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Welcome Home (2019). Le fragilità di coppia, tra seduzione e inganno (e prevedibilità) – Recensione del film

Bryan e Cassie, in vacanza in Italia, affittano una villa sul sito Welcome Home. Bello lui, bella lei, coppia in crisi che cerca in un casolare della campagna umbra l’atmosfera giusta, il tempo sospeso per riannodare i fili di una relazione sfilacciatasi fino al tradimento.

 

Non hanno fatto i conti col vicino belloccio che appare e scompare furtivo, rimanendo poi stabilmente come terzo incomodo nelle dinamiche del ménage.

Welcome home: seduzione e inganno

Riccardo Scamarcio ed Emily Rataijkowski, rispettivamente il vicino invasore e la femme fatale in pericolo, sono due ottime ragioni estetiche per provare ad appassionarsi alla trama di Welcome Home, altrimenti affaticata. Bryan si trova ben presto invischiato nelle oscure manovre di Federico, che controlla gli ospiti a loro insaputa e si inserisce nella loro relazione con le modalità classiche di un thriller psicologico non troppo originale. La villa isolata nella campagna restituisce a suo modo un’atmosfera di attesa sufficientemente viva, la presenza del vicino si annuncia come discreta e innocua diventando via via l’esatto opposto, un’inesorabile seduzione giocata sull’inganno e sulle fragilità della coppia.

Bryan sempre più insofferente, Cassie tra l’incudine dei sensi di colpa fedifraghi e il martello fascinoso del nuovo intruso, entrambi alle prese col desiderio di recuperare la felicità perduta, minato però costantemente dalle incertezze che Federico insinua con mano lesta. Il contesto tenebroso e un po’ labirintico è un ingrediente essenziale per il tentativo di generare suspence, che a tratti va a segno, specie se da spettatori abbiamo cura di sorvolare sui limiti del già noto e conosciuto. Federico gioca di sponda, conduce i suoi graditi ospiti a dubitare l’uno dell’altra, si sostituisce a Bryan nella parte del maschio predatore fino alle estreme conseguenze.

Welcome home: un film prevedibile?

Il finale unisce la prevista dose di prevedibilità ad un’aberrazione da internauti che ci rammenta le travi portanti della contemporaneità. Welcome Home rappresenta infatti già dal titolo una storia che nasce dalla Rete e nella Rete si conclude, attraverso quelle dinamiche impersonali che divengono l’essenza stessa di un senso di pericolo inafferrabile. Si ha nel corso del film la sensazione che non possa accadere nulla di diverso da ciò che il copione di quel particolare genere narrativo e di quella specifica vicenda fa supporre; la cornice social e delle minacce virtuali contenute non soltanto nelle intenzioni malevole del cattivo ma anche nella cattiva comunicazione tra i buoni è piuttosto didascalica, si limita a mostrare cosa può generarsi quando ci imbattiamo nello smartphone incustodito del nostro partner o quando parliamo con gli sconosciuti. Lo sapevamo già.

Il consiglio per questo film è di prenderlo com’è, seguirne la trama per sentirsi comodamente accolti in un sentiero già battuto e perciò rassicurante. In questo modo sarà stato un tempo ben utilizzato.

 

WELCOME HOME – Guarda il trailer del film:

Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI): quali sono le ragioni per cui su alcuni pazienti non sono efficaci?

Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono attualmente gli antidepressivi più utilizzati. Tuttavia, questi farmaci non funzionano in quasi un terzo dei pazienti affetti da un disturbo depressivo maggiore.

 

Si parla di psicofarmacologia nell’ambito di quelle ricerche in cui viene collegata la somministrazione di determinate sostanze ai cambiamenti della sfera cognitiva e comportamentale dei soggetti.

La neurofarmacologia, invece, si focalizza sui meccanismi neurocellulari attraverso i quali avvengono questi cambiamenti.

Entrambe sono essenziali per l’utilizzo e lo sviluppo degli psicofarmaci.

SSRI – I meccanismi d’azione e la possibile spiegazione della ridotta efficacia in alcuni pazienti

Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono attualmente gli antidepressivi più utilizzati. Vengono prescritti per diversi disturbi e mostrano una buona efficacia, in particolare se abbinati ad un percorso psicoterapeutico. Studi clinici, però, riportano che questi farmaci non funzionano in quasi un terzo dei pazienti affetti da un disturbo depressivo maggiore.

Si ritiene che gli SSRI agiscano limitando il riassorbimento della serotonina nella cellula presinaptica, aumentando così le concentrazioni extracellulari di questo neurotrasmettitore.

Una recente ricerca (Vadodaria, et al., 2019) ha indagato questa refrattarietà, generando cellule staminali pluripotenti indotte da campioni somatici di controlli sani, pazienti estremamente rispondenti ed estremamente non rispondenti agli SSRI. Questa procedura permette di derivare qualsiasi tipologia di cellula in vitro da un campione iniziale. In questo caso lo studio si è svolto su neuroni del proencefalo, caratterizzati da una densa nervatura serotoninergica. I ricercatori hanno quindi potuto studiare da vicino la reazione di questa tipologia specifica di cellule alla serotonina.

I risultati mostrano come i neuroni di pazienti non rispondenti abbiano proiezioni nervose più lunghe e presentino un’iperreattività al neurotrasmettitore, derivante da una sovraregolazione dei recettori 5-HT2A e 5-HT7, entrambi implicati nella depressione.

Questi dati evidenziano per la prima volta come una neurotrasmissione serotoninergica postsinaptica alterata nei neuroni del proencefalo, derivante dall’iperreattività alla serotonina, potrebbe generare un circuito maladattivo il cui effetto si traduce nella resistenza agli SSRI. Un’interessante speculazione è il possibile utilizzo, in quei casi farmacoresistenti, di alcuni antidepressivi antagonisti dei recettori coinvolti, come il Lurasidone.

In conclusione

Questa ricerca ha profonde implicazioni, non solo per i pazienti che soffrono di depressione, ma per tutti i diversi disturbi che implicano una disregolazione del sistema serotoninergico, portando un passo avanti la nostra comprensione dei disturbi neuropsichiatrici.

Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. (2018) di Flavio Cannistrà e Federico Piccirilli – Recensione del libro

Terapia a seduta singola (TSS) negli ultimi trent’anni se ne parla sempre di più in tutto il mondo, ma sono pochi i riferimenti di rigore scientifico e metodologico sul panorama italiano. Con il presente manuale Flavio Cannistrà e Federico Piccirilli, offrono un contributo completo ed esaustivo su cosa sia e come applicarla.

 

Terapia a seduta singola: che cos’è e come nasce?

All’interno del libro Terapia a Seduta Singola, Flavio Cannistrà, psicologo e psicoterapeuta formatosi su tale approccio presso il Bouverie Centre in Australia e fondatore e direttore dell’Italian Center for Single Session Therapy (primo centro italiano per lo studio, la ricerca e la formazione nella TSS), e Federico Piccirilli, psicologo e psicoterapeuta specializzato in psicoterapia breve ad approccio strategico, ipnosi e cofondatore dell’Italian Center for Single Session Therapy, offrono in maniera magistrale una spiegazione circa tale approccio, dalle origini alla sua applicazione.

Il libro parte con un’ampia panoramica storica rispetto a contributi rintracciabili già nel mondo della psicoanalisi fino ad arrivare ai lavori di coloro che vengono riconosciuti come pionieri della Terapia a Seduta Singola, ossia Talmon, Hoyt e Rosenbaum, che grazie all’unione di tre punti di vista differenti per matrice teorica ed esperienze lavorative hanno reso più prezioso il loro contributo. Nota di rilievo tra l’altro, è che proprio Hoyt e Talmon hanno realizzato la prefazione del presente testo.

Nella prima parte, si rintraccia inoltre la nascita dei più famosi centri nel mondo di TSS, e di come in maniera più o meno consapevole la sua applicazione sia stata avviata in tanti contesti e circostanze non soltanto rilegate nell’ambito clinico in studio ma anche in contesti di emergenza che hanno visto coinvolta anche l’Italia (terremoti, incidenti stradali, emergenza migranti) dove non sarebbe stato possibile, per ovvie ragioni, procedere con consuete modalità di terapia tradizionale.

La Terapia a Seduta Singola, come spiegano gli autori, non è da considerarsi come il superamento di precedenti approcci o un intervento di specifico utilizzo all’interno di un orientamento piuttosto che di un altro, ma consiste nel massimizzare gli effetti e l’efficacia del lavoro terapeutico in una singola seduta che debba avere, in maniera chiara e strutturata, sia nella mente del paziente che nella mente del terapista, un obiettivo, un inizio e una fine. Una questione di mindset, dove il punto di forza diventa “individuare le risorse del paziente, bloccare/modificare i comportamenti disfunzionali”.

Mindset statico vs Mindset dinamico

In virtù del fatto che la Terapia a Seduta Singola può essere utilizzata da qualsiasi terapeuta aldilà della sua formazione, ciò che diventa elemento distintivo è il mindset dello stesso. Come argomentano in maniera chiara ed esaustiva gli autori, ciò che diviene essenziale per poter applicare la TSS è che il terapeuta abbia un mindset dinamico. Ma vediamo più nel dettaglio quali aspetti, in termini di atteggiamento mentale, vengono sottolineati come essenziali:

  • Mindset dinamico nel terapeuta che lavora per favorire un Mindset dinamico nel paziente, accompagnandolo alla scoperta delle sue risorse, delle sue capacità e invitandolo a non fossilizzarsi su i fallimenti, fonte poi di frustrazione, ma vedere i fallimenti come opportunità per imparare, cambiare, crescere e migliorarsi;
  • La persona al centro della terapia, non si lavora sul problema ma si lavora con la persona e pertanto quest’ultima ha un ruolo attivo e collaborativo;
  • Da parte del terapeuta è essenziale un ascolto empatico privo di pregiudizi, la capacità di creare alleanza terapeutica, di individuare e scoprire le soluzioni tentate disfunzionali e utilizzare quelle come leva del cambiamento;
  • Lavorare per l’appunto con la persona e agire sulla motivazione del cliente, permettendo a quest’ultimo di riconoscere e scoprire le risorse che ha dentro di sé;
  • Si cerca di offrire alla persona ad ogni incontro qualcosa di utile e concreto.

Linee guida della TSS e la sua applicazione in Italia

Se il mindset riguarda la mentalità e gli atteggiamenti da adottare per operare con una seduta singola e massimizzare l’efficacia di ogni singolo incontro – spiegano gli autori – le linee guida sono piuttosto dei principi pratici, applicativi. Non vere proprie tecniche, ma prassi più o meno definite da adottare.

Nel quarto capitolo del libro la Terapia a Seduta Singola, gli autori a partire dalla distinzione e descrizione dei tre metodi principali di TSS quali: il metodo californiano di Talmon, Hoyt e Rosenbaum, il metodo canadese-texano di Arnold Slive e Monte Bobele e il metodo australiano rappresentato dei lavori condotti presso il Bouverie Center di Melbourne, ne sintetizzano le linee guida comuni in nove punti:

  1. Il cambiamento è possibile, ma non tutti i problemi si risolvono una seduta. Dunque sarà abilità del terapeuta capire individuare e riconoscere se la persona riesce a beneficiare di una seduta singola o se necessita di più sedute;
  2. Concepisci ogni incontro come completo in sé;
  3. Concentrarsi sul presente;
  4. Identificare un obiettivo da raggiungere nella seduta;
  5. Non correre, non cercare di essere brillanti: l’importante è che il terapeuta non abbia fretta di ottenere risultati spinto da una smania interventista ma cercare di rispettare i tempi della persona;
  6. Identificare i punti di forza della persona;
  7. Grandi problemi non richiedono sempre grandi soluzioni (aspetto già individuato, approfondito ed elaborato da Watzlawick);
  8. Concludere in modo adeguato, non lasciare questioni aperte;
  9. Lascia la porta aperta. Se va considerata una singola seduta come possibilità di cambiamento ciò non esclude dare alla persona l’opportunità di poter ricorrere nuovamente alla terapia ed utilizzarla, come anche simpaticamente suggeriscono gli autori, “all’occorrenza”.

Modelli e punti sopra elencati vengono descritti, nei vari capitoli del testo accompagnati sempre da riferimenti a studi, riferimenti bibliografici per guidare il lettore non ad una semplice lettura ma un approfondimento e studio accurato sull’argomento.

Il metodo Italiano presso l’Italian Center

Prima di cominciare vorrei fare una premessa: posto che la mia porta rimane sempre aperta per tutti, ci sono alcune persone che già dopo una seduta sentono di aver trovato quello di cui avevano bisogno, e vogliono provare a continuare da sole. Altre, invece, ritengono di avere bisogno di altri incontri e insieme decidiamo di prendere un altro appuntamento. Vanno bene entrambe le situazioni, perché ogni persona – e ogni difficoltà – è diversa dall’altra. Glielo dico perché così, alla fine di questa seduta, mi dirà se pensa di aver bisogno di un altro incontro o se per questo di oggi è stato sufficiente – posto che, naturalmente, la mia porta rimarrà sempre aperta per lei.

Questo è un esempio di apertura di una seduta che gli autori riportano nel quinto capitolo, che a mio avviso rende l’idea e contiene in sé i punti salienti della Terapia a Seduta Singola e che comunque contribuisce a creare un setting ed un mindset sia nel terapeuta che nel paziente, adatto ad una TSS.

Sempre all’interno dello stesso capitolo ne vengono descritte le varie fasi del metodo italiano. Fase iniziale, fase mediana, fase finale e follow-up, queste le tappe principali di una TSS secondo il modello italiano, arricchite da casi clinici dove si possono rintracciare molte tecniche ispirate al modello della Terapia Breve Strategia e del Problem Solving Strategico di Giorgio Nardone.

Il settimo capitolo contiene un approfondimento di Jeff Young, direttore del Bouverie Centre, per concludersi poi con l’ottavo capitolo contenente riflessioni circa le prospettive attuali e future nell’ambito dei sistemi socio-sanitari.

Un manuale ricco e completo direi, rivolto al professionista e dunque gli addetti ai lavori che vogliono approfondire e capire di cosa parliamo quando ci riferiamo alla TSS, cercando, da professionisti, di abbandonare preconcetti e resistenze ma arricchendo la nostra conoscenza, il nostro modo di lavorare, con rigore, serietà e formazione e di operare, come ci suggerisce la TSS, al fine di massimizzare gli effetti di ciò che facciamo con chi ci muove una richiesta di aiuto.

Prendere fischi per fiaschi?

Gli individui hanno la tendenza a credere che la loro percezione del mondo esterno sia assolutamente veritiera e rappresentante la realtà e si stupiscono nello scoprire che non tutti percepiscono le situazioni nel loro stesso modo.

 

Un nuovo studio dell’università di Princeton e della Northeastern di Boston, recentemente pubblicato su Nature Human Behaviour, evidenzia come le persone sono solite riportare di aver visto ciò che desiderano si avveri ma che con molta probabilità sono anche più propensi a vederlo.

Gli individui hanno la tendenza a credere che la loro percezione del mondo esterno sia assolutamente veritiera e rappresentante il mondo esterno e si stupiscono nello scoprire che non tutti lo percepiscono allo stesso modo in quanto noi tutti generalmente vediamo ciò che vogliamo vedere e sentiamo quello che vogliamo sentire.

Molteplici sono gli esempi di dispercezioni e fenomeni illusori che sfidano il nostro sistema percettivo e visivo e ne evidenziano i limiti come nell’esempio del vestito (#TheDress) il cui colore ad alcuni appare essere blu o nero mentre per altri è bianco o oro.
Questa illusione si genera in larga parte a seconda della riflettenza e di come il nostro sistema visivo inferisce la provenienza della sorgente di luce che lo illumina, per cui sotto luce diretta la parte destra del vestito appare di colore bianco e oro mentre l’altra parte appare nera e blu (Lafer-Sousa, Hermann & Conway, 2015).

In un classico esempio relativo all’ambito della percezione visiva, condotto dall’università di Princeton e Darthmouth, è stato mostrato come due tifoserie calcistiche avversarie, a fronte di uno stesso accadimento sportivo, riportassero delle percezioni diverse riferendo una percentuale di falli calcistici maggiori effettuati dalla squadra avversaria (Hastorf & Cantril, 1954); allo stesso modo, soggetti a cui venivano presentati disegni lineari ambigui erano più propensi a riferire di aver visto l’interpretazione degli stessi più in linea con i risultati per loro più desiderabili, evidenziando una forte tendenza alla cosiddetta “percezione motivata” (Balcetis & Dunning, 2006).

Da queste evidenze appare evidente come gli stati motivazionali di una persona, costituiti dalle sue preferenze, i suoi scopi e i suoi desideri, abbiano un forte impatto sul processamento visivo degli stimoli esercitando un controllo attentivo top-down, aumentando cioè la risposta neurale allo stimolo atteso, tale per cui, a fronte di una stessa immagine, due individui potrebbero riportare di aver visto ciò che in realtà si aspettano e non ciò che è oggettivamente presente.

Tuttavia è ancora poco chiaro se questa propensione sia frutto di una “reale” distorsione percettiva o rappresenti banalmente un bias nelle risposte che i soggetti danno circa gli stimoli (Sharot, 2019).

Nonostante queste due interpretazioni non si escludano a vicenda in quanto la motivazione può avere un impatto di distorsione simultaneamente sia sulla percezione che sulla risposta finale dei soggetti, vi sono delle precisazioni da fare: se infatti la motivazione è in grado di alterare il processamento visivo allora a ciò dovrebbe corrispondere un’alterazione specifica nell’attività di pattern neurali presenti nelle aree visive.

Se al contrario corrisponde ad un bias nei report soggettivi, si dovrebbe osservare un segno di questa modulazione nelle regioni cerebrali chiave per gli aspetti motivazionali associati ad un alta ricompensa – in particolare il nucleo accumbens (NAcc) – prima ancora che il soggetto possa porre attenzione allo stimolo.

Percezione: l’influenza dei bias motivazionali

Con il fine di dissociare il più possibile questi due aspetti legati ai bias motivazionali, identificando così separatamente i loro contributi sui giudizi percettivi, Leong e colleghi del dipartimento di Psicologia di Stanford e della Northeastern University di Boston, hanno chiesto a 30 soggetti sperimentali di riportare giudizi percettivi per diverse immagini ambigue create in modo composito sovrapponendo un volto umano ad una casa (Leong, Hughes, Wang & Zaki, 2019).

Il compito sperimentale, composto da 40 trial e svolto all’interno dello scanner della risonanza magnetica funzionale, era composto da due condizioni: una di cooperazione nella quale i soggetti avrebbero dovuto svolgere tale compito percettivo insieme ad altri all’interno di un gruppo scommettendo su ciò che avrebbero poi visto e una di competizione con un altro gruppo.

Il compito percettivo consisteva nel giudicare per ogni immagine presentata la percentuale maggiore di presenza di una scena, cioè una casa, o di un volto umano. Se il gruppo avesse vinto la scommessa, categorizzando e giudicando correttamente e in modo oggettivo il contenuto dello stimolo ambiguo, avrebbe guadagnato una somma di denaro, in caso contrario la ricompensa sarebbe stata assegnata all’altro gruppo.

Per ogni trial, gli autori dello studio hanno valutato le risposte dei soggetti descrivendo una specifica funzione psicometrica sviluppata dalla relazione tra le categorizzazioni fatte dai soggetti che avevano riportato una proporzione maggiore di case nelle immagini e le relative proporzioni oggettive, manipolate dagli sperimentatori, tra volto umano e casa per ogni immagine per la condizione di cooperazione.

Per quanto riguarda la condizione di competizione la stima è stata effettuata sulle scommesse compiute dai gruppi sperimentali: i soggetti sono stati più propensi a riportare la categoria più inconsistente con la scommessa fatta dall’altro gruppo. Se infatti la scommessa dell’altro gruppo riportava la presenza di una proporzione maggiore di case nelle immagini che sarebbero apparse nei successivi trial, i partecipanti riportavano di aver visto più volti umani anziché case.

Tali evidenze hanno sottolineato come la motivazione a vedere un particolare stimolo, la casa o il volto umano, fosse in grado di distorcere le risposte dei partecipanti verso la categoria desiderata e attesa, corroborando i risultati dei precedenti studi sulla percezione e sui giudizi.

In secondo luogo, gli autori (Leong, Hughes, Wang & Zaki, 2019) hanno voluto altresì esaminare i meccanismi neurocomputazionali sottostanti i bias motivazionali nell’ambito dei giudizi percettivi, trovando che pochi secondi prima dell’osservazione dello stimolo ambiguo, ma poco dopo che ai soggetti venissero date istruzioni su quale stimolo avrebbe conferito una maggiore ricompensa, il segnale BOLD nel nucleo accumbens aumentava in modo proporzionale soprattutto in quei trial in cui i soggetti hanno successivamente valutato lo stimolo come appartenente alla categoria desiderata.

Conclusioni

In linea con i dati ottenuti, si deduce che l’attività del nucleo accumbens potrebbe aver predisposto le persone a categorizzare lo stimolo come desiderato, in quanto l’anticipazione di una ricompensa ha innescato l’attivazione del sistema dopaminergico e del nucleo accumbens, rinforzando comportamenti e stati interni motivati dalla ricompensa. Pertanto, il sistema assegna massima priorità e importanza a tutto ciò che risulta conforme all’ottenimento della ricompensa “distorcendo” così il processamento.

In aggiunta, Leong e colleghi (2019) hanno trovato un incremento dell’attività neurale nelle aree associate ai volti umani quando questi rappresentavano la categoria desiderata e attesa nelle immagini e viceversa, suggerendo che la motivazione a osservare e ad attendere una certa categoria di stimoli, di fatto ne aumentava la rappresentazione neurale, andando quindi presumibilmente ad alterare l’esperienza percettiva della persona.

Le persone infatti tendono ad avere più frequentemente giudizi percettivi distorti etichettando stimoli ambigui come corrispondenti alla categoria associata ad una loro ricompensa, anche quando essi vengono incentivati a riportare con accuratezza la loro esperienza percettiva e ad essere “puniti” con un guadagno minore di denaro quando ciò non accade (Leong, Hughes, Wang & Zaki, 2019).

Nelle loro discussioni, gli autori sottolineano l’influenza costante della motivazione e degli scopi e stati interni nella modulazione dell’attenzione selettiva contribuendo all’accrescimento di quella specifica letteratura che evidenzia come certe credenze, aspettative, desideri possano impattare fortemente il modo in cui processiamo le informazioni tramite l’attenzione, l’apprendimento e la memoria (Ferrari, Codispoti et al., 2008).

Lo studio americano preso in considerazione ha il pregio di aver facilitato, anche se con risultati ancora preliminari, la comprensione anche del processamento percettivo all’interno di gruppi che differiscono marcatamente nei loro giudizi circa un evento nonostante la rappresentazione di quest’ultimo sia unica e inequivocabile.

Text Anxiety: quali conseguenze e come intervenire

L’ ansia da valutazione ha importanti conseguenze sul livello di performance. In particolare sembrerebbe che a determinare il nostro risultato nello svolgimento di un compito sia soprattutto una limitazione delle risorse cognitive, quasi interamente coinvolte nel fenomeno del rimuginio (o worry).

Marta Chemello – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Mestre

 

Negli ultimi anni all’interno dei differenti contesti scolastici il momento della valutazione ha assunto un’importanza sempre più cruciale nel determinare il futuro accademico dei giovani, basti pensare ai famigerati “test d’ingresso” che, a partire da una valutazione, definiscono chi potrà o meno intraprendere uno specifico percorso universitario.

In un momento storico in cui molto spesso un test determina il futuro della persona, diventa dunque necessario considerare quali vissuti emotivi possano caratterizzare questo momento e come questi possano influenzare l’andamento della valutazione.

In questo articolo verrà pertanto introdotto il tema dell’ansia legata alle situazioni valutative, indagando come sia possibile valutarla, quali fattori ne medino l’insorgenza e come sia possibile intervenirvi.

Text anxiety o ansia da valutazione

Il temine “text anxiety” oppure “ansia da valutazione” fa riferimento al vissuto d’ ansia che precede, accompagna e segue le diverse situazioni valutative a cui si è sottoposti, specialmente durante il proprio percorso accademico, che comporta, nella maggioranza dei casi, un significativo decremento della prestazione scolastica. Moltissimi studi infatti, a partire dagli anni ’70, hanno evidenziato una stretta correlazione tra ansia da test e una prestazione negativa nei compiti accademici: Hancock (2001) ha riportato come studenti che manifestano elevati livelli di ansia scolastica non solo dimostrino delle performance accademiche inferiori, ma siano anche meno motivati all’apprendimento rispetto ai compagni. Ad essere problematici sono livelli d’ ansia eccessivamente elevati; come infatti è noto un’adeguata attivazione cognitiva, emotiva e fisiologica si rivela necessaria per affrontare adeguatamente un compito (Yerkes & Dodson, 1908).

Per comprendere quale sia il livello di ansia sperimentato dagli alunni nel momento della valutazione, è possibile utilizzare uno strumento appositamente realizzato da parte di Spielberg (Spielberg et al., 1980), il Text Anxiety Inventory. Si tratta di un questionario self-report composto da 20 item, a cui si risponde tramite una scala likert a 4 punti (da “quasi mai” a “quasi sempre”), che consente di ottenere punteggi su tre differenti scale: Worry, Emotività e Totale. All’interno della prima scala confluiscono le preoccupazioni cognitive relative alla situazione valutativa o alle aspettative negative sul risultato; la seconda scala comprende invece item inerenti le reazioni comportamentali e fisiche che precedono o accompagnano le situazione valutative quali paura, nervosismo e malessere fisico; infine l’ultima scala consente di ottenere il punteggio globale.

Tale suddivisione appare centrale nel comprendere il fenomeno della text anxiety, molti studi hanno infatti evidenziato come, ad essere saliente nel limitare la performance, sia soprattutto l’elemento cognitivo a limitare le risorse cognitive a disposizione per lo svolgimento del compito poiché quasi interamente coinvolte nel fenomeno del worry.

Un interessante studio condotto da Rana e Mahmood (2012) ha avuto come obiettivo quello di verificare questi due elementi, ossia l’influenza dell’ ansia da valutazione nella prestazione accademica e la preponderanza dell’elemento cognitivo nel determinare l’ ansia e la successiva prestazione negativa, all’interno di un campione di studenti universitari. Ad un cospicuo campione di soggetti è stato somministrato il TAI al fine di indagare i livelli d’ ansia esperiti nei momenti valutativi e, parallelamente, si sono raccolti i profitti riportati dagli studenti. Dall’analisi dei dati rilevati emerge una forte e negativa correlazione tra la performance accademica e il livello d’ ansia esperito; inoltre la riuscita scolastica appare inversamente correlata alle componenti emotiva e cognitiva considerate; tuttavia la relazione è maggiormente elevata per la scala comprendente il worry. Inoltre, tramite l’analisi di regressione, appare come le preoccupazioni esperite dagli studenti contribuiscano in misura maggiore a spiegare la differenza tra gli studenti nei livelli di prestazione accademica.

Questo studio ha pertanto evidenziato come l’ ansia nelle situazioni valutative diventi un ostacolo, specialmente nel momento in cui gli studenti sperimentano un’eccessiva ruminazione sulla valutazione stessa relativa alle possibili conseguenze del fallimento. Gli autori propongono pertanto di supportare gli alunni fornendo loro strumenti e strategie per gestire al meglio le emozioni e i pensieri che sperimentano prima e durante questi momenti della loro vita accademica; nello specifico vengono suggerite attività di pensiero positivo, supporto sociale, rilassamento, immaginazione guidata, auto-istruzioni, simulazioni o promemoria.

Relativamente alla metodologia d’intervento maggiormente idonea per gestire questo vissuto nelle situazioni valutative, può essere interessante analizzare uno studio condotto da Cunha e Paiva (2012) che ha avuto come finalità l’analizzare alcuni fattori che sembrano correlati alla text anxiety in adolescenza. Un primo elemento valutato è l’autocritica, intesa come un insieme di “attacchi” rivolti contro se stessi che si verificano quando si ha la percezione di non aver svolto correttamente qualcosa oppure di non possedere adeguate capacità per farlo. Sono state inoltre considerate l’accettazione, ossia la capacità di accettare gli eventi che si verificano nella quotidianità senza evitarli o manifestando il desiderio di modificarne il corso, e la minduflness, ovvero la capacità di rimanere centrati sul momento presente in maniera non giudicante. Ai partecipanti al suddetto studio sono stati somministrati alcuni questionari self-report volti ad indagare tali dimensioni oltre al Text Anxiety Inventory.

In seguito all’analisi dei dati ottenuti emerge come le ragazze presentino un generale maggior livello d’ ansia nelle situazioni di valutazione, maggiore ansia sociale associata a sentimenti di inadeguatezza nel momento del fallimento e a minori abilità di accettazione e mindfulness se comparate con i coetanei di sesso maschile. Analizzando i punteggi ottenuti alle due sottoscale del TAI emerge come tale pattern sia evidente soprattutto nella dimensione emotiva piuttosto che cognitiva. In generale negli adolescenti sembra che un maggior livello di ansia durante la valutazione comporti un sentimento di inadeguatezza, disgusto verso se stessi, risposte distruttive quando si richiede di affrontare il fallimento ed elevata ansia sociale. Al contrario, accettazione e abilità di mindfulness diminuiscono i vissuti ansiosi quanto la capacità di rassicurarsi e provare compassione verso se stessi.

In tale studio è stato inoltre valutato il valore predittivo di queste variabili relativamente alla text anxiety: emerge come il sesso femminile, la bassa accettazione e l’autocriticismo siano variabili predittive di tale fenomeno.

In conclusione

E’ possibile affermare come il fenomeno della text anxiety sia rilevante soprattutto a causa delle conseguenze che esso comporta nella prestazione scolastica. Molto spesso si ricercano le cause dell’insuccesso accademico nella scarsa motivazione o in qualche difficoltà di apprendimento senza considerare la variabile emotiva qui presentata.

Conoscerne quindi l’influenza può aiutare il clinico a considerarla nella sua valutazione. Una volta riconosciuta, diventa pertanto saliente sapere come intervenirvi e vengono suggerite dalla ricerca citata in precedenza valide indicazioni: la diminuzione del worry tramite metodologie cognitivo-comportamentali, associate all’Acceptance and Commitment Therapy e alla Mindfulness, potrebbero portare a risultati incoraggianti. Sarebbe pertanto interessante valutare i risultati successivi all’applicazione di tali tecniche.

Psicologia degli stati discontinui di passaggio

Nel corso dei suoi studi, Andrea pensò che tale attenzione iperprudenziale adattiva alla sopravvivenza, facesse riflettere sul destino dell’uomo: se un organo sta bene e funziona normalmente non lo sentiamo e ne dimentichiamo l’esistenza. Il benessere è silente e solo il malessere è avvertito.

 

Il padre era certo che sarebbe diventato uno scienziato per la curiosità che mostrava, per ora a tutto danno dei giocattoli, di capire esattamente come funzionassero le cose svelandone gli ingranaggi e i meccanismi più intimi, nascosti, interni. Per la madre il suo piccolo Andrea era destinato a essere uno scrittore o uno psicologo per l’interesse che nutriva per le sfumature più sottili dei vissuti interiori e le passioni contraddittorie dell’animo umano. Né lui né nessun altro pensò mai che sarebbe potuto diventare un calciatore, un atleta famoso o qualcosa che avesse a che fare con l’utilizzo del corpo che da subito si era dimostrato nettamente inferiore alle aspettative, spingendolo al compenso intellettuale e sociale. Sarebbe semmai potuto essere il testimonial di una campagna pubblicitaria per gli antichi ricostituenti che le madri postbelliche reclamavano per i loro figli gracilini in primavera, tanto il suo aspetto fisico rimandava l’idea della mancanza, della debolezza, con quella testa così sproporzionatamente grande su un corpo mingherlino, fragile e perennemente emaciato.

Andrea sperimentava il contatto con la realtà, che fosse il sole marino, il bianco della neve, il fresco dell’acqua in cui gli altri si immergevano gioiosi, come una minaccia e un insulto da cui proteggersi. La realtà era ruvida, urticante, fastidiosa, ne faceva volentieri a meno, doveva ripararsene. Consapevole della sua incompatibilità con la concretezza, si era ritirato nel labirinto etereo delle idee, soprattutto da quando l’adolescenza, con tutte le sue conseguenze, aveva provato a strapparlo alla modesta famiglia dove l’accettazione inesigente era scontata per precipitarlo in un mondo che chiedeva di essere all’altezza, mostrarsi, valere, addirittura competere. Non era cosa per lui.

Seguì la previsione della madre iscrivendosi a Psicologia perché voleva capire come funzionassero gli esseri umani, cosa che gli appariva assolutamente astrusa e bizzarra. Neppure il padre sarebbe stato deluso perché in fondo anche gli psicologi sono un po’ scienziati seppure il loro oggetto di studio sia autoreferenziale con tutti i problemi di confusione tra osservatore e osservato che ciò comporta. Consapevole di ciò Andrea fece dell’autoreferenzialità non un vincolo da superare ma la strada privilegiata per arrivare a cogliere proprio l’interfaccia tra mente e corpo ed in particolare il punto esatto in cui il corpo si fa mente che si osserva.

Lo studio degli “stati discontinui di passaggio” (SDP) e la storia di Andrea

Questa degli “stati discontinui di passaggio” (SDP li aveva chiamati nella speranza che diventassero un tema di interesse generale) divenne una vera e propria fissazione che lo portò ad essere lo zimbello dell’ambiente accademico più tradizionale. Era convinto che se si fosse penetrati in quei fuggevoli e sottili spiragli si sarebbe potuto comprendere il mistero della materia che si fa psiche. Le prime ricerche le condusse con il più economico e primitivo degli strumenti, ovvero l’autosservazione, focalizzandosi sul passaggio veglia/sonno e il suo opposto, insomma sull’addormentamento e il risveglio. Chiamava questa procedura la moviola o scansione psichica. La moviola del risveglio diede rapidi risultati dopo osservazioni ripetute per poco più di un mese annotando ogni mattina il recupero della coscienza sul taccuino che gli aveva fornito il suo psicoanalista per registrare l’attività onirica e che era rimasto intonso grazie al catenaccio degno dell’Inter di Herrera che le sue difese dell’Io esercitavano sul confine dell’inconscio, vissuto come la linea del Piave.

Le sue autosservazioni invece procedevano rapide e interessanti. Il primo bagliore di esistenza di un “Io” era avvertito con un senso di pesantezza a livello della zona zigomatica (sulla faccia dietro il naso) e retrosternale più o meno all’altezza del cardias dove lo stomaco si fa esofago. Da questi due punti dilagava la sensazione di avere un corpo raggiungendo il livello di consapevolezza nelle zone doloranti, intorpidite. Insomma la prima segnalazione registrava soprattutto ciò che non andava.

Pensò che tale attenzione iperprudenziale adattiva alla sopravvivenza, facesse riflettere sul destino dell’uomo: se un organo sta bene e funziona normalmente non lo sentiamo e ne dimentichiamo l’esistenza. Il benessere è silente e solo il malessere è avvertito.

Immediatamente dopo aver avvertito l’Io corporeo si istallava il programma di orientamento spazio-temporale per rispondere alle domande “dove?” e “quando?” le cui risposte raggiungevano la consapevolezza solo se diverse dalle attese, ovvero “nel tuo letto di mattina presto”, altrimenti non venivano registrate come significative. Il passaggio immediatamente successivo era la riattivazione delle preoccupazioni, degli impegni e dei compiti lasciati in sospeso che avrebbero costituito l’agenda della giornata che a sua volta si iscriveva negli obiettivi di medio periodo sintetizzabili nell’ “essere qualcosa per qualcuno”. Si accorse ben presto che il meccanismo restava identico pur al mutare del qualcuno in questione e allora ne dedusse che la parte interessante era che per “essere” doveva “essere per qualcuno” o, detto diversamente, la sua identità era certificabile solo da ispettori esterni. Questo ovviamente era un modo di funzionare esclusivamente suo che esulava dagli studi sul passaggio rispetto ai quali ci si poteva limitare a affermare che “prima si istalla il sé corporeo, poi si attiva l’orientamento spazio-temporale, successivamente il sistema motivazionale e infine si passa all’azione”.

Fornì alcuni amici e colleghi di schede per l’autosservazione che confermarono un processo analogo in tutti ma non spiegò perché in alcuni tale percorso fosse associato a sensazioni di benessere e vitalità e in altri accompagnato da pesantezza e voglia di ritiro. Nelle sue pubblicazioni questa diversa disposizione veniva sempre indicata come il punto di arresto delle sue ricerche e la sfida per i futuri ricercatori. Si era inventato l’ipotesi ad hoc di un tono serotoninergico innato ma sapeva essere una scorciatoia per cavarsi d’impaccio.

Molti più problemi metodologici emersero durante gli studi sull’addormentamento perché il resoconto su quanto fosse avvenuto non poteva essere compilato immediatamente dopo l’evento ma solo attraverso il ricordo la mattina successiva che riportava il progressivo confondersi dei pensieri in una immaginazione caotica a carattere onirico, come se si perdesse progressivamente il filo del discorso interno, ma il momento effettivo dello spegnersi del mentale era descrivibile come una funzione tendente ad un limite che era però sempre sfuggente e inafferrabile. Andrea, testardo, non mollava e spostava sempre più in avanti l’ora dell’addormentamento. Insomma per coglierne il momento esatto non riusciva più ad addormentarsi perché la vigilanza che richiedeva l’osservazione del processo era appunto opposta allo spegnimento funzionale necessario per l’addormentamento stesso.

Dopo un periodo di frequenti notti bianche alternate ad altre in cui l’esperimento falliva e si addormentava senza accorgersene iniziò a manifestare prima comportamenti di eccitazione maniacale e irritabilità, poi vissuti persecutori e allucinazioni, quasi sogni ad occhi aperti, che spinsero amici e colleghi a convincerlo a sospendere gli esperimenti e recuperare il ritmo sonno veglia con possenti dosi di benzodiazepine.

Non si creda però che tutto ciò gli impedisse un serrato impegno nella costruzione del suo futuro. Nel frattempo la carriera accademica del Professor Andrea Livenza avanzava rapida e, a soli 35 anni, lo vedeva approdare all’associatura alla cattedra di “Neuroscienze intimistiche” della facoltà di Psicologia statica e osservazionale della Sapienza di Roma. Nel frattempo aveva visto naufragare due matrimoni. Per la verità erano gli altri ad averlo visto in quanto lui non se ne era reso proprio conto non essendo mai stati l’amore e l’innamoramento suoi oggetti di studio nonostante il collega di “Emozioni comparate” avesse provato a coinvolgerlo, conoscendo il suo debole, proponendogli di stabilire i confini esatti tra infatuazione, passione, innamoramento e amore. Gli sembrava un terreno troppo scivoloso in cui avventurarsi e la collaborazione non decollò mai.

La prima sposa Luisa De Logu era una piccola fortissima donna sarda, figlia del preside di facoltà, iscritta al suo stesso anno di corso. Se il matrimonio gli aveva portato qualche beneficio in termini di carriera (del resto era per questo che l’aveva corteggiata essendo brutta, stupida, sferica e presuntuosa), la separazione era stata cruenta con attribuzione di colpa e dunque onerosi alimenti a carico di Andrea condannato per crudeltà mentale. Il dottor Livenza, così sentenziò il tribunale, si era dedicato allo studio con la moviola del riflesso orgasmico per cui si immobilizzava quando sentiva che stava per approssimarsi per annotare su un apposito taccuino pensieri ed emozioni e altrettanto pretendeva che facesse Luisa che schiaffeggiava quando la sentiva in bilico sul limite del piacere perché gli riferisse immediatamente tutto. Inoltre non aveva mai preso in considerazione l’ipotesi di avere figli quantunque l’idea di cogliere il primo costituirsi del sé e i primi pensieri del neonato nel suo affacciarsi dalla vagina sul mondo esterno avrebbe potuto inaugurare una proficua joint-venture con il dipartimento di ostetricia e ginecologia.

La seconda moglie Maria era donna di prorompente bellezza mediterranea, centro costante di attrazione per tutti i maschi. Alta, atletica e dalle movenze feline, emanava una naturale seduttività cui pochi resistevano. Questa fu la caratteristica per cui Andrea la scelse tra le allieve che frequentavano il suo reparto, ma non si creda che lo fece per interesse erotico personale essendo in lui sempre prevalente la motivazione scientifica. Avendo capito che l’orgasmo era malamente osservabile se direttamente coinvolti (infatti come dagli esperimenti sul sonno si era portato dietro un’insonnia resistente, dagli esperimenti con Luisa aveva ereditato un’anorgasmia rapidamente evoluta in impotenza per concludersi con una totale assenza di desiderio) riservò a sé il solo ruolo di sperimentatore. La voce si sparse presto in tutta la Sapienza: il professor Livenza organizzava cene con colleghi e studenti indicatigli da Maria che si concludevano con rapporti sessuali come dessert in cui Livenza si riservava il ruolo di attento osservatore esterno, intervistatore e, in sostanza asettico ricercatore.

Alla fama di violento e maltrattante che si era guadagnata con il divorzio per colpa da Luisa, si aggiunse quella di pervertito per i festini che organizzava con Maria, la quale però, dicevano le male lingue, non doveva essere troppo dispiaciuta di prestarsi agli esperimenti del marito e di aver senza indugio donato il corpo alla scienza. Forse a motivo della cattiva fama o della scarsa produttività scientifica oppure ancora della assenza di motivazione per la didattica, sta di fatto che quello che sembrava essere l’astro nascente della psicologia italiana tramontò rapidamente e di lui si persero le tracce. Il mondo accademico italiano lo aveva dimenticato dopo che si era perduto in quella terra di mezzo dove era stato preceduto dai ben più noti Ettore Maiorana e Federico Caffè. La sua ultima lezione dal tema “Discontinuità e stati di passaggio” era stata tenuta in una piccola aula periferica della facoltà il 5 dicembre del 2006 e i volti dei pochissimi presenti, quasi tutti amici o ex collaboratori, esprimevano imbarazzo misto a pena. Poi solo alcuni cenni a “Chi lo ha visto?” nelle settimane seguenti che avvalorano l’ipotesi della scomparsa volontaria e del suicidio.

Durante il lungo periodo della sua assenza si alimentarono le leggende più bizzarre senza mai né conferme né smentite. C’era chi sosteneva fosse emigrato alla corte di un emiro arabo dedicandosi al marketing petrolifero. Secondo altri aveva cambiato sesso per capire i vissuti femminili diventando la preferita di un magnate russo per il quale si esibiva in tutu tutte le sere. Alcuni erano certi di averlo visto per le strade di Parigi tra gli homeless. Altri ancora dicevano gestisse sotto falso nome un enorme laboratorio a Rio de Janeiro per evidenziare i danni a lungo termine della samba e preparare una svolta epocale di tutto il continente verso il ballo liscio. Voci mai confermate lo davano priore in un monastero buddista tibetano a studiare gli stati di trance meditativa. Le ricerche del corpo nei boschi del viterbese dove abitava da solo erano cessate dopo tre anni ed essendone stata dichiarata ufficialmente la morte presunta dal tribunale di Roma, Luisa aveva potuto convolare a nuove nozze anche con il conforto sacramentale nella cattedrale di Cagliari con il Prof Puddu di Endocrinologia dei primati non umani della facoltà di Veterinaria.

Nonostante avesse voluto dimenticare quella brutta pagina della sua vita fu proprio Luisa, che evidentemente conosceva bene il suo ex marito, a lanciare il sospetto che Livenza potesse essere coinvolto nel caso straordinario che attirava in quel periodo gli scienziati e non solo di tutto il mondo al MIT di Boston, dove da oltre due anni un certo mister Brondel proveniente dalla Virginia ma di origini non chiare sopravviveva nonostante tutti i parametri vitali fossero alterati così tanto da essere assolutamente incompatibili con la vita per il sommarsi di numerose gravissime malattie neoplastiche e degenerative che avevano causato un assoluto sconquasso metabolico. Squadre di superspecialisti delle varie discipline mediche studiavano mister Brondel per capire come fosse possibile che i singoli apparati e organi di cui si interessavano potessero continuare a funzionare nonostante il sovvertimento di tutti i parametri considerati essenziali per la sopravvivenza. Boston era stata presa d’assalto non solo da équipe di scienziati dei cinque continenti che vi avevano affittato interi edifici prospettandosi la permanenza piuttosto lunga, ma anche dai mass media di tutto il mondo. Si viveva un clima di attesa messianica come se da un momento all’altro si stesse per scoprire il segreto dell’immortalità e l’antica nemica potesse essere liquidata una volta per tutte.

Ben presto giunserò a Boston anche delegazioni qualificate delle più importanti religioni, ciascuna con l’intenzione di appropriarsi per prima del segreto dell’immortalità che tutte avevano in qualche modo promesso. Mentre Brondel combatteva la sua quotidiana battaglia “contro” o “per” la morte circondato da sofisticatissimi macchinari che non avevano finalità terapeutiche ma esclusivamente di registrazione dello straordinario fenomeno di un uomo che non riusciva a morire, tutto intorno a Boston e nel suo interland ferveva convulsa la vita. Religiosi di diverse fedi e scienziati di tutte le discipline si confrontavano, si scambiavano idee, litigavano e facevano all’amore come è costume degli umani in un clima carico di speranza e novità che ricordava l’estate di Woodstock. A questa ristretta cerchia elitaria si aggiunsero, con il passare dei mesi prima e degli anni poi, masse di pellegrini che professavano una nuova fede definita brondelaresimo, il cui credo essenziale affermava la supremazia della consapevolezza umana sulla morte che, come già aveva evidenziato Lucrezio nel “De rerum naturae” non possono essere contemporaneamente presenti, per cui ne deriva l’ovvia conseguenza che se la consapevolezza non molla la presa, la morte non ha spazi in cui insinuarsi.

I macchinari che controllavano i parametri vitali di Brondel erano continuamenti ritarati perché registravano valori assolutamente non previsti commentati quotidianamente sulla stampa specializzata di tutto il mondo dove venivano proposti congressi per approfondire le rivoluzioni concettuali che quanto stava accadendo rendeva indispensabili.

Accanto all’aspetto scientifico proliferava quello spettacolare. Il grande gruppo televisivo italiano Mediaset, sponsor del progetto “Eternity” voluto tanti anni prima da Berlusconi, mandava in diretta planetaria la battaglia prometeica di Brodel. Le masse si erano come sempre divise e schierate. Da un lato gli innovatori che tifavano per Brodel e lo vedevano come il novello Adamo di una nuova umanità, dall’altra i conservatori che parteggiavano per la morte e il ristabilimento dell’antico ordine costituito, temendo cosa sarebbe potuto diventare l’uomo senza più neppure il limite della morte. I più importanti laboratori del mondo avevano sborsato cifre enormi per accaparrarsi pezzetti del corpo di Brondel al fine di estrarne e studiarne il DNA (fu grazie ad essi e a dei capelli ritrovati nella spazzola nella casa romana di Andrea che si potè poi stabilire con certezza la sua vera indentità).

Il 23 novembre era un giorno freddo e piovigginoso su una Boston che ormai da qualche anno proliferava sul fenomeno. Erano ormai settimane che Brondel non pronunciava alcun suono intellegibile nelle lingue conosciute e nulla captavano i microfoni ad altissima sensibilità che lo circondavano. La faccia sofferente come sempre trasmetteva il senso di una profonda concentrazione, si avvertiva lo sforzo enorme per non distrarsi ed essere presente a se stesso.

Poi d’improvviso, inaspettata quella sequenza di sillabe che sarebbe stata per decenni oggetto delle più contrastanti esegesi degli studiosi che la riascoltavano con le cuffie dopo che i tecnici audio ne avevano eliminato le impurità e che non si capiva bene se fosse:

“AH, SI, SI, HO CAPITO OK”

oppure “AHIAHIAI ECCHECAZZO, NO”

Seduzione e tradimento (2018) di Mirella Baldassarre: i legami sentimentali dall’amore al dolore – Recensione del libro

Seduzione e tradimento è il titolo del libro scritto da Mirella Baldassare ed edito da Alpes. In questo libro si passa molto dettagliatamente in rassegna il processo che dall’amore, emozione che lega profondamente due persone, porta allo sviluppo di legami diversi.

 

Ogni legame, a sua volta è preceduto da un processo seduttivo, che consiste nella volontà di muovere interesse nell’altro, fino alla nascita di una vera e propria relazione affettiva. Succede, in alcuni casi, che si possa assistere alla rottura del legame affettivo attraverso la messa in atto di un tradimento, che potrebbe concludersi nella creazione di un nuovo legame o con la rinascita di un nuovo sé.

Seduzione e tradimento: cos’è l’amore

La seduzione e il tradimento sono comportamenti comuni che spesso si manifestano nelle relazioni affettive e molte volte sono accompagnati da emozioni contrastanti. La seduzione e il tradimento portano alla manifestazione di emozioni molto forti, sia positive sia negative, che sono direttamente collegate alle relazioni affettive, coinvolgendo l’interiorità di coloro che fanno parte della relazione stessa.

In alcuni casi nella relazione potrebbero manifestarsi dei comportamenti derivanti dal tipo di funzionamento personologico mostrato dalle parti coinvolte, che potrebbero culminare con la rottura della relazione stessa.

Tutto, però, è generato dall’amore, fonte inesauribile di piacere, ma anche di dolore.

Cos’è l’amore? L’amore è quell’emozione che muove verso l’altro e spinge a fare cose per l’altro. Erroneamente si pensa che l’amore possa manifestarsi solo in una relazione di coppia, al contrario esistono forme d’amore di diverso tipo, come fra un genitore e il proprio figlio, fra amici, etc. Dall’amore potrebbe nascere qualcosa di positivo e emotivamente bello, ma in alcuni casi si potrebbero verificare delle situazioni in cui l’amore diventa tossico: dipendenza, frustrazione o possesso. In questi casi, potrebbero manifestarsi una serie di situazioni dannose che il più delle volte hanno epiloghi disastrosi.

Seduzione: i primi passi dell’amore

L’amore si presenta sempre attraverso una danza iniziale, una sorta di gioco tra le parti: la seduzione. Inizia tutto con il sentirsi attratto dall’altro e voler attirare l’attenzione dell’altra persona, sia con comportamenti che con cognizioni, lo scopo è quello di coinvolgere l’altro in una relazione di coppia.

La prima fase di una relazione è caratterizzata dall’innamoramento che, con il tempo, diventa quotidianità, reciprocità, progettualità, ovvero amore. La seduzione stuzzica i desideri più intimi e porta a spingerci sempre di più verso l’altro ambito, bramato, desiderato, anche nei nostri sogni più reconditi e proibiti.

Il seduttore per far breccia nel cuore del sedotto esibisce tutte le armi in suo possesso: sguardi, gesti, parole, allusioni, messaggi, per stuzzicare una sorta di curiosità volta a muovere l’altro in direzione centripeta.

Seduzione, però, è anche manipolazione ovvero adescare l’altro per riuscire a soddisfare i propri scopi. In questi casi la seduzione è un arma usata per rendere l’altro vulnerabile, in cui si avvia un processo di indebolimento delle difese per riuscire a imporsi. Si tratta, dunque, di una vera manipolazione volta a ottenere il controllo sull’altro. Questo tipo di seduzione richiede l’utilizzo di una serie di abilità per riuscire a canalizzare i pensieri dell’altro, captandone le fragilità e i bisogni per ottenere uno stato di totale dipendenza da parte dell’altro.

Dalla seduzione al tradimento e alle sue conseguenze

Succede, spesso, in situazioni relazionali diverse che l’alchimia iniziale cominci a scemare. In questo caso, è possibile si possa provare attrazione per altre persone e si possono innescare dei comportamenti volti a concedersi agli altri: tradire. Si tratta di una sorta di boomerang che colpisce la vita psichica delle diverse parti in causa rompendone definitivamente gli equilibri.

Il tradimento consente di rendere attuali delle ferite rimaste sopite da diverso tempo che possono portare in alcuni casi a mettere in discussione se stessi e la propria quotidianità. Ci saranno persone in grado di affrontare il tradimento in maniera più leggera e altre meno. Questo è dovuto al tipo di assetto personologico che si possiede che consente di gestire diversamente il tradimento stesso. Il dolore del tradimento apre degli interrogativi interiori e porta alla rottura di diversi piani, tra cui il più importante è il progetto di vita.

Per superare il tradimento è necessario canalizzare le risorse personali elaborando la rottura, il cui scopo finale è raggiungere un nuovo equilibrio. Tale scopo è raggiunto il più delle volte se sono presenti delle buone capacità di integrazione, di differenziazione e di metacognizione.

Il peso dei fattori emotivi sul benessere dell’individuo. Qual è il rischio nello sviluppo della demenza?

L’accumulo di episodi affettivi nel corso della propria vita sembra avere un impatto significativo su diverse funzioni cognitive con l’avanzare dell’età: molti studiosi hanno posto l’accento sull’associazione fra deterioramento cognitivo e fattori di rischio, lungo tutto il corso della vita.

 

Lo sviluppo della demenza nell’anziano sembra essere preceduta da un lungo periodo preclinico prima che la sintomatologia diventi evidente. Questo è uno dei motivi per cui molti studiosi hanno posto l’accento sull’associazione fra deterioramento cognitivo e fattori di rischio, lungo tutto il corso della vita.

È stato da poco svolto dai ricercatori della University of Sussex un importante studio longitudinale, riguardante la correlazione tra sintomi affettivi e funzioni cognitive nella mezza età (John, et al., 2019).

Lo studio

La ricerca si è basata su un campione di 9.385 soggetti nati in Inghilterra, Scozia e Galles. Ogni soggetto ha compilato un questionario relativo al distress psicologico ed emotivo a 23, 33, 42 e 50 anni. Durante l’ultima fase sono state misurate anche memoria, fluenza verbale, accuratezza e velocità del processamento delle informazioni.

I risultati della ricerca mostrano come l’accumulo di episodi affettivi durante i tre decenni è statisticamente correlato a tutte le variabili in esame, meno la velocità di processamento.

Non è tanto il singolo disturbo dell’umore a conferire significatività al modello, quanto quei casi dove vi è stato un susseguirsi di due, tre o più episodi. Questo potrebbe essere spiegato dall’attività dell’asse ipotalamo ipofisi surrene, da fattori di rischio cardio-metabolici, dalla storia di infezioni croniche e dall’utilizzo pregresso di farmaci.

Gli esiti dello studio mostrano un’importante finestra di intervento precoce, dando rilievo alla gestione efficace dei disturbi dell’umore, in particolare se ricorrenti lungo il corso della vita. Inoltre, vengono poste le basi per l’individuazione preventiva di quei soggetti nei quali potrebbero sorgere disturbi mnestici e cognitivi futuri, confermando l’importanza di un’anamnesi accurata della storia clinica del paziente.

Riportando le parole del dr.ssa Darya Gaysina, membro dell’equipe di ricerca e professoressa di psicologia presso l’University of Sussex:

We would therefore like to see the government investing more in the mental health provision for young adults, not only for the immediate benefit of the patients, but also to help protect their future brain health.

Vorremmo vedere il governo investire di più nei servizi di sanità mentale per giovani adulti, non solo per un beneficio immediato, ma anche per aiutare a proteggere il loro futuro benessere cerebrale.

Rabbia da marciapiede e intolleranza alla lentezza: se solo fossimo più grati

La rabbia da marciapiede sembra essere il chiaro esempio di come molte persone oggi non riescono più ad accettare momenti di lentezza all’interno delle loro frenetiche giornate. Cosa ci ha portato a diventare così poco pazienti nei confronti della lentezza?

 

 “Chi si ferma è perduto” o, per lo meno, può diventare vittima di quello che, grazie alla lettura di un articolo di Chelsea Wald ho scoperto essere un disturbo alquanto diffuso e da alcuni studiosi anche riconosciuto: la Rabbia da marciapiede.

Prendendo atto della sua diffusione, mi sono resa conto di quante volte avessi già assistito al fenomeno: pedoni sull’orlo di una crisi di nervi quando dinnanzi a loro una persona cammina con lentezza, occupando tutto il percorso disponibile, non curante della fretta e del passo svelto di chi c’è dietro. Quella da marciapiede è la forma più diffusa, ma ciò accade anche tra gli automobilisti: i più frenetici e impazienti si trovano spesso a dover mal sopportare di essere in coda a veicoli che superano di pochissimo il limite minimo di velocità. Quel che sorprende di più è che ciò accade anche lontano dagli orari lavorativi o quando non si è in ritardo a un qualsivoglia appuntamento.

Cos è la rabbia da marciapiede

I ricercatori descrivono la rabbia da marciapiede come quell’esperienza di emozioni rabbiose contro altri pedoni e utenti della strada. Esistono due tipi di rabbia pedonale: passiva e attiva. La rabbia da marciapiede passiva è quella manifestata dai pedoni che si comportano come se fossero ignari o non curanti dei diritti e dei bisogni legittimi degli altri pedoni nelle vicinanze. Nel tipo attivo i pedoni aggrediscono verbalmente gli altri pedoni e si comportano in modo inappropriato nella folla, fino ad aggredire gli altri, come spesso documentato dai casi di cronaca (James, Nahl, 2000). E’ stata anche creata una scala di misurazione della Rabbia da marciapiede: la Pedestrian Aggressiveness Syndrome Scale, pensata da Leon James, ricercatore presso l’Università delle Hawaii. (James, L. 2010)

Perché siamo diventati così intolleranti alla lentezza?

Facciamo un piccolo passo indietro (non me ne voglia chi soffre di rabbia da marciapiede!): abbiamo detto che questo tipo di rabbia si attiva anche lontano dagli orari lavorativi o quando non si è in ritardo.

La rabbia da marciapiede diventa dunque il chiaro esempio di come molte persone oggi non riescono più ad accettare momenti di lentezza all’interno delle loro frenetiche giornate. Cosa ci ha portato a diventare così poco pazienti nei confronti della lentezza?

Pensiamoci un attimo: oggi pretendiamo che una pagina web si carichi in meno di un secondo o scorriamo velocemente tutti quei post che superano le 4 righe. Cosa è cambiato dai tempi in cui leggevamo con un certo interesse le opinioni degli altri (pensate alla fortuna della “Posta del Cuore” delle varie riviste settimanali) e cosa avevamo di diverso quando con una certa spensieratezza imitavamo il rumore del modem 56k mentre aspettavamo di connetterci?

Come si legge dall’articolo di Chelsea Wald, gli psicologi cognitivi ci suggeriscono che c’è uno scopo evolutivo nella pazienza e nell’impazienza: esse fungono da timer interno che ci permette di capire se abbiamo aspettato a sufficienza per ottenere qualcosa (siamo dinnanzi a una caccia fallita?) e se non sia il caso di andare avanti (dovremmo cercare il cibo da altre parti?). L’impazienza è un retaggio della nostra evoluzione: ci assicura che non passiamo troppo tempo in una singola attività non gratificante, ci dà l’impulso ad agire. Eppure ciò che inizialmente era funzionale adesso diventa disfunzionale. Il ritmo veloce della nostra società ha completamente alterato quel nostro timer interno: le aspettative non possono essere gratificate abbastanza velocemente e quando le cose si muovono più lentamente del previsto, l’attesa ci crea frustrazione e rabbia sproporzionata rispetto al ritardo.

Ciò crea un circolo vizioso: la società altera i nostri timer interni che si attivano sempre più immediatamente in risposta alle cose lente, provocando uno stato maggiore di rabbia e impulsività che vanno poi a sabotare ulteriormente il nostro timer interno. Non dimentichiamo che il senso del tempo è soggettivo ed è fortemente influenzato dalle emozioni. Il tempo si allunga quando siamo spaventati o ansiosi. Ogni momento in cui siamo minacciati sembra nuovo e vivido. Questo ci porta a immagazzinare, in un breve intervallo di tempo, più ricordi del solito e i nostri cervelli sono così indotti a pensare che è passato più tempo (Hammond 2012).

Ma allora come è possibile ripristinare i nostri timer interni e ritrovare la pazienza?

Gestire rabbia e impazienza: il dono della gratitudine

Un primo modo è quello di svincolarsi dall’attesa di gratificazioni esterne: quando ci aspettiamo qualcosa che non arriva, è più facile andare incontro a vissuti di rabbia, frustrazione o tristezza.

E la forza di volontà? In realtà puntare sulla volontà non è sempre positivo: quando posticipiamo consapevolmente le gratificazioni, possiamo andare incontro ad una ulteriore fronte di stress. Anche gli esperimenti sugli scimpanzé ce lo confermano: quando i primati attendono compense ritardate, anche per loro scelta, iniziano a manifestare vocalizzazioni inopportune, si grattano eccessivamente e sbattono contro i muri. E in più, ci ricorda Chelsea Wald, usare la forza di volontà per posticipare le gratificazioni, ci rende più sensibili alle altre tentazioni che arrivano durante l’attesa.

Un utile alleato nel ristabilire il nostro timer interno è la meditazione e il diventare consapevoli del momento presente. Come suggerisce Ethan Nichtern, le persone che meditano

fanno amicizia con lo spazio scomodo – la meditazione fornisce – una tecnica per affrontare semplicemente il momento presente così com’è, senza cercare di cambiare la situazione

Tuttavia, chi è impaziente cronico, troverà difficile imparare ad essere sin da subito un bravo meditatore e dunque, consiglia DeSteno, si può combattere l’emozione con l’emozione: la gratitudine ci aiuta a diventare più pazienti. In uno studio, DeSteno ha scoperto che le persone che facevano un breve esercizio di scrittura, descrivendo qualcosa di cui erano grate, si mostravano più disposte a rinunciare a ricompense piccole ora per ottenere ricompense più grandi in seguito.

E’ un esercizio che tutti possiamo fare: mentre siamo per strada, se la persona davanti a noi rallenta e la nostra rabbia da marciapiede inizia a far capolino, proviamo a cambiare la direzione dello sguardo. Concentriamoci su qualcosa di bello che ci circonda: un fiore? un palazzo? Magari un bambino che ci saluta da un passeggino… Oppure pensiamo a qualcosa di positivo che fa parte della nostra vita, dalla fragorosa risata di una persona speciale allo scodinzolio del cane che a fine giornata ci accoglierà in casa. Di punto in bianco ci sentiremo meno bisognosi di fretta e più grati, verso la vita e verso l’altra persona che, rallentando, ci ha regalato un momento di piacevole consapevolezza.

Pianificare il proprio invecchiamento

In tempi recenti si sta diffondendo sempre più il bisogno di fornire alla comunità gli strumenti e le risorse per un’attenta pianificazione del proprio futuro, del proprio invecchiamento.

 

Grazie ad una riflessione consapevole è possibile affinare la sensibilità della popolazione rispetto agli aspetti dell’ invecchiamento attivo, gli stili di vita sani, alle risorse essenziali per invecchiare e vivere bene con un’eventuale malattia cronica.

Tutto ciò per potenziare la capacità di prendere delle scelte consciamente in modo da massimizzare la propria qualità di vita.

Invecchiamento e consapevolezza dei cambiamenti

L’ invecchiamento come esperienza personale può essere considerato un fenomeno multidimensionale. In particolare, possono essere individuate tre dimensioni: due di queste fanno riferimento agli aspetti legati al declino psico-fisico e alle perdite sociali, la terza dimensione riguarda gli aspetti di crescita ed include la percezione che l’ invecchiamento sia legato a continui guadagni e sviluppi. Recentemente, alcuni studi hanno posto l’attenzione su un aspetto fin adesso poco approfondito: la consapevolezza dei cambiamenti legati all’età (awareness of age-related change – Steverink et al., 2001).

Questo costrutto fa riferimento a tutte quelle esperienze che rendono la persona consapevole del fatto che i propri comportamenti, le proprie performance o modalità di vivere la vita, sono cambiate come conseguenza della propria crescita (aumento cronologico dell’età). Gli stati di consapevolezza sono contraddistinti da fattori interni (es. sentimento soggettivo di diminuite capacità) ed esterni (es. reazioni degli altri e condizioni socio- strutturali). La consapevolezza dei cambiamenti legati all’età rappresenta un costrutto diverso rispetto al concetto più generale di consapevolezza di sé. Con quest’ultimo si indica l’aspetto di sé su cui la persona focalizza la propria attenzione (Carver & Scheier, 1998). L’assunto di base è che la consapevolezza di sé sia fondamentale per la formazione delle intenzioni, il raggiungimento degli obiettivi, e per guidare il proprio comportamento e le proprie azioni. La consapevolezza dei cambiamenti legati all’età, invece, si riferisce ad una particolare consapevolezza di sé, che spiega che qualcosa è cambiato come conseguenza del proprio invecchiamento.

Invecchiamento: un progetto da costruire

In generale gli esseri umani hanno la capacità di rappresentarsi in maniera flessibile gli eventi futuri, di immaginare i diversi possibili esiti delle loro azioni e agire alla luce di queste rappresentazioni (Aspinwall, 2006). Nel far questo, intervengono diverse abilità di autoregolazione: cerchiamo di anticipare le circostanze future e il loro impatto su noi e chi ci sta vicino; prendiamo in considerazione queste conseguenze per poter prendere decisioni. Kahana & Kahana (1996) hanno indentificato diversi adattamenti preventivi efficaci adottati da adulti in pensione, tra cui: esercizi per prevenire la disabilità legata all’età, aiutare gli altri al fine di consolidare le risorse sociali per il futuro e la pianificazione anticipata.

E’ importante che l’ invecchiamento sia considerato un progetto da costruire, piuttosto che un percorso a tappe stabilite. La preparazione all’ invecchiamento è un aspetto molto delicato da tenere in considerazione; rappresenta una scelta che appartiene prima di tutto ai soggetti interessati, non può quindi essere imposta dall’esterno. Tuttavia è possibile promuovere e creare quelle condizioni e opportunità affinchè venga stimolata la consapevolezza dell’importanza di tale scelta (De Beni, Borella, 2015). Questo fine può esser raggiunto attraverso la diffusione delle conoscenze necessarie per riconoscere l’ invecchiamento e le sue caratteristiche, per contrastare le tendenze verso la sua negazione e gli stereotipi legati a questa fase di vita; si rivela decisiva quindi l’implementazione di percorsi di preparazione all’ invecchiamento adeguati alle esigenze. Ciò consentirà di attivare progetti di vita adeguati alle condizioni di vita, di prevenire l’isolamento e la solitudine.

Scompare davvero la paura dopo il trattamento delle fobie? La dura lotta tra i nostri ricordi

Un recente studio optogenetico sulle memorie fobiche e la loro resistenza al trattamento ha dimostrato per la prima volta che è possibile attivare e sopprimere artificialmente tracce specifiche di memoria in modo da gestire il recupero dalla paura.

 

La memoria è un costrutto complesso, sicuramente implicata in numerosi disturbi psicopatologici, tra cui anche le fobie. Le fobie sono il risultato di un apprendimento e vengono trattate con protocolli di estinzione, come esposizioni ripetute allo stimolo che evocano la paura in assenza di una vera minaccia, ma questi trattamenti non eliminano tuttavia il ricordo dello stimolo, che può ripresentarsi spontaneamente dopo un po’ di tempo. Le cause di questo fenomeno vengo attribuite al fatto che l’estinzione non elimina la paura appresa, ma creerebbe un nuovo ricordo che compete con quello fobico.

L’acquisizione di nuove memorie di estinzione dipende dalle proiezioni che dalla corteccia prefrontale raggiungono l’amigdala, ma anche dall’ippocampo, in particolare dal giro dentato, che contiene neuroni chiamati “fear engram cells”, la cui attivazione è sufficiente per l’espressione di caratteri fobici contestuali. Quest’area cerebrale è necessaria per l’estinzione della paura, ma i meccanismi che governano questo processo non sono ancora stati compresi appieno.

Estinguere le memorie fobiche? Uno studio sperimentale

Un recente studio optogenetico basato su marcatura neuronale attività-dipendente (Lacagnina, et al., 2019) ha proposto diversi esperimenti per chiarire le dinamiche sottese a questo fenomeno, rivelando che:

  1. l’estinzione sopprime la riattivazione dei neuroni relativi all’acquisizione degli engrammi fobici;
  2. il recupero di memorie fobiche e di quelle di estinzione attiva complessi cellulari distinti nel giro dentato;
  3. silenziando i neuroni che si attivano nel processo di estinzione, l’espressione delle memorie di estinzione viene compromesso;
  4. silenziando i neuroni attivi durante la codifica di engrammi fobici si riduce il recupero spontaneo dalla paura.

I neuroni attivi durante l’estinzione erano anche più attivi dopo 5 giorni da questo processo rispetto a quelli attivi durante lo stimolo fobico, ma dopo 28 giorni di recupero spontaneo il quadro veniva invertito. Questi risultati potrebbero indicare che sia la competizione fra i complessi cellulari relativi alle memorie fobiche e di estinzione nel giro dentato a determinare la soppressione o la ricomparsa della paura nel tempo.

È stato proposto che sia l’interazione fra ippocampo e amigdala a generare l’espressione della paura. È possibile che l’attività dei neuroni relativi all’estinzione interferisca con le rappresentazioni fobiche attivando il circuito di soppressione della paura nell’amigdala e nella corteccia prefrontale.

Per concludere

Per la prima volta degli scienziati sono riusciti ad attivare e sopprimere artificialmente tracce specifiche di memoria, in modo da gestire il recupero dalla paura. Ciò rileva importanti potenziali nuovi percorsi di ricerca clinica per disturbi come quelli d’ansia e da stress post traumatico, profondamente legati a questi costrutti.

Disturbi alimentari: incidenza e prognosi

I disturbi alimentari presentano un’alta morbilità, tuttavia possono essere difficili da diagnosticare. Solitamente sono caratterizzati da comportamenti alimentari disturbati che si associano alla preoccupazione del peso e della forma corporea.

 

Comunemente le persone affette dai disturbi alimentari sono giovani e molto vulnerabili, si mostrano incerti sulla loro possibile guarigione e molto spesso il loro trattamento risulta difficile.

Spesso le persone con disturbi alimentari possono “passare inosservate”, ritardando così il tempo di diagnosi e il trattamento, influenzando, di conseguenza, la prognosi a lungo termine.

Disturbi alimentari: i numeri che descrivono la patologia in UK

I costi sanitari per i disturbi alimentari riguardanti il Servizio Sanitario Nazionale del Regno Unito (NHS) sono stati stimati aggirarsi intorno ai 3,9-4,6 miliardi di sterline.

È stato calcolato che circa 1,6 milioni di persone nel Regno Unito soffrono di disturbi alimentari, tuttavia sembra che questo numero sia sottostimato poiché molte persone non chiedono e non cercano aiuto. Inoltre, le diagnosi di disturbi alimentari sono aumentate del 15% tra il 2000 e il 2009.

Uno studio pubblicato recentemente sul British Journal of Psychiatry, condotto dal gruppo di ricercatori del Royal College of Psychiatrists, ha avuto come scopo quello di indagare i disturbi alimentati riguardanti la popolazione UK in termini di incidenza, comorbilità e sopravvivenza.

Per lo studio si sono utilizzati i documenti sanitari elettronici riguardanti le cartelle dei medici di base e i ricoveri giornalieri in Galles e nel Regno Unito; i presenti documenti appartenevano alla banca dati Secure Anonymised Information Linkage (SAIL).

I ricercatori hanno indagato la frequenza delle diagnosi in comorbilità, le eventuali prescrizioni mediche e i controlli 2 anni prima e 3 anni dopo la diagnosi, infine hanno eseguito le analisi riguardanti il tasso di sopravvivenza.

Il campione era composto da 15558 soggetti (1363 maschi e 14195 femmine, tra i 10 e i 65 anni), a cui era stato diagnosticato un disturbo alimentare (anoressia nervosa, bulimia nervosa, altro disturbo alimentare) tra il 1990 e il 2017. L’incidenza ha raggiunto il picco tra il 2003 e il 2004, 24 per 100000 individui.

Cosa comporta un disturbo alimentare: comorbilità e prognosi

Le persone con disturbi alimentari mostravano alti livelli di comorbilità con un altro disturbo mentale, circa il 4.32 volte in più rispetto alla popolazione sana, e presentano tassi di morbilità e mortalità per cause esterne quasi il 2.92 volte in più rispetto alla popolazione sana.

È emerso che ai soggetti con diagnosi di disturbi alimentari venivano prescritti farmaci che agivano sul sistema nervoso centrale (circa 3.15 volte in più), farmaci gastrointestinali (circa 2.61 volte in più), farmaci dietetici (circa 2.42 volte in più) prima della diagnosi. Queste prescrizioni eccessive rimanevano tali anche dopo 3 anni dalla diagnosi. Il tasso di mortalità era più alto nei soggetti a cui era stata diagnosticata l’anoressia nervosa.

Sebbene l’incidenza dei disturbi alimentari diagnosticati sia relativamente bassa nella popolazione, è importante sottolineare che il tasso di morbilità e mortalità a lungo termine sia piuttosto rilevante.

Vaginismo: cause, caratteristiche e classificazione del disturbo

Il vaginismo è un disturbo sessuale che complessivamente interessa l’1-2% delle donne in età postpuberale, causa di dolore non solo fisico ma anche psicologico per molte donne.

Giorgio Cornacchia – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Il vaginismo si può considerare come una risposta condizionata, derivante dall’associazione tra attività sessuale e paura. E’ un problema grave per molte donne, che causa non solo dolore fisico ma anche psicologico. Secondo la dottoressa Graziottin (2005) definisce il vaginismo come

un disturbo sessuale caratterizzato da paura e angoscia della penetrazione, associate a variabile fobia del rapporto e a una contrazione muscolare riflessa, e quindi involontaria, dei muscoli che circondano la vagina.

Da questa definizione si evince chiaramente come nella genesi del disturbo generalmente non vengano considerate cause fisiche, e come siano ritenute preminenti le cause psicologiche: il dolore generalmente deriva dalla tentata penetrazione dell’orifizio vaginale che però risulta serrato. Sarebbe così la paura della penetrazione stessa a causare il vaginismo.

In letteratura si possono ritrovare diverse definizioni di questo quadro psicopatologico, ma in tutte si possono riscontrare la paura della penetrazione e la contrazione muscolare a livello vaginale, elementi che la distinguono fortemente dall’altro disturbo da dolore coitale quale è la Dispareunia. Questi due quadri sintomatologici si differenziano tra loro per un elemento centrale: la penetrazione. Nella Dispareunia, infatti, la penetrazione anche se non completa si verifica, mentre nel vaginismo questa non si ottiene mai.

Classificazione diagnostica e caratteristiche del vaginismo

Il DSM 5 (2014) inserisce il vaginismo all’interno della categoria inerente il “Disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione” (F52.6). I criteri diagnostici per questo disturbo sono:

Persistenti o ricorrenti difficoltà con uno (o più) dei seguenti problemi:

  1. Penetrazione vaginale durante il rapporto.
  2. Marcato dolore vulvo-vaginale o pelvico durante il rapporto o i tentativi di penetrazione vaginale.
  3. Marcata paura o ansia per il dolore pelvico o vulvo-vaginale prima, durante o come risultato della penetrazione vaginale.
  4. Marcata tensione o contrazione dei muscoli del pavimento pelvico durante il tentativo di penetrazione vaginale.

I sintomi del Criterio A si sono protratti come minimo per circa 6 mesi.

I sintomi del Criterio A causano nell’individuo un disagio clinicamente significativo.

La disfunzione sessuale non è meglio spiegata da un disturbo mentale non sessuale o come conseguenza dì un grave disagio relazionale (per es. violenza del partner) o di altri significativi fattori stressanti e non è attribuibile agli effetti di una sostanza farmaco o di un’altra condizione medica.

Inoltre, bisogna specificare se il disturbo è permanente, riferito a quelle condizioni in cui esso si manifesta dal momento in cui l’individuo è diventato sessualmente attivo, o acquisito, caso in cui il disturbo si manifesta dopo un periodo di funzionamento sessuale relativamente normale. Altra importante specifica riguarda la gravità del disturbo, il quale è considerato lieve, moderato o grave in base al grado d’intensità e di frequenza di manifestazione dei sintomi del criterio A.

Per quanto riguarda la prevalenza, il vaginismo è un disturbo sessuale che complessivamente interessa l’1-2% delle donne in età postpuberale, anche se non sono disponibili dati epidemiologici precisi, ma ci si rifà ai dati relativi alle casistiche cliniche.

Il vaginismo si caratterizza per una contrazione del muscolo detto “elevatore dell’ano” (o pubococcigeo). L’attività di tale muscolo è sotto il controllo sia volontario che involontario, ma sono poche le donne che ne sono consapevoli. Questa sua caratteristica permette alla donna di contrarlo e rilasciarlo in vari momenti della giornata (come ad esempio durante la minzione), ed anche durante il coito: la donna può, infatti, rilassarlo per permette la penetrazione, o contrarlo ritmicamente durante la stessa per aumentare il piacere suo e del partner. Nelle vaginismiche ciò non avviene: il muscolo pubococcigeo è iperattivo, contratto eccessivamente e non risulta controllabile tramite la volontà individuale. È proprio per questo motivo che i soggetti in esame dichiarano di avere un vero e proprio “muro” a livello dell’introito vaginale, il quale non rende possibile la penetrazione.

Cause del vaginismo: fattori biologici e psichici

Alla base di questa iperattività muscolare e alla paura della penetrazione, si ritrovano cause differenti, che vanno dalla sfera biologica a quella psicologica e relazionale (Graziottin, 2005). Dati statistici affermano che ben nel 90% dei casi il vaginismo è riconducibile a fattori psicologici, come l’ansia, e che solo nel restante 10% si possano riscontrare cause biologiche.

In merito alle cause biologiche del quadro psicopatologico in esame, si è visto che per molti anni queste non sono state prese in esame con la giusta attenzione, in quanto ci si focalizzava maggiormente sulla componente psicologica. Graziottin (2004) afferma che:

l’aspetto biologico critico del vaginismo, critico perché più trascurato, è l’eccessiva attività del muscolo elevatore dell’ano.

Questa eccessiva attività può dipendere da fattori diversi: da uno stato di allarme generale in cui versa il soggetto in conseguenza a una propria fobia, da cause neurologiche riguardanti il muscolo stesso (come ad esempio nei casi di neurodistonia muscolare), o infine da dolore genitale, anale o vescicale vissuto dal soggetto sin dalla pubertà.

Oltre a questo stato di iperattività muscolare, si è riscontrato in alcune pazienti che l’impossibilità ad avere rapporti era dovuta a fattori anatomici: imene rigido e fibroso, agenesia vaginale (condizione medica nella quale la vagina non si è sviluppata completamente), possono portare all’insorgenza del vaginismo a seguito del dolore provato tutte le volte che la donna si è approcciata ad un rapporto sessuale (Leiblum & Rosen, 2004).

Per quanto riguarda le cause inerenti la sfera psichica, esse possono essere ricondotte a molteplici fattori personali, legati all’ambiente d’origine e alla coppia stessa. La letteratura illustra moltissimi casi di donne che, cresciute in ambienti e famiglie molto religiose, hanno ricevuto un’educazione rigida e ricchissima di tabù, soprattutto in ambito sessuale. Ciò, legato anche a una sopravvalutazione della verginità, ha favorito l’insorgenza del vaginismo. Molte donne vaginismiche hanno raccontato di provare grande timore nei confronti di tappe proprie della vita di ogni donna: deflorazione, gravidanza e parto suscitavano in loro paura, sfociando nella psicopatologia.

Spesso tale paura si è visto essere collegata non a esperienze dirette, personali, ma a racconti di terze persone: racconti di amiche o della madre stessa riguardo il primo rapporto, il dolore vissuto e la perdita di sangue seguita, possono condizionare l’individuo che non ha avuto ancora modo di vivere la propria sessualità, portandolo a sviluppare fobie e paure.

Il ruolo delle figure genitoriali non è riscontrabile solo nel caso di una educazione rigida, ma anche nel momento in cui questi non sono in grado di dare un’educazione adeguata in merito alla sessualità. Può capitare, infatti, che i genitori, anche per ignoranza, non siano capaci di riconoscere il momento giusto per educare la propria figlia alla sessualità: dare determinate informazioni a un soggetto non maturo, non pronto per maneggiarle, può portare confusione e paura per un mondo che ancora gli è lontano. In questi casi poi, le informazioni vengono date spesso in maniera distorta, non chiara e senza la terminologia adeguata, creando sentimenti di disagio e vergogna nel soggetto in via di sviluppo.

Rimanendo attenti al periodo della pubertà e dell’adolescenza, ci si deve soffermare anche sull’importanza delle mestruazioni e soprattutto su come queste vengono vissute dalla ragazza. Alcune vaginismiche affermano, infatti, di avere ricordi negativi in merito a ciò, di ricordare forti dolori, sentimenti di vergogna e commenti negativi. Ciò può portare a vivere negativamente quell’aspetto di sé, arrivando nei casi più gravi alla negazione della sessualità.

Ulteriori fattori legati alla sfera psichica che possono contribuire all’insorgenza del vaginismo possono essere una bassa autostima e un’ansia sociale, legata anche a episodi in cui si è stati presi ripetutamente in giro. Inoltre, in letteratura sono presenti numerosi dati che sottolineano come il vaginismo possa anche essere una diretta conseguenza di un abuso sessuale subito. Infatti, sono molte le donne con alle spalle vissuti di abuso che soffrono del disturbo in esame, anche se la violenza è stata solo tentata (Vancaille, Jarvis & O’brien-Tomko, 2012). La letteratura supporta ampiamente la teoria secondo la quale l’aver subìto un abuso sessuale possa influenzare negativamente la sessualità femminile. Le vittime di abuso sessuale infantile hanno spesso associazioni, flashback e ricordi collegati ad aspetti specifici dell’abuso e ciò si va a riflettere sia sulla risposta sessuale psicologica che fisiologica. Tutto ciò si ripercuote poi sull’intimità e sull’attività sessuale dell’individuo, le quali vengono vissute con sentimenti negativi e vengono evitate fino a giungere ai casi di disturbi della sessualità quali il vaginismo (Marendaz & Wood, 2005).

Non bisogna, infine, dimenticare la coppia: spesso, infatti, la “causa” del disturbo sessuale risiede proprio nelle dinamiche che si vengono a creare all’interno della coppia stessa. I conflitti irrisolti, ad esempio, rappresentano un elemento di rischio e predisponente il disturbo sessuale: questi, infatti, possono portare a un graduale rifiuto del partner, che aggravandosi sempre più, porta alla totale negazione della sessualità nella coppia. Oltre a questi conflitti, causati a volte anche da mancanza di dialogo, confronto e complicità, la letteratura fornisce interessanti dati i quali mostrano come il denunciato vaginismo di lei, mascheri una disfunzione di lui.

Spesso la coppia condivide una simmetrica paura rispetto alla penetrazione: lei ha paura di essere penetrata e lui ha paura inconsciamente di penetrare.

Si stima inoltre, che ben il 32% delle donne vaginismiche abbia un partner affetto da disfunzioni sessuali: disturbi del desiderio, disturbi dell’erezione, eiaculazione precoce, sono quelli che più spesso si riscontrano in queste coppie (Graziottin, 2005).

La depressione è un disturbo di natura genetica? No, secondo un nuovo studio

La depressione è un disturbo di natura genetica? No secondo gli autori dell’articolo “No Support for Historical Candidate Gene or Candidate Gene-by-Interaction Hypotheses for Major Depression Across Multiple Large Samples”, recentemente pubblicato sull’American Journal of Psychiatry.

 

Nell’ ambito della ricerca sui disturbi mentali uno degli interrogativi che più di altri sembra guidare gli studiosi nel loro lavoro è “Nature or nurture?”. La diatriba, infatti, porta spesso i ricercatori a chiedersi se l’etiologia di molti disturbi psichici si possa attribuire principalmente a fattori genetici o a influenze ambientali. Uno dei disturbi più frequentemente al centro di questo interrogativo è il disturbo depressivo maggiore.

Per la precisone, in letteratura sono stati identificati 18 geni coinvolti nello sviluppo della depressione, che hanno da sempre suggerito un forte impatto della variabile genetica nell’eziologia del disturbo.

Uno studio condotto in Colorado però getta nuova luce sulla natura della depressione: per la prima volta i ricercatori hanno utilizzato una ricchissima banca di biodati con genoma, provenienti da vasti campioni di popolazione clinica e di controllo, effettuando così una raccolta dati su oltre 620.000 individui.

Gli autori hanno condotto una serie di analisi sugli effetti dei polimorfismi dei 18 geni individuati in letteratura, sull’interazione tra polimorfismo genetico e ambiente, sugli effetti dei geni in relazione alle differenti tipologie di disturbi depressivi e sui moderatori ambientali (abuso fisico, abuso sessuale, avversità socioeconomiche, ecc).

Qual è dunque il ruolo dei geni nello sviluppo della depressione?

I risultati ottenuti non mostrerebbero alcuna significativa associazione tra polimorfismo del gene esaminato e fenotipi della depressione, né alcun effetto moderatore del polimorfismo genico sull’ambiente. I 18 geni prima ritenuti centrali nello sviluppo del disturbo depressivo, ci dicono i ricercatori, non risulterebbero associati al fenotipo depressivo più di altri geni non candidati.

Come spiegare allora anni di ricerche e studi controllati che hanno evidenziato il ruolo centrale di determinati geni nello sviluppo del disturbo depressivo? Secondo i ricercatori, in passato le analisi sono state condotte su campioni di grandezza molto limitata, i cui risultati potrebbero aver dato vita a dei falsi positivi.

Tuttavia, commentano gli autori dello studio, questo non ci deve portare ad abbandonare la ricerca sui fattori biologici e genetici coinvolti nell’eziologia dei distrubi mentali.

I risultati delle loro analisi potrebbero aiutare invece a rispostare l’attenzione al fondamentale ruolo dell’ambiente nello sviluppo dei disturbi psichici, spesso vittima di un determinismo biologico che rischia di far perdere di vista l’importanza degli aspetti psicosociali del benessere e la necessità di promuovere interventi di prevenzione di natura psicologica, relazionale e sociale.

La versione di Fenoglio (2019): il maresciallo Fenoglio e il racconto delle indagini che hanno segnato la sua vita – Recensione dell’ultimo libro di Gianrico Carofiglio

Gianrico Carofiglio in La versione di Fenoglio offre una affascinante lettura su come comprendere gli scopi e la condotta degli esseri umani che, per chi svolge il lavoro di terapeuta, apre ad una più ampia riflessione sul ragionamento clinico, la formulazione del caso e la relazione terapeutica.

 

Dopo aver letto l’ultimo romanzo breve di Gianrico CarofiglioLa versione di Fenoglio, mi ero messo di buona lena a ricopiarne lunghi brani per farne slides per le mie lezioni sul ragionamento clinico, la formulazione del caso e la relazione terapeutica. Poi, un po’ per il timore di finire in gattabuia per violazione del diritto d’autore e soprattutto per pigrizia, ho pensato fosse più pratico farne una recensione in modo da sollecitarne la gradevolissima lettura a chi già fa o vuole fare il lavoro di psicoterapeuta, o più in generale capire il funzionamento degli altri esseri umani con cui ha a che fare, quale che sia il sistema motivazionale che guidi l’interazione (che si tratti di curare, guerreggiare, cooperare o sedurre).

La versione di Fenoglio?

Lo spunto narrativo è dato dall’incontro in un centro di fisioterapia tra un giovane intelligente e ansioso di comprendere il senso della vita ed un maresciallo dei carabinieri vicino alla pensione e dunque giunto nel tempo dei bilanci esistenziali. Al di là del confronto sulla filosofia e il senso della vita, che io ho apprezzato particolarmente essendo simile al mio o a quello che mi auspicherei di avere e che dunque è del tutto irrilevante per i lettori di questa recensione (insomma come si dice da noi “chissenefrega” negli ambienti bene e in forma persino più concisa nel linguaggio comune “e sti….”), ciò che rende affascinante la lettura per un terapeuta è la narrazione di come comprendere gli scopi e la condotta degli esseri umani che il maresciallo Fenoglio (alias Carofiglio) consegna al giovane attraverso il racconto di alcune indagini che hanno segnato la sua vita.

Carofiglio, che ricordo essere stato magistrato prima di diventare senatore della repubblica, aveva già mostrato in precedenti libri di cui consiglio vivamente la lettura (Le perfezioni provvisorie, Ragionevoli dubbi, La regola dell’equilibrio) notevole passione e dimestichezza con i temi cari all’epistemologia moderna ed in particolare popperiana.

Il maresciallo Fenoglio nel descrivere le tecniche di indagine mette in guardia contro i più frequenti errori che consistono sostanzialmente nei bias confermazionisti descritti meticolosamente nei loro meccanismi intrapsichici e per ciascuno di essi suggerisce tecniche concrete per non esserne vittime ripercorrendo, meno in teoria e più in pratica, i temi che Kahneman tratta nel suo ultimo bellissimo libro (Pensieri lenti e veloci, ed. Mondadori, Milano 2011).

Nonostante il rapporto tra inquisitore e inquisito, ma anche quello con i testimoni, appaia in prima battuta diverso se non opposto a quello della relazione terapeutica, più collaborativo il maresciallo illustra tutte le tecniche atte a decentrarsi, a mettersi nei panni dell’altro per entrare nel suo modo di ragionare e creare dunque una empatia profonda perché come scriveva De Andrè “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo” o, per mostrarsi più colti, come già diceva Publio Terenzio Afro “homo sum, humani nihil a me alieno puto” ovvero “nulla di ciò che è umano mi è estraneo”.

Più di quanto non faccia normalmente io, rispetto alle diagnosi categoriali il maresciallo mette in guardia sull’assunzione di schemi preconcetti su come normalmente funzionano le cose che se sembrano darci maggiore prevedibilità ci rendono ciechi alle novità. Il libro La versione di Fenoglio suggerisce come mantenere sempre la mente libera e aperta a nuove ipotesi e come procedere non cercando conferme facili da trovare ma andando a caccia delle scomode ma illuminanti falsificazioni.

La versione di Fenoglio è denso di spunti su come comprendere il modo di ragionare dell’altro decentrandosi da se stessi, dai propri pregiudizi e dagli schemi consolidati e lo si divora in un paio d’ore se non si viene troppo distratti dai pensieri intrusivi circa le bischerate che ci si rende conto leggendo di aver fatto con molti pazienti. Ma questo stesso rendersene conto è nettare prezioso: la prossima volta sbaglieremo in maniera diversa.

Ascolto della musica e regolazione dell’umore

Numerose ricerche hanno evidenziato come l’ascolto della musica sia promotore del benessere generale nella persona, con riduzione dello stress e aumento del rilassamento (Schafer et al., 2013; Lundqvist et al., 2009).

 

A tal proposito, un recente studio ha voluto testare se l’ascolto della musica agisse sulla regolazione dell’umore in individui che erano stati sottoposti ad una situazione sperimentale stressante.

Ascoltare la musica preferita prima di un compito stressante: lo studio

Il campione (N=80) ha compilato un questionario contenente domande demografiche e di preferenze in termini di genere musicale qualora si fosse trovato in una situazione stressante ed a contatto sociale. In seguito, gli è stato somministrato un questionario a scala Likert che misurava il livello di accordo sulle concezioni inerenti alle funzioni benefiche della musica. Gli sperimentatori hanno valutato gli stati d’animo dei partecipanti usando le scale analogiche visive, prima e dopo averli sottoposti alla condizione sperimentale stressante. Quest’ultima è stata indotta con il Trier Social Stress Task, un compito che induce stress in maniera sperimentale, invitando i partecipanti a preparare un discorso su se stessi da fare in pubblico, seguito da un compito di aritmetica mentale.

Dopo il compito di Trier Social Stress, viene data una pausa di 10 minuti, prima dell’esposizione del discorso, durante la quale in maniera random ad alcuni soggetti viene fatta ascoltare la musica indicata nel sondaggio iniziale (gruppo sperimentale) e ad altri viene fatto ascoltare un documentario radiofonico (controllo). In seguito alla procedura di ascolto, per la terza volta viene risomministrata la scala analogica visiva per la valutazione degli stati d’animo, in particolare per valutare i potenziali effetti benefici che l’ascolto della musica potesse aver avuto sulla regolazione dell’umore. Al termine della procedura viene detto ai partecipanti che non ci sarà alcuna esibizione in pubblico.

Gli effetti della nostra musica preferita su umore e stress

Da questa procedura sperimentale è emerso che nel momento in cui viene chiesto al campione di esibirsi in pubblico (Trier Social Stress Task), i livelli di affettività negativa (stress, nervosismo, depressione, tristezza) aumentano per tutti. In seguito, agli individui a cui viene fatto ascoltare il brano musicale prescelto nel sondaggio iniziale, i livelli di affettività negativa diminuivano rispetto ai soggetti a cui viene fatto ascoltare il documentario radiofonico.

Dunque, questo studio suggerisce un possibile effetto benefico dell’ascolto musicale sulla regolazione dell’umore. Tuttavia, non possiamo esimerci dall’evidenziare come questi risultati non possono essere generalizzati. Difatti, i brani musicali che sono stati ascoltati dai partecipanti venivano scelti sulla base delle iniziali preferenze indicate dai soggetti. Pertanto, sarebbe interessante riproporre il medesimo studio in condizioni sperimentali diverse, come ad esempio, proporre l’ascolto di un brano musicale scelto dallo sperimentatore per valutare se i benefici che la musica ha sulla regolazione emotiva dei soggetti sono riconducibili alla preferenza musicale o se sono deputabili alla musica in generale.

Gestire le dinamiche di classe e promuovere le abilità relazionali: un progetto di formazione per insegnanti

Gli insegnanti sono la pietra angolare del sistema educativo. Insegnanti efficaci e motivati ​​garantiscono il raggiungimento degli obiettivi educativi con successo. Può capitare che facciano molto sforzo per fronteggiare più richieste contemporaneamente, e ciò può portarli a sentirsi stanchi, frustrati e stressati.

 

Da un’indagine effettuata nel 2018 dal GDL Nazionale di Psicologia Scolastica, che ha coinvolto 440 docenti su tutto il territorio nazionale, è emerso che una delle maggiori difficoltà con cui gli insegnanti si confrontano nel lavoro quotidiano è la gestione delle classi difficili, segnalato dal 60,5% del campione.

Gestire la classe: competenze richieste e difficoltà nascoste

Alla luce di questi dati, alcuni professionisti del gruppo “Prospettiva Evolutiva” che si occupa di tematiche e problematiche inerenti l’età evolutiva all’interno dell’Associazione Cognitivismo Clinico di San Benedetto del Tronto hanno svolto un percorso di formazione per gli insegnati dell’istituto comprensivo “Ugo Betti” di Fermo.

Il progetto è nato dalla consapevolezza che studenti con alti livelli di comportamenti aggressivi, iperattività e problemi della condotta creano un importante problema di gestione nel contesto scolastico ed interferiscono con lo sviluppo dell’apprendimento loro e dei compagni. Numerose ricerche, infatti, hanno mostrato come alti livelli di aggressività influiscono significativamente sull’acquisizione di apprendimenti (Genta et al., 1996, Kupersmidt et al, 2000).

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Gestione della classe e abilita relazionali un progetto formativo per docenti 1Imm 1 – Immagine dal percorso di formazione per gli insegnati dell’istituto comprensivo “Ugo Betti” di Fermo

 

Gestione della classe e abilita relazionali un progetto formativo per docenti 2Imm 2 – Immagine dal percorso di formazione per gli insegnati dell’istituto comprensivo “Ugo Betti” di Fermo

 

Applicare programmi di prevenzione del disagio emotivo relazionale e la promozione di abilità relazionali guida i ragazzi a riconoscere e modulare le proprie reazioni emotive intense, come la rabbia, attraverso situazioni scolastiche strutturate.

In letteratura l’intelligenza emotiva, come costrutto multidimensionale (Bar-On, 1997), viene presentata come predittore (Saklofske et al., 2003; Isaacowitz, 2005) del benessere e del successo individuale/lavorativo (Ciarrochi et al., 2002) e sembra essere correlata all’autoefficacia, alla capacità di adattamento e all’essere positivi (Eisenberg et al., 2000; Chan, 2004; Isaacowitz, 2005).

Alcune ricerche, in ambito educativo, hanno tentato di approfondire lo studio della relazione tra intelligenza emotiva e autoefficacia. I primi studi si focalizzarono sugli allievi e sul ruolo che le competenze emotive potevano avere sul successo scolastico, sulla performance, sull’apprendimento e sullo sviluppo delle abilità sociali (Parker et al., 2004). I risultati di questi studi evidenziarono l’importanza del ruolo dell’insegnante nel favorire lo sviluppo di tali competenze che l’attenzione dei ricercatori si riorientò alla dimensione relazionale dell’apprendimento e all’importanza della mente emotiva.

Da questo punto di vista, si sottolinea come un processo di insegnamento, per risultare efficace ed efficiente, richieda una capacità di introspezione, di controllo e regolazione degli stati emotivi propri e altrui, una comunicazione con il proprio mondo interno e l’abilità di interagire in modo adeguato non solo con i propri allievi, ma anche con le loro famiglie e con i propri colleghi.

Al fine di aiutare gli studenti a raggiungere il loro pieno potenziale, è importante capire come gli insegnanti diventano più efficaci nel trattare con le richieste e le sfide quotidiane associate alla professione di insegnante, non solo per proteggere gli insegnanti dal burnout, ma anche come un modo per promuovere il loro impegno, apprendimento e padronanza.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Gestione della classe e abilita relazionali un progetto formativo per docenti 3Imm 3 – Immagine dal percorso di formazione per gli insegnati dell’istituto comprensivo “Ugo Betti” di Fermo

 

Gestione della classe e abilita relazionali un progetto formativo per docenti 4Imm 4 – Immagine dal percorso di formazione per gli insegnati dell’istituto comprensivo “Ugo Betti” di Fermo

Supportare gli insegnanti: il progetto per l’Istituto Ugo Betti a Fermo

Alla luce di queste premesse teoriche, tra il mese di febbraio e il mese di aprile 2019 gli insegnanti hanno partecipato al corso di formazione proposto dai Professionisti di “Prospettiva Evolutiva” interno all’Associazione Cognitivismo Clinico di San Benedetto del Tronto, strutturato come percorso di prevenzione primaria, volto a fornire utili informazioni derivate dalla terapia cognitivo – comportamentale che hanno permesso di migliorare la comprensione degli insegnanti su comportamenti problematici messi in atto degli alunni. Gli incontri sono stati organizzati in sessioni parallele per ordine di scuola, in modo da calibrare sulle esigenze degli insegnanti i materiali e le strategie suggerite e in modo da favorire dialogo e condivisione nel piccolo gruppo.

Chiave comune a tutti gli incontri è stata non solo la possibilità di acquisire nuove modalità e strategie di gestione della classe, ma soprattutto l’accompagnamento verso una maggiore consapevolezza e comprensione delle personali difficoltà emotive che il corpo docente può incontrare nello svolgimento quotidiano del proprio lavoro.

Gli obiettivi dell’intervento sono stati:

  • fornire adeguate competenze nella conduzione dei rapporti interpersonali e di gruppo mediante l’insegnamento di strategie comportamentali, relazionali, cognitive ed immaginative volte a promuovere e migliorare negli alunni un atteggiamento positivo verso le relazioni e l’apprendimento;
  • riconoscere e adottare strategie di coping più funzionali per gestire in modo efficace i conflitti e/o situazioni stressanti;
  • identificare e monitorare le proprie emozioni incrementando il livello di autoconsapevolezza per una migliore gestione dei propri eventi di vita scolastica.

All’inizio e alla fine dell’intervento il gruppo docenti ha compilato una batteria di test, con l’obiettivo di monitorare eventuali cambiamenti sulle tematiche oggetto di intervento: livelli di frustrazione esperiti, strategie di coping utilizzate, senso di autoefficacia scolastica.

Gestione della classe e abilità relazionali: riflessioni di fine percorso

In attesa delle analisi dei dati definitive relative agli strumenti somministrati, è possibile riflettere su quanto emerso nel percorso. La formazione ha permesso agli insegnanti di imparare a spostare l’attenzione sul riconoscimento precoce delle problematiche e le modalità per affrontarle, sulla gestione proattiva della classe, l’insegnamento interattivo, l’apprendimento cooperativo, l’uso del problem solving e la comunicazione efficace. Conoscere e approfondire la conoscenza delle strategie di gestione della classe, ha permesso agli insegnanti di sentirsi più preparati ad affrontare eventuali problematiche, questo è stato possibile anche da una disponibilità degli stessi a mettere in pratica le strategie apprese durante il periodo formativo, così da sperimentare e condividere con il gruppo difficoltà di applicazione e potenzialità, per individuare la modalità migliore dell’applicazione delle diverse strategie.

Esercizi di decentramento e di riflessione sui propri stati emotivi in una situazione critica hanno consentito di riflettere sulle conseguenze di emozioni negative quali rabbia, frustrazione e delusione, di essere più consapevoli dei propri vissuti emotivi e di poter migliorare la relazione con gli studenti e con i colleghi.

Il compito dei professionisti, empatizzando col vissuto di difficoltà e talvolta di impotenza che si trovano a vivere gli insegnanti di fronte ad una situazione complessa e talvolta radicata nel tempo, è stato quello di creare un clima di apertura e collaborazione, permettendo in gruppo reciprocità, scambio attivo e confronto, un luogo emotivo in cui non si sono sentiti giudicati ma supportati.

Sfidare la sinestesia! È possibile ricreare esperienze sinestetiche in soggetti non sinesteti?

E se la sinestesia fosse un normale processo di integrazione sensoriale? Alcuni ricercatori sono riusciti a sviluppare un paradigma in grado di generare esperienze sinestetiche in soggetti non sinesteti.

 

Il fenomeno per il quale la stimolazione di una determinata via sensoriale conduce ad un’automatica esperienza cognitiva attraverso una seconda via è detto sinestesia, e storicamente viene connesso ad una connettività cerebrale anomala. Gli individui che riportano queste esperienze lungo il corso della vita, senza utilizzo di sostanze psicotrope, vengono definiti sinesteti.

Le modalità sensoriali sono un repertorio innato, non siamo in grado di “apprendere” nuovi sensi. Il nostro sistema percettivo è invece soggetto a maturazione. Le sensazioni provenienti da una determinata modalità possono essere associate a quelle delle altre, in modo che gli stimoli possano essere integrati o selezionati in base alle richieste ambientali. Ad esempio, la modulazione visiva audio-indotta può aumentare l’eccitabilità della corteccia visiva, comportando migliore individuazione e discriminazione degli stimoli. Ciò può però condurre a fenomeni dispercettivi, come quando, guardando qualcuno parlare attraverso un microfono, colleghiamo la provenienza del suono amplificato alla bocca dell’oratore, invece che agli altoparlanti.

La sinestesia è o non è un fenomeno stra-ordinario?

Una recente ricerca (Nair & Brang, 2019) ha sfidato la concezione corrente di sinestesia, elaborando un semplice paradigma in grado di generare fenomeni sinestetici in non sinesteti. In tre esperimenti i ricercatori hanno dimostrato come, dopo alcuni minuti di deprivazione sensoriale, un breve compito di imagery è sufficiente ad evocare sensazioni visive associate a stimoli sonori quasi nel 60% dei soggetti.

I risultati supportano una visione della sinestesia nell’ambito di una regolazione contingente multimodale, che permette ad una modalità sensoriale di esercitare maggiore controllo modulatorio sull’altra, senza bisogno di cambiamenti connettivi anatomici. In questo caso, la dispercezione sarebbe sottesa da un aumento di guadagno del sistema acustico su quello visivo, derivante dalla deprivazione sensoriale, che può abbassare la competizione fra le informazioni provenienti da questi due sistemi.

Questa nuova concezione della sinestesia come normale processo di integrazione sensoriale potrebbe offrire importanti spunti di approfondimento su quella fetta di popolazione clinica affetta da fenomeni allucinatori, e più in generale, sulle potenzialità del nostro sistema percettivo.

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