C’è poco da fare, dopo tutti questi anni il timore che la psicoterapia sia un’arma di conformismo sociale di massa continua a tormentare i cosiddetti intellettuali.
Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 16 marzo 2019
La psicoterapia cura l’anima ma crea conformisti? È un sospetto che è stato sollevato non poche volte. La stessa psicoanalisi ne fu accusata quando raggiunse negli anni ‘50 il culmine del suo successo come cura per la sofferenza emotiva. In seguito, da Fromm in poi, ribaltò l’accusa tornando alla testa della contestazione negli anni ’60.
Era vero però che nel decennio precedente alcune forme di psicoanalisi avevano partecipato a un intenso moto di adattamento sociale e psicologico. Un moto che aveva senso: occorreva stabilizzarsi dopo i disastri delle guerre mondiali, dopo gli eccidi della prima metà del secolo. Negli anni ’60 si doveva ridiscutere tutto e così avvenne: fu una rivoluzione sociale e culturale. Inizia in quegli anni la definitiva secolarizzazione di massa dell’occidente, si affacciano alla vita – e al mercato – i teenager, i costumi sessuali si liberalizzano. Esplodono le utopie sia individualistiche che comunistiche, e poco male se in questo sommovimento di idee e d’illusioni la protesta finisca per abbracciare anche un cadavere come il marxismo, ma questa è un’altra storia che sfocia nei più lugubri anni ’70. Nei ’60 fu tutta una festa, beati loro.
C’è poco da fare, dopo tutti questi anni il timore che la psicoterapia sia un’arma di conformismo sociale di massa continua a tormentare i cosiddetti intellettuali. Con una complicazione: prima il campo era tutto della psicoanalisi e il dubbio amletico di essere servi del potere era tutto interno a quell’orientamento. Ora le psicoterapie si sono moltiplicate fin troppo e si preferisce rinfacciarsi il peccato originale a vicenda.
Da qualche anno tocca a Umberto Galimberti dare dei conformisti ad altri psicoterapeuti. A chi, precisamente? Agli psicoterapeuti cognitivo-comportamentali. Già nel 2005 così si era espresso:
sia il cognitivismo sia il comportamentismo, in quanto “psicologia del conformismo”, assumono come ideale di salute proprio quell’esser conformi che, da un punto di vista esistenziale, è invece il tratto tipico della malattia.
Dal 2005 in poi Galimberti ha varie volte ripetuto questa idea. La risposta infine è arrivata: Giancarlo Dimaggio – che fa terapia cognitiva, naturalmente – si è fatto sentire sull’inserto La Lettura del Corriere della Sera del 30 dicembre 2018 ripubblicato su State of Mind, ricordando che la psicoterapia cognitivo-comportamentale è – tra tutte le psicoterapie – quella più scientificamente confermata.
Tutto bene? In parte sì. Rimane il sospetto che noi psicoterapeuti – ieri psicoanalisti oggi cognitivisti – sembriamo attardarci un po’ troppo nelle giustificazioni. Troppe volte siamo lì ad assicurare il prossimo che la psicoterapia non è serva del potere o del capitalismo e tantomeno del conformismo. Sarà così? Forse che sì forse che no. O forse è irrilevante e la psicoterapia dovrebbe smetterla di giustificarsi. Che senso ha domandarsi se la psicoterapia sia figlia del capitalismo? La psicoterapia è semplicemente un mestiere, una professione e, come tale, ha i suoi limiti. Laddove invece essa – incolpata di partecipare alla decadenza dei tempi – s’interroghi sul suo impatto sullo spirito del mondo o sul senso dell’esistenza essa tradisce una tentazione sacerdotale. Conviene alla psicoterapia ergersi a movimento spirituale? Fuggevole ma alla lunga deleteria soddisfazione. Troppo spesso ci siamo intrattenuti con la similitudine tra il prete e lo psicoterapeuta, dicendoci forse non solo che il prete di ieri era un po’ come lo psicoterapeuta di oggi perché dava ascolto alle sofferenze emotive della gente, ma anche che lo psicoterapeuta di oggi è come il sacerdote di ieri perché la sua funzione non può limitarsi a quella del professionista della salute e deve incidere sul significato spirituale del nostro esistere nel mondo.
Questa visione non è laica. La psicoterapia si va sempre più professionalizzando e non può occuparsi del dilemma sociale e filosofico del conformismo. Non ne è all’altezza. Semmai deve volgere lo sguardo più in basso. Si richiedono livelli di aderenza a procedure replicabili sempre più precise. Si richiedono livelli di aggiornamento sempre più continuativi nel tempo. Non ci si illuda poi quando si parla un po’ pomposamente di relazione terapeutica. Per quanto in questo termine si annidi una residuale tentazione sacerdotale, man mano che la relazione terapeutica è sempre più studiata essa si proceduralizza a sua volta in misura crescente. Sebbene ci si sia a volte intrattenuti con una definizione vaga e ineffabile di empatia che risuona di accenti estatici e spiritualeggianti, sebbene ci si sia troppo affezionati agli aspetti più affettivi del legame terapeutico, ormai si insiste sempre di più con definizioni operative degli interventi relazionali: formulazione condivisa del caso, condivisione del razionale degli interventi, negoziazione degli obiettivi, regolazione del contratto terapeutico, validazione e self-disclosure. Sebbene nessuno si sogni di sostenere che una buona relazione terapeutica possa essere decisa a tavolino, sempre più è chiaro che essa debba essere promossa proattivamente mediante tecniche specifiche.
Occorre ammetterlo: se per capitalismo si intende la società dell’efficienza e della tecnica, non sta alla psicoterapia, intesa come strumento individuale di cura della salute emotiva, affrontare i possibili guasti sociali e spirituali di questo sistema economico. Al contrario, la psicoterapia come professione moderna deve essere consapevole di essere nata in epoca moderna all’interno del sistema economico capitalistico, non a caso sostituendo il prete per contrasto e non per somiglianza: per inaugurare una impostazione professionistica e non spirituale della cura dell’anima. La psicoterapia non può fare altro che addossarsi il compito di diffondere salute mentale con i modi propri della modernità in cui è nata: professionalità tecnica basata sulla scienza. Più di questo a essa non si può chiedere. Eventuali scenari futuri di superamento dell’attuale sistema capitalistico in favore di una nuova epoca storica post-capitalistica possono essere auspicabili ma sono totalmente al di là di quello che può promettere una buona psicoterapia. Semmai è compito di altre figure, tra le quali forse anche i filosofi di cui parla Galimberti, fare questo. E che lo facciano. Che svolgano il loro compito storico magari puntando a ben altro che a limitarsi a promuovere il counseling filosofico, come sembra suggerire lo stesso Galimberti, in una singolare involuzione acrobatica in cui improvvisamente passa da grandiose aspirazioni di palingenesi spirituale e cosmica a una misera adesione a una pratica di mercato come quella di aprire uno studio di counseling. Più capitalista di così.