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L’APA contraddice se stessa? Il riesame critico delle linee guida

Un articolo che si aggiunge ai commenti di Cheli, Dimaggio, Gazzillo e Mancini sul riesame critico che l’APA fa sulle sue stesse linee guida

Di Giovanni Maria Ruggiero, Gabriele Caselli, Sandra Sassaroli

Pubblicato il 30 Set. 2019

L’articolo target di Cheli e i commenti di Dimaggio, Gazzillo e Mancini sul riesame critico che l’APA fa sulle sue stesse linee guida, merita un commento che aggiungiamo a quelli richiesti da Cheli stesso. È interessante sottolineare come questa serie di articoli dei nostri colleghi incarnino in maniera plastica varie posizioni possibili rispetto allo sviluppo della psicoterapia. 

 

Commento all’articolo di Cheli

L’articolo inziale di Cheli oscilla tra desiderio di sorprendere e quasi di scandalizzare sostenendo che ormai il quadro sull’efficacia della psicoterapia è estremamente caotico –signora mia, ormai non si capisce più niente!- e presa d’atto che le cose in fondo sono meno deprimenti e confuse di quel che sembra. Cheli ci vuole sorprendere soprattutto quando sostiene che l’American Psychological Association (APA) – vessillifera di una serie di linee guida che hanno definito alcuni gold standard di efficacia nella psicoterapia – contraddice se stessa perché pubblica dati di efficacia che mettono in dubbio alcune delle linee guida passate. Per rispondere a Cheli forse basterebbe notare, come ha fatto giustamente Mancini nel suo commento, che riesaminare criticamente i risultati di efficacia di varie psicoterapie ridimensionando a volte alcuni risultati non è affatto un deludente segno di confusione ma di buona salute dell’APA. Non si tratta d’altro che del metodo scientifico che mette sempre in discussione i risultati acquisiti.

Intendiamoci: scrivere che l’APA contraddice se stessa è giornalisticamente efficace e bene ha fatto Cheli a utilizzare questo artificio retorico. Dopodiché, possiamo tranquillizzarci e continuare ad avere fiducia nella scienza, se non nell’APA. Forse occorrerebbe meravigliarsi di meno di certe contorsioni poco lineari che assume nel mondo reale lo sviluppo scientifico. Lo stesso Cheli confessa di aver capito solo col tempo che la scienza è affetta da distorsioni umane, troppo umane che lui, a quanto pare, aveva riduzionisticamente escluso in nome, pensa un po’, di una supposta superiore moralità degli scienziati e perfino dei popoli calvinisti. Cheli a quanto pare sta attraversando la sua linea d’ombra. Forse gli è già giunto all’orecchio il vecchio e deprimente pettegolezzo che si vocifera da secoli nei corridoi della scienza e ci è rimasto male: si dice che Newton ritardò ben poco calvinisticamente l’uscita di un articolo di Leibniz sul calcolo infinitesimale per assicurarsi il primato della pubblicazione.

Ciò che lascia un po’ perplessi è che Cheli non dice apertamente che il lavoro di riesame critico dell’APA non ridimensiona affatto i risultati di efficacia della terapia cognitivo comportamentale (da questo momento CBT, cognitive behavioral therapy).

Servirebbe ribadirlo? Certo che servirebbe. Cerchiamo di essere onesti: quando si parla di psicoterapie efficaci si pensa subito alla CBT. E quando si parla di solenni smentite all’efficacia delle psicoterapie il pensiero corre di nuovo alla CBT. Che però non sembra essere coinvolta nella caduta degli dei dall’Olimpo dell’APA. Cheli riporta che tra i caduti contiamo molte terapie: “la DBT per il disturbo borderline di personalità, la riattivazione comportamentale per la depressione e l’EMDR per il trauma mostrano evidenze ben al di sotto di quelle ipotizzate e formulate dalla Divisione 12”. La CBT? Non caduta. Il gold standard per ansia e depressione sembra rimanere saldamente nelle mani della CBT.

Troppo poco? Curare solo ansia e depressione è troppo semplice, come un medico di base che dia l’aspirina per il raffreddore? Questa è un’altra accusa spesso riservata alla CBT. Ebbene, anche questa critica risulta indebolita dal riesame critico dell’APA sull’efficacia delle terapie non CBT. Infatti prendere atto –come fa l’APA- che la DBT (dialectical behavior therapy, Linehan, 1983) mostri superiore efficacia solo sul rischio di suicidio e non sull’intera sintomatologia del disturbo di personalità (cosa peraltro già nota) finisce per rivalutare tutte le altre psicoterapie mediamente efficaci su questo disturbo, tra le quali c’è anche la CBT di Beck, in genere accusata di non essere utile per questi problemi. Non basta. Prendere atto che l’EMDR (eye movement desensitization reprocessing, citazione) non mostri superiore efficacia sul disturbo post traumatico da stress finisce per rivalutare la grande alternativa sempre più trascurata e data per scontata se non superata, che è appunto la CBT. Non è superata affatto, ma è padrona del campo (APA, 2017).

Ci si potrebbe chieder perché ci si dimentica con troppa facilità che la CBT è utilizzabile anche per i disturbi di personalità e per il PTSD. Purtroppo questo è anche il frutto del pregiudizio sempre più diffuso che la CBT sia utile solo per certi disturbi facili come l’aspirina utile per carità, ma solo per il raffreddore, mentre invece quando le cose si complicano, ovvero quando ci sono comorbilità, difficoltà relazionali o gravi traumi passati ci vuole ben altro e devono entrare in campo i duri. È la retorica del paziente difficile che in qualche modo surrettiziamente suggerisce che la CBT funzioni solo per pazienti facili. In tal modo si è finiti per sottolineare eccessivamente e incongruamente la supposta e mai dimostrata maggiore efficacia di altre terapie come la DBT oppure, semplicemente per dimenticare che l’EMDR non ha mai detronizzato a CBT per la cura del disturbo post traumatico da stress e semmai si era solo candidata per una coreggenza. Fallendo. Oggi si scopre che questa candidatura non ha avuto successo e che nella revisione dell’APA la terapia più efficace è la CBT (APA, 2017).

Ora però, senza nulla togliere all’intelligenza dell’operazione di Cheli, va notato che tutta la costruzione del suo discorso sembra tradire un tentativo di insinuare dubbi sulla CBT. Si dice che l’APA contraddice se stessa sui gold standard e si pensa subito alla CBT. Poi si scopre che la CBT non è colpita dalla revisione ma non lo si dice. Il tutto accade inavvertitamente. Insomma, Cheli espone una serie di considerazioni abbastanza condivisibili sui limiti attuali dello sviluppo scientifico della psicoterapia: la moltiplicazione degli orientamenti psicoterapeutici e la loro tendenza a presentarsi come paradigmi che si escludono a vicenda.

Inoltre Cheli conclude di superare queste difficoltà invocando, come molti fanno, la solita integrazione come assemblaggio del meglio da prendere qua e là. Tuttavia il sospetto è che Cheli, sebbene auspichi un atteggiamento più integrativo, in fondo abbia le sue idee e queste siano soprattutto di diffidenza verso il riduzionismo metodologico che si incarna nei dati di efficacia della CBT e questa diffidenza si manifesti in un modo di presentare i dati che suggerisce che questa efficacia della CBT sia da ridimensionare, salvo poi evitare di dire con chiarezza che la messa in discussione riguarda altre terapie e non la CBT. Insomma, la situazione è caotica, salviamoci facendo un minestrone che integra un po’ tutto ma dalla ricetta escludiamo l’ingrediente CBT che è troppo riduzionista per le finezze della complessità, un po’ come mettere il ketchup su un piatto della raffinata cucina italiana.

Forse Cheli esprime una storica rivalità e diffidenza interna al campo del cognitivismo clinico, quella tra costruttivismo radicale e CBT classica, rivalità ormai così accentuata, sia in Italia che all’estero, da aver generato una crescente estraneità reciproca sempre più difficile da superare, tanto da chiedersi se ha ancora senso raccogliere i due campi sotto l’ombrello comune dell’etichetta del cognitivismo clinico. Un ombrellone che ormai è talmente ampio da coprire un’intera spiaggia. La contrapposizione tra complessità sempre più ermeneutica e riduzionismo scientifico è così forte da generare atteggiamenti come quello di Cheli, che dietro il velo dell’integrazione tradiscono un movimento ben preciso di crescente avvicinamento al modello psicodinamico e distacco dal modello CBT classico, e la cui principale arma è sempre il seminare dubbi sull’efficacia e la reale applicabilità clinica del gold standard della CBT propagandato dall’APA. Di qui il temporaneo grido di gioia alla pubblicazioni di dati dell’APA che contraddicono i gold standard.

In conclusione Cheli sembra proporre una contrapposizione tra due strategie scientifiche alternative, una riduzionista che punta allo studio di poche variabili controllabili e che sarebbe a rischio di semplicismo e un’altra che mira alla complessità ma perde di efficacia nella replicabilità e generalizzabilità. Questa contrapposizione somiglia un po’ alla vecchia opposizione filosofica tra analitici e continentali proposta da Franca D’Agostini nell’ormai lontano 1997, tra una filosofia anglo-sassone che punta alla semplicità replicabile e un pensiero europeo che insegue la complessità irripetibile. Sostenere provocatoriamente che l’APA contraddice se stessa può essere la manifestazione di uno storico fastidio continentale per le semplificazioni anglo-sassoni.

Stabilita questa dicotomia, Cheli se la cava elencando pregi e difetti delle due strategie e auspicando una via mediana che combini il meglio delle due vie ed evitando i difetti. Non siamo sicuri che questa via mediana esista. La scienza non è una saggezza aristotelica e antica in cui basta imboccare il giusto mezzo per ottenere i risultati migliori ma un metodo in cui si fanno scelte strategiche in cui si privilegiano alcuni obiettivi a scapito di altri: economicità riduzionistica del numero delle variabili per ottenere controllabilità e replicabilità dei risultati o complessità per ottenere maggiore rappresentatività complessiva sono strategie diverse che rispondo a obiettivi diversi e forse perfino a culture diverse.

Storicamente la scienza moderna -da quando Newton ridusse il modello del funzionamento del mondo fisico alle poche leggi della dinamica che si limitavano a predire alcuni fenomeni e non dicevano nulla del significato dell’esistenza del Cosmo- ha preferito la prima strada. Alcune forme di filosofia continentale europea (ma queste sono semplificazioni geografiche) hanno preferito la strada della complessità. È possibile che a volte nello studio della psicologia degli individui occorra aggiungere analisi di continentali a un approccio che rimane analitico ma ci pare difficile operare una sintesi che unisca il meglio dei due mondi.

Commento all’articolo di Gazzillo

Chi se ne approfitta di questa posizione ambigua di Cheli e più in generale del costruttivismo è Gazzillo il quale presenta il consueto armamentario retorico dello scetticismo radicale sul valore dei risultati empirici. Non a caso Gazzillo cita Feyerabend, filosofo della scienza (o dell’anti-scienza) il cui massiccio lavoro di svalutazione del valore della scienza empirica rimane nascosto dietro una serie di argomentazioni che sono sottili. Chi è Feyerabend? Feyerabend è uno studioso che suggerisce che dietro ogni risultato scientifico ci siano interessi economici e politici. Si tratta di un metodo di lavoro che ha i suoi meriti finché è utilizzato nei suoi limiti, ovvero di comprendere le conseguenze sociali e storiche delle scoperte scientifiche. Meno valido se è usato come strumento di confutazione dei risultati empirici stessi. Che certe scoperte o certe psicoterapie siano particolarmente adatte a certi sistemi economici può essere utile per capirne il significato storico ma non ne inficia il valore scientifico. Purtroppo invece è proprio questo il metodo di lavoro di Feyerabend e anche –almeno in questo articolo- di Gazzillo. Feyerabend non a caso si è autodefinito metodologicamente un leninista. Ora mettiamo da parte tutto il romanticismo che ispira ad alcuni la figura di Lenin e cerchiamo di capire ben in concreto cosa significhi questa rivendicazione leninista di Feyerabend, che è raggelante.

Raggelante perché Feyerabend si riferisce al metodo di ricerca filosofica (ma non scientifica) che Lenin usò nel suo famigerato libro Materialismo ed empirio-criticismo, un libro in cui Lenin, in breve, sostenne che tutti i risultati della scienza moderna da Galileo in poi (scienza moderna definita spregiativamente “empirio-criticismo”) sarebbero da secoli al servizio del capitalismo e, quindi, tutti falsi. Mentre i risultati del materialismo dialettico marxista sono veri in quanto al servizio della classe operaia. Quella di Lenin fu un’argomentazione solo lievemente meno rozza e capziosa di quella utilizzata dai nazisti che ritenevano di confutare la scienza empirica moderna (che Lenin, ribadiamolo, chiama empirio-criticismo come se fosse una parolaccia) come scienza ebraica. Libero Gazzillo di seguire i binari di Feyerabend e di suggerire nascostamente che la CBT sia particolarmente compatibile con il capitalismo o forse al suo servizio e quindi per questo discutibile se non falsa, ma si tratta di argomentazioni capziose con le quali difficile discutere.

E qual è l’alternativa di Gazzillo? Qual è il suo personale materialismo storico e dialettico da contrapporre all’empirio – criticismo della CBT serva del capitale? Lo sappiamo già: il modello dei fattori comuni, della centralità della relazione e del verdetto di Dodo nel quale tutte le psicoterapie sono uguali e hanno la stessa efficacia. Meno però la CBT che in questa distopia rovesciata dei fattori comuni fa sempre la figura della terapia troppo semplice che sembra funzionare meglio ma solo in laboratorio mentre nella realtà funziona un po’ meno delle altre. Insomma nel verdetto di Dodo tutte le terapie sono eguali ma la CBT è peggio.

Quel che è interessante nelle argomentazioni di Gazzillo è come in esse emerga con chiarezza la natura nichilistica del verdetto di Dodo e del modello dei fattori comuni. Si tratta dell’ipotesi dell’assoluta ininfluenza dei paradigmi teorici, del modelli di cambiamento e delle tecniche specifiche a essi associati a favore di un modello comune che è emerso non da teorie ma dalla spontanea attività dei terapeuti, tutti inconsapevolmente adagiati su un processo relazionale che si attiva da solo malgrado e nonostante le intenzioni del terapista, povero illuso convinto di essere uno psicoanalista o un CBT. Quel che crede di essere poco importa. La conseguenza di questo indifferentismo e la generazione di una pratica clinica di tipo sapienziale che ritiene irrealistico ogni progresso fondato su procedure controllabili e risultati misurabili ma basato su un tale livello di personalizzazione del trattamento da sfociare nella più completa impossibilità di pianificare terapie specifiche per la diagnosi, dalle procedure trasparenti e replicabili e di cui sia possibile stimare prognosi affidabili e fondate. Il paziente è completamente nelle mani di un terapista sacerdote che non deve dare conto a nessuno se non al suo supervisore, in un’ottica gerarchica appunto sapienziale e corporativa.

Commento all’articolo di Dimaggio

Mentre Gazzillo concerta una chiara polemica anti CBT, nel commento di Dimaggio emergono i problemi del tentativo di chi cerca di assumere una posizione intermedia. Il fascino di questo commento risiede proprio nella dialettica tra volontà di integrazione e inevitabile incompatibilità tra un approccio cognitivo che privilegia il lavoro riduzionista sulle funzioni e approccio costruttivista che tende all’olismo. Il luogo in cui questa contraddizione diventa più evidente è nella critica, molto cara a Dimaggio, che l’autore fa al cosiddetto “magic bullett”. L’uso che Dimaggio fa di questo termine è naturalmente dispregiativo: magic bullett evoca un ingenuo e (ancora una volta) riduzionistico cercare quella che in italiano chiameremmo la bacchetta magica. Eppure questo termine segnala ancora una volta una differenza culturale di fondo che separa il terreno cognitivo da quello costruttivista, a quanto pare sempre radicale, a cui in fondo appartiene anche Dimaggio. Da una parte il metodo consapevolmente riduzionista della scienza empirica (o empirio criticista alla Lenin?) che cerca i colli di bottiglia strategici per agire in maniera risolutivamente efficace. Da questo punto di vista occorre perfino dare ragione per certi versi a Feyerabend. La scienza empirica moderna nasce cercando i magic bullett da sparare sui colli di bottiglia strategici in cui è possibile non solo conoscere la realtà ma anche individuare i punti significativi di controllo per cambiarla tecnologicamente. È proprio una visione della conoscenza che è capacità di controllare la realtà e che è oggettivamente rivolta a generare conseguenze pratiche. Ancora una volta si contrappone una posizione sapienziale e contemplativa a una operativa. Eppure qualche anno fa Dimaggio si era reso conto di questa dicotomia strategica in un articolo interessante pubblicato su State of Mind in cui aveva raccontato come passeggiando per Berna un collega svizzero gli avesse spiegato come le reti stese ai lati dei ponti avessero diminuito significativamente il tasso di suicidio in città. Questa spiegazione aveva lasciato freddo il troppo costruttivista Dimaggio in quanto gli era sembrato che in tal modo non si agisse sulla globalità del problema ma su un aspetto periferico. Forse ciò che disturbava Dimaggio era la pretesa di agire con su un collo di bottiglia risolutivo mediante un magic bullet: le reti appunto.

È intrigante seguire Dimaggio nel suo articolo in cui, da persona intelligente qual è, fa ammenda del suo pregiudizio anti riduzionista e comprende come cercare un magic bullett che agisca su un collo di bottiglia non significhi affatto non tenere conto del contesto globale, anzi al contrario utilizzarlo in vista del massimo risultato. Il problema sono invece proprio quei modelli globali che più che il contesto aspirano a comprendere l’inafferrabile complessità e in tal modo, non volendo mai focalizzarsi sulle giunture strategiche su cui agire, finiscono per diventare affreschi affascinanti e pittoreschi ma più descrittivi che davvero esplicativi. La scienza moderna, a differenza di quella antica, non è contemplativa ma operazionale e per questo segue il riduzionismo che non è onniesplicativo ma strategicamente esecutivo e quindi, va detto, orientato alla tecnica e alla tecnologia, per quanto queste parole possano intimorirci. I principi della dinamica di Newton non intendevano, a differenza del sistema aristotelico, dare conto del senso metafisico dell’esistenza del cosmo ma solo individuare dei nodi strategici -pochi: solo tre- su cui era possibile agire sulla realtà fisica e controllarla.

Il problema è che forse il cognivitismo clinico italiano paga un tributo alla sua radice continentale europea di cui non è facile liberarsi. Lo stesso Dimaggio in un altro articolo di alcuni anni fa confessa che “Anni fa avevo una posizione radicalmente anticomportamentista, non senza un certo livello di sdegno intellettuale. Ero di matrice costruttivista Kelliana al quale si affiancava un background di psicoanalisi interpersonale (alla Kohut e Mitchell). Nel corso degli anni ho cambiato idea radicalmente”. Questo tipo di retroterra costruttivista con un pizzico di esperienza in terapia psicodinamica è abbastanza comune nel cognitivismo clinico italiano e potrebbe spiegare una nostra persistente difficoltà a comprendere la forza scientifica del comportamentismo il cui riduzionismo è troppo spesso scambiato per semplicismo.

Torniamo alla critica, suggerita da Dimaggio quando scrive che certi studiosi d’oltremanica non sanno di cosa stanno parlando, che il funzionalismo sia poco attento alla complessità del reale. A questa critica si risponde che il funzionalismo è semmai attento al contesto e non alla complessità, come lo stesso Dimaggio aveva capito sui ponti di Berna (ma poi ha dimenticato tutto?). Nel funzionalismo l’analisi del contesto non è in contrapposizione con la ricerca del collo di bottiglia strategico su cui agire, che sia il rimuginio o l’attenzione. Al contrario è possibile che sia proprio la scarsa operatività del concetto di complessità proprio della tradizione costruttivista radicale che la rende alla lunga inadatta non solo alla costruzione di protocolli ripetibili di efficacia verificabile ma anche a una pratica clinica quotidiana poco monitorata.

A questo proposito occorre riflettere anche sulla contrapposizione che Dimaggio opera tra realtà clinica e trial clinici sperimentali. Ancora una volta si affrontano una supposta complessità e un altrettanto supposto semplicismo da laboratorio i cui risultati non sarebbero trasferibili nella realtà effettuale. Come si risolve questo dilemma? In molti casi ci sembra nella ricerca di una ineffabile esperienza emozionale correttiva, ieri relazionale oggi sensoriale e corporea (tra qualche anno vedremo, questi integrazionisti cambiano idea spesso). Esperienza emozionale perché? Perché è la vera alternativa continentale alla supposta freddezza razionalistica della CBT classica.

Contrapporre i trial alla realtà clinica come fa Dimaggio significa ancora una volta cadere in una dicotomia sterile. I trial clinici, se ben condotti secondo criteri di rigore, sono invece degli strumenti non solo di ricerca scientifica ma anche di formazione clinica. Lungi dall’essere degli ambienti artificiali, i trial clinici al contrario impongono delle condizioni cliniche estremamente impegnative per il clinico ma non per il paziente, clinico che deve intensificare al massimo grado le sue capacità di good practice per riuscire a stare dentro i binari di aderenza ai protocolli in maniera flessibile e amichevole per il paziente. Come un musicista impara a stare dentro i tempi non nella libertà ma nella costrizione del solfeggio e delle prove, così per un clinico partecipare a un trial è un’occasione irripetibile di gestione di un percorso apparentemente rigido in cui però è lui –il clinico – a dover mostrare la massima flessibilità. Sia l’esperienza personale che le comunicazioni di Riccardo Dalle Grave e di Gabriele Caselli sulla loro esperienza in trial hanno confermato che queste prove, lungi dall’essere artificiali, sono ricche di insegnamento non solo sulle tecniche stesse, ma anche su quelle abilità relazionali che spesso sono decantate in maniera teorica come proprie solo di altre terapie ma che sono altrettanto ben padroneggiate in ambito funzionalista ma denominate con termini più umili e operativi e meno reboanti, come good practice.

Commento all’articolo di Mancini

Infine il commento di Mancini. Per molti versi è quello che ci sembra il più coerente con lo sviluppo del cognitivismo clinico internazionale. Il punto in cui si discosta è la valutazione del processualismo. La scelta anti-processualista di Mancini è consapevole e coerente e quindi più che rispettabile. Per Mancini sembra che occorra muoversi nell’ambito delle cognizioni di seconda onda ma alzandole di livello, passando dalle credenze cognitive agli scopi esistenziali. Naturalmente Mancini privilegia le credenze e gli scopi del sé sulla colpa, tema su cui lui ha realizzato ricerche rigorose che hanno ampliato e reso più sofisticato il concetto di responsabilità alla Salkovskis. Tuttavia, ci pare che nel momento in cui Mancini definisce “ingenuo” il tentativo di sviluppare un modello processuale e funzionalista della sofferenza emotiva scelga un percorso strutturalista (ma non sapienziale; Mancini rimane sempre nell’abito scientifico, va detto) che è coerente con la sua storia perché sviluppa e prosegue l’impostazione di Castelfranchi. Notiamo però che anche Mancini ha avuto i suoi periodi di attenzione al funzionalismo quando ha tentato di integrare il modello di Tversky e Kanheman nel suo modello del disturbo ossessivo; peccato non abbia proseguito quella strada che sembrava essere una via manciniana al funzionalismo. Mancini poi ha avuto anche il suo periodo neo-romantico quando ha collaborato con Jonson Laird e la sua teoria iperemozionale della sofferenza emotiva. Infine l’approdo finale a un modello esistenzialista degli scopi sembra promettente ma, a nostro parere, andrebbe integrato in un modello definitivamente funzionalista. Gli scopi, se non inseriti in un modello psicopatologico di tipo funzionalista della sofferenza emotiva che tenga conto dei processi psicopatologici (non troppo differenti dagli antichi circoli viziosi studiati in Italia a suo tempo da Sassaroli e Lorenzini) da soli rischiano di essere incapaci di distinguere tra stati mentali non disfunzionali e stati psicopatologici. I contenuti degli scopi di un paziente, ad esempio lo scopo di sicurezza di un ansioso, sono altrettanto presenti ma in maniera più ragionevole nei non pazienti. Ciò che li rende psicopatologici è l’irrigidimento funzionale e processuale e non il loro contenuto. Detto questo, Mancini ha poi ragione nel sostenere che per una buona formulazione del caso è necessario anche descrivere i contenuti degli scopi.

Rimane il problema che in tal modo si rischia di rimanere al bivio tra processualismo e costruttivismo. Ma va bene così: meglio rimanere al bivio e rimanere comunque davvero cognitivisti, come fa Mancini, piuttosto che imboccare un ramo costruttivista e integrativo che col cognitivismo funzionalista non ha più nulla a che fare.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
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Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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Presidente Gruppo Studi Cognitivi, Direttore del Dipartimento di Psicologia e Professore Onorario presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • American Psychological Association (2017) PTSD Treatments. Available here
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