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Il futuro dei primi 1000 giorni di vita. Psicologia clinica perinatale: prevenzione e interventi precoci (2018) di Antonio Imbasciati e Loredana Cena – Recensione

Antonio Imbasciati e Loredana Cena, tra i maggiori esponenti della Psicologia Clinica Perinatale in Italia e a livello internazionale, con Il futuro dei primi 1000 giorni di vita vogliono trasmettere l’importanza della prevenzione nei primi mille giorni del bambino, ovvero dalla gestazione ai due anni, “la matrice decisiva da cui si originerà la futura persona adulta” (p. 18).

 

Ma di quale prevenzione ci parlano?

Il futuro dei primi 1000 giorni di vita: perchè sono fondamentali

Per comprendere a pieno ci spiegano innanzitutto come avviene la formazione del Mindbrain (mentecervello) del bambino: le reti neurali e il loro funzionamento si costruiscono attraverso gli apprendimenti, che avvengono per la maggior parte nelle relazioni con i caregivers. La mente del bambino dunque, si sviluppa in base a quella che è la qualità della struttura neuromentale di chi si occupa di lui, e la mente del caregiver che si occupa del bambino è stata determinata da chi, a sua volta, si è occupato di lui. Ecco quindi l’effetto domino, o effetto cascata, della transgenerazionalità.

I bambini che hanno sofferto restano vulnerabili alle successive esperienze; è difficile quindi recuperare con buone esperienze coloro che da piccoli hanno vissuto dei traumi psichici. Allo stesso modo, se la prima matrice neuromentale che si forma nelle prime fasi di vita è efficiente nei confronti di una buona evoluzione, quel bambino potrà essere resiliente anche a future esperienze difficili.

L’oggetto di intervento, dunque, dovrebbero essere i genitori. Come già John Bowlby sosteneva,

se una società vuole veramente proteggere i bambini, deve cominciare con l’occuparsi dei genitori.

Il futuro dei primi 1000 giorni di vita: interventi su coppie e famiglie

Gli obbiettivi della psicologia clinica perinatale, di conseguenza, sono quelli della prevenzione a lungo termine per la salvaguardia della transgenerazionalità e la cura preventiva della coppia a rischio nel percorso generativo. Ci sono infatti numerosi eventi negativi che possono portare alla compromissione della sintonia della coppia: complicanze della gestazione, aborti, nascite premature, sindromi paterne, depressione puerperale, complicanze dell’allattamento. Queste possono portare alla compromissione dello sviluppo del bambino, che si può esprimere sotto forma di disturbi di vario tipo: problematiche alimentari, del sonno, pianto intenso, malattie.

Un’ulteriore precisazione va fatta, tuttavia, sull’intervento con le famiglie: nel modello presentato che si rifà al contributo di Dina Vallino, non si va ad intervenire sui genitori, ma con i genitori.  Nell’intervento psicologico l’operatore non è il soggetto attivo che agisce e prescrive, e i genitori i soggetti passivi: si deve attuare una “consultazione partecipata” in cui l’esperto funge da lente di ingrandimento affinché i genitori si rendano conto dei messaggi che inconsciamente stanno trasmettendo al figlio, e che stanno formando il suo cervello. Al contrario un intervento direttivo e/o prescrittivo andrebbe a mobilitare le difese genitoriali, col risultato di essere inefficace.

Il futuro dei primi 1000 giorni di vita: contenuti del volume

Vediamo ora nello specifico cosa va a trattare Il futuro dei primi 1000 giorni di vita, steso con la collaborazione di altri autori di spicco della Psicologia Clinica Perinatale e che va ad integrare l’Infant Research, la Psicoanalisi, le Neuroscienze e la Teoria dell’Attaccamento.

I primi sei capitoli presentano gli aspetti maggiormente attuali della ricerca empirica nell’area della perinatalità: lo sviluppo neuro-psico-somatico del feto e del bambino, l’emergere del Sé corporeo dal contatto fisico, l’impatto della depressione materna post-natale e la genitorialità fallimentare.

Dall’ottavo al quindicesimo capitolo vengono trattate alcune applicazioni in atto: l’intervento precoce sulla depressione post-partum; la giocoterapia focale con bambini e genitori che va ad operare sulle problematiche alimentari e dell’evacuazione; l’utilizzo clinico del video-feedback e del CARE-index; l’Early Child Intervention e l’Early intervention attacment-based sulla nascita sia a termine che pretermine; il massaggio infantile.

Negli ultimi undici capitoli vengono effettuate principalmente considerazioni sociali e antropologiche inerenti con alcune importanti tematiche della psicologia perinatale: la nascita pretermine, il lutto perinatale, il suicidio e il figlicidio materno, l’infertilità e gli interventi di PMA (Procreazione Medicalmente Assistita).

Il volume va a chiudersi con alcune stimolanti considerazioni psicosociali sulla formazione degli operatori, le mutazioni culturali, il diritto alle cure nell’epoca perinatale, i tagli finanziari ai servizi psicologici.

Il futuro dei primi 1000 giorni di vita: l’importanza della psicologia clinica perinatale

Per concludere, ciò che Imbasciati e Cena hanno voluto trasmettere ai professionisti della perinatalità, è che

a cominciare dal concepimento fino a circa i primi due anni dopo la nascita, in questi mille giorni, si decide la costruzione di quel particolare cervello che incarnerà la mente che in quell’individuo potrà svilupparsi nella rimanente sua vita e che condizionerà, a sua volta, la propria genitorialità e da questa il futuro Mindbrain dei figli; e dei figli dei figli, nell’orizzonte transgenerazionale (p.15).

Di conseguenza la prevenzione da promuovere, è quella che va ad agire sulle capacità della mente dei genitori di accudire i figli e la possibilità di applicarla. In questo senso la Psicologia Clinica Perinatale ha anche un vero e proprio scopo sociale: sensibilizzare la cultura generale, anche a livello popolare, affinché le conoscenze attuali sulle scienze della mente possano penetrare nella società.

 

Il sessismo nella vita di coppia: diamo voce alle donne

Il sessismo può prendere diverse forme, può manifestarsi nella convinzione che nessun uomo sia completo se non ha accanto a sé una donna che lo ama e pertanto spetti a lui il compito di prendersene cura, proteggerla e provvedere ai suoi bisogni, così come il privilegiare candidati di sesso maschile per ruoli dirigenziali perché “più autoritari”

 

Chiaramente, per quanto entrambi gli esempi costituiscano situazioni in cui avviene una discriminazione basata sulla presunta disparità tra uomo e donna, nel primo caso gli esiti non saranno apertamente lesivi per la compagna: parliamo infatti di sessismo benevolo; mentre si tratterà di sessismo ostile ogni qualvolta vi siano atteggiamenti dispregiativi, di minaccia fisica o psicologica, o apertamente punitivi, volti a mantenere la dominanza dell’uomo sulla donna e a perpetrare la validità dei ruoli (e quindi degli stereotipi) di genere tradizionali (Glick & Fiske, 1996).

Il sessismo nelle nostre società

La letteratura scientifica riporta come vi sia un’incidenza preoccupante del sessismo ostile nelle nostre società (Brandt, 2011; Glick et al., 2000, 2004) e di come esso porti come conseguenza atteggiamenti aggressivi o violenti verso le donne sia nella sfera lavorativa o sociale, che nell’intimità della relazione di coppia: le donne in posizione di leadership vengono percepite come più aggressive, fredde ed avide (Glicket al., 1997); a parità o superiori competenze le donne venivano scartate in favore dei candidati di sesso maschile (Gervais & Hillard, 2011; Ratliff, Redford, Conway, & Smith, 2017; Rudman & Kilianski, 2000).

Le compagne degli uomini sessisti ostili venivano da loro giudicate più negativamente, come più manipolatorie e con minor investimento nella relazione (Hammond & Overall, 2013; Cross, Overall, Hammond & Fletcher, 2017); i partner sessisti si dimostravano più inclini alla violenza verbale (Forbes, Adams-Curtis & White, 2004; Martinez-Pecino & Duràn, 2016) e fisica sia durante le liti che nella quotidianità (Cross et al., 2017; Hammond & Overall, 2013a; Overall, Sibley, & Tan, 2011), dimostrando inoltre un atteggiamento più benevolo verso la violenza domestica e la convinzione che fosse la donna ad aver meritato tale trattamento (Cross et al., 2017; Hammond & Overall, 2013a; Overall, Sibley, & Tan, 2011).

Al di là del quadro allarmante appena tratteggiato, è possibile notare come gli studi citati si siano focalizzati sul determinare le conseguenze di un’attitudine sessista sul comportamento dell’uomo, tralasciando quali siano i vissuti della donna che ne è oggetto: sembra paradossale, ma nella ricerca sul sessismo si è tralasciato di considerare il punto di vista della donna.

Il sessismo e le sue conseguenze nella coppia

Un nuovo studio condotto da Cross & Overall (2019) dell’Università di Aukland, Nuova Zelanda, si è proposto di colmare questa lacuna indagando in che modo le attitudini sessiste ostili influenzino l’esperienza di coppia per la controparte femminile.

Sono stati raccolti in modo congiunto i dati relativi a 363 diadi (726 individui), i partecipanti hanno compilato l’ Ambivalent Sexism Inventory (ASI; Glick & Fiske, 1996) per valutare le attitudini sessiste dei due membri della coppia, prendendo in considerazione sia il sessismo ostile che quello benevolo (22 items totali), per ottere un indice dei problemi esperiti è stato poi somministrato il Marital Problems Inventory (Geiss & O’Leary, 1981), che indaga svariati aspetti problematici nella coppia, dalla comunicazione, al prendere decisioni, alle lotte di potere; l’Investment Model Scale (Rusbult, Martz, & Agnew, 1998) è stato da ultimo utilizzato per ottenere una valutazione sulla coppia in termini di soddisfazione relazionale e di commitment.

Gli uomini, ma non le donne, che esibivano sessismo ostile hanno riportato un numero maggiore di problemi relazionali e di maggiore intensità; quando era il partner ad essere sessista, le donne riportavano come problematiche più rilevanti quelle della lotta di potere, della risoluzione dei problemi così come il decision making; lo stesso non avveniva nel caso in cui fosse la donna ad avere tali credenze.

I conflitti maggiori imputabili ai ruoli di genere avvenivano quando era l’uomo ad essere portatore di atteggiamenti sessisti; la gravità della gelosia e la preoccupazione circa il tradimento venivano predetti dal grado di sessismo esibito dal compagno, indipendentemente dal sesso, suggerendo un impatto sulla fiducia reciproca. Logicamente, le lotte di potere si rivelavano più aspre quando era l’uomo ad avere un atteggiamento sessista, al contrario della situazione inversa, che registrava i tassi più bassi di conflittualità (dal momento che la donna stessa si fa in questo caso portatrice delle rivendicazioni maschili, Chen et al., 2009; Glick & Fiske, 1996; Glick et al., 2000).

Come conseguenza di tali presupposti, anche il livello di soddisfazione relazionale e commitment calavano in funzione del grado di sessismo del partner; curiosamente, quando l’ostilità sessista era perpetrata dalla donna, i loro partner riferivano minori problemi relazionali e maggior soddisfazione e commitment in generale, ad eccezione della tematica della gelosia e della paura del tradimento che viene comunque vissuta in maniera conflittuale.

Sessismo e ricadute a livello sociale e lavorativo

Escludendo l’implicazione del sessismo benevolo nel determinare le casistiche appena descritte, si è notato come esso fosse però associato ad una maggiore gravità dei conflitti riguardanti le finanze, la vita lavorativa e di famiglia, sebbene questo non coincidesse con un calo nella soddisfazione percepita dalle donne. Conversamente, il sessismo benevolo nell’uomo comportava un minor numero di conflitti sulle dinamiche di potere intrinseche alla coppia, addirittura migliorando la soddisfazione generale riportata dalle compagne.

Seppur con le dovute limitazioni, il presente studio fornisce delle informazioni cruciali per valutare gli effetti del sessismo sull’esperienza relazionale vissuta dalle donne, tuttavia, se davvero il sessismo emerge dalla necessità di preservare il privilegio maschile dalla minaccia dell’uguaglianza tra i sessi e la nostra società si muove invece sempre più verso un’ideale di parità (almeno formale), è facile intuire come tale discrepanza sia destinata ad ingenerare sempre maggiori ostilità, non soltanto nella sfera della vita di coppia, ma anche sul posto di lavoro e nelle relazioni interpersonali, rischiando di esporre le ragazze ad agiti aggressivi o violenti.

Il ruolo protettivo della differenziazione emotiva rispetto allo sviluppo di depressione in adolescenza

In adolescenza la capacità di differenziazione emotiva risulta inferiore rispetto a quella di bambini di età minore o degli adulti ed è esattamente in questa fase di vita che la depressione ha un incremento significativo.

 

Il concetto di differenziazione emotiva (Emotion Differentiation, ED) si riferisce alla specificità della rappresentazione e dell’esperienza delle emozioni o, in altre parole, alla capacità di eseguire distinzioni fini e sfumate tra emozioni simili tra loro.

In letteratura è più volte emerso come una buona capacità di differenziazione emotiva risulti positivamente associata ad una regolazione emotiva e a un funzionamento psicosociale adattivi (Smidt & Suvak, 2015). Le emozioni sono infatti in grado di comunicare numerose informazioni all’individuo, quali, ad esempio, il suo stato motivazionale, il suo livello di attivazione emotiva (arousal), la valenza dell’emozione provata nonché la valutazione cognitiva della situazione che ha causato tale emozione (appraisal). L’individuo, per discernere con precisione il tipo di emozione provata in uno specifico momento, deve poter integrare tutte queste informazioni, le quali, a loro volta, possono essere utilizzate per prevedere lo sviluppo futuro dell’esperienza emotiva e le strategie di coping più adattive per la sua regolazione.

L’importanza della differenziazione emotiva in adolescenza

Uno studio di Starr e colleghi (2019) recentemente pubblicato su Emotion si concentra, in particolare, sulla differenziazione delle emozioni negative (Negative Emotion Differentiation, NED) in adolescenza. I ricercatori hanno evidenziato che gli adolescenti in grado di descrivere le proprie emozioni negative in modo preciso e ricco di sfumature hanno una minore probabilità di sviluppare sintomi depressivi a seguito di eventi di vita stressanti.

Coloro che riportano scarse capacità rispetto alla differenziazione delle proprie emozioni negative tendono a descrivere le proprie emozioni in termini più generici (“Mi santo male” invece di “Sono triste”, “Sono arrabbiato”, “Sono annoiato”) e per questo risultano meno in grado di beneficiare delle informazioni fornite dai propri stati emotivi negativi, rendendo più complessa una loro regolazione efficace.

In particolare, in adolescenza la differenziazione delle emozioni negative risulta inferiore rispetto a quella di bambini di età minore o degli adulti ed è esattamente in questa fase di vita che la depressione ha un incremento significativo.

Ricerche precedenti hanno evidenziato un’associazione significativa tra depressione e scarse capacità di differenziazione emotiva, anche se non è stato ancora chiarito se una scarsa differenziazione delle emozioni negative predisponga all’insorgere di sintomatologia depressiva o se invece la differenziazione delle emozioni negative sia una conseguenza dell’instaurarsi di un quadro depressivo.

Lo studio

Starr e colleghi (2019) hanno reclutato nell’area di Rochester 233 adolescenti aventi un’età media di circa 16 anni (il 54% del campione era composto da ragazze). In primo luogo sono state condotte interviste diagnostiche volte a valutare la presenza di sintomi depressivi nei partecipanti e, in un secondo momento, è stato chiesto loro di riportare le proprie emozioni 4 volte al giorno per un periodo di 7 giorni. Un anno e mezzo dopo, i ricercatori hanno condotto interviste di follow-up con 193 dei soggetti del campione originale per valutare i risultati a livello longitudinale.

Al termine della ricerca è emerso che gli adolescenti che dimostravano una minore capacità di differenziazione emotiva negativa risultavano maggiormente predisposti allo sviluppo di sintomi depressivi a seguito di eventi di vita stressanti. Coloro che, invece, dimostravano un’elevata capacità di distinguere con precisione le proprie emozioni negative risultavano maggiormente in grado di gestire le conseguenze emotive e comportamentali risultanti dall’essere stati esposti a eventi stressanti, riducendo di conseguenza un incremento incontrollato di emotività negativa e, quindi, il possibile concretizzarsi di un quadro depressivo clinicamente significativo.

In conclusione

La depressione in adolescenza interrompe lo sviluppo sociale ed emotivo, fattore che può causare a sua volta conseguenze negative, quali problemi interpersonali, ridotta produttività, scarsa salute fisica e abuso di sostanze. Inoltre, le persone che sviluppano una sintomatologia depressiva in adolescenza risultano maggiormente a rischio di avere episodi depressivi ripetuti lungo il corso di vita.

La ricerca di Starr e colleghi (2019) ci informa sull’importanza di sviluppare trattamenti clinici per la depressione in adolescenza che includano anche un rafforzamento delle abilità di differenziazione emotiva, specialmente per quanto riguarda le emozioni negative.

Schema Therapy: un viraggio processualista e metacognitivo? – Report dal Congresso Mondiale di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

Nella sua lezione magistrale, Arntz non cerca di offrire una dimostrazione di efficacia della Schema Therapy, ma affronta in maniera critica due aspetti centrali nel modello teorico della Schema Therapy: gli stili di coping e i bisogni fondamentali dell’individuo.

 

La Schema Therapy (ST) è un approccio cognitivo-comportamentale di promettente efficacia nel trattamento dei disturbi di personalità. In particolare, i dati sono piuttosto consolidati per il Disturbo Borderline di Personalità, ma alcuni studi recenti hanno mostrato che la stessa efficacia potrebbe essere estesa anche agli altri Disturbi di Personalità (Bamelis et al., 2014). Nel corso del nono congresso mondiale delle terapie cognitivo-comportamentali che si sta tenendo in questi giorni a Berlino, i dati a sostegno della Schema Therapy vengono come al solito riassunti da Arnoud Arntz, uno dei suoi più importanti promotori.

Tuttavia, l’aspetto più interessante della lezione magistrale di Arntz non risiede nell’ennesima dimostrazione di efficacia della Schema Therapy, che consolida dati già conosciuti, ma nell’analisi critica che lo stesso Arntz pone in evidenza rispetto al modello teorico di riferimento.

Il concetto di schema e gli stili di coping

La teoria originaria, come fu sviluppata da Jeffrey Young (Young, Klosko & Weishaar, 2003), era principalmente un modello clinico e non scientifico, nato dal tentativo di descrivere ciò che si vedeva e che accadeva nello studio del terapeuta. Il riferimento alla psicologia generale era ridotto. E in questo lo stesso Arntz evidenzia almeno due problemi critici.

Il primo, e forse più significativo, riguarda gli stili di coping. La Schema Therapy suggerisce che strutture mentali caratterizzate da convinzioni su di sé e su aspetti del mondo (gli schemi), organizzino l’elaborazione delle informazioni e conseguentemente siano responsabili della vulnerabilità e della sofferenza emozionale. I pazienti con Disturbi di Personalità tenderebbero a gestire i propri schemi maladattivi attraverso tre stili di coping: resa, evitamento e ipercompensazione. Questa concettualizzazione delle modalità di coping ha portato con sé una certa ambiguità poiché confonde l’azione del paziente focalizzata sul mondo esterno (es. evito le situazioni che lo schema identifica come pericolose) da un’azione focalizzata sul proprio mondo interno (es. mi alieno dalla situazione per diventare insensibile alle espressioni del mio schema).

Arntz sottolinea che gli stili di coping non sono primariamente interpersonali (es. ingigantisco le mie qualità per ottenere ammirazione dall’altro) ma rappresentano soprattutto un tentativo di regolazione intrapsichica (es. ingigantisco le mie qualità per non sentirmi inferiore, cioè per negare l’esperienza opposta). Ne consegue una proposta da parte di Arntz orientata a ri-concettualizzare gli stili di coping secondo una nomenclatura che sottolinei maggiormente la funzione mentale cui sottendono, vale a dire la gestione di un’esperienza interna. La resa diventa rassegnazione: mi convinco che ciò che esprime lo schema sia vero e vi aderisco. L’evitamento diventa evasione: evado con la mente verso altri lidi per annullare l’attivazione dello schema. L’ipercompensazione diventa inversione: combatto contro ciò che esprime lo schema aderendo a una credenza opposta.

Sono questioni di lana caprina? Direi di no. A guardar bene la proposta di Arntz indica un vero e proprio spostamento paradigmatico che sembra spingere la Schema Therapy un po’ fuori dal mondo strutturalista (non del tutto, gli schemi restano), e più vicina ai modelli processualisti (Sassaroli, Caselli & Ruggiero, 2016). Non solo processualista in realtà, ma anche più metacognitiva, in quanto muove in modo netto l’attenzione teorica verso rapporto tra l’individuo e i propri stati interni, soprattutto in termini di relazione con le proprie convinzioni (beliefs) espresse nello schema.

Ma quindi il futuro della Schema Therapy è una teoria processualista? Allo stesso modo direi di no, almeno non per ora. Gli schemi restano nel loro ruolo di strutture stabili che organizzano l’elaborazione delle informazioni. Però qui oggi Arntz trascura un elemento di vulnerabilità di tutti gli approcci strutturalisti: attraverso quale meccanismo uno schema governa l’elaborazione delle informazioni? Forse tra qualche tempo tornerà su questo tema.

La classificazione dei bisogni innati

Si concentra invece su un secondo problema teorico: la classificazione dei bisogni innati, dalla cui frustrazione emergerebbero gli schemi maladattivi precoci. Arntz ammette che la distinzioni dei bisogni innati espressa da Young in principio aveva una semplice valenza pragmatica, senza fondamenti empirici. Però così e rimasta fino a ora. E ancora una volta, un approccio che giunge all’età matura e che risulta promettente non può oggi trascurare quelle debolezze teoriche che furono peccati tollerabili durante la sua giovinezza.

Qui però la proposta di Arntz è meno solida, più che altro sbrigativa. Il tentativo è quello di schiacciare i cinque bisogni di Young (sicurezza, libertà di espressione, autonomia, limiti realistici e spontaneità) entro una concettualizzazione teoricamente più solida e corroborata da dati empirici (Dweck, 2017) che però ne prevede tre primari (accettazione, competenza, prevedibilità) e quattro secondari (fiducia, controllo, autostima e coerenza) aggiungendone poi uno (non si sa bene perché), vale a dire il bisogno di equità.

I due modelli vengono semplicemente presentati sovrapposti. Non è dato sapere sulla base di cosa è stato selezionato quello alternativo, o si può dire di seconda generazione. Forse il tempo della lezione non ha concesso spazio sufficiente. Oppure il passaggio è stato volutamente rapido, un tentativo di transizione immediata verso una nuova direzione che offre più sicurezza. Un po’ come un agile scatto per togliersi un dente dolente. Se così fosse la classificazione precedente potrà essere semplicemente dimenticata.

In conclusione

Difficile dire in questo momento se i mutamenti teorici potranno avere un impatto sulle applicazioni future della Schema Therapy, se da proposta diverranno canone, se da concettualizzazione diverranno guida per future evoluzioni della tecnologia terapeutica. Certo erano necessarie.

Va dato il merito ad Arntz di non essersi arroccato su posizioni ideologiche, di aver riconosciuto debolezze teoriche e di essere in procinto di esplorare alternative. Che la Schema Therapy senta il bisogno ora di recuperare una solidità scientifica della propria teoria è evidente e questo è positivo. Almeno si riduce per tutti il rischio di nuovi approcci che funzionano ma non si sa mai bene perché. Però occorre ricordare anche che c’è sempre anche un rischio in questi mutamenti teorici applicati a posteriori: (1) l’impatto che il cambiamento teorico ha sulla tecnologia e sulla sua applicazione da parte dei terapeuti, (2) il rischio che si crei confusione e si mescolino prospettive teoriche vecchie e nuove sia nei terapeuti che conseguentemente per i pazienti.

In sintesi, è un passaggio interessante, probabilmente necessario, con buone prospettive ma che non potrà avvenire in sordina.

La dipendenza tra patologia e giurisprudenza. Il dipendente chi lo cura?

Realtà consolidata, la denominazione di “Dipendenza Patologica” sopraggiunta con l’ultima versione del DSM-V, va a sostituire la classica dicitura “Tossicodipendenza”, infatti nell’ultima versione del DSM-V troviamo nella categoria “Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction”, importanti novità, oltre che elementi di continuità.

 

Preme sottolineare questi elementi di novità per una maggiore comprensione: nell’ultima versione sparisce la differenza tra abuso e dipendenza, dando risalto ad un continuum su tre livelli di gravità; in sostanza viene eliminato il concetto di abuso, precedentemente inquadrato come “lieve o iniziale”.

Le dipendenze nel DSM-5

Restano invariati i 13 criteri per la formulazione di una diagnosi, ne sono sufficienti due, escludendone l’astinenza e la tolleranza, in quanto risposte adattive alla sostanza da un punto di vista fisiologico. Sino a 2 o 3 criteri siamo davanti ad una classificazione di tipo lieve, da 4 a 5 moderata e oltre i 6 la classificazione rientra come grave. Viene soppressa la diagnosi di “polidipendenza”, sostituendola con la prassi di fare diagnosi per ogni singola sostanza; viene aggiunta la sindrome da astinenza da cannabinoidi e subentra, però, il concetto di craving (desiderio improvviso e incontrollabile di assumere una determinata sostanza, cibo, comportamento).

Ambito particolarmente rilevante è l’introduzione dei comportamenti di dipendenza senza sostanze: nella fattispecie il Gioco d’Azzardo, che non viene più denominato patologico, in quanto la condizione patologica viene regolata dal brain reward system, nel DSM 5 viene classificata tra le dipendenze, non più sotto un profilo squisitamente di discontrollo degli impulsi. Nella categoria della dipendenze non da sostanze non sono state fatte rientrare né quelle relative ai comportamenti sessuali, né all’uso patologico di internet, in quanto non si è in possesso di documentazione scientifica che possa supportare tale inserimento.

Di fatto, nella clinica non viene suggerito alcun metodo e/o strumento differente da quelli già riconosciuti ed utilizzati in campo, dai servizi pubblici e privati. La distinzione teorica e categoriale fornita dal DSM 5 ed., ci aiuta a comprendere quanto sia inutile e fuorviante la differenziazione terminologica all’interno di un continuum psicopatologico. Infatti abbatte la distinzione, che, per chi è un tecnico del settore ha sentito troppo spesso dire, “tra tossicodipendente e abusatore”. In quanto la distinzione è meramente di fasi: lieve, moderata e grave, non di meno, è doveroso ricordare quanto anche tale distinzione sia puramente teorica, in quanto la linea di demarcazione tra una fase ed un’altra è molto flebile, non per tutti uguale e non è detto che, chi assume sostanze, passi gradualmente per tutte le fasi che abbiamo distinto.

L’atteggiamento giurisprudenziale nei confronti di un dipendente da uso di sostanze

La condizione di dipendenza, all’interno dell’inquadramento giurisprudenziale è un quadro abbastanza complesso nell’ordinamento penitenziario Italiano, in quanto è una situazione che coinvolge diversi settori dell’individuo: fisici, mentali, infettivologici, familiari, sociali, educativi, spesso tutti questi in compresenza. Quando si ha un tossicodipendente che commette reato, tale azione deve ritenersi frutto di una volontà esente da vincoli o è l’assunzione di sostanza in condizione di dipendenza psicologica e sofferenza fisica indotta da sindrome da astinenza a potersi caratterizzare come actio libera in causa?

Al fine dell’accertamento dell’infermità mentale a carico di chi assume sostanze stupefacenti, è necessario dimostrare che tale assunzione ha compromesso permanentemente la capacità di intendere e volere, non viene riconosciuta valida la crisi di astinenza. Così, per il giudizio di responsabilità, non viene attribuito valore alle alterazioni psicosomatiche indotte da sostanza, solo il caso disciplinato dall’art. 95 c.p., accertata cronica intossicazione da sostanze stupefacenti tale da influire in modo parziale e/o totale sulle capacità di intendere e volere. Gli art. 92, 1 comma e 93 c.p. sanciscono la piena imputabilità sul soggetto che commette reato sotto l’effetto di sostanza stupefacente, nell’art. 94 vi è addirittura la previsione di aggravamento della pena qualora il reato sia stato commesso sotto effetto di stupefacenti da soggetto abitualmente dedito all’uso di esse. Volendo perciò sanzionare uno stile di vita, piuttosto che una sporadica tendenza a delinquere.

In materia di continuazione di reati, sino alla legge del 21 febbraio 2006, n. 49 che modifica l’art. 671, per lungo tempo ha negato la possibilità di applicare la disciplina prevista dall’art. 81, comma 2, c.p. al reo che avesse commesso una pluralità di reati come conseguenza dell’assunzione di sostanze stupefacenti e nel perdurare di tale condizione. In quanto si riteneva non sussistere una compatibilità tra lo stato di tossicodipendenza e il medesimo disegno criminoso.

Le evidenze oggettive, i fermenti sanitari di cura all’individuo e le analisi sociologiche degli anni ’70, hanno portato il legislatore a dover modificare l’approccio di mera reclusione, in cui proliferava la sub-cultura del tossicodipendente, dello stile di vita criminoso, della promiscuità e l’espandersi delle malattie infettive, verso un approccio di cultura terapeutica opposta a quella penitenziaria di tipo autoritario. Quindi, il tossicodipendente diviene attore nel suo percorso trattamentale e rieducativo.

Il legislatore con la legge 22 dicembre del 1975, n. 685, disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, tentò di inquadrare lo stato di tossicodipendenza come malattia da curare, in cui tentò di bilanciare la tutela del diritto alla salute e l’esigenza repressiva del fenomeno del consumo delle droghe di massa. Affidò, perciò i due compiti a due apparati distinti: recupero e riabilitazione al settore sanitario e al penale/esecuzione penale ha lasciato il compito della sicurezza. L’art. 84 prevede il diritto di ricevere cure mediche e riabilitazione all’interno degli istituti penitenziari adeguatamente attrezzati per chiunque sia dedito al consumo di sostanze stupefacenti. Di fatto tutto ciò non venne inserito nella prassi penitenziaria.

Sarà necessario attendere il d.p.r. 309/1990, Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti, e le successive modifiche conseguenti sul piano dell’esecuzione penale, per contemplare la de-carcerizzazione del tossicodipendente a favore di interventi socio-sanitari adeguati. L’art. 89 d.p.r. 309/1990 dispone, qualora ricorrano i presupposti per la custodia cautelare in carcere, il giudice, non sussistendo esigenze cautelari di rilevanza, dispone gli arresti domiciliari. Presupposto è che ci sia in atto un programma terapeutico di recupero presso servizi pubblici o strutture private autorizzate ai sensi dell’art. 116, in quanto l’interruzione del programma ne pregiudichi il recupero dell’imputato. Si prevede la possibilità che il provvedimento venga subordinato al programma terapeutico di recupero presso struttura residenziale, stabilendo orari, modalità e controlli necessari ai fini della prosecuzione della pena.

Dipendenze: le possibilità di recupero della giurisprudenza odierna

Allo stato attuale le disposizioni di legge stabiliscono diverse alternative per le cure del soggetto tossicodipendente sia in custodia cautelare che per ciò che concerne l’espiazione della pena, basti pensare all’affidamento in prova, alla sospensione dell’esecuzione della pena per cinque anni, qualora si accerti un esito positivo del recupero dallo stato di dipendenza, l’affidamento terapeutico, lavori di pubblica utilità (art. 73 comma 5 bis, d.p.r. 309/1990)la pena detentiva in extrema ratio per il condannato tossicodipendente dovrebbe essere eseguita presso istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi, cit. art. 95 d.p.r. n. 309/1990. Tali istituti sono rappresentati dagli istituti a custodia attenuata regolamentati dal d.p.r. 30 giugno 2000, n.230, gli ICATT, istituti penitenziari di II livello, cioè quando il detenuto non assume più metadone e non presenta sintomi di astinenza da sostanza.

Detto ciò, la giurisprudenza prevede una ampia gamma di possibilità di recupero a tutela del diritto della salute per il tossicodipendente, prevedendo quindi, una territorializzazione della presa in carico da parte del servizio sanitario nazionale e delle realtà privatizzate che operano nel settore delle dipendenze.

Per questo ricordiamo l’art. 27 comma 3 della nostra Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Lo scopo dell’esecuzione della pena è, perciò, la rieducazione dell’autore di reato. A queste ragioni comprendiamo come la giurisprudenza abbia preferito mettere come prioritario lo stato di tossicodipendenza rispetto al comportamento deviante, concedendo pene alternative all’istituzionalizzazione (arresti domiciliari nei casi di programma terapeutico – art. 89) bilanciando l’esigenza dell’esecuzione penale e la tutela della salute.

Le insidie tra gli approcci alla tossicodipendenza e ai disturbi da dipendenza, tra vecchi e nuovi schemi clinici

Abbiamo visto sinora quelli che sono le nuove differenziazioni cliniche sintomatologiche della dipendenza, che, nel corso degli ultimi decenni hanno subito significative modifiche nelle nuove generazioni. Proseguendo abbiamo fatto un breve e poco esaustivo excursus giuridico sull’approccio al tossicodipendente così come veniva concepito dal legislatore, seguendo quelle erano le linee guida dell’allora ente sanitario nazionale.

Riassumendo l’autore di reato tossicodipendente ha tre alternative una volta nel penitenziario:

  1. Il reo al suo ingresso in penitenziario si dichiara tossicodipendente: verrà sottoposto agli esami di routine per l’accertamento diagnostico, così da poter essere seguito da un punto di vista farmacologico dall’ASL di competenza;
  2. Il reo non si dichiara tossicodipendente al suo ingresso in istituto penitenziario: non riceverà alcun supporto medico-farmacologico;
  3. Il reo è già seguito dal Ser.D, al suo ingresso in istituto penitenziario verrà proseguita la terapia farmacologica

In tutti i casi è prevista di routine esclusivamente l’accertamento e la terapia farmacologica, ma solo a seguito di una specifica richiesta da parte dell’interessato, l’aspetto psico-sociale sarà affrontabile attraverso colloqui con il personale qualificato, concessi in base alle disponibilità, alla lista di prenotazione e alle risorse interne a disposizione.

Come si accennava nel paragrafo precedente, tali soggetti, tossicodipendenti e alcoldipendenti possono usufruire dei casi previsti dall’art. 11, affidamento in prova (disciplinato dall’art. 94 del D.P.R. 309/1990) e la sospensione della pena (disciplinato dall’art. 90 del Testo Unico), quest’ultimo è una misura premiale verso coloro i quali abbiano volontariamente estinto l’uso di sostanze stupefacenti, a differenza del primo che è un sistema terapeutico debitamente certificato e approvato dal Ser.D.

Ci troviamo dinanzi ad una situazione in apparenza semplice e lineare, cosa che, nella pratica clinica e parallelamente giudiziaria, non risulta altrettanto semplice. Infatti, utilizzando la giurisprudenza terminologie che si rifanno ad una clinica oramai desueta, con criteri diagnostici superati da tempo, resta al singolo giurista l’interpretazione della documentazione clinica prodotta a carico del presunto reo. Così la clinica utilizzando una terminologia scientifica, non curante dell’eventuale utilizzo giuridico della propria documentazione, si muovono parallelamente senza incontrarsi e quindi non comunicando adeguatamente i due percorsi.

Quali sono i casi, che oggi sempre più si incontrano, restando borderline tra un trattamento mancato ed una pena scontata o viceversa? Oggi, come abbiamo visto, non si parla più di tossicodipendenza, ma di dipendenza patologica, in quanto il soggetto tipico che abusa di sostanze stupefacenti e alcoliche non è più caratterizzato da sostanze specifiche e quindi trattamenti farmacologici e terapeutici standardizzati, così come ci eravamo abituati sino agli anni 2000. Nell’ultimo ventennio abbiamo avuto modo di osservare un cambiamento radicale nell’abuso di sostanze, prima era presente un distinguo tra i consumatori di eroina, cocaina, alcolici e così via. Ad oggi il dipendente è caratterizzato da un poliabuso, cioè la combinazione di più sostanze illegali oppure l’alcool legato alla sostanza stupefacente. Infatti ci si trova dinanzi alla continua e costante ricerca di uno sballo “controllato”. Infatti i nuovi abusatori cercano quasi con coscienza farmacologica un determinato stato emotivo e/o prestazione sensoriale e mixano la miscela adeguata: cocaina per sentirsi super eroi, eroina per provocare un rallentamento sensoriale, e così via. Le modalità di assunzione non sono più solo quelle standard (via inalatoria ed endovenosa), ma la moda tra gli assuntori dell’ultimo ventennio è il crack, “fumare la bottiglia”; non solo, gli effetti della cocaina sono diversi, più accelerati, compresenza di deliri uditivi e/o visivi, in ultimo le quantità di assunzioni aumentano.

Da questo quadro risulta evidente che anche i criteri diagnostici hanno dovuto modificarsi, l’astinenza è un sintomo più legato alla sfera della psiche che non a quella fisica, la classica terapia metadonica non può sortire gli effetti di contenimento sui poliassuntori, così come avveniva per gli eroinomani. Non vi sono terapie standardizzate per l’astinenza da cocaina, da poliabusi ecc, in quanto spesso si va ad intervenire sulla sintomatologia lamentata dal singolo paziente: disturbi dell’umore, del sonno, piuttosto che deficit dell’attenzione; tutto questo può avere una compresenza di farmacoterapia metadonica o alcover (adeguata per dipendenza da alcool).

L’utenza tipica contemporanea che abusa di sostanze spesso avvisa la necessità di interventi psichiatrici non tipicamente erogati dai Ser.D., infatti lentamente questi servizi si stanno adeguando prevedendo all’interno delle equipe la presenza di un medico-psichiatra che possa intervenire. Attraverso il privato sociale che riesce a raggiungere quel numero oscuro che non afferisce al servizio sanitario nazionale, si può affermare che fin troppi dipendenti da sostanze giungono a compiere reati ma a non usufruire dei giusti interventi per semplici intoppi burocratici, perché nella loro storia da dipendente non hanno accumulato abbastanza documentazione, non sono afferiti al sistema sanitario nazionale, non hanno sviluppato sindromi da astinenza da eroina.

A questa ragione sollevo la questione della discrepanza tra ciò che la giurisprudenza richiede per definire un soggetto affetto da dipendenza patologica e il riscontro con la realtà clinica che ha una visione più ampia dell’essere umano e della sua patologia.

E vissero felici e contenti – Arriva dal Giappone il fenomeno del consorte olografico

Il Giappone ha un rapporto con il virtuale quantomeno inquietante, almeno secondo la cultura prevalente occidentale. Il problema è che la vocazione all’osmotica diade soggetto fisico-soggetto virtuale, tanto forte in Giappone, si sta esportando. Con la viralizzazione, tali fenomeni tracimano ogni confine.

 

Dal Giappone provengono i primi studi sugli hikikomori (i “ritirati sociali” nella traduzione dal giapponese), data la larga diffusione del fenomeno nel paese, poi purtroppo dilagato in altri continenti. Adolescenti fuggiti dal mondo reale per “navigare” in un mare tutto loro, dove trascorrere persino più di tre quarti della giornata catturati dalla “rete” a maglie fitte; con madri angosciate che portano loro persino il cibo presso la postazione, poiché la dipendenza scatenatasi ne ha creato l’incapacità di allontanarvisi; tanto meno per frequentare la scuola, per leggere, per andar fuori con gli amici, per praticare uno sport, insomma per trascorrere del “tempo di qualità”.

La psicopatologia da iperconnessione da web è diffusa prevalentemente fra i ragazzi, corrispettivo femminile dell’anoressia fra le coetanee (Zanuttini, 2018).

Giappone: dai manga agli infulencer digitali

Il Giappone dà pure spunto, con le sue antesignane, alle attuali affascinanti influencer digitali, dotate di intelligenza artificiale, dai moltissimi follower e corteggiate da importanti brand in tutto il mondo. Vale la pena accennare alle origini nipponiche di tale fenomeno: nel 1999, il video artista e cineasta sperimentale francese, Philippe Parreno, insieme a Pierre Huyghe, protagonista assoluto della scena artistica francese e internazionale, acquistarono il copyright e l’immagine digitale di AnnLee, ideata per il mercato dei manga.

AnnLee, selezionata dal catalogo di Kworks (un’agenzia nipponica specializzata nella creazione di personaggi destinati all’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento, tra cui i manga), era stata scartata dalla ditta per rimanere di conseguenza negletta e inutilizzata. Aveva caratteristiche generiche: occhi a mandorla vuoti, tratti appena accennati da aliena, capelli viola. Nella sua prima apparizione per mano dei due artisti francesi – No ghost, just a shell – AnnLee, di per sé un mero guscio, esordiva nel settore dell’arte, per poi assurgere a protagonista di numerosi importanti video – basati sui contenuti con cui di volta in volta veniva riempita da diversi artisti. Ciò attestava come la finzione possa generare nuove realtà in un mondo in cui i confini tra le due istanze sono fluidi e reversibili. Sfruttando gli avanzamenti tecnologici attualmente disponibili, AnnLee oggi farebbe senz’altro concorrenza alla collega digitale LilMiquela, influencer ispano-brasiliana che spopola sull’influencer-marketing, dotata di una grande strategia di storytelling e in grado di far arricchire i prestigiosi brand che essa promuove.

Evitamento delle relazioni sentimentali e matrimoni 2.0

Nella società giapponese le relazioni tra uomo e donna sono sempre più complicate e sono tantissimi i giovani che rinunciano ad avere una vita sentimentale e sessuale. Sulla base dell’indagine condotta a cadenza quinquennale dal National Institute of Population and Social Security Research giapponese (2017) su un campione di soggetti dai 18 ai 34 anni, è emerso che il 70% degli scapoli e il 60% delle nubili non hanno alcuna relazione in corso. Impauriti dal mondo femminile (è la paura delle oniyome, neologismo che significa “spose–demoni”, secondo un vecchio retaggio), terrorizzati dal rischio di subire l’onta di un rifiuto nella fase del corteggiamento, traumatizzati dall’abbandono, lontani dal progetto di formarsi una famiglia: questo il ritratto che emerge dal sondaggio.

In tale contesto, in Giappone – e questo è il focus del presente contributo interdisciplinare cyber-psicologia-economia – è possibile convolare a nozze con un partner virtuale: la nuova frontiera è un matrimonio 2.0, insomma!

Il consorte olografico si annovera nel vasto panorama di personaggi creati dal nulla. Gli ologrammi, infatti, sono forme di realtà virtuali immersi nel mondo reale. Essi rappresentano un “ponte” di frontiera poiché non sono gli esseri umani ad assorbirsi nella realtà virtuale, bensì è quest’ultima che entra nello spazio degli umani. Tale transizione fa sì che la realtà con cui gli esseri in carne e ossa si confrontano è una “realtà aumentata”, cioè ampliata, arricchita e popolata da macchine dotate di intelligenza artificiale e di conseguenza, articolata mediante nuove interazioni fra esseri umani e macchine capaci di apprendere dall’interazione reciproca.

Da qui l’importanza della distinzione fra realtà virtuale e realtà aumentata.

Realtà virtuale e realtà aumentata

La realtà virtuale è immersiva e implosiva, in quanto l’utente abbandona il mondo esterno e viene assorbito in un mondo parallelo che lo coinvolge completamente. Tale mondo parallelo è un ambiente “as if”, in quanto del tutto artificiale, costruito al computer, ma comunque reso del tutto credibile grazie alle raffinate tecnologie che danno la percezione all’utente di far parte e interagire all’interno di quello scenario.

La realtà aumentata arricchisce e potenzia la percezione del mondo esterno con una serie di input aggiuntivi costituiti da soggetti digitali. Quindi, a differenza di quello virtuale, non rappresenta un mondo parallelo. Nel mondo reale le persone si confrontano con nuovi soggetti esistenti – gli ologrammi – e, di conseguenza, con nuovi tipi di interazione. In tal senso, nella realtà aumentata, le persone hanno a disposizione nuove opportunità.

Ne discende che la realtà aumentata ha un surplus rispetto al modo reale e tale surplus è dato dagli ologrammi e dalle dinamiche che si sviluppano dal contatto con essi. In tale prospettiva, un ologramma può essere visto, entro certi limiti, come un succedaneo (sospendendo ogni giudizio di valore) di un essere umano.

Ma queste potenzialità sono interpretabili sempre e comunque in modo positivo, in quanto aprono nuove opportunità e creano nuove dinamiche fra soggetti – anche matrimoniali? O, molto più verosimilmente, sono testimonianza dell’evitamento del confronto con altri esseri umani, confronto che può creare sofferenza. E, allora, tale realtà aumentata rappresenta un’arresa piuttosto che una opportunità?

Lo spunto di riflessione, che ha suscitato tanto dibattito persino in Giappone, proviene da un matrimonio affatto atipico.

Giappone: il primo matrimonio tra umano e ologramma

Si allude al matrimonio avvenuto nel novembre 2018 a Tokyo, fra un insegnante giapponese delle scuole medie di 35 anni, Akihiko Kondo, e una delle pop star della musica nipponica in grado di riprodurre oltre 100 mila canzoni, Hatsune Miku, creata nel 2007, un ologramma dai capelli azzurri e occhi verdi a mandorla, fattezze di un manga, che canta grazie a un sintetizzatore software conosciuto come “vocaloid”, in grado di interagire con il pubblico e con tantissimi fan.

Il matrimonio tra Akihiko Kondo e Hatsune Miku non ha alcun valore legale. La società che ha messo in commercio l’apparecchio che produce gli ologrammi rilascia un certificato di “unione”, che attesta che un personaggio umano e un personaggio virtuale si sono sposati “oltre le dimensioni”. La società ha già rilasciato quasi 4.000 certificati per matrimoni “cross-dimensionali”.

Si svolgono vere e proprie celebrazioni: il giorno del “matrimonio”, Akihiko Kondo si accompagnava a una bambola di peluche dalle fattezze di Hatsune Miku, scambio di anelli, ricevimento con una quarantina di persone per una spesa di 2 milioni di yen (la “suocera” di Hatsune Miku, grande assente).

All’interno di un Paese molto legato alle tradizioni – le stesse che a volte esso stesso stravolge! – il matrimonio di Akihiko Kondo ha costituito uno shock.

La scelta di Kondo è un corollario estremo di quanto emerge dal sondaggio summenzionato. Certamente – è una delle sue affermazioni – i partner virtuali non invecchiano e non muoiono. Inoltre, dopo le sue esperienze con donne in carne e ossa con esiti dolorosi e traumatici e con un esaurimento nervoso dopo l’ultima relazione, passare al virtuale a Kondo è parso più pratico. Si può aggiungere che ciò non solo è indolore, ma anche gratificante (l’ologramma che egli ha sposato assume infatti comportamenti accudenti simili a quelli di una geisha): Miku è “colei che mi ha salvato”. Messe a fattor comune, le due spiegazioni di Kondo rispondono all’evitamento del dolore – provocato dall’ineludibile processo di senescenza e dal lutto dopo una morte del partner, oltre che dal trauma e dallo stress vissuti per l’abbandono da parte della persona amata. Kondo si rivela così un soggetto incapace di affrontare il dolore di potenziali fallimenti nell’imperfetto mondo reale. Perciò ha preferito legarsi a un ologramma impostato sulla modalità “mogliettina perfetta”. Una compagna per la vita, che lo metta al riparo da qualsiasi ansia abbandonica o dall’abbandono stesso. Una compagna per la vita… che lo mette al riparo dalla vita! O, per soprammercato, che trasforma la vita in una proxy di un fumetto..

Riflessioni sui bisogni tra economia e psicologia

Seguendo un approccio economico e considerando la cosidetta incompletezza dei mercati, la realtà aumentata e l’ologramma permettono la creazione di nuovi mercati, pronti a soddisfare la domanda di nuovi beni e servizi sulla base delle preferenze dei consumatori. Di conseguenza, la nascita di questi nuovi mercati è la risposta efficiente al soddisfacimento dei bisogni – in continua evoluzione – dei consumatori.

Ma se l’efficienza è un aspetto rilevante in economia, sotto il profilo normativo – e secondo un approccio paternalistico dell’intervento dell’operatore pubblico nella sfera socio-economica – è giusto che i produttori (cioè, il lato dell’offerta di mercato) rincorrano, se non prevengano e anticipino, alcune esigenze dei consumatori che a tutti gli effetti sono da considerare anomale? Penso di no. Forse si deve riconoscere che il mercato non garantisce la giusta soluzione a questi problemi… Essi si annidano e si incistano altrove e, peraltro, riguardano non solo le preferenze del singolo consumatore, bensì l’intera collettività. Secondo le previsioni del National Institute of Population and Social Security Research nipponico, nel 2065 la popolazione del Paese scenderebbe dagli attuali 127 milioni a quota 87 milioni.

Se il mercato facesse il proprio gioco ottimizzante, lasciato a se stesso, il Giappone potrebbe finire in una società distopica di dipendenti-da-ologramma.

Sebbene le relazioni tra uomo e donna siano complesse nella società nipponica, sarebbe tuttavia surreale giustificare la scelta di Kondo sulla base del criterio “a mali estremi, estremi rimedi”. La passione per Hatsune Miku lo ha salvato e con il suo gesto vuole incoraggiare altri innamorati a unirsi, come lui, con donne virtuali. Ma il reale e il virtuale non sono affatto buoni succedanei, soprattutto quando sono coinvolti i sentimenti positivi, quali l’empatia, la simpatia, l’amicizia e l’amore. Anche gli hater dal web hanno reagito definendo Kondo un “raccapricciante otaku”, termine con il quale si definiscono le persone alimentate da fanatismo nei confronti di anime e passatempi digitali, tanto da sfuggire del tutto alla vita reale; in altri termini, un feticista. Uno che si lascia andare a fantasmagorie.

E, naturalmente, l’effetto contagio è all’angolo, pronto a superare anche i confini nipponici, come è stato ad esempio per gli hikikomori. Ma in definitiva gli hikikomori e il coniuge di un’intelligenza artificiale non sono tanto distanti. Entrambi i casi ci raccontano di qualcuno che evita la vita reale con i suoi inevitabili affanni, più o meno insormontabili, in funzione della resilienza di colui che vi si confronta.

Il corpo e la riparazione del sé. Mindfulness e approccio corporeo in NeuroPsicosomatica (2018) – Recensione del libro

Il corpo e la riparazione del sé è un testo ricco e con una dettagliata la bibliografia di riferimento. Fornisce un’accurata descrizione di come il corpo sia a pieno titolo un luogo fondamentale su cui concentrare l’attenzione terapeutica e gli interventi di cura, ridando voce ad approcci terapeutici che da tempo se ne erano occupati.

 

Gli interventi sul corpo hanno trovato in questi anni un rinnovato interesse, sostenuti dalle prove fornite dalle neuroscienze (Panksepp, 1998; Porges, 2014; Van der Kolk, 2015;), oltre che dalla psicotraumatologia (Liotti, Farina, 2011; Ogden, Fisher, 2016; La Rosa, Onofri, 2017) e da alcune psicoterapie cognitive di terza generazione (Dimaggio, et al., 2019).

Il libro Il corpo e la riparazione del sé rappresenta un’interessante ed esaustiva disamina relativa alla Neuropsicosomatica, ridefinita quale approccio integrato per il trattamento corporeo che presenta inoltre diverse affinità con gli approcci di cui sopra.

Il corpo e la riparazione del sé

Il testo evidenzia come in Neuropsicosomatica si miri alla modifica di schemi corporei, cognitivi, emotivi e comportamentali ad essi associati. Modificando l’interferenza di tali schemi cristallizzati nel passato dovuti a traumi e a esperienze relazionali disfunzionali, si ripristina la funzionalità dell’individuo nel suo contesto di vita.

Sebbene il lavoro sugli schemi (definiti in altri ambiti teorici maladattivi) non è nuovo in psicoterapia, così come intervenire sulla modifica attraverso approcci bottom up oltre che top down, è interessante l’integrazione tra approcci che l’autrice fa.

Molto pregnante è stata l’intuizione di porre alla base della sofferenza umana alcuni sistemi motivazionali psicobiologici che, se incontrano risposte negative nell’ambiente, producono e spiegano la sofferenza psicopatologica. Tra i modelli esistenti in letteratura cita i lavori di Panksepp (1998) il quale prende in considerazione i meccanismi neurali dell’espressione emotiva e individua sette sistemi innati sottocorticali che presiedono a specifiche emozioni, intesi come sistemi psicobiologici per spiegare l’agire umano e la teoria dell’attaccamento di Bowlby.

L’autrice di Il corpo e la riparazione del sé riparte inoltre da autori come Reich che per primo integrò il corpo come parte fondamentale della personalità, recuperando il concetto di individuo inteso nella sua totalità psicocorporea. Evidenzia inoltre l’eredità di Lowen nel concepire la sofferenza come espressione di blocchi emotivi visibili nel corpo.

Formulazione del caso e Assessment secondo la Neuropsicosomatica

Per la formulazione del caso, la Neuropsicosomatica usa il modello della neuropersonalità: i diversi sistemi neuropsicobiologici delle Neuropersonalità vengono sintetizzati in una mappa funzionale che consente di inquadrare l’assetto neuropersonologico individuale, mettendolo in relazione ai diversi disturbi di personalità, approccio che incuriosisce molto il lettore anche se appena accennato.

Accanto a questo modello, nel libro Il corpo e la riparazione del sé, viene dedicata un’ampia sezione all’assesment in Neuropsicosomatica mettendo in luce l’importanza di valutare alcuni parametri specificatamente corporei dell’identità psicosomatica dell’individuo: la percezione e consapevolezza del corpo e del suo livello energetico, la percezione e consapevolezza mentale e la percezione e consapevolezza globale di sé.

L’attenzione in fase di assessment si focalizza inoltre sui blocchi psicosomatici, intesi come l’effetto dell’interazione tra elementi ambientali frustranti e le spinte vitali dell’individuo che non trovano risposta adeguata. Alcuni di essi si sviluppano su basi biologiche (cioè di principi di regolazione delle esigenze biologiche di base), altri blocchi profondi sono riconducibili a esperienze di vita che generano inibizione o non riconoscimento del Sé, del valore e della dignità dell’individuo (rifancedosi quindi a sistemi motivazionali interpersonali).

I principali sistemi organici interessati sono quattro: muscolare, respiratorio, circolatorio e nervoso. Le alterazioni a loro carico si rifletteranno in un quinto parametro, quello posturale, sintesi dei precedenti. Ogni blocco potrà manifestarsi attraverso eccesso (iper) o inibizione (ipo) del funzionamento dei quattro principali apparati fisiologici.

Tecniche di Neuropsicosomatica

Una parte molto ricca e utile del libro Il corpo e la riparazione del sé è dedicata alle tecniche, tra cui:

  • l’uso del contato fisico con finalità di contenimento, calore e tenerezza, ma anche come azione più direttiva e attiva in alcuni acting, nelle tecniche di respiro o per sciogliere energeticamente alcuni blocchi psicosomatici. Il testo inoltre sottolinea l’importanza di valutare l’impatto sulla relazione terapeutica di interventi così emotivamente attivanti;
  • le tecniche di meditazione e consapevolezza come strumenti clinici per migliorare la capacità di rivolgere l’attenzione ai vissuti interni, 
per sviluppare la capacità di riconoscerli, per 
facilitare l’emersione di materiale inconsapevole e sviluppare la capacità di riconoscere i propri automatismi;
  • il maternage corporeo come acting che mira in seduta, analogamente ad alcune terapie reichiane, a rivivere esperienze di accudimento in chiave riparativa.

Le tecniche vengono divise in tre livelli di intensità e vengono presentate per regolare stati emotivi, per fare emergere ricordi e vissuti dolorosi fino a lavorare su eventi dolorosi e traumatici, che hanno strutturato le personalità.

Uno spazio è dedicato all’importanza delle esperienze riparative come rivisitazione e riscrittura di eventi dolorosi e traumatici dell’esperienza in cui il corpo gioca un ruolo centrale sia per effettuare l’emersione dei ricordi a partire da stati somatici sia per usare il corpo al fine di compiere atti di riscrittura di scene vissute nel passato, in maniera affine a come agisce la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio, 2019) e la Terapia Sensomotoria (Ogden & Fischer 2016) al fine di a produrre cambiamenti nelle situazioni di vita reale del paziente.

Molto bella è la parte dedicata all’esplorazione e alla emersione delle esperienze positive connesse al gioco e al piacere, descritte come passi centrali all’interno del cambiamento psicologico.

Per concludere

Il corpo e la riparazione del sé è un testo ricco e con una dettagliata la bibliografia di riferimento. Fornisce un’accurata descrizione di come il corpo sia a pieno titolo un luogo fondamentale su cui concentrare l’attenzione terapeutica e gli interventi di cura, ridando voce ad approcci terapeutici che da tempo se ne erano occupati.

Le tecniche sono descritte abbastanza in dettaglio e aiutano certamente gli addetti ai lavori ad affinare le loro modalità di intervento, includendo il corpo nella stanza della terapia.

Ci piacerebbe conoscere, magari in una successiva pubblicazione, alcune tecniche più in dettaglio e l’articolarsi del processo terapeutico, in particolare di come si sequenziano le varie fasi dell’intervento intese quali azioni strategicamente orientate per il raggiungimento degli scopi terapeutici.

Adolescenti: associazione tra consumo di oppioidi al liceo e consumo di eroina in futuro

Secondo i dati del Centers for Disease Control and Prevention, nel 2017 si sono registrati circa 47.600 casi di morti per overdose di oppioidi tra gli adolescenti.

 

I farmaci antidolorifici sono necessari per trattare molti dolori somatici acuti e cronici, per esempio il mal di testa, i dolori reumatici, il mal di schiena, i dolori mestruali. Per trattare questi dolori possono quindi essere utilizzati: paracetamolo, antinfiammatori, oppioidi e adiuvanti.

Il paracetamolo e gli antinfiammatori sono utilizzati nei dolori acuti o cronici di lieve o moderata intensità. Possono essere assunti anche senza prescrizione medica. Quando invece il dolore è intenso vengono utilizzati, sempre sotto controllo medico, gli oppioidi, ovvero la morfina e tutti i derivati dell’oppio.
 Questi ultimi sono farmaci derivati dall’oppio e da sempre sono conosciuti come i farmaci analgesici più potenti. Sono indicati soprattutto nel trattamento di dolori di intensità da moderata a grave.
 Gli effetti collaterali indesiderati degli oppioidi sono: sonnolenza, nausea, vomito, stipsi, tutti sintomi che tendono però a scomparire dopo qualche giorno di somministrazione e possono essere neutralizzati facilmente con farmaci appropriati. A seconda del farmaco utilizzato le vie di somministrazione possono essere: orale, rettale, intramuscolare, endovenosa, sottocutanea, spinale e per via transdermica.

Il rischio nell’uso di farmaci oppioidi tra gli adolescenti

Secondo i dati del Centers for Disease Control and Prevention, nel 2017 si sono registrati circa 47.600 casi di morti per overdose di oppioidi, tra i ragazzi sotto i 25 anni. Oltre all’overdose, i rischi che si associano al consumo di eroina sono molto pericolosi ed includono una grave dipendenza dalla sostanza, l’epatite C, l’HIV e altre infezioni.

A questo proposito, un recente studio condotto dalla University of Southern California, e pubblicato su JAMA Pediatrics, ha cercato di indagare negli adolescenti il rapporto tra l’uso di farmaci oppioidi usati per “sballarsi” e il consumo di eroina, nel periodo dopo il diploma della scuola superiore. Assunto di base, era che sia l’assunzione di oppioidi che quella di eroina stimolerebbe in maniera simile le stesse aree cerebrali, ovvero il circuito deputato al piacere.

Lo studio longitudinale è stato condotto in 10 scuole superiori di Los Angeles, in California. Agli studenti sono stati somministrati questionari che valutavano l’uso di oppioidi senza prescrizione medica, l’uso di eroina ed altri fattori, nel periodo da ottobre 2013 a luglio 2017. In particolare, veniva chiesto ai partecipanti quale fosse il consumo abituale di antidolorifici, come ad esempio Vicodin, Oxycontin e Percocet, “per sballarsi”. Veniva chiesto loro anche se consumassero altre sostanze, come marijuana, alcol, sigarette, metanfetamine e inalanti.

Il campione dello studio era composto da 3.298 partecipanti, di cui 1.775 erano ragazze adolescenti (53.9%), 1.563 (48.3) erano ispanici, 548 (17%) asiatici, 155 (4.8%) afroamericani, 529 (16.4%) bianchi non ispanici ed infine 220 (6.8%) erano multietniche.

I risultati mostrano che 596 soggetti riferivano di usare oppioidi “per sballarsi” durante i primi 3,5 anni di scuola superiore.

I ricercatori hanno fatto una scoperta interessante, dal momento che sia i consumatori attuali di oppioidi (13,1%) sia i consumatori che precedentemente ne avevano fatto uso (il 10.7%) hanno incominciato ad utilizzare l’eroina entro la fine della scuola superiore. Soltanto l’1.7% degli adolescenti che non usavano gli oppioidi “per sballarsi” alla fine della scuola superiore iniziavano a consumare l’eroina.

Per confermare ulteriormente i loro risultati, i ricercatori hanno valutato anche se l’uso di marijuana, alcol, e metanfetamine fossero correlate all’uso successivo di eroina. Ma l’associazione tra antidolorifici e l’uso di eroina era più forte rispetto alle associazioni tra l’uso di eroina con altre sostanze.

La mindfulness nella ricostruzione dello stile di attaccamento madre-figlio

L’influenza che la madre ha sul bambino inizia molto presto, forse anche prima della nascita (Snyder et al., 2012) e i diversi stili di attaccamento sono profondamente influenzati dalle esperienze personali della madre, in particolare dal suo rapporto con i propri genitori (Bowlby 1988).

 

La constatazione che molti bambini mostrano lo stesso modello di attaccamento delle loro madri, ha dato origine al concetto di ”trasmissione intergenerazionale” di stili di attaccamento da parte di due studiosi, Siegel e Hartzell (2003). Secondo la loro prospettiva, le madri interagiscono con il loro i bambini quasi allo stesso modo in cui le loro madri in precedenza hanno interagito con loro; e di conseguenza esse ” trasmetteranno ” lo stesso tipo di modello di attaccamento.

La trasmissione inter-generazionale dell’attaccamento

La trasmissione intergenerazionale, tuttavia, non è da considerarsi un esito permanente ne per la madre ne per il suo bambino. In realtà, la letteratura in materia riporta alcune evidenze a favore della possibilità di poter ricostruire nel tempo la sicurezza che è mancata durante l’infanzia; quindi una persona che ha sviluppato uno stile di attaccamento insicuro, potrà “guadagnarsi” uno stile di attaccamento sicuro nel tempo. Secondo Bowlby (1988), infatti, il nostro corso di sviluppo non è mai del tutto finito; nel corso della vita, possiamo venire in qualsiasi momento influenzati negativamente dalle avversità, ma possiamo altrettanto ricevere influenze positive. Sono emersi due fattori chiave in di coloro che hanno guadagnato la sicurezza nel tempo: le relazioni di sostegno che sono riuscite a guarire le vecchie ferite, e la capacità dell’individuo di auto-comprendersi (Siegel & Hartzell 2003).Dunque se una madre con un passato difficile può dare un senso alla sua storia, è in grado di ricostruirne un significato coerente. Questo tipo di re-incorniciamento dell’esperienza, richiede alcuni fattori di auto-riflessione e consapevolezza di sé, che sono proprio indicatori di uno stile di attaccamento sicuro (Bowlby 1988; Siegel & Hartzell 2003).

La minfulness per gestire consapevolmente lo stile di attaccamento

Ma questa comprensione di sé si può coltivare anche in futuro grazie alla pratica della Mindfulness che rappresenta sicuramente un valido supporto sia per la madre che per il bambino. Il fatto che lo stile di attaccamento della madre possa cambiare è una speranza positiva per i suoi figli. Se lei sarà in grado di impegnarsi in attività che supportano uno stile di attaccamento sano e sicuro, si comporterà in modo diverso con i suoi figli e questi ne raccoglieranno i benefici. Come fino ad ora riportato, poiché la transazione alla genitorialità rappresenta un momento di particolare stress in cui si aggiunge carico emotivo alla vita quotidiana, essa può rappresentare anche un momento di grande potenzialità per il cambiamento relazionale. Proprio grazie a questa fase delicata di transizione, gli stili della madre divengono vulnerabili e particolarmente malleabili per cui il ciclo di relazione madre-figlio può crescere e migliorarsi e l’allenamento alla Mindfulness può essere di aiuto ad attraversare questo cambiamento e a far si che la madre “guadagni” e si ricostruisca uno stile di attaccamento sicuro. Attraverso la Mindfulness è possibile sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, rafforzando l’intuizione e la comprensione, così come la possibilità di costruire delle relazioni profonde e salutari. In generale, impegnarsi a sviluppare un atteggiamento di Mindfulness, può essere un modo per permettere all’individuo di sviluppare un attaccamento sano con se stesso, partecipando al suo momento con consapevolezza e compassione. Questo attaccamento sicuro verso se stesso, rappresenterà il terreno in cui l’individuo si impegnerà a creare la stessa relazione con i suoi figli.

La seduzione delle bugie (1999) di Paul Ekman – Recensione del libro

In questo saggio, Paul Ekman pone l’attenzione del lettore sulla bugia: un atto creativo, una sorta di “arte”, che richiede una serie di capacità, tanto per essere esercitata efficacemente, quanto per venire smascherata.

Il testo contiene, peraltro, una prefazione del compianto Aldo Carotenuto sulla menzogna e sul mentire. Uno sguardo sulla funzione protettiva della bugia, vista come mezzo per “conservare un margine di libertà”, uno spazio di felicità nel quale sia possibile fare ciò che desideriamo, senza sperimentare il rammarico.

Nell’adulto, la menzogna è inquadrata – quando non si tratta di bugiardi patologici – come una sostanziale liberazione, un utile “mezzo di fuga” dalle pressioni interne delle responsabilità e dei sensi di colpa; nel bambino, inizialmente, la menzogna si presenta come un istinto naturale che consente l’esercizio della fantasia. Diventerà in seguito uno strumento di evitamento della punizione.

La seduzione delle bugie: un viaggio nella complessità della comunicazione

Le illuminanti ricerche di Ekman hanno permesso di individuare una serie di indizi, rintracciabili nella complessità della comunicazione umana (aspetti verbali, non verbali e paraverbali) che, se attenzionati globalmente, possono svelare incongruenze significative.

Parole, pause, espressioni facciali, timbro della voce, movimenti del capo, gestualità, postura, frequenza respiratoria, rossore o pallore del volto, sudorazione, sono alcuni esempi degli elementi da tenere contemporaneamente in considerazione: anche per questo motivo, sottolinea l’autore, scoprire le bugie non è semplice. Inoltre, smascherare un bugiardo implica una capacità, perfezionabile, che non tutti possiedono o desiderano possedere (in molte occasioni, ad esempio, tra il bugiardo e la vittima si verificano collusioni involontarie, poiché si preferisce non conoscere la verità).

In ogni caso, l’autore precisa che non tutti gli indizi delle bugie possiedono la stessa affidabilità. Ekman opera una distinzione tra le sorgenti comunicative maggiormente manipolabili (come le parole) e quelle che con maggior difficoltà il bugiardo può tenere sotto controllo, quali ad esempio il tono della voce, la postura, la gestualità, i movimenti del corpo. La sorgente in assoluto più ricca a livello comunicativo è quella delle espressioni facciali.

La seduzione delle bugie..sui nostri volti

Ekman è ideatore del Sistema di Decodificazione dei Movimenti Facciali (FACS – Facial Action Coding System) finalizzato alla misurazione della contrazione dei muscoli facciali. Attraverso le espressioni facciali, infatti, è possibile rintracciare le informazioni sullo stato emotivo della persona e in base alla frequenza e all’intensità delle emozioni mostrate, si possono individuare stati cognitivi ed affettivi di base. L’autore ritiene che tra gli indizi più interessanti per un “cacciatore di bugie” vi siano i segnali facciali rapidi: mutamenti veloci dell’attività neuromuscolare in grado di modificare visibilmente, per pochi secondi, l’aspetto del volto.

Il nostro volto parla, dunque, e Ekman dedica il suo impegno a cogliere l’informazione trasmessa dalle espressioni, nella sua complessità (eventi antecedenti l’espressione, pensieri della persona; progetti, aspettative e ricordi; condizione psicologica; stato d’animo; che cosa le piacerebbe fare dopo; cosa vorrebbe che facesse la persona che ha causato il suo stato d’animo; emozione sperimentata). Tuttavia, scrive l’autore, impegnato nella ricerca sin dagli anni ’50,

molto resta ancora da imparare sulla menzogna.

In conclusione, definirei questo lavoro un saggio brillante e ricco di spunti interessanti, che non manca di incuriosire e affascinare il lettore che voglia accostarsi e “aprire una finestra” sull’intrigante mondo della bugia.

La nostra postura influenza il modo in cui percepiamo il cibo

Alcuni ricercatori hanno recentemente rilevato attraverso uno studio sperimentale come il sistema vestibolare, quello responsabile del nostro equilibrio, sembra interagire con il senso del gusto influenzando il modo in cui percepiamo i sapori.

 

È capitato a tutti, soprattutto ora che si è nel pieno dell’estate, di andare a qualche festa o buffet e di passare una serata in piedi stuzzicando qualche cosa. In realtà, se si volesse apprezzare di più il cibo che si sta assaggiando bisognerebbe farlo da seduti.

Questo è quello che sostiene una recente ricerca (Biswas, Szocs, & Abell, 2019) da poco pubblicata da alcuni ricercatori dell’Università della Florida del Sud. Secondo questi ricercatori, infatti, la postura modificherebbe il modo in cui si percepiscono i sapori, in particolar modo sarebbe da seduti che si finisce per percepire meglio il gusto di quello che si sta mangiando.

Lo studio

Biswas, autore della ricerca, nell’approfondimento di questa ipotesi ha cercato in particolare di indagare come il sistema vestibolare, quello responsabile del nostro equilibrio per intenderci, interagisca con il senso del gusto, influenzando quindi i sapori che si percepiscono.

Lo studio ha coinvolto 350 partecipanti, ai quali sono state fatte assaggiare delle patatine. Un gruppo ha assaggiato il cibo stando in piedi, l’altro, invece, da seduto. I ricercatori hanno riscontrato un apprezzamento maggiore del cibo da parte del gruppo che era seduto.

A loro parere questo effetto sarebbe dovuto al fatto che tenere una postura eretta per più di qualche minuto comporti un certo grado di stress fisico e, inoltre, la forza di gravità spinge il sangue verso la parte inferiore del corpo facendo lavorare il cuore di più per riportare il sangue verso la testa, accelerando, conseguentemente, il battito cardiaco. Questo va ad attivare l’asse ipotalamo-pituitaria-adrenalina (HPA), alzando quindi i livelli di cortisolo all’interno del corpo. Tutta questa attivazione finisce con il ridurre la sensibilità sensoriale, influenzando quindi anche la valutazione del gusto di cibi e bevande, nonché la percezione della temperatura di quello che stiamo ingerendo.

Risultati e conclusioni

Ciò che emerge di interessante da questa ricerca è che se un cibo gustoso perde parte del suo gusto quando viene mangiato in piedi, si ottiene un effetto opposto nel caso in cui si stia per mangiare un cibo poco gustoso.

La seconda fase dell’esperimento di Biswas e colleghi prevedeva, infatti, di far mangiare ai partecipanti dei muffin ai quali era stato aggiunto del sale per alterarne il sapore e renderli quindi meno appetibili. I soggetti che avevano gustato i muffin seduti si sono accorti del fatto che fossero molto più salati del normale e li hanno valutati come scadenti sul piano del gusto, cosa che invece non è successa nei soggetti che avevano mangiato lo stesso cibo in piedi, i quali hanno valutati gli stessi muffin come più buoni rispetto ai partecipanti del gruppo seduto.

Questo potrebbe avere importanti implicazioni pratiche per quanto riguarda l’alimentazione, difatti sarebbe possibile (ad esempio per i genitori) rendere più appetibili dei cibi sani, ma poveri di gusto, facendoli mangiare in piedi.

Psicoterapia personalizzata: un nuovo orizzonte. Report dal Congresso Mondiale di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

La richiesta di una psicoterapia personalizzata è sempre più frequente non solo da parte dei pazienti ma da noi stessi terapeuti, che sentiamo l’esigenza di dare una risposta quanto più aderente alle caratteristiche specifiche del singolo paziente. Al nono congresso mondiale delle terapie cognitive e comportamentali alcuni colleghi hanno presentato i risultati delle loro ricerche sulla possibilità di applicare una psicoterapia personalizzata.

 

I protocolli di terapia cognitivo-comportamentale (TCC) hanno stabilito uno standard di riferimento nel trattamento di molti disturbi psicologici (leggi di più qui). Oggi rappresentano il metro comparativo per approcci e tecniche emergenti che non possono più limitarsi a pareggiare il conto, ma hanno sulle spalle l’incarico di migliorare le cose, di portare al cosiddetto incremento di efficacia.

Negli ultimi vent’anni diverse innovazioni terapeutiche hanno pareggiato i conti, poche o nessuna è riuscita in questa impresa. Tant’è che certi limiti terapeutici della TCC restano presenti e attanagliano la mente dei ricercatori di tutto il mondo che proprio in questi giorni sono riuniti a Berlino nel nono congresso mondiale delle terapie cognitive e comportamentali. Alla luce di un contesto che presenta una moltitudine di nuove tecniche e una vasta gamma di nuove generazioni, più o meno di dimostrata efficacia, appare evidente come si possa e si debba ora cercare nuove strade per avanzare le potenzialità della psicoterapia.

A Berlino si rispolvera il noto tema di “cosa funziona per chi” e della psicoterapia personalizzata, ma con rinnovato vigore, interesse e soprattutto risorse. Se il dibattito tra fattori comuni e specifici di anni recenti ha avuto un risvolto positivo, ritengo sia stato quello di mettere una lente più accurata sui meccanismi che influenzano il buon esito della psicoterapia.

I protocolli si occupano dell’efficacia media (average), e meno male che ci sono, ma dentro questa media va riconosciuto che navigano condizioni di grandissima efficacia parallelamente condizioni di ridotta efficacia fino alla totale non risposta. Ora, sollevare la media può essere il risultato di un nuovo trattamento che si impone improvvisamente come più efficace di quelli presenti, ma potrebbe anche sorgere da un’applicazione più precisa degli interventi che abbiamo già disposizione, fuori e dentro l’approccio cognitivo comportamentale (precision medicine).

Il congresso mondiale trasmette l’importanza di questa prospettiva, in simposi e lezioni magistrali, attraverso la programmazione di tutte le giornate. Nella maggior parte dei casi, i dati sono preliminari e più concentrati a presentare prospettive di analisi di questa opportunità piuttosto che soluzioni vincenti, va detto. Ma la sensazione è che in futuro diventare proficue linee di ricerca. Vediamo le traiettorie verso una psicoterapia personalizzata che sono state presentate nel dettaglio.

Personalizzare l’invio a diversi approcci terapeutici

La prima opzione per una psicoterapia personalizzata la porta Robert DeRubeis che già in passato aveva aspramente messo in discussione la logica a sostegno dei fattori non-specifici come traiettoria di sviluppo della psicoterapia poco sostenibile: se anche le terapie possono avere esito equivalente, non significa che operino attraverso i medesimi processi (DeRubeis et al., 2005). Varrebbe la pena quindi, secondo DeRubeis, esplorare quali meccanismi hanno maggior impatto sul buon esito di una terapia e per quale gruppo di pazienti, in modo da fornire il trattamento ottimale sulla base di un’accurata valutazione iniziale. Questo è ciò che ha occupato i suoi sforzi negli ultimi anni.

Il processo ha una logica piuttosto semplice. Innanzitutto si raccolgono dati dai trial clinici che hanno confrontato diversi trattamenti. Poi si valutano potenziali predittori di esito positivo, cioè le caratteristiche che accomunano i pazienti che ottengono beneficio da un determinato trattamento X e che sono associate in modo significativo al grado di efficacia di quest’ultimo. Questi potenziali predittori possono includere variabili cliniche come eventi di vita negativi, severità o cronicità dei sintomi, disturbi in comorbilità, fallimenti terapeutici precedenti, ma anche variabili sociodemografiche come età, genere, occupazione o stato di famiglia. Terzo passaggio, sulla base di queste analisi è possibile definire un gruppo di pazienti per i quali il trattamento X può essere considerato teoricamente ‘ottimale’. È anche possibile calcolare un Personalized Advantage Index (PAI; DeRubeis et al., 2014), un indice che stabilisce quale sarebbe il vantaggio ipotetico se il paziente fosse assegnato al trattamento designato come ottimale rispetto alle alternative. Tutto questo processo, la scienza si sa non ragiona a posteriori, deve poi essere testato. Il passaggio successivo prevede quindi un trial clinico comparativo in cui i pazienti vengono randomizzati (assegnati in modo casuale) al trattamento definito come teoricamente ‘ottimale’ o al trattamento definito come teoricamente ‘non-ottimale’.

Se questo tipo di personalizzazione riesce, allora dovremmo avere un grado di efficacia maggiore per coloro che sono stati assegnati alla condizione ‘ottimale’, indipendentemente dal tipo di trattamento. Una strada affascinante e complessa che DeRubeis sta percorrendo da qualche anno. I risultati di alcuni studi di questo tipo mostrano che offrire il trattamento teoricamente ‘ottimale’ determina un incremento significativo di efficacia rispetto ai singoli trattamenti (comunque evidence-based) applicati indiscriminatamente (es. Lopez-Gomez et al., 2019; Webb et al., 2019). Si tratta di singoli studi, ma restiamo a osservare.

Personalizzare moduli di intervento all’interno dello stesso approccio

La stessa logica potrebbe anche essere applicata entro il medesimo approccio terapeutico. Questa è l’opzione che sta esplorando Edward Watkins, esperto di depressione e ruminazione, che personalmente ha già fronteggiato le difficoltà imposte dalla ricerca di incremento di efficacia media con la sua Rumination-focused CBT per la depressione.

Watkins (2019) cerca di valutare se è possibile personalizzare lo stesso approccio terapeutico sulla base delle caratteristiche dei pazienti. Complice l’opportunità fornita dagli interventi on-line, che possono essere facilmente suddivisi in moduli standardizzati, Watkins isola sette specifici interventi TCC per la depressione (es. attivazione comportamentale, ristrutturazione cognitiva, training per la concretezza del pensiero, interventi basati sulla compassione ecc…) e propone percorsi in cui uno o più di questi interventi vengono eliminati dal protocollo standard fornito ai partecipanti. In questo modo diventa possibile isolare l’impatto dei sette interventi, confrontando i percorsi in base alla presenza o assenza di ciascuno di essi.

Prima domanda: esistono interventi che fanno la differenza individualmente rispetto all’efficacia della TCC? Su questo, i risultati preliminari non rilevano un dominio significativo o generalizzato per alcuni interventi rispetto ad altri. Seconda domanda: esistono interventi rilevanti per alcuni gruppi di pazienti? Qui qualche tendenza emerge, soprattutto connessa ad alcune variabili socio-demografiche, ma lo stesso ricercatore ammette che è davvero ancora troppo poco per trarre delle direzioni significative.

Personalizzare l’intero percorso sul singolo paziente

Infine, Aaron Fisher propone una strada ancora più dettagliata e per certi aspetti visionaria per una psicoterapia personalizzata. Non si limita a una personalizzazione in base a caratteristiche pre-trattamento o a sottogruppi di pazienti, ma ipotizza un intero intervento disegnato attorno alla specifica manifestazione della sofferenza emotiva di ogni singolo individuo. I principi restano quelli cognitivo-comportamentali, ma sarebbe possibile in futuro applicarli non su base diagnostica, ma a partire da un preciso e massivo monitoraggio del loro evolversi nel tempo per ogni paziente.

Questo monitoraggio continuo permetterebbe anche di rispondere in modo flessibile in base a come si evolvono i quadri sintomatologici durante la terapia. L’applicazione di questa prospettiva rasenta oggi la fantascienza della psicoterapia, e proprio per questo è affascinante vederne i primi germogli. In uno studio preliminare, Fisher mostra come una raccolta di dati massiva e prolungata nel tempo (i pazienti compilavano un breve assessment sintomatologico ogni quattro ore per circa trenta giorni) abbia permesso di identificare circuiti sintomatici molto variegati ma ricorsivi entro ciascun individuo e isolabili. Qualcosa di simile a ciò che noi possiamo chiamare stati mentali, piani, mode o criteri diagnostici.

Questo primo studio ha permesso di isolare quali erano i processi principali da fronteggiare per ogni singola persona e quando risultavano dominanti, superando così il limite di un inquadramento diagnostico statuario e incline alle molteplici comorbilità (Fisher et al., 2019).

Conclusioni: gli orizzonti

Parlare oggi di psicoterapia personalizzata o di precision psychotherapy è ancora prematuro, le modalità di applicazione sono complesse e ancora difficili da immaginare applicate alla pratica clinica quotidiana. Forzare la mano in questa direzione prima del tempo, per quanto sia condivisibile l’orizzonte, può significare la rinuncia al faticoso metodo scientifico, con le derive autoreferenziali sempre in agguato.

Eppur si muove, con persistenza e rigore, si muove.

Il Congresso Mondiale delle Terapie Cognitive e Comportamentali (WCBCT 2019) di Berlino – Report dalla prima giornata

È iniziato a Berlino il 9° congresso mondiale delle terapie cognitive e comportamentali (WCBCT, World Congress of Behavioural and Cognitive Therapies), un congresso che si rinnova ogni 4 anni e che ogni volta è ospitato da una delle organizzazioni di terapia cognitiva di un’area geografica. In questa edizione l’organizzazione toccava all’European Association for Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT).

 

Al congresso partecipano circa tremila iscritti con decine di simposi e sessioni parallele. Nei momenti di maggior affollamento un collega ha contato 17 sessioni contemporanee tra cui dover scegliere. Non ci sono sessioni plenarie, probabilmente irrealizzabili con questi numeri. Ci sono gli invited speakers in evidenza nel cartellone che però sono inseriti nel normale programma d’interventi in parallelo.

Da una visione limitata e a rischio di errore, data l’enormità delle presentazioni, la sensazione è che le direzioni emergenti siano due. Le correnti per ora prevalenti sono ancora la CBT standard e la process based therapy nata dall’incontro scientifico e diplomatico tra Steven Hayes, esponente dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) e Stefan Hofmann, esponente della CBT standard. Accanto a queste ci sono altre presenze incisive: la DBT (Dialectical Behavioral Therapy) e la ST (Schema Therapy) e qualche altro indirizzo.

What Works for Whom, and Under which Relational Contexts? La tavola rotonda sui meccanismi d’azione della psicoterapia

Per tale motivo la tavola rotonda iniziale sui meccanismi d’azione della psicoterapia, in cui si sono confrontati gli esponenti di questi indirizzi, sebbene limitata data la complessità del tema e i termini di tempo, è stata abbastanza chiarificatrice se non altro su dove non stanno andando le psicoterapie cognitive.

La tavola rotonda era intitolata “What Works for Whom, and Under which Relational Contexts? – Making Clinical Decisions at the Crossroads of Treatment and Relational Processes in the Cognitive Behavior Therapies” ed è stata organizzata da Nikolaos Kazantzis della Monash University in Australia. Kazantikis ha invitato a discutere alcuni esponenti della CBT standard come Mehmet Sungur, Christine A. Padesky e Keith Dobson ma anche esponenti di altri orientamenti come Lata McGinn terapista DBT, Marcus Huibers ricercatore sui fattori di efficacia della psicoterapia e il diplomatico traghettatore e mediatore tra passato e futuro Stefan Hofmann.

La prima metà del confronto è stata sulle differenze, con Hofmann che rimarcava gli obiettivi mancati della CBT standard, ovvero l’eccessiva dipendenza dalle diagnosi psichiatriche e la moltiplicazione dei protocolli, con conseguente difficoltà di apprendimento. Gli rispondeva Dobson, ribadendo –conservativamente ma giustamente- le conquiste della CBT standard. È interessante comunque notare come una delle ragioni del successo della CBT standard, la sua applicabilità alle diagnosi psichiatriche, oggi sia additata come fattore di debolezza. Eppure fu quel difetto che permise alla CBT di mettersi alla prova nel campo dell’efficacia e se ancora oggi molti terapeuti cognitivisti continuano a fregiarsi del titolo di scientificità ciò dipende non tanto da generiche somiglianze tra pratica clinica e modelli scientifici della psicologia di base ma grazie a quei dati di efficacia su diagnosi psichiatriche. Speriamo di non buttare il bambino con l’acqua sporca, come dice il proverbio.

Nella seconda metà del confronto si è assistito a un riallineamento dei ranghi chiarificatore. Di fronte all’invito di Nikolaos Kazantzis a confrontarsi con i dati sul modello dei fattori comuni di Lambert–che poi sono sempre dati utilizzati a favore della relazione terapeutica come strumento generico e universale- è emersa chiara una posizione di rifiuto, sia sanamente ideologica che scientificamente fondata. Huibers, collaboratore di Pim Cuijpers e insieme a lui esperto sulla ricerca sui meccanismi di azione e sull’efficacia, ha ribadito che i dati a favore dei fattori comuni sono solo relazionali e che le sue ricerche, insieme a quelle di Cuijpers, depongono a favore della risolutività dell’azione dei fattori specifici sulle disfunzionalità dei processi cognitivi come fattori decisivi su cui si può operare: insomma non contano i fattori quantitativamente prevalenti di tipo relazionale ma i fattori operativamente sensibili, e questi sono i fattori cognitivi. Questo per quanto riguarda l’aspetto scientifico. Dal punto di vista pratico e, se si vuole, sanamente ideologico sia Hoffman che Dobson, insomma sia la CBT processuale che quella standard, hanno ribadito che la svolta processuale non è una svolta emozionale e ancor meno relazionale e soprattutto non è una svolta sui fattori comuni, eliminando una volta per tutte un equivoco che ha ingannato molti.

CBT, CBASP, Schema Therapy e ACT a confronto

Nel pomeriggio c’è stato un secondo round di tipo clinico, con il format dell’attore che simula un paziente trattato da terapisti di differente orientamento. Si sono confrontati 4 terapisti: Steven Hollon che ha impersonato la Standard Cognitive Behaviour Therapy (CBT), Eva-Lotta Brakemeier, Philipps-per la Cognitive Behavioral Analysis System of Psychotherapy (CBASP), Eckhard Roediger per la Schema Therapy (ST), Andrew Gloster per la Acceptance and Commitment Therapy (ACT). Il paziente – un tipo molto rabbioso che esordiva dicendo che si era stufato del trattamento, che si trattava dell’ultima seduta e che lui era in crisi perché tradito dalla compagna- era impersonato da un collega, Christian Banzhaf della Charité University Medicine Berlin, Germany.

Sono risaltate sia le qualità personali dei terapisti che le loro procedure. Non era però chiaro quanto le qualità personali riflettessero anche le modalità procedurali e in qualche modo lo spirito dei rispettivi orientamenti. Sia Hollon (CBT) che Roediger (ST) erano più direttivi, ma il loro approccio si poteva eseguire altrettanto facilmente anche in maniere diverse, ovvero socraticamente piuttosto che didatticamente. Quel che era certo era che entrambi hanno condiviso il modello e il razionale dell’intervento con il paziente e questo era previsto nel modello. La direttività quindi è apparsa più uno stile personale di Hollon e Roediger, a mio parere. Il più avvolgente e spiazzante era Gloster, il rappresentante dell’ACT, il quale ha reagito all’aggressione iniziale del paziente secondo modalità aggiranti e felicemente passive che hanno smontato il paziente e poi lo ha condotto astutamente verso una posizione terapeutica facendogli esperimentare una tipica condizione ACT di possibilità di scelta e non di reazione meccanica al trigger emotivo.

Accanto alle qualità personali e uniche di reazione avvolgente e spiazzante di Gloster, un Buster Keaton che ha opposto all’aggressività del paziente una maschera fragile e una disarmante confessione di timore e impotenza che ha disarmato il paziente, più porgendo tragicamente l’altra guancia che sorridendo accogliente come un Budda statuario, risaltava come l’ACT abbia una modalità esperienziale che offre vantaggi ma forse anche rischi, almeno da quanto si è visto: il paziente scopre insieme alla terapista il razionale dell’intervento e la formulazione del caso ma, almeno nell’esempio fornito, mai in termini espliciti e dichiarativi. Ciò è affascinante ma il dubbio è anche che questa esploratività tutta vissuta e mai dichiarata non sia mai padroneggiata dal paziente che si trova in una sorta di stupore magico in cui non ha capito cosa sia accaduto. Naturalmente queste obiezioni lasciano il tempo che trovano di fronte a esemplificazioni molto rapide nei tempi e limitate nei contenuti, necessariamente un po’ teatrali il cui valore empirico non va esagerato.

Il quarto intervento, quello della Eva-Lotta Brakemeier per la CBASP, proponeva un metodo che lavorava, questo sì, in maniera esplicita sulla relazione come esemplificazione in vivo delle difficoltà relazionali del paziente. La Brakemeier ha chiesto esplicitamente al paziente di riflettere su come si poteva sentire lei, la terapista, nella relazione aggressiva instaurata dal paziente e poi, dopo aver chiarito questo passaggio, gli ha chiesto se a lui era mai capitato di sentirsi come si sentiva lei ora e poi operando un collegamento con il passato del paziente a cui effettivamente succedeva da piccolo di essere aggredito verbalmente dai genitori. A questo punto il paziente rifletteva sugli scopi dei suoi comportamenti aggressivi e perfino dei suoi stati emotivi. Un esercizio acrobatico di analisi cognitiva delle relazioni con salti temporali molto audaci e cambi di prospettiva complessi. In realtà salti simili, sia pure meno acrobatici, erano stati proposti anche dalla ST e in parte dall’ACT, manovre che inoltre non coinvolgevano il vissuto del terapista in maniera così intensa e strumentale. Il terapeuta CT aveva usato il suo vissuto solo per spiazzare il cliente e porlo in una posizione terapeutica. Il terapista ST aveva usato i ruoli con un minore coinvolgimento personale esplicito. In conclusione l’esempio della collega Brakemeier e del suo modello CBASP è un caso di uso cognitivo ed esplicito della relazione. Si tratta quindi di uno dei casi, piuttosto rari, di di integrazione forte con un modello relazionale che vada al di là della semplice adozione di modalità di good practice come la validazione e il calore accogliente. Rimaniamo qui per testimoniare eventuali sviluppi e successi di questo modello.  Per il momento, come ha detto Lynn McFarr, nella sua relazione sui punti fondamentali del training in CBT, la formulazione convivisa del caso è ciò che caratterizza in maniera significativa un terapeuta cognitivo e che lo distingue da un terapeuta eclettico che applica tecniche CBT nel suo modello.

Sviluppo del dialogo socratico, terapia personalizzata e sviluppi futuri della process based therapy

Interessante anche la relazione clinica di Christine A. Padesky che ha raccontato lo sviluppo storico del dialogo socratico, iniziato nei suoi primi sviluppi in termini più direttivi e forse impositivi, fidando nella forza dell’argomentazione e poi evolutosi attraverso l’uso di tecniche multimodali in una esplorazione sempre più congiunta e collaborativa dei molteplici livelli della disfunzionalità cognitiva. Secondo alcuni questa evoluzione tradisce un’apertura a interventi più genericamente emozionali perché non mediati dal ragionamento ma operati attraverso l’immaginazione o il corpo. Secondo chi scrive invece l’evoluzione è avvenuta non termini emozionalistici, per così dire, ma procedurali e e funzionali sviluppando tecniche di condivisione della formulazione del caso e del razionale dell’intervento, modalità forse trascurate nelle prime fasi.

Sul fronte della ricerca empirica su nuove idee ho assistito a un simposio sulla terapia personalizzata, in tentativo di scomporre i protocolli in moduli flessibili e applicarli isolandoli in base alle caratteristiche del paziente e cercando di comprendere quali siano gli abbinamenti migliori. Rob De Rubeis, Edward Watkins e Aaron Fisher sono riusciti a individuare in questo modo moduli più o meno efficaci per pazienti sposati che non sposati, con e senza lavoro, con non più o meno terapie alle spalle, e così via. Colpisce che siano più questi dati anagrafici a fare la differenza che dati di personalità, dove invece l’impatto sembra molto minore. I pazienti reagiscono in maniera abbastanza omogenea, sia pure presentando caratteristiche, personali ed emotive differenti.

La giornata si è chiusa di nuovo su toni ideologici, stavolta però in termini meno positivi e più deludenti. Ha chiuso infatti Steven Hayes che ha parlato degli sviluppi futuri della process based therapy, la forma integrata di CBT e terapia processuale che sta sviluppando insieme a Stefan Hofmann. Il discorso è stato deludente però. Un discorso troppo vago per non dire a tratti vuoto, con una generica chiamata alle armi sotto una nuova bandiera che vuole integrare seconda e terza ondata e invece sembra solo eclettica, anzi falsamente eclettica poiché dietro l’eclettismo tradisce un’impostazione ACT molto netta che forse sarebbe meglio confessare con franchezza invece che presentarla come una integrazione. A volte l’integrazione nasconde solo la paura di dire con chiarezza che è tempo di andare oltre. L’ACT sta facendo la sua offerta di acquisto del movimento cognitivo. Vedremo se riuscirà a vincere l’asta.

Filosofi, sacerdoti o economisti? Perché ci vergogniamo di essere “semplicemente” terapeuti?

Nel seguente articolo Giovanni M. Ruggiero e Sandra Sassaroli rispondono alle recenti dichiarazioni di Massimo Recalcati

 

La psicoterapia è quel che è: un mestiere e non una filosofia. Uno strumento e non una visione del mondo. Un attrezzo e non una religione. L’ultimo che c’è cascato è Recalcati il quale, pur tra intuizioni interessanti, finisce per attribuire alla forma di psicoterapia che lui pratica, la psicoanalisi lacaniana, compiti salvifici e poteri risolutori che poi rischiano di rivelarsi illusori.

 

Periodicamente la psicoterapia e i suoi antenati, la psicoanalisi ma anche la psicoterapia esistenziale e umanistica da Binswanger in poi, si vergogna di se stessa e paga – forse goffamente – il suo debito alla sua radice filosofica. Radice profonda eppure traditrice perché finisce spesso per incoraggiare l’umile psicoterapia a promettere più di quel che può dare: una visione del mondo e non solo una cura. Invece la psicoterapia è quel che è: un mestiere e non una filosofia. Uno strumento e non una visione del mondo. Un attrezzo e non una religione.

Massimo Recalcati: una psicoterapia dai superpoteri?

L’ultimo che c’è cascato è Recalcati, il quale, pur tra intuizioni interessanti, finisce per attribuire alla forma di psicoterapia che lui pratica, la psicoanalisi lacaniana, compiti salvifici e poteri risolutori che poi rischiano di rivelarsi illusori. Probabilmente questi superpoteri vanno al di là delle richieste dei pazienti. Un paziente viene in terapia perché soffre emotivamente e perché non riesce a realizzarsi negli affetti o nel lavoro o altrove o in tutti questi campi. Viene anche per altre ragioni più elevate? Viene anche perché, più nobilmente, non riesce a dare alla sua esistenza un senso più generoso e universale e meno egoistico della privata realizzazione di sé? Probabilmente sì, ma la psicoterapia comunque dovrà rispondere alla ricerca di senso agendo all’interno dei bisogni privati di quella persona singola e non replicare alle domande ultime sul senso del mondo.

Ed è qui che casca l’asino. Arrivato qui, lo psicoterapeuta talvolta vuole dare qualcosa di più, non ridursi a un umile rivenditore di benessere – così prossimo all’altrettanto umile rivenditore di prosciutti della pizzicheria all’angolo – e cercare un senso più alto. Dal non accontentarsi di aiutare il singolo paziente all’occuparsi del malessere universale dell’intera società, anzi del genere umano, il passo è breve, ma il salto può essere goffo.

È lì che ci s’incammina ma anche s’incespica. Quando Freud s’interroga sul disagio della civiltà, quando Binswanger esplora il senso dell’esserci nel mondo, quando Adler analizza la volontà di potenza e Jung si inabissa negli archetipi, quando Frankl cerca il significato dell’esistenza partendo dalla sua tragica esperienza del lager, quando Lacan contempla la possibilità della gioia nella vita umana e quando infine Recalcati ci raccomanda di abbandonarci alla follia dell’amore, indubbiamente tentano di dare qualcosa in più. Diventano filosofi e smettono di essere venditori sul mercato capitalistico della sofferenza emotiva. Ci riescono? In parte.

Un aspetto clinico positivo nelle tante aspirazioni filosofiche

Vi è un aspetto clinico positivo in questa ricerca di senso, intendiamoci. Queste aspirazioni filosofiche tecnicamente si traducono nel tentativo di andare oltre la mera risoluzione del sintomo. Certamente cercare il senso del sintomo può far parte dell’atto tecnico della psicoterapia e può essere un’operazione clinicamente giusta. Ci si chiede però se vi sia in queste elucubrazioni filosofiche fatte da analisti e psicoterapeuti un contributo originale al dibattito culturale.

Ad esempio, che la malattia psicologica abbia un senso e il sintomo sia un significato è un concetto caratteristico della cultura europea tardo-romantica già da prima della nascita della psicoterapia. Prima che in Frankl o in Binswanger, lo troviamo nella Montagna Magica di Thomas Mann, nei racconti di Schnitzler e in mille altre opere letterarie e filosofiche di quel periodo e ancor prima. La volontà di potenza e il primato del desiderio prima che in Freud, Adler e Lacan la troviamo in Nietzsche. Freud pescò idee per Totem e Tabù dall’antropologia nascente di quel periodo, prima e dopo James Frazer.

Piacerebbe pensare che questi pensatori, romanzieri e pensatori, si siano ispirati al pensiero psicologico, ma temiamo che il passaggio sia stato in maggior misura inverso: pensatori, romanzieri e filosofi hanno esplorato il significato esistenziale della sofferenza e psicoanalisti e psicoterapeuti ne hanno tratto ispirazione per il loro lavoro clinico. Il contributo originale degli psicoterapeuti all’elaborazione culturale e non solo clinica di questi concetti antropologici, letterari e filosofici è difficilmente valutabile e il rischio che corre lo psicoterapeuta che vuole diventare maestro di vita è quello di essere un divulgatore di idee che sono stati trattate meglio altrove.

Dalla riflessione esistenziale alla riflessione economica

Un ulteriore passo si compie quando si passa dalla riflessione filosofica ed esistenziale a quella sociale ed economica. E già, perché a quanto pare limitarsi a fare il proprio mestiere di psicoterapeuta significherebbe rimanere colpevolmente asserviti al sistema sociale ed economico di tipo capitalistico che ci sostiene senza aspirare a metterlo in discussione.

È compito della psicoterapia dare un contributo al superamento di questo sistema? È in grado la psicoterapia di fare un simile sforzo ideologico? Difficile. Sembrerebbe un compito culturalmente e politicamente immenso, al di là delle possibilità del pensiero clinico.

Infine Recalcati nella sua ramanzina sui tempora e sui mores non resiste alla tentazione di rifilare il solito calcetto alla psicoterapia cognitivo comportamentale quando sostiene che:

quando in psicanalisi si parla di verità si parla della verità singolarissima del desiderio. Cognitivismo, comportamentismo, scientismo non se ne occupano. Rammendano il funzionamento della macchina.

È un motivo retorico ricorrente quello di attribuire al cognitivismo clinico una vocazione tecnicistica che lo renderebbe incapace di rispondere alle domande esistenziali dell’individuo e ai bisogni sociali di superamento del capitalismo. Ne abbiamo già scritto più volte rispondendo a Galimberti.

A Recalcati non si può che rispondere allo stesso modo. La psicoterapia è uno strumento tecnico di cura della sofferenza emotiva. Dare un significato al sintomo ha senso ma comunque entro i limiti di un’operazione tecnicamente clinica. Coltivare aspirazioni culturali è un diritto di Recalcati, ma non è un’operazione psicoterapeutica e rischia sempre, a nostro parere, di essere un obiettivo velleitario: la vocazione del sacerdote è più alla portata dei filosofi e degli intellettuali che non si sporcano le mani con il lavoro clinico, che è inevitabilmente un lavoro immerso nella realtà quotidiana, che è una realtà di mercato capitalistico.

Un tempo, chi desiderava sottrarsi al principe di questo mondo si ritirava coerentemente in un eremo. Oggi si preferisce giocare su due tavoli, proporsi come sacerdoti e al tempo stesso rimanere sul mercato. Galimberti promuovendo il counseling filosofico, attività che – non si sa bene come – sarebbe in grado di opporsi allo strapotere della modernità capitalistica. Recalcati più tradizionalmente riproponendo la sua psicoanalisi lacaniana, disciplina misteriosamente immune alle catene del mercato a differenza della psicoterapia cognitivo comportamentale che invece ne sarebbe serva. Attenzione che il salto dalla critica alla modernità e del consumismo del mercato alla critica delle libertà dello stato di diritto è breve. In questi giorni Putin dichiara che il liberalismo occidentale è in crisi.

Non c’entra nulla con i nervosismi di Recalcati e Galimberti? Forse che si e forse che no.

La Compagnia delle illusioni (2019). La vita è un lenzuolo bianco, il film che vuoi proiettare lo decidi tu – Recensione del libro

L’autore del libro La Compagnia delle illusioni, Enrico Ianniello, affronta tematiche come il disturbo da lutto persistente e complicato e la ruminazione depressiva, invitando il lettore a riflettere e a partecipare al dolore del protagonista, ad essere curioso e ad approfondire le mille sfumature di questo personaggio.

Grazia Migliuolo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Antonio Morra, il protagonista di questa storia, dopo una carriera d’attore con un solo ruolo importante, a quasi cinquant’anni vive con la madre e la sorella Maria a Napoli, dove dirige un gruppo teatrale amatoriale. Il ragazzo di un tempo, pieno di sogni e forza di volontà, si è trasformato a causa di un terribile evento in un uomo senza capo né coda. Antonio è un ex attore professionista, un ex compagno, un quasi padre che per 23 anni vive nel pensiero di quello che sarebbe potuto diventare, di quello che era, di quanta felicità aveva vissuto.

Amata molto amata Lea, è questo l’incipit del libro, un carteggio con la sua compagna che va avanti dal momento della sua morte, da quando Lea attraversando la strada viene travolta, muore dopo poco insieme alla bambina che portava in grembo. Un lutto complicato quello di Antonio che rivive dopo quasi un quarto di secolo la tipica malinconia, il ritiro sociale, abulia e apatia di chi perde una persona cara.

Il momento del saluto con Lea non c’era mai stato perché Antonio aveva deciso di non entrare nella stanza dell’ospedale dove la sua compagna sarebbe morta da lì a poco; nemmeno al funerale riesce a partecipare, questo mancato saluto probabilmente contribuisce a mantenere attiva la fase iniziale del lutto che comporta un continuo ritorno ai momenti di felicità perduta che gli concedono solo di tirare avanti in una sopravvivenza senza sapore. Antonio idealizza l’amore passato.

Un amore così profondo da sfuggire all’uso dei nostri corpi attorcigliati, così puro da essere sacro, non umano, così forte da essere divino, così potente da renderci creatori di un tutto.

Questo rimanere fermo a 23 anni prima non permette al protagonista di avere relazioni sentimentali fino a quando non fa una serie d’incontri che gli stravolgeranno la vita, tra questi: zia Maggie, una misteriosa donna dall’età e dal passato indecifrabili, che lo assume per far parte della Compagnia delle illusioni.

La Compagnia delle illusioni

La Compagnia delle illusioni non è una compagnia teatrale, almeno non in senso stretto. È un gruppo speciale di attori totalmente sconosciuti ed eccezionalmente bravi, una squadra pronta a intervenire sulla realtà per modificarla secondo la volontà del committente.

La Compagnia delle illusioni non imita la realtà, la cambia in base alla volontà del cliente, perché Il fiore dell’illusione produce il frutto della realtà. Il frutto della vostra illusione ha prodotto il frutto della vostra realtà. Le persone non vedono ciò che vero, ma rendono vero quello che desiderano vedere.

Antonio è colpito dal carisma e si convince ad accettare questo strano lavoro vivendo sempre con un piede nel passato. Ed è così che il racconto scorrevole viene interrotto dal monologo di Antonio, un soliloquio che racconta di Lea, della loro vita passata e del perché questa vita sia stata inesorabilmente spezzata:

Amata molto amata Lea.
Questa città vi ha portato via da me, e io sono rimasto solo proprio mentre mi riempivo la testa e la pancia di desideri di felicità a portata di mano… poi magari sarebbe andato tutto in un altro modo, se tu fossi rimasta qui vicino a questo modesto attore innamorato di te, forse avresti avuto successo tu, forse avrei avuto successo io, chi può saperlo e in fondo cosa importa! ma saremmo stati felici insieme…

Una volta coinvolto in questo contesto lavorativo sui generis, ad Antonio viene chiesto di cercare un nome in codice:

“Ci vuole un nome in codice,” mi aveva detto Zia Maggie, durante il nostro primo incontro. “Magari non è così necessario, ma è meglio se lo tenete. Poi oggi si porta assai, questa cosa dei soprannomi. Non vedete che non esce romanzo ambientato nella nostra città ai giorni d’oggi che non sia pieno di soprannomi? E noi siamo immersi nella realtà e nell’attualità, ricordatevi. Il vostro nome vero deve servire solo alla vostra famiglia, ai vostri amici e per i vostri documenti. Ma qualcosa di illegale capiterà; quindi il vostro nome meno gira, meglio è.” “Zia Maggie, ma secondo voi dev’essere un nome eroico? Tipo un killer silenzioso? Che ne so, tipo Leòn? O un numero, tipo 007?” “Se vi piace, va bene pure Leòn, Crow, Coccodrillo e tutti gli animali che volete voi. Però non rispecchia proprio quello che dovrete fare. Io penso che sia meglio un nome mellifluo, imprendibile. Proteo, nun ve piace?” “Proteo? No… Me pare ’na medicina, no…” “Sì, forse tenete ragione. Allora fatevi venire un’idea che vi rispecchi. Tanto serve solo a noi. “Ci avevo pensato un po’, e alla fine avevo proposto il mio bellissimo, intenso, pugnace nome in codice: ’O Mollusco. Io non ho mai avuto una gran personalità, pure per questo avevo deciso di fare l’attore, da ragazzo, per vedere se potevo pigliarmi le personalità che mi offrivano i personaggi della letteratura e del teatro, e usarle nella mia vita di tutti i giorni, tutti quegli eroismi, quelle passioni febbrili che io sentivo di non avere, o di avere proprio poco poco. Invece, paradossalmente, il personaggio che mi aveva dato un po’ di fortuna, quel Raffaele il portiere che mi aveva reso riconoscibile per strada, era proprio così: un essere anonimo, senza mezzo straccio di opinione personale, pronto a mettersi al servizio di chiunque potesse allungargli un po’ di soldi; informato, sì, sui fatti di tutti quanti, ma invisibile. Allora pensai che ’O Mollusco era veramente il nome da battaglia giusto per me. Perché avevo una personalità scivolosa, senza capo né coda, una personalità umida e vischiosa: la personalità pelosa di una cozza. Almeno, questo pensavo di me.
 Mentre andavo verso l’incontro con Zia Maggie alla Villa Comunale, respirando l’aria fresca di una nuova primavera che refolava tra i vicoli e nelle maniche e si infilava maleducata nei colletti, ripensai a quella scelta. Si era dimostrata assolutamente perfetta. Facevo questo lavoro da due anni, ormai, e per il nostro gruppo di lavoro ero ’O Mollusco, o a volte pure The Wimp, in inglese, bellissimo! Sta arrivando The Wimp, diceva Zia Maggie al cliente, oppure questo è un lavoro per The Wimp, proprio come nei film. Finalmente ero davvero qualcuno, o qualcosa, proprio come nei film.

Così Antonio è diventato ’O Mollusco: l’interprete di mille ruoli diversi che gli permettono di influire sulle vite altrui fino a mutare la realtà, perché “le persone non vedono ciò che è vero, ma rendono vero quello che desiderano vedere”.

O’Mollusco, Rebecca, Beatrice.. chi fa parte della Compagnia delle illusioni?

Quando gli viene chiesto di darsi un soprannome sceglie il nome Mollusco perché lui sente di star partecipare ad una molluschizzazione morale che gli fa pensare di non poter più partecipare alla sorte di nessuno, se è reale. Antonio non sa più chi è, ha dovuto cedere il passo alle proprie illusioni, alla propria ruminazione depressiva, è affezionato al 25enne che era stato e una delle strategie per restare ancorato al passato è scrivere alla sua Lea.

Amata ancora amata Lea.
[…] Sei rimasta con gli occhi pieni, pieni di sogni, io me li ricordo bene i tuoi occhi. Eri bella, eri ispirata, eri intensa, eri forte, eri piena di piacere. Adesso dove sei? E il nostro piccolo sogno, dov’è? In quale angusto paradiso, s’è dissolto?[…]

Zia Maggie è una sorta di Virgilio che accompagna Antonio in una dimensione in cui la realtà cede il passo alla finzione, all’illusione, al gioco:

“non dovete prendervi troppo sul serio. Ecco tutto. Voi dovete danzare sulla vita, dovete cantare, dovete recitare. Dovete giocare”. Ed è una parola che Zia Maggie ha tatuato appena sotto il collo: in ludere. “ecco da dove viene la parola illusione, in ludere: essere in gioco. Nel gioco nasce tutto, dal gioco nasce tutto”.

La compagnia delle illusioni si avvale di una consulente, una psicologa per preparare la caratterizzazione di ogni personaggio da interpretare. Rebecca, ogni volta che c’era di affrontare un nuovo caso, chiacchieravo a lungo con lei per cercare di capire come gestire la situazione senza fare errori.

“Ascolti, io capisco che lei adesso sta lavorando sull’opposto di se stesso, è normale. Sta costruendo un personaggio diciamo…” “Merdoso?” “Sporco, basta la parola sporco. Ma non si dimentichi che, alla fine, quello che dovremo costruire sarà una persona. La differenza tra una persona e un personaggio sta nel fatto che la persona ha mille sfumature in più, non è bidimensionale, ha i suoi odori”.

Altro personaggio cruciale della storia della Compagnia delle illusioni è Beatrice, una giovane donna affascinante che affascina Antonio fino a travolgerlo e fargli rivivere l’incontro con Lea.

“Mi guardi e basta. Io sono complice del tuo sguardo, lo so; te l’ho sempre lasciato fare, non ti ho mai risposto male, mi sono sempre silenziosamente presa cura di te. Ma adesso la curiosità non mi lascia più scampo. Due domande te le devo proprio fare: chi sei e perché mi guardi? “sono un uomo qualunque, non credo di essere particolarmente interessante. E soprattutto non credo di esserlo per una ragazza come te”. “Si, piacere Beatrice, e tu? Mi sentivo emozionato come quando avevo incontrato Lea per la prima volta; forse anche di più, perché lì avevamo vent’anni tutti e due, quella era il capitale che ci offriamo reciprocamente, per trasformarlo presto in amore. Ora invece sentivo di essere fuori luogo, l’emozione era solo una variante dell’imbarazzo, in realtà mi vergognavo di me, della mia stempiatura, addirittura della mia esperienza, di fronte all’ingenua e limpida freschezza di quegli occhi, che chiedevano di vivere e scoprire la vita attraverso quella degli altri”.

La Compagnia delle illusioni, un libro che racconta l’elaborazione del lutto

Solo quando l’illusione avrà sovvertito anche la sua vita, Antonio potrà ritrovarsi. In fondo, come recita una delle regole della Compagnia delle illusioni

la conseguenza estrema della finzione è la verità.

Una storia bella e imprevedibile, raccontata con ironia, sentimento, compassione, e tanti altri toni che si susseguono rendendo la lettura del romanzo piacevole e avvincente.

L’autore del libro affronta tematiche come il disturbo da lutto persistente e complicato, la ruminazione depressiva, usando un’ironia che coinvolge il lettore, lo invita a riflettere e a partecipare al dolore, lo spinge ad essere curioso e ad approfondire le mille sfumature del protagonista.

La morte di una persona cara è un evento drammatico e doloroso, una delle sfide più impegnative della vita, che può indurre alcune persone a sviluppare un quadro clinico che si sta dimostrando altamente invalidante, con sintomi intensi e persistenti (anche per anni), correlato ad elevati tassi di rischio suicidario.

Il DSM 5 ha proposto la diagnosi di disturbo da lutto persistente e complicato per indicare proprio quelle condizioni in cui le manifestazioni acute del lutto, con vissuti a stampo negativo, di tristezza, colpa, invidia, rabbia, associati a persistenti ruminazioni relative alle cause, circostanze e conseguenze della perdita, permangono se sono trascorsi almeno 12 mesi dalla morte di qualcuno con cui l’individuo aveva una relazione stretta, considerando questo lasso di tempo come discriminante tra lutto normale e patologico.

Alla luce degli studi clinici e neurobiologici emerge l’importanza crescente di indagare tali quadri e, come delineato recentemente anche dal DSM 5, di una loro accurata caratterizzazione per individuarne le peculiarità cliniche e quindi l’autonomia nosografica da quadri potenzialmente affini. I fattori predisponenti o facilitanti il disturbo da lutto persistente e complicato possono essere sostanzialmente di quattro tipi, in quanto correlati a (L.Dell’Osso et al., 2013):

  • Caratteristiche del soggetto
  • Relazione con la persona deceduta
  • Circostanze della morte
  • Conseguenze della morte

Altro aspetto che caratterizza il personaggio di Antonio nella Compagnia delle illusioni è uno stile di pensiero ruminativo. Il protagonista s’interroga costantemente sul perché tali eventi si sono verificati chiedendosi “Perché proprio a me? Cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Avrebbe potuto andare diversamente, sul perché le cose sono andate così?”.

La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi interni e sulle loro conseguenze negative (Caselli et al., 2016). La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo legato ai sintomi della depressione (Nolen-Hoeksema, 1991). Tale forma di pensiero è rivolto al passato ed è legato alla perdita di qualcosa di importante. I pensieri ruminativi diventano la causa della comparsa della depressione, del suo mantenimento e aggravamento (Broderick, & Korteland, 2004).

Il mantenimento di questo processo cognitivo disfunzionale è dato dalle metacredenze, sia positive che negative, Antonio oltre a rifugiarsi nel passato per un’idealizzazione di quanto vissuto, ha l’obiettivo di capire il senso di quello che è accaduto, ripercorrerlo per avere una spiegazione, una valenza positiva della metacredenza. È una modalità di pensiero afinalistica poiché non conduce alla ricerca di soluzioni, tiene la nostra testa continuamente rivolta all’indietro a scrutare un passato che non ci piace e che vorremmo cancellare. La ruminazione è un susseguirsi di pensieri negativi che confermano e rinforzano la nostra condizione negativa.

Alla fine del romanzo sarà Lea a scrivere una lettera ad Antonio, sarà un saluto?

I dolori del giovane Indie

La musica può essere uno strumento utile per dare espressione a ciò che proviamo, soprattutto quando consente di dare sfogo ad emozioni dolorose. Un recente studio ha mostrato come addirittura il 73% dei musicisti indipendenti abbia sperimentato emozioni negative (stress, ansia, depressione) in relazione alla creazione musicale.

 

L’altro giorno al gruppo di musicoterapia che tengo settimanalmente con utenti ricoverati in una clinica di Bologna per disturbi del comportamento alimentare una ragazza ha chiesto di ascoltare il brano Petrolio del compianto rapper Cranio randagio, morto in circostanze poco chiare nel 2016. Si trovava a una cena a casa di amici e l’autopsia ha rilevato positività a alcol, cocaina e amfetamine. Una brutta perdita perché le canzoni che ci ha lasciato sono bellissime e Petrolio ha come cartello iniziale la scritta “Dedicato a chi, nonostante tutto non ha mai mollato”, presa dalle ragazze del gruppo come motto di speranza e fonte di coraggio per affrontare il lungo percorso terapeutico.

La storia raccontata con grande autenticità da Cranio randagio nella canzone è solo una delle tante storie di disagio personale e bisogno di riscatto attraverso la musica (spesso rap) della nuova leva di cantautori. Senza voler generalizzare, le narrazioni di questi ragazzi pullulano di frustrazioni nei confronti del mondo degli adulti che giudica e dà poca fiducia, bullismi e maltrattamenti, abuso di alcol o psicofarmaci, riscatto attraverso il successo musicale o economico.

La diffusione virale di molti di questi brani, che superano spesso i milioni di visualizzazioni, denota come i ragazzi si identifichino molto in questa narrazione, come se ci fosse qualcuno che finalmente li ascolti e riesca a dare voce ai loro disagi, proprio perché sono condizioni condivise e raccontate dai pari. Queste canzoni diventano una sorta di cassa di risonanza del disagio giovanile che coinvolge sia il pubblico che l’artista, tutti sulla stessa barca.

A questo riguardo, poche settimane fa è uscito uno studio molto interessante condotto dalla piattaforma di distribuzione musicale svedese Record union (potete leggerne di più qui) su un campione di 1500 musicisti, che ha mostrato come addirittura il 73% dei musicisti indipendenti abbia sperimentato emozioni negative (stress, ansia, depressione) in relazione alla creazione musicale. Sicuramente i dati dello studio vanno presi con le dovute cautele, visto che non si tratta di una rivista scientifica, ma l’analisi dei dati provenienti dal mondo reale può essere sicuramente interessante, tenendo ovviamente conto anche degli aspetti geografici (la Svezia non è l’Europa meridionale per tanti aspetti).

Lo studio di Record union: la sofferenza dei giovani cantanti

La fascia di età che più ha confermato un disagio è quella dai 18 ai 25 anni (80%), ma anche quella dai 26 ai 35 anni è ben rappresentata (76%), mentre dopo i 45 anni c’è un netto calo del disagio. Molto spesso il lavoro di musicista trova la sua massima incertezza nei primi anni di attività, mentre se una persona di cinquant’anni riesce ancora a campare di musica probabilmente ha fatto un lungo percorso alla fine del quale ha trovato una propria stabilità professionale.

I disturbi più rappresentati sono l’ansia e la depressione (intorno al 70% delle persone raccontano di averle sperimentate entrambe) mentre gli attacchi di panico sono stati dichiarati dal 33% dei partecipanti, un numero davvero molto alto e di gran lunga superiore agli studi sulla popolazione generale.

Tra le cause che i musicisti hanno identificato alla base dei propri disagi troviamo l’instabilità finanziaria e la paura del fallimento, complementare alla pressione per ottenere successo. La precarietà di questa condizione con poche sicurezze sicuramente può giustificare gli alti livelli di ansia dichiarati.

Meno della metà degli intervistati che dichiaravano la presenza di disagi ha chiesto un aiuto specialistico. Nella fascia tra 18-25 anni l’ha chiesto solo il 33%, mentre nella fascia 26-35 si è arrivati al 47%. Circa la metà delle persone sofferenti (51%) è ricorsa all’automedicazione con droghe, alcol o farmaci e questo è in linea con i contenuti di tante canzoni di cui parlavo in precedenza. Quest’ultimo dato è piuttosto preoccupante e porta a farsi delle domande sul perché i musicisti tentino di autocurarsi in questo modo: per vergogna o timore dello stigma? per motivi economici? per sfiducia negli “psi”? perché è più “rock and roll”?

Nonostante circa il 60% degli intervistati dichiarasse di preoccuparsi per la propria salute mentale (nel 40% dei casi addirittura più volte al giorno), gli artisti più giovani hanno mostrato maggiori difficoltà a parlare dei propri problemi psicologici e in generale a prendersi cura del proprio benessere psicologico mettendo in atto comportamenti salutari. Mano a mano che si sale con l’età il prendersi cura della propria salute mentale diventa più prioritario, ricercando comportamenti salutari come l’attività fisica, la meditazione, l’attenzione all’alimentazione, le pause dai social media e altri.

Circa la metà degli intervistati ha infine dichiarato che l’industria musicale non fa nulla per creare un clima più sano e sostenibile e da lì diversi discografici svedesi hanno iniziato a interrogarsi su cosa possa essere migliorato, per il bene della musica e dei musicisti.

ADHD: uso problematico della pornografia e ipersessualità

La comorbidità tra ADHD, ipersessualità ed uso problematico della pornografia potrebbe essere spiegata come un tentativo del soggetto di rispondere ad alcune sensazioni di frustrazioni, solitudine, noia.. caratteristiche di questo disturbo.

 

Il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività (ADHD) può essere definito come un pattern di problematiche inerenti le macro aree dell’iperattività/impulsività e della mancanza di attenzione che a loro volta causano disagi nello sviluppo e nel funzionamento dell’individuo (DSM 5).

I sintomi relativi all’area dell’iperattività/impulsività includono: parlare eccessivamente, interrompere discorsi tenuti da altri con relativa fatica a rispettare i turni di dialogo, irrequietezza. Mentre, i sintomi relativi all’area della disattenzione includono: facilità a distrarsi, riluttanza nell’impegnarsi in compiti che richiedono particolare concentrazione, la tendenza ad essere smemorati.

ADHD, ipersessualità ed uso problematico della pornografia

Nel corso del tempo, alcune ricerche hanno evidenziato come l’ ADHD presenti un’alta comorbidità con l’ ipersessualità (Reid et al., 2013) ed una moderata comorbidità con l’uso problematico della pornografia (Kraus et al., 2015). Per ipersessualità si fa riferimento alla tendenza ad ingaggiarsi ripetitivamente in attività sessuali al fine di ridurre lo stress ed attenuare le emozioni negative percepite. Per uso problematico della pornografia si fa riferimento all’utilizzo recidivo e sempre più crescente della pornografia al fine di migliorare il tono dell’umore.

A tal proposito, la forte comorbidità fra ipersessualità e ADHD potrebbe essere letta come un tentativo di automedicazione, ove l’individuo tenta di alleviare i sentimenti di frustrazione (solitudine, fallimento dei compiti, difficoltà lavorative e relazionali) derivanti dai deficit attentivi tipici dell’ ADHD (Reid et al, 2013) con la messa in atto di comportamenti di ipersessualità.

D’altra parte, la comorbidità, seppur moderata, fra uso problematico della pornografia ed ADHD sembrerebbe spiegata dalla sensazione di noia percepita dagli individui con ADHD, derivante da problematiche attentive, (Malkovsky et al., 2012; Grubbs et al., 2018) e così attenuata da un utilizzo disfunzionale di materiale pornografico.

Alla luce di questo background teorico, un recente studio ha cercato di spiegare la relazione presente fra ADHD, ipersessualità ed uso problematico della pornografia nei due sessi (maschile e femminile).

Lo studio

Lo studio, condotto su larga scala, comprende un campione (N=14.043) di uomini e donne ungheresi fra i 18 e i 76 anni, reclutati online e chiamati a compilare tre questionari self report: ADHD Self report Scale (ASRS), Problematic Pornography Consumption Scale e l’Hypersexual Behavior Inventory. Rispettivamente i tre self report indagano i sintomi relativi a: presenza di ADHD, uso problematico della pornografia e messa in atto di comportamenti legati all’ ipersessualità. Inoltre, al campione è stato somministrato un breve questionario sociodemografico (sesso, età, stato civile…) per una maggiore accuratezza dei risultati.

Dalle analisi statistiche è emerso che, indipendentemente dal sesso dell’individuo, ad elevati punteggi di sintomi ADHD corrispondono maggiori punteggi di comportamenti legati all’ ipersessualità. Contemporaneamente, è stata trovata un’associazione positiva tra sintomi ADHD ed uso problematico della pornografia con maggiore prevalenza negli uomini rispetto alle donne.

Dunque, questi risultati suggeriscono che la gravità dei sintomi da ADHD gioca un ruolo importante nel determinare sia la gravità dei comportamenti associati all’ ipersessualità che la gravità dei comportamenti associati all’uso problematico della pornografia negli uomini. Al contrario, fra le donne, sembrerebbe che la gravità dei sintomi da ADHD determini per lo più comportamenti legati all’ipersessualità piuttosto che comportamenti legati all’uso problematico della pornografia.

Le implicazioni cliniche derivanti da questi risultati sono degne di nota in quanto nella valutazione di soggetti con ADHD appare necessario indagare sia l’ ipersessualità che l’uso problematico della pornografia, dal momento che questi comportamenti problematici, sebbene non siano riconducibili ad una maggiore gravità del disturbo in sé, potrebbero esacerbare alcuni sintomi già presenti nell’ ADHD. Allo stesso modo, di fronte a pazienti che riportano problematiche inerenti l’ ipersessualità e l’uso problematico della pornografia sarebbe opportuno valutare la presenza di ADHD come problema alla base di questi comportamenti disfunzionali.

In conclusione, è doveroso chiarire che in nessun caso si può parlare di causalità diretta fra ADHD e ipersessualità/uso problematico della pornografia e viceversa, ricerche future e studi di natura longitudinale sarebbero maggiormente indicati nel valutare possibili relazioni di causalità diretta fra i disturbi indagati.

Interrompere scientificamente il contagio del virus antiscientifico

Per contrastare la disinformazione scientifica, in accordo con i modelli sulla persuasione, di processamento a due vie, l’informazione ha maggiore probabilità di essere persuasiva se vi è un’alta qualità dell’argomentazione portata e al contempo se si riesce a creare nell’uditorio un’alta motivazione al suo processamento.

 

Le persone sono maggiormente motivate a modificare le proprie credenze riguardo un argomento quando le evidenze che vengono portate loro sono coerenti e in linea con ciò a cui loro già credono; questa è la ragione per cui le correzioni a tali credenze che si sono succedute si sono rivelate spesso inefficaci e le confutazioni delle percezioni errate di una persona spesso si ritorcono perfino contro incrementando al contempo astiosità e rinforzando paradossalmente la percezione errata (van der Linden, 2019).

Nell’affermazione precedente vi è la fondamentale differenziazione tra scetticismo e negazionismo in ambito scientifico: lo scettico è colui che accetta i presupposti e i metodi scientifici ma non condivide con un altro le evidenze che ne potrebbero derivare e pertanto si muove alla ricerca di nuove e più pertinenti prove facendo progredire la scienza stessa mentre il negazionista accetta solo ciò che è coerente con la sua convinzione o prospettiva.

E se la sua prospettiva o convinzione fossero errate? Cosa succederebbe se tutti cominciassimo a pensare realmente che la Terra sia piatta, l’evoluzione solo un’affascinante teoria, il cambiamento climatico una farsa, il riscaldamento globale un’assurdità, i vaccini più dannosi che altro.. ?

L’esempio forse più evidente di ciò è ravvisabile nell’ormai ben noto fenomeno dei no vax, quel movimento di pensiero che mette in discussione l’affidabilità e la sicurezza dei vaccini, sostenendo la credenza (falsa) sull’alta associazione tra questi e l’esordio di autismo nei bambini. Conseguente a ciò vi è la riduzione nelle intenzioni dei genitori, che abbracciano tale pensiero, di non sottoporre i loro figli ai vaccini.

A tal proposito, uno studio di Nyhan, Reifler, Richey e colleghi (2014) ha messo in evidenza come una ferma e opposta argomentazione alla credenza no vax, finalizzata alla sua correzione, in realtà incrementi il fenomeno stesso rafforzando ulteriormente nei genitori l’idea che tutti i vaccini siano pericolosi e dannosi.

Tuttavia un recente studio di Wood & Porter (2019) ha trovato che le correzioni possono essere efficaci anche tra le udienze più schierate e motivate ideologicamente, ma che nel complesso il ragionamento motivato necessita di evidenze sperimentali più robuste.

L’intera comunità scientifica oggi riconosce di aver rimandato e ignorato per troppo tempo il crescente problema della diffusione della disinformazione scientifica, ulteriormente incentivata dall’uso di social network che ne aumentano la portata e la reperibilità, e soltanto recentemente ha riconosciuto l’urgente necessità di contrastare la disinformazione con armi alla pari, pubblicamente e in modo capillare.

Disinformazione scientifica e negazionismo? La scienza risponde..

In merito a quest’ultimo punto, un nuovo studio di Schmid & Betsch (2019), affiliati al Center of Empirical Research in Economics and Behavioral Sciences e del Media and Communication Science dell’università di Erfurt, Germania, ha cercato di rispondere a questa delicata questione conducendo sei esperimenti sia su diversi gruppi (studenti vs cittadinanza) e culture (Stati Uniti vs Germania) sia su differenti contenuti (vaccini vs cambiamenti climatici) e formati di presentazione di quest’ultimi (audio vs scritto) per riprodurre i medesimi risultati e avvalorarne la robustezza.

Gli autori dello studio si sono focalizzati su come sfatare le ideologie negazioniste in ambito scientifico, smascherandone e svelandone le contraddizioni e le debolezze, nell’esatto momento in cui queste avessero raggiunto un pubblico, dal momento che è ormai noto l’effetto per cui nelle discussioni pubbliche, anche mediatiche o televisive, una performance negativa o il tentativo di modificare e minacciare una convinzione errata da parte di un esperto in materia in realtà riduce la probabilità che l’audience modifichi la sua convinzione (van der Linden, 2019).

Esistono due modalità per rifiutare o confutare un messaggio: la prima consiste nel difendere strenuamente la propria posizione non considerando l’altra, la seconda nell’attaccarne la plausibilità dimostrando come in realtà questa sia frutto di una logica errata.

Uno degli strumenti più utilizzati dalla comunità scientifica per contrastare il negazionismo in ambito scientifico è la confutazione dell’argomento tramite la contrapposizione alla credenza errata di informazioni scientifiche circa un contenuto: ad esempio, quando un sostenitore dell’ambito no vax esprime la sua opinione riguardo al fatto che tutti i vaccini dovrebbero essere sicuri al 100% per poter essere somministrati ai più piccoli, in linea con questa strategia, il parere scientifico contrapporrebbe evidenze circa la straordinaria percentuale di successi delle vaccinazioni.

Tuttavia tale strategia non risulta massimamente efficace dal momento che il mero apporto di nuove e più precise informazioni tralascia un elemento fondamentale cioè la dimostrazione che, la ragione per cui quell’informazione antivaccino è da ritenere sbagliata non risiede nel contenuto stesso ma nel ragionamento che l’ha prodotta (van der Linden, 2019).

Nell’ambito del dibattito pubblico sui vaccini, la World Health Organization’s Regional Office per l’Europa ha recentemente introdotto una seconda strategia che mira per l’appunto a smascherare le tecniche portate dai negazionisti scientifici per rafforzare le loro affermazioni convincendo così l’uditorio. Riprendendo l’esempio di cui sopra, alla sicurezza assoluta argomentata dal negazionista, il parere scientifico potrebbe rispondere rivelando l’infondatezza di una convinzione basata su un’aspettativa impossibile e irrealista, quella di vedere i frutti della medicina come sicuri al 100% (WHO, 2019).

Le due strategie adottate dalla comunità scientifica, la confutazione dell’argomento e quella della tecnica (di ragionamento) non si escludono a vicenda e possono essere usate in combinazione per rispondere più efficacemente e mitigare l’influenza della disinformazione scientifica in quanto, in accordo con i modelli sulla persuasione, di processamento a due vie (Petty & Cacioppo, 1986; Chaiken, 1980), l’informazione ha maggiore probabilità di essere persuasiva sia se vi è un’alta qualità dell’argomentazione portata sia se riesce a creare nell’uditorio un’alta motivazione al suo processamento.

Lo studio di Schmid & Betsch (2019) ha pertanto voluto indagare i diversi effetti persuasivi di un negazionista su un uditorio, all’interno di una discussione pubblica sul negazionismo scientifico, quando seguito da un sostenitore del consenso scientifico che utilizza sia la confutazione della tecnica che del contenuto, come strategie singole o in combinazione, e quando non viene fatto seguire da un sostenitore lasciando senza che vi sia un’adeguata risposta al messaggio errato.

Benché vi siano delle sottili differenze tra i sei esperimenti, il corpus centrale è rimasto il medesimo per tutti: tutti i partecipanti sono stati sottoposti ad un colloquio con un negazionista, una persona che non ritiene veritiere o affidabili evidenze portate avanti dalla comunità scientifica e non ne sostiene le metodologie di ricerca.

Successivamente i partecipanti sono stati assegnati in modo casuale alle diverse condizioni previste dal disegno sperimentale, condizioni nelle quali il sostenitore della comunità scientifica poteva seguire o meno il negazionista nel dibattito, poteva controbattere alle sue argomentazioni utilizzando le due strategie sia singolarmente che in combinazione, e per ciascuna è stato misurato il grado di influenza avuto sull’uditorio in termini di cambiamenti o resistenza degli atteggiamenti e delle intenzioni sia prima che dopo l’esposizione al discorso negazionista.

Nel loro complesso, tutti gli esperimenti condotti hanno coerentemente mostrato come l’esposizione ad una disinformazione abbia avuto dei significativi e sostanziali effetti negativi sull’atteggiamento del pubblico nei confronti dei vaccini sia sull’intenzione alla vaccinazione, effetti ulteriormente amplificati nella condizione in cui il sostenitore della comunità scientifica era assente al dibattito (Schmid & Betsch, 2019).

A parere degli autori infatti, affinché si realizzi un impatto persuasivo per una modifica negli atteggiamenti e nelle intenzioni dell’uditorio mitigando così quello della disinformazione scientifica, è necessario che il sostenitore scientifico sia sufficientemente istruito nell’applicare, singolarmente o in combinazione, sia la strategia di confutazione della tecnica che del contenuto, in modo flessibile e appropriato al suo livello di expertise e alle circostanze.

Pare infatti che di solito la disinformazione scientifica, ad esempio sulle vaccinazioni, per influenzare l’uditorio e persuaderne le convinzioni, tragga le sue fondamenta a partire da cinque categorie (l’efficacia, il grado di fiducia nel suo funzionamento, la minaccia della malattia, il grado di sicurezza e la presenza di alternative) e strategie base (le teorie cospiratorie, la dichiarazione o il falso logico, la selettività delle argomentazioni, l’aspettativa impossibile) e pertanto sta all’esperienza e alla capacità dello scienziato rispondere ad essa o smascherando il suo ragionamento o fornire maggiori e più dettagliate informazioni, indipendentemente dal grado di suscettibilità e di motivazione al cambiamento o ideologia a priori del pubblico al quale egli si sta riferendo (Schmid & Betsch, 2019).

Gli autori hanno altresì sottolineato come, anche nei casi in cui vi era la presenza di un sostenitore della comunità scientifica a controbattere, la mera risposta di quest’ultimo non si sia rivelata sufficiente nel mitigare l’impatto negativo della disinformazione (Schmid & Betsch, 2019); da questo dato se ne deduce che in certi casi non basta svelare le incongruenze logiche o correggere le informazioni errate ma appare imprescindibile rendere il pubblico più consapevole e meno suscettibile ai messaggi negazionisti e alle loro sottili strategie di persuasione (van der Linden, 2019).

Un po’ come dire prevenire è meglio che curare, lo stesso per i vaccini.

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