associazione. Ad esempio, l’essere in un bosco potrebbe portare alla paura e alla stessa accelerazione della frequenza cardiaca, perché so che lì potrei trovare un serpente (sebbene non lo veda). Questo concetto di relazione tra stimoli è cruciale nella Relational Frame Theory. Ad esempio, una frequenza cardiaca accelerata potrebbe indurmi a pensare che ho paura, con una sensazione di paura che si verifica contemporaneamente.

La Risposta Relazionale

Uno dei principi base della Relational Frame Theory è quello della risposta relazionale, che si riferisce al processo di discriminazione delle relazioni tra stimoli. L’idea di discriminare le relazioni tra gli stimoli, secondo la RFT, è importante perché consente di raccogliere più informazioni su tutti gli stimoli dell’insieme, rispetto alla discriminazione del singolo stimolo della rete.

Ad esempio, essere in grado di discriminare un’area boschiva e poter discriminare un serpente, non mi dice nulla sulla relazione tra i serpenti e le aree boschive, su quanto sia possibile incontrare un serpente in quell’ambiente lì, ecc. Questo determina anche comportamenti più complessi (ad es. porto un kit di pronto soccorso con me quando vado nei boschi, perché potrei essere morso da un serpente). Tuttavia questo processo può sfuggire al controllo e portare a problemi psicologici come, ad esempio, le fobie.

Risposta relazionale derivata: coinvolgimento mutuo e combinatorio

Specifici tipi di risposta relazionale si verificano anche in situazioni specifiche di cui non si è fatta esperienza diretta, in questi casi si parla di risposta relazionale derivata. La risposta relazionale derivata implica la capacità di correlare gli stimoli in una varietà di modi anche se non c’è mai stato un rinforzo diretto al mettere in relazione quegli stimoli in quei modi specifici. Se ad es. nessuno mi ha mai detto direttamente che dovrei aver paura dei serpenti, ma ho imparato da qualcuno che i serpenti sono imprevedibili e spesso si muovono rapidamente, ed ho anche imparato che l’imprevedibilità e il movimento rapido sono eventi spaventosi, allora, anche se nessuno mi ha mai detto che dovrei avere paura dei serpenti, potrei lo stesso sapere che i serpenti sono animali di cui avere paura. E’ come se lo stimolo “Serpente” è correlato in modo coordinato con “non prevedibile” e “movimento rapido”, e questi ultimi due stimoli sono correlati in modo coordinato a “paura”. Una connessione tra “paura” e “serpente” non è stata quindi mai appresa direttamente ma è stata derivata.

Esistono due tipi specifici di risposta relazionale derivata: mutuo coinvolgimento e coinvolgimento combinatorio.

Il mutuo coinvolgimento significa semplicemente che se lo stimolo A è correlato in modo specifico allo stimolo B, allora B è correlato in modo complementare a A: se mi è stato insegnato che la cognizione “Ho paura” è una causa per “scappare”, sarei in grado di derivare che “scappare” è un effetto del pensare “Ho paura”. Allo stesso modo, se so che i “serpenti” “si muovono rapidamente”, sono in grado di ricavare che “il movimento rapido” (in certi contesti) è indicativo di “serpenti”. Tali semplici derivazioni possono apparire così ovvie al lettore che sembrano non richiedere alcuna attenzione. Tuttavia, nelle prime fasi di apprendimento del linguaggio, tali derivazioni sono tutt’altro che semplici (Lipkens, Hayes e Hayes, 1993).

Il coinvolgimento combinatorio è attivato nella relazione tra almeno tre stimoli: esso si riferisce ai rapporti reciproci che esistono tra due stimoli in virtù del modo in cui tali stimoli sono collegati ad altri stimoli intermedi. I rapporti combinatori quindi si verificano tra due stimoli che non sono direttamente correlati l’uno all’altro. Ad es. la relazione tra “Io/me”, “Area Boscosa” e “Serpente”: supponiamo che io sia attualmente in una zona boscosa, normalmente non associerei mai “Io / Me” e “Serpente”, ma è lo stimolo “area boscosa”, legato ad entrambi i primi due stimoli, che mi fa derivare una relazione combinatoria tra questi. In questo caso, so che i serpenti sono contenuti in aree boschive, e so anche che io attualmente sono in un’area boschiva, quindi io potrei imbattermi in un serpente.

Come nel caso del mutuo coinvolgimento, l’evidenza empirica indica che l’integrazione combinatoria non si verifica automaticamente con la comparsa del linguaggio, ma piuttosto si sviluppa come una funzione dell’apprendimento del linguaggio (Blackledge et al., 2004, Lipkens et al., 1993).

Risposta relazionale derivata: la coordinazione

Prima di continuare a descrivere le caratteristiche principali della Relational Frame Theory, Blackledge (2003) propone un’altra breve digressione per spiegare uno specifico tipo di relazione che spesso confonde i lettori, probabilmente la risposta relazionale più basilare e diffusa tra gli stimoli: la coordinazione. Se due stimoli sono correlati in modo coordinato, significa che sono uguali o quasi identici. Il termine coordinazione è usato perché tiene conto sia delle cose che sono identiche l’una all’altra, sia delle cose che sono simili sotto molti aspetti. Come forse con ogni risposta relazionale, i bambini imparano innanzitutto a correlare in modo coordinato gli stimoli sulla base delle loro proprietà formali. Ad esempio, supponiamo che un bambino ha appreso che la parola “Coca-Cola” si riferisce alla Coca Cola, al piccolo viene detto che la Pepsi è come la Coca Cola e che riceverà un bicchiere di Pepsi se mette via i suoi giocattoli. Anche se il bambino non ha mai assaggiato né visto la Pepsi, relazionerà questa in modo coordinato con Coca-Cola e farà di tutto per averne un po’, anche mettere via i suoi giocattoli. Anche se non ha mai bevuto la Pepsi, coordinare questo stimolo alla familiare Coca Cola consente al bambino di “capire” cos’è la Pepsi (Blackledge, 2003).

Trasformazione delle funzioni di stimolo

Questo rimando teorico aiuta a comprendere un’altra caratteristica che definisce la Relational Frame Theory. Effettuare delle risposte relazionali tra stimoli comporta la trasformazione delle funzioni di ogni stimolo coinvolto: quando due stimoli sono correlati, alcune delle funzioni di un singolo stimolo cambiano in base agli altri stimoli ad esso collegati e al modo in cui questi sono collegati. Se per esempio veniamo a conoscenza del fatto che nel bosco in cui giocavamo da piccoli, ci sono dei serpenti a detta di tutti pericolosi, la relazione gerarchica appena stabilita tra bosco e serpenti, si traduce in una trasformazione delle funzioni dell’area boscosa. Dove prima, i boschi erano “belli” e “divertenti”, ora sono “pericolosi”.

E’ facile capire come, nel corso degli anni, col passare dei giorni e delle esperienze, impariamo a utilizzare le risposte relazionali tra stimoli e a creare tra questi legami non-formali o arbitrari: i nostri mondi verbalmente costruiti diventano sempre più complessi man mano che deriviamo sempre maggiori relazioni tra ogni stimolo che discriminiamo.

Risposta Relazionale Derivata Arbitrariamente Applicabile

Non è solo la capacità di derivare le risposte relazionali tra gli stimoli il segno distintivo della Relational Frame Theory, ma piuttosto la capacità di farlo usando proprietà arbitrarie (o non formali) degli stimoli, proprietà diverse da quelle formali che possono essere direttamente viste, assaggiate, odorate o toccate.

Quindi, l’essenza della Relational Frame Theory è una risposta relazionale derivata, arbitrariamente applicabile, che non è applicata arbitrariamente: la risposta relazionale si riferisce alla capacità di rispondere alle relazioni tra stimoli piuttosto che rispondere a ciascun stimolo separatamente. Le relazioni tra gli stimoli possono essere derivate (dai processi di coinvolgimento mutuo e combinatorio), il che significa che le relazioni tra gli stimoli non devono necessariamente essere apprese direttamente. E il processo di risposta relazionale derivata può verificarsi rispetto alle proprietà arbitrarie di uno stimolo (e non solo formali).

Il processo di risposta relazionale derivata arbitrariamente applicabile dà luogo alla trasformazione delle funzioni di ogni stimolo tra gli stimoli tra loro correlati. Infine, la risposta relazionale derivata arbitrariamente applicabile è detta non applicata arbitrariamente: il che significa che la comunità in cui parliamo, che condivide con noi cultura e linguaggio, rinforza solo le risposte relazionali a certe proprietà arbitrarie dello stimolo in determinati contesti, ma non in altri. Quando una risposta relazionale ha “senso”, di solito significa che è stata applicata in modo non arbitrario, cioè che la comunità linguistica a cui apparteniamo “approva” quel modo di relazionare cose specifiche.

La natura operativa dei processi della Relational Frame Theory

Ciò che è stato appena illustrato indica una caratteristica chiave della risposta relazionale derivata: tale risposta è in realtà frutto di un comportamento operante. Dopo una lunga storia di rinforzi dati al relazionare diversi stimoli in diversi modi, diventa possibile mettere in relazione altri stimoli nuovi in ​​una varietà di modi nuovi, anche se questo non è mai stato insegnato direttamente.

Ciò inizia dal mettere in relazione le caratteristiche formali degli stimoli, successivamente si passa al creare relazioni tra proprietà non formali degli stimoli.

In realtà i capisaldi della RFT derivano da processi operativi: rispondere alle relazioni tra stimoli, anziché al singolo stimolo, potrebbe essere uno dei primi passaggi appresi dai bambini che iniziano a parlare. Si inizia così a ricavare relazioni reciproche tra stimoli, sia combinatorie che differenziali. Anche il processo di trasformazione della funzione è modellato insieme ai processi di risposta relazionale, coinvolgimento reciproco e coinvolgimento combinatorio, fino a quando tutti i processi non rientrano in un controllo contestuale sempre più complesso e specifico.

Anche se la lingua non può essere insegnata esplicitamente in termini relazionali, i dati empirici e le conseguenti implicazioni teoriche indicano che pensare al linguaggio in questo modo ha conseguenze importanti per predire il comportamento umano e cambiarlo in meglio (Hayes et al., 2001; Hayes et al., 1999). Definire la lingua come risposta relazionale derivata arbitrariamente ha importanti implicazioni pratiche per gli psicologi clinici (Hayes et al., 2001).

La Relational Frame Theory alla base dell’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT)

L’ACT si basa sul modello della Relational Frame Theory: il linguaggio è basato sull’abilità appresa di mettere in relazione gli eventi in modo arbitrario. L’origine della sofferenza psicologica risiede quindi nella normale funzione di alcuni processi del linguaggio umano, quando applicati alla risoluzione di esperienze private/interne (es. pensieri, emozioni, ricordi, sensazioni corporee, ecc.), invece che alla risoluzione di eventi/situazioni del mondo esterno.

Questo nell’ Acceptance and Commitment Therapy risulta essere un aspetto molto importante: tali processi mentali portano l’individuo a dare significato e sperimentare il pensiero in modo letterale. Per questo motivo, se ho un pensiero di inadegatezza allora “Io sono inadeguato”. Il modello della psicopatologia derivante dalla Relational Frame Theory è, quindi, un modello di inflessibilità psicologica e di “blocco/incastro”, in cui se si lascia che i pensieri (intesi in senso molto ampio) vivano al posto nostro arriviamo a non avere chiaro cosa vogliamo della vita e che cosa sia importante per noi. L’eccesso di tale processo porta a quello che in ACT viene chiamato il sé concettualizzato (una maschera scomoda che indossiamo, di cui abbiamo già scritto su state of mind).

Secondo la Relational Frame Theory, il nucleo del linguaggio umano e della cognizione è la capacità di imparare a relazionare in modo arbitrariamente applicabile degli eventi o degli stimoli. Abbiamo visto che le relazioni non arbitrarie sono quelle definite a partire dalle proprietà formali (concrete, di cui abbiamo esperienza diretta) degli stimoli. Se un oggetto ha lo stesso aspetto di un altro, o è più grande di un altro, o è più largo, una grande varietà di animali sarebbe in grado di imparare questa relazione e anche mostrarla con nuovi oggetti che sono formalmente correlati allo stesso modo (Reese, 1968). Gli esseri umani sembrano particolarmente abili invece nell’astrarre le caratteristiche di tale risposta relazionale e portarle sotto il controllo contestuale in modo che l’apprendimento relazionale avvenga anche su stimoli ed eventi non necessariamente correlati in modo formale ma piuttosto correlati sulla base di caratteristiche arbitrarie (“arbitrario”, come abbiamo visto in precendenza, è da intendersi come “per convenzione sociale”) (Hayes, 2004).

Abbiamo visto come questo sia possibile attraverso il mutuo coinvolgimento, il coinvolgimento combinatorio e la trasformazione delle funzioni dello stimolo. Quando questi tre processi vengono messi in atto in una determinata risposta relazionale, l’intera performance è chiamata Relational Frame (Cornice Relazionale).

Ciò che rende un Relational Frame clinicamente rilevante è che le funzioni date a uno degli stimoli correlati agli altri, tendono ad alterare anche le funzioni degli altri stimoli.

Per esempio un bambino che non ha mai avuto o giocato con un gatto, può apprendere che le lettere G-A-T-T-O rappresentano un animale, e che nello specifico G-A-T-T-O è un gatto. Si ricavano così quattro relazioni supplementari: G-A-T-T-O è un animale, G-A-T-T-O è un gatto, il gatto è un animale e tra gli animali c’è il gatto. Se il bambino gioca con un gatto e viene graffiato, probabilmente piangerà e scapperà via. Se qualche giorno dopo la mamma dirà “Oh guarda, un gatto!” è plausibile che il bambino pianga e scappi via di nuovo, anche se non c’è un gatto e anche se non è mai stato graffiato in presenza delle parole “Oh guarda, un gatto!”

Ciò spiegherebbe, ad esempio, come le persone che hanno un primo attacco di panico, sentendosi “intrappolati” in un centro commerciale, presto scopriranno di sentirsi “intrappolati” anche in piazza o in metro. Ciò che unisce queste situazioni non sono le proprietà formali (concrete, tangibili) ma le attività verbali e cognitive che mettono in relazione questi eventi (Hayes, 2004).

Secondo la Relational Frame Theory, il linguaggio umano e la cognizione dipendono entrambi da frame relazionali (Hayes, 2004). Quando pensiamo, ragioniamo, ascoltiamo, lo facciamo derivando le relazioni tra stimoli ed eventi – relazioni tra le parole e gli eventi, tra parole e parole, tra eventi ed eventi. Per questo motivo, a differenza degli operanti verbali di Skinner, secondo la Relational Frame Theory non solo è possibile, ma addirittura necessatio analizzare la cognizione per capire il comportamento umano.

La Relational Frame Theory fa luce su alcuni processi alla base della sofferenza psicologica: la fusione cognitiva e l’evitamento esperienziale, il pericolo della soppressione del pensiero, ma anche l’importanza della defusione cognitiva e dell’accettazione esperenziale, del senso di “Sé” e della centralità dei valori.

Relational Frame Theory: come spiegare l’evitamento esperienziale e il fallimento della soppressione?

Tra i processi patologici più noti vi è l’evitamento esperenziale: il tentativo di fuggire o evitare eventi temuti, anche quando è il tentativo stesso di fuggire che causa danni psicologici (Hayes, Wilson, Gifford, Follette, & Strosahl, 1996). Le emozioni correlate a questa disfunzionale strategia di coping predicono la possibilità di sviluppare depressione (DeGenova, Patton, Jurich, &
MacDermid, 1994), abuso di sostanze (Ireland, McMahon, Malow, & Kouzekanani, 1994) e molte altre aree. Anche i tentativi deliberati di sopprimere pensieri e sentimenti non fanno altro che aumentare la loro presenza e il loro impatto sul comportamento (Cioffi & Holloway, 1993; Clark, Ball, & Pape, 1991; Wegner, Schneider, Carter, & White, 1987).

Sebbene amplificati dalla cultura, la Relational Frame Theory suggerisce che tali processi sono costruiti nel linguaggio umano e nella cognizione stessa. Gli animali cercano di evitare il dolore evitando le situazioni in cui lo stesso dolore si è verificato in passato. Un essere umano non ha questa opzione perché i frame relazionali permettono al dolore di manifestarsi in quasi tutte le situazioni (tramite una trasformazione delle funzioni di stimolo). I pensieri di un coniuge appena morto potrebbero essere attivati da alcune immagini, dall’umore depresso, da un commento in una conversazione, o una miriade di altri segnali. Incapaci di controllare il dolore per via situazionale, gli umani iniziano a cercare di evitare i pensieri e gli stessi sentimenti dolorosi. Sfortunatamente, molti di questi tentativi (ad esempio, la soppressione) non portano a nient’altro che evocare loro stessi l’evento evitato perché rafforzano i frame relazionali sottostanti.

Relational Frame theory e fusione cognitiva

Le reti relazionali sono straordinariamente difficili da rompere, nonostante gli interventi diretti, o le tecniche di disputing (Wilson & Hayes, 1996), questo perché da esse partono una miriade di relazioni derivate, mantenute attraverso determinate reti relazionali.

In termini pratici ciò significa che le elaborate reti relazionali raramente vanno via, vengono semplicemente elaborate un’altra volta. Di conseguenza è molto difficile rallentare e soffermarsi sul linguaggio e sulla cognizione una volta che questi sono ben consolidati. Le funzioni di uno stimolo derivano dunque da frame relazionali che possono dominare anche sulla regolazione comportamentale degli esseri umani, è come se ci fondessimo con i nostri stessi pensieri, mettendo da parte il contatto con l’esperienza del qui-ed-ora ma lasciandoci dominare da regole verbali e valutazioni (Hayes, 1999): ciò viene chiamato Fusione Cognitiva.

Attraverso la trasformazione delle funzioni di stimolo, il nostro ambiente e il nostro contesto di vita tenderà a contenere quelle funzioni di stimolo da cui dipendono le nostre cornici relazionali, sebbene tale processo relazionale non sempre sia evidente. La persona paurosa si costruirà un ambiente di vita che fa paura, agirà come se la paura fosse stata realmente provata e non “cognitivamente costruita”.

Poiché il comportamento regolato dalle reti relazionali è notoriamente insensibile a interventi diretti o di messa in discussione (Hayes, Brownstein, Zettle, Rosenfarb e Korn, 1986), le formulazioni verbali di un terapeuta possono risultare inefficaci e possono continuare a creare sofferenza (non a caso questo è il punto cruciale che porta a superare la CBT classica e a passare agli interventi della terza onda, di cui l’ACT fa parte).

La Relational Frame Theory suggerisce un’alternativa al disputing e agli interventi diretti: cambiare i contesti che supportano un pensiero, il modo in cui ci si relaziona ai propri pensieri e di qui cambiare le azioni o l’emozione, creando una nuova relazione d’azione. L’accettazione esperienziale e la defusione cognitiva sono i primi esempi di tecniche ACT che tentano di fare proprio questo.

Gli obiettivi clinici generali dell’ ACT sono quelli di interrompere il totale “aggrapparsi” ai propri pensieri e di costruire un contesto alternativo in cui è più probabile che il comportamento si allinei ai propri valori. Brevemente, l’ ACT intende promuovere due capacità psicologiche:

  1. Imparare a notare i propri pensieri, immagini o ricordi, riconoscendoli per ciò che sono, ovvero “prodotti della mente” e non realtà assolute;
  2. Guardare la propria esperienza da una posizione privilegiata, dall’alto, decentrata, promuovendo la consapevolezza della propria esperienza mentale.

Osservando i propri pensieri, immagini o ricordi è possibile scegliere di “fondersi” con essi (se ciò è utile e funzionale) oppure di “abbassare il volume” di tali prodotti della nostra mente, facendosene quindi influenzare meno.

Per raggiungere tali obiettivi, l’ ACT prende in considerazione i seguenti concetti:

  • La sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona.Ne consegue che la felicità può essere vista nell’accezione di vivere una vita ricca, piena e significativa
  • Non è possibile sbarazzarsi volontariamente della propria sofferenza psicologica, anche se si possono prendere provvedimenti per evitare d’incrementarla artificialmente.
  • I processi psicologici normali sono connotati dalla realtà del dolore e della sofferenza, che si configura pertanto come stato dell’essere. Combattere contro pensieri ed emozioni negative significa ingaggiarsi in una battaglia persa in partenza
  • Non bisogna identificarsi con la propria sofferenza. La vita comprende anche il dolore e non c’è modo di evitarlo. Non possiamo evitare questo dolore ma possiamo imparare ad affrontarlo molto meglio, a fargli spazio, a ridurre i suoi effetti e a crearci una vita che valga ugualmente la pena di essere vissuta.
  • Si può vivere un’esistenza basata su propri valori. Spesso i pazienti poiché incastrati nelle maglie della psicopatologia li perdono di vista, senza saper più riconoscere cosa sia davvero significativo per la propria vita e senza riuscire più a scegliere e ad agire  come ritengono sia meglio per sé stessi.

L’ Acceptance and Commitment Therapy si basa quindi su tre punti fondamentali:

  • Mindfulness: è un modo di osservare la propria esperienza. Attraverso tali tecniche si impara a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso.
  • Accettazione: si basa sulla nozione che, spesso, tentando di sbarazzarsi del proprio dolore si arriva solamente ad amplificarlo, intrappolandosi ancora di più in esso e trasformando l’esperienza in qualcosa di traumatico. Accettare non significa essere rassegnati, passivi né tollerare o sopportare, bensì abbandonare tutti i tentativi di soluzione inutile e accogliere ciò che la vita comporta se riconosciamo che stiamo andando nella direzione ci ciò che vogliamo dalla nostra esistenza.
  • Impegno e vita basata sui valori: quando si è coinvolti nella lotta contro i problemi psicologici spesso si mette la vita in attesa, credendo che il proprio dolore debba diminuire, prima di iniziare nuovamente a vivere. L’ACT invita a uscire dalla propria mente ed entrare nella propria vita intraprendendo azioni impegnate in direzione di quelli che sono i propri valori.

Non tutti gli eroi indossano un mantello: la comunicazione degli operatori incontra i bisogni di genitori e bambini nel reparto oncologico

La comunicazione riveste un ruolo importante in tutte le fasi della gestione del paziente affetto da cancro e consente un’efficace presa in carico dei bisogni del paziente. 

Elisa Mudolon, GIiada Massacesi, Fiorenza Filippi, Anna Esposito, Beatrice Plini, Giacomo Di Leonardo, Emanuela Forte, Elisabetta Masciotta, Giovanna Tedeschi

 

Il cancro è una delle maggiori cause di decessi e l’incidenza di tale patologia sembra essere in costante crescita negli ultimi vent’anni, con un incremento che non esclude nemmeno l’ambito pediatrico.

L’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, in collaborazione con l’associazione internazionale dei registri del cancro, ha messo a disposizione i dati raccolti nell’arco di tempo tra il 2001 ed il 2010, provenienti da 62 paesi dai relativi registri della popolazione epidemiologica. È stato evidenziato come la leucemia sia in proporzione il neoplasma più presente, e colpisce quasi il 40% della popolazione oncologica tra i 0 ed i 4 anni con una percentuale analoga nella fascia tra i 5 e i 9 anni. I tumori del sistema nervoso centrale invece rappresentano una problematica consistente oltre che nelle fasce d’età 0-4 anni e 5-9 anni anche nella fascia d’età 10-14 anni, seguita dal linfoma che presenta un’alta incidenza nella fasci d’età 10-14 anni. In generale si stima che lo standard di incidenza della malattia oncologica nella popolazione mondiale per la fascia 0-14 anni sia di 140·6 persone-anni per milione (Steliarova-Foucher et al., 2017).

I dati raccolti ci dimostrano l’urgenza e la gravità di un problema che nel caso della popolazione colpita, rappresentata per una gran parte da pazienti pediatrici, travalica quelle che sono le semplici esigenze di una guarigione, ma incontra bisogni profondi di cura e attenzione alle dinamiche intervenienti. Dalla diagnosi alla comunicazione della stessa, la presa in carico del paziente è totale rispetto alle sue esigenze.

A tal proposito è stato condotto uno studio, parte di una ricerca più ampia, sulla comunicazione nell’ambito dell’oncologia pediatrica. I soggetti coinvolti erano divisi principalmente in tre gruppi: 34 bambini con cancro tra gli 8 ei 16 anni, i 59 rispettivi genitori, e 51 soggetti sopravvissuti al trattamento che al momento della diagnosi avevano tra gli 8 e i 16 anni, con un range di età tra i 15 e i 30 anni. Gli strumenti utilizzati erano delle vignette che raffiguravano varie situazioni basate su tematiche comuni dell’iter dei pazienti pediatrici oncologici, verso le quali i tre gruppi dovevano esprimere delle preferenze rispetto a come volevano che la situazione raffigurata si svolgesse. Gli elementi all’interno di esse variavano a seconda del soggetto a cui venivano presentate. In particolare è emerso come pazienti, genitori ed ex-pazienti indicavano come importante nell’81% dei casi l’empatia dei professionisti. Nel 70% delle situazioni i tre gruppi di soggetti preferivano che informazioni sulla malattia fossero date a bambini e genitori simultaneamente. Vi sono tuttavia differenze nelle preferenze riguardo la quantità di informazioni da dare ai bambini; tale differenza era da associare all’età e allo stato emotivo dei pazienti pediatrici. Inoltre, nel 71% dei casi i tre gruppi preferivano che i bambini partecipassero alle decisioni mediche. Tale preferenza era largamente associata all’età del paziente (Zwaanswijk et al., 2011).

Quando ad avere il cancro è il proprio figlio… le conseguenze sulla famiglia e sui genitori

La diagnosi di cancro in un bambino diventa una fonte destabilizzante per l’intera famiglia, ma a tenere le redini del nucleo familiare è la coppia genitoriale che prova un forte senso di inadeguatezza scaturito dall’impossibilità di proteggere il bambino dalla malattia.

La sintomatologia prevalente, soprattutto nel genitore che assiste maggiormente il bambino, è quella depressiva, la quale si amplifica con la comparsa delle problematiche comportamentali che il piccolo manifesta lungo il decorso patologico. I genitori potrebbero percepire un senso di oppressione causato dal peso delle scelte che si trovano a dover effettuare riguardo le cure e i trattamenti del figlio, ma anche una frustrazione connessa al senso di impotenza per non riuscire più a proteggere il bambino.

Risultano frequenti anche i sensi di colpa connessi all’eventualità di fattori ereditari che potrebbero aver influito sulla proliferazione del tumore, o ad eventi passati di trascuratezza del bambino, o ancora al non aver desiderato la gravidanza.

Sarebbe auspicabile la collaborazione genitoriale nel corso dell’adattamento alla malattia del bambino, così da facilitare un dialogo sugli eventuali timori reciproci, sulle difficoltà riscontrate e sul peso della patologia oncologica, ma spesso capita che sia solo uno dei due genitori ad assistere il piccolo quotidianamente. Dopo la diagnosi potrebbero verificarsi delle situazioni di triangolazione in cui i genitori iniziano a manifestare iperprotezione verso il bambino tanto da trascurare altre sfere importanti sia della propria vita privata che sociale; questo atteggiamento potrebbe essere percepito dal bambino come anomalo e far accrescere in lui il timore per ciò che gli sta accadendo (Tremolada, 2004).

L’importanza della comunicazione nell’ambito oncologico

Secondo Epstein e Street (2007) la comunicazione nell’ambito oncologico tra clinico, paziente e genitori, veicolerebbe delle specifiche funzioni.

Una delle principali sarebbe quella di fornire supporto emotivo, guida e comprensione, utili tramite l’ascolto attivo a fornire una buona base per una relazione di aiuto. Tale funzione sarebbe importante soprattutto nella fase di comunicazione della diagnosi. Altre funzioni importanti riguardano lo scambio di informazioni e la risposta all’emotività del nucleo familiare.

È possibile inoltre che nel momento successivo alla diagnosi siano sperimentati stati di incertezza. Le competenze comunicative del clinico devono assolvere alla gestione dell’incertezza laddove esista, ad esempio riguardo la prognosi ed effetti a lungo termine della malattia e fornire risposte dove vi siano certezze.

Infine tramite la comunicazione si promuoverebbero le abilità di decision-making e di auto-gestione del paziente rispetto alle sue azioni per mantenere il proprio stato di salute, utili a favorire la compliance e l’adesione al trattamento (ivi).

In una metanalisi condotta su 90 studi sulla comunicazione nell’ambito dell’oncologia pediatrica è stato evidenziato come ad essere oggetto delle ricerche era principalmente il resoconto o i racconti dell’esperienza del paziente, la comunicazione della diagnosi e del trattamento e la comunicazione della prognosi. A livello delle funzioni della comunicazione ciò che viene principalmente analizzato nelle ricerche con il 95,6% e più specificatamente in 86 ricerche è lo scambio di informazioni. Solamente in 4 ricerche con il 4,4% viene analizzata la gestione dell’incertezza nel paziente. I risultati quindi suggerirebbero nuove linee di ricerche di largo interesse per i clinici (Sisk et al., 2018).

La comunicazione quindi rivestirebbe un ruolo importante in tutte le fasi della gestione del paziente oncologico. La relazione instaurata tramite questa è di fondamentale importanza per la presa in carico dei bisogni del paziente. A tal proposito riportiamo qui un caso che mostra come la presenza di figure deputate alla gestione della comunicazione possa rendere espliciti tali bisogni e successivamente affrontarli, aumentando la consapevolezza e le risorse della persona.

Storia di una mamma e della sua bambina: come la comunicazione può aiutare ad affrontare il peso del cancro

Appena giunta in reparto ho incontrato una mamma e la figlia di 7 anni originarie di Bucarest.

Ho notato subito che la signora durante la presentazione guardava con interesse il tesserino. Pian piano ho cominciato a chiedere il motivo della loro permanenza in ospedale e anche altre informazioni. Ed è emerso che la bambina era lì per dei controlli, vista una precedente malattia neoplastica (a 2 mesi le era stato asportato un tumore alla surrenale sinistra).

Raccogliendo una sua domanda “voi siete dei volontari?” ho presentato l’associazione e il suo lavoro lasciando i riferimenti telefonici che sono stati accolti dalla signora con molto trasporto e interesse.

Dopo che la figlia si è allontanata la mamma si è sentita libera di trasmettere tutta la sua angoscia che “scarica” mangiando le unghie delle mani (con la bambina presente esercita molto controllo sulle proprie emozioni).

Successivamente con Adriana e un’altra mamma che gentilmente ha fatto da interprete abbiamo condotto un colloquio dove la signora ha descritto le proprie difficoltà familiari ed economiche, inoltre, purtroppo non ha il sostegno del marito, colpito da aneurisma quando la bambina era malata ed ora presenta problemi di memoria a breve termine.

Dall’incontro è emersa tutta l’angoscia e la tristezza della signora, preoccupata anche dalla difficoltà di trovare un lavoro per incrementare l’economia familiare che è molto deficitaria.

Ho condiviso il lavoro che, anche se in poco tempo, ha fatto Adriana, ovvero evidenziare i punti di forza (la perseveranza tra tutte) che hanno permesso la signora di affrontare tutte le sue vicissitudini.

Penso che alla fine dell’incontro la mamma della bambina sia riuscita a realizzare di aver molta forza interiore che ha esternato inizialmente con il pianto che si è trasformato pian piano in un bel sorriso.

Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista (2018) di Renzo Zambello – Recensione del libro

Il libro Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista è il racconto autobiografico della vita del Dottor Renzo Zambello, medico e psicoanalista junghiano. L’autore pone come filo conduttore del racconto la vocazione per la psicoanalisi e il desiderio comparso per la prima volta all’età di 16 anni di diventare psicoanalista.

 

Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista ci descrive il lungo, complesso ma appassionante percorso di Renzo Zambello che lo ha portato a diventare prima medico e poi psicoanalista. Emerge un percorso tortuoso, fatto di salti, inciampi ma anche traguardi raggiunti e sogni avverati. Pagina dopo pagina ognuno di noi si sentirà partecipe della vita dell’autore poiché le difficoltà descritte rappresentano gli ostacoli che tutti possiamo incontrare durante il periodo di crescita, ovvero riuscire a individuarsi, scoprire se stessi, la propria autenticità e accettarsi.

Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista: il percorso di R. Zambello

Renzo Zambello ci apre le porte del suo mondo interno e lo fa con stile e con molta semplicità: l’inconscio, le immagini oniriche, la sincronicità, la relazione terapeuta e paziente vengono descritti in modo chiaro e appassionante anche per i non addetti ai lavori. A determinare l’esito del percorso dell’autore, dall’infanzia ad oggi, vengono citate varie persone che hanno influenzato in maniera significativa e talvolta dolorosa la sua vita, a partire dalla madre, per poi passare ai suoi formatori fino ad arrivare ai suoi pazienti. E sottolinea proprio come siano quest’ultimi ad avergli insegnato di più, insegnato che la vita è un qualcosa di sfaccettato, un qualcosa che non può essere etichettato ma che nasconde quasi sempre qualcosa in cui credere.

Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista: la crescita

Zambello è stato capace di toccare tantissimi temi con estrema facilità d’espressione e con il medesimo comun denominatore: il coraggio e la volontà di azzardare e sbagliare mille volte di seguito per poi scoprire se stessi, riscattarsi e sentirsi liberi. Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista è un libro che parla di crescita, di cambiamento interiore e di realizzazione del proprio potenziale per poi dirigerci verso “l’amore che muove il cielo e le altre stelle”.

Come il suo primo maestro, Carlo Gustav Jung, il dottor Zambello è altrettanto attratto dal mondo inconscio e spirituale, sensibile al linguaggio dell’invisibile, dove la relazione con il paziente si concentra tutta sul preconscio, piuttosto che sulla verbalizzazione.

Si tratta di un testo appassionante e coinvolgente, che riflette autenticità, di facile lettura nonostante la complessità dei temi trattati. E’ il racconto di un uomo che ha avuto la determinazione di conquistare la propria esistenza, che possa essere di aiuto a chi è in cerca di un incoraggiamento per scoprirsi, cercarsi e amarsi.

Anoressia e autoconsapevolezza corporea: come le pazienti in remissione percepiscono gli stimoli enterocettivi piacevoli

Un recente studio, pubblicato su Translational Psychiatry, condotto da Bishoff-Grethe, Wierenga e colleghi, ricercatori al dipartimento di Psichiatria dell’Università della California, ha indagato la relazione tra consapevolezza enterocettiva e anoressia nervosa in remissione, utilizzando per la prima volta la risonanza magnetica funzionale in combinazione con il paradigma del tocco affettivo piacevole.

 

L’ anoressia nervosa è un disturbo della nutrizione e dell’alimentazione caratterizzato da un’estrema restrizione calorica, un’inflessibile motivazione alla magrezza e da un’alterazione delle proprie forme e immagine corporea comportando un pericoloso calo ponderale (APA, 2013).

Le recenti ricerche nell’ambito di questo disturbo hanno sottolineato il ruolo centrale dell’interocezione, definita come l’abilità di percepire e integrare i segnali fisiologici provenienti dal proprio organismo, nell’esordio di tale psicopatologia e nell’eziologia del “lasciarsi morire di fame” e dell’esperienza disfunzionale con il proprio corpo e la propria immagine allo specchio: infatti persone affette da anoressia nervosa mostrano risposte cerebrali anomale nei confronti di stimoli fisiologici come il gusto, l’appetito e la sazietà, la distensione delle pareti gastriche, l’attenzione per i propri battiti cardiaci, i movimenti intestinali e il dolore (Strigo, Matthews, Simmons et al., 2013).

È noto che l’esperienza e l’interpretazione dei segnali provenienti dal proprio corpo costituiscono un eccellente meccanismo per comprendere e identificare gli stati emotivi di piacevolezza o disgusto e per motivare comportamenti cosiddetti goal-directed, cioè orientati ad uno scopo preciso (Craig, 2002).

Tuttavia le ricerche citate poc’anzi hanno indagato le alterazioni relative alla consapevolezza enterocettiva in pazienti con anoressia nervosa focalizzandosi esclusivamente su segnali corporei di tipo spiacevole come il dolore termico, neutrali come la consapevolezza del proprio battito cardiaco o sintomo specifico, cioè segnali enterocettivi legati al disturbo alimentare come il gusto, la fame o i movimenti intestinali, senza considerare la percezione di stimoli enterocettivi piacevoli.

Lo studio sperimentale

La nuova ricerca di Bishoff-Grethe, Wierenga e colleghi (2018) nasce proprio con l’intento di indagare tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) le risposte cerebrali relative allo stato di anticipazione e di percezione di stimoli enterocettivi piacevoli. A questo scopo sono state confrontati un gruppo di 18 donne con anoressia nervosa in remissione (definito RAN) – che sono riuscite a mantenere il proprio peso superiore al loro peso ideale patologico senza far ricorso a metodi di compenso come vomito autoindotto o iperattività per almeno un anno e con un regolare ciclo mestruale – con un gruppo di controllo costituito da 26 donne senza alcuna patologia alimentare (CW).

L’idea sottostante tale studio è stata quella di esaminare come il gruppo RAN si differenziasse dal gruppo CW nelle risposte neuronali dei circuiti legati alla ricompensa e alla consapevolezza enterocettiva durante un compito che ha previsto un tocco piacevole e gentile sul palmo della mano o sull’avambraccio attraverso una spazzola morbida.

Entrambi i gruppi partecipanti sono stati istruiti a eseguire un compito mentre si trovavano all’interno dello scanner: ad ogni soggetto veniva chiesto di premere un bottone ogni volta che compariva uno stimolo visivo, una freccia all’interno di un box colorato, in corrispondenza della direzione della freccia (es. premere il bottone di destra se la freccia era diretta a destra).

Il box che conteneva la freccia cambiava colore a seconda delle condizioni sperimentali: nella prima condizione, di baseline, il box era grigio e la persona nello scanner aveva appreso in precedenza a non aspettarsi alcun stimolo tattile piacevole, nella seconda, il box giallo indicava al soggetto di aspettarsi con una probabilità del 100% lo stimolo tattile e infine nell’ultima condizione, quella con il box blu, prevedeva la somministrazione dello stimolo tattile con una probabilità minore rispetto la condizione precedente.

È importante sottolineare che tutti i soggetti sperimentali all’inizio e alla fine di ogni sessione hanno compilato il visual analog questionnaire (VAS) per indicare la percezione soggettiva, da un minimo di 0 a un massimo di 10, della piacevolezza o meno e dell’intensità del tocco.

In linea con la letteratura precedente, la ricerca di Bishoff-Grethe, Wierenga e colleghi (2018) ha evidenziato nel gruppo RAN un’alterazione dei segnali BOLD, quelli registrati dalla fMRI, nella condizione in cui il soggetto sperimentale si trovava ad aspettarsi e poi interpretare un segnale enterocettivo piacevole.

In particolare, differentemente da quanto osservato nel gruppo CW, in quello RAN si è osservata una riduzione del segnale BOLD nell’insula ventrale destra durante l’anticipazione del tocco piacevole e un’iperattivazione della stessa area nel momento in cui il soggetto riceveva effettivamente il tocco, suggerendo una differenza anomala e consistente nel segnale BOLD, nel gruppo RAN, tra la condizione di anticipazione e di processamento dello stimolo.

I soggetti del gruppo RAN con una ridotta risposta nell’anticipazione erano risultati anche maggiormente harm avoidant in associazione ad ansia e inibizione comportamentale mentre quelle con un’ipersensibilità durante il tocco affermavano un’intensità soggettiva maggiore durante l’esperienza del tocco.

Lo studio ha inoltre evidenziato come la ridotta risposta nella condizione di anticipazione fosse associata ad una maggiore distorsione nell’immagine corporea.

La ridotta responsività nella condizione di anticipazione di uno stimolo enterocettivo piacevole in associazione con alti punteggi di harm avoidance, insieme ad un’elevata intensità avvertita al momento effettivo del tocco, suggeriscono la presenza di un’abilità compromessa nel predire e nell’interpretare l’arrivo di uno stimolo fisiologico, enterocettivo (Bishoff-Grethe, Wierenga et al., 2018).

Questa conclusione ha delle importanti implicazioni clinico-terapeutiche in quanto evidenzia come nell’ anoressia nervosa potrebbe esserci una compromissione nell’anticipazione dello stimolo e una conseguente alterazione dell’esperienza dello stimolo stesso che potrebbe a sua volta impattare negativamente la propria immagine corporea e la propria autoconsapevolezza.
Il clinico pertanto dovrà tenere in considerazione il fatto che un miglioramento nell’anticipazione e nell’ascolto dei segnali enterocettivi salienti potrebbero migliorare l’autoconsapevolezza corporea della persona e migliorare di conseguenza la tolleranza di segnali enterocettivi inaspettati o aspettati.

 

Il suicidio nella clinica. L’impensabile e il vuoto.

Quando si sente parlare di suicidio, si apre in noi come un varco l’enigma su vita, morte e sofferenza. Questo articolo si propone di provare a cogliere alcuni degli aspetti più profondamente dinamici e pre-costitutivi del comportamento suicidario.

 

L’angolazione è quella di una psicoanalisi che cerca di concepire ogni teoria come possibile rappresentazione, ovvero, come tratto della pensabilità di un’esperienza che comunque rimane irrisolvibile nella sua intrinseca complessità: ciò implica rinunciare ad un causalismo diretto che vada alla ricerca di cause ultime. Chiaramente questo non significa escludere i molteplici fattori in gioco o non dar loro l’importanza che meritano, ma soltanto non ritenere possibile una derivazione causale diretta fra tali fattori e le condizioni di carenza, o debolezza, del mondo psichico di un determinato soggetto: se riteniamo vero che la psiche si sviluppa attraverso complesse interazioni fra introiezioni e proiezioni e identificazioni proiettive (nel senso Bioniano dei termini), non ci è possibile stabilire una causa ultima.

Suicidio ed eziologia

L’esperienza clinica ci insegna che ogni caso è differente e pertanto, la sua eziologia è anch’essa differente. Deve perciò essere diversificato l’approccio alla comprensione della sofferenza di ciascun soggetto. In termini pratici ciò significa non soltanto osservare con attenzione la “crepa” in superficie, ma anche l’area che la circonda, la sua localizzazione interna ed esterna, la risonanza che essa crea nel mondo emotivo del soggetto, come gli altri la vedono (o non la vedono), la sua datazione e provenienza, e via dicendo; tutto questo porta a percorrere la linea in maniera verticale fino ai nuclei più basilari: essi a volte sono danneggiati, altre mal funzionanti e, spesso, ci conducono ad una funzione psichica che non si è potuta formare in maniera adeguata. Basti pensare alle casistiche di pazienti che portano in sé un nucleo di narcisismo gravemente ferito, a partire dal quale possono manifestarsi diverse reazioni in termini di strutturazione della personalità o disturbo.

Secondo la teoria sappiamo che le funzioni psichiche si possono formare in maniera adeguata tramite l’esperienza di buone relazioni oggettuali: la capacità di simbolizzazione, la pensabilità e le difese psichiche mature, si costituiscono tramite quella relazione particolare di intesa dapprima con la madre rêverie, come direbbe Bion, e con gli oggetti caregivers, tramite uno scambio continuo di introiezioni, proiezioni ed identificazioni proiettive.

Suicidio e rimozione

Se immaginiamo la vita psichica come un canale che si ramifica mano a mano che si costruisce, possiamo anche immaginare la rimozione come difesa che, a partire da quella originaria di cui ci parla Freud, spedisce in modo sano il surplus pulsionale nell’inconscio, permettendo la costituzione delle rappresentazioni mentali: in questo modo s’impedisce lo strabordo di questo canale in ramificazioni malsane. Nel bambino opera la rimozione su ogni esperienza somato-sensoriale troppo carica di pulsione che creerebbe angoscia o addirittura minaccia di disintegrazione psichica, rimanendo un dato grezzo in un apparato mentale ancora immaturo (i cosiddetti elementi Beta di Bion); nell’adulto avvenimenti e aspetti della vita che, altrimenti, tormenterebbero la quotidianità in maniera assillante: basti pensare alla precarietà della vita. Se non potessimo rimuovere la consapevolezza della certezza della morte vivremmo in costante, Freudiana, angoscia di castrazione estesa; invece, d’altro canto, potendone rimuovere il carico pulsionale, si costituisce in noi una rappresentazione della morte che talvolta è sì intrisa di emozioni, ma in quantità tollerabile .

Nel momento in cui il meccanismo di rimozione nel bambino risulta difettato, per vari motivi tra i quali la costituzione psichica soggettiva, un’incapacità da parte degli oggetti primari di fungere da “contenitore” paraeccitatorio e rêverie, è possibile che alcune ramificazioni si sviluppino come violente deviazioni che spezzano il canale in alcuni punti: il risultato sarebbero delle “fuoriuscite” dal percorso psichico in cui il soggetto può tornare ad imbattersi anche nella vita adulta; dei veri e propri buchi mentali in cui non c’è pensabilità ma soltanto un intenso affetto (di angoscia, paura, sensazione di morte psichica), una sorta di fuoriuscita di Reale, nel senso Lacaniano del termine. Luoghi mentali in cui la simbolizzazione e la rappresentazione non sono possibili, in cui il Reale sortisce il suo effetto mortifero schiacciando il soggetto. In questi buchi in cui manca contenimento e pensabilità, il soggetto si ritrova impreparato quanto un bambino neonato: ecco allora la sensazione – sia psichica che fisica – di essere lasciati cadere dalla vita a qualche cosa di imprecisato, e per questo inconoscibile e terribile, dove il senso manca completamente. I soggetti che soffrono di queste cadute, potrebbero regredire momentaneamente alla condizione di hilflosigkeit di cui ci parla Freud, in cui, però, il grido disperato della sofferenza non viene accolto, spesso anche perché impossibile da esprimere.

Quante volte si sente parlare di persone morte suicide che “sembravano stare bene, sembravano tutt’altra persona”? Questo si potrebbe spiegare in parte partendo dal presupposto che spesso l’alternativa arcaica difensiva alla rimozione è la scissione e/o il diniego. I buchi psichici in cui il soggetto cade sono momentanei, poiché la vita psichica circolando ci cade e ci esce periodicamente, permanendovi più o meno a lungo: il dolore è così intenso che, una volta usciti, la scissione opera dividendo il soggetto dell’esperienza dell’impensabile e il soggetto che è tornato alla vita psichica “normale”, come se quella parte non esistesse o fosse a sé. Da qui anche, se vogliamo, l’alternanza di periodi connotati da una coloritura più maniacale piuttosto che depressiva.

La permanenza troppo lunga in queste derive psichiche, o la continua ricaduta, potrebbe portare questi soggetti all’atto suicidario: un atto consapevole, muto, esausto, in cui non c’è parola e non c’è nemmeno la presenza dell’Altro, nonostante l’Altro possa esistere fisicamente; un gesto compiuto in un mondo che si svuota, che cambia la sua significazione, come direbbe Recalcati riferendosi alle perdite amorose narcisistiche; un atto compiuto in una solitudine percepita che, per chi non ha vissuto questo processo, può risultare inafferrabile. D’altra parte dove non c’è pensabilità non c’è vita.

Da che parte deve mettersi, dunque, l’analista per provare a cogliere questo tipo di disagio esistenziale? Quando il soggetto si trova stritolato dalle proprie defaillance del pensiero?

Racalbuto, parlando del difetto originario, spiega:

Io credo che sia capitale per l’analista seguire il movimento psichico del paziente, accettando – per esempio – una defaillance del proprio abituale pensiero allo scopo di rintracciare nel paziente, per analogia di funzionamento psichico, delle inscrizioni mnestiche particolari in quanto tracce mnestiche non rappresentabili: non-rappresentazioni. (…) nello starci a realizzare una sorta di ritmo condiviso, una specie di accordo consonante dettato dall’unico linguaggio che il paziente è in grado di condividere: concetto di unisono (at-one-ment) di Bion. Tale accordo, secondo me, è l’unico possibile après-coup trasformativo di una esperienza, probabilmente fallimentare, dove ciò che è mancato è proprio l’armonia (…), l’intesa con il proprio oggetto primario.

Disciplina Interiore: come allenarla a partire dalla concettualizzazione TMI

Essere professionalmente giovane ha una caratteristica: ci si può sentire naif, genuini e talvolta, disarmati di fronte ad alcuni aspetti tipici del lavoro dello psicoterapeuta, tra cui quell’insieme di comportamenti, agiti e rimandi del paziente che attivano i vissuti del clinico, risvegliano i suoi Schemi Interpersonali e lo costringono ad un grande e impegnativo lavoro di Disciplina Interiore.

 

Non sarò sicuramente esperta di Disciplina Interiore, ma posso dire di aver accumulato una sufficiente esperienza di attivazione del Controtransfert disfunzionale per potermi sommariamente occupare dell’argomento. Avendo avuto (e avendo tuttora) i giusti Maestri, in ognuna di queste circostanze ho approfittato di loro per capirci qualcosa in più su questa “Disciplina Interiore”, o , per i meno metaforici, sulla regolazione emotiva del terapeuta in seduta.

Disciplina interiore: quando manca..

La Disciplina Interiore è un assetto mentale del terapeuta, un insieme di strategie di gestione di vissuti emotivi scomodi che si attivano nel clinico in risposta ad un’attitudine del paziente, partendo dalla consapevolezza che quell’attitudine ha toccato una corda sensibile del professionista, e che quindi va regolata, pena l’attivazione di processi interpersonali non utili alla seduta (Safran & Segal,1990).

Il paziente fa ritardo senza avvisare; il paziente porta un piccolo regalo; il paziente fa un commento sull’età del terapeuta. Le emozioni primarie, la prima volta: ansia – imbarazzo – rabbia.

  • Ansia: “Sono passati 5 minuti, di solito è puntuale…”, “Strano che non avvisi se ritarda, sarà successo qualcosa”… “O più semplicemente ha capito che venire qui non gli serve a niente perché non stiamo lavorando nel modo giusto”….In sottofondo: “Sono una terapeuta incapace!”
  • Imbarazzo: “Ma che vergogna, sarò diventata paonazza!!”… “Speriamo non pensi che accettare un piccolo regalo significhi che non ci sono confini!”… “Ma che, ci prova?!?!?!”.. In sottofondo: “Ho sbagliato ad accettare, sono una terapeuta inadeguata!”
  • Rabbia: “Ancora con questi commenti sull’età, sembro giovane e sono giovane, punto e basta”… “Se proprio ti pare bizzarro che sia così giovane cercati pure un altro terapeuta!” …. “Che poi, giovane significa sempre e solo inesperto?!”… “Forse però è così, come posso comprendere e aiutare chi ha molta più esperienza vissuta della mia?”. In sottofondo: “Sono una terapeuta inadatta!”.

Quel sottofondo, non così chiaro nel momento contingente, è stata la chiave per poter aprire il capitolo “autodisciplina”; tramite un buon lavoro personale e di supervisione, riparlare delle emozioni che si sono scatenate in questi episodi è stato essenziale per osservare una particolarità, adesso più lampante, ma che allora non era semplice da notare; e cioè che sotto quelle emozioni – ansia, imbarazzo e rabbia – c’era un vissuto secondario imponente, forte, emotivamente pericoloso: il pensiero di non essere un terapeuta capace, associato a delusione e tristezza da cui ci si tiene lontano come si può…. Ad esempio, agendo coping poco utili all’alleanza e al lavoro terapeutico, coping che tengono apparentemente sotto controllo tutto ciò che non ci piace del rango, della seduttività, della dipendenza dei pazienti, o ancora della loro invadenza, dell’iperaccudimento che talvolta chiedono, dell’evitamento che hanno anche verso di noi terapeuti.

Secondo la concettualizzazione in Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R. & Salvatore, G., 2013) le Risposte dell’Altro (in questo caso il paziente) provocano Risposte del Sé (in questo caso il terapeuta) alla Risposta dell’Altro, cioè un insieme di pensieri, emozioni, coping che, se disfunzionali, non aiutano a regolare e promuovere emozioni ed azioni utili. Il terapeuta non è indenne a Schemi Interpersonali disadattivi (ad esempio di Inadeguatezza e Indegnità), pertanto diventa essenziale saper riconoscere cosa sta accadendo nella mente del clinico.

In caso contrario, il rischio è che il paziente che tarda ci riporti a una scena in cui qualcuno si allontanava da noi in maniera improvvisa e inaspettata, il paziente che ci fa un regalo diventa qualcuno che poi ci ha fatto sentire invasi, e il paziente che commenta la nostra età si tramuta in qualcun altro che non ci crede degni di fiducia. E tutte queste scene hanno un unico filo conduttore, quello che porta a credere che quello che l’Altro pensa di noi e il modo in cui ci fa sentire sia vero. Non c’è differenziazione, solo una voce che, quasi impercettibile, dice “Così non vai bene”. Lo Schema Interpersonale disfunzionale.

Disciplina interiore: quando la esercitiamo..

Comprendere questo e associarlo alla propria esperienza, lavorandoci su, è il primo passo per poter regolare e gestire questa mole emotiva nell’hic et nunc della seduta.

In alcune situazioni sarà più facile, in altre meno, ma non si può prescindere da due abilità metacognitive essenziali per poterlo fare, l’Automonitoraggio e la Differenziazione: “Mi sto accorgendo di provare un’emozione, il corpo che si attiva e mi dà delle sensazioni….” … “Che cosa mi sto dicendo proprio adesso, quale pensiero e quale immagine negativa di me stanno prendendo spazio nella mente?” … “Adesso che so di cosa si tratta, posso dirmi che quel pensiero è solo un’ipotesi, un’alternativa, ma non è per forza la realtà”. E insieme a questo, nuove strategie e modelli di regolazione si attivano, permettendo al terapeuta di preservare la relazione e l’alleanza di lavoro.

Le volte successive, le emozioni primarie restano pressoché le stesse: ansia – imbarazzo – rabbia. Quello che si modifica è l’intensità con cui si provano e, di conseguenza, il comportamento agito, in TMI la Risposta del Sé alla Risposta dell’Altro.

  • Ansia: “Solitamente è puntuale, come mai non arriva?” … “Speriamo non abbia deciso di non venire più perché pensa che non serva a niente”…. “Ma forse ha solo avuto un contrattempo, aspettiamo ancora qualche minuto”. In sottofondo: “Se anche il paziente deciderà di non proseguire, questo non significa che abbia per forza lavorato male!”. Comportamento: “Non la vedevo arrivare e mi sono preoccupata, spero non sia capitato niente di grave!”
  • Imbarazzo: “Sarò sicuramente arrossita!” …. “Speriamo non pensi che non so tenere i confini!” … “Ma forse vedermi grata e sorpresa mi ha reso semplicemente umana ai suoi occhi!”. In sottofondo: “Mi ha fatto piacere ricevere un regalo, forse adesso è utile svelare le mie emozioni”. Comportamento: “Avrà notato che mi sono emozionata, è stato molto gentile. Posso chiederle quale bisogno o desiderio l’ha spinta a portarmi un regalo?”
  • Rabbia: “Non mi piace quando si fanno riferimenti alla mia età, mi fa sentire inadatta”… “Però magari non è sfidante, forse il paziente è solo curioso”… “Se anche fosse diffidente, penso di avere gli strumenti per poter lavorare insieme a lui”. In sottofondo: “Giovane non è sempre solo sinonimo di inesperto!”. Comportamento: “Comprendo che vedermi così giovane crei un po’ di diffidenza. Quello che le chiedo non è di cambiare opinione, ma proviamo a darci una chance per fare un buon lavoro, lei che ne pensa?”.

In sintesi, praticare Disciplina Interiore è possibile ad alcune condizioni: un costante lavoro di Monitoraggio su come il terapeuta sta, pensa e si sente in seduta con il paziente, senza temere reazioni espulsive o spiacevoli, bensì notandole e approfittando di contesti utili (terapia, supervisione, intervisione…) per rifletterci su. In chiave TMI, questo passaggio potrebbe portare all’individuazione degli Schemi disfunzionali del clinico e delle memorie che si associano a essi, permettendo di agire quell’abilità metacognitiva che è l’anticamera del cambiamento: la Differenziazione.

L’uomo sano – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 40

Come qualsiasi altra invenzione dell’uomo, anche la psicoterapia è un prodotto della cultura e ne risulta pertanto direttamente influenzata.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – L’uomo sano (Nr. 40)

 

Non esiste attività umana che sia culture-free per dirla con un linguaggio più adatto all’olio di palma, al lattosio e ai coloranti. Furbastra la cultura, pur influenzando ogni nostra espressione lo fa senza che ce ne rendiamo conto. È potente proprio perché la diamo per scontata. Non è oggetto del discorso ma la sua premessa, la luce che illumina la scena, non gli oggetti o l’azione che vi si svolge.

Anche la psicoterapia ne è da un lato un prodotto diretto e recente (appena 150 anni) e dall’altro un onesto servo idiota con l’aggravante di ritenersi intelligente. Se si escludono alcuni santoni che dichiaratamente vogliono insegnare a vivere ai propri pazienti trasformandoli in adepti e che sia secondo i dettami del pensiero positivo, del razionalismo o dell’etica evangelica della chiesa avventinzia del penultimo giorno tardo pomeriggio poco conta, gli altri, diciamo così quelli seri, tentano di evitare questo pericolo, vedremo come e in tal senso sono (siamo) i più pericolosi perché inconsapevoli e poco evidenti.

Cosa avviene in psicoterapia?

Per evitare il rischio GDQS (guru da quattro soldi) sono principalmente due gli argomenti e le strategie che si usano. Il primo è il cosiddetto atteggiamento non giudicante. Il secondo è il partire da una egodistonia del paziente fissando insieme a lui gli obiettivi.

Credo che, seppure vi si aspiri, ciò si realizzi solo in parte e dunque che non sia del tutto vero, come la presunta ateoricità dei vari DSM. Non è forse una premessa epistemologica irrinuciabile del cognitivismocostruttivismo che “non sono i fatti a costruire le teorie ma quest’utlime a organizzare e valutare i fatti stessi e dunque è impossibile prendere contatto con una realtà senza contemporaneamente valutarla”?

Ma prendiamo momentaneamente per buono questo intento e diamolo per realizzato soffermandoci invece sulle premesse culturali implicite che nasconde.

L’atteggiamento “non giudicante” tanto sbandierato non afferma in fondo con forza, per usare un ossimoro, un relativismo assoluto? per cui tutto va bene, tutto è ammissibile? Attenzione non sto affermando che questo sia sbagliato (peraltro è davvero la mia convinzione personale) dico solo che bisogna essere consapevoli che anch’esso è una premessa ideologica, non meno assoluta di tante altre e che non è l’unico modo di stare al mondo.

L’egodistonia e l’autodeterminazione degli obiettivi mettono al centro di tutto l’individuo, il suo benessere e il conseguente diritto ad autodeterminarsi per ottenerlo che potremmo definire “egocentrismo edonico”. Il messaggio che passa più o meno esplicitamente è “pensa a te, ai tuoi bisogni e desideri” (ricentramento su di sé) e “fai di tutto per realizzare il tuo benessere” (assertività), con l’unica attenzione di non essere guidati solo dal principio del piacere immediato ma di tener conto anche del principio di realtà, per perseguire un piacere che non sia solo a breve ma anche a medio e lungo termine. Di nuovo mi astengo da qualsiasi giudizio in proposito volendo limitarmi a suscitare consapevolezza che questo è un modello di uomo sano tipico della attuale cultura occidentale di matrice statunitense, in cui ognuno deve darsi da fare al massimo per costruire il proprio personale benessere; tralascio la banalità più superficiale che lo si pensa legato all’avere piuttosto che all’essere e raggiungibile piuttosto con il fare che con il sentire, in un ambiente di libero mercato del benessere in cui il fatto che ognuno persegua il proprio comporta un miglioramento complessivo per tutti. In tale clima di darwinismo sociale, l’agonismo spietato per la sopravvivenza del più forte ha preso il nome molto più presentabile su cui non si può non essere d’accordo di meritocrazia, che non ha più oppositori essendo considerata appunto una ovvietà che turba alcune anime belle solo quando arriva all’eutanasia dei meno performanti o alla impresentabile eugenetica mengeliana di cui è premessa. Ci vorrebbe un filosofo, uno storico e un sociologo per ragionare su questi temi. Mi basta sollevare un dubbio circa la presunta avolorialità della psicoterapia che a me sembra invece imbevuta di un egocentrismo edonistico che vede i legami con gli altri come meri strumenti di soddisfacimento dei propri bisogni per l’autonomia da perseguire con un fare finalizzato all’avere.

Il prossimo confronto non ci vedrà opposti agli psicoanalisti o ai sistemici, ne avremo conflitti in direzione per stabilire se prevarranno al comando quelli di prima seconda o terza ondata, standard o post razionalisti ma ci vedrà tutti riuniti sotto le insegne antiche e gloriose di San Sigismondo a tentare una strenua resistenza contro le truppe degli integralisti dell’ISIS alleati con i fantasmi dell’inquisizione; e il campo di battaglia non saranno congressi e riviste internazionali, né la posta in palio la bocciatura di severi referee ma, a scelta il filo della spada sul collo o il fuoco del rogo sulle chiappe.

Ma non scomponiamoci questi sono solo i fatti, e non è da essi che dipende come staremo ma dalla nostra opinione su essi. O no?

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Epilessia: le nuove frontiere del trattamento

In una sorprendente ricerca pubblicata sulla rivista Science Advances alcuni scienziati hanno dimostrato che è possibile combattere l’ epilessia grazie ad un particolare dispositivo elettronico. I risultati potrebbero essere applicati anche ad altre condizioni tra cui i tumori cerebrali e il morbo di Parkinson.

 

I ricercatori dell’University of Cambridge, dell’École Nationale Supérieure des Mines e dell’INSERM in Francia hanno dimostrato come un particolare dispositivo elettronico impiantato direttamente nel cervello possa rilevare, arrestare e prevenire gli attacchi epilettici.

Nella maggior parte dei pazienti con epilessia si assiste a crisi convulsive dovute ad una anomala attività delle cellule neurali. In questi soggetti i neuroni del cervello iniziano a inviare segnali e comunicano alle cellule vicine di fare lo stesso, questo provoca un effetto valanga che influenza la coscienza e il controllo motorio. La terapia farmacologia antiepilettica diffusa oggi ha spesso molti effetti collaterali e nel 30% dei casi non cura le crisi.

La possibilità di una svolta nel trattamento dell’ epilessia

Nel corso di questa innovativa ricerca, il team di scienziati ha testato il dispositivo sui topi: impiantato direttamente nel cervello lo strumento rilascia una sostanza chimica ogni qual volta rileva i primi segnali di un attacco epilettico, impendendo così la crisi convulsiva.

Ma in che modo funziona il dispositivo? 
I ricercatori hanno utilizzato un neurotrasmettitore che invia un segnale di “stop” ai neuroni, inibendo l’attività anomala che si verifica durante gli attacchi epilettici. Il neurotrasmettitore viene inviato nella regione cerebrale interessata da una sonda neurale che presenta al suo interno una minuscola pompa ionica e degli elettrodi, i quali monitorano l’attività neurale. Quando i segnali di un’ipotetica crisi vengono rilevati dagli elettrodi, la pompa viene attivata permettendo al farmaco di fuoriuscire dal dispositivo.

Christopher Proctor, primo autore dello studio ha affermato

Oltre a poter controllare esattamente quando e quanto farmaco viene erogato, ciò che rende speciale questo approccio è che il farmaco fuoriesca dal dispositivo senza alcun solvente, questo permette al tessuto circostante di non essere danneggiato e consente al farmaco di interagire immediatamente con le cellule all’esterno del dispositivo.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che le convulsioni potrebbero essere prevenute con dosi di farmaco relativamente piccole: meno dell’1% della quantità totale presente all’interno della sonda. Questo significa che il dispositivo potrebbe funzionare per periodi prolungati senza necessità di essere ricaricato. In aggiunta si è osservato che la sostanza somministrata, essendo un neurotrasmettitore prodotto dal corpo stesso, viene assorbita dal cervello in pochi minuti, ciò potrebbe ridurre significativamente gli effetti collaterali del trattamento.

Il professor George Malliaras ha affermato che il lavoro rappresenta un progresso nel campo della biomedicina che permette l’interfaccia tra strumenti elettronici e corpo umano e ha aggiunto

Le pellicole sottili e organiche del dispositivo provocano danni minimi al cervello e le loro proprietà elettriche sono adatte a questi tipi di applicazioni.

Sebbene questi primi risultati siano promettenti, il trattamento non è ad oggi disponibile per gli essere umani in quanto i ricercatori vogliono studiare ulteriormente gli effetti a lungo termine del dispositivo. Malliaras è al lavoro per creare una nuova struttura a Cambridge che possa essere in grado di testare questi dispositivi sull’uomo. Questa nuova tecnologia infatti potrebbe essere utilizzata anche per altre condizioni neurologiche inclusa la cura dei tumori cerebrali e del morbo di Parkinson.

Cosa succede quando ci sfoghiamo con gli altri? – Ruminazione e condivisione sociale come strategie di regolazione emotiva

Accade qualcosa. Ne segue un’emozione. Talvolta proviamo a gestirla e a regolarla, soprattutto se molto intensa. A volte ci riusciamo, altre no. E dopo? Cosa accade dopo?

 

Rimé (2005) identifica il residuo emozionale, “l’emotional remanence”, come l’insieme di tutti quegli aspetti non risolti dell’esperienza emotiva che, spesso, vengono anch’essi sottoposti a meccanismi di regolazione, al pari dell’esperienza emotiva stessa.

Ruminazione: un processo che ci danneggia

Sicuramente ognuno di noi ricorda degli eventi e delle emozioni perché fanno parte del patrimonio mentale in termini di ricordi, immagini e pensieri e le ricerche dimostrano che i ricordi più vividi sono quelli con un’alta valenza emotiva. Ma c’è una modalità molto comune con cui cerchiamo di elaborare, volontariamente, l’emozione o il ricordo di una situazione attivante e questa è la ruminazione (Wells e Matthews, 1996) ossia pensare in modo ricorsivo all’evento che ha generato l’emozione disturbante, alle cause e alle conseguenze. Come affermano Oatley e Johnson-Laird (1996)

Le emozioni negative insorgono nel contesto dell’interruzione di importanti scopi personali e tale circostanza sollecita una ricerca controllata di soluzioni per il ripristino o la sostituzione dello scopo frustrato e, nello stesso tempo, tentativi di spiegazione causale dell’evento stesso, nei quali si cerca di individuare le ragioni, specie personali, del fallimento, con conseguenze importati sull’umore dell’individuo e il suo senso di controllo ed efficacia (Nolen-Hoeksema e Morrow, 1999).

Rispetto all’utilità della ruminazione e al ruolo che tale processo ha nel mantenere vari disturbi psicopatologici, come la depressione e l’ansia, Wells ci ha fornito molti spunti di riflessione in tal senso, soprattutto in termini di trattamento. Ricordiamo, infatti, che la detached mindfulness e il training attentivo sono tra gli strumenti più potenti che un terapeuta deve conservare nella sua cassetta degli attrezzi per aiutare il paziente nel ripristino di uno stato mentale funzionale e adattivo.

Ruminazione e metacredenze sulla condivisione

Tornando alla ruminazione, come tentativo di controllo dell’emozione negativa, essa si associa molto spesso alla “social sharing of emotion”, cioè la condivisione sociale delle emozioni. Secondo gli studi di Rimé essa si verifica rapidamente, di solito nella stessa giornata e ripetutamente, con diverse persone, tutti abbastanza intimi. Basta ripensare ai nostri ultimi due, tre giorni: quante volte ci è capitato di chiamare una persona cara per condividere quel momento emotivamente saliente? E quante volte quello stesso evento è stato raccontato anche ad altre persone?

La condivisione sociale, al pari della ruminazione, rientra tra i tentativi di regolare una perturbazione emotiva allo scopo di alleviare la sofferenza che ne deriva e diventa, quindi, una strategia di coping a tutti gli effetti, come descritte da Lazarus e Folkman (1984). Ma siamo davvero certi che sia di aiuto? Uno studio di Emmanuelle Zech (2000) ha mostrato che condividere le esperienze emozionali negative poggia su una metacredenza positiva relativa al potere risolutivo della sofferenza personale e questo favorisce l’apertura, cioè la disclosure interpersonale ma, in realtà, essa mantiene alta l’intensità emotiva.

Ritornando al nostro esempio, siamo, infatti, davvero certi che quella telefonata di condivisione ci abbia aiutato? Oppure si è trasformata in una co-ruminazione interminabile che, probabilmente, ha anche amplificato l’intensità dell’emozione negativa?

Sembra che vi sia una relazione tra la ruminazione intraindividuale e la condivisione sociale, chiaramente interpersonale: la prima prepara la seconda (Nolen-Hoeksema e Davis, 1999). Nella pratica clinica, infatti, spesso ci si imbatte in pazienti che attuano un coping comportamentale, come ad esempio un evitamento, in seguito ad una ruminazione cognitiva su un tema in particolare. Ad esempio i pazienti evitanti rinunciano ad una festa dopo aver pensato a quanto si sarebbero potuti sentire esclusi oppure pazienti che iperinvestono dopo essersi rappresentati scenari in cui la propria immagine è terribilmente compromessa da un errore.

Ruminazione condivisa: crea affiliazione

In quanto attività sociale, la condivisione può avere degli effetti notevoli anche nel ricevente, cioè in colui che ascolta e assimila le informazioni: l’ascolto dell’evento potrebbe attivare un processo di empatia che può portare l’ascoltatore stesso alla necessità di doversi aprire a sua volta alla condivisione con il rischio, però, che vi sia un’attivazione emotiva anche molto intesa. A racconta qualcosa a B e, a questo punto B, dopo aver ascoltato, si sente di dover condividere qualcosa, magari di affine ma, nel raccontarlo, prova nuovamente rabbia, vergogna, paura.

L’aspettativa di un effetto benefico della condivisione sociale, quindi, non trova corrispondenza nella realtà. Già nel momento stesso in cui rievochiamo l’episodio da narrare, magari con tanti dettagli, e con una serie di immagini vivide, si riattiva la sofferenza emotiva e si deprime l’umore, proprio come quando ruminiamo: il sollievo è soltanto momentaneo e molto difficilmente ci sentiamo davvero sollevati. L’informazione emotiva, infatti, si distribuisce su un livello mnestico sia di tipo verbale-concettuale sia analogico e associativo (Power e Dalgleish, 1997) mantenendo così la riattivazione potenzialmente forte dell’emozione anche in fase di ricordo. Ogni ricordo, quindi, porta con sé non soltanto l’evento ma anche l’emozione e anzi, talvolta, quest’ultima è più forte. I ricordi vanno assimilati e ricodificati in modo da lavorare sulle conseguenze collaterali dell’emozione come il senso di impotenza, di destabilizzazione, perdita di autostima, ecc. Questi effetti, secondo Rimé, sono meno devastanti di quelli centrali ma sono ugualmente presenti e sono quelli che maggiormente conducono al bisogno di condividere socialmente l’esperienza. Per superare l’effetto centrale, bisogna invece modificare gli schemi di realtà ed integrare le nuove informazioni all’interno di schemi preesistenti.

Se quindi la condivisione non porta alla risoluzione emozionale, perché molte persone affermano di trarne beneficio? Pare che si faccia perché spinti da un bisogno di affiliazione e di pura condivisione che è molto lontano dall’elaborazione, dalla ridefinizione e riorganizzazione interna dell’evento e dell’emozione. In altre parole, resta una condivisione sociale con pochi effetti di regolazione vera e propria. Altri autori hanno approfondito il tema della condivisione sociale secondaria e terziaria che segue la condivisone sociale descritta fino ad ora, la cui caratteristica è di attuare un circuito empatico che crea vicinanza e condivisione ma la cui funzionalità in termini di elaborazione emotiva resta discutibile.

In conclusione: in quanto esseri sociali tendiamo a condividere con l’ingenua convinzione che questo possa aiutarci a ripristinare lo stato interno, cioè tornare ad una condizione precedente (recovery) ma questo non sempre accade. Quindi se da un punto di vista sociale, la condivisione sociale aiuta a rafforzare i rapporti umani, quindi dà benefici sociali, non sempre conferisce benefici personali.

Mindfoodness (2018) di Emanuel Mian: l’importanza di diventare alleati di se stessi – Recensione del libro

Mindfoodness non è soltanto un libro che può essere d’aiuto a chi da tempo lotta con il cibo e il proprio corpo, ma rappresenta una vera e propria guida per il viaggio verso il cambiamento, non solo cambiamento del rapporto con il cibo ma cambiamento del rapporto con se stessi.

 

Il Dottor Mian, psicologo e psicoterapeuta, è la voce narrante del libro, che ci guida unendo alla sua esperienza i principi della mindfullness e del mindfuleating ai principi dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT). Quello che si prospetta è un viaggio basato sul qui ed ora, in cui si imparerà ad ascoltare cosa la nostra mente ci dice e quanto questo ci sia d’aiuto oppure no per raggiungere la meta che abbiamo scelto per noi. Cosa concretamente facciamo per raggiungere quella meta e come ci rapportiamo con il cibo basandoci sull’ascolto o meno del nostro corpo e dei nostri reali bisogni.

Come in ogni lungo viaggio, il rapporto con il nostro compagno è fondamentale, in questo caso il nostro compagno è la mente e capire se lei è o meno nostra alleata e come noi ci rapportiamo a lei rappresenta una tappa cruciale.

Mindfoodness: si parte dalla mente – MIND

In questo viaggio verso il cambiamento la nostra voce guida dice: “Devi affrontare i problemi della tua vita facendoli diventare sfide attraverso le quali potrai misurarti e superarti”. Noi siamo gli artefici del nostro viaggio, noi stabiliamo quali obiettivi vogliamo raggiungere, e come e quando attivarsi per farlo. La mente è la nostra compagna, per cui parlarsi e capire il modo in cui lo facciamo è importante perché noi siamo le uniche persone con cui affronteremo questo percorso ed è fondamentale essere gli alleati di noi stessi. Per parlarsi serve anche ascoltarsi, capire quello di cui in questo momento abbiamo bisogno e stabilire cosa fare e come fare per ottenerlo. Questo spesso richiede abbandonare i vecchi tracciati, sforzarsi e superare la paura di crearne di nuovi. Abbandonare le vecchie “zavorre mentali” serve per affrontare questo viaggio con una consapevolezza diversa che parte dal volersi bene e dal mettersi al centro degli obiettivi che ci poniamo perché, citando il Dottor Mian:

Il tempo dedicato a te stesso non è mai tempo sprecato

In questo cammino con e verso noi stessi

La motivazione è quello che ti fa partire. L’abitudine è quello che ti fa continuare.

Dobbiamo avere pertanto un motivo valido per agire e metterci in marcia proseguendo con costanza. La meta è rappresentata da ciò che per noi è importante, dai “valori” che vogliamo raggiungere, il viaggio è caratterizzato da tanti piccoli e grandi obiettivi, da sfide che ci impegniamo a superare; tutto questo va stabilito e scelto perché come riportato dal nostro narratore:

Se non sai dove andare corri il rischio di ritrovarti dove non vorresti essere.

Abbiamo imparato l’importanza del parlarsi, dell’ascoltarsi, dell’essere nostri alleati, abbiamo stabilito le tappe e la meta ultima che vogliamo raggiungere, a volte dovremo affrontare sfide nuove, che altri hanno già superato e che noi abbiamo ammirato e a volte invidiato per questo. L’autore riporta l’importanza dell’ascoltare questa “invidia buona” sentire cosa ha da dirci su quello che il nostro “idolo” ha raggiunto e sul perché proviamo per lui questa emozione; dopodiché non resta che imparare da chi ha ottenuto i risultati che anche noi vorremo, osservarlo, e provare a metterci in gioco. Il presupposto è che se qualcuno ce l’ha fatta non c’è motivo per cui non possiamo farcela anche noi, e se anche il risultato raggiunto non sarà il medesimo avremo comunque raggiunto qualcosa che stando seduti ad osservare, dilaniati dall’invidia, senz’altro non avremmo ottenuto.

Appresi questi strumenti e ricordandoci di metterli costantemente in pratica il viaggio procede, e la guida ci porta alla seconda tappa.

Mindfoodness: la seconda tappa è il cibo – Food

Il nostro narratore ci ricorda l’importanza della consapevolezza per aiutarci a stare nel momento presente consapevoli appunto di ciò che accade qui ed ora. Il cibo, come spiega il Dottor Mian,

è ciò che contiene i nutrienti necessari affinché il nostro corpo abbia le energie sufficienti per adempiere alle sue funzioni vitali.

Alimentarsi altro non è che introdurre il cibo nel nostro organismo mentre nutrirsi è dare al nostro corpo tutti i nutrienti di cui ha bisogno. I cibi non sono buoni o cattivi perché tutto dipende dalle nostre abitudini alimentari, e da quanto siamo consapevoli di quanto queste abitudini possano incidere negativamente su di noi nel lungo periodo. È importante imparare a riconoscere il nostro pilota automatico, e sapere che se realmente lo vogliamo possiamo fermarlo. Partendo dal prestare ascolto e dare attenzione al nostro respiro possiamo notare come certe cose che ci sembrano impellenti in realtà non siano poi così.

Rallentando e imparando ad ascoltarci diventeremo consapevoli di come spesso scambiamo per fame segnali che ci indicano ben altro. La nostra guida ci spiega quanti tipi di fame esistono, come imparare a riconoscerli e cosa fare per soddisfarli. Soltanto mettendo in pratica questi suggerimenti capiremo come molto spesso finiamo per alimentare il nostro corpo con ciò di cui non abbiamo bisogno in quel momento. E se abbiamo sempre creduto di non saper fare diversamente, di non essere capaci di fermarci, la nostra voce guida ci insegna alcune tecniche per rendere più visibile il segnale di stop. Seguendo passo passo e mettendo in pratica con consapevolezza i suggerimenti della nostra guida il viaggio procede, la meta è stata definita, gli obbiettivi vengono cancellati mano a mano che li raggiungiamo e imparando ad ascoltarci abbiamo capito il ritmo e le esigenze del nostro corpo ora siamo pronti ad affrontare l’ultima tappa.

Mindfoodness: il punto di arrivo – Ness

Nel nostro viaggio verso il cambiamento la guida ci porta ad affrontare il mondo delle emozioni. Attraverso una serie di esercizi il Dottor Mian spiega come sia possibile

allenare la consapevolezza e sviluppare l’abilità di osservare i pensieri e di accettare la presenza delle emozioni negative senza diventarne ostaggio.

Capita spesso che il cibo rappresenti la via di fuga o la valvola di sfogo per le emozioni negative: questo però ci fa entrare in un circolo vizioso che non fa altro che avvicinarci sempre più alle emozioni che cerchiamo di cancellare. Anche in questo caso abbandonare le zavorre mentali, diventare sempre più consapevoli di ciò che accade dentro e intorno a noi, riconoscere i nostri automatismi e fermarci, respirare e darci la possibilità di agire in maniera differente è la nuova via che potremmo intraprendere per raggiungere la nostra ambita meta.

Mindfoodness è un libro guida di supporto per chi ha difficoltà con il cibo, ma anche un ottimo strumento da condividere e vivere passo passo con il proprio terapeuta.

I 5 tratti che spiegano l’uomo ideale (da un punto di vista evoluzionistico)

Sebbene i campi della psicologia evoluzionistica si siano estesi sempre più, uno specifico comportamento umano rimane uno dei più tradizionali e meglio documentati capisaldi di ricerca dell’intera disciplina: la scelta del partner.

 

La psicologia evoluzionistica, negli ultimi 30 anni, è passata da disciplina maggiormente focalizzata sullo studio di specifici comportamenti (riproduzione ed aggressività ad esempio) a settore scientifico che sta attivamente contribuendo a spiegare ogni genere di comportamento umano, dall’intenzione suicidaria alla cooperazione, dalle molestie sessuali alle sindromi cliniche.

Sebbene i campi di ricerca della psicologia evoluzionistica si siano estesi sempre più, uno specifico comportamento umano rimane uno dei più tradizionali e meglio documentati capisaldi di ricerca dell’intera disciplina: la scelta del partner.

La riproduzione è un motore vitale dell’esistenza umana e comportamenti quali scelta del compagno, l’investimento nella relazione affettiva, la gelosia e i tradimenti sono stati (e continuano ad essere) studiati approfonditamente.

Per capire perché certi criteri di selezione si siano evoluti e continuino a permanere è necessario essere a conoscenza di 2 aspetti:

  1. Dal punto di vista evoluzionistico il concetto di preservazione e trasmissione dei geni è un concetto fondamentale. Maschi e femmine differiscono in quanto a preferenze per la scelta del partner e strategie riproduttive, ma l’obiettivo comune resta quello di difendere e tramandare i propri geni nel modo più efficace possibile.
  2. Anche se il modello cacciatori-raccoglitori ha smesso di guidare la nostra vita circa 10.000 anni fa soppiantato da un modello stanziale basato sull’agricoltura, il nostro patrimonio genetico (che regola il comportamento) è rimasto sostanzialmente immutato non essendo riuscito (ancora) ad adeguarsi ad un mondo più recente e molto più diverso.

5 criteri che guidano le donne nella scelta del partner

Avendo chiare queste premesse, in questo articolo sono evidenziati alcuni studi presenti in letteratura circa le conoscenze ad oggi ottenute indagando le preferenze femminili nella scelta del partner.

  1. Ricchezza: nella storia della specie umana le donne hanno affrontato il problema della prospettiva e della qualità della vita dei futuri figli optando per partner che detenevano più risorse e che avrebbero potuto utilizzarle nell’allevamento dei propri figli (Buss, D. M, 2012). Poiché nella specie umana la ricchezza è generalmente trasmissibile, un partner che possedeva molte risorse avrebbe potuto anche trasferire la ricchezza alla prole, garantendo a loro (e quindi anche ai geni della madre) maggiore probabilità di sopravvivenza.
  2. Status: come la ricchezza (e ad essa correlata) lo status nella specie umana è trasmissibile. Gli uomini che posseggono status sociale elevato detengono generalmente le migliori risorse, e se nell’antichità ciò poteva significare più cibo, al giorno d’oggi può comportare ad esempio la possibilità di accedere alle università più prestigiose (e costose) e a conoscenze importanti. Uno studio (Buss & Schmitt, 1993) condotto su donne di tutto il mondo ha rilevato che per prendere in considerazione un maschio per una relazione a lungo termine detenere un ottimo impiego o aver scelto una carriera promettente è considerata una caratteristica altamente desiderabile.
    Una ricerca recente che supporta tale posizione (Dunn & Searle, 2010) ha evidenziato che l’attrazione femminile provata per un uomo è significativamente correlata al tipo di auto che l’uomo guida (attrazione più intensa nel caso di auto lussuose e meno intensa nel caso di auto meno lussuose). Tale cambiamento non si verifica a parti inverse, ossia quando l’uomo deve giudicare il livello di attrazione provato nei confronti di una donna che guida differenti tipi di auto.
  3. Età: le donne hanno una preferenza universale per uomini più vecchi di loro e generalmente l’intervallo desiderato è compreso tra i 3 e 6 anni, variando tra cultura e cultura (Buss et all., 1990). Gli studi condotti nell’ambito della scelta del partner hanno approfondito l’importanza attribuita all’età, e nello studio di Buss e Schmitt (1993) condotto su uomini e donne di 5 nazioni diverse (Zambia, Colombia, Polonia, Italia e USA) si sono ottenute le prime evidenze che l’età del possibile partner è un fattore molto importante; le donne di tutte le culture riportavano una preferenza per uomini più vecchi (dai 3 anni nel caso degli Stati Uniti ai 4.5 nel caso della Colombia).
    Per spiegare tale fenomeno la psicologia evoluzionistica propone lo status sociale come spiegazione di tale fenomeno: generalmente un maschio più anziano detiene uno status sociale superiore rispetto a uno più giovane, e come si è visto un elevato status sociale è un fattore altamente ricercato.
  4. Impegno: l’impegno è definibile in termini evoluzionistici come un atteggiamento d’investimento nei confronti di un partner identificabile e quantificabile tramite azioni quali lasciare una precedente partner per la nuova compagna, discutere con essa di argomenti quali il matrimonio e il desiderio di avere figli (Buss, 1989); l’impegno è profondamente connesso alla fedeltà, ossia al restare fedeli alla propria partner anche in presenza di possibili alternative e anche quando la partner non è fisicamente presente. Pensando alle condizioni di vita che caratterizzavano il paleolitico, uno dei problemi adattivi più importanti per una donna dal punto di vista della sopravvivenza era selezionare un compagno che volesse investire, che fosse disposto quindi a impiegare tempo e risorse nella crescita dei figli senza abbandonarla. Segnali che caratterizzano l’impegno da parte del maschio sono quindi, anche ai giorni nostri, la disponibilità, il sostegno alla compagna (investimento di tempo ed energie) e ovviamente la fedeltà.
  5. Condizione fisica: se le nostre antenate avessero scelto un compagno che si fosse ammalato presto, fosse affetto da malattie o da altri problemi di natura fisica, la possibilità di perdere il proprio partner (e con esso protezione e risorse) nell’ambiente ostile che caratterizzava lo scenario di vita pre-agricolo sarebbe stata estremamente elevata. Da allora, i geni che guidano alla scelta del partner maschile spingono la femmina a cercare un compagno in buona forma fisica e in salute. Un indice che permette di prevedere quale sarà un maschio apprezzato consiste nel livello di simmetria facciale (una buona simmetria è un indice molto affidabile di assenza di malattie): ricerche hanno confermato che un individuo con un volto simmetrico sarà molto più apprezzato di uno con un volto meno simmetrico (Thornhill & Gangestad, 1997). Un altro indice di buona salute è la mascolinità, intesa come espressione di alti livelli di testosterone (condizione raggiungibile a patto di essere in buona salute) e riscontrabile tramite indizi quali mascella ampia e zigomi pronunciati. Una recente meta-analisi condotta su 10 studi che si sono occupati di indagare il livello di attrazione dei volti umani ha confermato che quelli caratterizzati da forti tratti di mascolinità sono valutati come maggiormente attraenti (Rhodes, 2006).

Per concludere

Anche se questi 5 punti sono stati quelli più studiati in ottica evoluzionistica per cercare di comprendere la scelta femminile del partner, ulteriori tratti sono risultati buoni predittori in tal senso.

Volendo prendere ad esempio solamente un paio di ulteriori fattori l’ambizione è molto apprezzata in un uomo (Buss, 1989), così come l’altezza fisica (Courtiol, Raymond, Godelle & Ferdy, 2010).

Sebbene le evidenze ottenute fino ad ora siano state raggiunte tramite studi condotti sulle più svariate culture e siano risultate globalmente confermate, certe differenze (soprattutto circa il grado di importanza attribuita a ciascun tratto) sono emerse tra cultura e cultura. Tali differenze non devono essere lette come una criticità alle teorie evoluzionistiche, poiché, come ben spiegano gli studiosi Kurzban e Haselton (2006), gli psicologi evoluzionistici legittimano tali divari come adattamenti comportamentali che rispondo ai specifici fattori sociali ed ecologici locali che caratterizzano la cultura di riferimento.

Decision making nei bambini: i più piccoli tendono a prendere decisioni più ponderate?

Presso la Waterloo University, un gruppo di studiosi ha indagato come cambia nei bambini il processo di decision making.

 

È bello per noi sapere che i bambini di età diverse non trattano necessariamente tutte le informazioni allo stesso modo quando decidiamo di insegnare loro cose nuove – ha detto Stephanie Denison, professore associato presso il Dipartimento di Psicologia e co-autrice dello studio insieme alla dottoranda Samantha Gualtieri.

Questa la premessa che le ha portate ad affermare nell’ambito dello studio condotto presso la Waterloo Univeristy quanto sia importante che i caregivers comprendano come i bambini processino le informazioni date loro per prendere una decisione.

Nell’impostare il progetto di ricerca alla base del loro studio, si sono inoltre ispirate ai famosi studi di Kahneman e Tversky (1973), i quali hanno analizzato le forme abbreviate di ragionamento, ovvero le euristiche, strategie di soluzione semplici ed economiche.

Lo studio e i suoi risultati

Lo studio è stato condotto su 288 bambini, valutati per determinare se durante la formulazione di giudizi utilizzano informazioni numeriche, sociali o di entrambi i tipi.

I risultati hanno dimostrato come a partire dai 6 anni i bambini iniziano a compiere decisioni servendosi delle stesse informazioni di cui si servono gli adulti, ovvero secondo una modalità di risparmio: il giudizio del 95% dei bambini di 6 anni dipende infatti solo dalle informazioni sociali. Per quanto riguarda i bambini di 5 anni solo il 70% di essi valuta e decide in base alle sole informazioni sociali. La percentuale si abbassa vertiginosamente con i bambini di 4 anni: solo il 45 % di essi giudica in base alle sole informazioni sociali, ovvero i bambini più piccoli si sono mostrati più propensi a prendere in considerazione entrambe le informazioni numeriche e sociali.

Questo studio rivela come l’euristica della rappresentatività si sviluppa durante gli anni prescolari, tra i 4 e i 6 anni, in una rapida escalation verso il risparmio di risorse cognitive che caratterizzerà la formulazione di giudizi nella vita adulta.

Gli adulti tendono a non usare tutte le informazioni a loro disposizione quando formulano giudizi, probabilmente perché questo richiede l’impiego di molte risorse in termini di tempo ed energie mentali. Ciò che sarebbe per lo meno utile sapere è che usare queste scorciatoie può essere molto efficiente, ma al contempo gli errori che possono esser introdotti sono molti.

A volte dovremmo riflettere più duramente e dedicare tempo a mettere insieme tutte le informazioni. Il tempo che dedichi all’elaborazione delle informazioni potrebbe dipendere dall’importanza del giudizio o della decisione che stai prendendo, quindi scegliere di volta in volta a quale fase decisionale è meglio dare più spazio è davvero importante – afferma Denison.

Amore e Psiche, la dimensione corporea in psicoterapia (2018) e il salto dalla mente al corpo in ambito psicoterapeutico – Recensione del libro

Amore e Psiche, la dimensione corporea in psicoterapia è un libro di notevole interesse per coloro che appartengono al settore in quanto favorisce la nascita di numerose riflessioni sul tema del corpo mettendo a disposizione un’enorme varietà di approcci, teorie, interventi e riflessioni su questo tema.

 

Il saggio “Amore e Psiche, la dimensione corporea in psicoterapia a cura di Maria Luisa Manca nasce con l’intento di raccogliere un unico volume gli interventi circa il tema del corpo e della sua considerazione in termini clinici e teorici secondo i vari approcci psicoterapeutici, tema discusso in occasione del VII Congresso della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (Fiap), tenutosi ad Ischia dal 6 al 9 Ottobre 2016 e che ha visto la partecipazione di più di 700 psicoterapeuti.

Ogni approccio dalle neuroscienze, alla psicoterapia ad orientamento bioenergetico passando per la psicodinamica, la psicoanalisi, la filosofia, la psico-neuro-immunologia, la psicosomatica, l’infant research è stato considerato e sviscerato per affrontare un contenuto così complesso come quello della corporeità, della consapevolezza corporea: come si sviluppa, di cosa ha bisogno il bambino per integrare il suo essere mente psicologica e corpo per entrare in relazione con l’Altro, quali sono gli effetti della psicopatologia sul corpo, “abbattendo”, finalmente, dopo decenni quella divisione mente- corpo, grazie anche ai recentissimi avanzamenti delle neuroscienze e della neurofisiologia.

Alcuni contributi importanti

“Amore e Psiche, la dimensione corporea in psicoterapia” offre una rassegna precisa e sistematica della ricchissima conversazione interdisciplinare che ha visto tra gli altri l’intervento di Massimo Biondi con una dissertazione sulla nascita e sull’evoluzione della Psicosomatica, la diffusione cioè dell’idea che la malattia somatica possa essere compresa e spiegata alla luce di un modello psicologico, sottolineando il rapporto tra stressemozioni-malattia, cercando di approfondire in che misura e quali siano i fattori emotivi-psicologici che possono avere un ruolo significativo nella patogenesi, nel decorso e nella risposta alle cure di una specifica patologia e che infine anche l’intervento psicoterapeutico possa avere un correlato neurobiologico e immunitario.

In aggiunta è presente la riflessione di Rosario Montirosso, sulla costruzione nel bambino piccolo dei cosiddetti “saperi impliciti” che gli consentirebbero nel tempo di comprendere i propri e gli altrui stati mentali, riconoscere gli effetti del suo comportamento e sviluppare capacità di mentalizzazione secondo la definizione classica di Fonagy.

A questo proposito, è particolarmente interessante citare l’intervento di Patrizia Moselli circa il concetto di sessualità e “sfogo orgasmico”. I saperi impliciti, approfonditi nel dettaglio da Montirosso, costruiti nel corso dell’infanzia all’interno di una sentita appartenenza dal bambino all’interno della relazione diadica madre-bambino e di uno stile di attaccamento sicuro, consentirebbe poi al bambino nel corso della sua maturazione la possibilità di sperimentare, esperire ed esprimere con sicurezza, senza alcun tipo di giudizio o disagio, il suo essere anche corpo che sente, prova piacere, gioca e costruisce relazioni di tipo affettivo e sessuale. In particolare si sottolinea come sia l’esperienza del proprio corpo a favorire la nascita di relazioni e sentimenti verso se stessi e verso altri partner a cui si riesce ad essere intimamente legati e connessi.

L’esplorazione fin da bambini dell’esperienza sessuale, affettiva, fatta di tenerezza e amore consentirebbe la costruzione di relazioni interpersonali stabili e pregnanti di significato, diversamente dall’esperienza di molti pazienti che in diverse occasioni vivono delle relazioni affettive vuote e una sessualità a volte medicalizzata, abusata o compulsiva fatta con l’unico scopo di sfogare il proprio piacere sessuale, causa di deficit relazionali o traumi vissuti durante l’infanzia, sessualità che deve essere riconosciuta, accolta e “curata” all’interno della relazione nel setting terapeutico.

Altro punto interessante posto all’attenzione del convegno è il tema del corpo violato, violentato e abusato, ferito tramite cutting per affievolire la sofferenza psicologica e sentire il proprio corpo preso da torpore attraverso il dolore, dissociato come ampiamente spiegato nell’intervento di Lorenzo Cinioni.

Perchè è importante considerare il corpo in psicoterapia?

Concetto molto delicato quello del corpo e a mio parere imprescindibile all’interno di un contesto terapeutico, clinico e di diagnosi: non possiamo più fare l’errore di scindere la dimensione psicologica dalla dimensione corporea, perché anche il corpo, tramite le sue modalità ci segnala una sofferenza, un disagio, un stato di benessere, anche perché gli interventi psicoterapici di ultima generazione si stanno muovendo nella direzione del corpo e dell’autoconsapevolezza corporea per “guarire” la mente come la Mindfulness, l’utilizzo di metafore fino alle tecniche della psicoterapia sensomotoria.

Considerazioni finali sul volume “Amore e Psiche, la dimensione corporea in psicoterapia”

Il presente saggio è di notevole interesse per coloro che appartengono al settore in quanto favorisce la nascita di numerose riflessioni sul tema del corpo mettendo a disposizione una enorme varietà di approcci, teorie, interventi e riflessioni su questo tema.

Si potrebbe quasi considerare un piccolo manuale da consultare per desiderio personale o per osservare una problematica da un’ottica diversa, non consueta o che solitamente, anche per formazione personale, non prenderemmo in considerazione.

Piacevole nella lettura, nonostante alcuni modelli espressi nel saggio avrebbero bisogno di un aggiornamento; poco infatti si fa riferimento alle recenti evidenze sia in campo tecnologico che scientifico in grado di approfondire e indagare la relazione mente- corpo in un modo innovativo anche all’interno di un setting psicoterapeutico.

cancel