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Sentimenti di solitudine nelle bambine: un nuovo studio evidenzia il ruolo chiave della figura paterna

Sentimenti di solitudine sono frequenti anche nell’infanzia. In questa fase della vita, il modo che abbiamo di affrontare questi sentimenti sembra essere influenzato anche dalla relazione con i propri genitori.

 

Un recente studio ha indagato il grado di percezione che i bambini hanno della solitudine mettendo in luce che, soprattutto le bambine, sono portate a sperimentare un minor senso di solitudine quando è presente un forte legame con il proprio padre.

Uno stretto rapporto con la figura paterna, infatti, sembrerebbe aiutare in particolar modo le bambine a sentirsi più protette e consentirebbe loro di affrontare più velocemente le circostanze della vita in cui si trovano a sperimentare un senso di solitudine, quali ad esempio gli anni della scuola elementare.

Lo studio sperimentale

Sono state coinvolte in questo studio 695 famiglie che hanno partecipato al programma “Study of Early Child Care and Youth Development”.

Il progetto di ricerca prevedeva che entrambi i genitori, sia le madri che i padri, valutassero la rispettiva relazione con i propri figli in base a sentimenti di vicinanza e di conflitto durante gli anni della scuola elementare. Nei bambini è stata invece valutata la presenza di sentimenti di solitudine ed è emerso che tali sentimenti tendono ad essere presenti in misura maggiore nel primo, nel terzo e nel quinto anno di scuola elementare, con un andamento che sembra essere decrescente tra il primo e il quinto anno di scuola.

Secondo l’autrice dello studio, Julia Yan, non c’è da stupirsi se durante questo periodo della vita i sentimenti di solitudine siano presenti in misura più elevata, in quanto è proprio in questa fase che i bambini sviluppano il proprio bisogno di autonomia e di indipendenza, nascono nuovi legami con il gruppo dei pari e i bambini trascorrono più tempo fuori casa.

Sulla base di quanto appena affermato è possibile anche spiegare la tendenza a diminuire nel corso del tempo del senso di solitudine come risultato della creazione di nuovi legami affettivi e del fatto che i bambini tendono a sentirsi via via sempre più sicuri delle proprie abilità sociali.

L’esistenza di differenze di genere nella percezione della solitudine

Dallo studio emerge che la percezione dei sentimenti di solitudine dei bambini non cambia nello stesso modo ma esiste una significativa differenza di genere tra bambini e bambine nel percepire tali sentimenti.

Secondo Yan, probabilmente tale differenza può essere spiegata in relazione al fatto che i genitori tendono ad essere meno insistenti con i figli maschi nello spingerli a socializzare e mettono meno enfasi sull’importanza di mantenere dei legami.

Un altro risultato interessante che emerge da questo studio è che la relazione materna non sembra avere alcun tipo di effetto sulla percezione della solitudine da parte dei bambini. Ciò potrebbe essere dato dal fatto che in genere le madri hanno quasi sempre legami forti con i propri figli.

Diverso è invece ciò che si evince dallo studio delle relazioni tra padri e figli, in particolare con le figlie femmine. L’autrice motiva questa differenza sostenendo che i padri, a differenza delle madri, generalmente si occupano meno della cura quotidiana dei figli ed hanno quindi la libertà di creare e sperimentare diverse modalità d’interazione.

In particolare, lo studio ha messo in evidenza come bambine con un forte legame affettivo con il proprio padre riuscissero ad affrontare meglio questa fase della vita ed il senso di solitudine che lo accompagna. Non si è riscontrato invece lo stesso fenomeno nei maschi.

Alla luce di questi risultati, gli autori dello studio suggeriscono ai padri di coltivare il proprio rapporto con i loro figli, in particolare con le figlie femmine, prestando attenzione ai loro sentimenti ed aiutandoli a fronteggiare le situazioni difficili; questo potrebbe aiutare a prevenire sentimenti di solitudine nel futuro.

La riformulazione nel ‘qui e ora’ della relazione terapeutica

La riformulazione si inserisce all’interno di un setting interpersonale inteso come contesto di collaborazione reciproca tra terapeuta e paziente, dove la relazione terapeutica è lo strumento di esplorazione che permette di ricostruire e di comprendere i motivi del problema avvertito dal soggetto.

 

In questo articolo si farà riferimento in particolare al ‘qui e ora’, al modo in cui si manifestano gli aspetti connessi al problema emotivo del paziente negli scambi relazionali che si instaurano nel corso della seduta.

Infatti, è proprio nel contesto della relazione terapeutica che si dovrebbero creare le condizioni di coinvolgimento in grado di facilitare al paziente la comprensione del suo funzionamento emotivo.

La riformulazione del problema in Psicoterapia

La riformulazione è uno dei passaggi cardine del modello cognitivo post-razionalista.

La prima riformulazione consiste nel ridefinire il problema del paziente, poiché di frequente (almeno nella fase iniziale), i sintomi vengono percepiti da quest’ultimo come scollegati dal proprio modo di essere: in questo senso possono essere definiti ‘esterni’; viene quindi proposta una lettura più ‘interna’, cioè connessa agli specifici temi emotivi del soggetto, i quali se non adeguatamente riconosciuti possono risultare disturbanti (sintomo).

Nelle prime sedute, inoltre, il terapeuta dovrebbe cercare di individuare l’organizzazione di significato personale alla base della sintomatologia riferita dal soggetto così da avere un orientamento circa il modo più efficace per riformulare quest’ultima; inoltre, avere un’idea del ‘significato personale’ del paziente permette, fin da subito, di impostare la relazione terapeutica in un modo personalizzato e coerente con i suoi temi emotivi.

Per esemplificare in cosa consiste una prima riformulazione può essere utile una breve sintesi tratta da un caso clinico descritto da Guidano: Gregorio è un giovane commercialista che da alcuni mesi presenta delle ‘idee brutte’ – accompagnate da ruminazioni e ansia intensa – che riguardano gravi malattie che potrebbero colpire la moglie o il suocero e che assumono la forma di ‘presentimenti’. Si manifestano prevalentemente la sera quando si rilassa davanti alla TV e unicamente il riferirle alla moglie attenua la paura che i malanni immaginati possano verificarsi solo per il fatto di averli pensati. Il paziente precisa che queste idee sono assolutamente indipendenti da lui (sintomo ‘esterno’), in quanto considera sia la moglie che il suocero fra gli affetti più cari (Guidano, 1992).

Il terapeuta fa notare al paziente come dal suo racconto si possa desumere la presenza di emozioni intense e di stati d’animo articolati che precedono i ‘brutti pensieri’ (ipotesi sulla quale Gregorio concordava) e che avrebbero meritato di essere indagati meglio. Ciò viene condotto mettendo a fuoco (autosservazione) la sequenza di immagini, di emozioni e pensieri che si succedevano nei momenti critici (il momento in cui si presentavano le ‘idee brutte’) così da poter comprendere in che modo queste modulazioni emotive e immaginative potessero essere vissute in modo così perturbante da innescare ruminazioni e ansia/paura (riformulazione ‘interna’) (Guidano, 1992).

Come si evidenzia nell’esempio citato, attraverso la riformulazione si portano i pazienti a ‘guardare’ il disagio emotivo da una prospettiva diversa. Si tratta di un processo progressivo che si svolge lungo tutto il corso di una psicoterapia seguendo il filo conduttore dei temi che emergono via via che si conduce l’analisi del problema.

La relazione terapeutica come fonte di perturbazione emotiva

Nell’ambito del modello post razionalista la relazione terapeutica stessa viene utilizzata come fonte di perturbazione emotiva, come mostra Guidano nel descrivere i passaggi relazionali con un paziente alla continua ricerca di rassicurazioni circa la sua salute.

Le richieste di incoraggiamento avvenivano anche quando il paziente non era particolarmente preoccupato di stare male, essendo infatti finalizzate a verificare la capacità di protezione del terapeuta e la sua calma nel rispondere alle domande. In queste situazioni il terapeuta da una parte cercherà di non offrire troppe rassicurazioni, perché in questo modo potrebbe confermare una lettura esternalizzata in termini di sintomo fisico, e dall’altra non dovrebbe spazientirsi a causa dei ripetuti quesiti posti dal paziente, dato che questi ultimi costituiscono il suo modo di chiedere sostegno anche di tipo relazionale.

Il terapeuta deve trasformare le domande (di rassicurazione del paziente NdA) in parte del lavoro di ricostruzione terapeutico. Deve infatti ascoltare e dire: “Lei vuole che le dica se avrà un infarto ora che mancano dieci minuti alla fine della visita e lei sa che la stessa cosa è successa martedì scorso, dieci minuti prima della fine della visita, e anche in quell’occasione mi ha chiesto di rassicurarla sul fatto che non avrebbe avuto un infarto. Sembra che questa sia la sua maniera di congedarsi da me, il suo modo particolare di congedarsi da qualcuno di significativo. Sembra che lei voglia una rassicurazione da parte di una persona significativa e se ciò non avverrà non potrà andarsene”. Tutto questo si può trasformare in una fonte di perturbazione: il terapeuta deve prendere il contesto relazionale e restituirlo come una ricostruzione senza confermare né negare (Guidano, 2007).

Nel passaggio citato si può notare come venga sfruttato quanto accade nel contesto della seduta, per far osservare al paziente il suo modo specifico di avvertire il distacco all’interno di relazioni significative e come egli tenda a percepire gli stati emotivi e relazionali sotto forma di preoccupazione per la salute.

Perché l’intervento risulti veramente pertinente ed efficace è fondamentale che il terapeuta abbia un’adeguata conoscenza delle proprie dinamiche emotive e personali perché la riformulazione deve scaturire dall’osservazione delle regole di ‘funzionamento’ del paziente e non dall’effetto che il comportamento di quest’ultimo fa al terapeuta.

L’importanza di lavorare nel ‘qui e ora’ in terapia

Risulta altresì importante lavorare nel ‘qui e ora’ anche con i soggetti che presentano una sensibilità al giudizio, in quanto questa, naturalmente, potrebbe manifestarsi anche nel contesto terapeutico. Tale preoccupazione, se non viene evidenziata e riformulata, finirà con l’interferire con il lavoro terapeutico in quanto il paziente sentendosi a disagio nel parlare di sé potrà risultare vago nel raccontare episodi significativi e nel descrivere i sentimenti che prova.

Infatti, quando sono presenti i temi sopra descritti, l’attenzione del paziente di frequente è diretta a cercare di capire l’atteggiamento del terapeuta piuttosto che il contenuto di quanto emerge. Anche laddove la riformulazione /spiegazione proposta in terapia viene accettata dalla persona, il processo di comprensione e approfondimento può interrompersi (o essere discontinuo) perché subentrano temi di confronto/opposizione, il dubbio di avere compreso bene, il desiderio di compiacere il terapeuta; tutti aspetti che interferiscono con l’assimilazione di quanto si svolge nel corso della seduta.

In merito può essere utile un breve esempio. Un medico, affetto da ansia intensa nei contesti nei quali si sentiva sotto esame e messo alla prova, inizia la terapia “mettendo le mani avanti” perché spiega da subito che non crede alla sua efficacia. Sono anni che nei periodi in cui si sentiva sotto pressione assume ansiolitici. Ha deciso di fare un tentativo con la psicoterapia perché vorrebbe evitare di prendere i farmaci per tutta la vita. In prima seduta fornisco qualche informazione sul lavoro che potremmo fare e propongo un paio di incontri per inquadrare il problema così che lui stesso possa valutare se lo ritiene un percorso utile.
Fin da subito le riformulazioni circa il significato dell’ansia vengono condivise dal paziente e lo aiutano a capire le caratteristiche delle situazioni dove questa si manifesta consentendo quindi una lettura più ‘interna’ e una riflessione in merito alla scelta effettuata di assumere dei farmaci.

Già dopo i primi incontri, grazie a una maggiore consapevolezza degli stati emotivi, il paziente inizia ad esprimere un cambiamento di opinione circa la psicoterapia.

Tuttavia, avere acquisito fiducia nel terapeuta – e quindi nella terapia – piuttosto che facilitare il lavoro ha fatto sì che il paziente si sentisse più esposto al suo giudizio; notando il crescente disagio, l’attenzione è stata spostata a ricostruire cosa avvertiva durante i colloqui, spiegandogli che si trattava sempre di un contesto relazionale, seppure con caratteristiche peculiari, e quindi meritevole di essere indagato.

Grazie all’intervento mirato è emerso che il paziente si sentiva agitato nel raccontare alcune situazioni percepite come più critiche, perché avrebbero potuto influire negativamente sull’immagine che mi stavo formando di lui; situazione analoga a quella che si presentava in famiglia o in altri contesti significativi. Quindi la riformulazione iniziale è stata ampliata al contesto stesso della terapia.

Applicare la riformulazione al ‘qui e ora’ consente, quindi, di individuare le situazioni nelle quali il soggetto finisce per parlare non di quanto gli crea davvero disagio, ma solo di ciò che non lo espone a un potenziale giudizio critico da parte del terapeuta. In questo modo la resistenza stessa a parlare di sé viene riformulata e diventa più agevole affrontare il tema centrale, cioè la difficoltà che comporta sentirsi esposto al giudizio (reale o immaginato).

Pertanto, sfruttare la riformulazione nell’immediatezza della terapia – con le diverse le manifestazioni disagio psicologico – permette di lavorare sui passaggi critici che il paziente incontra nella situazione attuale e facilita il processo di ricostruzione dei vissuti emotivi in termini di significato personale, in quanto i dati sono presenti in quel momento; inoltre, aiuta a contenere eventuali fattori di ostacolo – per esempio relazionali – perché vengono riformulati all’interno del lavoro terapeutico e quindi sfruttati per la comprensione delle difficoltà avvertite dal paziente. Un’eventualità di questo tipo potrebbe essere rappresentata dai ritardi o dalle sedute annullate che, se inquadrati all’interno della struttura di personalità del paziente, possono diventare oggetto del lavoro in corso piuttosto che un elemento di disturbo.

Affrontare le modalità relazionali ricorrenti del paziente nell’immediato: l’importanza della relazione terapeutica nel ‘qui e ora’

Facendo riferimento al ‘qui e ora’ può essere utile citare Irvin D. Yalom, psichiatra, professore emerito della Stanford University e scrittore il quale pur non parlando di riformulazione ritiene che lavorare focalizzandosi su quanto accade in seduta risulti una delle fonti di materiale più rilevanti per la psicoterapia.

Yalom definisce il suo modello terapeutico ‘esistenziale’ e all’interno della sua prospettiva un passaggio essenziale consiste nell’incoraggiare i pazienti a individuare il ruolo che possono avere nel mantenere la situazione di disagio che vivono. Riconoscere questa dinamica è importante al fine di far cogliere alle persone che per apportare dei cambiamenti nella propria vita occorre spostare l’attenzione da ciò che accade nel contesto esterno a sé stessi.

A questo proposito nel libro ‘Il dono della terapia’, Yalom dedica ampio spazio a come lavorare nel ‘qui e ora’. In particolare fa riferimento all’utilità di cercare, all’interno della relazione psicoterapeutica, un equivalente del problema presentato all’inizio dal paziente e questo per almeno due motivi: il primo riguarda l’importanza dei rapporti interpersonali nella vita delle persone, per cui molti si avvicinano alla psicoterapia proprio a causa delle difficoltà a formare e mantenere relazioni durevoli e gratificanti. Il secondo, invece, fa riferimento alla terapia come microcosmo sociale dove presumibilmente le modalità relazionali del paziente si manifesteranno anche nel ‘qui e ora’ della relazione terapeutica.

Il qui e ora si riferisce agli avvenimenti immediati dell’ora di terapia, a ciò che sta accadendo qui (in questo studio, in questo rapporto, in questo spazio nel mezzo – lo spazio tra me e il paziente) e ora, in questa precisa ora. È sostanzialmente un approccio astorico e toglie enfasi al (ma non nega l’importanza del) passato storico del paziente o gli avvenimenti della sua vita esterna (Yalom, 2014).

Pertanto se un paziente riferisce una problematica relazionale come si può procedere?

Generalmente i terapeuti esplorano la situazione in profondità e cercano di aiutare il paziente a capire il suo ruolo nella transazione, di esplorare opzioni per comportamenti alternativi, di investigare motivazioni inconsce, di cercare di indovinare le motivazioni dell’altra persona oltreché eventuali schemi – cioè situazioni simili che il paziente ha creato nel passato. Questa strategia di lungo respiro ha i suoli limiti: non solo il lavoro è soggetto a essere intellettualizzato, ma fin troppo spesso si basa su dati non accurati forniti dal paziente (Yalom, 2014).

Se si individua un equivalente della dinamica disfunzionale nell’ambito della terapia secondo Yalom il lavoro diventa molto più immediato e accurato.

Tra gli esempi riporta il caso di una signora sessantenne, vedova, che si lamentava della difficoltà a stabilire una nuova relazione affettiva. Gli uomini che incontrava spesso svanivano senza darle alcuna spiegazione. Aveva fatto una crociera con l’ultimo dei suoi corteggiatori, Morris, che in quell’occasione si era lamentato di una serie di comportamenti della paziente come il suo tirare sui prezzi, saltare le code ecc.; rientrati dal viaggio il signore era sparito e non aveva neppure risposto alle telefonate e la paziente non riusciva a mettere in correlazione il suo atteggiamento con la reazione dell’altro.

Yalom racconta di non avere avuto difficoltà a immaginare come poteva essersi sentito Morris considerando che anche lui avvertiva fastidio per alcuni comportamenti della paziente e nutriva la fantasia che lei potesse decidere di interrompere la terapia.

Yalom valuta, quindi, che piuttosto che esplorare la relazione con il corteggiatore poteva risultare più proficuo concentrarsi su quanto accadeva in terapia. Infatti anche in questo contesto la paziente aveva messo in atto la sua modalità usuale trattando sulla parcella fino a strappare uno sconto, non perdendo occasione per fargli pesare il pagamento, richiedendo sempre ulteriore tempo oltre il termine dell’ora proponendo problemi che presentava come urgenti. Inoltre ogni volta che rimaneva insoddisfatta da quanto emerso nella seduta non mancava di fare rilevare quanto le costava. Grazie al lavoro svolto nell’ambito della relazione con Yalom, la paziente ha avuto modo di cogliere i motivi del suo comportamento e l’effetto che potevano fare all’altro, il tutto in diretta. Una maggiore comprensione degli effetti del suo comportamento sugli altri, farà sì, in questo caso, che in seguito la paziente chiamerà l’ex-corteggiatore per scusarsi.

L’esempio rende bene quanto in alcune occasioni lavorare nell’immediatezza possa essere più produttivo che ricostruire episodi esterni alla terapia.

Un altro caso descritto da Yalom, sempre nel ‘Il dono della terapia’, prende avvio da un episodio verificatosi nel suo studio: la rottura del chiavistello della zanzariera. Il terapeuta racconta come i pazienti avevano reagito in modo diverso tra loro. Alcuni non prestando attenzione, altri dando suggerimenti e, infine, una paziente, Nancy, cercando ogni volta di sistemarla lei stessa e per di più scusandosi come se lo avesse rotto lei. Yalom sfrutta l’opportunità per indagare la modalità relazionale della signora:

Y: «Nancy” dissi, “sono incuriosito dal fatto che lei si scusa con me. È come se la mia porta rotta, e la mia trascuratezza nel ripararla, fossero in qualche modo colpa sua».
N. : «Ha ragione. Lo so. Eppure continuo a farlo».
Y: «Ha qualche idea del perché?».
N.: «Penso che abbia a che fare con quanto lei è importante e quanto importante sia per me la terapia, e il voler essere sicura di non offenderla in alcun modo».
Y. : «Nancy, può provare ad indovinare come mi sento ogni volta che si scusa? ».
N.: «Probabilmente è una cosa irritante per lei» (Yalom, 2014).

Nel proseguire del dialogo la paziente riconosce che l’atteggiamento messo in evidenza dal terapeuta infastidisce anche il marito e altre persone. Yalom, pertanto, si avvale di quanto accade in seduta (l’equivalente) per far cogliere alla paziente come sforzandosi di essere gentile finisca in realtà per fare innervosire gli altri.

Le sedute successive, continua a raccontare Yalom, portano ad individuare un sentimento di rabbia verso le persone vicine, genitori, marito, figli e lui stesso. La paziente rivela a Yalom come la zanzariera rotta la innervosisse così come anche la scrivania disordinata. Emerge, inoltre, l’insofferenza di Nancy per la lentezza con cui stava procedendo la terapia. Da notare come Yalom non ha mistificato nel porre la domanda iniziale e non ha cercato di sminuire il problema, ha subito fatto riferimento alla propria trascuratezza per poi indagare l’effetto che faceva alla paziente.

Se Yalom non avesse colto l’opportunità del chiavistello e si fosse concentrato solo su quanto riportato in seduta forse avrebbe perso l’occasione di far emergere più chiaramente e velocemente la modalità della paziente di ‘coprire’ l’irritazione e la rabbia con un atteggiamento di gentilezza, che per questo risultava un po’ ‘forzata’.

Integrazione tra dati diretti e indiretti

Parlando di ‘qui e ora’ è importante ricordare la distinzione evidenziata da Guidano fra dati diretti (comportamento verbale e non verbale osservabili in seduta) e indiretti (resoconti di eventi avvenuti); entrambi devono essere utilizzati nel portare avanti l’esplorazione delle problematiche emotive.

Più precisamente i dati di osservazione indiretta riguardano il racconto, il resoconto del paziente che può essere riferito alla sua storia, al giorno prima o anche al giorno stesso, ecc. Mentre i dati di osservazione diretta fanno riferimento a quanto viene osservato dal terapeuta sia in merito ai racconti del paziente sia rispetto a come si comporta in terapia: la postura, la mimica, il tono di voce, gli atteggiamenti ecc.

Quando si lavora nel ‘qui e ora’ l’indagine parte dai dati diretti ma è sempre strettamente connessa con quelli indiretti perché il paziente entra nello studio del terapeuta con la sua storia personale e con le sue esperienze relazionali che finiranno per influenzare anche la costruzione del rapporto stesso; quindi i dati indiretti sono sempre presenti e vanno adeguatamente considerati.

Però, c’è sempre un rapporto preciso tra dati diretti e dati indiretti. Il primo punto che vale la pena di specificare è l’effetto che hanno i dati di osservazione diretta, ciò che accade adesso, su quello che il paziente vi riferisce, sui dati indiretti. Il secondo punto da osservare è quale influenza hanno i dati indiretti, ciò che viene raccontato, su ciò che accade adesso. È un’interazione reciproca… (Guidano, 2008).

Pertanto l’intervento nel ‘qui e ora’ deve essere inserito all’interno degli ingredienti emotivi ed esperienziali che concorrono a definire il modo in cui il paziente elabora il proprio vissuto personale.

In conclusione

Riassumendo quanto esposto: quando il contesto terapeutico lo permette può risultare conveniente e vantaggioso ai fini della psicoterapia sfruttare il contenuto della riformulazione nel ‘qui e ora’; per effettuare questo tipo di intervento occorre prestare attenzione a quando si presenta all’interno della relazione terapeutica un equivalente (usando il termine di Yalom) del problema riferito dal paziente.

In questo modo il processo di ricostruzione e comprensione delle dinamiche alla base del problema del paziente può essere più immediato. Inoltre all’interno di una buona ‘alleanza’ terapeutica il paziente può essere maggiormente recettivo a cogliere una riformulazione perché questa parte dall’osservazione di ciò che si verifica in un contesto dove sente l’altro (il terapeuta) affidabile e ‘dalla sua parte’.

Detroit Become Human: recensione di un videogame

Col passare del tempo i videogiochi hanno assunto una sempre maggiore importanza all’interno della vita delle generazioni che si sono susseguite a partire dagli anni 90. Parallelamente a ciò anche le “critiche” sono aumentate proporzionalmente favorendo la comparsa di considerazioni negative che hanno incentivato la “demonizzazione” dei videogiochi.

 

Nell’immaginario collettivo, i videogames vengono ancora visti come strumenti in grado di condizionare il giocatore a livello mentale o addirittura spingerlo alla violenza e ad atti inconsulti.

Come già più volte affermato, quando parliamo o abbiamo a che fare con i videogiochi, le rappresentazioni maggiormente condivise sono le seguenti:

  • I videogiochi possono causare comportamenti violenti: il videogioco come strumento che influenza le emozioni assieme al comportamento. Un pensiero piuttosto diffuso si basa sull’idea che esporre i giocatori a certi concetti, come la violenza in un gioco, renda quei concetti più facilmente realizzabili nella “vita reale”. Si tratta in parole povere del concetto di priming. Esperimenti precedenti a quest’ultima ricerca hanno portato a risultati piuttosto vari e in certi casi contrastanti.
  • I videogiochi causano asocialità: il videogioco viene inteso come mezzo che favorisce il ritiro sociale, quasi come se si preferisse relazionarsi ai personaggi fittizi del gioco piuttosto che le persone reali.
  • I videogiochi come strumento che dissociano dalla realtà: questo pensiero attribuisce al videogioco la pericolosa capacità di sostituirsi al mondo reale, imprigionando l’utente in mondi fantastici.
  • I videogiochi sono diseducativi: il videogioco può trasmettere una visione del mondo sbagliata o comunque non conforme ai valori che i genitori vogliono trasmettere ai propri figli.

Videogames e dipendenza

Recentemente, con la storica decisione presa dall’OMS, il medium videoludico è tornato a far parlare nuovamente di sé in una connotazione tutt’altro che positiva. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto ufficialmente la dipendenza dai videogames come “malattia mentale”. Sebbene si riconosca l’esistenza di un legame morboso con il videogioco, nulla dimostra (vista la mancanza di sufficienti prove scientifiche a carico), che sia proprio questo strumento a causarlo e che invece tale relazione non sia semplicemente la manifestazione di problemi di altro genere.

Detto questo, ci terrei a precisare però una cosa: il videogioco non deve per forza essere a etichettato come “male assoluto”. Nel 2006 uno studio intitolato “Cultura del videogioco: mondo giovanile e mondo adulto a confronto” prodotto da AESVI (Associazione Editori e Sviluppatori Italiani) in collaborazione con l’Istituto IARD, ovvero il network nazionale di ricerca e documentazione sulle condizioni giovanili e sulle politiche per la gioventù, ha sfatato alcuni dei pregiudizi legati al mondo dei videogiochi. Anzi, si ribadiva che i videogiochi sono educativi e stimolano la creatività e la socialità. Ma non solo. I videogames possono essere utilizzati anche come veicolo comunicativo per trattare temi molto difficili e sensibili all’opinione pubblica, come ad esempio aveva approfondito la software house Ninja Theory con Hellblade Senus’s Sacrifice parlando della schizofrenia.

Videogames: quali valenze positive?

Il grande beneficio dei videogiochi è dato inoltre dalla capacità di unire la componente ludica all’esercizio motorio. Avete presente wii Sports? Nel libro Game therapy. L’uso dei mondi virtuali in campo sanitario scritto da Claudio Pensieri (2013) ci viene parlato di EVREST, primo trial randomizzato per valutare la fattibilità, la sicurezza e l’efficacia dell’utilizzo della realtà virtuale offerta da un gioco della Nintendo Wii rispetto alla tradizionale terapia di riabilitazione per migliorare il recupero e il riacquisto delle funzionalità del braccio in pazienti colpiti da ictus. I software utilizzati erano Wii Sports e Cooking Mama.

Un’altra valenza positiva dei videogiochi è rappresentata dal contatto sociale; in effetti, la pratica dei videobgiochi è un’opportunità di interazione sociale (vedi gli eSports o il conosciuto Pokémon Go), e promuove, secondo alcuni esperti, lo sviluppo di un’intelligenza “di gruppo” che fa esercitare un sistema cognitivo complesso. Grazie alla loro natura interattiva i videogiochi permettono a chi vi gioca la sperimentazione del flusso psicologico (o stato di flow) che non è altro che una condizione di soddisfazione e benessere data dal coinvolgimento nell’attività sperimentata nella sessione del gioco. Il flusso psicologico tuttavia non è una condizione sempre presente durante le sessioni di gioco, è infatti uno stato emotivo raggiungibile solo nelle condizioni in cui si raggiunge un buon equilibrio tra le “abilità” del giocatore e la difficoltà del gioco. Se la sfida risulta essere troppo facile non sarà necessario dare la totale attenzione al gioco, poichè si può vincere investendo meno risorse (rischiando però di far annoiare il giocatore). D’altro canto se la sfida è presente con un alto coefficiente di difficoltà, e le mie abilità sono inadatte a superarla, sarà facile che l’utente abbandoni il gioco perchè eccessivamente impegnativo. Se invece le due dimensioni sono presenti entrambe a livelli soddisfacenti, ecco che si presenta il flow, quel livello di concentrazione ottimale che ci permette di andare avanti con il proseguimento del gioco.

Detroit: Become Human: l’ultimo arrivato tra i videogames

Terminata questa breve introduzione, vorrei trattare il tema dell’ultimo capolavoro videoludico per PS4 prodotto dall’azienda francese Quantic Dream, vale a dire di Detroit: Become Human. Nello specifico partendo in primis dalla struttura del gioco stesso, verranno evidenziate una serie di tematiche psicologiche riscontrate analizzando questo prodotto ludico.

In Detroit: Become Human viviamo in un mondo futuro, fatto di auto che si pilotano da sole e robot senzienti che hanno liberato l’umanità dalla schiavitù del lavoro. La situazione che ci viene mostrata è lontana però dall’essere un’utopia ben riuscita. Da una parte, la maggior parte degli esseri umani tratta gli androidi come degli schiavi o persino dei punching ball su cui sfogare ogni frustrazione o istinto deviato. Dall’altra, l’introduzione dei robot nel mondo del lavoro ha portato a un aumento della disoccupazione e inizia a esserci una fetta consistente della popolazione che vorrebbe vederli demoliti. A rendere tutto ancora più instabile, da qualche tempo alcuni androidi sono diventati “senzienti”: la loro intelligenza artificiale è evoluta autonomamente a uno stadio cosciente e quindi vorrebbero sottrarsi al giogo degli umani. Non solo hanno iniziato a disobbedire ai “padroni”, ma in alcuni casi sono arrivati ad aggredirli, anche se magari per semplice difesa personale. Questi androidi vengono definiti “devianti” e fanno molta paura a tutti. Piccola precisazione: la razza androide senziente è l’espediente utilizzato in Detroit: Become Human per parlare di schiavitù, razzismo, violenza, timore del diverso e la paura ancestrale del sopravvento delle “macchine” a discapito dell’intera umanità. Le paure ancestrali, per chi ne fosse all’oscuro, costituiscono un caso particolare di ansia, ossia di un evento minaccioso, probabile ma non attualmente presente né imminente. Le paure ancestrali condividono con l’ansia la natura potenziale dell’evento in grado di provocare la reazione emotiva. Tuttavia, mentre l’ansia può essere considerata come la paura di un evento non presente ma noto, la paura ancestrale può essere considerata la paura di un evento non presente e che mai è stato incontrato nel corso dell’esistenza.

Detroit: Become Human: i personaggi

Nell’universo ludico di Detroit: Become Human, controllerete tre diversi androidi. Markus, maggiordomo tuttofare di un anziano artista costretto sulla sedia a rotelle, è stato disegnato per prendere coscienza. Per porsi delle domande. Per soffrire delle sue scelte.

Kara, il secondo punto di vista “indossabile” dal il giocatore, è invece un robot da compagnia, che ha la sfortuna di finire in una topaia in cui il capofamiglia è senza lavoro, incolpa i robot di tutte le sue sfortune, è violento e alza il gomito. Qui incontra la piccola Alice e per proteggerla dal capofamiglia diventerà una “deviante”. Infine Connor, appartenente alla serie di androidi più evoluti della CyberLife, è un poliziotto cacciatore di devianti, progettato per assistere gli investigatori umani nelle indagini. Le storie dei tre personaggi sono apparentemente slegate ma, quando la trama inizierà a dipanarsi, le strade tre soggetti si incontreranno nuovamente.

I lineamenti caratteriali di questi tre personaggi di Detroit: Become Human potranno essere decisi dal giocatore lungo tutto la loro storia. Le sfumature comportamentali di Kara ad esempio risentiranno delle nostre imposizioni, ma nel complesso la sua personalità sarà meno “modellabile”, ma non per questo meno empatica, rispetto agli altri due protagonisti. Markus, al contrario di Kara, risulterà essere il più soggetto al cambiamento: il suo temperamento sarà interamente a discrezione dell’utente, che avrà la facoltà di optare sia per una ribellione aggressiva e feroce, sia per una protesta pacifica incline al dialogo ed alla pietà. E infine ci sarà Connor, costantemente in bilico tra la necessità di adempiere il suo compito e l’empatia che potrebbe provare per ogni suo simile accusato di omicidio.

Detroit: Become Human: l’importanza del prendere decisioni

Detroit: Become Human si presenta come un videogame dove si dovranno compiere delle scelte: il giocatore sarà invitato a prendere delle decisioni, per nulla banali e con conseguenze a lungo termine, dove dovrà fare la cosa giusta al momento giusto in un limitato lasso di tempo introdotto dal Quick Time Event. Ricollegandomi alla Captologia di J.Fogg, ovvero a quella branca delle scienze sociologiche che studia l’impatto delle tecnologie sull’essere umano, il Quick Time Event (che riprende da essa la specificità dell’effetto Kairos) ha la funzione di attirare l’attenzione del giocatore al fine di coinvolgerlo attivamente garantendo così un suo coinvolgimento sempre più attivo e profondo.

La scelta sbagliata, che per alcuni potrà sembrare quella giusta, porterà al dipanarsi selvaggio della trama verso bivi imprevedibili, determinando la vita o la morte dei protagonisti e comprimari. Le scelte effettuate dal giocatore avranno a che vedere, a volte, con l’etica e la morale dello stesso giocatore. La struttura della narrazione del gioco Detroit: Become Human procede per episodi che possono essere ripercorsi e rivissuti per capire cosa sarebbe successo prendendo decisioni diverse. Ogni scena occupa un tempo variabile, a seconda anche di quanto il giocatore voglia spendere nella sua esplorazione e seguendo tutti i bivi. Questo sistema permette al giocatore di “immergersi” nell’esperienza e nell’evoluzione della trama, proprio come se fosse quasi un film interattivo in cui siete voi a scegliere come agire. Al termine di ogni capitolo, ci verrà presentato un diagramma di flusso che ci mostrerà da dove siamo partiti e dove siamo arrivati, rivelandoci le nostre scelte e i momenti in cui abbiamo preso una decisione così da capire quali “bivi” hanno avuto una influenza sulla “trama” dinamica del gioco. Nella scena “Ostaggio” ad esempio ci sono circa ben 30 possibilità di modificare il flusso degli eventi. Non c’è un giusto e uno sbagliato, c’è solo un’avventura da vivere e nella quale farsi trasportare anche emotivamente dove il “vissuto” di ogni singolo giocatore sarà sempre diverso mentre andremo avanti con il “gioco di narrazione” prodotto dalla software house svedese. E le reazioni dei diversi youtubers, se avrete mai occasione di guardare qualche loro sessione di gioco su Youtube, lo confermano.

Detroit Become Human un videogame che ci impone scelte difficili imm2

Lo schema delle possibilità di modificare il gioco nella scena “Ostaggio”

Ancora oggi c’è chi minimizza l’universo videoludico considerandolo solo ed esclusivamente per la componente ludica senza coglierne tuttavia la sua maturazione e le potenzialità intrinseche. Parlandovi precedentemente dell’ossatura di Detroit, è stato introdotto il concetto di “gioco di narrazione”, noto anche nel mondo videoludico come storytelling.

Videogames e storytelling

Cosa vuol dire storytelling? Letteralmente significa “raccontare una storia”. Ed è proprio ciò che si fa durante la partita: si diventa narratori, creatori di mondi fantastici e di storie avvincenti, dando libero sfogo all’immaginazione. Ma attenzione: anche se, in un certo senso, tutti i giochi raccontano una storia, è solo in alcuni che la narrazione diventa l’elemento centrale dell’esperienza ludica. Quando si parla di storytelling però bisogna fare una precisazione: al giorno d’oggi ne esistono difatti diversi formati. I più utilizzati sono il visual storytelling, il social media storytelling e l’interactive storytelling. Quest’ultimo formato, in cui possiamo ritrovare a pieno titolo il videogioco di Detroit: Become Human, è strutturato in racconti in cui lo spettatore può decidere di fare andare avanti una storia scegliendo tra più opzioni e vedendo quindi dei risvolti diversi.

Anche in psicologia si può parlare di storytelling. Narrare rappresenta l’unico modo che l’essere umano possiede per far conoscere un accaduto o la propria storia. Non è possibile, infatti, presentarsi al mondo se non narrandosi. Sono le storie che le persone raccontano e si raccontano della propria vita a determinare il significato che loro stesse attribuiscono alle esperienze vissute. Le esperienze che l’Io compie danno forma all’identità: narrarle dà loro un senso, le inserisce in un contesto, in un tempo e quindi in una storia già esistente. Oltre ad essere un essenziale strumento relazionale quindi, la narrazione rappresenta anche, e soprattutto, la via attraverso cui dare forma alla propria identità. Quello che narro, poi, è sempre influenzato da chi mi sta ascoltando o da chi immagino mi stia ascoltando. Probabilmente il mio stile cambierà anche in funzione del pubblico o di quello che immagino sia il mio pubblico. Nel momento in cui narro, compio una scelta: scelgo cosa narrare di me e cosa no, cosa far trasparire, ecc… Questo è particolarmente evidente se racconto un fatto della mia vita a un amico, a un nemico, ad una persona che mi sta antipatica, ad una persona che mi sta simpatica, ad una persona di cui mi vorrei innamorare o ad una persona che odio. L’attività narrante quindi si completa e acquista senso solo se c’è un ascoltatore della narrazione. Non è sufficiente, infatti, che qualcuno narri se non c’è nessuno che ascolti ciò che sta narrando. All’intenzionalità di chi racconta, quindi, è sempre indispensabile si leghi l’intenzionalità di chi sta ascoltando quel racconto. Ma in un contesto di cura, qual è l’efficacia della narrazione? In un’intervista rilasciata dalla psicoterapeuta Valentina Mossa nel 2016 sul portale Identità in gabbia ci vengono forniti degli utili spunti di riflessione. La Dott.ssa Mossa afferma che:

…la centralità narrativa permette di costruire una storia di cura ovvero una co-costruzione di un percorso di cura,. Accade quindi che il paziente non sia più un soggetto passivo ma attivo promotore dei suoi miglioramenti; la narrazione contribuisce a migliorare il rapporto tra la persona e il suo curante, restituendo al paziente la propria dignità di persona che- finalmente- non si sente esaminata solo da un punto di vista clinico.

Continua la stessa Mossa:

…il solo fatto di rappresentare simbolicamente con una storia la propria situazione ha un immediato effetto terapeutico, perché avvicina a dei processi profondi alla coscienza facilitandone così la comprensione e la gestione. Lo psicologo come storytellers offre al paziente la possibilità di creare e modellare varie storie che curano: una storia che cura non è né un racconto casuale né  una semplice storia bensì un racconto costruito deliberatamente per conseguire un preciso scopo.

All’interno della relazione psicoterapeutica si viene a creare quindi tra paziente e terapeuta una polarità narratore-ascoltatore della narrazione. Nel momento in cui si racconta qualcosa che appartiene al proprio passato, infatti, non lo si rivive, lo si ricostruisce. Il qui ed ora della terapia diventa il luogo e il tempo fertile all’interno dei quali iniziare a vivere esperienze nuove, nuovi modi di sentire, versioni diverse della propria esistenza e, quindi, nuovi racconti. La narrazione aiuta quindi il paziente a riaprire il finale in quanto, in un certo senso, gli offre la possibilità di togliere la parola fine. Come può allora Detroit: Become Human “raccontare” di noi stessi? Di fronte alle scelte da prendere durante le varie sessioni di gioco, chiediamoci questo: nella vita reale, cosa faremmo? Se dovessimo agire in un certo modo, come nella scena di Kara in cui potremo scegliere di intervenire per evitare che violento Todd colpisca sua figlia, lo faremmo per una reale solidarietà? A tutte queste domande non è il videogioco a rispondere, ma il giocatore. Il videogioco, dunque, diventa il “racconto” di noi stessi. Un’esperienza simile la ritroviamo anche nel famoso Until Dawn, videogioco horror sviluppato nel 2015 da Supermassive Games.

Detroit: Become Human : i risvolti psicologici

Un altro aspetto caratteristico in Detroit: Become Human dai risvolti psicologici interessanti, fa riferimento al mondo delle emozioni. Le emozioni, come si sa, esercitano una forza incredibilmente potente sul comportamento umano. È proprio il mondo delle emozioni, o meglio la capacità di questo videogioco di suscitare/far “provare” emozioni al gamer ed ai protagonisti principali unita alle particolari tematiche trattate, ad aver contribuito al successo del prodotto videoludico pensato da David Cage. In un videogioco i meccanismi che stanno dietro alle attivazioni emotive sono innumerevoli e variano a seconda dall’identificazione con i personaggi, dall’immedesimazione nella storia, dagli aspetti grafici e di intrattenimento fino a concludere con la dimensione di sfida. Le combinazioni di queste componenti abbinata all’attivazione emotiva conseguente provocata nel giocatore, possono produrre esiti molto diversi tra loro: come un videogioco può fare gioire, commuovere ed entusiasmare, può anche suscitare rabbia o frustrazione.

A proposito di ciò, per cercare di rendere più chiaro quanto vi dicevo, voglio porre alla vostra attenzione l’ultimo trailer del titolo di Quantic Dream mostrato alla Paris Games Week 2017 prima del suo debutto ufficiale. Questo trailer, visibile poco sotto, ha riscosso non poche critiche a causa della presenza di alcune scene considerate da alcuni utenti e giornalisti troppo forti e cruente, vede come protagonista il già citato androide Kara. Nella sezione mostrata, ricollocabili nello specifico nella scena “Notte tempestosa”, vediamo Todd, padre drogato di red eyes, arrabbiarsi in malo modo con sua figlia di appena dieci anni. La rabbia dell’uomo spaventa tremendamente la piccola, che esclama: “Sta arrivando, verrà a farmi del male!”. I giocatori, nei panni del cyborg possono decidere di agire in differenti modi. In uno dei possibili finali della scena, tuttavia, la bambina sembra apparentemente morta, mentre il padre, che poggia la mano sul suo piccolo corpo inerme, dichiara: “È tutto finito, papà non è più arrabbiato.”

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER

DETROIT: BECOME HUMAN – IL TRAILER ITALIANO: 

In un’intervista rilasciata a Eurogamer, David Cage prova a venire in nostro soccorso spiegandoci come mai sia stata scelta una forte tematica come questa. Ecco cosa dice:

Cosa ne penso? Provo a raccontare una storia che abbia importanza per me, che trovo commovente, interessante ed emozionante. Io non glorifico mai la violenza, è un mio principio, non faccio mai niente senza una giustificazione. Ci deve essere un fine, un senso, qualcosa che sia significativo per le persone. Perché ho voluto fare tutto questo? Per me è una scena forte, struggente, volevo mettere il giocatore nei panni di questa donna. Ho scelto il suo punto di vista. Se avessi scelto il punto di vista dell’uomo sarebbe potuto essere stata una storia completamente differente, con emozioni completamente differenti…

Ed è proprio così. Osservando le reazioni emotive di alcuni youtubers maschili e femminili che han giocato la scena in questione, mi sento di confermare il presupposto rilasciato da Cage durante l’intervista. Nel videogioco di Detroit: Become Human tuttavia le scene ad alta intensità con una forte componente emotiva non si limitano esclusivamente al personaggio di Kara. Se prendiamo in considerazione per esempio la scena iniziale “Ostaggio”, tra l’altro disponibile come demo, con protagonista Connor possiamo notare come tra i tanti finali possibili sia presente la morte della piccola prigionera tenuta in ostaggio dal cyborg Daniel…prigioniera con una pistola puntata alla testa e in bilico sul cornicione dell’alto grattacielo dove abita. Un’altra sequenza interessante la ritroviamo nella scena “Distrutto” dove possiamo notare Markus, badante dell’anziano Carl, scontrarsi con Leo, reo di essere geloso dell’interesse di suo padre verso l’automa. A seconda delle scelte che prenderemo nei panni dell’automa potremo provocare la morte di Leo, quella dello stesso cyborg o vedere Markus che in lacrime chiama “padre” il vecchio Carl morente.

Dall’intervista del produttore traspare un altro punto interessante che bisogna di cui terrei a spiegarvi. Correlato al discorso delle emozioni in Detroit è (anche) quello dell’intelligenza emotiva, strettamente correlata al costrutto dell’empatia, nonché al concetto di mentalizzazione. Questi concetti erano già emersi parlando di Life is Strange, videogioco della DONTNOD che tratta temi adolescenziali.

Saper dare un nome a ciò che proviamo interiormente, parlarne alle persone che ci sono vicine, condividere il nostro mondo interiore con chi ci circonda, sono le componenti essenziali della nostra intelligenza emotiva, che ci aiutano a rendere la vita più facile e più adattata alla realtà sociale, oltre che contribuire a migliorare la nostra salute. Nel 1990 gli psicologi Salovey e Mayer coniarono il termine intelligenza emotiva. Daniel Goleman, divenne consapevole del loro lavoro e poco più di 20 anni fa pubblicò un libro che, in poco tempo, divenne un bestseller mondiale: “Emotional intelligence”. Secondo l’autore le abilità che compongono l’intelligenza emotiva sono cinque, e cioè: la consapevolezza di sé, l’autoregolazione, la motivazione, le capacità sociali e l’empatia. A proposito dell’empatia lo psicoterapeuta americano Carl Rogers ha evidenziato come essa sia basilare e fondamentale nelle relazioni umane. Per lui l’empatia è la capacità di mettersi  nei panni altrui soprattutto per quanto riguarda il sentire/percepire il vissuto emozionale dell’altro. Rogers utilizza l’Empatia nella comunicazione (verbale e non verbale) per immergersi nel mondo soggettivo altrui, attraverso un’identificazione parziale, in un contesto di accettazione autentica e priva di giudizio. L’empatia quindi facilita la comprensione della sfera emozionale dell’altro che viene accettato sotto ogni aspetto ed ogni sentimento poiché ha una funzione di completa apertura verso l’interlocutore, senza riserve, senza pregiudizi ed  allo scopo di ottenere un’evoluzione autentica nella relazione tra due persone.

Detroit: Become Human e l’empatia

A proposito del processo empatico, lo psichiatra e psicoanalista Serge Tisseron arricchisce quanto fatto da Rogers spiegando l’esistenza di tre diversi livelli di empatia all’interno di ciascuno di noi. Il primo livello, ovvero l’empatia diretta, è caratterizzata da una condotta in cui la persona si pone “nei tuoi panni”. È questo il caso di Detroit: Become Human dove, come già fatto presente agli inizi dell’articolo, il giocatore “vestirà i panni” dei tre protagonisti del gioco. L’empatia reciproca è invece un secondo livello in cui “riconosco ed accetto che l’altro si metta al mio posto.” Infine il terzo livello denominato empatia intersoggetiva o estimatizzante è un atteggiamento in cui “permetto all’altro di esplorare il mio io e rivelarmi quello che non conosco di me.”

Riguardo al binomio videogiochi ed empatia vorrei citarvi brevemente un’interessante articolo del 2010 pubblicato dall’American Psychological Association e intitolato “Playing prosocial video games increases empathy and decreases schadenfreude”. “Schadenfreude” (Heider, 1958) è un termine tedesco, apparso perfino in un episodio dei Simpson del 1991, che indica una particolare forma di piacere provata quando dalle disgrazie altrui. Nello studio in questione i ricercatori Tobias Greitemeyer, Silvia Osswald, Markus Brauer hanno scoperto che quando i partecipanti coinvolti giocavano con simpatici personaggi chiamati Lemmings, erano molto più propensi a sentirsi meno schadenfreude nei confronti delle altre persone. La ricerca ha quindi dimostrato e supportato l’ipotesi che l’esposizione ai contenuti di videogiochi con un fine prosociale sia correlato positivamente all’aumento dell’empatia interpersonale e dei comportamenti prosociali, diminuendo così la schadenfreude (Greitemeyer & Osswald, 2009, 2010). Questi risultati danno quindi ulteriore credito alla validità predittiva del Learning General Model (Buckley & Anderson, 2006) in merito agli effetti provocati dall’esposizione ai media sulle tendenze sociali. La capacità di cogliere e gestire le emozioni proprie e dell’altro, oltre che ad essere presente in ognuno di noi, trova le sue origini più antiche nella relazione/comunicazione madre-bambino dove una corretta educazione emotiva passa attraverso la capacità dei caregivers di entrare in un contatto affettivo significante con il bambino per comprenderne i reali bisogni. Collegata alla modalità di accudimento ed alle cure ricevute dal bambino nell’infanzia è poi alla fine la capacità di mentalizzazione. Infatti, l’interesse per la mente dell’altro è possibile solo se il bambino ha potuto fare l’esperienza precoce che i suoi stati interni sono stati compresi da un’altra mente. La capacità di mentalizzazione è alla base anche della possibilità di provare empatia per gli stati mentali altrui come confermano le recenti ricerche neuropsicologiche sui neuroni a specchio: siamo, come esseri umani, predisposti a “risuonare” affettivamente con gli stati mentali degli altri sulla base di esperienze. La mentalizzazione risulta compromessa in una percentuale significativa di soggetti che hanno vissuto un’esperienza traumatica, soprattutto nell’infanzia.

Ci sono ancora in Detroit: Become Human altri aspetti interessanti di cui vale la pena parlare e che si riferiscono al processo decisionale insito in ciascuno di noi, ovvero al Decision Making e al tema dell’A.I.

Detroit: Become Human e decision making

Il decision making, ovvero il processo decisionale, può essere considerato come il risultato di processi mentali (cognitivi ed emozionali), che determinano la selezione di una linea d’azione tra diverse alternative. Ogni decision making produce una scelta finale. In genere la presa di decisione è messa in atto per poter risolvere un problema. In termini psicologici tuttavia esiste una certa differenza tra decidere e risolvere un problema. Nel problem solving il nostro atto decisionale è sempre vincolato all’obiettivo che vogliamo raggiungere, mentre nel decision making l’atto di decisione è rappresentato da un ragionamento di scelta dell’alternativa più adeguata all’interno di una serie di opzioni. Uno dei possibili riferimenti teorici da cui a partire per studiare il decision making è il modello di funzionamento mentale proposto dal premio Nobel per l’economia, nonchè rinomato collega, Kahneman. Secondo questo autore la mente davanti alle informazioni le elabora e produce 2 tipi di outupt: le impressioni (automatiche e non controllate) e i giudizi  (frutto di ragionamento e riflessione sulle informazioni). A questi due output corrisponderebbero due sistemi cognitivi: il sistema 1 (veloce, implicito, che lavora in parallelo, automatico e che produce le impressioni) e il sistema 2 (lento, faticoso, controllato, esplicito, non influenzato dalle emozioni e che dà vita ai giudizi). A partire da questo modello la presa di decisione può avvenire in due modi diversi: si avrà una scelta rapida e influenzata dalle emozioni se si attiva il sistema 1 e una scelta lenta e razionale se si attiva il sistema 2. Cosa c’entra però il processo decisionale con il videogioco di Detroit: Become Human? Se vi ricordate, nella parte iniziale dell’articolo, si e’accennato alla struttura del videogioco e di come il suo sviluppo si basasse sulle scelte effettuate del giocatore. Inoltre, nella rivista Current Biology viene riportato un’interessante studio gestito dai ricercatori cognitivi dell’Università di Rochester dove ci viene mostrato come lo sviluppo del processo di decision making sia possibile anche in videogiochi di altro genere, come per esempio gli shooter. In questo esperimento i ricercatori hanno testato decine di bambini tra i 18 e i 25 anni che normalmente non erano giocatori di videogiochi. Hanno diviso i soggetti in due gruppi. Un gruppo ha giocato per 50 ore a videogames “frenetici” come Call of Duty 2 e Unreal Tournament, mentre l’altro gruppo ha giocato 50 ore a un videogioco “lento” come The Sims 2. Dopo questo periodo di “formazione”, a tutti i soggetti è stato chiesto di prendere decisioni rapide in diverse attività progettate dai ricercatori. Nei compiti, i partecipanti dovevano guardare uno schermo, analizzare cosa stava succedendo e rispondere a una semplice domanda nel minor tempo possibile (ovvero se un gruppo di punti che si muovevano in modo irregolare migrassero a destra o sinistra dello schermo). L’attività è stata resa più facile o più difficile variando il numero di punti. Per assicurarsi che l’effetto non fosse limitato alla sola percezione visiva, ai partecipanti veniva anche chiesto di completare un compito analogo puramente uditivo indossando delle cuffie. Lo scopo dell’esercizio consisteva nel decidere se il suono udito provenisse dall’orecchio destro o sinistro. Dalle conclusioni dei ricercatori è emerso che i (video)giocatori del primo gruppo, ovvero quelli che avevano giocato a Call of Duty 2 e Unreal Tournament, hanno svolto più velocemente e risposto più accuratamente alle due attività somministrate dai ricercatori rispetto ai partecipanti del secondo gruppo. E con un incremento del 25 percento in più. (Bavelier, Achtman, Mani, & Föcker, 2011)

Detroit: Become Human e l’intelligenza artificiale

Legato a Detroit: Become Human, è anche il mondo dell’intelligenza artificiale. Intorno ad esso ruotano una serie infinita di argomenti che vanno dal Connessionismo, ELIZA, gli Expert Systems e il recente NORMAN…l’intelligenza artificiale psicopatica creata dal MIT e sottoposta al test di Rorscharch. Maggiori informazioni in merito a questo algoritmo si possono comunque trovare su sito web di Focus disponibile in bibliografia. L’interesse della comunità scientifica per l’Intelligenza Artificiale ha inizio da molto lontano: il primo vero progetto di Artificial Intelligence risale al 1943 quando i due ricercatori Warren McCulloch e Walter Pitt proposero al mondo scientifico il primo neurone artificiale cui seguì poi nel 1949 il libro di Donald Olding Hebb, psicologo canadese, grazie al quale vennero analizzati in dettaglio i collegamenti tra i neuroni artificiali ed i modelli complessi del cervello umano. I primi prototipi funzionanti di reti neurali, cioè algoritmi matematici sviluppati per riprodurre il funzionamento dei neuroni biologici, arrivarono poi verso la fine degli anni 50 e l’interesse del pubblico si fece maggiore grazie al giovane Alan Turing che nel 1950 cercava di spiegare come un computer possa comportarsi come un essere umano. Nell’ambito dell’A.I assumono particolare rilevanza le tecniche che consentono di incorporare la conoscenza di un particolare e limitato dominio in un software in grado di risolvere problemi attinenti a tale campo, emulando le prestazioni di una o più persone esperte in un determinato campo di attività. Genericamente tali programmi sono denominati Sistemi Esperti (o Expert Systems) e si rivolgono a molti campi dell’attività umana. Il Test di Turing, apparso per la prima volta in un articolo intitolato “Computing machinery and intelligence” sulla rivista Mind, prendeva spunto da un gioco chiamato “The Imitation Game” che in sostanza si basa su una conversazione tra tre soggetti: X (uomo), Y (donna) e una terza persona che fa le domande ai primi due soggetti. I tre vengono posizionati in stanze separate e comunicano tra di loro attraverso dei computer. Uno dei primi due interlocutori viene sostituito con una macchina, se chi fa le domande  non riesce a capire quando sta interloquendo con una macchina e quando con un essere umano allora il test può considerarsi superato e la macchina intelligente, quindi in grado di pensare autonomamente. Dalla prima apparizione, di questa teoria se n’è parlato molto nel corso degli anni. Nel 2014, ad esempio, si è verificato un tentativo di superamento del Test di Turing con la partecipazione ad un concorso organizzato dalla Royal Society di Londra da parte di EUGENE GOOSTMAN un programma ideato da Vladimir Veselov, Eugene Demchenko e Sergey Ulasen. Il programma è riuscito ad ingannare i giudici e a spacciarsi per un ragazzino ucraino di 13 anni.

In conclusione, l’organizzazione di Detroit: Become Human è a mio avviso funzionale a massimizzare l’interesse, la partecipazione e il divertimento del videogiocatore. E quindi, lo stato di flow dei parteciparti può soltanto che beneficiarne. Lascio a voi quindi la voglia di scoprire il gioco e nel caso condividerli.

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Kara, personaggio di Detroit: Become Human

 

DSA e Metacognizione: l’importanza dell’approccio metacognitivo come parte integrante del percorso abilitativo ed educativo degli alunni con Disturbi Specifici dell’Apprendimento

Si sente parlare sempre più spesso di metacognizione e della sua esplicazione nei campi più diversi, tanto che oggi la “didattica metacognitiva” riveste un ruolo primario già a partire dalla scuola dell’infanzia ed in particolare nel supporto di bambini con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).

 

Il termine metacognizione, introdotto nel 1976 da John H. Flavell nell’ambito dei suoi studi sulle abilità cognitive e la memoria, indica l’insieme dei processi sovraordinati dell’attività cognitiva e prevede due aspetti fondamentali: la conoscenza che il soggetto possiede circa i propri processi e contenuti di pensiero e i processi strategici e di controllo, ovvero le modalità attraverso cui esercita un controllo su questi.

Metacognizione e processi di apprendimento

La metacognizione è sicuramente trasversale ai processi di apprendimento ed è il motivo per il quale trova un forte interesse nei contesti scolastici e negli attuali piani di formazione dei docenti. Essendo relativa allo sviluppo delle conoscenze sui propri processi cognitivi (includendo pertanto l’attenzione, la memoria e la comprensione), la “didattica metacognitiva”, oggi, costituisce un’area rilevante nei contesti di apprendimento ed educativi, andando a potenziare nell’alunno la conoscenza e l’utilizzo efficace di strategie per l’acquisizione di contenuti disciplinari e di abilità specifiche.

Il fine di questo approccio didattico è, dunque, quello di “imparare ad imparare”, in altre parole ad attivare consapevolmente tutte quelle capacità e quelle procedure volte ad acquisire apprendimenti efficaci e spendibili in contesti differenti e nuove situazioni.

Esiste, pertanto, un profondo legame tra processi metacognitivi e la prestazione legata ad un’attività di apprendimento, regolabile in base al potenziamento di opportune modalità di agire sul compito.

Una di queste, ad esempio, è quella di usare una strategia adeguatamente efficace, per cui un soggetto può decidere, ad esempio, di affrontare un’attività in un certo modo piuttosto che in un altro in base alla consapevolezza del suo stile di apprendimento. Nel momento in cui ci si trova ad affrontare un compito cognitivo, infatti, tendenzialmente si compiono una serie di valutazioni che riguardano: la stima della difficoltà del compito stesso, la previsione del tempo necessario per svolgerlo, la quantità di risorse che verranno impiegate, il monitoraggio dell’esecuzione, l’anticipazione del risultato e la valutazione dello stesso. Pertanto, le competenze metacognitive sviluppano nell’alunno la consapevolezza di quello che sta facendo, del perché lo fa, di quando è più opportuno farlo e, ancora, in quali condizioni.

L’individuo come protagonista del processo di apprendimento

Un aspetto positivo dell’approccio metacognitivo è rappresentato dal ruolo che viene attribuito all’utente: si punta infatti, esplicitamente, ad un ruolo attivo, competente e autonomo. Ciò significa che l’individuo diviene protagonista attivo del proprio processo di apprendimento.

Metacognizione e Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA)

Negli ultimi anni, l’interesse della ricerca di ambito clinico e psicopedagogico, è stato rivolto alla relazione tra metacognizione e Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), riscontrando come questi bambini abbiano, effettivamente, una scarsa consapevolezza dei propri processi di pensiero e nel mettere in atto, quindi, adeguate strategie di esecuzione, controllo e autovalutazione del compito.

Cornoldi asserisce, infatti, che i bambini con Disturbo Specifico della lettura e del calcolo, hanno difficoltà nel riconoscere e mettere in atto strategie efficaci, nonché nell’autovalutazione rispetto al compito, notando come, in questi bambini, sia particolarmente evidente la passività e la meccanicità.

Stone, d’altro canto, aveva precedentemente affermato che i soggetti con DSA presentano frequentemente storie di insuccesso nella scuola dell’obbligo e, pertanto, ad una scarsa autostima di questi alunni, si associa una stima più bassa in merito alle proprie abilità specifiche.

Altri autori ancora hanno individuato che spesso i bambini con DSA risultano carenti per quattro aspetti metacognitivi principali:

  1. scarsa consapevolezza degli scopi della letto-scrittura
  2. carente attivazione di schemi di comprensione
  3. mancata autovalutazione della comprensione
  4. non applicazione di strategie per superare i problemi legati a quest’aspetto (non vanno alla ricerca di strategie per comprendere, ma di strategie per terminare presto il compito o evitarlo)

Palladino e collaboratori, nel 2000, asserirono in effetti che, confrontando un gruppo di adolescenti con DSA e un gruppo di coetanei senza DSA, il primo presentava minori capacità strategiche, minori attribuzioni interne e un numero maggiore di sintomi depressivi.

Alla luce dei dati raccolti dai ricercatori nel corso del tempo, si evince che i bambini con un Disturbo Specifico dell’Apprendimento sembrano avere inadeguate competenze metacognitive non solo riguardo alle abilità scolastiche in senso stretto (lettura, scrittura e calcolo), ma anche riguardo ad altri aspetti, come la memoria, l’autovalutazione, il metodo di studio e l’autostima.

Proprio sulla base di queste osservazioni, oggi i clinici identificano il potenziamento delle dinamiche e dei processi metacognitivi come parte integrante del percorso abilitativo ed educativo di questi alunni.

Come strutturare un percorso metacognitivo in ambito didattico o abilitativo?

Secondo Ianes, volendo articolare un percorso metacognitivo in ambito didattico o abilitativo, è importante lavorare su più livelli:

  • un primo livello riguarda le conoscenze generali in merito a quella che, più tecnicamente, viene definita Teoria della Mente, ovvero quelle conoscenze circa il nostro funzionamento cognitivo generale (memoria, immagazzinamento delle informazioni, attenzione…)
  • un secondo livello riguarda l’autoconsapevolezza del proprio funzionamento cognitivo e del proprio stile di apprendimento, a cui andrebbe affiancato un percorso di accettazione, senza il quale si potrebbero avere ricadute importanti sull’autostima e sulla motivazione
  • ad un terzo livello si lavora sull’uso delle strategie di autoregolazione: fissarsi un obiettivo e individuare la strategia per raggiungerlo (ad es. come posso fare per ricordare la procedura della moltiplicazione?). In tali alunni diviene importante, ad esempio, la riflessione sugli errori prodotti: quando un errore viene utilizzato come occasione di riflessione, i benefici sono molteplici. La semplice correzione è insufficiente: bisognerà cercare di entrare nel percorso metacognitivo del soggetto per capire le strategie inadeguate messe in atto e proporne di nuove e più efficaci. Ad esempio l’alunno potrebbe cercare di darsi delle istruzioni-guida (ad es. scrivere su un foglio una scaletta delle azioni da compiere ad ogni passaggio) e infine valutare il corretto svolgimento delle varie operazioni tramite la calcolatrice. In effetti, l’autoregolazione è, al pari dell’autonomia, un valore riconosciuto come estremamente prezioso nella cultura pedagogica attuale. Essa si può ottenere attraverso strategie di planning, che prevedono la programmazione di una sequenza stabile di azioni in modo tale che non sia omessa nessuna componente. Lo studio strategico, pertanto, risulta in stretta relazione con la metacognizione. Le conoscenze metacognitive relative allo studio riguardano ciò che l’alunno sa, o crede di sapere, relativamente a se stesso come studente, alle sue abilità didattiche, alle varie discipline e al compito specifico che deve affrontare in quel momento, alle strategie da utilizzare, agli scopi che si pone. Autoregolarsi vuol dire, inoltre, saper pianificare le proprie attività secondo tempi e modi, monitorarle in itinere, verificarne i risultati finali (Brown, 1987). A titolo di esempio, processi di autoregolazione attivati durante l’attività di studio possono essere: “questo testo richiede attenzione perché alcuni passaggi sono poco chiari”; “considerati gli impegni pomeridiani organizzerò i compiti in questo modo…”; ” questo capitolo lo studierò dividendolo in sequenze”, “prevedo queste fasi per portare a termine il problema”. Quando si diventa via via più consapevoli, si utilizzano le strategie in modo più automatico e spontaneo, con minor sforzo, maggiore soddisfazione personale e senso di autoefficacia.
  • ad un quarto livello si lavora sulle variabili psicologiche del soggetto legate alla concezione di sé: gli effetti legati all’immagine di se stesso come studente possono infatti interferire, positivamente o meno, sulle attività di studio e di successo scolastico

Questi quattro modelli sono strettamente interconnessi e pertanto l’approccio che ne deriva deve essere globale e integrato.

Riguardo l’immagine che l’individuo ha di se stesso, De Beni e Moè nel 1996, affermavano che, gli alunni con DSA, tendono ad avere uno stile attributivo poco adeguato: tendono ad attribuire i fallimenti a fattori interni (come la scarsa capacità o limitata intelligenza) e i successi a fattori esterni (come la fortuna o un aiuto), ovvero situazioni che risulterebbero al di fuori del loro controllo. Non usano le strategie in modo spontaneo, necessitano di aiuti esterni, spendono più risorse cognitive senza trarre evidenti vantaggi.

È necessario, pertanto, stimolare nel soggetto un senso di controllo positivo, almeno in alcuni settori della vita scolastica, discutendo con lui il rapporto tra la propria attività, gli effetti prodotti da questa e quelli attribuiti a fattori esterni, andando a potenziare i meccanismi del locus of control.

Altresì importante risulta verificare gli atteggiamenti e le convinzioni che possiede riguardo alle strategie e alla loro utilità nel processo di apprendimento: è importante aiutarlo a capire in che modo le sue convinzioni influiscono sulla motivazione e sull’autostima. Ciò significa aiutarlo a capire se stesso e i suoi processi di pensiero e iniziare ad attribuire nuovamente valore all’apprendimento, accorgendosi come quest’ultimo sia in relazione con i suoi interessi e obiettivi personali.

Per concludere

Il bambino con DSA, in effetti, è generalmente un bambino che non ama ciò che fa: le attività scolastiche sono spesso fonte di ansia e frustrazione, pertanto, se non si cambia radicalmente questo segno negativo nel rapporto che egli ha con il proprio lavoro, viene a mancare la molla fondamentale per ogni reale progresso.

Quanto detto finora ci porta a riflettere sul fatto che un intervento specialistico è fondamentale per realizzare un percorso “clinico” e/o educativo significativo e davvero utile.

È fondamentale elaborare dei training basati su un approccio metacognitivo che tenga conto delle caratteristiche individuali dello studente, degli aspetti cognitivi, metacognitivi ed emotivo-motivazionali.

Abituare il bambino ad un assetto di lavoro più ordinato e consapevole è premessa indispensabile perché egli possa provare gratificazione e interesse per ciò che sta facendo.

Togli peso alla tua vita (2017): il racconto di un team di specialisti nella gestione di interventi di chirurgia bariatrica – Recensione del libro

Togli peso alla tua vita è un testo adatto a chiunque sia interessato ad approfondire le proprie conoscenze sul tema della chirurgia bariatrica e su tutto ciò che sta intorno a quello che non è soltanto un semplice intervento.

 

La chirurgia dell’obesità (chirurgia bariatrica o metabolica) ha fatto enormi passi avanti nelle ultime decadi ed è ad oggi il trattamento più efficace per i pazienti con obesità severa. Spesso però questo approccio è considerato come un’ultima spiaggia o una scorciatoia per il paziente, alimentando lo stigma che colpisce l’obesità e chi ne è affetto.

Questo tipo di interventi non possono essere ridotti ad un singolo atto chirurgico ma vanno visti, nell’ottica multifattoriale dell’obesità, come un lavoro di squadra in cui il chirurgo insieme all’endocrinologo, dietista, psicologo e altri professionisti collabora in sinergia sia nel pre che post operatorio per capire cosa è meglio per il paziente in una visione dello stesso a 360 gradi.

Togli peso alla tua vita : racconto di un team di chirurgia bariatrica

Nonostante sia riconosciuta l’efficacia della chirurgia bariatrica nel calo di peso e nel miglioramento delle comorbidità associate al peso e dell’aspettativa di vita, se la persona non modifica il proprio stile di vita, il recupero del peso, o una cattiva qualità di vita, sono inevitabili.

A questo proposito, Andrea Formiga (chirurgo), Zaira Benini (endocrinologa), Alessandra Freda (dietista) ed Emanuel Mian (psicoterapeuta) descrivono nel libro Togli peso alla tua vita, Mind edizione, come, in un team di chirurgia bariatrica, le diverse figure professionali interagiscono verso un obiettivo comune che è “la scelta del percorso più idoneo ed efficace per la persona che richiede un intervento di chirurgia bariatrica”.

Togli peso alla tua vita è suddiviso in 4 parti in cui ogni professionista fa da padrone di casa alla sua specializzazione e al suo ruolo all’interno del team. Ecco come psicologia, dietetica, endocrinologia e chirurgia si susseguono passandosi il testimone prima dell’arrivo al traguardo che è fare conoscere meglio al lettore la chirurgia dell’obesità e l’importanza, e funzione, dell’equipe multidisciplinare.

Un libro attento a mettere la persona al centro perché il primo passo per la cura e gestione di questa condizione complessa è il rispetto verso chi ne soffre. Proprio per questo motivo, a chiusura del testo viene dato spazio alle voci di chi ha scelto questo tipo di percorso.

Togli peso alla tua vita è un testo utile per chi vuole approfondire le proprie conoscenze verso la chirurgia bariatrica (che comprende diverse tipologie di tecniche) e il ruolo che le diverse figure professionali hanno all’interno di un team multidisciplinare, adatto sia a professionisti sia a persone che vogliono avere informazioni utili sulla chirurgia metabolica.

La lettura è una finestra verso la complessità di una malattia cronica e multifattoriale, troppo spesso detronizzata per colpa o scarsa forza di volontà, che invece merita la giusta attenzione e il giusto peso.

Il conformismo in squadra: come i rapporti che si creano in un team sportivo influenzano il comportamento dei singoli atleti

Il crearsi di relazioni positive tra atleti e tra questi ultimi e allenatore, è fondamentale per raggiungere risultati soddisfacenti. Un recente studio, condotto con atleti provenienti da diverse discipline sportive, come calcio, pallavolo e lacrosse, ha messo in evidenza la tendenza di alcuni individui, che si identificavano maggiormente con il proprio team, a conformarsi al comportamento dei propri compagni di squadra.

 

Graupensperger, uno studente di dottorato presso l’Università della Pennsylvania, sostiene che, all’interno delle squadre, la pressione dei pari tende a manifestarsi in modi più o meno sottili e gioca un ruolo fondamentale in questo processo.

Rapporti interpersonali nella squadra: la ricerca

Gli studiosi hanno reclutato 379 atleti, appartenenti a 23 squadre in 8 sport differenti. Ogni team aveva tra gli otto e i quaranta compagni di squadra che partecipavano alla ricerca.

Inizialmente, i partecipanti hanno compilato un questionario progettato per misurare la loro autostima e il modo in cui si sentivano strettamente connessi alla loro squadra e ai compagni di gioco. I ricercatori hanno anche posto una serie di domande ipotetiche rispetto a come gli atleti si sarebbero comportati in situazioni che riguardavano la messa in atto di comportamenti a rischio, come il binge drinking, e di comportamenti positivi, come aiutare gli altri.

Dopo aver compilato i vari questionari, ogni partecipante ha visualizzato una presentazione che mostrava dei dati su come i propri compagni di squadra avevano risposto agli scenari ipotetici, precedentemente presentati. All’insaputa dei partecipanti i dati sono stati manipolati per far sembrare che i loro compagni di squadra avessero messo in atto comportamenti a rischio con maggiore probabilità, rispetto a quanto effettivamente riportato. Graupensperger ha affermato:

Volevamo che pensassero che i loro compagni di squadra stavano assumendo comportamenti più rischiosi, di quanto non stessero facendo in realtà.

Alla fine della sessione, i partecipanti hanno avuto la possibilità di compilare un secondo questionario, in cui hanno risposto di nuovo alle stesse domande; l’obiettivo era verificare se vi fosse o meno un incremento della messa in atto dei comportamenti rischiosi, dopo aver conosciuto le risposte dei loro compagni di squadra.

Rapporti interpersonali e comportamenti

I ricercatori hanno scoperto che i partecipanti che si sentivano più strettamente connessi ai loro compagni di squadra e che si erano identificati fortemente con il gruppo, presentavano una maggiore probabilità di intraprendere comportamenti rischiosi come binge drinking e uso di marijuana, se pensavano che i loro compagni di squadra stessero già svolgendo queste attività. Allo stesso tempo, i ricercatori hanno trovato che tale processo si applica in modo simile per i comportamenti positivi. A tal proposito, Graupensperger afferma:

La nostra sfida, in futuro, sarebbe quella di cercare di ridurre le pressioni per conformarsi ai comportamenti negativi, favorendo nelle squadre la possibilità di trovare modi positivi per incoraggiare il legame tra i giocatori.

Inoltre, ha affermato che il prossimo obiettivo della ricerca è quello di individuare le tipologie di persone più sensibili all’influenza dei pari. Il suo obiettivo è quello di esplorare in che modo la posizione sociale, all’interno di un gruppo, agisce sull’influenza dei pari.

La Stanza: crowdfunding per un cortometraggio sulla sofferenza psicologica

La Stanza è un progetto ideato e portato avanti da alcuni giovani cinefili provenienti da Milano e Modena e determinati a mettere anima, corpo e videocamere per raccontarvi una storia di emozioni e psicologia.

Federico Paglia

 

Che impatto può avere nella nostra vita un dolore?

Quante volte ci è capitato di dover affrontare un evento traumatico e di dover ricercare in noi stessi la forza per superarlo?

Parlando coi nostri coetanei, sempre più spesso veniamo a sapere che molti di noi si rivolgono ad uno psicoterapeuta per capire cos’è che in certi momenti ci procura pensieri negativi, ci fa sentire inadeguati e ci blocca nella vita quotidiana.

Nella maggioranza dei casi riscontriamo un beneficio dal percorso psicoterapeutico e a parer comune risulta utile nel darci gli strumenti chiave per capire da dove nasca il nostro malessere. Inoltre è d’aiuto nel trovare la consapevolezza necessaria a credere in noi stessi e nelle potenzialità che abbiamo per superare tale sofferenza.

La stanza: cosa racconteremo

Vorremmo raccontare la storia di Giacomo, un ragazzo quasi ventenne che si trova a dover affrontare un dolore nato in età adolescenziale e causato dalla perdita di un famigliare. Deciderà di affrontare il “mostro”, che come un parassita negli anni si è insediato in lui, iniziando ad andare da uno psicologo.

La Stanza è un progetto ideato e portato avanti da alcuni giovani cinefili provenienti da Milano e Modena e determinati a mettere anima, corpo e videocamere per raccontarvi una storia di emozioni e psicologia.

Il cortometraggio nasce dalla volontà della regista, Camilla Pez, di fondere i suoi studi universitari di psicologia e l’esperienza da paziente di psicoterapia con la passione per il Cinema, per riuscire a raccontare una situazione a lei cara e comune a tutti noi.

Il tema della storia è il rapporto che ognuno di noi ha, ha avuto o avrà con un proprio dolore.

Una delle particolarità del cortometraggio è quella di mostrare tale relazione da un insolito punto di vista. Con esso vorremmo invitare lo spettatore a riflettere sul rapporto che ha con la propria sofferenza e sui suoi aspetti positivi e negativi.

L’obiettivo finale che ci siamo posti è quello di far partecipare il cortometraggio a festival nazionali ed internazionali e di distribuirlo a varie associazioni, organizzazioni ed enti che incoraggiano la psicoterapia come percorso d’aiuto.

Di seguito forniamo i link per sostenerci e dare forma al nostro progetto:

La stanza cortometraggio su Facebook

La stanza crowdfunding

La faccia nascosta dell’obesità

Una delle conseguenze più dannose dell’ obesità, spesso poco considerata e conosciuta, è data dallo stigma sociale.

 

Milioni di persone di ogni età e ceto sociale possono essere vittime di pregiudizio e discriminazione a causa del loro peso.

Lo stigma basato sul peso fa riferimento ad atteggiamenti negativi, che possono essere espressi sotto forma di stereotipi, pregiudizi e discriminazione verso alcuni individui a causa del loro peso.

Questa visione negativa dell’ obesità è un problema sociale diffuso, difficilmente modificabile e in aumento nelle ultime decadi.
Basti pensare che negli USA nel decennio tra il 1995 e 2005 la prevalenza della discriminazione a causa del peso è aumentata del 66% tanto da avere raggiunto, soprattutto tra le donne, percentuali vicine a quelle della discriminazione razziale.

Essere discriminati per il proprio peso: quali sono le conseguenze?

Il peso è tra le principali cause di prese in giro e atti di bullismo tra i giovani e può avere, anche per gli adulti, un impatto negativo sul benessere fisico, psicologico e sociale con ripercussioni negative nei domini più importanti della vita.

La ricerca ha evidenziato come il peso possa essere correlato a stipendi più bassi, meno possibilità di assunzione, valutazioni più scarse a scuola, atteggiamenti negativi da parte del personale scolastico e coetanei, meno tempo dedicato da parte dei medici, meno amici, minore coinvolgimento in relazioni sentimentali e difficoltà a muoversi in modo confortevole nell’ambiente di tutti i giorni “es. sedie strette o equipaggiamento medico non idoneo”.

È diffusa la credenza che criticare qualcuno per il proprio peso possa motivarlo a cambiare e riflettere sulla propria condizione.

Questo modo di pensare è errato. La ricerca scientifica ha evidenziato l’esatto contrario dimostrando come subire questo tipo di stigma possa portare a mangiare di più, non chiedere un aiuto professionale, evitare l’attività fisica, comportamenti alimentari disfunzionali, diete estreme e pericolose e, in casi estremi, soprattutto tra i giovani, a suicidio o tentato suicidio.

Recenti e interessanti ricerche hanno dimostrato come lo stigma ponderale sia fonte di stress sia nelle persone con sovrappeso che normopeso.

Lo stress porta all’aumento del cortisolo (l’ormone dello stress) e alti livelli di quest’ormone portano a stimolare l’appetito, preparare il corpo a immagazzinare grasso e alla preferenza di cibi palatabili (ricchi di zuccheri e grassi).

Le cause di questi atteggiamenti negativi sono da ricercare nell’ideale culturale della magrezza, vista come sinonimo di bellezza, controllo e successo a differenza del peso in eccesso considerato come un fallimento personale risultato da pigrizia e debolezza di carattere. Obesità quindi considerata come una scelta e non una malattia cronica nonostante sia risaputo che questa condizione non è una scelta di vita, ma l’interazione complessa di fattori ambientali, genetici, biologici e comportamentali.

L’ obesità è una malattia cronica difficile da gestire tanto che circa il 97% di persone con obesità che perde peso lo riacquista entro 5 anni.

È importante, nella lotta e nella sensibilizzazione all’ obesità, smascherare questo aspetto nascosto, ma sotto gli occhi di tutti.

Perché la percezione di essere ritenuti responsabili della propria condizione pesa… ma non parliamo di chilogrammi… parliamo di sofferenza.

 

Testo ispirato dalla lettura di Weight stigma: What it is, why you should care.

Il neuromarketing – Introduzione alla Psicologia

Il neuromarketing è una nuova disciplina che origina dall’applicazione delle teorie neuroscientifiche al marketing. Lo scopo del neuromarketing è analizzare i processi di pensiero utilizzati del consumatore nell’effettuare delle scelte di acquisto.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il termine neuromarketing è stato usato per la prima volta nel 2002 da Ale Smitds, con il quale intendeva identificare quell’area in cui si applicano le tecniche neuroscientifiche per generare delle strategie efficaci di marketing, che fossero volte a individuare i meccanismi messi in atto dal consumatore per giungere a una scelta.

Si tratta, sostanzialmente, di un settore che agisce in maniera complementare a quello tradizionale, in cui si cercano di individuare strategie centrate principalmente sulle esigenze emotive del cliente. Per questo, spesso, è necessario l’ausilio e l’intervento di altre discipline, quali l’economia comportamentale, la psicologia cognitiva e sociale e le neuroscienze. L’interazione tra questi settori disciplinari consente di ottenere maggiori informazioni sui processi che veicolano le scelte che portano a effettuare acquisti.

Il neuromarketing consente, dunque, di individuare i processi cognitivi coinvolti nelle scelte facilitando i marketer nell’individuazione di brand o pubblicità di successo.

L’obiettivo è trovare nuovi metodi per invogliare le persone a comprare nuovi prodotti. E proprio a questo punto entra in gioco il cervello, da cui dipendono tutte le scelte effettuate quotidianamente. Quindi, studiare le risposte del cervello agli stimoli può aiutare a comprendere ciò che funziona per avere un prodotto che attiri sempre più acquirenti.

Il neuromarketing fa proprio questo: valutare l’efficacia comunicativa del prodotto, misurando le reazioni degli acquirenti a stimoli pubblicitari specifici.

Le neuroscienze

Il modello neuroscientifico principalmente usato nel neuromarketing è quello del Triune brain o cervello trino. Questa teoria, è stata formulata originariamente da Paul MacLean negli anni ‘60, e consiste nel considerare il cervello come formato dalla sovrapposizione di tre strutture semi-indipendenti, in competizione tra loro:

  • il cervello rettiliano, detto anche R-complex o vecchio cervello, associato all’aggressività, all’istinto territoriale, e responsabile degli impulsi istintivi associati alle funzioni vitali e di sopravvivenza
  • il cervello limbico o cervello mammifero emotomentale, invece, costituito da amigdala, ipotalamo e corteccia cingolata, collegate alla gestione delle emozioni e degli affetti
  • il neocervello o nuovo cervello, associato alle funzioni cognitive di ordine superiore, quali il linguaggio, il ragionamento astratto, l’uso di strumenti e l’autoconsapevolezza

Il neuromarketing, dunque, ha lo scopo di arrivare, attraverso le comunicazioni pubblicitarie, direttamente al cervello rettiliano responsabile della presa di decisione che guida scelte non del tutto razionali. Quindi, bisogna puntare alla dimensione inconsapevole e istintiva del consumatore per poter creare messaggi pubblicitari accattivanti.

In ogni caso, però, i processi d’acquisto per quanto inconsapevoli o automatici sono comunque legati a scelte effettuate frettolosamente, ma determinate e regolate da emozioni o sensazioni (cervello limbico).

Martin Lindstrom, uno dei più grandi esperti nel settore del neuromarketing, sostiene che alla base della buyology o acquistologia ci sono le emozioni e i desideri che guidano le decisioni di acquisto eseguite quotidianamente.
Per far sì che un prodotto colpisca o un messaggio raggiunga il destinatario giusto, bisogna puntare sull’intensità del coinvolgimento emotivo e sul tipo di emozione che suscita nei consumatori.

Le emozioni, quindi, sono un driver di grande rilievo nel processo decisionale.

Infatti, gli spot pubblicitari spesso contengono elementi che evocano emozioni molto forti, in grado di produrre una forte reazione nell’acquirente, fino a portarlo a scegliere un prodotto piuttosto che un altro.

Le emozioni sono reazioni a uno stimolo e il cervello, di conseguenza, le associa a un’esperienza vissuta, attribuendo loro una funzione di rinforzo, che consente di fissare nella nostra memoria l’informazione acquisita. Quindi, durante un processo decisionale, la nostra mente richiama le emozioni archiviate unitamente allo stimolo e questo consente di attuare scelte che massimizzano i benefici e minimizzano le perdite. Inoltre, se la decisione, che si sta per prendere, richiama un’emozione negativa, si mette in atto un meccanismo automatico o inconsapevole volto a ignorare lo stimolo.

Tecniche e metodi utilizzati

Grazie alle tecniche di indagine neuroscientifiche è stato possibile studiare e individuare le aree cerebrali che si attivano quando il consumatore decide di acquistare qualcosa.

Il decidere di acquistare un prodotto deriva da un processo cognitivo che genera dalle regioni profonde del cervello, come a esempio il sistema limbico. Al contrario, sono meno coinvolti i lobi frontali e la neocorteccia.

Gli strumenti e i metodi neuroscientifici usati nel neuromarketing sono:

  • Eye tracking: tecnica che consente di registrare la dilatazione e la contrazione delle pupille in relazione alle diverse emozioni provate
  • Elettroencefalografia: permette di misurare e registrare l’attività elettrica cerebrale in relazione alla presentazione di determinati stimoli pubblicitari
  • fMRI o risonanza magnetica funzionale: individua le aree che si attivano in relazioni a stimoli specifici presentanti
  • Misurazione della risposta galvanica della pelle (GSR) o attività elettrodermica: misura la variazione della sudorazione in seguito alla visione di stimoli relativi al prodotto
  • Rilevazioni Biometriche: misurano il battito cardiaco, in relazione alle risposte emotive
  • Facial coding o codifica delle espressioni facciali: permette di interpretare la mimica facciale relative alle emozioni esperite in relazione a determinati stimoli

Utilizzo del Neuromarketing

Il neuromarketing risulta essere particolarmente utile nelle seguenti aree:

  • Vendita nei negozi, per valutare in che modo la collocazione e la visibilità del prodotto influenza la scelta
  • Branding, per valutare la reazione emotiva del consumatore in relazione a un determinato prodotto aziendale
  • Design, per misurare come i consumatori reagiscono a particolari prodotti e innovazioni
  • Pubblicità, individuare come il consumatore reagisce alla presentazione video di un prodotto
  • Esperienza online, verificare come un sito web influenza le emozioni del visitatore
  • Social network, per condividere un brand rendendolo sempre più accattivante

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Iperattivi. Dalla diagnosi alla terapia della sindrome ADHD in una prospettiva life span (2018) di Angela Ganci – Recensione del libro

Iperattivi. Dalla diagnosi alla terapia della sindrome ADHD in una prospettiva life span è un testo dettagliato, appassionante e aggiornato sulle cause, le caratteristiche e le terapie possibili per il trattamento della Sindrome ADHD.

 

Aspetto innovativo del libro è costituito dal fatto che Angela Ganci, giornalista e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, oltre a definire la teoria, approfondisce la pratica educativa e clinica (prima parte del libro), arricchendo altresì i risultati della letteratura attraverso i risultati di uno studio pilota sulle possibili correlazioni tra prematurità e sindrome ADHD, corredati dall’ipotesi della ricerca, dagli strumenti testologici adottati (Test di Bayley II) e da grafici riassuntivi dei risultati raggiunti sia dal gruppo sperimentale che di controllo (parte seconda del volume).

Iperattivi: il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD)

Ecco che Iperattivi si offre come un valido supporto, sia per chi lavora nell’ambito della prevenzione e cura della patologia, sia per chi vuole semplicemente documentarsi.

Descrivendo la prima parte di Iperattivi, nel primo capitolo viene opportunamente riportato come il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, o ADHD, sia un disturbo evolutivo dell’autocontrollo le cui caratteristiche essenziali si possono riassumere in difficoltà di attenzione e concentrazione, di controllo degli impulsi e del livello di attività (arousal).

Si tratta di problemi che derivano sostanzialmente dall’incapacità del bambino di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente e che, in favore di un’efficace diagnosi, non devono considerarsi esito di stili educativi anomali o inefficaci, non derivando in alcun modo da una supposta cattiveria o indisciplinatezza o cattiva educazione del bambino da correggere e punire.

Iperattivi: eziopatogenesi e cura dell’ADHD

Di seguito il volume si occupa delle diagnosi spesso associate al Disturbo ADHD come il Disturbo della condotta o i Disturbi Specifici di Apprendimento, per poi indagare, nel terzo capitolo, l’eziopatogenesi del disturbo e i suoi molteplici fattori, in particolare ambientali (l’utilizzo di alcool e fumo in gravidanza) e genetici, nonché gli aspetti legati alla compromissione neuronale, con il ruolo deficitario, tra gli altri, della corteccia prefrontale destra, coinvolta nella programmazione del comportamento, nella resistenza alle distrazioni e nello sviluppo della consapevolezza di sé e del tempo.

Il quarto capitolo, si occupa della descrizione dei dibattuti interventi farmacologici e di quelli psicoterapeutici e psicoeducativi che devono essere multimodali, coinvolgendo tutte le agenzie educative in un progetto collaborativo.

Ecco la necessità di un’integrazione di tecniche individuali sul bambino di matrice cognitiva e comportamentale (come le autoistruzioni verbali), di programmi di formazione rivolti alla famiglia (il parent training) e alla scuola (con un focus sulle buone prassi scolastiche individuate nel Piano Didattico Personalizzato per gli alunni con ADHD).

Se il volume Iperattivi analizza nel dettaglio l’infanzia, il pregio del libro è di estendere tale disamina all’età adulta, sottolineando l’importanza di una diagnosi precoce, a fronte delle specifiche complessità del disturbo in età adulta, come la maggiore eterogeneità dei sintomi. Complessità per cui si prospettano le più moderne tecniche di intervento, come la meditazione Mindfulness o la Terapia Metacognitiva, con uno sguardo attento al colloquio diagnostico, fonte di raccolta della storia di vita del paziente, dei tentativi passati di cura del problema e momento importante per l’instaurarsi di un’alleanza terapeutica, propedeutica all’efficacia di ogni intervento psicologico e riabilitativo.

La formazione degli insegnanti influisce sul benessere psicologico degli studenti

Gli insegnanti devono essere formati in maniera adeguata alla gestione di contesti scolastici oggi sempre più complessi che includono bambini e adolescenti con diversi disturbi del comportamento.

 

All’interno dei contesti scolastici, i bambini che presentano dei disturbi del comportamento possono rendere più complessa e impegnativa l’esecuzione delle normali attività.

In particolare, tra i bambini che presentano un elevato livello di attività all’interno delle classi, vi sono coloro che presentano:

  • Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD): caratterizzato da inattenzione, ad esempio è facilmente distraibile dagli stimoli esterni; iperattività, in classe si alza spesso quando dovrebbe stare seduto; e impulsività, interrompe o si intromette in attività di coetanei o adulti
  • Disturbo oppositivo provocatorio: caratterizzato da umore arrabbiato o irritabile, ad esempio spesso perde il controllo; e comportamenti polemici/sfidanti o vendicativi, ad esempio, litiga spesso con adulti, bambini e adolescenti
  • Disturbo della condotta: caratterizzato da una tendenza stabile alla violazione delle regole e dei diritti altrui, come aggressione a persone o animali

Un nuovo programma di formazione per gli insegnanti per affrontare contesti scolastici complessi

In questo contesto, tutt’altro che semplice da gestire, una nuova ricerca condotta dall’Università di Exeter Medical School, pubblicata su Psychological Medicine, ha studiato l’applicazione di uno specifico programma di formazione chiamato Incredible Years Teacher Classroom Management Program.

I principi fondamentali, su cui esso si basa, includono la costruzione di solide relazioni sociali tra insegnanti e bambini e l’importanza di ignorare i comportanti lievemente negativi che spesso sono presenti all’interno delle classi, per focalizzare maggiormente l’attenzione sui comportamenti corretti.

Lo studio

Lo studio STARS (Supporting Teachers and Children in Schools) è stato finanziato dal National Institute for Health Research (NIHR) con lo scopo di promuovere un maggior benessere sociale ed emotivo, dato che precedenti ricerche mostravano che circa il 10% dei bambini presentava uno stato di salute mentale a rischio. In particolare, la condizione più comune e persistente è rappresentata dai gravi problemi comportamentali dei bambini con disturbi della condotta.

I risultati dello studio sono stati misurati tramite una combinazione di questionari compilati da insegnanti, genitori e bambini stessi; in più, una serie di osservatori indipendenti hanno partecipato alle lezioni in un quarto delle scuole incluse nella ricerca, senza sapere se gli insegnanti avessero intrapreso o meno il percorso di formazione.

Il professor Tamsin Ford, presso l’University of Exeter Medical School, ha affermato:

Dai nostri risultati è emerso che questo percorso di formazione favorisce uno stato di benessere psicologico in tutti bambini, ma è particolarmente importante aver osservato un beneficio maggiore sui bambini che inizialmente presentavano delle difficoltà comportamentali, cognitive, relazionali etc..

Inoltre, a parte i miglioramenti della salute mentale, del comportamento e della concentrazione, gli insegnanti hanno particolarmente apprezzato il percorso di formazione e l’hanno ritenuto molto utile. Ad esempio, alcuni insegnati come Sam Scudder, presso la scuola Withycombe Raleigh di Exmouth, e Kate Holden, della scuola elementare di Ipplepen, hanno messo in evidenza che ignorare i comportamenti lievemente negativi, che interrompono spesso le attività curriculari, e lodare i comportamenti corretti come, ad esempio, i bambini che ascoltano in silenzio, generava un miglioramento del clima di classe, e permetteva anche che questi bambini non venissero ignorati dagli insegnanti, troppo spesso occupati a interrompere i comportamenti lievemente scorretti e disturbanti messi in atto da altri bambini.

Una vita come tante (2015) di Hanya Yanagihara – Recensione del libro

Questa recensione di Una vita come tante di Hanya Yanagihara è un po’ uno spoiler. Avete il tempo di fermarvi qui e non procedere oltre, se siete convinti che in un racconto la sorpresa del colpo di scena sia irrinunciabile. Oppure potete proseguire fino alla fine o solo ancora un po’, vi sarà un secondo avvertimento a metà recensione, dove alcune svolte del romanzo saranno raccontate nei dettagli.

 

Su State of Mind abbiamo già recensito Una vita come tante perché ha un interesse sia psicologico oltre che letterario e sa intrecciare tra loro i due interessi. Il bello di questo romanzo è che il suo particolare gusto letterario illumina la visione contemporanea che si ha del trauma e viceversa.

Nell’altra recensione pubblicata di Una vita come tante su State of Mind si sostiene, a ragione, che questo romanzo è importante perché ci aiuta a capire quale fenomeno estremo e particolare sia il trauma. La forza del libro risiederebbe nella sua capacità di farci capire cosa significa davvero subire un trauma e correre un pericolo di vita. Non una facile e consolatoria identificazione ma l’orrore verso un’esperienza estrema e inimmaginabile.

Infatti il trauma è al centro del romanzo e colpisce ripetutamente e crudelmente il suo protagonista, Jude. Un trauma –lo ripetiamo- estremo, eccessivo, incredibile e multiplo. Lasciando da parte i meriti letterari del romanzo (che comunque non è nostra competenza valutare) la trama sconvolgente del romanzo può svolgere una funzione positiva: un lavoro che fa capire cosa sia davvero un trauma. Ovvero un evento o una serie di eventi violentissimi e distruttivi che lasciano la vittima con un profondo senso di pericolo e mancanza di protezione.

È un’operazione di cultura psicologica importante. Viviamo in un’epoca in cui la definizione di trauma si sta dilatando e diventa onnicomprensiva. In questa linea ci sono opportunità e rischi. L’opportunità di far crescere la nostra conoscenza di questa importante area clinica, studiando i rapporti tra trauma e disturbi dissociativi; ma anche il rischio di appiattire l’intero campo clinico al trauma: siamo tutti traumatizzati e abbiamo tutti bisogno di una terapia specifica del trauma.

Tuttavia, leggendo le varie recensioni di Una Vita come Tante, l’impressione è che il romanzo abbia generato reazioni contrarie. Malgrado l’estremismo delle esperienze di Jude, i recensori sembrano essersi identificati con lui. Identificati non solo in termini letterari -il che è giusto: la letteratura deve generare identificazione- ma anche personali. Le recensioni internazionali parlano del romanzo come di uno strumento fondamentale per comprendere un certo malessere moderno che riguarda tutti. Ad esempio il Guardian o il New Yorker sostengono che la grandezza del romanzo stia tutta nella possibilità di identificarsi con Jude e con le sue sofferenze. In un certo senso, tutti noi siamo come Jude e tutti noi abbiamo sofferto episodi simili ai suoi. Non uguali in termini di ripetitiva efferatezza ma simili in termini di intensità della sofferenza emotiva. Siamo tutti gettati in una realtà violenta ed estranea che ci malmena e ci sopraffà, traumaticamente. E questo romanzo ce lo farebbe capire.

È possibile che sia così. L’umanità è sofferente e noi tutti ci consideriamo dei maltrattati meritevoli di consolazione e riconoscimento –sempre insufficiente- e ricordiamo le sconfitte piuttosto che le gratificazioni. E questo romanzo ci conferma questa visione che abbiamo di noi stessi. E di noi stesse.

Tuttavia vi è un caso in cui Una Vita come Tante ha generato una reazione diversa. La recensione di Daniel Mendelsohn sulla New York Review of Books fa riflettere. Fa riflettere prima di tutto sulla struttura del romanzo, molto ben costruita secondo le regole del thriller. Forse fin troppo ben costruita, per un romanzo che intende essere così coinvolgente in termini di identificazione personale e non di suspense tra il giallo, il nero e l’horror (e qui iniziano gli spoiler, ultimo avvertimento).

Il primo “trucco” narrativo usato dalla Yanagihara per incatenarci alle sue pagine è centellinare per tutto il romanzo la rivelazione di cosa esattamente sia capitato a Jude. È geniale come l’autrice nelle prime duecento pagine ci inganni facendoci credere che si tratti di un intenso ma non inquietante romanzo di formazione giovanile, quattro amici che fanno carriera a New York e hanno successo dopo i difficili inizi –il bellissimo Willem, futuro attore che sbarca il lunario facendo il cameriere, JB nero haitiano, sovrappeso, gay e futuro grande artista d’avanguardia che fatica a piazzare le prime opere, il futuro avvocato (Jude stesso) e il futuro architetto -Malcolm, mezzosangue bianco e nero di ottima famiglia- che fanno un frustrante tirocinio in grandi studi. Piccioncini che devono spiccare il volo, che hanno qualche esperienza difficile alle spalle al tempo stesso commovente ma non traumatica: i genitori freddi e distanzianti di Willem (di etnia scandinava; le etnie contano in questo romanzo) o la madre e le zie impiccione e invischianti di JB, viziatissimo fin dall’infanzia. Negli Stati Uniti questo tipo di romanzo è stato reso popolare da Mary McCarthy nel 1963 col suo best seller The Group: la traiettoria di vita di un gruppo di amiche dall’università in poi.

È un trucco. Dopo le prime duecento pagine il passato di Jude conquista il primo piano. Pian pano emerge che il suo passato è ben più spaventoso e terribile di quello degli altri tre, le cui sofferenze troppo normali iniziano a sbiadire. Perfino i problemi di droga di JB diventano banali. Il lettore è spiazzato, passando da un’atmosfera di romanzo di formazione all’horror. E l’autrice è abilissima nel non far capire subito non solo cosa sia capitato a Jude, ma anche a come sia ridotto nel presente. Man mano che le pagine scorrono, Jude diventa sempre più storpio e deforme ma mai in termini chiari. A volte è in carrozzella, a volte cammina ma zoppicando. Zoppica ma non si capisce quanto: è un fatto evidente o poco percettibile? L’autrice gioca a non farcelo capire. Poi apprendiamo che si lesiona, si taglia le carni profondamente quasi quotidianamente procurandosi una perversa anestesia per dimenticare qualcosa. Che cosa? Un ricordo traumatico di qualcosa che gli è capitato di terribile. Anzi di disgustoso e di cui si vergogna profondamente.

Le rivelazioni arrivano (ultimo avvertimento) con la tempistica di uno strip tease sanguinario che ci fa prigionieri costringendoci ipnoticamente a girare le pagine. Le prime rivelazioni sono scioccanti. Jude è un orfano abbandonato, cresciuto in un monastero di monaci che lo hanno violentato a turno per anni costringendolo ad atti di sesso orale. Il sesso orale è un tema ricorrente ed è alla base del disgusto di Jude. L’atmosfera gotica e psicopatica del monastero degli orrori è –a mio non professionale parere- letterariamente un’acme del romanzo.

Jude poi fugge dal monastero con un monaco, fratello Luke, l’unico che fino a quel momento l’aveva trattato bene e non aveva abusato di lui. Anzi lo aveva stimolato a studiare e gli aveva insegnato moltissime cose, avendo intuito le eccezionali qualità scolastiche di Jude e gettando le basi intellettuali della sua futura enorme capacità di preparazione giuridica. Il sollievo però è di breve durata: la fuga con il monaco, che si spoglia del suo abito religioso, diventa un pellegrinaggio per l’America profonda, quella dei motel e dei fast-food sulle route sterminate, in cui la coppia si guadagna da vivere con la prostituzione di Jude. Il monaco vende i servizi sessuali di Jude, che adesso ha all’incirca una decina di anni, in tutti i motel dello sconfinato midwest. I clienti lo usano sessualmente e lo disprezzano apertamente chiamandolo con epiteti ignobili (“troia”, “puttana”), instillando in Jude un profondissimo senso di disgusto e vergogna di se stesso e la convinzione di essere corresponsabile di quel che accade e quasi di desiderarlo. È una riproposizione catastrofica del viaggio di Lolita e Hubert, e questa è solo una delle tante allusioni letterarie della Yanagihara, la quale non si limita affatto a essere una semplice narratrice di sofferenze ma è una coltissima conoscitrice della letteratura, delle sue tecniche e delle sue allusioni.

Questa sezione on the road mi è parsa letterariamente altrettanto intensa di quella del monastero. Anzi superiore, perché il personaggio del monaco, che è anche perversamente innamorato del piccolo Jude e lo convince ad avere rapporti sessuali con lui illusoriamente consenzienti e al tempo stesso continua a farlo studiare intensamente trasmettendogli una enorme cultura, è particolarmente riuscito nel suo sentimentalismo criminale. La psicologia del monaco è talmente raccapricciante da mescolare insieme estrema empatia ed estrema manipolazione: è lui a insegnare a Jude a procurarsi dei tagli nelle carni per anestetizzarsi.

A questo punto Jude è liberato dalla polizia, che era da tempo sulle tracce del monaco lenone e pedofilo. Dopo una drammatica scena di arresto in uno dei motel (durante la quale il monaco si chiude in bagno e si impicca!) Jude è affidato ai servizi sociali. Sembrerebbe il lieto fine, ma purtroppo non è possibile: siamo appena a metà romanzo. E adesso il lettore si chiede: siamo solo a metà, cosa diamine deve ancora accadere? Cosa diamine può ancora accadere?

Accade che a Jude accade ancora di tutto. Oppure no, non di tutto: accade che a Jude accadono di nuovo le stesse cose. Gli infermieri e gli operatori del servizio sociale sono anch’essi dei perversi e iniziano anche loro a stuprare Jude. L’atmosfera stavolta è ospedaliera e a me ha ricordato quella di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Jude scappa di nuovo, questa volta da solo. Vaga per giorni tra i campi e i boschi, finisce poi nella regione degli Appalachi, la provincia dei bianchi più poveri, più campagnoli e più perversi, quelli che si svegliano un mattino con il fucile e sterminano i clienti di un fast food o di un supermercato. Jude si riduce a mendicare come un hobo nelle cittadine in un’atmosfera di horror provinciale e metafisico alla Stephen King. E alla Stephen King finisce: Jude è rapito da un serial killer e sequestratore di schiavi sessuali che lo reclude nella sua spaventosa e isolata casetta di campagna e lo sottopone a pratiche di sesso sadico. A questo punto sembra che per Jude –che ora ha 15 anni e quindi ha trascorso anni vagando da una casa degli orrori all’altra- non possa esserci altro che la liberazione della morte.

E invece misteriosamente Jude si salva. Effettivamente è un miracolo, proprio nel senso che non si non si capisce bene come avviene questa salvezza. Il suo ultimo aguzzino ha ormai deciso di farlo fuori, lo porta in campagna di notte e poi lo lascia libero di fuggire a piedi mentre lui lo insegue in auto e lo investe, ripetutamente. Gli passa proprio sopra con l’auto. Poi qualcosa è accaduto. Sarà arrivata la polizia, questo non ci viene rivelato dalla furbissima Yanagihara che ci incatena con questi trucchi alla trama. Si, ormai furbissima ma un po’ meno artista, perché questa terza parte dei vagabondaggi infernali di Jude rischia di diventare solo ammirevole tecnica del thriller e scarsa sostanza poetica e letteraria. L’orrore degli operatori sociali e poi del sequestratore e probabile serial killer (quanto ne aveva già attirati e uccisi negli anni nella sua casetta?) è spaventoso ma non è originale, è coinvolgente ma è anche letterariamente vuoto. Il serial killer è solo un mostro terrificante e non ha la complessità di fratello Luke, il monaco lenone e innamorato, colto, sentimentale e perverso. E forse proprio per questo il sequestratore non è nemmeno così terrificante come lo era invece il monaco. Insomma, a mio parere il romanzo dopo la morte del monaco forse perde colpi e si riduce a una macchina volta pagina (turning page novel, come dicono gli americani) che ipnotizza il lettore ma rischia di non dirgli nulla.

Oppure si, gli dice qualcosa, ma in termini molto diversi dall’apparenza. Forse l’autrice scopre le sue carte nell’ultima parte e dietro la traumatica emotività del libro rivela la sua natura di autrice cerebrale e iper-letteraria. E questo si rivela nell’ultima sezione della storia, quella in cui le rivelazioni finalmente finiscono e si torna al presente.

È un presente apparentemente rasserenato e tranquillo. Jude ha fatto una eccezionale carriera come avvocato –e anche i suoi amici hanno raggiunto il pieno successo: Willem è diventato una stella di Hollywood, Malcolm un’archistar e JB un grande artista- e ha fatto (quasi) pace con i suoi fantasmi che gli impedivano di avere una vita sentimentale normale. Per buona parte del romanzo, infatti, Jude investe nel lavoro e nell’amicizia, ma non ha mai una relazione. Pian piano emerge che è gay ma si astiene da qualsiasi relazione potenziale, provando vergogna e disgusto per quel che ha fatto e per le sue deformità, che rimangono sempre non ben definite: abbiamo capito che Jude è storpio e ha la pelle in vari punti coperta di cicatrici. Eppure al tempo stesso l’autrice non fa in modo che in mezzo agli altri la sua deformità venga notata, generi disagio o reazioni. Jude è un mostro ma è normale, forse come tutti noi? Questo ancora una volta suggerisce che l’autrice non ha inteso raccontare la storia di un mostro, ma ha voluto far identificare tutti noi con il protagonista.

L’ultima parte del romanzo presenta un inizio di lieto fine che è l’ennesimo inganno della Yanagihara, la quale ormai gioca col lettore come il gatto col topo: Jude supera i suoi blocchi emotivi e, dopo un’ennesima disavventura violenta (frequenta per un po’ un certo Caleb il quale lo molla naturalmente gettandolo dalle scale con la carrozzella, ma ormai Jude è un pupazzo indistruttibile) nasce l’amore con Willem, l’ex cameriere diventato una stella di Hollywood. La svolta positiva è anch’essa una furbissima sorpresa perché nulla faceva presagire la presenza di desideri gay in Willem che fino a quel momento della storia era ortodossamente eterosessuale. Willem è stato però fin dall’inizio il più vicino a Jude, un vero fratello intimissimo e gentile, e fin dagli anni universitari ha diviso l’appartamento con Jude.

Potrebbe essere il lieto fine, ma non lo è. Jude ha un ultimo nemico, un ultimo aguzzino che non riuscirà a sconfiggere. Dopo il monaco e il sequestratore sadico e serial killer tocca alla Yanagihara. Si, è lei la vera e ultima tormentatrice di Jude. L’idea non è mia, ma del recensore della New York Review of Books Daniel Mandelsohn, recensore che mi ha fatto guardare al romanzo con occhi diversi. Yanagihara colpisce Jude nella maniera più efficace e terribile facendo morire Willem in un incidente automobilistico proprio quando le porte del lieto fine si stavano per aprire. Per soprammercato nell’incidente muoiono anche Malcom l’architetto e la sua compagna, che erano in auto con Willem. Il colpo naturalmente distrugge psicologicamente Jude, al quale non resta che il suicidio dopo alcune pagine. Alcune pagine significano comunque molte decine e decine di pagine; il ritmo della Yanagihara rimane pachidermico.

È difficile valutare il significato di questa catastrofe finale. Forse il lieto fine sarebbe stato troppo banale. Dopo tanto dolore, riesce difficile credere alla possibilità di una vita felice. Fatto sta che tuttavia il colpo finale non avviene, come negli altri casi, a causa della perversità umana o di una certa tendenza autodistruttiva di Jude. Avviene per caso, il caso di una sciagura come l’incidente automobilistico. Significa qualcosa? Forse non significa niente, forse è semplicemente un finale debole a conclusione di una seconda metà del romanzo che potrebbe essere effettivamente debole, non all’altezza della prima metà.

Oppure no. Oppure il finale è forte e il suo significato sta nel fatto che il colpo finale a Jude glielo rifila la sua vera aguzzina: Hanya Yanagihara. La disgrazia finale e senza redenzione di Jude -per questo si chiama Jude: Giuda, non c’è redenzione per lui- avviene per precisa volontà della scrittrice, la quale ha voluto così esprimere il vero messaggio del romanzo, che non è il romanzo di formazione in cui Jude e i suoi amici che crescono e diventano adulti (non lo diventano) e nemmeno l’analisi psicologica del trauma insuperabile di Jude, ma è un messaggio catastrofico e metafisico: non vi è speranza, non vi è significato, non vi è un Dio (e nemmeno un dio) che garantisca un senso e dia un significato alla sequela di sciagure, disgrazie e sofferenze e tutto accade per caso, per puro caso, comprese le perversità e i traumi, senza che nessuno ne sia davvero responsabile. Questo lo dice la romanziera esplicitamente nelle prime pagine, quando scrive –presentando i quatto amici- che a New York nessuno credeva in niente e in nessuno (figuriamoci in un dio) e tutti pensavano solo a se stessi.

E soprattutto Yanagihara lo dice con la sequenza di disgrazie che fa capitare a Jude. La madre che lo abbandona, il monastero gotico dei monaci stupratori e pedofili, il road movie col monaco lenone e innamorato, gli operatori sociali uguali ai monaci (e già il sospetto doveva nascere che questo è un romanzo diverso da quel che sembra: non è un romanzo psicologico e realista ma è una distopia) e infine il sequestratore che è la versione estrema del monaco lenone. Non è finita: Caleb l’amante picchiatore e infine la Yanagihara in persona che come un dio crudele fa fuori Willem, il redentore di Jude.

A questo punto suggerisco il vero predecessore letterario di Una vita come tante. La somiglianza è fortissima, anche se l’autrice fa in modo che emerga lentamente. Il vero modello di Una vita come tante non è Oliver Twist o David Copperfield ma è Justine o le disavventure della virtù del divin marchese de Sade. Per chi non l’avesse letto (scusate lo spoiler) “Justine” è un romanzo che narra le vicissitudini di una ragazza di nobile lignaggio -appunto Justine- la quale rimasta orfana è sistematicamente stuprata, violentata e abusata sessualmente in tutte le istituzioni che avrebbero dovuto accudirla nella sua crescita. Anche Justine, come Jude, viene inizialmente accolta in un monastero e proprio li iniziano gli stupri e le orge e anche Justine, dopo una serie sempre più inverosimile di violenze successive in ognuno dei luoghi dove viene accolta, si salva un attimo prima di essere giustiziata, così come Jude si salva misteriosamente quando ormai è certo che il suo ultimo aguzzino ha deciso di ucciderlo arrotandolo sotto l’auto. Justine infatti sta per essere giustiziata per un omicidio che naturalmente non ha commesso ma viene salvata miracolosamente sul patibolo da sua sorella Juliette che, al contrario di Justine (e di Jude), ha assecondato felicemente per tutta la vita vizi e perversioni, facendo fortuna e acquisendo addirittura un titolo nobiliare e un potere tale che le consente di sottrarre la sorella alla morte. Le somiglianze non finiscono qui. Anche Justine, arrivata alla salvezza finale e accolta dalla sorella che finalmente le può dare i mezzi e la protezione per una vita serena e tranquilla, muore per uno scherzo del destino: colpita da un fulmine mentre è affacciata alla finestra!

D’accordo, in Sade tutto è presentato in maniera sarcastica e cinica. L’autore non simpatizza con Justine ma quasi la deride, sommergendola di disgrazie inquietanti. In ogni luogo in cui capita Justine si è dediti a stupri, orge e omicidi. Eppure a uno sguardo retrospettivo anche Yanagihara ha uno sguardo apparentemente partecipe e invece, man mano che le pagine scorrono, sempre più distaccato mentre a Jude succede di tutto. Le disgrazie si susseguono e l’autrice fa in modo che noi non ci rendiamo conto dell’improbabilità di una simile sequenza di disgrazie: passi il monastero (con tutta la cronaca degli scandali sessuali dei religiosi di questi anni in USA, è letterariamente verosimile) ma poi anche gli operatori sociali, il sequestratore in stile Stephen King e infine il picchiatore Caleb. E la morte di Willem nell’incidente automobilistico è come il fulmine che ammazza Justine.

Che dire? Il mio giudizio finale –per quel che vale, non sono un critico letterario- rimane sospeso. Il romanzo Una vita come tante rimane li, nella mia memoria, come un oggetto strano. In fondo non riesco a credere che sia un romanzo fallito. E però nemmeno mi sembra sia quello che dice di essere: la dolorosa storia di un uomo e della sua sofferenza. Più passa il tempo e più mi appare come una macchina letteraria consapevolmente fredda e perfettamente funzionante il cui messaggio di fondo è che tutto è privo di senso. E lo dice non con il sarcasmo esplicito del Marchese de Sade, il sarcasmo di chi ha appena perso la propria fede e non riesce ancora a esprimere la sua disperazione con calma ma vuole urlartela in faccia, quasi sperando di essere smentito. No, lo esprime con la calma di una verità acquisita.

Regolazione emotiva: lo sviluppo durante le prime interazioni del bambino

I bambini alla nascita non sono capaci di comprendere le proprie sensazioni corporee, né di attribuire il significato psicologico agli stati affettivi emergenti. L’accudimento primario adeguato agisce come regolatore dello stato interno del bambino e favorisce la comprensione dei vari pattern di attivazione associati ad uno stato emotivo.

 

Tale funzione regolatrice esterna può essere interiorizzata diventando la base della capacità di autoregolazione autonoma.

Regolazione emotiva, caregiving e sviluppo del sé

Nelle prime fasi dello sviluppo fisico e psicologico i bambini sono privi di un senso del sé corporeo e incapaci di attribuire delle spiegazioni mentali e simboliche alle proprie esperienze, vivono degli stati di attivazione fisiologica difficili da interpretare o da collegare al senso della fame, del sonno o del dolore; solitamente le madri svolgono per i loro piccoli il ruolo di organizzatore esterno di tali sensazioni indifferenziate (Lemma, 2011).

Secondo Bion (1962), il bambino molto piccolo si difende dagli stati emotivi soverchianti e dagli aspetti di sé intollerabili proiettandoli all’esterno e introiettando al loro posto oggetti buoni e piacevoli; grazie alla funzione di rêverie materna, il bambino può introiettare un oggetto buono, accogliente e regolatore che si stabilisce come base per lo sviluppo dell’autoregolazione e della capacità di pensare. La capacità della madre di sostenere e confermare i bisogni del bambino alimenta il suo senso di onnipotenza, con il tempo, la madre però deve fornire anche una giusta dose di frustrazione, dando il via al processo di separazione tra madre e figlio: il bambino deve sentirsi amato e al sicuro, ma un eccessivo contatto può dare origine ad un legame invischiante e dipendente.

Un altro concetto molto studiato nell’ambito dello sviluppo del sé del bambino è quello del rispecchiamento. Secondo Winnicott (1967) quando il bambino viene allattato al seno, ciò che vede mentre guarda sua madre è se stesso. Questo è possibile perché una buona madre è in grado di identificarsi con ciò che prova il suo bambino, restituendogli, proprio come farebbe uno specchio, l’immagine di se stesso e di ciò che sta provando, attraverso espressioni del volto congrue al suo stato emotivo. Questa madre sufficientemente buona svolge anche una funzione di handling ovvero di contenimento, sia dal punto di vista mentale che fisico, come quando tiene in braccio il piccolo e il corpo del bambino acquisisce il senso di coesione alla base della formazione dello schema corporeo (Winnicott, 1996).

Per capire come il rispecchiamento da parte della madre possa modulare l’esperienza affettiva del piccolo e dare origine ad un senso del sé si può fare riferimento alla teoria del biofeedback sociale del rispecchiamento affettivo genitoriale di Gergely e Watson (1996). Dato che appena nati i bambini non sono capaci di differenziare e comprendere le proprie emozioni, essi devono affidarsi alle informazioni provenienti dal mondo esterno per capire quello che sta accadendo dentro di loro. Alla nascita, le emozioni sono vissute come insiemi di stimolazioni fisiologiche e viscerali, ma grazie alla ricettività del neonato verso gli stimoli esterni, il rispecchiamento del genitore, con le espressioni facciali, il tono della voce e il contatto fisico, funge da regolatore dello stato del bambino che potrà imparare a distinguere i vari pattern di attivazione fisiologica associati ad uno stato emotivo.

Quando il rispecchiamento è congruente, si verifica una downregulation dell’emozione che alimenta sensazioni piacevoli di controllo ed efficacia. Questo accade perché il bambino impara a collegare l’effetto che lui ha sul comportamento del genitore con le sensazioni piacevoli e la modulazione dello stato emotivo, sviluppando un senso di autoregolazione: il rispecchiamento fornito dalla madre viene interiorizzato e diventa una rappresentazione simbolica dello stato interno (Gergely e Watson, 1996).

Secondo Bateman e Fonagy (2006) esperienze inadeguate di rispecchiamento impediscono la formazione di rappresentazioni simboliche degli stati affettivi e rendono più difficile distinguere la realtà fisica da quella psichica, ripetute interazioni deficitarie possono dare origine a marcate difficoltà nella capacità di tollerare e regolare le emozioni autonomamente.

Anche gli studi di Cohn e Tronick (1983) sono degli ottimi esempi della funzione regolatoria che le espressioni materne possono svolgere durante le interazioni madre-bambino. Quando la madre assume un volto depresso o inespressivo (Still Face), a 3-4 mesi il bambino risponde intensificando le sue vocalizzazioni, dirigendo lo sguardo verso la mamma e sorridendole, se tale inespressività continua, il piccolo allontana lo sguardo, diventa inespressivo e si concentra su se stesso (Cohn e Tronick, 1983); nei mesi successivi compaiono altre risposte all’inespressività materna, risposte fisiologiche come la riduzione del tono vagale ed un aumento della frequenza cardiaca che si ristabilizzano nel momento in cui la madre riprende ad interagire (Weinberg e Tronick, 1996).

Il valore fondamentale dell’accudimento materno è stato dimostrato anche attraverso studi sugli animali, le ricerche di Hofer (1994) sui ratti hanno dimostrato l’impatto positivo del calore materno, degli stimoli olfattivi, della poppata e della stimolazione materna su diversi parametri fisiologici dei cuccioli, compresi i livelli di ormone della crescita. Hofer ha dimostrato anche che la separazione precoce tra la madre e i cuccioli di ratto provoca una riduzione della loro reattività, un rallentamento dei movimenti e aumenta la suscettibilità all’ulcera come risposta allo stress. Questi processi regolatori nascosti mediano un controllo comportamentale, metabolico, sensomotorio, autonomico e interocettivo anche nella diade madre-bambino, dove la madre svolge la funzione di regolatore biologico esterno, favorendo la crescita fisiologica del piccolo e l’internalizzazione della funzione regolatrice mediata dall’esterno (Hofer 1994).

Regolazione emotiva: attaccamento e mentalizzazione

Se per la Psicoanalisi classica il bambino agisce soltanto in funzione delle sue pulsioni e ricerca la madre solo per soddisfare i suoi bisogni biologici, Bowlby mette in primo piano l’aspetto relazionale dell’essere umano, sottolineando che il bisogno fondamentale del bambino è quello stabilire una relazione che solo secondariamente garantisce la sua crescita e la sua sopravvivenza. Bowlby (1973) ha osservato alcuni comportamenti umani ed animali che garantiscono la vicinanza al caregiver (solitamente la madre), oltre che un senso di sicurezza e accudimento, questi comportamenti di attaccamento come piangere, ridere, seguire o aggrapparsi si attivano in particolar modo quando il caregiver si allontana.

Le relazioni di attaccamento si stabiliscono con poche persone (Ainsworth e Bowlby, 1991) e i pattern di interazione ripetuti tra caregiver e bambino nel tempo danno origine a dei modelli operativi interni (Bowlby, 1969), ovvero delle rappresentazioni mentali stabili e durature che il bambino ha di sé, degli altri e del legame che li unisce, rendendo prevedibili i risultati delle future interazioni.

Ainsworth e Bowlby (1991) e Main e Solomon (1990) identificano 4 fondamentali tipi di relazioni di attaccamento in base alla qualità dell’accudimento fornito: i bambini con uno stile di attaccamento sicuro che utilizzano l’adulto come base sicura per esplorare l’ambiente circostante, tipico di bambini con madri sensibili e sintonizzate sui loro bisogni; i bambini con un attaccamento insicuro-evitante, rifiutanti verso madri insensibili e distaccate; i bambini con un attaccamento insicuro-ambivalente che cercano il contatto evitandolo al tempo stesso, con madri incoerenti ed imprevedibili nelle risposte; infine, i bambini insicuri-disorganizzati, confusi e incontrollati, non raramente vittime di maltrattamenti e trascuratezza con madri emotivamente distaccate o troppo intrusive.

Secondo Bateman e Fonagy (2006) nel contesto di un attaccamento sicuro e sulla base dei modelli operativi interni (MOI) ripetuti nelle interazioni precoci, i bambini diventano capaci di comprendere i propri desideri, le emozioni, le credenze e le motivazioni, distinguendole da quelle altrui.

Le relazioni di attaccamento sicuro favoriscono lo sviluppo cognitivo e dell’intelligenza sociale, nonché di una funzione interpretativa interpersonale (IIF) costituita dai meccanismi attentivi, dalla regolazione emotiva e dalla capacità di mentalizzazione. La mentalizzazione rappresenta la massima espressione dell’autoregolazione e si riferisce alla capacità di comprendere implicitamente o esplicitamente i propri ed altrui comportamenti sulla base degli stati mentali che li sottendono, dando loro un significato (Bateman e Fonagy, 2006).

La capacità di mentalizzare facilita l’esistenza perché permette di prevedere quale sarà il comportamento degli altri in certe circostanze ed elicita la comprensione dei propri stati interni a partire dall’esplorazione di quelli altrui (Fonagy e Target, 1997). Essa rende più competenti nelle relazioni e capaci di affrontare le situazioni stressanti in modo adeguato, grazie alla possibilità di regolare gli stati emotivi e le componenti corporee che dipendono da essi.

Esiste una relazione tra il controllo inibitorio e la presenza di un attaccamento sicuro: secondo Bateman e Fonagy (2006), una madre capace di dirigere l’attenzione su specifici stimoli presenti nel campo percettivo del piccolo, distogliendolo da stimoli stressanti, riduce i suoi stati di arousal e media l’inibizione di risposte impulsive, in favore di altre più adeguate. Un fallimento nell’acquisizione della mentalizzazione può compromettere non solo la comprensione della mente dell’altro, ma anche dei propri stati interni, con la conseguente esperienza di vissuti emotivi incomprensibili, difficili da gestire e marcate difficoltà nel controllare le risposte impulsive che dominerebbero quelle più riflessive. L’operazionalizzazione del concetto di mentalizzazione con quello di funzione riflessiva (Fonagy e Target, 1997) ha permesso di indagare la relazione tra l’attaccamento sicuro e la mentalizzazione, dimostrando che la funzione riflessiva è in grado di prevedere la qualità sicura dell’attaccamento tra bambini e madri con vissuti di deprivazione infantile (Fonagy et al., 1994) e che i genitori con maggiori livelli di funzione interpretativa valutati con l’Adult Attachment Interview tendono a stabilire delle relazioni di attaccamento sicuro con i loro figli (Bateman e Fonagy, 2006).

Regolazione emotiva: neuroscienze e sviluppo emotivo

Una serie di studi neuroscientifici suggeriscono che le relazioni precoci hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo dei sistemi cerebrali connessi alla regolazione delle emozioni, all’empatia, alla capacità riflessiva e alla mentalizzazione. Schore (2000) ha messo in evidenza lo stretto legame tra lo sviluppo della relazione di attaccamento, la maturazione dell’emisfero destro e la regolazione affettiva, sottolineando come le esperienze primarie influenzino l’organizzazione di alcuni circuiti cerebrali particolarmente plastici nei primi mesi di vita, capaci di condizionare il comportamento socio-emotivo presente e futuro di un individuo (Schore e Schore, 2008). Altri studi mostrano che le esperienze precoci stimolano il rilascio di ormoni in grado influenzare l’espressione dei geni e in grado di plasmare la costituzione e le funzioni delle strutture cerebrali (Schore, 2001). In condizione di stress per il bambino, il genitore adeguatamente sintonizzato sui suoi stati affettivi è in grado di ristabilire uno stato di attivazione fisiologica ottimale, ripristinando i livelli di energia metabolica e favorendo la produzione di ossitocina, catecolamine e oppioidi endogeni, importanti per lo sviluppo cerebrale e per la comparsa di sensazioni piacevoli associate all’accudimento e all’immagine del caregiver.

Secondo Schore (2000) i modelli operativi interni di Bowlby si inscrivono a livello dell’emisfero destro sotto forma di memoria procedurale implicita, influenzando le strategie di regolazione emotiva e le risposte degli individui alle difficoltà. Il risultato di una buona relazione di attaccamento dovrebbe essere il raggiungimento di un livello di esperienza e di maturazione neurobiologica tale da acquisire la capacità di regolazione emotiva autonoma, ma anche interattiva e condivisa quando ci si trova in contesti sociali.

Lo sviluppo di queste capacità promuove anche la maturazione dell’emisfero sinistro, importantissimo per le funzioni linguistiche e narrative e quindi per l’espressione verbale e la condivisione sociale delle emozioni. I compiti di mentalizzazione implicita ed esplicita e la comprensione sociale coinvolgono l’attività delle aree orbitofrontali e mediali della corteccia prefrontale (Bateman e Fonagy, 2006), stress e sofferenza eccessivi possono alterare l’attività neurotrasmettitoriale a livello prefrontale e causare la perdita temporanea del controllo da parte delle aree corticali su quelle sottocorticali (Arnsten, 1998). Lo spostamento del controllo dalle aree esecutive prefrontali alle aree profonde del cervello, automatiche e impulsive, provoca una regressione dal pensiero riflessivo alla messa in atto di comportamenti non mentalizzanti e reazioni somatiche primitive. I bambini molto piccoli, per rassicurarsi in assenza della loro mamma, utilizzano degli oggetti “prediletti” come una copertina o un peluche, tali “oggetti transizionali” (Winnicott, 1996) permettono al bambino di modulare i suoi stati emotivi.

La tendenza ad utilizzare dei regolatori esterni per calmare le proprie emozioni permane nell’età adulta sotto forma di comportamenti, come agitare una parte del corpo, fare sport, ballare, bere tisane calmanti, leggere o scrivere e possono avere la funzione di sedare uno stato di agitazione oppure di respingere la noia e la tristezza. Quando le risposte somatiche e comportamentali prendono il sopravvento danno origine a modalità primitive e spesso disadattive ed estreme di regolazione emotiva, come l’autolesionismo, l’abuso di alcool o droghe, comportamenti aggressivi e violenti, sesso compulsivo o attività pericolose che provocano cambiamenti a livello emotivo e corporeo, fungendo da regolatori esterni di stati emotivi indesiderati (Baldoni, 2014). L’utilizzo di queste condotte disadattive predispone ad una serie di disturbi fisici e mentali ed è tipicamente presente nei disturbi di personalità, in varie forme di dipendenza e nei disturbi del comportamento alimentare.

Regolazione emotiva e sviluppo di psicopatologie

I neonati percepiscono ed esprimono ogni loro esperienza attraverso il corpo, quindi la presenza di cure genitoriali adeguate, il rispecchiamento affettivo congruente, la funzione di contenimento e lo stabilirsi di un attaccamento sicuro diventano la conditio sine qua non per l’integrazione di corpo e mente, per la nascita del Sé psicologico e l’acquisizione dell’autoregolazione emotiva (Fonagy e Target 1997). In sostanza, la capacità di mentalizzare può essere considerata come il risultato di una buona riuscita di tutte le funzioni di caregiving sinora citate. Raggiungere tale traguardo permette di comprendere e prevedere il comportamento degli altri e di riflettere sui propri stati interni aumentando le capacità di regolazione autonoma. L’internalizzazione della funzione regolatrice mediata dai caregivers facilita il fronteggiamento adattivo delle situazioni stressanti, favorisce il benessere psicologico e sociale, riducendo il rischio di ricorrere a condotte disadattive.

Mio figlio ha un Disturbo Specifico dell’Apprendimento. Cosa vuol dire? Cosa posso fare per aiutarlo?

Negli ultimi anni si sente parlare molto di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) ma cosa sono e cosa vuol dire per un genitore avere un figlio al quale è stata posta questa diagnosi?

 

DSA è l’acronimo di Disturbi Specifici dell’Apprendimento e sta ad indicare una specifica categoria di disturbi che si manifestano con significative difficoltà nell’acquisire ed utilizzare abilità di ascolto, espressione orale, lettura e ragionamento matematico, pur conservando intatto il funzionamento intellettivo generale.

Specificità del deficit

Molto importante è il principio di specificità in quanto i DSA si riferiscono ad uno specifico dominio di abilità. Alla base di questi disturbi ci sono disfunzioni neurobiologiche che interferiscono con il normale processo di acquisizione delle capacita di lettura, scrittura e calcolo. Si distinguono, a seconda delle abilità compromesse: dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia.

Oltre alle disfunzioni neurobiologiche non bisogna tralasciare fattori ambientali quali la famiglia e la scuola, che insieme contribuiscono a determinare difficoltà più o meno marcate nelle aree interessate.

DSA si evidenziano fin da quando il bambino è chiamato all’acquisizione di nuove abilità quali appunto lettura, scrittura e calcolo. Segni precursori fin dalla scuola dell’infanzia possono essere difficoltà del linguaggio come per esempio la capacità di imparare filastrocche o la difficoltà di attenzione.

Molto importante sottolineare che il funzionamento intellettivo è intatto. Spesso i genitori pensano che il proprio figlio abbia un ritardo avendo una diagnosi di DSA. Colpevole in questo caso anche la società che spesso tende a giudicare ma non a comprendere le reali cause della natura di questo disturbo.

Il contributo dei fattori emozionali nell’evoluzione dei DSA

Molto importanti nel processo di crescita sono i fattori emozionali che contribuiscono ad evidenziare un disturbo. Si pensi ad un bambino con difficoltà di lettura posto di fronte la lettura ad alta voce in un contesto quale la classe dei pari o altro luogo pubblico frequentato. L’ansia prestazionale, la paura, la demotivazione e la poca autostima investiranno il bambino tanto da evidenziare maggiormente la performance. In fase di valutazione per un clinico è molto importante valutare tutti gli aspetti che concorrono ad evidenziare un disturbo.

Attualmente ci si trova spesso di fronte bambini iperstimolati, caricati di mille informazioni il cui processamento richiede tempo e comprensione e a cui il genitore, complice la freneticità, quotidiana non riesce a dar conto.

Come si sente un genitore dinanzi a tutto questo? Cosa può fare per essere di aiuto al proprio figlio?

La legge 170 del 2010 tutela i bambini e ragazzi con DSA a scuola e nel contempo propone linee guida di aiuto per i genitori.

La legge 170 riconosce espressamente l’importanza del ruolo della famiglia all’art. 6 “Misure per i familiari” che recita

Fino al primo grado di studenti del primo ciclo dell’istruzione con DSA impegnati nell’assistenza alle attività scolastiche a casa, hanno diritto di usufruire di orari di lavoro flessibili.

La famiglia deve provvede, di propria iniziativa o su segnalazione del pediatra, sia esso di libera scelta o della scuola, a far valutare l’alunno o lo studente secondo le modalità previste dall’Art. 3 della Legge 170/2010 così da consegnare alla scuola la diagnosi di cui all’art. 3 della Legge 170/2010. Successivamente condivide le linee elaborate nella documentazione dei percorsi didattici individualizzati e personalizzati ed è chiamata a formalizzare con la scuola un patto educativo/formativo il PDP nel quale vengono specificate quali sono le strategie e gli strumenti che la scuola utilizza per aiutare il bambino nell’apprendimento. Si parla quindi di misure compensative e dispensative utilizzate secondi le necessità del bambino.

Questo è il primo passo da fare per tutelare il proprio figlio.

Ma i genitori? Le famiglie di bambini DSA, soprattutto nella prima fase, hanno bisogno di essere guidate alla conoscenza del problema, non solo in ordine ai possibili sviluppi dell’esperienza scolastica, ma anche informate con professionalità e costanza sulle strategie didattiche che di volta in volta la scuola progetta per un apprendimento quanto più possibile sereno e inclusivo, sulle verifiche e sui risultati attesi e ottenuti e sulle possibili ricalibrature dei percorsi posti in essere.

Scoprire che il proprio figlio ha una problematica inerente l’ambito scolastico non è facile da accettare ed è comprensibile che i genitori possano essere spaventati all’inzio. Uno degli aiuti per i genitori è il parent training.

Parent training, una risorsa per i genitori

Il parent training rappresenta una risorsa fondamentale nel processo di riabilitazione di un bambino con difficoltà. L’importanza di questa tecnica di sostegno è data dal fatto che non si rivolge al bambino, ma ai suoi familiari.

Si tratta di un modello di intervento la cui caratteristica principale è quella di coinvolgere i genitori quali agenti di primaria importanza nello sviluppo dei figli, offrendo un aiuto specialistico a coloro che desiderano cambiare il modo di interagire con loro e promuovendo lo sviluppo di comportamenti positivi.

I gruppi consentono ai genitori di affrontare i compiti e le difficoltà educative aumentandone le competenze ma anche favorendo, in un clima collaborativo, la condivisione delle esperienze individuali.

Nei casi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento, il Parent Training ha come obiettivo principe quello di sostenere la genitorialità al fine di favorire la risposta emotiva e l’atteggiamento educativo ottimali per la promozione delle competenze e del benessere del bambino in difficoltà.

Il Parent Training si pone inoltre come obiettivo quello di facilitare la comprensione dei genitori in merito alle difficoltà scolastiche del figlio; solo con un’opportuna consapevolezza del problema, infatti, saranno capaci di aiutarlo a fare i compiti e migliorare l’apprendimento.

Un altro scopo importante è quello di favorire il confronto tra realtà ed esperienze simili, promuovendo così un clima sereno in cui i genitori hanno la possibilità di rendersi conto di non essere i soli ad avere problemi educativi.

Il gruppo consente infine di incrementare la fiducia nei confronti delle procedure che vengono suggerite, constatando che altri le utilizzano con soddisfazione.

Sia il bambino che i genitori hanno bisogno di trovare ascolto ed essere compresi, in modo da avere consapevolezza e intraprendere il percorso di crescita del bambino con serenità.

Inconsapevolezza – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 39

Ogni giorno ognuno di noi si muove nel mondo svolgendo un’infinità di azioni differenti, prende decisioni, interagisce con altre persone.. Ma cosa guida il nostro comportamento? Siamo davvero consapevoli di tutto ciò che facciamo? E soprattutto, siamo sicuri che la prospettiva che stiamo adottando sia proprio quella giusta?

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Inconsapevolezza (Nr. 39)

 

Per fortuna o purtroppo…” Così cantava Giorgio Gaber nella sua ultima canzone con la voce già incespicante per la malattia. E chissà se se ne rendeva conto, non della morte che da sempre aveva evidentemente avvistato, ma del cambiamento che il suo approssimarsi spesso comporta; chissà se qualcuno a lui vicino glielo avrà detto e se lui ci avrà creduto.

Perché “per fortuna o purtroppo” noi siamo il centro del nostro mondo e da un lato non riusciamo a valutarci dall’esterno, dall’altro le valutazioni che facciamo sul mondo variano nel tempo con il variare del centro stesso. Il centro degli assi cartesiani dal quale descriviamo tutto è esso stesso in continuo cambiamento a diversi livelli.

Il punto di vista dal quale facciamo qualsiasi affermazione (e che è a noi stessi invisibile in quanto dato per scontato e ovvio) è esso stesso in mutamento e dunque produce nel tempo valutazioni diverse dello stesso fenomeno, senza però rendersene conto perché è lui stesso ad essere cambiato. Metaforicamente possiamo immaginarci un predicatore che si alza in piedi e si siede su un pulpito nella cappella di una nave che sale e scende sulle onde di un oceano che s’alza e s’abbassa per via delle maree su di un pianeta che contemporaneamente ruota quotidianamente su se stesso, rivoluziona annualmente intorno al sole mentre oscilla come una trottola intorno al suo asse.

Quando stiamo guidando tutti quelli che vanno più lentamente di noi ci sembrano un incomprensibile intralcio, mentre quelli che ci chiedono strada e ci sorpassano ci sembrano dei folli immotivati frettolosi con noi al centro che andiamo alla velocità giusta.

Noi vecchi siamo caratterizzati principalmente dalla lentezza, nel movimento, nei riflessi, nel ragionamento, ma ciò appare evidente ad un osservatore esterno e non a noi stessi che andiamo, come a diciott’anni al massimo della velocità consentita: per questo non è facile convincerci che dobbiamo smettere di guidare e di fare tante altre cose: noi siamo sempre gli stessi, semmai è il mondo che con tutte queste diavolerie moderne corre troppo.

Di questo fenomeno di traslazione del punto di vista occorrerebbe tener conto quando si scrive il testamento biologico: chi ci dice che il modo di valutare l’opportunità dell’esistenza di un demente, di un ritardato mentale gravissimo o di un tetraplegico sia lo stesso di un vent’enne surfista californiano? E a quale dei personaggi in cui ci siamo trasformati nel corso dell’esistenza spetta il diritto di decidere per tutti? Perché, attenzione, una volta fatto “rien va plus”, qualche zelante infermiere o qualche radicale intollerante di quella che immagina una condizione inaccettabile, lo si trova sempre (e in quelle condizioni non è neppure facile difendersi ed è indecoroso sperare nella difesa d’ufficio di Santa Romana Chiesa prima tanto avversata).

Detto questo il senso del “per fortuna” è evidente perché non esistendo nessuna consapevolezza al di fuori di sé, ci si reputa sempre nel giusto mezzo, a posto, OK.

Il “purtroppo” dipende dal fatto che certi della nostra prospettiva giudichiamo quale sia il bene o il male per gli altri e mossi da velleità salvifiche non ci limitiamo ai consigli ma bruciamo sui roghi, rieduchiamo nei gulag e stacchiamo le spine. Naturalmente a fin di bene, ci mancherebbe.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Quando il tempo vola: come si genera l’esperienza soggettiva del tempo

La memoria episodica è un tipo di memoria autobiografica in cui la persona è protagonista, che si forma a seguito di un evento specifico (cosa e dove) avvenuto in un momento temporale ben preciso (quando).

 

Un nuovo studio recentemente pubblicato su Nature e condotto da Albert Tsao e collaboratori del Kavli Institute for Systems Neuroscience in Trondheim, Norvegia, ha esplorato e messo in luce i meccanismi neurali che presiedono la codifica soggettiva del tempo.

Perché in alcune situazioni ci sembra che il tempo scorra molto velocemente e in altre occasioni ci sembra al contrario che non passi mai, che sia eterno, e ci accorgiamo di guardare con impazienza l’orologio sperando che sia passato almeno una buona mezz’ora dall’ultima volta che l’abbiamo fatto, cioè cinque minuti prima?

Accade altresì molto spesso che le situazioni in cui il tempo “vola” e quelle che consideriamo “infinite” siano definite piacevoli per la prima condizione e noiose per la seconda, tanto da chiedersi se esista una relazione tra spazio e tempo e come questa si concretizzi a livello neurale nella memoria autobiografica.

Lo studio mostra quali aree cerebrali sono coinvolte nella memoria episodica

Lo studio di Tsao e colleghi (2018) ha mostrato come la memoria episodica, cioè una memoria autobiografica in cui la persona è protagonista e che si forma a seguito di un evento specifico (cosa e dove) avvenuto in un momento temporale ben preciso (quando), si generi in aree cerebrali vicine che processano informazioni spaziali e che sono responsabili dell’esperienza del tempo.

Uno studio precedente di Moser & Moser (2005) aveva messo in luce nella corteccia entorinale mediale, una porzione dell’ippocampo, un gruppo di neuroni chiamati “grid cells” contenenti una mappa neurale dello spazio ambientale direzionalmente orientata e topograficamente organizzata, che si attivava ogniqualvolta la posizione dell’animale nello spazio coincideva con qualsiasi vertice di una griglia (grid) di triangoli equilateri che costituivano la superficie dell’ambiente. Pertanto da questo studio è apparso evidente come la codifica dello spazio ambientale fosse a carico della corteccia entorinale mediale.

Tsao e colleghi hanno ipotizzato che esistesse ugualmente una regione cerebrale adiacente alla corteccia entorinale mediale, dove sono state scoperte le grid cells, responsabile della codifica del tempo.

Inizialmente i ricercatori erano alla ricerca di un pattern di neuroni simili alle grid cells ma hanno incontrato notevoli difficoltà a causa del fatto che il segnale dei neuroni della corteccia entorinale laterale (LEC) si modificava nel tempo.

[…] il tempo è qualcosa di unico e di dinamico; se questo network è responsabile della codifica del tempo, il suo segnale dovrebbe cambiare nel tempo con il fine di registrare, come memorie uniche, esperienze di vita (Moser, autore dello studio)

Per tale ragione, Tso e colleghi (2018) hanno deciso di registrare l’attività neurale della LEC per diverse ore durante le quali i topi erano impegnati in una serie di esperimenti: il primo, che consisteva nel correre all’interno di un box le cui pareti cambiavano colore lungo un arco temporale, è stato sottoposto ripetutamente agli animali per 12 volte in modo tale che essi potessero stabilire i cosiddetti “contesti temporali multipli”.

I ricercatori in questo modo hanno potuto esaminare l’attività neurale della regione LEC differenziando i momenti in cui i neuroni stavano codificando i cambiamenti nei colori delle pareti da quelli che si occupavano della codifica della progressione del tempo durante l’esperimento (Tsao, Sugar, Lu, Wang et al., 2018).

Questo primo esperimento ha determinato come effettivamente l’attività dei neuroni della LEC siano possibili fonti di informazioni per l’animale circa il contesto temporale in cui si verifica un certo evento di cui egli è protagonista, informazioni necessarie affinché si possa formare una memoria episodica.

In aggiunta a questo, il secondo esperimento prevedeva che i topi esplorassero liberamente degli spazi scegliendo quali azioni mettere in atto per riuscire a raggiungere del cioccolato.

L’unicità del segnale neurale degli animali durante questo [secondo] esperimento suggerisce che gli animali hanno un’ottima capacità nel registrare il tempo e la sequenza temporale degli eventi nel corso delle due ore che hanno costituito la durata dell’esperimento, e pertanto siamo stati in grado di estrarre, dai dati registrati, la codifica temporale, tracciando esattamente i momenti in cui l’animale ha scelto quell’azione o si è verificato quell’avvenimento (Jørgen Sugar, co-autore dello studio)

Infine nel terzo esperimento, gli animali sono stati costretti a seguire un tracciato ben preciso, con opzioni d’azione più limitate e poche esperienze; in particolare essi dovevano o girare a destra o girare a sinistra per raggiungere il cioccolato.

I ricercatori, nell’analizzare i dati provenienti da questo terzo esperimento, si sono accorti che l’attività neurale responsabile della codifica temporale passava da una sequenza unica (come era successo nel secondo esperimento) ad una ripetitiva e maggiormente prevedibile (Tsao, Sugar, Lu, Wang et al., 2018).

Conclusioni

Lo studio ha pertanto dimostrato come le popolazioni neurali di LEC rappresentino il tempo in modo inerente alla codifica dell’esperienza, fungendo da “neural clock”, cioè organizzando l’esperienza in una precisa sequenza di eventi distinti, dando così un senso al tempo.

L’attività neurale infatti non rappresenta la misura precisa del tempo oggettivo ma di un tempo soggettivo derivato dal flusso delle esperienze in corso, interpretate come piacevoli o spiacevoli.

In conclusione, l’ippocampo è in grado di immagazzinare una rappresentazione omogenea di cosa, quando e dove.

Lo psicologo a scuola: come viene percepito dai docenti?

In numerosi Paesi Europei, tranne che in Italia, la figura dello Psicologo a Scuola ha un ruolo fondamentale nel supportare il sistema educativo e contribuisce al miglioramento delle prestazioni del sistema scolastico. L’esigenza di una specifica risposta professionale quale quella offerta dallo psicologo scolastico non costituisce affatto il tentativo di creare “nuovi posti di lavoro” da parte di una categoria professionale, ma piuttosto la possibilità di rispondere in maniera appropriata e competente ai vari problemi che emergono all’interno del sistema scolastico.

Gruppo di Lavoro Nazionale di Psicologia Scolastica

 

Negli ultimi anni, i profondi cambiamenti avvenuti dal punto di vista sociale, culturale, politico, economico, hanno esercitato una significativa influenza anche all’interno delle istituzioni scolastiche, contribuendo all’emergere di nuove e specifiche esigenze.

Si è in particolare assistito ad un cambiamento nella concezione dei processi di apprendimento, di cui oggi si riconosce la stretta interconnessione con le componenti emotive, affettive e relazionali.

Inoltre, come testimoniato da recenti casi di cronaca, stiamo assistendo allo sviluppo di un crescente malessere, individuabile a più livelli – dagli alunni, ai genitori, agli insegnanti – nonché di una difficoltà di relazione tra i vari protagonisti.

Alla luce di tali considerazioni, per una scuola in continuo mutamento che è chiamata a rispondere ad esigenze diversificate e complesse, occorre ripensare ad una Psicologia in azione dentro la scuola secondo un intervento rinnovato, nel quale si rivela essenziale e necessaria una risposta proveniente da una specifica professionalità: quella dello psicologo scolastico.

Lo psicologo a scuola

La continuità operativa che l’intervento richiede mira al raggiungimento di una presenza dello psicologo a scuola che sia costante, attiva e partecipante.

L’obiettivo è quello di poter realizzare uno specifico piano d’azione mirato alla prevenzione, alla promozione del benessere e all’intervento in aree di disagio conclamate. Lo psicologo scolastico si pone dunque come sostenitore del cambiamento, operando in collaborazione e in sinergia con tutti gli attori del sistema scolastico.

Al di là delle specificità che i singoli interventi messi in atto possono perseguire rispetto alle diverse aree della Psicologia, è sempre più opportuno considerare la Scuola come sistema complesso in cui la crescita didattica e personale degli studenti sono intimamente e inevitabilmente connesse e su cui è utile, nonché doveroso, operare un cambiamento che integri il ruolo educativo al benessere psico-sociale di ogni soggetto che lo compone.

Osservare questo sistema complesso significa, in primis, ascoltare e ridare voce a chi svolge quotidianamente il proprio operato all’interno della scuola, affinché le esigenze espresse diventino per lo Psicologo una guida con cui orientare il suo lavoro.

Un’indagine esplorativa: somministrazione del questionario “Lo psicologo scolastico: il punto di vista dei docenti”

Da qui è nata l’idea di effettuare un’indagine esplorativa, attraverso la costruzione e la somministrazione del questionario “Lo psicologo scolastico: il punto di vista dei docenti”, compilato da un campione di 440 docenti, provenienti da tutta Italia ed operanti in asilo nido, scuola dell’infanzia, scuola primaria e secondaria di primo e di secondo grado.

Il campione analizzato si suddivide secondo le seguenti ripartizioni: l’area geografica di appartenenza vede la maggiore percentuale al centro (35,1%), seguita dal sud (33%) e, infine, dal nord (31.9%), con una netta predominanza di personale femminile (91,8%) rispetto a quello maschile (8,2%). Più del 50% dei docenti intervistati lavora all’interno della scuola da almeno 10 anni, di questi il 27% da più di 20.

La lunga permanenza all’interno del settore scolastico dei docenti che hanno risposto al questionario offre un’idea strutturata e consapevole del “vissuto” della propria professione, nonché delle aree maggiormente problematiche e della richiesta di risorse specifiche per possano lavorare ad una risoluzione.

Dai dati raccolti è emerso che la problematica maggiormente evidenziata dagli insegnanti risulta essere la gestione delle classi difficili (60,5%), seguita dalla gestione degli alunni con un “bisogno educativo speciale” o un “disturbo dell’apprendimento” (13,6%) che richiedono un’adeguata formazione degli insegnanti. Vengono inoltre evidenziati problemi relativi alla scarsa comunicazione fra scuola e famiglia (9,3%) ed in ultimo una mancata organizzazione del lavoro di rete tra insegnanti e tra insegnanti e dirigenti scolastici (7,7%).

Un’altra tematica esplorata nell’indagine riguarda gli aspetti maggiormente apprezzati degli interventi psicologici sperimentati durante la propria attività scolastica, che risultano essere:

  • la gestione dei conflitti del gruppo classe
  • la mediazione tra insegnanti e famiglie
  • il miglioramento dell’autostima e della consapevolezza delle emozioni negli studenti
  • la formazione del corpo docente sul riconoscimento precoce di varie problematiche e delle modalità per affrontarle

I risultati dell’indagine: qual è il ruolo dello Psciologo scolastico secondo i docenti?

Emerge una percezione dello Psicologo come risorsa (51%) e, per il 21,3% dei partecipanti, la sua presenza viene vista come una vera e propria necessità per il benessere scolastico. Per la quasi totalità dei partecipanti (97,3%) lo Psicologo rappresenta la figura più preparata per migliorare l’intero ambiente scolastico.

Alla luce dei dati emersi risulta fondamentale continuare a percorrere la strada del riconoscimento della figura dello Psicologo Scolastico come professionista che può operare attraverso svariate modalità, ben oltre l’attività dello “sportello d’ascolto”, intervento peraltro già ripensato dal GdL Nazionale di Psicologia Scolastica in un’ottica interattiva e dinamica.

Come si evidenzia dal nostro campione di riferimento, solo il 12% considera la prevenzione come un’attività importante, confermando l’idea ancora diffusa che la presenza dello psicologo a scuola sia necessaria prevalentemente in condizioni di emergenza, per intervenire clinicamente in situazioni di disagio sfociate in comportamenti disadattivi.

La proposta di intervento del GdL Nazionale di Psicologia Scolastica: il ruolo proposto per lo psicologo a scuola

La proposta di intervento di cui il GdL si fa portatore si fonda sull’idea di una presenza sistematica dello Psicologo scolastico al fine di poter attivare servizi più complessi e strutturati a vari livelli per le diverse aree di intervento. Tali aree comprendono: attività di prevenzione e di promozione del benessere, contrasto del disagio e prevenzione di comportamenti disfunzionali.

Al fine di un miglioramento di qualsiasi tipo di intervento scolastico risulta però fondamentale condividere e chiarire, a inizio attività, le aspettative e gli obiettivi realmente perseguibili a seconda del tempo e dei finanziamenti a disposizione, nonché effettuare una valutazione dell’intervento stesso sia in itinere che al termine per monitorare costantemente l’andamento del percorso e potenziarne l’efficacia.

I dati osservati nell’indagine superano il pregiudizio infondato di alcune categorie professionali che tendono a mostrare la Psicologia a Scuola come un intervento ancora in fase di sperimentazione.

I dati ci mostrano non solo come la Psicologia a scuola è una realtà già esistente ma, soprattutto, che l’esigenza di una specifica risposta professionale non costituisce affatto il tentativo di creare “nuovi posti di lavoro” da parte di una categoria professionale, ma piuttosto la possibilità di rispondere in maniera appropriata e competente ai vari problemi emersi.

La psicologia per la scuola è una realtà, esistente da anni attraverso collaborazioni, progetti, successi, vantaggi e sviluppi che sono ampiamente documentati in letteratura (Francescato, Putton, Cudini 2000; Gelli e Mannarini 1998, 1999; Pellai A. 2005; Gavazzi, Ornaghi, Antoniotti 2011). L’indagine N.E.P.E.S. del 2010 (cit. in Matteucci M.C., 2016), ad esempio, mette in evidenza che in tutti i paesi Europei, tranne che in Italia, lo psicologo a scuola ha un ruolo fondamentale nel supportare il sistema educativo e contribuisce al miglioramento delle prestazioni del sistema scolastico.

L’indagine del GDL Nazionale di Psicologia Scolastica offre un ulteriore e recente dato a sostegno di questa realtà, mettendo in luce la necessità di dare risposta alla richiesta di ben-essere globale di cui, oggi più che mai, i protagonisti del sistema scolastico sono portatori.

Alla luce dei dati emersi, che evidenziano un bisogno sempre maggiore dell’intervento dello psicologo rispetto alle dinamiche e alle problematiche presenti nel contesto scolastico, il GdL di Psicologia Scolastica è impegnato nel mettere a disposizione le sue competenze in progetti ed attività psicosociali di prevenzione primaria, secondaria e terziaria che, in stretta collaborazione con docenti e famiglie, possano contribuire al reale miglioramento del benessere a scuola.

Recensionde del libro “Nati a perdere” di G. Salvatore – Un esperimento narrativo basato su storie reali

Nati a perdere è un libro che propone una sequenza rapida, implosiva, di personaggi-racconti.

 

Chi fa lo psicoterapeuta come me sceglie di bere dolore più volte a settimana. Se è condito di speranza non avvelena. Un dolore curabile, che può recedere. A fine giornata lo abbiamo ridotto di una tacca, torniamo a casa pacificati. Chi fa lo psicoterapeuta e diventa scrittore spilla veleno umano.

Nati a perdere è questo: storie del Sud dove “troneggiante, moribondo, c’era Gesù inchiodato a una croce di legno spesso”. E si fa i fatti suoi, non offre antidoto.

Al suo cospetto Giorgio, timido da stare appiccicato con l’adesivo alle pareti della chiesa. Unica gloria della sua vita i cross perfetti per Carmine che segnava in mezza rovesciata. Careca passa a Maradona. Quello che fa Giorgio il parroco non lo sa.

Alice mena mazzate tremende a Jenny, Carlotta e Alice piccola. Fossimo a El Paso e non a Salerno sarebbe Alice junior. Figlie? No, le sue bambole. Che però si comportano bene, sanno evitare la furia di Alice grande. Una bambina così, che mamma ha alle spalle?

Uno psicoterapeuta che diventa scrittore sa che Gesù non risponde, e racconta sconfitte. Senza redenzione. Noi possiamo ingoiare dolore perché nelle nostre vene scorre una sorta di onnipotenza curativa, noi quella pena la facciamo passare.

Ma non è vero. Siamo utili solo a chi entra nel nostro studio con la speranza accesa. Se proviamo ad ascoltare le stesse storie lì fuori usciamo pazzi, finiamo nella terra perfida di Céline, Palahnuk, Di Monopoli. La speranza appare in un calcio circolare. Giovanni lo impara dal maestro di karate, per puro assorbimento. Di nascosto dalla madre mediterranea paralizzante e onnipresente, capace di invadere lo spazio sacro del tatami esegue il calcio insieme al kiai, l’urlo rituale: “Un kiai vero, fatto di vita e di morte”

 

 

 


 

Nati a perdere (2015) di Giampaolo Salvatore – Anteprima –

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