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Quando possiamo dichiarare empiricamente supportata una terapia?

In una recente meta-analisi molti degli approcci indicati come gold standard nelle linee guida APA non sarebbero realmente supportati dalle evidenze

Di Simone Cheli

Pubblicato il 02 Set. 2019

Aggiornato il 30 Set. 2019 11:26

In una meta-analisi appena uscita su una rivista della American Psychological Association (APA) molti dei mostri sacri della psicoterapia cadono di fronte alla spietatezza dello statistical power

 

I Paradosso: l’APA smentisce l’APA

E poi ti alzi una mattina e scopri che in una meta-analisi appena uscita su una rivista della American Psychological Association (APA) molti dei mostri sacri della psicoterapia cadono di fronte alla spietatezza dello statistical power e la stessa Divisione 12 dell’APA (Society of Clinical Psychology) viene smentita! L’articolo afferma infatti che molti degli approcci indicati come gold standard nelle linee guida APA non sono realmente supportati dalle evidenze. La riga conclusiva dell’abstract afferma:

per un numero limitato di terapie empiricamente supportate l’evidenza relativa rimane robusta secondo vari indicatori; l’evidenza è parziale o significativamente debole per molte (terapie), anche per varie classificate come robuste dalla Divisione 12 dell’APA (Sakaluk, Williams, Kilshaw & Rhyner, 2019).

Sebbene non sia la prima volta che esperti autorevoli mettono in dubbio l’efficacia della psicoterapia, devo ammettere un certo sgomento nello scorrere le 10 pagine di tabelle in cui la psicoterapia è esposta al pubblico ludibrio! Tra le maggiori sorprese vi è ad esempio scoprire che la DBT per il disturbo borderline di personalità, la riattivazione comportamentale per la depressione e l’EMDR per il trauma mostrano evidenze ben al di sotto di quelle ipotizzate e formulate dalla Divisione 12. Vi sono poi patologie (es. anoressia nervosa) dove la carenza di dati è tale da suggerire forme di assessment e intervento più prossime alla ricerca che non alle EST (Empirically Supported Therapies).

Sakaluk e colleghi (2019) hanno cercato di rispondere alla domanda: quali sono le reali evidenze delle cosiddette Empirically Supported Therapies (EST)? E di conseguenza ci si è chiesti se il grading (il livello con cui sono classificati gli interventi) presente nelle linee guida APA sia realmente attendibile o debba essere rivisto. Dunque un giornale e un team di ricerca dell’APA… smentiscono l’APA! Se state pensando che questo articolo segni la fine dei ben noti gold standard della psicoterapia moderna la risposta è no! I risultati dell’articolo rimarcano come solo alcune delle EST definite robuste lo sono davvero e come la definizione delle linee guida debba affrontare un processo di revisione. Questo, non temete, non significa che tutto vale o tutto è senza valore!

II Paradosso: la significatività statistica potrebbe non essere significativa

Lo studio nasce dal riconoscere una serie di debolezze metodologiche delle quali alcune travalicano i confini della psicoterapia, altre le sono proprie. Pertanto il razionale delle critiche APA all’APA ruota attorno alle metodologie utilizzate per il succitato grading. Una EST è robusta (strong) se ha ripetutamente dimostrato un’efficacia significativamente superiore (p<.005) rispetto all’assenza di trattamento, ad un placebo o ad un altro trattamento alternativo. Sebbene questo sistema sia un miglioramento rilevante rispetto al passato, l’affidamento alla significatività statistica tradizionale espone a notevoli rischi metodologi.

Recentemente la rivista Nature ha rimarcato la necessità di superare l’onnipresente significatività statistica, vista l’erronea tendenza da parte di metà degli articoli scientifici a considerare la “non-significatività” un sinonimo di mancanza di effetto (Amrhein, Greenland & Mc Shane, 2019). L’uso di una singola soglia probabilistica (l’onnipresente “p” è una probabilità teorica nell’accettare un’ipotesi) ha due effetti deleteri: (I) ci fa pensare in maniera monodimensionale e dicotomica la rilevanza di uno studio; (II) ci fa credere che quel che definiamo significativo sia di conseguenza reale. Se state pensando che noia mortale questo post… lo posso capire! Provate però anche a pensare che se in psicopatologia usiamo una stima di efficacia monodimensionale e dicotomica rischiamo di avvallare il vecchio principio per cui il mondo si divide in maniera netta tra sani e folli, tra normalità e anormalità. E tanti saluti ai modelli dimensionali, ai processi transdiagnostici e alle prassi cliniche del nostro agire quotidiano.

Senza dover scomodare l’ultimo secolo di storia dell’epistemologia penso sia evidente come la scienza moderna che tanto decanta la complessità resti spesso ancorata a metodologie e presupposti ben poco moderni e a mind-set ortodossi ed assai poco pragmatici. In psicoterapia questo ha portato alla creazione di fazioni avverse di ricercatori con comportamenti più affini a quelli di un conclave che di un consesso scientifico. Ad un estremo abbiamo il ricercatore che persegue una strategia di minimizzazione del rischio e si espone a focalizzarsi solo su variabili sperimentalmente controllabili con metodologie ben lontane dalla complessità del reale.

All’altro estremo abbiamo il ricercatore che persegue una strategia di massimizzazione del vantaggio e per ottemperare ad una visione assolutamente complessa finisce per utilizzare parametri non ripetibili e dunque non validi. Trattasi sempre di strategie di evitamento: una più apollinea che ricerca l’irraggiungibile spiegazione del tutto tramite le parti, una più dionisiaca che si inebria del tutto dimenticandosi le parti.

E come spesso succede nelle guerre tra fazioni, prese di posizione e principi aprioristici la scienza diviene un po’ meno scienza.

Marvin Goldfried (2019) sostiene come la totale frammentazione della psicoterapia indichi uno stadio pre-paradigmatico della disciplina, ovvero quella fase storica che Kuhn colloca prima dello sviluppo di un paradigma di ricerca definito. Quel che è certo è che la mancanza di studi di replicazione è uno dei drammi metodologici della psicoterapia: si testa sempre nuovi modelli senza mai corroborare o smentire quelli esistenti. Vi sono poi errori metodologici meno evidenti come il fatto che nelle scienze sociali circa il 50% degli studi riportino almeno un errore di trascrizione dei dati e che solo il 44% ottenga realmente il potere statistico auspicato anche quando viene calcolato l’effect size (Szucs & Ioannidis, 2017). La meta-scientific review in questione ha cercato di bypassare tutti questi bias metodologici utilizzando dei parametri specifici che ambiscono a supportare lo sviluppo di linee guida più attendibili. Se vi state chiedendo come leggere le 10 pagine di tabelle vi consiglio di partire dal Replicability-Index (R-Index) che vuole offrire un potere statistico basato sul valutare quanto sia plausibile un set di effetti descritti da uno studio, o dal Bayes Factor (BF) che rappresenta un tentativo di bypassare la struttura dicotomica della significatività usando una funzione continua (ovvero la verosimiglianza bayesiana, dove la probabilità non è legata al risultato ma bensì al parametro).

III Paradosso: una scienza che si presupponga priva di bias ha almeno un bias

Mentalizzare che aver lo stesso approccio o ancor meglio conoscere l’editor di una rivista fa fare un balzo alle tue probabilità di pubblicare fu come mentalizzare che Babbo Natale non vive con gli elfi in Lapponia. Non fu affatto gradevole. Prima pensai che se anche in società scientifiche non aduse ai costumi latini ci si muove per conoscenze allora vi è ben poca speranza. Poi mi ricordai che la scienza è fatta da uomini e che anche la credibilità personale e relazionale di un ricercatore non è un parametro secondario. Non possiamo non riconoscere la natura sociale e socializzata della scienza. E questo vale tanto per le sue manifestazioni più vitali e prolifiche quanto per quelle più regressive e lobbistiche. Bruno Latour, uno dei geni della moderna epistemologia, condusse una sorta di spedizione antropologica in un notissimo centro di ricerca. Ne venne fuori un libro che descrive la presunta oggettività scientifica come la risultante di dinamiche sociali e interpersonali poste ad un livello sovraordinato rispetto a metodi ed evidenze: la costruzione dei fatti è sempre una costruzione sociale e non esiste un al-di-fuori dal contesto di riferimento (Latour &Woolgar, 1986).  Dunque è impossibile pensare ad una scienza priva di bias e svincolata dal contesto sociale degli uomini che le danno vita e valore. Se riconosciamo l’ineludibilità di tutto questo, possiamo serenamente procedere per tentativi, prove ed errori. Possiamo lavorare per migliorare le procedure di definizione delle nostre linee guida considerando sia gli aspetti tecnici-metodologici che quelli interpersonali-sociologici.

Concludendo, la cattiva notizia è che vi sono variabili che hanno condizionato la formulazione delle linee guida APA ponendo tra i gold standard interventi che richiedono ulteriori verifiche per potersi definire tali. E pertanto non possiamo dichiarare immodificabile la metodologia con cui si stabiliscono i grading. E’ opportuno rivedere le procedure statistiche coerentemente con un’idea moderna di scienza e al contempo riconsiderare quanto poco monitoriamo le variabili interpersonali e sociali. Sakaluk e colleghi (2019) hanno inserito una variabile per monitorare gli errori di trascrizione, ma non hanno preso ad esempio in considerazione se gli studi di efficacia su singoli approcci sono testati da ricercatori non affiliati a questi stessi approcci, se vi è un equo investimento di risorse nei gruppi di controllo, o se vi è una randomizzazione dei terapeuti tra condizione sperimentale e di controllo.

La buona notizia è che l’APA stessa ha promosso e pubblicato uno studio che la obbliga ad andare a revisione, mettendo in discussione la stessa procedura alternativa proposta da Sakaluk e colleghi (2019). Questo aspetto apparentemente secondario rimarca l’importanza di una comunità scientifica al contempo pluralista, per favorire l’emergere di opinioni contrastanti, e al contempo integrata, per superare la continua frammentazione di linguaggi e tecniche (Cheli, 2018). Per quanto Einstein non gradisse la meccanica quantistica nessuno (neanche Einstein) si è mai sognato di considerare il lavoro di Schroendinger altro dalla fisica!

Post Scriptum

Al fine di non considerare i rimandi al pluralismo scientifico semplici chiacchiere vacanziere, ho importunato per un commento Francesco Gazzillo, Giancarlo Dimaggio e Francesco Mancini (ndr: commenti che a breve pubblicheremo su State of Mind), confidando che avrebbero avuto proprie ed alternative letture dell’articolo in questione.

 

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