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Le parole non bastano per comunicare le proprie emozioni, soprattutto in adolescenza!

Mentre gli adulti sono in grado di leggere con precisione una gamma di emozioni nelle voci degli adolescenti, la capacità di comprendere ciò che qualcuno sente basandosi sul tono di voce può essere difficile in adolescenza (13-15 anni). 

 

Gli adolescenti sono molto meno in grado di capire cosa sta succedendo con i propri coetanei, in particolare quando si tratta di toni di voce che esprimono rabbia, meschinità, disgusto o felicità.

Un recente studio ha cercato di capire se la fisicità dello stimolo acustico (età dell’emittente e tipo di espressione trasmessa) interagisce con lo stadio di sviluppo degli ascoltatori influenzando il grado di accuratezza del riconoscimento degli ascoltatori. Nello specifico, Michele Morningstar, dottorato presso la McGill University ha valutato la lettura delle inflessioni nella decodificazione emotiva dell’emittente.

La ricerca

Morningstar e colleghi hanno creato un totale di 140 registrazioni fatte da attori bambini e adulti, ai quali è stato chiesto di recitare frasi neutrali quali “Non posso credere che tu l’abbia fatto”, che potrebbero essere espresse con varie intonazioni per trasmettere sentimenti diversi.

Le registrazioni sono state fatte ascoltare a 50 adolescenti tra i 13 ed i 15 anni e a 86 adulti di età compresa tra i 18 ed i 30 anni.
A tutti i partecipanti è stato chiesto di selezionare l’ emozione espressa in ciascuna registrazione, selezionando l’ emozione espressa dal tono del parlante, da una lista di cinque emozioni base (rabbia, disgusto, paura, felicità e tristezza) e da espressioni sociali di affiliazione (cordialità) oppure ostilità (meschinità).

I risultati hanno mostrato come gli adulti non hanno avuto problemi, generalmente, nel leggere le emozioni dei loro coetanei e hanno avuto relativamente pochi problemi nel discernere le emozioni degli adolescenti.

È inoltre emerso che gli adolescenti riuscivano a leggere le emozioni degli adulti senza difficoltà, ma hanno fatto fatica a comprendere le espressioni dei loro coetanei.

Il primo autore dello studio Michele Morningstar afferma:

I nostri risultati suggeriscono che gli adolescenti non hanno ancora raggiunto la maturità né nella loro capacità di identificare le emozioni vocali, né di esprimerle. Questo significa che gli adolescenti affrontano una sfida abbastanza grande nella loro sfera sociale: devono interpretare spunti poco espressi con abilità di riconoscimento immature, capire come impariamo le capacità di comunicazione emotiva sarà importante per aiutare gli adolescenti che lottano socialmente.

Una possibile spiegazione del fenomeno, affrontata da Morningstar nel suo precedente lavoro (2017), suggerisce che gli adolescenti siano meno capaci degli adulti di produrre emozioni riconoscibili con le loro voci.

La maggiore abilità degli adulti nel riconoscere le emozioni può diventare più evidente quando si tenta di decodificare segnali più impegnativi.

Melanie Dirks, autore senior dello studio, in conclusione aggiunge:

I genitori non dovrebbero scoraggiarsi troppo da queste scoperte – e continua: – Sebbene ciò che abbiamo mostrato è che gli adolescenti hanno bisogno di più tempo per riconoscere e identificare i sentimenti degli altri di quanto non si pensasse in precedenza, la nostra ricerca suggerisce che potrebbe essere solo una questione di sviluppo del cervello, che le cose arriveranno con il tempo.

Dipendenza affettiva, rifiuto nella relazione e stalking – Congresso SITCC 2018

Nel corso del Congresso SITCC 2018, ho avuto la possibilità di partecipare al simposio sulle “Dipendenze affettive tra teoria e pratica” con un contributo dal titolo: “Dalla dipendenza affettiva allo stalking”. Il razionale dell’argomentazione trattata è di sviluppare l’attenzione alla modalità attraverso cui il fenomeno della dipendenza affettiva coniuga con la pericolosità dello stalking.

 

Dal 20 al 23 settembre 2018 a Verona si è tenuto il XIX Congresso Sitcc, Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva, alla quale afferisco come socio ordinario.

La partecipazione al congresso è stata interessante e coinvolgente dal punto di vista delle tematiche trattate e dello stato attuale della ricerca scientifica portata avanti dai colleghi, fonte di stimolo per future ricerche necessarie ad affrontare con metodo scientifico/clinico il malessere portato dai nostri pazienti.

Ho avuto la possibilità di partecipare al simposio sulle “Dipendenze affettive tra teoria e pratica” con un contributo dal titolo: “Dalla dipendenza affettiva allo stalking”

La dipendenza affettiva, o love addiction, è caratterizzata da comportamenti di dipendenza all’interno di una relazione romantica (affettiva) in cui un partner ha bisogno dell’altro per mantenere il proprio equilibrio emotivo.

Il razionale dell’argomentazione trattata è di sviluppare l’attenzione alla modalità attraverso cui il fenomeno della dipendenza affettiva coniuga con la pericolosità dello stalking.

Quando la relazione sentimentale presenta caratteristiche di amore non corrisposto, patologico o inappropriato tali da porre il soggetto dipendente nella condizione di estrema sofferenza, dove le sfere sociali, professionali e famigliari vengono perturbate, nasce la necessità consapevole di interrompere la relazione patologica per riuscire (finalmente) a sopravvivere. Succede così che la capacità di fronteggiare gli eventi della vita quotidiana non è più tale da garantire un livello soddisfacente di benessere, ponendo il soggetto nell’incapacità di arginare la sofferenza e di conseguenza entrare nel vortice caratterizzato dalla sensazione di non governare più la propria esistenza.

La scelta di interrompere la relazione sentimentale patologica è posta quindi come obiettivo certo e realizzabile, spesso con l’aiuto di un professionista psicoterapeuta.

Dalla letteratura scientifica, ma anche dalla narrativa letteraria, sono molti i riferimenti del dolore e trauma sorti a seguito del rifiuto in amore, ossia la rottura della relazione sentimentale amorosa da parte del partner.

La sofferenza percepita ed agita si esprime con modalità soggettive che vanno dal superamento del lutto e del malessere fino ad atti autolesivi e anticonservativi, o eterodiretti come nei comportamenti assillanti e molesti, di cui lo stalking è un fenomeno conosciuto e diffuso nella società.

Lo scopo dell’articolo, e dell’intervento al congresso, è di sottolineare l’importanza della prevenzione del rischio di comportamenti violenti, fornendo suggerimenti ai clinici per affrontare i casi con modalità di intervento mirate.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

Dipendenza affettiva, rifiuto nella relazione e stalking - SITCC 2018 -IMM1

IMM. 1 – Congresso SITCC 2018, il programma del simposio “Dipendenze affettive tra teoria e pratica”

L’amore è una dipendenza?

Dall’analisi dei dati della ricerca effettuata da Ahmadi e colleghi (2013) su 290 studenti, emerge che la prevalenza di love addiction è del 17,9%; inoltre emerge che lo stile di attaccamento insicuro-ambivalente oltre ad essere significativo, viene considerato il predittore del fenomeno in esame.

In letteratura è ormai ampiamento accettato che la relazione amorosa presenta le stesse caratteristiche sintomatologiche e neurofisiologiche della dipendenza da uso ed abuso di sostanza.

Avviene soprattutto nella prima fase della relazione affettiva, caratterizzata da amore di tipo passionale; la persona amata è al centro della vita psichica dell’innamorato, il tempo e lo spazio assumono significati diversi, aumenta l’energia e i pensieri ossessivi, insieme ad altre manifestazioni, pongono il soggetto nella condizione di vivere il piacere e la gioia del momento. Il periodo dell’amore passionale è breve ed è seguito dalla formazione del legame di coppia, spesso seguito dall’intenzione di co-costruire il futuro con investimenti importanti. Tale periodo iniziale può protrarsi nel tempo e assumere una veste stabile e patologica, causa di sofferenza e disinvestimento su di sé.

Innumerevoli studi hanno individuato il sistema di ricompensa come network neuronale implicato nella generazione della dipendenza da sostanza, sistema che utilizza la dopammina come neurotrasmettitore prodotto nell’Area Tegmentale Ventrale (VTA) con proiezioni al Nucleus Accumbens e verso le aree corticali pre-frontali.

Come indicato da Fiorilli (2018):

Tale assunto è il punto di partenza da cui si origina una dipendenza patologica, dal momento che una sostanza di abuso o un comportamento compulsivo con iniziali conseguenze piacevoli attivano cascate di reazioni chimiche che coinvolgono circuiti cerebrali legati alla gratificazione e alla soddisfazione dei bisogni. I numerosi studi di neurobiologia sono tutti concordi nel ritenere il circuito meso-cortico-limbico il principale substrato neurale implicato nell’ addiction, e la dopamina come principale neuromodulatore. Infatti le aree di questo circuito costituito dall’area tegmentale ventrale e dal nucleo accumbens (striato ventrale) e parte della corteccia pre-frontale, giocano un ruolo cruciale nel sistema di rinforzo e ricompensa ed è stato osservato che una sostanza psicostimolante è in grado di iperattivare i neuroni dopaminergici presenti in questa porzione cerebrale provocando sensazioni di benessere e dando così alla sostanza di abuso una valenza edonica positiva (alto valore di salienza).

La dipendenza affettiva presenta elementi sintomatologici in comune con le dipendenze da uso e abuso di sostanza e dipendenze comportamentali; sono la dipendenza fisica ed emotiva verso il rinforzo, la tolleranza, l’astinenza e le recidive. “Senza di lui/lei non riuscirò a vivere”, “Senza di lui/lei non saprò chi sono e nulla avrà più significato” sono le tipiche frasi riportate dai dipendenti affettivi nell’esprimere la sofferenza soverchiante che li attraversa.

Il rifiuto in amore è una dipendenza?

Il pericolo del craving e delle recidive pone il soggetto (dipendente o rifiutato) nella condizione di evitare qualsiasi rinforzo che riattivi il desiderio e pregiudichi gli sforzi effettuati per uscire dallo stato precedente di dipendenza affettiva. I rinforzi rispetto la relazione finita accendono il desiderio anche in coloro che sono stati rifiutati dall’ex-partner, il quale, con chiari messaggi inequivocabili, ha confermato la volontà di non riaprire la relazione.

Fisher et al. (2010) descrivono la ricaduta in amore sostenendo che oggetti, pensieri, ecc che rimandano al ricordo della persona rifiutante ancora amata possono innescare nuovamente la memoria e sviluppare craving, pensieri ossessivi e/o contatti compulsivi, scrivere o sperare, approcciarsi ad essa nonostante i soggetti rifiutati sappiano che le conseguenze possono essere avverse (es. dolore e tristezza).

La ricerca è stata effettuata su 15 individui; i criteri di inclusione prevedevano che i soggetti fossero stati respinti ed ancora innamorati del ex-partner rifiutante dopo un lasso di tempo, pari a 63 giorni nello specifico del campione.

Il progetto della ricerca prevedeva che ai soggetti venissero mostrate immagini neutre ed immagini della persona ancora amata mentre erano sottoposti a scansione encefalica tramite la risonanza magnetico funzionale. I risultati rivelano che il campione dichiarava di provare passione romantica, gioia, disperazione, memorie dolorose, ruminazioni sugli eventi che hanno condotto alla rottura ed infine la valutazione mentale sulla perdita e sul guadagno rispetto l’esperienza. Dopodiché, dall’analisi dei dati ricavati tramite la fRMI emerge la correlazione tra le aree cerebrali coinvolte e i circuiti neurali che si attivano nel craving causato dalla cocaina e abuso di droghe.

In conclusione, gli autori suggeriscono come il rifiuto all’interno della relazione affettiva amorosa presenti le caratteristiche della dipendenza da sostanze.

Rifiuto e molestie

Meloy, J. R., & Fisher, H. (2005) sostengono che lo stalking è un comportamento associato con l’amore romantico. Inoltre, nell’analisi del fenomeno suggeriscono che i perpetratori mettono in atto comportamenti caratteristici delle dipendenze; tra questi emerge l’attenzione focalizzata sull’oggetto, l’aumento dell’energia, i comportamenti di inseguimento e i pensieri ossessivi.

Tra gli obiettivi della ricerca, gli studiosi pongono l’esplorazione dei correlati neuronali, giungendo alla conclusione che lo stalking attivi pattern cerebrali del sistema di ricompensa. Incoraggiati dall’analisi dei dati, i ricercatori sostengono che i comportamenti assillanti reiterati potrebbero avere una base in comune con le dipendenze sia da sostanza sia comportamentali.

Va considerato come all’interno dell’insieme dei soggetti rifiutati, solo un sottoinsieme di essi reagisce mettendo in atto comportamenti stalkizzanti. Altri soggetti possono attuare comportamenti disadattivi autodiretti, mentre soggetti reagiscono sul versante della riconquista, con il pericolo di riattivare in alcuni casi valenze relazionali di coppia patologiche. Fortunatamente, il soggetto rifiutato nella relazione amorosa spesso si rivolge ai professionisti psicoterapeuti per sopravvivere al trauma e riappropriarsi della conduzione della propria vita. In altri casi al professionista giungono indirettamente soggetti rifiutati con grado di sofferenza tale da mostrare disturbi dell’umore con diversi livelli di gravità.

Prevenzione dello stalking

Il fenomeno dello stalking non è da sottovalutare e la prevenzione primaria rappresenta il miglior insieme di azioni finalizzate a debellare all’origine l’origine dello stesso. Ricordo che il fenomeno dello stalking si ripercuote anche sui famigliari e soggetti a stretto contatto con la vittima, le cui conseguenze sono deleterie sul piano psichico e fisico, lavorativo e sociale. Arginare il fenomeno e le ripercussioni rappresenta quindi la priorità.

Come ho evidenziato nell’articolo su State Of Mind (Zedda, 2018), a prescindere della natura di genere del perpetratore:

la prevenzione è uno strumento efficace per arginare il fenomeno e le sue conseguenze, può contribuire ad attivare le risorse individuali e la rete sociale che insieme possono fermare il fenomeno: l’aiuto degli altri (amici, famigliari, colleghi, ecc.) spesso risulta essere un valido deterrente alla campagna messa in atto dallo/dalla stalker. L’isolamento sociale è infatti una delle prime conseguenze della vittimizzazione, rompere il silenzio significa essere consapevoli dei danni che la campagna di stalking arreca alla salute propria e a quella degli affetti più cari.

Qualora la rete sociale non riesca a migliorare il benessere esperito dalla vittima, lo psicoterapeuta è l’interlocutore privilegiato per affrontare un percorso terapeutico.

Come suggerimento terapeutico, lo psicoterapeuta, nell’ambito della cura della dipendenza affettiva e del rifiuto in amore, dovrebbe essere attento ai segnali indicatori di una possibile campagna di stalking finalizzata a riallacciare i contatti con l’ex-partner. La campagna viene agita dal soggetto rifiutato, il quale può essere il paziente in terapia o, nel caso in cui la terapia aiuti il dipendente affettivo, l’ex-partner. La ricerca di contatto persistente è frutto del desiderio di prolungare la relazione, anche se con vissuti di dolore; tali emozioni disagevoli hanno minor intensità rispetto il dolore provato durante la perdita di senso e significato della vita senza la presenza della persona investita di attenzioni.

Qualora emergano segnali tali da far ipotizzare il pericolo di condotte stalkizzanti, è necessaria la “tolleranza zero” e bloccare immediatamente i comportamenti molesti. Le conseguenze sulla dimensione giuridica e personale del soggetto molestante sarebbero gravi e peggiorative di una situazione già di per sé disadattiva.

Come ho indicato in un altro articolo su State of Mind (2017):

La campagna di stalking ha un peso non indifferente sulla resilienza e l’equilibrio psicofisico del soggetto molestato; frequentemente si esperisce un senso di estrema vulnerabilità, legato a uno stato di disagio in previsione di un possibile assalto. Tecniche quali la desensibilizzazione, l’EMDR, il rilassamento e la terapia per il trauma sono particolarmente efficaci.

Per concludere

In letteratura non è ancora presente una definizione univoca della dipendenza affettiva, la quale viene nominata in varie modalità, così come non sono presenti protocolli e linee guida di trattamento del paziente.

Nell’intervento al congresso SITCC ho presentato una rassegna di suggerimenti raccolti da vari autori e ricercatori, con l’obiettivo di fornire ai clinici del materiale utile alla gestione dei casi.

Nel futuro prossimo è auspicabile l’aumento dell’interesse verso il fenomeno e la definizione di interventi focalizzati al problema .

Come ti divento bella (2018): quando la vera bellezza passa dal pensiero – Recensione del film

Nella commedia Come ti divento bella, fin da subito è chiaro chi sia la nemica di Renée, protagonista del film: l’insicurezza. Un’insicurezza paralizzante, alla base della sua goffaggine, alla base del suo essere single, alla base di una carriera che non riesce a spiccare. 

 

Sarà stato l’avvicinarsi della settimana della moda a Milano (che ormai chiamo “Settimana dell’autostima in ferie”…data la quantità industriale di modelle che si vedono in giro per la città), sarà stata la voglia di affrontare in modo più resiliente la fine dei weekend estivi, mi sono concessa una serata al cinema e, dopo una lunga lotta interna tra l’ultimo colossale b-movie e una commedia americana, ho deciso di optare per quest’ultima.

Scelgo così di vedere Come ti divento bella, il trailer mi aveva incuriosito, e poi vuoi mettere la voglia di scoprire qualche falla nella recitazione della Ratajkowski tanto da poter dire a pieni polmoni, in modo autoconsolatorio, “sì.. sarà bella quanto vuoi, ma a recitare proprio no!


Come ti divento bella parla di Renée (interpretata da Amy Schumer), una ragazza impacciata, goffa, alle prese con l’eterna lotta contro i chili in più. Il copione è noto…ragazza in carne circondata da giovani donne bellissime dal fisico statuario, eppure anche loro impegnate nella ricerca (o nel mantenimento) del corpo perfetto. E il contrasto protagonista-ambiente si fa sin dalle prime scene divertente, non si ride della protagonista, si ride perché si inizia a riflette su quanto sia comune imbattersi in certe situazioni “tragicomiche”, e di quanto spesso si cerchi di affrontarle mascherando con un sorriso quella piccola voglia di guardare negli occhi l’altra persona e domandarle “Ma mi stai prendendo in giro?”. Ne è un esempio (congruente anche al film) quel che accade alle persone con qualche chilo in più quando si sentono dire dall’amica filiforme “Vorrei tanto ingrassare ma guarda, mangio di tutto e proprio non ci riesco”, o ciò che capita a chi arriva con difficoltà a fine mese ma viene ammorbato dal vicino che si lamenta “Quante spese ad agosto! Tra Santorini e Formentera, è andato via tutto lo stipendio!”.

Viene facile però riprendersi dall’ ilarità e chiedersi “Sarà mica la classica banale commedia in cui le belle sono arpie patentate e la grassottelle sono ingenue Candy Candy?

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO – COME TI DIVENTO BELLA: IL TRAILER

Come ti divento bella: l’insicurezza come antagonista

In realtà non è così…la vita di Renée è fatta di una grande passione: la moda. Legge riviste di moda e lavora in una casa di moda, ma in una sede distaccata, in un sottoscala, in un appartamento di China Town. Il sogno è quello di ricoprire la posizione di receptionist ai piani alti, proprio lì dove il suo idolo, nonché amministratrice dell’azienda per cui lavora, Avery Laclaire, bellissima, ha i suoi uffici e scambia idee con i suoi dipendenti, anche loro bellissimi.

Fin da subito è chiaro chi sia la nemica di Renée: l’insicurezza. Un’insicurezza paralizzante, alla base della sua goffaggine, alla base del suo essere single, alla base di una carriera che non riesce a spiccare. Renée non riesce a vedersi come vorrebbe, nonostante gli sforzi, nonostante le amiche che le ricordano che la bellezza è fuori dalle lucide riviste di gossip. La protagonista è costantemente bloccata da tutta quella insicurezza.

In una delle sue lezioni in palestra, però, Renée cade da una cyclette (la goffaggine non aiuta), battendo violentemente la testa. Si risveglierà dopo la botta e…finalmente vedrà allo specchio una Renée diversa (sebbene gli altri continueranno a vederla come prima), una Renée bellissima, dal fisico stupendo che non ha nulla da invidiare alle modelle delle riviste che legge: la Renée che la stessa Renée ha sempre sognato. Una ristrutturazione cognitiva lampo, insomma, o una sessione di imagery molto vivida e lo sguardo di Renée verso se stessa e soprattutto verso la vita cambia drasticamente.

La protagonista diventa finalmente più sicura di sé, ed è grazie a questo che riesce ad affrontare la vita mettendo in mostra i suoi lati positivi, quelli che le consentono di piacere realmente agli altri, al di là dell’aspetto fisico.

Riacquisita la sicurezza che le mancava, come cambierà la vita di Renée? Di sicuro in meglio, perché migliorare la propria autostima fa bene a tutti (senza cadere in un marcato egoismo però, e questo anche il film lo sottolinea).

Come ti divento bella: l’importanza di vedere realmente l’altro

Sebbene la trama si possa immaginare, non sarebbe corretto farvi ulteriori spoiler, tuttavia ci tengo a precisare che un altro messaggio che il film passa (e che per fortuna lo porta a non cadere nell’analogia ragazza bella=arpia, ragazza in carne=ingenua Candy Candy) è che anche le persone che ci sembrano perfette, a volte hanno un aspetto di sé o una difficoltà contro cui devono combattere tutti i giorni.

Questo ci porta a riflettere quindi su come spesso, lo stesso sguardo a nostro dire superficiale, che crediamo che gli altri rivolgano a noi, lo rivolgiamo spesso anche noi verso gli altri, con il rischio che nessuno veda davvero chi ha di fronte e che, distratti dall’aspetto esteriore, nessuno capisca davvero i problemi altrui. Insomma, una sorta di validazione e normalizzazione sul grande schermo, che riesce a rendere più simpatici l’amica filiforme e il vicino vacanziero di cui sopra (e la Ratajkowski, sulle cui doti recitative mi sono dovuta ricredere).

Assolutamente degna di nota anche la scelta di non mostrare mai, nel film, qual è la versione post-botta che Renée vede di sé allo specchio. L’ho trovato un modo per far comprendere al pubblico quanto basti solo modificare il pensiero che si ha di sé, per stare bene, per riprendere in mano la propria vita. Non serve altro. Una ristrutturazione cognitiva che farebbe bene a tutti insomma…evitando magari le botte in testa!

Il terapeuta sintonizzato: premessa al resoconto sul IV Seminario sulla Disciplina Interiore del Terapeuta

Quando penso alla sintonizzazione, per come l’ho capita negli anni, penso che a noi terapeuti l’enigma della Sfinge ci fa un baffo. Per evitare di essere divorato dal paziente – o meglio, da ciò che il paziente rappresenta per lui – il terapeuta deve rispondere correttamente a tre domande che il paziente gli pone. In assenza di indizi. E per di più poste da una Sfinge che non è assolutamente consapevole di porre queste domande.

 

Il terapeuta e il paziente sono sullo stesso sentiero

(D. Brazier)

Il comportamento di attaccamento,

che emerge durante il primo anno di vita,

richiede tempo per svilupparsi,

mentre una conversazione intima

può verificarsi con uno sconosciuto,

che si potrebbe non rivedere mai più

(Russel Meares)

 

“Mi chiede insistentemente cosa deve fare. Se deve lasciare o no il fidanzato.

È un fiume in piena, mi racconta una valanga di informazioni e se cerco di intervenire ho anche la sensazione che si infastidisca. Non riesco mai a far finire la seduta in tempo.

Viene da quasi un anno in terapia e non posso fare a meno di pensare che non ci siamo mossi di un passo.

Mi manda messaggi chilometrici, ormai quasi ogni giorno, più volte al giorno, e se non rispondo mi manda un ultimo messaggio tagliente per farmi capire che è arrabbiato, e poi nella seduta successiva è faticosissimo fargli capire che non ho risposto perché proprio non potevo.

Si mette a parlare male della moglie per venti minuti di orologio, concludendo che forse non è mai stata veramente adatta a lui, perché nella vita lui si sente un leader e ha bisogno di un’altra, della donna giusta accanto. Lì non ho potuto fare a meno di mettermi nei panni di questa povera donna, ed è stato più forte di me, non me ne fregava di sbagliare: sono stato capace di dirgli, testuali parole: ‘veramente dai suoi discorsi non si evincono tanto le caratteristiche del leader; un leader vero me lo immagino come una persona capace prima di tutto di capire l’animo del prossimo, e dai suoi discorsi non si sente tanto questa tendenza”

Ai terapeuti roba del genere capita. È spesso la ragione per cui molti terapeuti portano un caso in supervisione. Sì, d’accordo, state pensando: ‘niente di nuovo, i soliti cicli interpersonali (Safran & Segal, 1993; Dimaggio & Semerari, 2007) da cui un terapeuta sufficientemente addestrato può riuscire a disingaggiarsi. Per esempio, il paziente incalza, vuole soluzioni pratiche ai suoi problemi; il terapeuta si sente impotente e inefficace perché alla scuola di specializzazione, nei week end in cui insegnavano a piegare la realtà come Doctor Strange della Marvel, aveva l’influenza; quindi eroga interventi e protocolli un po’ a casaccio, oppure si arrocca sul proprio modello (nel disperato tentativo di sentirsi meno inefficace); interventi, protocolli e modelli tendono a non funzionare (tende a capitare, se l’assetto interno di chi li dispensa è problematico); il paziente non si sente compreso e incalza ancora di più, e così via, fino a eventuali rotture o stalli.

Il fatto è che c’è un problema che viene prima dei cicli interpersonali e che molto spesso – al netto delle dinamiche patologiche del paziente – predispone alla loro occorrenza. In tutti i frammenti riportati all’inizio il problema che viene prima è che il terapeuta non è sintonizzato con il paziente, forse non è stato sintonizzato sin dall’inizio. I cicli possono essere una delle conseguenze generate della mancata sintonizzazione; ma la mancata sintonizzazione costituisce un problema, prima che per ciò che genera, per ciò che non genera: non genera le risposte adeguate a una serie di domande implicite poste dal paziente.

Quando penso alla sintonizzazione, per come l’ho capita negli anni, penso che a noi terapeuti l’enigma della Sfinge ci fa un baffo. Per evitare di essere divorato (o strangolato, secondo altre fonti), Edipo doveva rispondere a un solo quesito sulla base di tre indizi (chi è contemporaneamente bipede, tripede e quadrupede?). Per evitare di essere divorato dal paziente – o meglio, da ciò che il paziente rappresenta per lui – il terapeuta deve rispondere correttamente a tre domande che il paziente gli pone. In assenza di indizi. E per di più poste da una Sfinge che non è assolutamente consapevole di porre queste domande.

Sicurezza: la prima domanda del paziente

La prima domanda è quella di sicurezza, nel senso inteso da Stephen Porges (2014, 2018); domanda che l’autore considerava, con densità di significato secondo me sottovalutata dalla maggior parte dei clinici, un preambolo all’attaccamento: la sua soddisfazione è precondizione per l’instaurarsi di un attaccamento sicuro. Il paziente che incontra il terapeuta incontra pur sempre un estraneo. Il suo sistema di rilevazione della minaccia registrerà al di fuori della consapevolezza se l’estraneo e l’ambiente dell’incontro sono sicuri, e quanto c’è veramente da fidarsi dell’autenticità dei segnali di ingaggio sociale che l’altro sta inviando. A livelli impliciti, corporei, attraverso un processo inconscio che Porges chiama neurocezione, l’organismo del paziente letteralmente reagirà all’organismo del terapeuta. Prendiamo un terapeuta che incontra un nuovo paziente, o che incontra di nuovo un paziente con cui c’è uno stallo. Diciamo che è un terapeuta preparato, colto, intelligente, capace di mostrare un’attitudine interpersonale limata dallo studio approfondito dei processi della relazione terapeutica; ma magari è sottilmente ansioso, perché la seduta è per lui un banco di prova del proprio valore, e il demone del giudizio che di solito sonnecchia inizia a dare i primi segni di un imminente risveglio. Non se ne rende conto, ma compie atti respiratori superficiali, ha una frequenza cardiaca accelerata, e parlerà al paziente – dicendo cose intelligentissime, per carità – con una voce poco prosodica, forse con frasi brevi e smorzate. Nel complesso, questo terapeuta trasmetterà all’organismo del paziente segnali che a livelli altrettanto sottili lo agiteranno, o aumenteranno l’agitazione già presente, o comunque gli impediranno l’accesso a quello stato di sicurezza che predispone la mente a osservare sé stessa. A esplorare i contenuti psicologici.

Un terapeuta capace di sintonizzarsi è invece quello che non vive l’incontro con l’altro come uno spazio in cui ci sarà qualcosa da dimostrare a qualcuno. Che è capace di rilassarsi e vivere la seduta con curiosità e partecipazione. Che è abituato a compiere profonde espirazioni mentre dialoga, e a usare una voce prosodica e ricca di modulazioni, un’espressione mimica che risuona prontamente e senza sforzo alle espressioni e ai contenuti manifestati dal paziente. Questo terapeuta dice all’organismo del paziente qui sei al sicuro, e il tuo corpo ricorderà questa esperienza, vorrà ripeterla, quindi puoi rilassarti, e possiamo esplorare insieme il tuo mondo interno.

Essere visto: la seconda domanda del paziente

Un terapeuta sintonizzato è quello capace di rispondere correttamente anche alla seconda domanda implicita del paziente. Si tratta del bisogno che porterebbe chiunque di noi, come disse uno scrittore della mia città “a consegnarsi mani e piedi a un estraneo” pur di vederlo esaudito: essere visto, veramente. La speranza è che un altro riconosca e capisca l’unicità e il valore del flusso della propria esperienza interiore. Sappia scorgere in noi lo strato profondo, il “nucleo di esistenza personale”. James lo chiamava il Sé di tutti gli altri sé, paragonandolo a un santuario racchiuso all’interno di una cittadella (1890). Una cittadella molto spesso inespugnabile, inaccessibile al suo stesso possessore. Il terapeuta sintonizzato è quello che mantiene costantemente accesa la sonda che rileva il flusso dell’esperienza interiore del paziente. Russerl Meares (2005), rispolverando James (che tra l’altro, non ha manco tanto bisogno di essere rispolverato), parla della sintonizzazione come una connessione tra un “me” e un altro che viene avvertito come parte della mia esperienza. L’altro, il terapeuta, media la consapevolezza della costante presenza in me di una vita interiore, o come direbbe James, del flusso di coscienza in cui consiste nella sostanza il Sé. Questo flusso sta, soprattutto all’inizio della terapia, e soprattutto con i pazienti meno capaci di stabilire un contatto con quel flusso, dietro le parole e le conversazioni “convenzionali”. La conversazione “convenzionale” è fatta di segni, ossia ciò che dice il paziente rimanda ad aspetti “convenzionali” della realtà collettivamente percepita. La fidanzata o il fidanzato rompiscatole rimandano a fidanzate o fidanzati rompiscatole come convenzionalmente intesi, non diversamente da come un altro segno, le strisce di attraversamento pedonale, rimandano per tutti noi a quel segnale che fa capire che è proprio lì che è meglio attraversare la strada se si vuole ridurre il rischio di essere investiti.

Il terapeuta sintonizzato è quello che dietro la “stessa storia monotona” come la definiva Janet (1911, cit in Meares, 2005), dietro il flusso dei segni convenzionali del paziente, riesce a rintracciare momento per momento un processo interiore in atto, che deve restituire al paziente. Quello che mette il paziente in condizione di connettersi meglio possibile con la propria soggettività, con il flusso delle proprie esperienze interne. Il terapeuta non sintonizzato è invece quello che, non interessato ad azionare (o non capace di farlo) la sonda che dietro la comunicazione segnica ricerca costantemente il flusso di esperienza interna, si assesta sul registro della comunicazione convenzionale. Non azionare quella sonda determina la più desolante delle conseguenze rispetto al dialogo terapeutico: la tendenza a entrare nel merito. Entrare nel merito può significare, per esempio, pensare che si stia veramente parlando di fidanzate rompiscatole. E magari cercare di confutare le convinzioni del paziente su quanto sia rompiscatole la sua fidanzata, o addirittura chiedersi se non sia forse meglio aiutarlo a lasciarla per farlo stare meglio (pensa il terapeuta: ‘se lascia la fidanzata non soffrirà più, se non altro smetterà di lamentarsi, la terapia riuscirà, e io mi piacerò di più allo specchio domattina’,). Esattamente il contrario di quello che serve per condurre una buona seduta, una buona terapia, che dovrebbe partire dal presupposto che ciò che dice il paziente è solo il significante degli elementi del flusso dell’esperienza interna che è nostro obiettivo intercettare; dal presupposto che la fidanzata rompiscatole è una delle molteplici tracce che un elemento dell’esperienza interna può lasciare alla coscienza per aiutarla ad accedere a quel santuario del Sé. Così, per esempio, percorrendo in modo tecnicamente orientato il flusso dell’esperienza interna, a partire dal significante fidanzata rompiscatole, si può pervenire a un nucleo insospettato: l’angoscia di sentirsi sbagliato, deludente per chiunque diventi significativo.

Accettare i bigliettini da visita: la terza domanda del paziente

Infine, la terza domanda implicita posta da ogni paziente. Che la pancia del terapeuta comprenda un punto fondamentale (e agisca di conseguenza): il paziente non ha alcuna colpa se le sue tasche sono state riempite a sua insaputa da innumerevoli copie di un biglietto da visita. Il biglietto da visita che ci presenta sin dal primo momento della prima seduta. Anzi, a molti capita già al telefono, quando ci accordiamo per l’appuntamento. Quando tra colleghi, magari nella pausa pranzo, parliamo di pazienti, per la maggior parte del tempo parliamo di questo biglietto da visita e dell’effetto che ci fa. Sul biglietto da visita sono scritti, che so, gli occhi fissi sulle nostre scrivanie e mai nei nostri occhi; le risposte monosillabiche alle nostre domande, che dopo un po’ nostro malgrado diventano poliziesche; le richieste urgenti e tiranniche di aiuto, e i velati rimproveri se l’aiuto non arriva prontamente; la delusione malcelata per i risultati-che-non-arrivano-eppure-sono già-quaranta-secondi-che-sto-in-terapia; l’espressione sfottente mentre ci imbraniamo con la compilazione di una fattura (manco fossimo Fantozzi davanti al MegaDirettoreGalattico). Non solo cose sgradevoli, anche cose gradevolissime: sul biglietto possono esserci anche i complimenti che ci fanno sentire speciali e ci rendono improvvisamente più recettivi ai colori e agli odori della natura quando lasciamo lo studio, soprattutto se l’estate è abbastanza vicina.

Come vuole la nostra TMI (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013; Dimaggio, Ottavi, Popolo & Salvatore, in corso di stampa), quel biglietto da visita è la manifestazione di una contromisura contro gli effetti devastanti dell’aspettativa negativa di come il mondo risponderà a bisogni fondamentali. Vorrei essere amato e accudito, mi aspetto di essere maltrattato, divento diffidente; la cosa funziona perché la diffidenza mi fa sentire forte e intelligente, non di cristallo come si sente di solito il me maltrattato; e siccome funziona, si automantiene; pura e semplice questione di sopravvivenza; e finisce che tratto l’altro come se avesse fatto qualcosa di gravissimo. Quando l’altro è il terapeuta, quest’ultimo davanti a me si sentirà in colpa e non saprà perché, e gli verranno in mente ricordi di patatine rubate di nascosto alle feste di compleanno delle elementari. O ancora, vorrei essere apprezzato per le mie qualità, mi aspetto di essere umiliato, la mia vita diventa una costante ricerca di un pubblico ammirante per tener a debita distanza lo spettro dell’umiliazione. Il terapeuta che si comporti come il pubblico fiacco di un artista nella fase calante della carriera subirà la condanna della sconfitta umiliante che io passo la vita a cercare di scongiurare.

Il terapeuta dovrebbe accettare con gentilezza, apertura, curiosità il biglietto da visita, soprattutto sulla base della consapevolezza che anche nelle sue tasche c’è un biglietto simile, e che per il paziente come per sé stesso le cose più importanti sono quelle scritte nella facciata posteriore. Solo così gli sarà possibile stabilire una risonanza interpersonale (Lewenson, 1995, cit in Meares, 2005), con cui si intende quel processo che ha l’effetto di innescare la trasformazione di un sistema in precedenza lineare in un altro dotato di complessità. Il terapeuta capace di accettare con rispetto e delicatezza il biglietto da visita del paziente, di rispettare le strategie relazionali stratificate sui nuclei più profondi dell’identità, sarà in grado di accompagnare il paziente ai bisogni fondamentali che stanno dietro.

Paziente e terapauta tra sistemi motivazionali

Ora, torniamo a quei cinque scenari descritti all’inizio di questo scritto. Che sta succedendo nell’animo – e nell’organismo – del terapeuta in quei cinque scenari? Il quesito si può formulare anche in modo più tecnico: quale sistema motivazionale è attivo e sta guidando il terapeuta? Qualche indizio: in tutti e cinque i casi, poco ma sicuro, qualsiasi cosa anche remotamente assimilabile alla gioia di vivere è lontanissima dalla stanza della terapia. In tutti e cinque i casi le emozioni evocate dalla relazione con il paziente hanno tono edonico negativo. Noia, irritazione, rabbia, sovraccarico, costrizione, indignazione. La soluzione all’indovinello è facile. L’assetto interno del terapeuta è regolato dal sistema di affermazione e difesa del rango. Ogni terapeuta, in fondo al proprio animo, lo sa come funziona peculiarmente questo sistema dentro di sé. Al netto della quota regolata, per tutti noi, dalla lotta della sopravvivenza, che è anche lotta per la sopravvivenza di un’immagine positiva di noi stessi (a quanto pare veniamo al mondo con la consegna genetica di essere per forza superiori a qualcuno per poter respirare a pieni polmoni) cosa rimane? Gli elementi della propria storia personale che conferiscono una trama specifica, una declinazione idiosincratica a quella lotta a cui siamo destinati. E quegli elementi autobiografici in moltissimi casi rendono quella trama avvincente e tragica, perché ne costituiscono le innumerevoli violazioni di canonicità: sono i pezzi della storia di vita dove stanno le cose andate per il verso storto, gli intoppi nel percorso che nel migliore dei mondi possibili dovrebbe condurre all’essere in pace con sé stessi, consapevoli del proprio valore. Sguardi delusi di madri davanti ai nostri segni di insicurezza, commenti rapidi e taglienti di padri, magari sul percorso di studi scelto (‘ma in fondo che fa esattamente uno psicologo, si fa pagare per parlare?’), giudizi caustici nei momenti in cui c’era bisogno solo di un abbraccio. Sono i ‘la tua amica ha avuto 9, perché tu hai avuto 8 visto che non sei certo meno brava di lei?’; gli innumerevoli ‘potevi fare meglio’; i ‘sei il più bravo della classe’ detti con l’intonazione dell’aposiopesi, perché la parte più rilevante è la postilla omessa: ‘quindi mi aspetto che tu lo sia sempre’). E tanto, tanto altro.

Questo è il carico che tutti i terapeuti sostengono. Certo, i giovani di più. Ma non è detto. Forse gli esperti hanno solo imparato meglio a ignorarlo, o hanno accumulato fonti alternative di gratificazione dell’autostima, utilissime a rendere inoffensiva la minaccia di un paziente che non risponde ai loro interventi, ai loro modelli, ai loro protocolli.

In sintesi: il paziente fa solo il suo mestiere, soffre, spesso tanto, ma non sa perché, o crede solo di saperlo, e vorrebbe risposte, vorrebbe solo essere traghettato il più lontano possibile dalla sofferenza. È facile, soprattutto se la richiesta del paziente è pressante e “magica”, e soprattutto se – accade quasi sempre, ed è pure comprensibile – il paziente non ha una rappresentazione chiara di cosa si fa in una psicoterapia e di come esattamente la psicoterapia possa aiutarlo, che il terapeuta senta minacciata l’immagine positiva di sé, e che la voglia difendere coi denti. Il sistema del rango è attivo, gli schemi del terapeuta attivano strategie di coping cablate su sistemi motivazionali tendenzialmente incompatibili con la sintonizzazione: il paziente diventa un avversario. E se il paziente diventa un avversario, si verifica il problema che credo sia alla base di tutto ciò che non funziona in una seduta e in una terapia: è ostacolato il processo di sintonizzazione.

Aiutare i terapeuti a superare gli ostacoli personali al processo di sintonizzazione con il paziente è l’obiettivo dei Seminari sulla Disciplina Interiore del Terapeuta.

Nella prossima puntata riporteremo una serie di testimonianze redatte dai partecipanti dopo l’esperienza del IV Seminario.

Bambini e status sociale: i più piccoli riconoscono gli individui di status elevato?

I bambini non solo sono in grado di percepire le dinamiche che coinvolgono lo status sociale ma, come avviene anche in altri animali, sembrano preferire le persone di status elevato ma solo se il loro ruolo è riconosciuto dagli altri e non rivendicato con la forza fisica.

 

Abbandonata la visione comportamentista che concepiva l’individuo alla nascita come una tabula rasa, moltissime ricerche, negli ultimi decenni, hanno evidenziato la presenza di una moltitudine di abilità nei neonati. Sulla base di questi studi, si è passati da una visione del neonato come passivo nei confronti dell’ambiente, ad attivo costruttore della propria esperienza.

A tal proposito, uno studio recente condotto dai ricercatori di Aarhus BSS e dall’Università della California Irvine ha messo in evidenza che i bambini sono in grado di percepire le dinamiche inerenti allo status sociale e, sulla base di questo, scegliere quali persone preferiscono o non preferiscono.

In precedenza, Lotte Thomsen, professore di psicologia all’Università di Oslo e professore associato presso Aarhus BSS, e i suoi colleghi, avevano dimostrato che i neonati di nove mesi erano in grado di cogliere situazioni in cui vi erano dei conflitti di interessi.

Sulla base di questo studio, il nuovo obiettivo dei ricercatori è stato quello di comprendere come i bambini percepiscono lo status sociale e come reagiscono a individui di alto e basso status. A questo riguardo, Ashley Thomas della UCI Irvine afferma che il modo in cui ci si comporti in un conflitto di interessi rivela qualcosa sul proprio status sociale.

La ricerca

Per rispondere a tali quesiti, gli studiosi hanno utilizzato un paradigma di base che prevedeva la presenza di due burattini che tentavano di attraversare un palco in direzioni opposte. Quando questi si incontravano nel mezzo, si bloccavano a vicenda. Un burattino poi cedeva all’altro spostandosi di lato, permettendo così all’altro burattino di continuare e raggiungere l’obiettivo di attraversare il palco.

Successivamente, ai bambini, tra 21 e 31 mesi, sono stati presentati i due pupazzi. In questa condizione sperimentale, venti bambini su ventitrè hanno raggiunto il fantoccio che aveva “vinto” il conflitto, ovvero il fantoccio che aveva attraversato il palco. I bambini preferivano il burattino di alto rango rispetto a quello a cui altri si arrendevano volontariamente.

A seguire, lo scopo dei ricercatori è stato quello di esplorare se i bambini avessero preferito ancora il burattino vincente nel caso in cui quest’ultimo avesse vinto utilizzando la forza.

A questo punto, i ricercatori hanno esposto un nuovo gruppo di neonati alla stessa situazione sperimentale con la differenza che, questa volta, un burattino avrebbe forzatamente colpito l’altro fantoccio per raggiungere il suo obiettivo.

In questa condizione sperimentale, diciotto bambini su ventidue hanno evitato il burattino vincente e hanno invece raggiunto la vittima.

Conclusioni

I bambini, quindi, non solo sono in grado di percepire le dinamiche che coinvolgono lo status sociale ma, come avviene anche in altri animali, sembrano preferire le persone di status elevato, ma solo se il loro ruolo è riconosciuto dagli altri. Al contrario, i neonati sembrano evitare coloro che per mantenere il proprio ruolo ricorrono all’utilizzo della forza fisica.

È interessante notare come i bambini, in questa condizione, differiscono dai nostri parenti primati più vicini, le scimmie bonobo, che invece raggiungono ancora coloro che usano la forza fisica per mantenere alto il proprio rango.

Lo stile di attaccamento influenza il modo in cui utilizziamo i Social Network? Il caso di Facebook

Recentemente l’uso di Facebook è stato associato a diversi fattori psicologici negativi quali solitudine, ansia, bassa autostima e depressione, che alcuni autori hanno cercato di mettere in relazione anche rispetto allo stile di attaccamento degli utenti.

 

Una nuova ricerca, pubblicata su BMC Psychology, ha esaminato il legame esistente tra un uso problematico di Facebook e lo stile di attaccamento di una persona. L’autrice dello studio, Sally Flynn, riferisce che: “Vista la crescita smisurata nell’utilizzo dei social media, ci è sembrato interessante analizzarne le conseguenze a livello psicologico, in quanto riteniamo non siano state indagate abbastanza”.

Recentemente l’uso di Facebook è stato infatti associato a diversi fattori psicologici negativi, quali aumento di solitudine, ansia, bassa autostima e depressione. Incuriositi da ciò, gli autori dello studio hanno cercato di capire cosa potesse nascondersi all’origine di un uso problematico di Facebook.

I pressuposti teorici dello studio

La Teoria dell’ attaccamento, nei contributi dei diversi autori che nel corso degli anni si sono approcciati allo studio di questo argomento, ha rappresentato l’assunto teorico di riferimento sul quale è stato sviluppato l’intero progetto di ricerca di Flynn e colleghi. Secondo i sostenitori della Teoria dell’ attaccamento, tutti gli individui nascono con un innato desiderio di formare legami affettivi con gli altri, desiderio che permane per tutta la vita. Il primo e fondamentale legame è quello che nasce con la madre (o caregiver) con cui si sviluppa un tipo di attaccamento che potrà essere sicuro o insicuro.

Avere un attaccamento sicuro significa sentirsi sicuri e protetti, mentre avere uno stile di attaccamento insicuro implica una serie di emozioni contrastanti verso la propria figura di accudimento primaria; sono stati identificati diversi tipi di attaccamento insicuro: evitante, ansioso-ambivalente e disorganizzato.

Per tutta la durata della vita gli individui continuano a cercare legami e connessioni con gli altri, che cambiano a seconda del tipo di attaccamento che si ha. Nella fase di vita adulta, per esempio, persone che hanno uno stile di attaccamento ansioso concordano con affermazioni del tipo “Ho paura che perderò l’amore del mio partner”; invece, persone con uno stile di attaccamento evitante concordano maggiormente con frasi del tipo “Mi sento a disagio quando il mio partner vuole essere molto vicino”.

Gli autori sostengono che le persone, su Facebook, assumono una serie di comportamenti coerenti con il proprio stile di attaccamento e quando lo stile di attaccamento è insicuro i comportamenti online potrebbero risultare problematici.

Stile di attaccamento e utilizzo di Facebook: la ricerca

Lo studio ha coinvolto 717 utenti di Facebook, ai quali è stato richiesto di rispondere ad un test che aveva lo scopo di indagare diverse variabili psicologiche, tra cui l’autostima e lo stile di attaccamento, inoltre è stato esaminato il comportamento di questi utenti su Facebook.

È emerso che coloro i quali avevano un stile di attaccamento di tipo ansioso su Facebook tendevano ad assumere comportamenti specifici quali: fare confronti tra sé e gli altri, creare una falsa immagine di sé e condividere eccessivamente informazioni personali; inoltre tendevano ad un sovrautilizzo di Facebook a scapito di altre attività.

I partecipanti con un attaccamento evitante, invece, presentavano solo alcuni di questi comportamenti quali: creare una falsa immagine di sé e sovrautilizzo di Facebook a scapito di altre attività.

Inoltre, è emerso che questi comportamenti disadattivi sono più forti per le persone che hanno bassa autostima e alto disagio psicologico.

Conclusioni e limiti dello studio

Il punto cruciale della questione, che i ricercatori tengono a sottolineare, sta nel fatto che non è Facebook ad essere in sé e per sé pericoloso, ma è piuttosto il modo in cui alcune persone si approcciano ad esso che può risultare problematico.

Gli autori sperano che lo studio possa rendere gli utenti più consapevoli dei propri comportamenti disadattivi assunti online e che possa aiutare a modificare gli aspetti in questione.

D’altro canto, lo studio presenta alcuni limiti: il campionamento trasversale non permette di trarre conclusioni causa-effetto, inoltre l’utilizzo di self-report può aver determinato alcuni bias rispetto ai risultati.

Alcune questioni rimangono ancora aperte e da approfondire. Mentre è chiara infatti l’associazione tra disagio psicologico, autostima e uso problematico di Facebook, sono invece necessari ulteriori approfondimenti sulla correlazione esistente tra stile di attaccamento e specifici comportamenti online.

Sulla mia pelle (2018) di Alessio Cremonini: l’indifferenza che ha ucciso Stefano Cucchi – Recensione del film

Senza parole, paralizzati tra la vergogna e la confusione, con un sottofondo di rabbia che mette sottosopra le viscere…Purtroppo si fa a fatica ad arrivare alla fine di Sulla mia pelle, il dolore ti travolge e ti scava dentro fino a lasciarti senza parole, senza la forza di argomentare.

 

Uno Stefano Cucchi raccontato con tutti i suoi difetti e con quel carattere un po’ ribelle, la corruzione a più livelli di tutti gli organi istituzionali che sono intervenuti, e il dolore di una famiglia a cui non è stato concesso nulla, neanche la possibilità di accompagnare il figlio alla morte.

Il film Sulla mia pelle di Alessio Cremonini non fa sconti a nessuno, e racconta minuziosamente la storia di Stefano Cucchi arrestato per spaccio a ottobre del 2009 e morto dopo 7 giorni nella completa solitudine e nella totale indifferenza di tutti coloro che hanno interagito con lui in quei giorni.

Sulla mia pelle: nel labirinto dell’omertà

Dopo l’evento iniziale di un pestaggio gratuito da parte dei carabinieri che lo arrestano, si assiste lentamente ad una serie di incurie, vizi del sistema, omertà, che lo lasceranno morire nella più totale solitudine, che lasceranno che quel corpo si spenga senza nessuna pietà. L’unico interlocutore affettuoso è un altro carcerato di cui si sente solo la voce, che a tratti gli dona sostegno e accompagna le sue notti buie e agonizzanti.

Quello che più colpisce non è il pestaggio da parte delle forze dell’ordine, che dovrebbero assicurare una protezione di fatto negata, ma il dopo, un labirinto di omertà in cui tutti sanno e nessuno si assume la responsabilità: la cecità di un giudice che interroga l’indagato e non lo guarda in faccia, la cecità di un pubblico ministero che non prende provvedimenti, l’indifferenza, la mancanza di professionalità da parte di medici e infermieri, che non curano e non sostengono, l’impotenza dei volontari, l’egoismo e la cecità della guardia carceraria che si occupa solo di sapere “se c’è un certificato perché non vuole problemi”.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO – SULLA MIA PELLE: IL TRAILER DEL FILM

Tutti ciechi e muti, di fronte ad uno Stefano Cucchi interpretato da un eccellente Alessandro Borghi, che in qualche modo ci prova a chiedere aiuto e a denunciare . La famiglia scossa e disorientata non capisce in tempo, non ha strumenti e nella solitudine di istituzioni assenti e ostili prova a cercare di capire; nessuno risponde, nessuno si assume le proprie responsabilità.

Di qualunque cosa un uomo sia colpevole, lo Stato, la giustizia e le istituzioni non dovrebbero mai sostituirsi alla legge. Una vicenda che lascia scossi, arrabbiati, indignati, non perché Stefano Cucchi fosse un santo, ma perché nessuna istituzione è stata in grado di fermare l’orribile giostra della violenza e della menzogna. Bastava solo guardarlo in faccia “se si cade dalle scale è strano che si pestano gli occhi e il naso rimane intatto“. Non solo è grave che sia accaduto il fatto ma ancor di più lo sono le menzogne e i ritocchini sugli atti pubblici.

Non ha funzionato il sistema, non ha funzionato l’amore della sua famiglia, non ha funzionato il personale del carcere, non hanno funzionato i medici, non ha funzionato la Magistratura, non ha funzionato nessuno e forse non funzioniamo noi che non ci riprendiamo la libertà e la dignità di riprenderci uno Stato che ci tuteli e che non ci metta in pericolo. L’indifferenza che fa da padrona crea morte e distruzione.

Sulla mia pelle, un film emotivamente sfiancante, che toglie il respiro, ma che andrebbe visto in tutte le scuole, in tutte le case, in tutti i luoghi, non per santificare un uomo che di torti ne aveva tanti, ma solo per comprendere che non sempre si può sottovalutare e dare per scontato di essere al sicuro. Un film per riflettere insieme su compiti e responsabilità, sul confine tra male e bene, sulla possibilità di restaurare un sistema pieno di gente per bene che però in alcuni casi fa acqua da tutte le parti, un film per farci pensare che siamo tutti responsabili della società in cui viviamo, che non scegliere è comunque una scelta, che non puoi non decidere da che parte stare, che se rimani immobile il destino segna il posto per te.

 

Country for old men (2018): l’ emigrazione dei pensionati verso Paesi dalla fiscalità più accogliente – Recensione del film documentario

Nel 2007 i fratelli Coen, col loro Non è un paese per vecchi, creavano un film che sarebbe diventato iconico, simbolo anche linguistico di derive umane e sociali che percorrevano le nostre latitudini; nel 2017 Stefano Cravero e Pietro Jona realizzano un documentario, in uscita tra pochi giorni, dal titolo esattamente opposto, Country for old men.

 

E il tema è a suo modo singolare, originale. Cittadini americani in esilio a Cotacachi, Ecuador. Pensionati spinti sulle Ande dall’impossibilità di vivere dignitosamente nel loro paese, dall’insofferenza verso un’America che non riconoscono (più), da entrambe le motivazioni o da qualcosa che per ciascuno di loro è soggettivo, personale. L’emigrazione di pensionati da paesi del mondo occidentale verso lidi dalla fiscalità più accogliente, con un sistema economico alla loro portata e talvolta il beneficio accessorio di un clima temperato non è di per sé una notizia né una novità.

Non più, ormai. Ciò che Country for old men esplora è una dimensione più inaspettata, un caso singolo che si discosta almeno in parte dalle logiche che governano gli altri. L’America dei nuovi muri, l’America dei gringos invasori commerciali si rivela insospettabilmente – o forse con acquisita prevedibilità – terra di sfilacciamenti che cercano di ricomporsi altrove.

Ci sono pensionati che non ce la fanno e riparano a Cotacachi dove i loro dollari risicati diventano sufficienti, persino abbondanti a volte; gente comune logorata dall’America delle guerre immaginarie, delle armi anche in tempo di pace, gente comune che vuole sentirsi finalmente al sicuro nelle benedette politiche ecuadoregne di contrasto alle armi; madri che dopo morte non vorranno fare ritorno in patria ma sciogliersi in ceneri fra le acque del fiume, anche a costo di finire in bocca a una trota.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM DOCUMENTARIO COUNTRY FOR OLD MEN:

L’integrazione di questa umanità segue e rispetta i modi di ogni integrazione in qualunque luogo del mondo: alcuni cercano, quasi buffi, di imparare la lingua locale per muoversi al mercato senza sentirsi stranieri, altri escono a fare la spesa e tornano a casa per esserlo, stranieri attaccati ai notiziari americani; se alcuni vivono il materializzarsi di un esilio ben poco eroico, per altri è la rinascita dello stare insieme, del ballo, della condivisione.

Si finisce addirittura per detestare l’arrivo di nuovi americani, ché un luogo dove ci si sente finalmente liberi non diventi una nuova colonia con le gabbie di ogni colonia. Cotacachi è un universo inconcepibile per chi ha trascorso la sua prima vita immerso nei valori del sogno americano, nel sentimento anti latinos e nella contrapposizione, tanto reale negli esiti concreti quanto distorta dalle fantasie (guidate?) dei popoli, fra due culture diffidenti l’una dell’altra, impossibili da assimilare per mentalità e stili di vita.

Un movimento alla volta e i due mondi appaiono sovrapponibili, si confondono per diventare uno solo. Il pensionato americano scopre di poter essere curato negli ospedali del sistema rivale, sentendosi forse più al sicuro e meno strangolato dalla morsa competitiva che lo poneva sempre a confronto con lo spettro dell’esclusione.

Country for old men è un racconto, dà voce a esperienze che restituiscono il senso di una similarità capace di umanizzare le differenze; un viaggio in un luogo piccolo, custodito, al quale si giunge mossi da una condizione di debolezza, talvolta di malinconia, quasi sempre dovendo affrontare un cambiamento che in altre fasi della vita non si sarebbe previsto né desiderato. E questi anziani migranti americani colpiscono perché la maggior parte di loro riesce a dare significato a ciò che altrimenti sarebbe un crepuscolo venato di un senso di ingiustizia; la migrazione diventa incontro sorprendente, una riscoperta di sé che Country for old men osserva e ricostruisce bilanciando le parole consapevoli, i passi incerti, l’energia matura o ingenua di chi fugge o rinasce a Cotacachi.

COUNTRY FOR OLD MEN: LA PAROLA A PIETRO JONA E STEFANO CRAVERO

Piperazine: usi ed effetti della droga – Introduzione alla Psicologia

Le piperazine si trovano sotto forma di capsule o pasticche, più raramente sotto forma di polvere, costituiscono un’alternativa all’ecstasy e hanno addirittura superato la vendita della stessa.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La piperazina, detta anche “droga legale”, è un composto chimico appartenente alla classe degli eterociclici, di formula bruta C4H₁0N₂, con struttura di esaidroderivato della pirazina che include la benzilpiperazina (BZP) gruppo limitato di derivati di tipo benzilico. Essa, in sostanza, deriva dalla sintesi del 1,2-dicloroetano e da ammoniaca. Si tratta di un composto eterociclico esa-atomico in cui sono presenti due atomi di azoto in posizione 1,4 che si mostra sotto forma di cristalli deliquescenti dal gusto salino. Il suo nome deriva dalla somiglianza con la piperidina, un costituente della piperina estratta dal pepe nero. I derivati della piperazina rappresentano un’ampia classe di composti chimici dall’importante attività farmacologica. Tra questi si annoverano, ad esempio, il viagra e il levitra, l’imatinib, la ciclizina, il trazodone, il nefazodone, gli antielmintici e varie droghe da abuso.

I giovani definiscono questa droga attraverso diversi nomi: pep, euphoria, nemesis, Arlequin, Regenboogies, Duhovka, Rainbow o bliss. Le piperazine si trovano sotto forma di capsule o pasticche, e più raramente sotto forma di polvere. Le piperazine sono un’alternativa all’ecstasy e hanno, addirittura, superato la vendita della stessa. Infatti, 40 mm di benzilpiperazina (BZP) hanno l’effetto di 120 mm di ecstasy, con un costo molto ridotto. Inoltre, rappresentano uno degli ingredienti principali dei cocktail di stupefacenti più in voga.

La piperazina nasce come farmaco per trattare i parassiti del bestiame ed è spesso utilizzata come antielmintico, attivo elettivamente sugli Ascaridi e, seppure in misura minore, sugli Ossiuri. La piperazina non uccide i parassiti, ma esercita un’intensa azione paralizzante sulla muscolatura degli elminti, che provoca la loro espulsione attraverso l’intestino.

La piperazina allo stato puro si mostra come un liquido incolore, solubile in acqua e di odore sgradevole, mentre in soluzioni acquose si separa e forma un solido cristallino esaidrato.

Storia

La piperazina, fin dalla fine dell’Ottocento, è stata una dei prodotti di punta dell’azienda di Leon Midy, fondata nel 1867 a Parigi che, attualmente, prende il nome di Sanofi Aventis. La piperazina per anni ha garantito gran parte del fatturato di questa azienda e di conseguenza, era al centro di una enorme campagna pubblicitaria eseguita attraverso la diffusione di veri e propri santini, cioè immagini sacre aventi sul retro la pubblicità del prodotto.

La piperazina era considerato un potente antisettico utilizzato contro litiasi renale, gotta, coliche nefritiche ed infezioni all’apparato urinario. La piperazina, inoltre, era anche un potente inquinante dell’ambiente acquatico e molti dei suoi derivati erano stati classificati come delle vere e proprie droghe. Ad esempio, la benzilpiperazina (BZP), utilizzata per trattare le infezioni enteroparassitarie negli animali d’allevamento, e quindi facilmente acquistabile anche in farmacia.

Sul grande mercato è arrivata nel 2006 e ben presto si è diffusa in tutto il mondo.

Effetti

La BZP è uno stimolante del Sistema Nervoso Centrale che genera un aumento delle pulsazioni, della pressione sanguigna e la dilatazione pupillare. Provoca scarso appetito, sudorazione, nausea, dolori addominali, emicrania, tremori, perdita del sonno, dell’energia, confusione, irritabilità.

La BZP, inoltre, è un irritante della pelle e persone che ne inalano la polvere o che ne maneggiano le compresse possono sviluppare mal di gola o irritazioni alle vie respiratorie. Essa è in grado di generare ansia, vertigini, confusione, brividi, sensibilità alla luce e al rumore, emicrania, paura di perdere il controllo e attacchi di panico.

Gli effetti fisiologici e soggettivi raggiungono il loro picco dopo 1-2 ore dall’assunzione per via orale.

I sintomi causati dalle piperazine possono persistere anche per 24 ore. Assunte a dosi elevate possono produrre allucinazioni, convulsioni e depressione respiratoria. Invece, se prese con regolarità possono portare a dipendenza e assuefazione.

I sintomi di overdose da ecstasy e da benzilpiperazina sono simili, e senza esami del sangue è difficile individuare la presenza di questa sostanza, visto che manca anche un kit specifico per l’analisi tossicologica delle urine.

Per questo, è arduo agire tempestivamente e di conseguenza determina elevata mortalità. 
La piperazina, insomma, fa parte di quel gruppo di molecole che di per sé è innocua, ma se combinata con altro diventa pericolosa.

Conseguenze

Le piperazine sono droghe stimolanti che possono causare gravi problemi per la salute e gli effetti si amplificano se assunta a amfetamine o con altre droghe. In Europa sono stati registrati vari casi di intossicazione acuta da piperazine che hanno richiesto il ricovero presso strutture ospedaliere e sono purtroppo noti anche casi di decesso correlati all’assunzione di piperazine.

I rifornimenti di piperazine arrivano principalmente dalla Nuova Zelanda, dove risulta che il 20 per cento della popolazione abbia provato la droga almeno una volta. Una delle maggiori società produttrici di piperazine vende un milione di pillole all’anno, per un giro d’affari di milioni di euro.

Il consumo e il possesso di BZP non sono proibiti totalmente, perché esistono dei surrogati di questa sostanza ancora del tutto legali. In Inghilterra, in particolare, è possibile prenderla in farmacia dietro prescrizione medica. Inoltre, tantissimi giovani riescono a procurarsi la droga via Internet.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Cognitivismo Clinico: la Terapia Cognitiva italiana compie 40 anni – Editoriale

Il 19 gennaio del 2018 si è svolto presso il Teatro Italia a Roma il Convegno “La terapia cognitiva italiana compie 40 anni”.

Antonino Carcione, Antonio Fenelli, Michele Procacci

 

46 anni fa, il 30 dicembre 1972, nasceva a Roma la “Società Italiana di Terapia del Comportamento”, che diventerà in seguito “Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva”, con uno statuto firmato da Vittorio Guidano e Giovanni Liotti. Qualche anno dopo gli stessi fondarono lo storico Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma, in via degli Scipioni 245, che è considerato il luogo di nascita della cosiddetta Scuola Romana di Psicoterapia Cognitiva. Insieme a loro c’erano “… Mario Reda, Georgianna Gardner, Gabriele Chiari e Francesco Mancini. A questo primo nucleo si aggiunsero rapidamente altri colleghi che diedero un importante contributo al successo della Scuola Romana, tra i quali Antonio Semerari, Sandra Sassaroli, Toni Fenelli, Roberto Lorenzini, Adele De Pascale, Maurizio Dodet, ma l’elenco completo sarebbe davvero molto lungo…” (citiamo da Lorenzini, Semerari e Mancini, in questo numero).

Il convegno celebra proprio il quarantennale di quello che poi diventò il Primo Centro, dal momento che i cognitivisti diventarono sempre più numerosi e così i centri con lo stesso nome in cui si svolgeva la psicoterapia. Il nome non fu scelto a caso: lo scopo non era quello di creare uno studio professionale, ma un luogo dove fare cultura, dove discutere e confrontarsi, dove scambiarsi le idee.

I primi maestri, Guidano e Liotti, ci hanno purtroppo lasciati. Guidano è scomparso prematuramente nel 1999, lasciando un grande vuoto, ma anche tanti riferimenti che tutti i suoi allievi e amici hanno contribuito a usare come faro e a diffondere in Italia e nel mondo. Il Convegno di gennaio ha visto, invece, l’ultima commovente partecipazione pubblica di Giovanni Liotti, appena rientrato nella vita scientifica attiva e pubblica dopo una malattia che lo aveva colpito e che poi, dopo qualche mese, ci ha privato di godere ancora della sua presenza. Celebrare Guidano e Liotti merita un lavoro a sé, ma un modo anche per ricordarli è proprio questo numero, edito congiuntamente dalle riviste Cognitivismo clinico e Quaderni di Psicoterapia Cognitiva, che raccoglie le relazioni scritte da chi quel giorno ha partecipato come relatore.

I lavori sono una sapiente miscela di contributi scientifici e ricordi diretti dei relatori stessi, pezzi di storia personale, aneddoti, storia della terapia cognitiva, integrati con lo stato dell’arte tra punti critici e linee di sviluppo che, ci auguriamo, sapranno catturare l’attenzione di lettori giovani e meno giovani stimolando curiosità, interesse, entusiasmo per il futuro e, forse, anche qualche lacrima di commozione.

Un rapido excursus tra i contributi dei relatori che hanno partecipato al convegno

Il teatro era gremito in ogni ordine di posto, terapeuti esperti uniti a giovani terapeuti in formazione, e la sensazione era che si stava partecipando a un evento particolare, che si sarebbe ricordato nel tempo.

Sul palco alcuni tra i più prestigiosi e validi esponenti della terapia cognitiva che, alternando racconti di storie passate e rassegne di ricerche in corso, hanno stimolato idee, concetti, studi, ricerche, e citato quei testi che hanno accompagnato molti di noi nella loro formazione, nella pratica clinica, nella discussione di tanti convegni e giornate di studio. Dall’epistemologia costruttivista, alla psicologia evoluzionistica, alla spinta relazionale, senza dimenticare quanto di buono viene dalla cosiddetta Terapia Cognitiva Standard. Traspaiono sempre i principi del falsificazionismo popperiano, sottolineando l’importanza del contributo della ricerca per il bene della psicoterapia e dei pazienti che a noi si rivolgono.

L’ordine degli articoli ricalca il programma che si è sviluppato nel corso del convegno, introdotto sapientemente da Toni Fenelli.

Il primo articolo è scritto a due mani da Farina e Liotti. Proprio Liotti, tra gli applausi profusi in una standing ovation, ha aperto il convegno e non si può non commuoversi al pensiero che è stato l’ultimo suo intervento pubblico. Sappiamo quanto è caro questo scritto a Farina e quanto sia stato, però, anche duro per lui concluderlo senza il suo Maestro della cui opera sarà certamente degno prosecutore. Affettivo sicuramente, quindi, ma anche altamente scientifico il valore di questo lavoro che, ricco di riferimenti scientifici e culturali, sottolinea l’importanza della relazione terapeutica per l’efficacia della psicoterapia, declinando le modalità con cui questa particolare e intima relazione umana diventa una relazione di cura. La passione degli autori per la ricerca scientifica unita all’attenzione alla specificità di ogni singola persona è declinata nel monito con cui l’articolo si conclude, citando i recenti studi di epigenetica:

L’esempio dell’epigenetica è uno dei tanti argomenti che sembra invitarci a non ritenere mai del tutto certa alcuna teoria scientifica, incluse le teorie psicologiche generali, patogenetiche e teorie della cura proposte ai lettori di questo articolo. Vorremmo dunque concludere sostenendo un atteggiamento di apertura a possibili confutazioni che, piuttosto che fonte di desolato scetticismo, diventi veicolo di arricchimento della teoria stessa.

Mario Reda ci riporta con il suo scritto alle origini del cognitivismo italiano: i corridoi polverosi e caotici della I Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma, lui testimone e partecipe dei primi momenti in cui Guidano e Liotti raccolsero attorno a loro il nucleo primigenio di quello che costituirà il I Centro di Terapia Cognitiva a Roma a Via degli Scipioni n. 245. Nel titolo “Cognitivismum Nostrum” Reda, tra memorie personali e citazioni, ricorda come, attraverso il confronto con autori del cognitivismo internazionale, la diffusione della cultura cognitivista attraverso le varie “scuole romane” abbia prodotto un approccio caratterizzato dall’attenzione alla complessità dei fenomeni psichici che influenza il pensiero e la prassi di gran parte del cognitivismo italiano, spesso apprezzato anche in ambito internazionale.

Francesco Mancini e Mauro Giacomoantonio trattano un argomento meno insolito di quel che si possa pensare per i cognitivisti, seppure certamente spesso e troppo trascurato dai cognitivisti secondo gli autori: i conflitti intrapsichici. Mancini e Giacomantonio ne ipotizzano innanzitutto le ragioni storiche, dovute sia al radicale distacco di Beck ed Ellis dalla teoria psicoanalitica, che fino ad allora praticavano, sia al ritorno dei neofreudiani con l’attenzione eccessiva ai traumi reali piuttosto che ai conflitti interni. Descrivono così vari tipi di conflitti intrapsichici alla luce non già di una teoria pul- sionale, ma sulla base di una prospettiva finalistica della motivazione. Gli autori sottolineano come i conflitti intrapsichici siano esperienza comune dell’essere umano, ma se rimangono senza soluzione sufficientemente rapida determinano disagio e sofferenza. Quindi diventa necessario identificare le condizioni che li generano e quelle che ne ostacolano la risoluzione, e gli autori suggeriscono strategie di intervento che non possono non passare attraverso processi di accettazione.

A seguire, Antonio Semerari espone in modo sistematizzato il lavoro di studi, ricerca e clinica del III Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma condotte nell’ambito delle scuole di terapia cognitiva APC, SPC e SICC. Semerari ripercorre i vari momenti di questa ricerca descrivendo la costruzione delle ipotesi, la costruzione degli strumenti e il controllo delle ipotesi stesse, seguendo una prospettiva scientifica volta allo sviluppo di trattamenti efficaci, in particolare per i Disturbi di Personalità. Anche Semerari usa e attiva nei lettori ricordi personali che descrivono la nascita sia di quello che ormai è noto semplicemente come “Terzocentro” (sic!), sia dell’idea che la metacognizione, come poi le ricerche (non solo del terzocentro) hanno dimostrato, potesse essere un fattore generale sottostante alla patologia della personalità.

Tra aneddoti personali e ricordi

Sia Semerari sia Reda, con i loro aneddoti personali, ci fanno notare come in molte parti d’Italia, in modo del tutto spontaneo e spinti da curiosità intellettuale, gruppi di clinici, alcuni divenuti anche ricercatori e formatori, si sono conosciuti, riuniti e hanno iniziato importanti collaborazioni i cui frutti sono presenti nel vasto ambito in cui il cognitivismo clinico si è diffuso nella penisola e spesso anche fuori da essa.

Lorenzini, anche lui senza tralasciare ricordi e con il suo stile personale, utilizza i concetti di costruttivismo, teoria degli scopi e credenze applicandoli alla descrizione e spiegazione del delirio paranoide. Il testo è arricchito da procedure di valutazione e formulazione del caso clinico e da procedure terapeutiche da applicare con il paziente. L’autore illustra l’importanza della relazione terapeutica dando attenzione ai significati personali in una patologia oggetto di interesse da sempre degli psicopatologi, che ha affascinato generazioni di psichiatri e, poi, di psicoterapeuti: il delirio. Qual è il suo senso, come possiamo leggerlo e utilizzarlo senza far sentire il paziente che lo riferisce invalidato o, peggio, minacciato? Lorenzini racconta la sua esperienza di psichiatra del servizio di salute mentale (è stato a capo di un dipartimento di salute mentale – DSM) e di come l’esperienza e la conoscenza della letteratura lo hanno spinto a cercare un metodo che potesse ottenere ciò che qui condivide con i lettori, fornendo anche delle schede da utilizzare con i pazienti nel corso della psicoterapia.

Infine la tavola rotonda che vede presenti Lorenzini, Mancini e Semerari. I temi trattati sono un tentativo di considerare la terapia cognitiva tra le sue contraddizioni attuali e le prospettive future. Sulle prime si argomenta sulle controversie tra psichiatria biologica e psicoterapia, dicotomie classiche come quella annosa tra mente e cervello, sulla questione nosografica e la crisi dei paradigmi diagnostici, sui limiti e i vantaggi dei protocolli passando attraverso la supremazia del ragionamento clinico, sul ruolo sociale della psichiatria e della psicoterapia. Sulle prospettive invece il ragionamento dei partecipanti verte sulle nuove proposte della terapia cognitiva anche in setting diversi da quelli tradizionali e si conclude ragionando su quale funzione sociale la terapia cognitiva potrebbe essere chiamata ad assolvere nei prossimi anni.

Il Congresso si chiude qui e così i lavori ivi presentati, ma non si chiude qui il numero. I primi di aprile giunge a uno di noi (A.C.) un email di Liotti, da parte sua e di Lorenzini, con un manoscritto per Cognitivismo clinico. Doveva essere il lavoro, già pronto per la stampa e persino perfettamente in linea con le norme editoriali, con cui gli autori avrebbero dovuto inaugurare il prossimo congresso nazionale della SITCC a Verona. L’email aveva scherzosamente come oggetto “Narcisi a Verona”. Gianni (permettete qui il tono più informale) ci ha lasciati poco dopo, non ha avuto il tempo di fare questa presentazione. L’articolo ha come oggetto il narcisismo secondo una prospettiva cognitiva ed evoluzionista. Pubblicarlo su questo numero consentirà di dargli il giusto e meritato rilievo e la maggiore diffusione possibile. Un minimo omaggio, per il quale siamo a grati a Roberto Lorenzini che ne ha concesso la pubblicazione su entrambe le riviste, con cui ringraziare Gianni Liotti anche di questo ultimo regalo.

L’ultima parola è ovviamente affidata ai lettori che crediamo e speriamo numerosi. Quaderni nell’occasione darà una copia cartacea in omaggio agli iscritti al XIX Congresso Nazionale della SITCC che si svolgerà a Verona dal 20 al 23 settembre 2018. Il numero sarà comunque pubblicato on line sui siti di Cognitivismo clinico e di Quaderni on line.

Worry and waiting: come il supporto del partner può aiutarci in momenti di forte stress

Secondo una recente ricerca, condotta presso la University of California-Riverside, nei periodi in cui siamo in attesa di qualcosa, come per esempio il responso di alcune analisi mediche o il feedback di un colloquio di lavoro, percepire supporto da parte del proprio partner può essere di grande aiuto.

 

L’autrice dello studio Kate Sweeny ha effettuato diversi lavori riguardo questo tema, chiamato “worry and waiting”, ed afferma che in questi momenti caratterizzati da forte incertezza, molte delle strategie che usiamo possono non funzionare. Tra le strategie che la Sweeny suggerisce come più efficai nel ridurre lo stress in queste situazioni sicuramente la meditazione mindfulness, che aiuta a focalizzarsi sul presente.

Nel suo lavoro più recente ha riscontrato una connessione tra supporto dal proprio partner e riduzione dello stress.

A ragione di ciò, anche diversi studi precedenti riguardo il tema del supporto psicologico avevano evidenziato l’esistenza di diverse tipologie di supporto, in grado di generare effetti diversi sulle persone, in particolare si distingue tra: supporto ricevuto e supporto percepito. Il primo corrisponde all’effettivo scambio di risorse che avviene tra membri appartenenti ad una rete sociale, mentre il secondo corrisponde alle valutazioni che un individuo fa rispetto alla possibilità di ricevere supporto dalla propria rete sociale in caso di necessità.

Si discute ancora oggi su quale, tra questi due tipi di supporto, incida maggiormente sulla salute fisica e psicologica. Le precedenti ricerche hanno dimostrato che il supporto percepito, a differenza di quello ricevuto, permetta un migliore adattamento ad esperienze di vita stressanti (Moretti, Simonelli, Melloni & Ronconi, 2012). Sembrerebbe quindi che la percezione di supporto e non l’effettivo supporto sia di maggior aiuto per il benessere dell’individuo.

Cosa emerge dallo studio di Sweeny

A conferma di questi dati, i ricercatori hanno notato nello studio condotto come, in presenza di un supporto ricevuto, non si è verificato alcun tipo di beneficio. Questo effetto è stato chiamato “paradosso del ricevere supporto sociale:

a volte avere un aiuto concreto da altre persone può provocare sentimenti di incompetenza, d’instabilità emotiva o portare le persone a sentirsi eccessivamente bisognosi – riferisce Sweeny.

Al contrario, percepire supporto può essere di gran lunga più benefico.

Dalla ricerca emerge anche che la percezione del supporto da parte del partner non è stabile nel tempo, infatti, si notano dei picchi all’inizio e alla fine del periodo di attesa, e non durante. Ciò potrebbe essere dovuto dal fatto che la preoccupazione non è un’esperienza statica, bensì è molto elevata all’inizio del periodo di attesa, in quanto l’incertezza è nuova, e alla fine, quando la risposta è imminente. Il partner di conseguenza sentirà di dover essere più presente in questi periodi di elevata preoccupazione e di poter invece esserlo meno quando il partner è più calmo.

I benefici di questo supporto percepito sono diversi: oltre al riuscire a fronteggiare meglio la situazione, il partner stressato riesce a dormire in modo migliore e a sentirsi più sano.

Sembra inoltre che le persone più ottimiste e speranzose percepiscono un supporto maggiore in generale dal partner. Si verifica invece l’opposto per le persone pessimiste.

Caratteristiche del campione di studio

L’autrice ha scelto una particolare categoria di soggetti per la ricerca: persone neolaureate in giurisprudenza, che hanno appena sostenuto l’esame d’avvocatura e devono aspettare 4 mesi prima di avere i risultati. I 168 studenti scelti erano anche in una relazione sentimentale. L’autrice ha selezionato queste persone in quanto era molto semplice poter osservare tanti soggetti insieme in una fase così stressante della loro vita.

Ricordo di Bernie Carducci

È mancato domenica 22 settembre Bernardo “Bernie” Carducci, professore di psicologia all’Università dell’Indiana Southeast e studioso della timidezza, di cui aveva disegnato un modello cognitivo rigoroso e diffuso in un libro pubblicato nell’anno 2000 con Susan Golant.

Nel 1997 aveva fondato lo “Shyness Research Institute”, sempre nella sede dell’Indiana University Southeast, per promuovere la comprensione psicologica della timidezza.

Il modello di Bernardo Carducci si muoveva nell’area della psicologia dell’accettazione –anche se la terminologia che lui usava era più tradizionale- e infatti il suo scopo era di aiutare i timidi a diventare “successful shy”, timidi di successo, ovvero senza negare la loro natura ma valorizzandola. Valorizzando quindi la tendenza all’introversione come sensibilità introspettiva e la difficoltà a relazionarsi come capacità di stabilire contatti intimi e profondi, sebbene meno abbondanti rispetto agli estroversi. Il suo lavoro psicologico aveva anche dei correlati clinici nell’area dell’ansia sociale.

Oltre il suo libro principale sulla timidezza aveva poi scritto numerosi altri volumi e manuali di auto-aiuto, sempre nell’area della timidezza. Inoltre Carducci era anche uno studioso della personalità e aveva scritto un volume di teoria generale della personalità pubblicato nel 2009.

Timidezza definizione componenti cognitive e trattamento - Report dal XIV Congresso Europeo di Psicologia
Prof. Bernardo Carducci con alcuni colleghi di Studi Cognitivi, Durante il XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP), Milano 2015

Ricordiamo “Bernie” Carducci anche perché aveva collaborato con noi e con gli istituti dove lavorano molti colleghi del nostro gruppo professionale. Proprio questa estate abbiamo concluso un articolo scritto con lui –naturalmente sulla timidezza- in quella che forse potrebbe essere stata la sua ultima pubblicazione scientifica.

Lo avevamo conosciuto a Honolulu, al congresso del 2013 dell’American Psychological Association, l’APA, e lo avevamo intervistato. Oltre a condividere con noi gli interessi scientifici, Carducci era anche appassionatamente affezionato a noi come recupero di quelle che lui chiamava le sue “roots”, essendo lui molto orgoglioso delle origini italiane della sua famiglia. Scherzosamente diceva anche che la sua speranza era di essere un discendente di Giosuè Carducci.

 


Articoli di Bernie Carducci per State of Mind:

Shyness – Is being introverted the same of being shy? – A lesson from Bernardo Carducci

 

Bernardo Carducci on the distinction between shyness and social anxiety

Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti – Recensione del libro

È legittima la contraccezione e l’uso di pratiche anticoncezionali per limitare il numero di nascite e giovare al benessere fisico, psichico ed economico della società? Se sì, come mai in passato è stato considerato illegittimo?

 

Indossare un preservativo o assumere la pillola anticoncezionale sono gesti che oggi ci appaiono a dir poco scontati. In realtà condom, pillola, spirale, diaframma sono molto più che semplici mezzi contraccettivi: sono simbolo di emancipazione femminile e sociale. Rappresentano l’emancipazione della donna dall’unico ruolo riconosciutole per molto tempo dalla società, quello di madre, e rappresentano la possibilità di vivere una vita sessuale libera e (si spera) appagante, svincolata dalla procreazione.

In Italia la diffusione dei mezzi anticoncezionali è il risultato di una lunga battaglia iniziata a cavallo tra Ottocento e Novecento all’interno di una società profondamente bigotta e moralista. Matteo Loconsole nel suo breve saggio Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti ne ripercorre le origini, approfondendo in maniera molto accurata, anche grazie a una corposa ricerca bibliografica, gli accesi dibattiti che infiammarono il nostro Paese su temi quali igiene sessuale, contraccezione, controllo responsabile delle nascite, prevenzione sessuale, evidenziandone le contraddizioni e le ipocrisie.

Storia della contraccezione in Italia: il saggio si articola in tre capitoli

Il primo capitolo è dedicato alla cosiddetta questione neomalthusiana che interessò l’Italia risorgimentale: rispetto alle classi sociali più abbienti quelle più povere tendono a mettere al mondo più figli, determinando un peggioramento della propria qualità di vita, già minata da peggiori condizioni economiche, igieniche, sanitarie, limitato accesso alle risorse, ridotte prospettive lavorative, aumentato tasso di mortalità, ecc. Da qui il quesito: è legittimo l’uso di pratiche anticoncezionali per limitare il numero di nascite e giovare al benessere fisico, psichico ed economico della società? Se sì, come mai in passato è stato considerato illegittimo?

La risposta la troviamo nel secondo capitolo del saggio Storia della contraccezione in Italia. Loconsole analizza le contraddizioni e le ipocrisie che hanno caratterizzato il dibattito in Italia, mostrandoci come qualsiasi tipo di “indagine scientifica del corpo e della sessualità umani, imperando una morale di stampo spiritualista, fosse additata come oltraggiosa, immorale e, soprattutto, anticristiana”, tanto da considerare l’educazione sessuale alla stregua della pornografia; inoltre ci illustra come i risultati della scienza venissero piegati alla morale del tempo per dimostrare l’inferiorità della donna rispetto all’uomo e ribadirne il ruolo di sola “fattrice”.

Il terzo capitolo, infine, si concentra sulla fondazione nel 1913 de “L’educazione sessuale”, la rivista di divulgazione neomalthusiana rivolta al popolo, che osò “sfidare la morale consolidata” del tempo, “facendosi però scudo di un discorso che fosse il più scientifico possibile”. Tale rivista ebbe infatti il merito di rendere libera e pubblica la discussione sulla sessualità, sulla procreazione consapevole e il controllo delle nascite; un dibattito che abbiamo la possibilità di rivivere grazie a stralci di articoli che riportano le riflessioni e i punti di vista di orientamenti di pensiero differenti, un vero e proprio tuffo nel passato.

L’importanza della pedagogia sessuale e di un’istruzione sessuale scolastica, così come la promozione di un cambiamento culturale che riconoscesse alle donne “gli stessi diritti concessi all’uomo dalla cultura” (affrontando tematiche quali l’adulterio, il divorzio, la libertà di procreazione) sono solo alcuni degli interessanti temi trattati.

Storia della contraccezione in Italia tra falsi moralisti, scienziati e sessisti non solo ci restituisce un pezzo di storia dell’Italia poco conosciuto, ma ci spinge inevitabilmente a riflettere sulla situazione italiana odierna:

[…] potremmo, nel momento presente, dire con sincerità di esserci del tutto emancipati da quell’ingombrante bagaglio di pregiudizi culturali che, tra Otto e Novecento, ostacolarono una libera e pubblica discussione scientifica? – si domanda Loconsole.

In un paese in cui l’educazione sessuale resta ancora un tabù, la risposta, purtroppo, appare scontata.

Il caso LumiDolls – Ci si può innamorare di una bambola?

Creata da una società catalana, LumiDolls ha in programma di espandersi all’estero ed ha già attivato una nuova filiale a Mosca.

 

“La chiamavo Arisa. E di quella bambola mi ero innamorato”. Inizia così la lettera scritta da Alfredo e pubblicata da CronacaQui Torino.

La storia di Alfredo è passata quasi sotto silenzio: nelle testate giornalistiche nazionali non c’è traccia di questa piccola notizia, forse di poca importanza rispetto agli articoli acchiappalike su gattini e scie chimiche ai quali siamo abituati. A parte il giornale locale di Torino, le parole commosse di Alfredo sono state lette da Giuseppe Cruciani – durante una puntata del suo talk show, La Zanzara – con un velo di ironia, certamente, ma dimostrando la sua attenzione alle notizie nemiche della banalità.

Ma parliamo di Alfredo e cerchiamo di contestualizzarlo.

Lunedì 3 settembre è stata inaugurata, nel quartiere Mirafiori del capoluogo piemontese, LumiDolls, la prima casa di appuntamenti in Italia con le bambole del sesso. Creata da una società catalana, LumiDolls ha in programma di espandersi all’estero ed ha già attivato una filiale a Mosca. Nel nostro Paese, invece, oltre a Torino, ha ricevuto domanda di aprire case di appuntamenti per bambole in più di altre 150 città italiane. Dopo poche settimane – nonostante il boom delle prenotazioni che ha portato il tutto esaurito fino a novembre – LumiDolls Torino è stata chiusa per esercizio abusivo dell’attività di affittacamere. Gli ispettori dell’Asl, inoltre, hanno giudicato insufficiente il livello di igienizzazione delle bambole.

Perchè ha avuto tanto successo LumiDolls? Da dove nasce il bisogno di una sex doll?

Mettendo da parte problematiche legali ed amministrative, ci interessa capire perché oggi molti di noi abbiano bisogno di una sex doll, perché sia un fenomeno in aumento, perché si preferiscano loro agli esseri umani.

La lettera scritta da Alfredo ad una di queste bambole prosegue così:

Mi ricordava tanto la mia adorata moglie. Lei è malata. Io cercavo un po’ di felicità. Arisa aveva gli occhi dolcissimi, i capelli folti e ondulati che le cadevano quasi a nascondere i seni. Timida, timidissima. Mi sembrava quasi imbarazzata nel trovarsi lì, di fronte a me. Eravamo in una stanza con le pareti bianche, anonima e un po’ fredda. Me ne sono innamorato all’istante perché mi ricordava lei, giovanissima, quando ci parlavamo d’amore, tanto tempo fa. Lei che adesso è un povero passero ferito, che la malattia sta divorando.

Istintivamente, quando leggiamo queste parole, pensiamo che Alfredo sia un folle. Non è possibile innamorarsi di un oggetto. È vero, ma la storia di quest’uomo è significativa.

Quando una coppia smette di comunicare, smette di amarsi. Un dipinto di Magritte, intitolato Gli amanti, raffigura due innamorati che si baciano con il volto coperto da un panno bianco. È un amore muto incapace di un linguaggio diverso da quello del corpo.

“Tutti ci sentiamo soli, uomini e donne, in coppia e non”, sostiene la giornalista Antonella Boralevi, che suggerisce un’antica soluzione, sempre efficace: parlare. Anche quando sembra di aver detto tutto, il confronto verbale è terapeutico.

Alfredo, come tanti altri, cercava un intrattenimento sessuale, ma non solo. E sono sempre più numerosi gli uomini che si sentono a disagio quando hanno di fronte una vera donna. La bambola allora diventa un sostituto perfetto: non fa domande, non giudica, non tradisce e non perde neppure tempo, perché non lavora e non si concede svaghi. Ma c’è di più. La bambola non invecchia, non ingrassa, insomma, non cambia mai. Ed è forse del cambiamento e dell’emancipazione che gli uomini hanno più paura oggi.

Secondo la dottoressa Laura Cacicco, iscritta all’Ordine degli Psicologi della Lombardia:

La riduzione delle interazioni e della condivisione, ed anche dello scontro che la vita di coppia comporta, sembra essere positivo per queste persone che ricercano una relazione unilaterale, dove emerge la necessità di espressione dei loro bisogni ed esigenze, senza che vi sia un confronto con l’altro.

Ma la vita richiede sempre un pizzico di coraggio. Relazionarsi con una persona in carne ed ossa può comportare inquietudini, paura di non essere all’altezza, scontri per opinioni diverse. Ma ne vale la pena. Come diceva il grande filosofo Giacomo Leopardi, “L’ansia è della vita, la quiete è della morte”.

Ridurre a vizio un bisogno dell’uomo, affettivo o sessuale, sarebbe comunque riduttivo. Via via che la società va avanti – è convinta la sessuologa Rosamaria Spina – le parafilie aumentano. Ne nascono sempre di nuove, legate alle tecnologie. E ormai sappiamo che parafilia non vuol dire sempre patologia. Non è detto che chi usufruisca di questo servizio abbia necessariamente dei disagi psicologici. Si può fare per curiosità, per divertimento, per ravvivare un menage diventato monotono. Oppure, come nel caso di Alfredo, per solitudine.

Oggi avevo prenotato due ore con lei e le avevo portato un piccolo dono: un foulard colorato per il suo viso pallido – così si conclude la lettera, apparsa sul giornale locale e commentata da Cruciani – e invece sono qui, a vagare per strada, dopo il sequestro che mi ha straziato il cuore. Vorrei ritrovare il mio amore silenzioso. Per me non è un oggetto.

Spoiler – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 41

Attenzione! Spoiler, spoiler, spoiler! Il rischio di spoiler oggi sembra essere una delle minacce più pericolose che possano capitarci… ma in realtà poi cosa succede?

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Spoiler (Nr. 41)

 

La mia avversione per i termini inglesi mi ha tenuto finora lontano dalla comprensione del termine spoiler che restava nell’area indefinita ma densamente popolata delle cose che non s’hanno da fare e che, essendo in qualche oscuro modo collegato al parlar troppo, mi riguardava direttamente.

L’orgoglio mi tratteneva dal chiederne il significato ai figli, sempre in agguato con lo sberleffo sulla pronuncia anglosassone, e così ho riesumato il metodo prepuberale quando per cercare di capire come nascessero i bambini azzardavo ipotesi a partire dalle barzellette e dalle allusioni degli adulti. Con il risultato allora di sottrarmi agli sbaciucchiamenti dei parenti in nome di una paternità responsabile. In seguito neppure i sei anni di medicina hanno connesso saldamente il trombare, attività dalle molte cause e dai molti scopi, con la gravidanza, che continua a sembrarmi un effetto collaterale più o meno desiderato.

Le prime intuizioni partirono dall’affermazione del figlio più grande rivolta al piccolo “in questa puntata Karl muore!” fatta con la faccia soddisfatta da dispetto definitivo. Per la cronaca Karl non morì affatto ma da allora “Karl muore” è diventato una sorta di tormentone che segnala la volontà di rovinare un godimento tanto atteso.

Col tempo il termine spoiler è entrato nel linguaggio pubblicitario di “Cielo a richiesta” ( trad. it.) e non ho potuto non capire che significasse rovinare la sorpresa di come andranno le cose svelandone l’esito. Ho anche scoperto che su internet esiste anche una sorta di galateo su ciò che si può e non si può dire rispetto a film, libri, serie tv (le più a rischio), eventi sportivi, con anche una serie di consigli maligni di “come dire senza dire”, “come utilizzare il non verbale e lasciar intuire”.

Perchè lo spoiler ci dà così fastidio?

Tornando in un terreno più familiare mi chiedo quale sia il danno che produce lo spoiler per rilevare quanto diversi, se non opposti, possano essere gli atteggiamenti umani.

Personalmente sapere come va a finire non mi priva di alcun piacere ed anzi, eliminando quella piccola quota d’ansia legata all’incertezza mi permette un godimento estetico più pieno. Per non parlare  del fatto che, ad esempio in un giallo, sapendo già chi è l’assassino mi accorgo per tempo di tutti gli indizi in tal senso e mi sento perciò se non intelligente almeno furbo perché, si sa, agli storici tutto torna perfettamente e colgono nessi di causalità e necessità che invece non sono affatto evidenti prima, quando si fanno previsioni che non tengono conto di quel signore che vorremmo ignorare perché sfugge al nostro controllo e si chiama “Caso”.

Lo spoiler più importante dell’esistenza pone fine all’età dell’innocenza quando a motivo di un animale domestico, di un nonno, o peggio, scopriamo come la vita va a finire sempre e comunque.

Da allora parte l’atteggiamento ambiguo di voler sapere e non sapere contemporaneamente. Vogliamo sapere altrimenti non avrebbero senso gli oroscopi, le zingare che leggono la mano, i veggenti, tutte le religioni, ma anche le analisi cliniche, le risonanze magnetiche, Standard &Poors, Fitch, Moody’s. Però nessuna deve essere assolutamente certa, lasciandoci l’illusione che le cose andrebbero in quel modo se non ci fossimo noi, che invece sapendolo preventivamente faremo in modo… di scongiurarlo o di accelerarlo? Ci vorrebbe un’altra previsione per saperlo.

Questa prospettiva dello spoiler ci fornisce anche un’altra chiave di lettura dei conflitti generazionali

Noi vecchi siamo lo spoiler dei nostri figli che vedono in noi come andranno a finire (mio nonno, che mi sembrava vecchissimo quando era più giovane di me adesso e al quale allora non mi sembrava affatto di somigliare e adesso sono uguale, diceva che prima di fidanzarsi bisognava andare a vedere la madre e la nonna della ragazza perché “se tanto mi da tanto…”). Al contrario, da parte nostra anche vedere il prequel dalle mille promesse e speranze che non saranno mantenute può essere irritante o triste.

Ora mi viene da immaginare una storia dove un gruppo di terroristi riesce a penetrare nel cavau al centro della terra dove sono custoditi gli spoiler della vita di ciascuno (mi rendo conto solo ora che un racconto sullo stesso tema lo scrissi a vent’anni, lo ricopio alla fine) e con in mano quest’arma tenta di asservire l’umanità. Naturalmente fallisce sia perché i cattivoni non devono vincere mai, almeno nelle realtà che ci inventiamo, e secondo perché la conoscenza del finale suscita reazioni diverse.

C’è chi si dispera e vuole lasciarsi morire o uccidersi ma ovviamente non riesce perché altrimenti contraddirebbe lo spoiler stesso.

C’è chi diventa un eroe e sprezzante di ogni pericolo si batte per cambiare il mondo, o non perde nessuna occasione di godimento, certo che nulla potrà fargli male, e non sa che sarà una stupida salmonella nel tiramisù dell’Hotel Splendid di Amalfi a scioglierlo a 85 anni suonati nella tazza del cesso dove alloggerà col prestigioso “centro anziani parioli di Roma”.

I più continuerebbero la vita di tutti i giorni  assaporando la ciccia e sputando le spine e ai terroristi riderebbero in faccia dicendo “lo sapevamo già”.

In effetti  questa è una vicenda reale avvenuta nel 987 in Turchia quando l’umanità era presa dalle paure millenaristiche e se ne è ritrovata traccia solo nel 1945 quando furono scoperti i corpi dei terroristi nella meravigliosa Cisterna basilica di Istanbul. Sembra che trovato l’archivio per prima cosa iniziarono a spoilerarsi reciprocamente l’esistenza ma, al contrario dei miei figli, erano armati.

Comunque Karl è morto come è inveterata usanza di tutti i viventi.

Ma sì, certo, tranne noi.

Ecco il racconto dei vent’anni: Lo scherzo di Calcantera

I  primi anni del regno del giovane Carlo corsero felici e rapidissimi, come quei periodi di serenità di cui ci si avvede soltanto quando sono passati.

Tutta la corte viveva in un clima di festa nell’attesa di un futuro sempre migliore che sembrava a portata di mano; lo stesso Carlo sembrava aver dimenticato le parole del padre morente che lo avevano, per la prima volta, messo al corrente della leggenda (ma sarà poi solo leggenda?) che tutti sapevano e tacevano e solo lui, principe ereditario, ignorava fino a quel momento.

Del resto Carlo era sì un re ma era soprattutto un ventenne ed a quell’età non si pensa a tali cose se non in certi pomeriggi piovigginosi di novembre, quando, il freddo e la morte ti afferrano, magari solo per un istante, lo stomaco.

La leggenda che il re padre aveva raccontato a Carlo sul letto di morte voleva che per ogni regnante che succedeva sul trono, esisteva un suddito che era a conoscenza della data esatta della morte del nuovo re. Il padre disse ancora a Carlo che lui aveva per tutta la vita allontanato questo pensiero, anche se negli scantinati dell’anima era sempre rimasto come un tumore non debellato che non gli aveva permesso di assaporare appieno il gusto di una vita giusta e piena di soddisfazioni.

Ancora più improbabile era stato il confuso racconto che il padre aveva fatto circa l’origine di tutta la vicenda; egli sosteneva infatti che tale maledizione provenisse direttamente da un demonio, detto Calcantera, piuttosto altolocato nella gerarchia infernale, che circa quattrocento anni prima albergava in una grotta sul fondo del fiume Tinna che attraversa tutto il regno, dalla quale venne fatto brutalmente sloggiare, con grande sollievo della popolazione tutta, grazie ad un’idea geniale del loro avo  Agostino III che fece benedire il fiume trasformandolo in un fiume di acqua santa e il lago Tuttatinna in una sorta di gigantesca acquasantiera. Calcantera che per poco non morì sul colpo, conservò addosso un tale odore di acquasanta che divenne insopportabile a tutti gli altri diavoli e, persi tutti i suoi privilegi, fu relegato ai più umili servizi infernali tra la derisione generale.

Lucifero tuttavia, memore dei meriti del suo sfortunato collaboratore, ormai per sempre inutilizzabile dato quell’orribile odore di sacrestano che aveva, gli concesse di organizzare questo scherzetto ai danni dei successori di AgostinoIII, ben sapendo quanto gli uomini temano di conoscere l’ora della propria morte pur essendo questa l’unica certezza della vita. Tuttavia non poteva, neppure Lucifero in persona, andare contro la regola generalesche il Buon Dio aveva messo, sapendo quanto penosa sarebbe stata la vita dei suoi figli se avessero conosciuto il tempo esatto che è dato loro: tale regola vieta all’uomo di sapere quando sarà il suo momento. Lucifero, però, aggirò l’ostacolo perché la data della morte del re sarebbe stata conosciuta da un altro.

Carlo, con la sfrontatezza dei giovani che credono di essere quelli che finalmente risolveranno ogni problema, decise di prendere il toro per le corna e inviò i suoi gendarmi per tutto il reame a rintracciare con la lusinga di una grossa ricompensa, “colui che sapeva”. Furono necessari mesi e mesi di ricerche, e non ci fu affatto, come re Carlo temeva, chi si facesse avanti, magari pur non sapendo un bel niente: alla gente questa storia non piaceva, anzi aveva paura e cercava in ogni modo di allontanare da sé qualsiasi sospetto.

La grossa ricompensa si trasformo in una taglia; iniziarono le spiate, Re Carlo non sopportava più che “colui che sapeva gli sfuggisse, ciò era una ulteriore riprova delle sue cattive intenzioni.

Quando glielo portarono in catene Carlo provò un senso enorme di sollievo e quasi rise delle sue passate preoccupazioni. Si trattava di Arturo, un carrettiere basso, giallognolo, grasso a tal punto da muoversi con difficoltà e soprattutto quasi analfabeta.

Re Carlo volle rimanere da solo con Arturo e gli spiegò come lui stesso in persona si sarebbe occupato con amore del mantenimento dei suoi figli dopo che la sua testa fosse caduta sotto l’ascia del boia mettendo fine a questa incresciosa storia.
Carlo spiegò al carrettiere che non ce l’aveva affatto con lui personalmente che anzi era conosciuto per essere un suddito fedele, ma che era costretto ad ucciderlo perché se Arturo, magari per cattiveria o per trarne vantaggio, o anche solo perché impazzito o ubriaco avesse parlato con altri, i suoi oppositori si sarebbero enormemente avvantaggiati dal conoscere il tempo della sua morte; se invece avesse parlato con il re stesso gli avrebbe rovinato l’esistenza, oscurandola con quella consapevolezza tanto gravosa all’animo umano.

Arturo con calma e umiliandosi della sua misera condizione spiegò al Re come lui fosse l’unico suddito della cui salute sua maestà si sarebbe dovuto preoccupare per prolungargli al massimo la vita, Infatti se la maledizione di Calcantera voleva che ci fosse sempre un suddito a conoscenza della data della morte del re evidentemente tale suddito, lasciò intendere con un certo imbarazzo e quasi scusandosi, doveva vivere sicuramente più del re; altrimenti quel “sempre almeno uno” non sarebbe stato rispettato.

Arturo aggiunse che sua maestà poteva certamente fargli tagliare la testa, ma, per non morire anch’egli un istante prima, doveva prima permettere a lui di comunicare il suo segreto ad un altro e così il problema non sarebbe stato risolto ma solo spostato, a meno che uno dopo l’altro non avesse tagliato la testa a tutti i suoi sudditi; fino a rimanere in vita solo lui e l’ultimo dei suoi sudditi, detentore del segreto e destinato a vivere più del re e probabilmente desideroso di vendicarsi per la strage e con un’arma terribile a disposizione: la parola.

Da quel momento qualcosa si ruppe definitivamente dentro l’animo spavaldo di re Carlo e sul suo viso iniziarono a marcarsi i segni degli anni: si era cacciato in una situazione da cui non poteva tornare indietro, la spensieratezza era irrimediabilmente perduta.

Arturo intanto si stabilì a corte ed era oggetto di ogni cura per ordine dello stesso re Carlo, che voleva essere costantemente informato sulla sua salute e sul suo umore. In poco tempo perse i modi da carrettiere, acquistò un linguaggio forbito e, rivestito dal sarto reale, non sembrava più lo stesso: sì, sempre piuttosto basso, ma quasi bello. Di giorno in giorno le sue richieste al re aumentavano. Aveva iniziato col chiedergli un cavallo ed il re gli aveva dato il migliore, ma lui, non contento, quasi per un capriccio, aveva preteso quello del re stesso. Intendiamoci nel chiedere non aveva affatto modi arroganti, anzi si scherniva, si scusava ed il più delle volte non chiedeva neppure ma si limitava a far capire che si, insomma, avrebbe gradito. Il cavallo era stato il primo passo, poi volle palazzi e ville in campagna, le donne più belle e persino la preferita di re Carlo. Voleva partecipare a tutte le manifestazioni a fianco del re e Carlo non osava mai dirgli di no sebbene la sua esistenza fosse divenuta un inferno insopportabile dal quale non vedeva via d’uscita e che reputava la meritata punizione per il suo orgoglio giovanile.

Un giorno la possibile via d’uscita gliela suggerì involontariamente lo stesso Arturo che ormai despota incontrastato del palazzo reale chiese a Carlo di fargli provare la corona durante una festa di gala. La notte stessa Carlo mise a punto il suo piano che gli parve geniale. In piena notte svegliò personalmente il primo ministro ed il suo vecchio confessore, un vecchio frate che aveva battezzato Carlo ed era stato per lui un secondo affettuosissimo padre. Si trattava in sostanza di abdicare in favore di Arturo con la sola clausola  che alla morte di questi la corona sarebbe tornata sul capo di Carlo. Arturo diventato re, avrebbe conosciuto l’ora della sua morte e tale insopportabile pensiero l’avrebbe rapidamente condotto a morte per crepacuore.

I tre ragionarono attentamente per cogliere eventuali falle del piano; non c’era dubbio che Arturo era destinato a conoscere l’ora della morte del re, cioè di colui che regnava in quel momento e quindi in quel caso di se stesso. Il frate sollevò perplessità circa il fatto che la morte di Arturo potesse essere anticipata proprio dalla conoscenza della data di tale morte: come era possibile che un evento fosse causa della modificazione di se stesso? Come sarebbe potuto morire subito Arturo per aver saputo che sarebbe morto tra tre anni? Infatti, se fosse morto subito si sarebbe dimostrata falsa la sua conoscenza circa la data della morte e dunque egli effettivamente non sapeva esattamente quando sarebbe morto, ma solo che ciò sarebbe accaduto come tutti noi.

La mattina Arturo che dormiva nella stanza più bella di tutta la reggia fù svegliato dal rullio del tamburo del banditore che proclamava ad ogni angolo, nelle piazze, nelle frazioni del regno sparse sulle colline come margherite in un prato che re Carlo aveva abdicato in suo favore. Nello stesso momento in cui si rendeva conto di essere diventato Re Arturo I, la primavera che prepotentemente entrava dalla sua finestra si raggelò e perse di significato e colore e con lo sguardo fisso in cielo che gli parve per sempre grigio, Arturo vide con certezza quando a lui toccava morire.

Un altro al suo posto sarebbe sicuramente morto di crepacuore, ma il suo animo di carrettiere, abituato alla fatica e al dolore, il suo passato di offese e umiliazioni lo avevano temprato anche a vivere con la morte nel cuore. E così visse.

Carlo costatato il fallimento del suo piano e la sua cattiveria per aver prima rifiutato l’insegnamento del padre, poi sfidato Calcantera ed alla fine aver rovinato la vita al carrettiere, si pentì amaramente e rinunciato al diritto di rientrare in possesso del suo regno, si ritirò in preghiera in una grotta del monte Sutinna dove fu presto dimenticato da tutti.

Per trent’anni Arturo regnò con la morte a fianco e tutto il reame divenne triste e lugubre: non più feste, non più allegria. Tutte queste cose erano punite con ferocia estrema dal re che invidiava con malvagità ogni suo suddito che poteva sorridere ignaro della propria morte.

Dopo trent’anni Arturo sentì di essere enormemente stanco e chiese aiuto al giovane cappellano di corte: era disposto a tutto pur di togliersi quel pensiero che lo tormentava.

Il giovane prete disse che personalmente non poteva far nulla ma sapeva di un vecchio eremita che viveva da sempre sulla montagna ed a cui erano attribuiti tanti miracoli.

Re Arturo si vestì da penitente e da solo si avviò alla montagna. Quando furono faccia a faccia i due vecchi non si riconobbero ma provarono entrambi un enorme struggimento.

L’eremita sedette, prese tra le mani la testa di Arturo in ginocchio di fronte a lui e asciugandogli le lacrime lo invitò a confessare a Dio ogni sua pena per liberarsene. Arturò singhiozzo e parlo per ore e solo quando disse a Carlo la data della sua morte si senti liberato, dimenticò tutto, gli sembrò persino che quei trent’anni di sofferenza non fossero mai esistiti.

Passarono alcuni mesi felici e rapidissimi di cui ci si avvede solo quando sono passati. Una mattina il cappellano per rassicurare ancora di più re Arturo disse che doveva star certo  che il vecchio eremita non avrebbe rilevato a nessuno la data della morte del re e che… Arturo impallidì, non capiva… quale eremita?

Si fece spiegare tutto dal riluttante cappellano che si era nel frattempo reso conto di aver combinato un guaio gravissimo: il re non ricordava più perché l’uomo non può sapere di aver saputo una cosa che non sa più.

Ascoltato tutto il racconto piombò su di lui l’inferno, non trovando più pace inviò i suoi gendarmi per tutto il reame a rintracciare “colui che sapeva”; gli avrebbe fatto tagliare la testa e tutto si sarebbe sistemato.

Quando gli condussero dinanzi in catene il vecchio Carlo, questi si mostrò calmissimo ed iniziò a spiegargli perchè non gli avrebbe mai fatto tagliare la testa ed anzi…

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Disturbi della coscienza e grave cerebrolesione acquisita: classificazione e strumenti di valutazione

Con il termine Grave Cerebrolesione Acquisita (GCA) si intende un danno cerebrale dovuto a trauma cranio-encefalico o ad altre cause quali di tipo vascolare, anossico, infettivo o comunque da noxae acquisito, che determina una condizione di coma più o meno protratto, con durata superiore alle 24 ore. I pazienti in seguito a GCA presentano spesso alterazioni dello stato di coscienza

Francesca Fumagalli – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

William James (1980) definisce la coscienza come la “consapevolezza di sé e dell’ambiente che ci circonda”; circa tre quarti di secoli dopo Jannett e Plum (1972) scindono il concetto di attivazione dalla consapevolezza e coniano il termine “stato vegetativo persistente”.

Con “stato vegetativo persistente” riferirsi alla stato di veglia senza consapevolezza (wakefulness without awarness); Plum (1994) aggiunge alla definizione la dimensione temporale “una consapevolezza temporalmente ordinata del sé e dell’ambiente interno ed esterno”.

La coscienza: cos’è

La definizione di coscienza di Cohadon e Salvi (2003) la caratterizza come la

consapevolezza di sé, degli altri, dell’ambiente che ci circonda, quindi essere ‘presenti’ per sé e per gli altri, rispondere agli stimoli.

Essa è riferita sia alla qualità soggettiva dell’esperienza (e in quanto tale non risulta esplicitamente accessibile all’osservazione) che alla consapevolezza di sé e dell’ambiente, e quindi valutabile dal comportamento da essa determinato. La coscienza comprende due componenti:

  • lo stato di veglia, identificato dall’apertura degli occhi
  • il contenuto, identificato con i processi superiori: intelligenza, linguaggio, memoria, affettività.

Lo stato di veglia può essere presente in assenza di qualsiasi contenuto, mentre il contenuto richiede lo stato di veglia per poter essere operativo (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).

La Grave Cerebrolesione Acquisita (GCA)

Con il termine Grave Cerebrolesione Acquisita (GCA) si intende un danno cerebrale dovuto a trauma cranio-encefalico o ad altre cause quali di tipo vascolare, anossico, infettivo o comunque da noxae acquisito (Regione Lombardia, 2011), che determina una condizione di coma più o meno protratto, con durata superiore alle 24 ore, espresso con un punteggio globale alla Glasgow Coma Scale iniziale uguale o inferiore a 8. A tale stato si associano menomazioni sensitivo-motorie, cognitive o comportamentali che possono determinare una disabilità severa (Apolone et al., 2007).

I pazienti in seguito a Grave Cerebrolesione Acquisita (GCA) presentano spesso alterazioni dello stato di coscienza e il cammino verso il recupero presenta modalità e tempistiche molto variabili tra un caso e un altro: per alcuni soggetti il recupero procede molto lentamente, per altri invece emerge una fase di stabilizzazione in seguito ad un iniziale periodo di miglioramento; altri ancora modificano la condizione di coma ma non danno segni di coscienza (Regione Lombardia, 2011). Ne deriva una doverosa necessità di stabilire dei criteri che consentano di definire i possibili scenari e margini di miglioramento: nonostante vi siano evidenze di recupero tardivo superiore ad un anno, non è possibile stabilire dei confini temporali precisi oltre i quali un paziente è da ritenersi in una condizione di non ulteriore evolutività (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).

La coscienza nel coma

Si parla di stato di Coma come condizione clinica caratterizzata da assenza di apertura degli occhi, assenza di produzione verbale comprensibile, assenza di risposta al comando (Teasdale & Jennett, 1974). Il coma rappresenta quindi lo stato contrario alla coscienza e in questo stato entrambe le sue componenti, ossia stato di veglia e contenuti, sono assenti (Inzaghi & Sozzi, 2011) .

La condizione di Stato Vegetativo (SV) viene definita dalla Consensus Conference di Verona 2005 e ripresa nelle “Linee di indirizzo sugli stati vegetativi e di minima coscienza”, approvate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano il 5 maggio 2011. Lo Stato Vegetativo è quindi una condizione clinica di recupero della vigilanza (apertura degli occhi) senza capacità di interazione con l’ambiente circostante. Vi è quindi recupero dell’arousal ma non della consapevolezza di sé e dell’ambiente (Bodart et al., 2013). Il passaggio tra coma e SV è dato dall’apertura degli occhi (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).

Come da linee guida Nazionali sopra richiamate, la condizione di Stato Vegetativo è caratterizzata da:

  • nessuna evidenza di coscienza-consapevolezza di sé o dell’ambiente e incapacità ad interagire con gli altri
  • nessuna evidenza di risposte sostenute, riproducibili, finalizzate e volontarie, a stimoli visivi, uditivi, tattili o nocicettivi
  • nessuna evidenza di comprensione del linguaggio altrui o produzione verbale
  • veglia intermittente manifestata da cicli sonno; veglia sufficiente
  • funzionamento del sistema autonomo ipotalamico e vegetativo che consente la sopravvivenza in presenza di adeguate cure mediche e assistenza infermieristica
  • incontinenza urinaria e fecale
  • preservazione variabile dei riflessi spinali dei nervi cranici (pupillare, oculocefalico, corneale, vestibolo oculare, del vomito)
  • assenza di evidenza di importanti funzioni cognitive

La persona in Stato Vegetativo quindi giace, apparentemente incosciente, anche se può presentarsi ad occhi aperti; mostra in genere funzioni cardiocircolatorie e respiratorie, termoregolazione, funzioni renali e gastrointestinali sufficientemente conservate, sono possibili alterazioni anche marcate ma generalmente dovute a insufficienza d’organo per verosimili complicanze correlate; la persona necessita di supporto nell’alimentazione, che avviene in genere per via enterale o parenterale; mostra alla TC e alla RMN correlati neuronali descrivibili come segni più o meno marcati di danno focale o diffuso (Regione Lombardia, 2011). Monti, Laureys e Owen (2010) parlano di SV persistente se della durata superiore ad un mese, SV permanente se la durata è superiore a sei mesi nel caso di lesioni cerebrali non traumatiche, superiore ad un anno per lesione traumatiche. Recenti lavori hanno proposto di sostituire il termine di SV con quello di “sindrome da vigilanza senza risposta” (Unresponsive wakefulness syndrome) che meglio descrive la condizione clinica, allontanando dall’associazione paziente-vegetale (Bodart et al., 2013).

Lo stato di minima coscienza

Per Stato di Minima Coscienza (SMC) si intende una severa alterazione della coscienza in cui sono documentabili, anche se in modo incostante, comportamenti che esprimono consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante (Giacino et al., 2002). Gli autori propongono i segni su cui si basa la presenza di coscienza, per la quale devono essere presenti uno o più dei seguenti segni:

  • risposta a ordini semplici, risposte verbali o gestuali (indipendenti dall’accuratezza della risposta)
  • verbalizzazione comprensibile comportamenti finalizzati che occorrono in risposta a stimoli ambientali rilevanti
  • appropriato riso e pianto
  • vocalizzazioni o gesti significativi in diretta risposta a stimoli verbali o domande raggiungimento di oggetti con presa adeguata alla dimensione e alla forma dell’oggetto
  • movimenti oculari di inseguimento o fissazione sostenuta in diretta risposta a stimoli salienti o in movimento

Nel lavoro di Bodart e collaboratori (2013) viene inoltre proposta una suddivisione tra SMC “plus”, in cui sono presenti segni di coscienza di alto livello come esecuzione di comandi, verbalizzazioni intellegibili e risposte gestuali o con codice binario si/no, e SMC “minus”, le cui risposte più elementari sono rappresentate dall’osservazione di movimenti oculari di inseguimento in risposta a stimoli salienti, capacità di orientarsi verso gli stimoli nocivi, presenza di movimenti o risposte emozionali appropriate allo stimolo ambientale (sorriso o pianto in risposta a stimoli o temi emotivi oppure vocalizzazioni o gesti in risposta al contesto linguistico o a domande). Il gruppo di lavoro Aspen individua la presenza di una possibile borderzone tra SV e SMC, data dall’osservazione dei primi segni di fissazione e accenno inseguimento (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).

La Locked-in Syndrome

Si parla di emergenza dallo stato di minima coscienza quando è possibile rilevare segni di comunicazione funzionale ed efficiente, quindi appropriata, e l’uso degli oggetti con finalità funzionale, comportamenti finalizzati e in generale dimostrazione consistente di comportamento volitivo (Bodart et a., 2013). La comunicazione può manifestarsi con verbalizzazioni, scrittura, segni di uso di codice binario si/no, uso di strumenti di comunicazione aumentativa (Giacino et al., 2002). In particolare, alla valutazione clinica effettuata tramite la scala Coma Recovery Scale – Revised (Lombardi et al., 2007) vengono rilevate risposte accurate si/no alle sei domande di orientamento rispetto alla situazione, appartenenti al protocollo per le valutazione della comunicazione.  L’uso funzionale degli oggetti richiede un uso corretto di due differenti oggetti per due valutazioni consecutive, in cui i movimenti eseguiti dal soggetto devono essere compatibili con la funzione specifica di ciascuno dei due oggetti (ad esempio, il pettine è portato alla testa o vicino ad essa) (Lombardi et al., 2007). L’esito può comportare una grave disabilità acquisita o evolvere in un buon recupero funzionale (Bodart et a., 2013).

Una situazione critica è rappresentata dalla sindrome Locked-in (LIS Locked-In Syndrome): classicamente i pazienti in questa condizione presentano la maggior parte delle funzioni cognitive preservate, ma output motori pressoché nulli a causa della lesione a livello del tronco encefalico, fatta eccezione per i movimenti oculari (Bodart et a., 2013; Gosseries et al, 2009). Il paziente è “bloccato” nel suo corpo, capace di  percepire l’ambiente circostante ma estremamente limitato nell’interagirvi. Bauer e collaborati (1979) hanno inoltre suddiviso una forma classica di LIS, in cui si riscontra una totale immobilità fatta eccezione per movimenti oculari lungo l’asse verticale e di ammiccamento; una forma incompleta, in cui sono preservati alcuni movimenti volontari e una forma totale, in cui il soggetto si trova completamente immobilizzato compresi i movimenti oculari, con consapevolezza preservata. Questi pazienti sono difficili da diagnosticare, spesso vengono erroneamente considerati in coma o SV: difatti clinicamente è complicato identificare chiari segni di percezione cosciente dell’ambiente, spesso i movimenti oculari possono essere erroneamente interpretati come movimenti riflessi.

Grave Cerebrolesione Acquisita: l’importanza della diagnosi corretta

Nonostante la presenza di raccomandazioni, linee guida e criteri clinici per la classificazione diagnostica, la valutazione del livello di responsività dei gravi cerebrolesi risulta ancora problematica, con percentuali di errore e misdiagnosi che possano variare fino al 48% (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).  Per valutare il livello di responsività è necessario difatti che il soggetto non sia in grado di rilevare e comprendere quello che gli viene richiesto, ma che possegga altresì repertorio motorio e/o comunicativo sufficiente per elaborare una riposta adeguata. Questi due processi di analisi dell’input e produzione a qualsiasi livello di un output possono essere ostacolati dalla presenza di deficit sensoriali (vista/udito), motori, cognitivi (afasia) o da terapie farmacologiche in atto, cui si aggiungono le fluttuazioni nei livelli di vigilanza e di attenzione; tutto ciò può confondere nella valutazione (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).  Studi recenti dimostrano l’efficacia di affiancare alla valutazione clinica anche altri strumenti di indagine, per esempio la tomografia a emissione di positroni (PET) sembra essere uno strumento promettente nella valutazione delle possibilità di recupero dello stato di coscienza in pazienti gravemente cerebrolesi (Mancioppi, 2014).

Per quanto concerne le scale cliniche di valutazione, Inzaghi, Sozzi e collaboratori (2012) le suddividono in 4 gruppi sulla base delle loro caratteristiche. Al primo gruppo appartengono le scale descrittive, facili e rapidi da somministrare e caratterizzate da criteri tassonomici da applicare all’osservazione clinica del paziente; tali scale si dimostrano tuttavia poco sensibili ai cambiamenti minimi dello stato di coscienza e non sono in grado di evidenziare le sottili modificazioni del quadro nel passaggio tra i vari stati di coscienza alterata a causa di un’eccessiva ampiezza delle categorie di punteggio. Tra queste le più utilizzate in Italia sono:

  • Glasgow Coma Scale (GCS) (Teasdale & Jennet, 1974; Jennet & Teasdale, 1981)
  • Levels of Cognitive Functioning Scale (LCFS) (Hagen et al, 1972; Hagen 1997)
  • Disability Rating Scale (DRS) (Rappaport, et al., 1982)

Per quanto concerne la Glasgow Coma Scale (GCS) essa fornisce in brevi tempi indici del livello di vigilanza del soggetto su tre livelli di osservazione che sono l’apertura degli occhi, la risposta motoria e il comportamento verbale. Il punteggio massimo assegnabile con questa scala per indicare la condizione di SV è 10.

Attraverso la Levels of Cognitive Functioning Scale (LCFS) è possibile effettuare una buona descrizione durante il monitoraggio del paziente, sebbene presenti ridotta sensibilità nella variazione dei cambiamenti.

Attraverso la Disability Rating Scale (DRS) è possibile valutare la presenza di disabilità su una scala di punteggi da 0 (nessuna disabilità) a 29 (stato vegetativo grave) suddivisa per 4 categorie di cui vigilanza e responsività, abilità cognitive per la cura di sé, dipendenza dagli altri e partecipazione sociale

Al secondo gruppo appartengono quelle scale che implicano la somministrazione di stimolazioni e l’analisi delle risposte, che tuttavia non consentono di diagnosticare il passaggio da SV a SMC e da SMC a stato di coscienza:

  • Coma/Near Coma Scale (C/NC Scale) (Rappaport et al, 1992)
  • Western Neuro-Sensory Stimulation Profile (WNSSP) (Ansell & Keenan, 1989)
  • Lowenstein Communication Scale for the Minimally Responsive Patient (LCS) (Borer-Alafi et. al, 2002)
  • Disorders of Consciousness Scale (DOCS) (Pape et al., 2005a; 2005b)
  • Sensory Modality Assessment and Rehabilitation Technique (SMART) (Gill-Thwaites, 1997)

In particolare, focalizzandosi sulla Coma/Near Coma Scale (C/NC Scale) essa valuta in tempi ridotti e con minimo impegno del paziente le risposte del paziente con stimolazioni riguardanti diverse modalità sensoriali (verbali, uditive, visive, tattili, nocicettive, olfattive). Nonostante rappresenti un buono strumento per il monitoraggio, utilizza definizioni desuete e soprattutto non risulta adeguata in presenza di deficit cognitivi ‘focali’ e/o motori. La condizione di SV corrisponde ai livelli 2, 3 e 4, mentre i criteri diagnostici per lo SMC coincidono con il livello 1 della scala.

Al Terzo gruppo fa parte l’unica scala che tiene conto delle raccomandazioni dell’Aspen Workgroup, ossia la scala Coma Recovery Scale – Revised (Giacino et al., 2004, versione italiana Lombardi et al., 2007), che attualmente si configura come l’unico strumento che includa i criteri diagnostici attuali (SV-SMC). È costituita da subscale indaganti le funzioni uditiva, visiva, motoria, oro-motoria e verbale, di comunicazione e di vigilanza. Non esistono punteggi totali che permettano una diagnosi di stato ma punteggi parziali. Per ciascuna scala poi è possibile individuare comportamenti compatibili con SV, SMC o Emergenza da SMC.

Al quarto gruppo appartiene l’unica scala reperita, Preliminary Neuropsychological Battery – PNB (Cossa et al. 1999), somministrabile ai pazienti già responsivi ma che per la loro gravità ancora non sono valutabili con test psicometrici strutturati.

Come sintesi di questa approfondita analisi, gli autori concludono che attualmente la CRS-R consente di diagnosticare in modo attendibile le variazioni del paziente, ciononostante anche tale scala  la presenza di deficit cognitivi, motori e sensoriali può inficiare la rilevazione dei dati; sarebbe quindi opportuno sviluppare strumenti cale che contengano indicatori utili per la fase acuta ma che possano esaminare l’evoluzione nel tempo e che consentano diagnosi anche in presenza di potenziali deficit motori, sensoriali e cognitivi (Inzaghi, Sozzi et al., 2012).

Coscienza e grave cerebrolesione acquisita classificazione e valutazione Tabella

Fonte: LINEE DI INDIRIZZO PER IL PERCORSO DIAGNOSTICO DELLA CONDIZIONE DI STATO VEGETATIVO. In: BOLLETTINO UFFICIALE Serie Ordinaria – Lunedì 22 agosto 2011. Disponibile su: http://www.eupolis.regione.lombardia.it/shared/ccurl/922/483/burl%2022agosto2011.pdf

Lacrime di coccodrillo o lacrime reali? Gli psicopatici potrebbero non riconoscere la differenza

Secondo i risultati di un recente studio, le persone con alti livelli di psicopatia non rispondono alle emozioni genuine allo stesso modo della maggior parte delle persone e si dimostrano meno inclini ad aiutare qualcuno che sta esprimendo un vero disagio.

 

La ricercatrice Dawel, della Research School of Psychology dell’Australian National University (ANU) ha indagato come le persone con alti livelli di tratti psicopatici hanno difficoltà a capire quando qualcuno è sinceramente spaventato o turbato, basandosi sulle espressioni facciali delle persone.

Si tratta del primo studio che ha compiuto questa indagine; nello specifico si è cercato di capire come i tratti psicopatici possono influenzare le risposte al disagio genuino (ad esempio un’autentica tristezza) versus disagio finto (ad esempio una finta tristezza volta a manipolare le altre persone).

Lo studio sperimentale

Lo studio è stato condotto su 140 soggetti non clinici, concentrandosi sulle caratteristiche affettive della psicopatia (insensibilità, scarsa empatia, affetto superficiale). Ai partecipanti veniva richiesto di osservare le fotografie di volti che esprimevano un ventaglio di emozioni diverse. Alcuni dei volti fotografati mostravano vere emozioni, mentre altri le fingevano.

I risultati mostrano come le persone con alti livelli di tratti psicopatici non rispondono alle emozioni genuine allo stesso modo della maggior parte delle persone:

molte persone quando vedono qualcuno che è veramente turbato, si sentono male per loro e questo li motiva all’aiuto – ha detto Dawel – Le persone con uno spettro molto elevato di psicopatia non mostrano questa risposta.

È emerso che le persone con alti livelli di tratti di psicopatia mostrano una ridotta capacità di discriminare le espressioni di disagio autentiche da quelle finte; inoltre le persone con bassi livelli di tratti psicopatici riportano una maggiore intenzione di aiutare le persone il cui volto mostra un genuino disagio, propensione che si indebolisce, tendendo a scomparire, quando i tratti di psicopatia aumentano: le persone con alti tratti psicopatici non sono disposte ad aiutare qualcuno che sta esprimendo un vero disagio, così come invece lo è la maggior parte delle persone.

Il dato più interessante emerso è che questi deficit nell’individuazione e nella risposta alle emozioni altrui sembrano esser presenti solo nel caso di emozioni di tristezza o paura.

Nel caso di emozioni quali la rabbia, il disgusto e la gioia, le persone con tratti di psicopatia elevati non hanno mostrato alcun deficit nel comprendere se qualcuno stesse o non stesse fingendo.

Conclusioni e prospettive future

La dott.ssa Dawel auspica che i risultati del suo studio possano portare ad una migliore comprensione della psicopatia e di conseguenza a migliori trattamenti e interventi volti ad una promozione dello sviluppo morale.

Successivi studi andrebbero condotti su un campione di bambini, in quanto la ricercatrice ipotizza un possibile contributo genetico alla presenza di tratti psicopatici: uno studio condotto all’inizio dell’infanzia potrebbe aiutare a far più chiarezza anche su questo punto.

Come si può abbracciare un porcospino? Gli interventi di Anger Management per il discontrollo della rabbia

Gli interventi di Anger Management sono di notevole aiuto per i pazienti con discontrollo della rabbia. Diversi sono i protocolli di Anger Management a disposizione dei clinici. Tali protocolli, per dirsi efficaci, devono prestare attenzione ad alcuni fondamentali elementi.

 

La rabbia rientra tra le emozioni di base individuate da Ekman nel 1972, ciò significa che è un’emozione innata, che si può riscontrare in qualsiasi popolazione e anche in altre specie animali (Darwin, 1872), la rabbia quindi è un’emozione universale.

Come qualsiasi altra emozione, la rabbia è generata da una valutazione cognitiva di un’esperienza, una situazione o un evento (sia interni che esterni) che l’individuo vive. Essa deriva da un senso di ingiustizia: quando qualcosa intorno a noi va come non dovrebbe andare o come non ci aspettiamo che vada, allora proviamo rabbia.

La rabbia, al pari delle altre emozioni, ha un valore adattivo: ci aiuta a ristabilire il senso di giustizia venuto a mancare. Essa quindi, in alcune circostanze, può essere funzionale al benessere dell’individuo. Esistono tuttavia dei casi in cui la rabbia può diventare problematica e disfunzionale, è bene in questi casi intervenire con protocolli di Anger Management.

Il discontrollo della rabbia

La rabbia è un processo che segue alcune fasi (inizio, durata, attenuazione), accompagnate da cambiamenti fisiologici e comportamentali che, come abbiamo visto, possono avere una funzione di adattamento dell’individuo all’ambiente. I cambiamenti fisiologici li conosciamo, tra questi troviamo l’aumento della pressione sanguigna e il battito cardiaco accelerato. Vi sono anche dei cambiamenti comportamentali che variano da individuo a individuo. Mentre per alcuni è più facile gestire e controllare questo stato emotivo, per altri non si riscontra la stessa facilità e spesso si manifesta un discontrollo della rabbia che può sfociare in comportamenti aggressivi e violenti verso cose, verso se stessi e verso gli altri.

Facile comprendere come gli individui con discontrollo della rabbia possono andare incontro a problemi psicologici e relazionali: la rabbia è di solito descritta come sgradevole e problematica da chi la prova (Tafrate, Kassinove, & Dundin 2002; Lachmud, DiGiuseppe, & Fuller 2005), porta le persone a pensare in modo irrazionale (Tafrate et al. 2002) e a comportarsi in modo rischioso e imprevedibile per se stessi e per chi sta loro vicino.

Anche da un punto di vista fisico, il discontrollo della rabbia ha i suoi effetti negativi, provocando in particolare ipertensione e malattie coronariche (Suls & Bunde, 2005).

Anger Management: il protocollo di Brandolo, DiGiuseppe e Tafrate

Tra i più autorevoli esperti in tema rabbia e Anger Management è giusto citare Raymond DiGiuseppe, autore, insieme ad altri, di innumerevoli studi sull’argomento. Uno dei più completi protocolli di Anger Management è quello proposto da DiGiuseppe, Brondolo e Tafrate nel 1997. Le fasi del protocollo sono le seguenti:

  • Alleanza terapeutica e presentazione delle tecniche

La rabbia non stimola empatia. Nessuno abbraccerebbe un porcospino! (DiGiuseppe e Tafrate, 2001) Inoltre, i pazienti arrabbiati spesso vogliono solo sfogarsi per le ingiustizie di cui si sentono vittime e vogliono cambiare i comportamenti degli altri piuttosto che la loro reazione emotiva. Ciò può influire negativamente sul raggiungimento di un accordo sugli obiettivi della terapia, aspetto importante dell’alleanza terapeutica. Pertanto, i terapeuti devono convalidare vissuto emotivo dei clienti arrabbiati (ma non la loro reazione) all’inizio del processo di Anger Management.

Per favorire l’alleanza terapeutica e l’inizio della relazione, si può stimolare la speranza “accentuando il positivo”. Ad esempio si può iniziare ogni sessione con “Mi dica qualcosa di positivo che è successo questa settimana. Un evento che l’ha fatta arrabbiare ma in cui è riuscito a gestire la rabbia in modo efficace”. Nel caso in cui il paziente non riporti alcun esempio, potrebbe anche essere utile “accentuare il negativo” evidenziando i costi della rabbia eccessiva, in questo modo potremmo generare la motivazione al cambiamento.

  • Analizzare i trigger

Obiettivo di questa componente è la valutazione completa degli stimoli che causano rabbia, a partire da un’analisi attenta degli aspetti di una situazione (il tono, i gesti, le parole o l’ambiente) che hanno dato il via allo scatenarsi della reazione disfunzionale. La prima volta, se lo desiderano, i pazienti possono raccontare l’intera storia senza fermarsi. Successivamente li fermiamo durante alcuni passaggi del racconto e chiediamo loro di identificare e valutare l’intensità dei loro sentimenti.

  • Focus sui valori

La ristrutturazione cognitiva può essere una componente importante degli interventi di Anger Management. Bondolo, DiGiuseppe e Tafrate (1997) ricorrono al concetto di “valori fondamentali” per identificare gli schemi cognitivi che organizzano la risposta delle persone ai trigger scatenanti la rabbia. I valori (cioè dignità, cura, uguaglianza, fiducia, fratellanza, comunità, integrità, realizzazione, ecc.) sono un modo positivo e facilmente accessibile di etichettare un insieme di credenze e idee interne che ogni persona possiede. Un’analisi dei pensieri, effettuabile tramite la tecnica dell’ ABC, può chiarire i valori della persona. Una certezza comune sostenuta dalle persone arrabbiate è che il non esprimere rabbia di fronte a una provocazione equivale a dare il permesso all’altra persona di continuare a comportarsi in modo provocatorio. Per affrontare obiezioni come questa, il terapeuta può evidenziare l’integrità dei valori delle persone (es. la dignità), restituendo il fatto che questi siano positivi e vantaggiosi. La terapia ha lo scopo di aiutare a cambiare il modo in cui si difendono questi valori ma non i valori stessi: il terapeuta deve aiutare a distinguere tra il valore e i metodi per far fronte alle violazioni di questo valore. In questo caso bisogna stare attenti a non trasmettere ai pazienti l’idea che un abuso vada subito, perché potrebbe portare a un drop-out. Va invece sottolineato che il controllo emotivo è un prerequisito fondamentale per elaborare una risposta efficace a contrastare l’ingiustizia. Una buona metafora da usare è quella delle arti marziali: il buon allenamento alle arti marziali inizia con l’allenamento al controllo emotivo.

  • Ridurre l’eccitazione fisiologica

Un modo per insegnare le abilità di rilassamento è iniziare con un semplice esercizio di respirazione addominale, e quindi adattare molti degli esercizi forniti nel Rilassamento Progressivo (Jacobson, 1974) e praticarli anche a casa. I partecipanti possono iniziare con brevi sessioni di pratica, da 2 a 3 minuti di respirazione addominale lenta 3 o 4 volte al giorno, in macchina o prima di dormire. Durante la sessione, viene fornito un feedback pratico fino a quando i partecipanti non sono in grado di ridurre il loro livello di tensione di circa la metà. Esempi di feedback includono lodi e istruzioni specifiche sulle parti corporee da rilassare (ad es. “Prova a rilassare la mascella” “stai respirando magnificamente”). È importante che i partecipanti siano in grado di ottenere una riduzione del 50% della tensione corporea nella sessione prima di iniziare gli esercizi di esposizione. Alcuni individui possono farlo subito; altri hanno bisogno di più pratica.

  • Esposizione

La maggior parte delle sessioni in un intervento di Anger Management è dedicata alle tecniche di esposizione. Durante l’esposizione, al paziente vengono presentate una serie di provocazioni per un periodo prolungato di tempo, e gli si chiede di provare a calmarsi mentre è esposto alle provocazioni. Questa esposizione prolungata è progettata per consentire alla risposta emotiva di estinguersi. Le parole vanno dette con un’inflessione neutra, i pazienti spesso lo sperimentano come divertente e l’umorismo li aiuta a leggere i commenti attraverso una prospettiva migliore. Un tono piatto aiuta le persone a capire rapidamente cosa li preoccupa del commento. Si può avere anche l’esposizione a un gesto: il terapeuta semplicemente fa il gesto senza altre verbalizzazioni. Se necessario, il terapeuta può fare il gesto più lentamente, diminuendo l’aspetto della minaccia. Il terapeuta aumenta via via l’intensità degli stimoli fino a quando il paziente resta calmo. I pazienti sono incoraggiati a guardare direttamente la persona che provoca (cioè, la persona che li schernisce), senza fare commenti o intraprendere alcuna azione. Un trigger che produce una forte risposta di rabbia può richiedere più sessioni di esposizione.

E’ importante fornire maggiore supporto ai clienti durante le esposizioni alla rabbia. Nello specifico, le persone possono avere convinzioni molto forti sulla necessità di rispondere con aggressività alle ingiustizie percepite, e mettere in discussione queste convinzioni può risultare molto difficile per il paziente. Un modo in cui fornire supporto è quello di dire al paziente cosa esattamente accadrà durante la sessione di Anger Management. È utile descrivere l’intera procedura nel dettaglio e indicare in che modo verrà fornito il supporto (per es: “Se ti agiti troppo ti aiuterò a calmarti ricordandoti di respirare, puoi fermarti in qualsiasi momento”). Durante l’esposizione vanno forniti feedback positivi e frasi che aiutino a rilassarsi come “Continua a respirare, calma te stesso”

Durante le procedure di esposizione e desensibilizzazione, i terapeuti tengono il passo con lodi costanti e incoraggiamenti. Gli autori di questo protocollo di Anger Management suggeriscono di fornire circa dieci commenti positivi per ogni singolo feedback correttivo dato al paziente. L’obiettivo è che i clienti arrabbiati abbandonino la loro convinzione che l’aggressività sia l’unica difesa necessaria contro l’insulto. Il feedback positivo infonde coraggio e porta le persone a riflettere sulla situazione prima di rispondere impulsivamente.

  • Consolidamento del supporto

Il passaggio finale di un intervento di Anger Management dovrebbe essere quello di allenare il paziente all’ascolto attivo e all’assertività. Questo, negli interventi sistemici o di gruppo, è un passaggio di notevole importanza se esteso anche gli altri membri del gruppo o ai familiari: allenare all’ascolto e all’assertività, consente di ottenere uno strumento in più per contenere la rabbia del paziente, nel caso in cui venga nuovamente provocato. Se l’individuo ha una storia significativa di aggressioni fisiche incontrollate, sarebbe utile allenare all’ascolto più di una persona significativa per aiutarlo a calmarsi durante situazioni provocatorie.

Sebbene il programma illustrato possa dirsi di facile applicazione, va posta particolare attenzione in alcuni casi: una valutazione dello stato mentale dei pazienti può essere d’aiuto per riconoscere quei casi in cui l’esposizione potrebbe diventare problematica: è il caso di pazienti psicotici o pazienti che fanno regolare uso di droghe o alcool.

Per i pazienti che presentano altri disturbi, tra cui il disturbo da deficit di attenzione o i disturbi dell’umore, è importante assicurarsi che stiano seguendo un trattamento adeguato e appropriato per queste condizioni sottostanti prima di valutare se i metodi basati sull’esposizione aiuteranno a gestire la loro rabbia (DiGiuseppe, 1995; Tafrate, 1995).

Organizzare lo spazio fisico nel proprio studio è un passo importante. Se vi è la preoccupazione che gli individui possano diventare aggressivi durante un’esposizione in-vivo, si raccomanda di collocare le sedie relativamente distanti tra loro, con il terapeuta seduto tra i due partecipanti (nel caso in cui il protocollo venga applicato alla coppia o al gruppo). Il terapeuta deve sentirsi a proprio agio nel toccare i partecipanti e dovrebbe tenere ogni persona nel suo posto se inizia a sollevarsi.

Gli interventi di Anger Management per aumentare le capacità di mettersi nei panni dell’altro

Feedback visivo

Attraverso questo metodo (Storms, 1979; Önder e Öner-Özkan, 2003) si permette ai pazienti di rivedersi nei filmati ripresi durante delle conversazioni con altre persone (o col terapeuta) mentre si simulano alcune situazioni che hanno scatenato rabbia. Coerentemente con l’effetto attore-osservatore (Jones e Nisbett, 1971), i pazienti, rivedendosi, aumentano la loro capacità di ricondurre sempre meno la rabbia alla situazione (attribuzione situazionale) e sempre più a un loro tratto personale (attribuzione disposizionale). Allo stesso modo, le reazioni dell’altro attore, assumono più carattere situazionale e meno disposizionale. Le attribuzioni situazionali sembrano, non a caso, correlate allo stile di elaborazone cognitiva degli individui antisociali (Mohr et al, 2008), mentre le attribuzioni disposizionali incoraggerebbero una maggiore responsabilità personale per il proprio comportamento.

La tecnica delle sedie

Tecnica molto utilizzata nella Terapia Gestaltica, è utilizzata per aumentare la consapevolezza di sé. La tecnica della sedia aiuta il paziente a rielaborare diversi conflitti, tra sé e con gli altri, poiché incoraggia a usare una prospettiva alternativa per analizzare gli eventi conflittuali e aiuta i pazienti con discontrollo della rabbia ad attribuire delle spiegazioni alternative a quel comportamento che hanno interpretato come provocatorio. Questa tecnica risulta particolarmente utile nei percorsi di Anger Management per quei casi in cui i pazienti sembrano “bloccati” in una situazione confilttuale (Mohr et al., 2007).

Terapia del perdono

La terapia del perdono promuove la risoluzione del conflitto facilitando la presa di prospettiva altrui. Il perdono si ottiene attraverso quattro fasi (Enright e Human Development Study Group, 1996):

  1. una fase di scoperta in cui vengono analizzati i vissuti emotivi (es. analizzare le difese psicologiche, confrontarsi con la rabbia, ecc.);
  2. una fase che analizza le vecchie strategie messe in atto dal paziente (ad es. discutere della visione alterata di un “mondo giusto” secondo il paziente);
  3. una fase di apprendimento nuove risposte (compassione, empatia nei confronti del colpevole, accettazione del dolore);
  4. una fase finale del consolidamento (prendere consapevolezza della diminuzione degli effetti negativi, dell’aumento delle emozioni positive e della liberazione emotiva interna) (Denton and Martin, 1998).

Questo tipo di approccio è più utile per quei pazienti che hanno reagito con rabbia eccessiva a eventi in cui sono stati vittimizzati.

Interventi di Anger Management: le componenti principali

Col passare degli anni alcuni interventi di Anger Management sono stati perferzionati e diversi sono i protocolli da poter utilizzare per la gestione della rabbia. Tuttavia, ci sono degli elementi fondamentali (alcuni già visti) che, a detta di DiGiuseppe e Tafrate (2001), non devono mai mancare in un percorso di Anger Management:

  • Coltivare l’alleanza terapeutica: convalidare il vissuto emotivo dei clienti arrabbiati, ma non la loro reazione
  • Accrescere la motivazione per il cambiamento: aiutare a distinguere tra rabbia funzionale e disfunzionale e diventare consapevoli delle conseguenze negative della rabbia disfunzionale
  • Gestire l’eccitazione fisiologica
  • Favorire il cambiamento cognitivo: aiutare i clienti a promuovere percezioni realistiche e accurate, attraverso degli interventi di ristrutturazione cognitiva, porta a cambiamenti emotivi e comportamentali.
  • Favorire il cambiamento comportamentale: i pazienti con problemi di rabbia spesso hanno dei repertori comportamentali carenti e un certo grado di automaticità associato alle reazioni eccessive. L’apprendimento e la pratica di nuove risposte aiutano i pazienti a introdurre comportamenti alternativi nel loro repertorio comportamentale.
  • Insegnare a prevenire le ricadute: ai pazienti con discontrollo della rabbia va insegnato come porre rimedio a un’eventuale ricaduta nei comportamenti disfunzionali di rabbia.
  • Il ruolo del perdono: bisogna far comprendere al paziente che perdonare non equivale a dimenticare: il perdono si verifica quando le persone imparano che ricordare e ad accettare ciò che è stato fatto loro.
  • Considerare un intervento sistemico: valutare la possibilità di sedute con gli altri significativi per il paziente ed esaminare in che modo questi valutano la sua rabbia, o lasciare che condividano con lui le loro percezioni sulle conseguenze negative di tale emozione.
  • Ambiente di rinforzo: chi ha problemi di rabbia frequenta spesso altre persone che validano le sue reazioni e condividono lo stesso modo di esprimere rabbia (Robins & Novaco, 1999). Ciò può comportare un ambiente che rinforza il discontrollo. Gli interventi di Anger Management devono aiutare il paziente a prendere consapevolezza dell’influenza del proprio ambiente di vita sull’espressione della rabbia e promuovere relazioni con altre persone che possiedono una gestione migliore delle proprie emozioni.

Il discontrollo della rabbia è un problema spesso incontrato dai professionisti della salute mentale. Eppure esso risulta un argomento su cui la ricerca ha fatto molta fatica a decollare: per ogni articolo sulla rabbia presente in letteratura negli anni 90, ne venivano pubblicati 10 sulla depressione e 7 sull’ansia (Kassinove & Sukhodolsky, 1995). Le strategie delineate sono delle proposte da cui attingere per sviluppare programmi di Anger Management ad hoc per il singolo paziente. Sebbene l’elenco di tali strategie non sia esaustivo, esse derivano dai più promettenti dati di ricerca disponibili.

 

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