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I risultati che non ti aspetti

Le riflessioni che il lavoro di Sakaluk e colleghi muove sono di vario genere, i dati che ne emergono sono infatti da interpretare con cautela

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 16 Set. 2019

Aggiornato il 30 Set. 2019 11:27

Ho un rapporto conflittuale con gli studi di efficacia in psicoterapia. Una parte di me li ritiene indispensabili, il vero pilastro che ci ha fatto uscire dal mondo prescientifico. Una parte di me li ritiene divertenti, il gioco della scienza- Un’altra parte di me invece li legge con inevitabile nervosismo..

 

Primi di agosto, appena arrivato in Puglia dopo una settimana all’Isola di Elba. Mi arriva un messaggio whatsapp di Simone Cheli.

Giancarlo, leggi questo”. Lo leggo. Vado a nuotare.
Giancarlo lo hai letto?
”.
Che ti sembra?
Un bel casino”.
Ci ragiono su.

Un articolo di Sakaluk e colleghi (2019) in cui rivisitano gli studi di efficacia che portano alle linee guida per la cura dei vari disturbi. Una mazzata.

Ho un rapporto conflittuale con gli studi di efficacia in psicoterapia.

Una parte di me li ritiene indispensabili, il vero pilastro che ci ha fatto uscire dal mondo prescientifico, dell’ipse dixit, del: “Siccome lo dice il mio maestro, la terapia della mia scuola è meglio della tua, stacce”.

Una parte di me li ritiene divertenti, il gioco della scienza, quella componente competitiva che, ammettiamolo, fa parte della mente scientifica, quel gusto di arrivare prima, meglio e più in alto degli altri. Il nostro campionato, il nostro US Open, quell’imitare Federer e Nadal seduti sulla poltroncina di studio e poi davanti al nostro computer a ragionare sui dati raccolti.

Un’altra parte di me (siamo a tre, lo so, ma non è strano, basta basarsi su modelli che vedono il Sé molteplice e non ci si preoccupa) li legge con inevitabile nervosismo che nessuno esercizio di mindfulness placa. Il motivo? Nella maggior parte dei casi sono fatti da scienziati con seri problemi di miopia. Testano modelli di terapia basati su una concezione così semplicistica della psicopatologia, mirano un numero così limitato di variabili psicologiche e, soprattutto, sono ultrabrevi. Otto sedute. Sedici sedute. Allarghiamoci, 24 sedute. Non ne sono immune, bene che lo confessi subito. Con il mio collega Raffaele Popolo ci siamo messi in questa League di partite a durata ridotta e abbiamo disegnato un protocollo di gruppo di 16 sedute e lo abbiamo testato in un primo RCT (Randomized Controlled Trial) (Popolo et al., 2018); ora lo stiamo replicando in un RCT più ampio. E ai risultati ci teniamo tanto. Era un modo di entrare in classifica, altrimenti non ti considerano, tutto qui, gli altri giocano in campionato e tu sui campetti di periferia sperando che un osservatore competente ti noti, ma non avviene, perché per arrivare dove giochi tu la strada è dissestata e polverosa.

Ma la questione della durata ha da tempo superato il suo obiettivo originale, contrastare la follia della psicoanalisi a tempo indeterminato, si sieda sul lettino e vediamo che succede. Poi dopo 10 anni eri ancora lì. Quella missione è compiuta. Ora a dettare la durata è il potere del denaro, una scienza dettata dalla mancanza di risorse e dalle assicurazioni. Tagli al budget, rimborsi limitati, questo paziente te lo affido per due mesi, fai tutto quello che devi fare e poi ciao ciao, salut, adios, goodbye. I ricercatori, specie di stampo anglosassone, non so per quale motivo, prendono molto sul serio queste terapie lampo, ci credono, ne fanno una missione, si beano della loro intelligenza di laboratorio. Sono alla ricerca del mitico bersaglio perfetto sul quale mirare il magic bullet. Pensiero intrusivo, rimuginio, bias attentivo. Colpisci lì e otterrai la terapia vincente, più rapida ed efficace delle altre. È la logica per cui se hai un trauma ti fanno giocare a Tetris nelle unità antitrauma del pronto soccorso. Così carichi la memoria visuospaziale e impedisci alle immagini intrusive di prendere campo nella mente. Emily Holmes al congresso WCBCT di Berlino ne parlava tutta soddisfatta. Forse si sarebbe data un premio da sola.

Simone Cheli fa presa su questo sottofondo tutto personale. Leggo e rileggo l’articolo e gli chiedo consulenza su come interpretare i dati statistici. I risultati sono, a dir poco, esplosivi. La metodologia la descrive con grande chiarezza Cheli stesso nel suo target article per State of Mind. I risultati?

Alcune terapie ne escono molto bene: comportamentali e cognitive per l’ansia generalizzata, CBT per il disturbo ossessivo-compulsivo (ci sta tutta) e la schizofrenia (qui ho i miei dubbi ma è un altro discorso), terapie espositive per fobie specifiche (se non le conoscete e non avete un training specifico, imparatele, anche se non venite da scuole cognitiviste).

Altre ne escono a pezzi. Fra tutte, le terapie per l’anoressia. Nessuna delle attuali terapie considerate empiricamente supportate per questo disturbo tiene alla prova delle analisi effettuate da Sakaluk e colleghi.

Alcune terapie ne escono ridimensionate, 3 fra tutte: l’attivazione comportamentale per la depressione, la DBT per il disturbo borderline e l’EMDR per il PTSD. La DBT non va meglio in realtà delle altre terapie per lo stesso disturbo, e il grado di prove per la sua efficacia appare modesto. Nella cura del PTSD, l’affidabilità degli studi di efficacia a sostegno dell’EMDR è invece nettamente minore di quelli a favore della Cognitive Processing Therapy e della Prolonged Exposure.

Sakaluk e colleghi spiegano bene che il loro articolo non va interpretato come una conferma del Dodo bird, ovvero che tutte le terapie hanno la stessa efficacia, ma che in molti casi chi vince è il Don’t know bird, ovvero non sappiamo se quella terapia è veramente efficace, allo stato attuale delle cose molto meno di quanto si pensasse.

Le riflessioni che questo lavoro muove sono di vario genere. La prima è che si tratta, come sempre, di dati da interpretare con cautela, scommetterei qualche centinaio di euro che presto arriveranno altre meta-analisi che solleveranno dubbi sui risultati di questa.

La seconda è che fattori sociali e politici pesano sulle scelte formative molto di più di quelli scientifici. E ho solo vaghe idee dei motivi. Un esempio? Pensate alla terapia per il PTSD. Guardatevi intorno, chiedete ai vostri colleghi. Quanti si sono formati nella Cognitive Processing Therapy e nella Prolonged Exposure. La mia idea è che forse non ne troverete neanche uno, dipende da quanto ampia è la vostra rete di conoscenze. Quanti si sono formati nell’EMDR? Ecco, esatto. Tanti. Alla luce delle prove di efficacia che, al di qua dello studio in questione, non hanno mai mostrato un’efficacia dell’EMDR superiore alle terapie precedenti per il PTSD, qual è il motivo di questo bias formativo? Non l’efficacia clinica, non ci sono prove a supporto.

E per quanto riguarda la DBT? Idem. Quanti colleghi non vedevano l’ora di imparare ad applicare le skills per ridurre gli atti autolesivi nei loro pazienti borderline? Sembrava quasi che se non applicavate gruppi di skills training nel trattamento di questi pazienti avreste dovuto vergognarvi. Se avete provato quell’emozione, ora lo sapete, non ne avevate motivo.

Il problema dell’anoressia? Siamo seri: non esiste un clinico con un filo di esperienza che abbia mai creduto che l’applicazione sic et simpliciter dei protocolli CBT (o di altro genere) per questo problema, fosse davvero risolutiva. I risultati di questa meta-analisi confermano quello che gli esperti sapevano, la cura per l’anoressia va ancora costruita e quello che esiste finora è una serie di tasselli lontani dal formare una figura completa.

E quindi? Ripeto, i risultati di questo lavoro ci dicono che alcuni dati di efficacia sono solidi. Quello che a me pare più evidente è che la combinazione di esposizione e riflessione tipica della terapia che include esperimenti comportamentali e riflessione cognitiva post-esperimento funziona bene e solidamente in alcune patologie specifiche. E poi emerge che per molte altre patologie i risultati sono poco affidabili. Serviranno nuovi studi di efficacia? Sì, molti. Ma disegnati bene.

Cosa serve in particolare? Modelli di terapia che:

  • a) si basino su una lettura della psicopatologia che ne rispetti i molteplici meccanismi e non riduca tutto a un solo target. Senza mezzi termini, una terapia che colpisca solo uno tra: disregolazione emotiva, evitamenti comportamentali, mancanza di abilità sociali, mentalizzazione, rimuginio, bias cognitivi, pensieri intrusivi nasce claudicante;
  • b) si basino su una formulazione individualizzata del caso, possibilmente condivisa col paziente, coerentemente con quanto osserva Francesco Gazzillo in un altro commento al lavoro di Cheli. In quest’ottica è sempre possibile avere un focus allo stesso tempo su una determinata psicopatologia ma mantenendo una formulazione individualizzata del caso. Breve esempio: posso trattare due ragazze anoressiche sapendo che dovrò affrontare problemi tipici della restrizione calorica, che le accomunano, e allo stesso tempo formulare un caso in termini di: “Devo essere magra perché altrimenti sarò brutta e rifiutata” e un altro in termini di: “Devo essere magra perché se metto su peso sarò più femminile e quindi oggetto di minaccia sessuale”. In entrambi i casi dovrò mettere in atto strategie perché queste ragazze mangino regolarmente, riprendano peso, ma la strada a cui ci arriverò passerà per percorsi relazionali del tutto differenti;
  • c) siano di durata ragionevole.

È bene mirare a essere efficaci nel più breve tempo possibile. Ma pretendere che tra terapie di 8 sedute emerga quella definitiva non è sensato. È necessario rendersi conto che ci vorrà più tempo, specie in pazienti con comorbilità (ovvero la stragrande maggioranza). Bisogna pensare a terapie da un lato ragionevolmente breve, dall’altro che abbiano il tempo di affrontare i problemi effettivamente presenti. È possibile e sensato. I medici non curano il diabete per due mesi. Non tengono la pressione bassa per 12 settimane. Non danno anticoagulanti per 10 giorni. Danno i farmaci al dosaggio minimo efficace per il tempo necessario: breve o lungo che sia. Perché la psicoterapia nella sua declinazione empirica deve sfuggire a questo minimo di sensatezza?

 

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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