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Parlare di sesso agli adolescenti: come il rapporto con i genitori influenza la vita sessuale dei giovani adulti

In letteratura numerosi studi hanno cercato di chiarire il ruolo di fattori ambientali e sociali nell’influenzare il comportamento dei giovani nella fase di sviluppo della sessualità, riservando particolare attenzione all’ambiente familiare, che generalmente rappresenta la base formativa dell’individuo e ne influenza lo sviluppo futuro..

 

I cambiamenti che hanno interessato le nostre società hanno radicalmente modificato il momento dell’ingresso nell’età adulta e nella vita sessuale dei giovani: l’allungamento dell’aspettativa di vita, così come l’accesso all’istruzione, una qualità di vita superiore e la tensione verso una parità maggiore tra i sessi, hanno consentito di ritardare l’imperativo del matrimonio come unico fattore emancipante, permettendo un periodo transitorio ed esplorativo più lungo, spesso accompagnato da un maggior numero di partner sessuali nel tempo, da ultimo ritardando l’età media al momento del matrimonio (Halpern & Kaestle, 2014).

Tuttavia, una maggior quantità di partner sessuali può rappresentare un rischio in termini di esposizione ad eventuali malattie sessualmente trasmissibili (Epstein et al., 2014; Faber et al., 2011; Vardas et al., 2011; Vasilenko, Kugler, Butera & Lanza, 2015), così come comportare ricadute emotive importanti nel momento di interruzione della relazione.

La letteratura scientifica si è già occupata di dimostrare come vi siano fattori ambientali e sociali capaci di influenzare il comportamento del giovane adulto in questa fase, riservando particolare attenzione all’ambiente familiare, che generalmente rappresenta la base formativa dell’individuo e ne influenza lo sviluppo futuro. In tal senso alcune variabili interessanti possono essere ad esempio la struttura familiare (Boislard & Poulin, 2011; Zito & De Coster, 2016), il livello di istruzione parentale (White & Warner, 2015) e  la religiosità dei genitori (Manlove, Logan, Moore & Ikramullah, 2008). In particolare, una buona relazione con i genitori è stata identificata come un fattore protettivo per un esordio sessuale precoce (Miller, Benson & Galbraith, 2001) e per una miglior internalizzazione dei valori trasmessi dai genitori (Sieving et al., 2000; Taris, Semin & Bok, 1998). Tuttavia, risulta essere meno chiaro come tale influenza si modifichi nel tempo, con la progressiva emancipazione dall’ambiente familiare e formazione come individuo autonomo (Sneed et al., 2006).

L’effetto delle variabili genitoriali e familiari sulla sessualità dei giovani

Uno studio di Cheshire, Kaestle & Miyazaki (2019) si è occupato di analizzare i dati di 5.385 soggetti provenienti dal campione originale (N=20.745) del National Longitudinal Study of Adolescent to Adult Health (Add Health), uno studio longitudinale su giovani adulti americani della durata di 13 anni, la cui quarta ondata di rilevazioni ha fornito i dati per questa nuova fase della ricerca: in linea con il trend stabilito dalle rilevazioni precedenti, gli autori prevedevano che la comprovata influenza delle variabili familiari sul comportamento sessuale della progenie sarebbe persistito, sebbene con impatto minore nel tempo.

Oltre a cercare conferma dell’effetto delle variabili genitoriali e familiari, il presente studio ha indagato la natura della comunicazione tra genitori e figli relativamente alla tematica sessuale, in particolare distinguendo tra la frequenza nell’affrontare il discorso, la natura stessa della comunicazione circa il sesso (che può essere neutrale-informativa oppure connotata negativamente) ed il momento in cui tale scambio avvenga, ovvero se esso preceda il primo rapporto sessuale o quando esso sia già avvenuto, in linea con le ricerche di Clawson and Reese-Weber (2003) che hanno riscontrato come una comunicazione avvenuta “in tempo” correlasse con un numero minore di partner sessuali.

Cheshire, Kaestle & Miyazaki (2019) hanno analizzato i dati dei soggetti per ottenere un modello della curva di crescita, secondo la cornice teorica della modellazione lineare gerarchica (Raudenbush & Bryk, 2002), in altre parole quest’analisi ha consentito di prendere un considerazione ad un primo livello (LEVEL 1) i dati totali del campione nelle quattro ondate di osservazione, rendendo conto dell’andamento individuale nel tempo; un secondo livello (LEVEL 2) ha analizzato invece l’impatto delle caratteristiche individuali e familiari sul comportamento mettendo in luce le differenze inter-individuali.

Le medie dei rapporti consumati nelle quattro ondate sono 1.81, 3.07, 6.23 e 12.33 rapporti rispettivamente; a 23 anni, cardine mediano di queste osservazioni, i soggetti avevano avuto in media 4 partner, con un ritmo di acquisizione del 17,4% all’anno, decelerando fino a raggiungere un plateau verso i trent’anni: quindi sebbene il numero dei partner cresca negli anni, il ritmo con cui i soggetti ne fanno esperienza cala con l’avanzare dell’età.

Il sesso dei soggetti esaminati è risultato un fattore determinante sul numero di esperienze nella prima età adulta, infatti le femmine registravano un numero inferiore di partner a 18 anni (13.9% in meno dei ragazzi), 12.5% in meno all’età di 23 anni, per poi calare drammaticamente ad un tasso del 21.7% di esperienze sessuali in meno rispetto ai coetanei maschi all’età di 28 anni. Allo stesso modo anche la maturità fisica del soggetto è stata messa in correlazione con un aumento nelle esperienze sessuali (20,8% in più). L’appartenenza ad un nucleo familiare costituito dai due genitori naturali o adottivi rappresenta un fattore protettivo, costituendo forse un esempio di stabilità genitoriale che scoraggia o non è comunque rappresentativo di uno stile sessuale più esplorativo che richiederebbe un maggior numero di partner. Una spiegazione similare è applicabile ai risultati ottenuti nel valutare l’impatto della religiosità dei genitori sulle esperienze dei giovani, infatti gli adolescenti e giovani adulti provenienti da nuclei praticanti riscontravano un tasso del 7,4% inferiore in ogni fascia d’età rispetto ai coetanei.

L’importanza della comunicazione

La comunicazione riguardo agli argomenti di natura sessuale risulta essere fondamentale nell’influenzare il comportamento dei giovani, tuttavia, i risultati ottenuti sembrano andare contro le intuizioni degli autori, così come le credenze del senso comune: in primo luogo, sembra che in generale, i soggetti che hanno fatto maggiori esperienze sessuali, provengano da quelle famiglie nelle quali si è dedicata maggiore attenzione alla comunicazione riguardo alla tematica sessuale (29.4% di partner in più all’età di 18 anni, fino ad una percentuale del 17.2% all’età di 28 anni). Tuttavia, non dicendo nulla circa la direzionalità di questa correlazione, è plausibile pensare che i genitori dei giovani in questione abbiano deciso di affrontare i discorsi circa il sesso proprio cogliendo i segni della maturità sessuale dei figli, cercando di prepararli per questa fase della loro vita.

Contrariamente a quanto previsto, si è riscontrato che la comunicazione circa le conseguenze negative del sesso non costituisce un fattore predittivo rispetto al numero dei partner con cui si è fatta esperienza e tale influenza rimane costante in tutte le fasce di età analizzate: sembrerebbe quindi che sottolineare le conseguenze negative del sesso sia assolutamente irrilevante, ovviamente non in termini di prevenzione, ma rispetto al numero di partner con cui i figli decideranno di avere rapporti.

La disapprovazione dei genitori circa la condotta sessuale dei figli sembra avere un effetto che varia nel tempo: in adolescenza essa correla con un tasso di partner sessuali del 24.3% inferiore rispetto ai coetanei, a 23 anni questo gap sembra venire rapidamente colmato (10.0% di partner in meno), per finire con l’8.6% di partner in meno a 28 anni. Sembra quindi che dimostrare disapprovazione abbia un effetto su quando i figli si sentiranno liberi di fare le proprie esperienze sessuali più che sul limitarsi o meno nel farle. Allo stesso modo, anche la relazione che intercorre tra la vicinanza con i genitori e il numero di partner sembra variare nel tempo, anche in questo caso risultando più evidente nella fase adolescenziale per poi calare in tarda età adulta (24.9% di partner in meno a 18 anni, 18.0% in meno a 23 anni e mantenendosi relativamente costante a 17.3% di partner in meno a 28 anni).

Per concludere

Sebbene lo studio di Cheshire, Kaestle & Miyazaki (2019) abbia delle limitazioni, una tra tutte quella di non indagare il ruolo di altre fonti che possano costituire dei modelli alternativi d’influenza (e.g. i pari, i media), i risultati ottenuti sembrano indicare che le influenze genitoriali giochino un ruolo rilevante nell’acquisizione dei valori e delle attitudini riguardo al sesso, più che sul numero effettivo di partner con i quali i figli hanno rapporti e tuttavia tale influenza perde di rilevanza nelle varie fasi di crescita, quando nella tarda età adulta i figli acquisicono indipendenza e tende naturalmente a prevalere la costruzione di legami più duraturi nel tempo.

Guidare un braccio robotico con il cervello: la Brain-Computer Interface

L’interfaccia neurale, nota anche con il termine inglese brain-computer interface o BCI, è una macchina che permette una comunicazione diretta e unidirezionale dal cervello ad un dispositivo esterno, non dipendente da nervi periferici o muscoli.

 

Il calcio d’inizio del Campionato Mondiale di Calcio tenutosi in Brasile nel 2014 fu battuto da Juliano Pinto, una persona affetta da paraplegia.

Per questa azione si è servito di un esoscheletro controllato dall’attività elettrica del suo cervello. Juliano aveva collaborato con l’associazione di ricerca no-profit Walk Again Project e insieme ad altri 7 pazienti, si era sottoposto ad un programma di allenamento per imparare ad utilizzare la struttura prostetica. Durante questo periodo i partecipanti avevano esperito vivide sensazioni propriocettive provenienti dalle gambe, che non potevano muovere dal giorno dell’incidente (Cicurel & Nicolelis, 2015).

La Brain Computer Interface per le comunicazioni cervello-dispositivi esterni

L’ interfaccia neurale, nota anche con il termine inglese brain-computer interface o BCI, è una macchina che permette una comunicazione diretta e unidirezionale dal cervello ad un dispositivo esterno, non dipendente da nervi periferici o muscoli. L’elemento centrale è un algoritmo in grado di tradurre automaticamente l’input elettrofisiologico, ad esempio quello proveniente dai sensori dell’elettroencefalografia, in un segnale capace di controllare le apparecchiature a cui è collegato. La BCI è considerata un importante strumento per investigare i principi fisiologici sottostanti le modalità con cui grandi popolazioni di neuroni interagiscono per generare le azioni.

Queste tecniche sono usate oggi per sopperire alla perdita delle funzioni corporee in diversi domini, come deambulazione, manipolazione degli oggetti, comunicazione linguistica ecc… ma, sebbene una tecnologia mirata a restaurare il controllo dei movimenti della mano e del braccio sia una priorità per molti pazienti, le interfacce neurali di questo tipo basate sul segnale EEG sono fra le meno efficaci. Ciò può essere imputato all’alta coordinazione richiesta per produrre azioni manuali complesse, nelle quali è indispensabile un posizionamento molto preciso del braccio robotico.

Interfaccia neurale e puntatore robotico per un nuvo protocollo

Il gruppo di ricerca guidato da Bradley Edelman (2019) ha sviluppato un promettente protocollo che, a differenza dei più usati paradigmi basati su trial discreti (più facili da valutare ed analizzare) nei quali lo scopo è spostare un cursore sull’area bersaglio, utilizza compiti analogici continui e senza limiti di tempo, una modalità più simile a quella della vita di tutti i giorni. Nel programma di allenamento proposto i soggetti dovevano seguire un oggetto in costante movimento sullo schermo usando l’interfaccia neurale collegata ad un puntatore robotico in grado di muoversi su due dimensioni. La traiettoria dell’apparecchio poteva essere guidata a destra e sinistra immaginando di muovere rispettivamente la mano destra o la sinistra, lo spostamento sull’asse verticale era invece controllato dall’immaginazione motoria di entrambe le mani e dalle pause. I ricercatori hanno utilizzato un filtro spaziale chiamato electrophysiological source imaging, il quale utilizza le proprietà elettriche e la geometria della testa e delle connessioni neurali per modulare gli effetti dei campi elettrici e magnetici generati dalle correnti cerebrali, in modo da stimare in modo più accurato l’attività corticale rilevata dai sensori dell’EEG in tempo reale.

Verso nuovi dispositivi neuroprotesici

I risultati mostrano come questo protocollo nel gruppo sperimentale, rispetto al gruppo di controllo allenatosi sul classico paradigma basato su trial discreti, abbia comportato una più veloce acquisizione di controllo neurale flessibile sul cursore, sia in compiti familiari che non. Le strategie scelte dai soggetti nei due gruppi differivano significativamente. I controlli hanno riportato di focalizzarsi più sul compito di imagery che sulla posizione del cursore, cosa impossibile per i task continui, dove era necessaria una costante attenzione visiva per gli aggiustamenti del braccio robotico. La differenza nei risultati può essere spiegata, secondo gli autori, dalla storica legge di Yerkes-Dodson, ovvero la relazione fra l’arousal fisiologico o mentale e le prestazioni che può essere illustrata come una U rovesciata, secondo questa teoria è necessario un livello ottimale di attivazione per una performance ottimale, e ciò cambia in base al compito (Yerkes & Dodson, 1908).

Siamo agli inizi di una scienza in grado di integrare le funzioni di cervello e macchina, le potenzialità in ambiti di ricerca quali ad esempio clinica, realtà virtuale o intelligenza artificiale sono ampissime. Lo sviluppo di protocolli non invasivi di questo tipo può fornire dispositivi neuroprotesici di ultima generazione ad un ampio bacino di utenti. Edelman e colleghi hanno progettato il primo braccio robotico controllabile con la mente capace di eseguire compiti di tracciamento continui, una tecnologia che un giorno potrebbe essere alla portata di tutti, al pari degli smartphone.

L’interazione con gli animali potrebbe ridurre lo stress universitario?

Negli ultimi decenni, gli studenti universitari hanno riportato un livello sempre più crescente di stress, ansia, sintomatologia depressiva e perfino ideazione suicidaria (Bayram & Bilgel, 2008; Keyes et al., 2012).

 

Il peso di tale sintomatologia si ripercuote inevitabilmente sul percorso di studi, con maggiori difficoltà nel portarlo a termine. A tal proposito, numerosi campus universitari statunitensi hanno adottato programmi volti a ridurre lo stress accademico degli studenti attraverso il contatto con gli animali (AVP; animal visitation programs).

Intrerazione con gli animali prima degli esami: lo studio

Questi AVP promuovono un contatto fisico con diverse specie di animali, in prevalenza cani e gatti, che va dai 5 a ai 45 minuti; sono state sperimentate diverse varianti AVP che si adattano a situazioni specifiche (portare i propri animali domestici sul posto di lavoro; organizzare incontri ad hoc con addestratori di cani; ecc..). Tale pratica ha riscosso molto successo e tuttora è in continua crescita ed espansione grazie ai benefici verificabili che apporta all’individuo, con aumento delle emozioni piacevoli, miglioramento del tono dell’umore e riduzione delle emozioni negative legate allo stress (Pendry et al., 2018; Grajfoner et al.,2017).

Il campione (N=249) composto da studenti universitari statunitensi è stato reclutato la settimana precedente agli esami finali, cosicché da assicurare la presenza del fattore stress nei soggetti. I partecipanti hanno compilato un sondaggio demografico e due questionari: il Beck Depression Inventory (1996) per la valutazione della depressione e il Beck Anxiety Inventory (1993) per la valutazione dell’ansia. In seguito, in maniera random, i partecipanti sono stati assegnati a 4 condizioni di trattamento (N= 73, interazione fisica con gli animali; N= 62, osservazione di altre persone che stanno interagendo con gli animali; N=57, osservazione e ascolto di un video sugli animali oggetto della sperimentazione; N= 57, erano in lista d’attesa per l’esperimento). Il giorno stesso della sperimentazione, gli studenti partecipanti hanno raccolto un campione salivare al momento del risveglio, che ha permesso di calcolare il livello basale di cortisolo pre-test. Successivamente, due ulteriori campioni salivari sono stati raccolti a 10 minuti e a 25 minuti dalla conclusione della condizione sperimentale. La scelta delle tempistiche per la raccolta della saliva non è stata casuale, difatti nel momento in cui si viene sottoposti ad uno stressor, il cortisolo si concentra nella saliva circa 25 minuti dopo. Dunque, stando alle tempistiche osservate per la raccolta salivare, gli sperimentatori hanno potuto misurare i livelli di cortisolo all’inizio del trattamento ed alla fine del trattamento.

Meno cortisolo, più emozioni piacevoli con gli animali

I risultati mettono in luce la riduzione dei livelli di cortisolo salivare nei soggetti che hanno preso parte alla condizione di trattamento che prevedeva una interazione a diretto contatto con gli animali per 10 minuti. Mentre, livelli più alti di cortisolo sono stati registrati per le tre restanti condizioni, con livelli di cortisolo leggermente minori nel caso dell’osservazione delle interazioni uomo – animale, rispetto alle due restanti condizioni cliniche. Questi risultati suggeriscono che un contatto diretto, seppur di soli 10 minuti, è in grado di abbassare il livello di stress dell’individuo; allo stesso modo, sebbene in maniera minore, anche l’osservazione e l’ascolto in terza persona di una interazione uomo – animale sembrerebbe agire sui livelli di stress, abbassandoli. Di certo, studi futuri potrebbero approfondire le possibili interazioni di alcune variabili che non sono state contemplate in questo studio, come la frequenza delle strategie di petting, la qualità dell’interazione che si è avuta ed anche il contatto visivo fra uomo e animale. Inoltre, prima di generalizzare i risultati dello studio, è bene ricordare che l’esperimento è stato condotto su un campione di studenti universitari, dunque sarebbe interessante espanderlo ad altri contesti.

In conclusione, i risultati presentati ci suggeriscono come la promozione dell’interazione con gli animali potrebbe rappresentare un aiuto emotivo, fisico e mentale valido per gli studenti universitari particolarmente stressati. Difatti, una riduzione degli ormoni dello stress, a lungo termine, può riportare benefici significativi per la salute sia mentale che fisica degli individui.

 

Aspetti psicologici della diagnosi prenatale

Lo screening prenatale rappresenta solo una parte degli esami che possono essere eseguiti durante la gravidanza e si affiancano agli esami specifici, effettuati solo in casi di rilevato rischio diagnostico. Decidere di eseguire test invasivi durante la gestazione, non è una scelta facile: i genitori si trovano a considerare l’esecuzione di indagini diagnostiche che potrebbero danneggiare il bambino, a vivere uno stato di ansia ed apprensione per la procedura in sé e per i possibili riscontri diagnostici.

Francesca Falco – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

La gravidanza rappresenta un momento di forte cambiamento nella vita della coppia e della donna: il corpo si modifica per fare spazio ad una nuova vita, ci si abitua gradualmente alla presenza di un bambino, che si fa sentire tra movimenti nella pancia e sintomi legati alla gestazione, come mal di schiena, gambe doloranti e frequente minzione, si inizia a pensare al concetto di famiglia, oltre quello di coppia, ed i partner iniziano ad assumersi un nuovo ruolo, che si affiancherà a quello di individuo e di compagno/a, quello del genitore.

Nonostante i numerosi cambiamenti nel corpo e nello stile di vita, il pensiero della futura mamma e del futuro papà è rivolto a creare uno spazio, oltre che fisico, anche psicologico ed affettivo al nuovo membro della famiglia, che tra ecografie e movimenti, inizia a farsi conoscere e ad alimentare un’immagine che nella mente dei futuri genitori si forma pian piano per tutta l’attesa del parto: l’immagine del proprio figlio.

La gravidanza ha una durata indicativa di 40 settimane, che compongono i 9 mesi di attesa, generalmente divisi in trimestri. Ogni fase della gestazione ha le sue peculiarità, che comprendono la fase di sviluppo del bambino, le modificazioni fisiologiche del corpo della mamma e le fasi diagnostiche della gestazione: durante tutto il periodo della gravidanza, infatti, vengono prescritti dei test, che potremmo definire ordinari, che accertano il normale progredire della gestazione e dello sviluppo del bambino e che monitorano la salute della gestante. Questi test sono importanti sia a fini diagnostici sia a fini preventivi in quanto esistono diverse procedure di intervento che permettono, in casi di diagnosi precoce, di intervenire tempestivamente su madre e bambino.

Esistono poi, oltre ai test ordinari, diverse procedure diagnostiche specifiche che vengono prescritte soprattutto quando si sospettano patologie e/o malformazioni del feto o della madre, o in situazioni in cui la gravidanza è considerata “a rischio”, ma si tratta di procedure che potrebbero mettere a rischio la vita del piccolo.

Screening prenatale: quali test e quando farli

Cos’è la diagnosi prenatale? Si tratta di una serie di indagini strumentali e di laboratorio finalizzati a monitorare alcuni aspetti dello sviluppo del bambino dalle prime fasi di vita embrionale alla nascita. Sono considerati test di screening poiché non forniscono una vera e propria diagnosi, ma danno un’indicazione della probabilità che il feto presenti o meno un’alterazione cromosomica, una malformazione congenita o di altre malattie. Lo screening eseguito mese per mese, quindi, consente di monitorare la salute non solo della gestante, ma anche del bambino, fornendo indicazioni su eventuali approfondimenti diagnostici necessari da eseguire solo in condizione di probabilità rilevata o caratteristiche specifiche dei genitori biologici (es. età della madre, familiarità con una determinata anomalia cromosomica, etc.).

Lo screening prenatale rappresenta solo una parte degli esami che possono essere eseguiti durante la gravidanza e si affiancano agli esami specifici, effettuati solo in casi di rilevato rischio diagnostico. A questo proposito, si possono distinguere due grandi categorie di esami prenatali: quelli non invasivi e quelli invasivi.

Del primo gruppo fanno parte tutte quelle procedure sicure al 100% sia per la madre, sia per il bambino, che forniscono una probabilità di presenza di una patologia, malformazione o anomalia cromosomica. Sono i test sui quali si basa la scelta di eseguire eventuali approfondimenti diagnostici di tipo invasivo. Attualmente le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità prevedono l’esecuzione di alcuni test non invasivi per ogni gravidanza:

  • Esami del sangue e delle urine per la gestante, utili ad individuare gruppo sanguigno e fattore Rh, presenza di malattie e infezioni, stato di salute generale della donna. Si eseguono fin dal primo trimestre e possono essere riproposti nei trimestri successivi in caso di rischio diabete (esame della curva glicemica), assenza di immunità per rosolia e toxoplasmosi, sospetta infezione della gestante.
  • Ecografia, effettuata fin dal primo trimestre per confermare la gravidanza, è l’esame che accompagna la gestante ed il suo bambino per tutta la durata della gravidanza. Ad ogni ecografia, vengono effettuate delle misurazioni per confermare o meno il corretto sviluppo del feto e per identificare, eventualmente, la necessità di sottoporre la donna ad ulteriori indagini. Alcune ecografie hanno obiettivi specifici e rappresentano uno specifico strumento di screening, come avviene ad esempio per l’ecografia morfologica o per l’ecocardiografia fetale.

Tra i test invasivi, invece, ci sono una serie di indagini diagnostiche consigliate in maniera mirata a coppie che riportano familiarità per determinate anomalie cromosomiche, che presentano una gravidanza geriatrica (ossia quando la futura mamma ha superato i 35 anni di età), o che hanno ricevuto dallo screening prenatale indicazioni di alto rischio per il feto, e mirano a verificare la presenza di anomalie cromosomiche specifiche. Tra i test invasivi maggiormente diffusi si hanno:

  • Villocentesi: si tratta del prelievo dei villi coriali, che avviene attraverso l’inserimento di un ago nell’addome della gestante, sotto la guida dell’ecografia. Si può eseguire a partire dalla decima settimana e permette l’analisi del DNA fetale.
  • Amniocentesi: prevede il prelievo di liquido amniotico (circa 20cc) attraverso l’inserimento di un ago nell’addome della donna, sotto la guida dell’ecografia, nel quale è possibile trovare cellule del feto. L’analisi di tali cellule permette di individuare il cariotipo del bambino, ossia la presenza di eventuali anomalie cromosomiche. È un test che può essere effettuato durante il quarto mese di gravidanza.
  • Cordocentesi: consiste nel prelievo di sangue del feto attraverso il cordone ombelicale. Essendo uno dei test invasivi più rischiosi per il bambino, viene effettuato solo in casi particolari, come ad esempio l’aver contratto un’infezione grave durante la gravidanza. Il test si effettua a partire dalla sedicesima settimana.

Si tratta di test che comportano un rischio di aborto a causa della procedura di raccolta del materiale biologico da esaminare, per cui necessitano di una buona informazione dei futuri genitori circa i rischi che la procedura comporta. Decidere di eseguire test invasivi durante la gestazione, non è una scelta facile: i genitori si trovano a dover considerare l’esecuzione di indagini diagnostiche che potrebbero danneggiare il bambino, a vivere uno stato di ansia ed apprensione sia per la procedura in sé, sia per i possibili riscontri diagnostici, vivendo così una gravidanza emotivamente difficile.

Alcuni Autori parlano dell’offerta di diagnosi prenatale come di una “decisione non voluta” (Wertz, Fletcher, 1993) che viene rimandata principalmente alla madre, in osservanza del diritto di scelta, ma che rappresenta per loro un vero e proprio momento di difficoltà. Una ricerca di Browner, Preloran e Cox (1999) ha evidenziato come tra le donne appartenenti a minoranze etniche, le ragioni maggiormente adottate nella scelta di procedere con la diagnosi prenatale siano principalmente la possibilità di prepararsi ad un eventuale bambino malato, la speranza di poter intervenire sul bambino, la necessità di essere rassicurate dal medico o di poter ricevere consiglio su come procedere, l’influenza del partner nella decisione e il desiderio di abortire qualora la diagnosi venisse confermata. Altri studi, invece, evidenziano come alla base della decisione di rifiutare la diagnosi prenatale, vi siano sia fattori culturali e religiosi (Righetti, Di Bernardo, Maggino, 2008) sia un elevato investimento nella gravidanza, che si affianca al rifiuto di riconoscere che il feto potrebbe non essere sano (French, Kurczynski, Weaver, Pituch, 1992).

È fondamentale, in quest’ottica, informare attentamente i futuri genitori su pro e contro di ogni accertamento prenatale, analizzando insieme i fattori di rischio, le motivazioni alla base della scelta e le possibili implicazioni. Se da una parte la diagnosi prenatale permette di intervenire tempestivamente su alcune condizioni, dall’altra potrebbe porre la coppia di fronte a decisioni molto più estreme, come dover ricorrere all’aborto a causa di malformazioni del bambino incompatibili con la vita o interventi di chirurgia prenatale, rischiosi anche per la gestante.

Aspetti psicologici delle procedure di diagnosi prenatale

Come precedentemente accennato, il solo sottoporsi ad una procedura diagnostica, invasiva o non invasiva, può rappresentare un motivo di ansia e stress. Alcune ricerche sembrano dimostrare che le donne tendono a provare una maggiore ansia prima del test da effettuare, un maggiore preoccupazione nell’attesa dei risultati ed una diminuzione dell’ansia di fronte all’esito negativo del test (Adler, Keyes, Robertson, 1991). Diversi studi hanno dimostrato come le donne sottoposte a test di diagnosi prenatale mostrino livelli di ansia significativamente più elevati di quelli di donne che non vi si sottopongono (Allison et l., 2011) e che i livelli di stress tendono a scendere con le rassicurazioni dei medici circa un esito negativo o con la spiegazione di interventi possibili per la salute del bambino (Marteau et al., 1989; Sarkar et al.,2006; Sarkar et al.,2008).

L’importanza dello stress e dell’ansia, risiede soprattutto negli effetti che questi possono avere sia sul rischio di parto pretermine, sia sullo sviluppo del feto. Alcuni Autori, infatti, hanno avanzato l’ipotesi per cui lo stress in gravidanza possa causare un parto pretermine: da una parte, potrebbe accadere a causa dei cambiamenti immunologici che lo stress produce nella gestante (Ruiz, Pearson, 1999), dall’altra a causa della maggiore suscettibilità alle infezioni dovuta ai cambiamenti immunologici prodotti dallo stress (Wadhwa et al., 2001). Inoltre, è stato dimostrato come lo stress sia in grado di ridurre i livelli di ormoni progestinici, che supportano la gravidanza, e di aumentare le prostaglandine, responsabili delle contrazioni uterine (Gennaro, Hennessy, 2003; Knackstedt, Hamelman, Arck, 2005).

Inoltre, gli studi dimostrano come l’esposizione del feto allo stress materno rappresenti un fattore di rischio nello sviluppo del bambino. È stata riscontrata una riduzione della formazione di sinapsi nell’ippocampo nei feti sottoposti a stress materno (Hayashi et al., 1998), una maggiore predisposizione ai disturbi mentali, principalmente depressione, ipersensibilità allo stress e difficoltà nella regolazione emotiva (Ruiz, Avant, 2005) e difficoltà temperamentali già a 10 settimane e 7 mesi di età, in bambini che, durante il terzo trimestre di gravidanza, sono stati esposti ad ansia materna (van der Bergh, 1992).

Un altro aspetto importante si riferisce al concetto di gravidanza provvisoria (tentative pregnancy) di Rothman (1986), per cui alcune donne aspettano ad investire emotivamente nella gravidanza fino a quando non sono pronti i risultati del test. È un aspetto molto interessante, poiché sembrerebbe incorporare, all’interno del concetto di maternità, il diritto di abortire, come se, evitando di investire emotivamente sul bambino in arrivo, si conservasse tale diritto, riducendo i rischi psicologici di un lutto prenatale terapeutico. Questo concetto deriva da ricerche che hanno dimostrato come, in alcune donne sottoposte ad amniocentesi, ci fosse la tendenza ad aspettare ad investire affettivamente nella gravidanza fino a quando non ci fosse il responso del test (Adler, Keyes, Robertson, 1991).

La gravidanza provvisoria si riferisce ad un concetto più ampio, che vede nella relazione materno-fetale un importante fattore predittivo: si tratta dell’Attaccamento Prenatale, caratterizzato da una serie di comportamenti che rappresentano interazione e coinvolgimento affettivo da parte della gestante verso il bambino che attende (Cranley, 1981). Questa interazione madre-bambino così precoce, assume notevole importanza in quanto è stato dimostrato che, già a partire dal secondo trimestre di gravidanza, il bambino è in grado di apprendere e di interagire con gli stimoli provenienti dal corpo della madre e dell’ambiente (Righetti, Sette, 2000; Della Vedova, Imbasciati, 2005). L’ipotesi avanzata da Rothman circa la sospensione dell’investimento affettivo, ha trovato riscontro anche nella letteratura scientifica: l’attaccamento prenatale è risultato essere inferiore nelle donne che decidono di sottoporsi a test prenatali invasivi, rispetto a quello rilevato nelle donne che rifiutano tali test (Righetti, Di Bernardo, Maggino, 2008).

Da non sottovalutare è l’aspetto religioso e culturale, che può rappresentare un ostacolo alla presa di decisione delle procedure diagnostiche, poiché si configurano come dogmi assoluti da rispettare: si pensi ad esempio alla fede religiosa, alle posizioni pro vita, alla paura di complicazioni o di poter, tramite le procedure diagnostiche, ferire il bambino. Queste convinzioni, possono ostacolare la consapevolezza della decisione di scegliere o meno una procedura diagnostica (Righetti, Di Bernardo, Maggino, 2008).

I risultati della diagnosi prenatale: le reazioni psicologiche

E se il test è positivo?

Dopo la difficile scelta di approfondire le indagini diagnostiche, i futuri genitori potrebbero trovarsi di fronte al responso di cui avevano tanta paura: la formulazione della diagnosi. In genere questa prevede, accanto alla denominazione del problema e alla sua spiegazione, una serie di possibilità di intervento sul bambino o sulla gravidanza, che vanno dalla terapia farmacologia (ad esempio, in caso di infezioni), alla chirurgia fetale (ad esempio, in casi di malformazioni operabili), all’aborto terapeutico (ad esempio, in caso di gravi malformazioni del feto che lo rendono incompatibile con la vita), all’accettazione incondizionata (ad esempio, in caso di feto affetto da trisomia 21, anomalia cromosomica compatibile con la vita, ma con un elevato numero di patologie in possibile comorbilità).

Ognuna di queste decisioni comporta non solo un momento di grande difficoltà emotiva, ma anche la necessità di prendere una decisione importante alla quale non tutti sono in grado di rispondere. Informare correttamente la coppia, supportarla nella scelta e fornire un adeguato sostegno psicologico, sono aspetti fondamentali della restituzione della diagnosi fetale e della decisione terapeutica che ne consegue.

In un recente studio che indaga l’impatto della diagnosi prenatale sulla coppia, è emerso che il risultato positivo del test provoca forte preoccupazione e shock nei genitori, e che lo stress diminuisce con un servizio di counseling nei giorni immediatamente successivi al responso del test (van der Steen, et al., 2016). Un altro studio ha dimostrato che i genitori che hanno ricevuto diagnosi prenatale di patologia fetale, riportano elevati livelli di ansia e stress al momento del parto, ma che esperiscono anche gratitudine per aver avuto il tempo di imparare di più sulla patologia del proprio figlio (Brosig, 2007).

I livelli di ansia e depressione delle madri che hanno ricevuto diagnosi di anomalie fetali, sono inoltre paragonabili a quelli di pazienti con episodio depressivo maggiore (Leithner et al., 2004).

Conclusioni

Conoscere le possibili implicazioni psicologiche delle procedure diagnostiche e dei risultati che ne conseguono rappresenta un dato importante non solo dal punto di vista scientifico, ma soprattutto dal punto di vista pratico: il susseguirsi di studi sul tema e le scoperte che ne sono scaturite, evidenziano da una parte la necessità di conoscere l’impatto psicologico di queste pratiche non solo per gli psicologi, ma anche e soprattutto per le figure professionali che gravitano intorno alla donna in attesa, dall’altra forniscono numerosi dati sui quali è possibile impostare sia dei programmi di prevenzione della salute psicologica, sia di intervento mirato alle situazioni in cui si manifesta una difficoltà conclamata. Un intervento che integri informazione, sostegno e contenimento emotivo, potrebbe rappresentare un valido strumento di supporto alla coppia in attesa (Righetti, Di Bernardo, Maggino, 2008).

Conoscere questi aspetti dovrebbe avere come diretta conseguenza una serie di servizi mirati da inserire all’interno delle strutture che si occupano della salute della gestante e del bambino. In particolare sarebbe interessante sviluppare:

  • Un programma di supporto della coppia nella fase di screening, che li aiuti a prendere una decisione consapevole, fornendo loro tutte le informazioni necessarie e supportandoli in qualsiasi scelta prendano
  • Un programma di screening psicologico della coppia e della gestante, che focalizzi l’attenzione sugli aspetti psicologici delle decisioni diagnostiche e dell’eventuale diagnosi, mirando a indirizzare chi ne manifesta la necessità ad un professionista della salute psicologica
  • Un programma di intervento psicologico mirato alla coppia e alla donna che, ricevuta la diagnosi, decide di intervenire sul feto o di interrompere la gravidanza
  • Un programma di supporto alla genitorialità e alla coppia che decide di portare a termine la gravidanza, nonostante l’handicap del proprio bambino.

L’auspicio è proprio quello di arrivare a garantire una migliore assistenza psicologica delle gestanti e delle coppie in attesa, al fine di ridurre al minimo il rischio psicopatologico e la sofferenza emotiva in generale sia durante le fasi di screening e di diagnostica, sia dopo l’eventuale esito positivo, mettendoli in condizioni di scegliere nel modo più consapevole possibile come intervenire sul bambino e come, eventualmente, affrontare la loro vita con o senza di lui.

Angry player one: i videogiochi violenti rendono veramente aggressivi?

Nel mondo si stimano 2,3 miliardi di videogiocatori. Lo scopo dell’articolo è quello di fare luce sulla credenza secondo cui i videogiochi violenti possono davvero rendere aggressivo chi ne usufruisce

 

Dal 1975, anno in cui nacque il primo videogioco, questi dispositivi di intrattenimento sono diventati sempre più comuni nelle case dei cittadini di tutto il mondo, evolvendosi di pari passo con il progresso tecnologico e differenziandosi molto dalle loro prime versioni. Non è cambiato soltanto il loro aspetto tecnico ma anche quello ludico: se infatti inizialmente i ragazzi si trovavano nelle sale giochi, che diventavano così anche un luogo di ritrovo, con l’avvento di internet si è passati ad un tipo di gioco più cooperativo ma isolato. Paradossalmente oggi si è in costante contatto con milioni di altri giocatori ma ognuno è da solo nella propria casa.

I videogiochi fanno male? Due teorie a confronto

Oggi quasi un terzo della popolazione mondiale videogioca; data l’ingente diffusione dei videogames molti autori si sono interrogati sugli effetti, positivi o negativi, che essi possono avere sui giocatori. Nonostante alcuni studi abbiano sottolineato una loro valenza positiva, il senso comune si è concentrato maggiormente sulle evidenze negative, alimentando sempre di più lo stereotipo che “i videogiochi fanno male”. Queste preoccupazioni sono sostenute principalmente dal fatto che molti videogiochi presentano elementi violenti, tali da far pensare che possano causare un aumento dell’aggressività in chi ne usufruisce (Griffiths, 1999).

Tra gli studi che confermano la credenza che i videogiochi aggressivi favoriscano l’aumento dell’aggressività vi è quello di Hollingdale e Greitemeyer (2014). Gli autori esaminano gli effetti dell’esperienza di gioco, comprendente la percezione della difficoltà e il divertimento, sui livelli del comportamento aggressivo. Dal loro lavoro è emerso che il giocare ai videogames violenti aumenta maggiormente i livelli di aggressività se paragonato all’utilizzo di videogiochi a contenuto neutro; questo effetto tuttavia non risulta essere significativo se il gioco avviene online. Anche Anderson e Carnagey in uno studio precedente del 2009 sono giunti agli stessi risultati spiegandoli mediante due ipotesi in contrapposizione: l’ipotesi del contenuto violento e l’ipotesi della competizione. L‘ipotesi del contenuto violento prevede che, nel breve tempo, i videogiochi violenti incrementino l’aggressività a causa del contenuto violento che aumenta almeno uno degli aspetti legati allo stato interno di una persona (cognizioni correnti, stato affettivo ed eccitazione fisiologica) mentre a lungo termine è possibile che aumenti l’accessibilità cronica alle strutture di conoscenza correlate all’aggressività. L’ipotesi della competizione invece sostiene che siano le situazioni competitive a stimolare l’aggressività; secondo questa ipotesi i collegamenti tra giochi violenti e aggressività non sarebbero dovuti al contenuto violento, ma al fatto che tali videogiochi coinvolgono tipicamente la competitività, mentre i videogiochi non violenti risultano spesso non competitivi. L’aspetto competitivo dei videogames violenti dunque potrebbe incrementare l’aggressività aumentando l’arousal, i pensieri o i sentimenti aggressivi; una versione forte dell’ipotesi della competizione afferma che il contenuto violento non ha alcun impatto e viene chiamata dagli autori ipotesi della sola competizione.

E se i videogiochi non facessero male?

Adachi e Willoughby (2011a) criticano la letteratura del passato affermando che la maggior parte degli studi non ha tentato di scovare altre dimensioni o effetti dannosi dei videogiochi che potrebbero essere correlati all’aumento dell’aggressività nei giocatori.

Per questo motivo Adachi e Willoughby (2011a) propongono un punto di vista nuovo sulla questione: i due autori identificano quattro caratteristiche del videogioco: la violenza, la competitività, la difficoltà e il ritmo d’azione. Queste caratteristiche influenzerebbero in modo diretto alcuni stati interni del giocatore come l’eccitazione fisiologica, i pensieri aggressivi e la frustrazione, che sono in relazione tra di loro; infine è la relazione tra le caratteristiche dei videogiochi e gli stati interni interni del giocatore che determina il comportamento aggressivo.  Questi risultati tuttavia non risultano universalmente veri: le quattro caratteristiche principali dei videogiochi identificate dagli autori, non influenzano la totalità dei videogiocatori bensì soltanto quelli che ne sono suscettibili. Stimoli come la competitività, la violenza o qualsiasi altro input proveniente dall’esterno viene infatti elaborato e filtrato dalla nostra mente, avendo su ognuno di noi un effetto diverso. La competitività del videogioco, ad esempio, può influenzare i pensieri aggressivi attivando legami associativi sviluppati in pregresse situazioni competitive che hanno prodotto esiti aggressivi (Anderson & Morrow, 1995; Anderson & Carnagey, 2009).

In un altro esperimento (2011b) Adachi e Willoughby hanno osservato che la competitività dei videogiochi incrementava il comportamento aggressivo a breve termine indipendentemente dal livello di contenuto violento: i due videogames più competitivi utilizzati in questo studio, Mortal Kombat VS D.C. Universe (violento) e Fuel (non violento), hanno infatti prodotto i più alti livelli di comportamento aggressivo. Gli autori (2011b) hanno infine dimostrato che l’eccitazione fisiologica può essere un meccanismo attraverso il quale la competitività del videogioco influenza il comportamento aggressivo, poiché solo Mortal Kombat VS D.C. Universe e Fuel hanno prodotto aumenti della frequenza cardiaca rispetto alla linea di base; sembra dunque che la competizione, non la violenza, possa essere la caratteristica che ha la maggiore influenza sul comportamento aggressivo.

Riassumendo i risultati di questo studio, gli autori hanno dimostrato che la violenza nei videogiochi non era sufficiente ad incrementare il comportamento aggressivo e che i videogiochi più competitivi producevano livelli più elevati di comportamento aggressivo indipendentemente dalla quantità di violenza.

I videogiochi possono fare bene?

I falsi miti sulla nocività dei videogiochi sembrano dunque essere stati messi in discussione; ma esistono dei benefici nell’utilizzo dei videogames?

I benefici intellettuali scaturiti dall’utilizzo dei videogiochi potrebbero derivare dalla loro caratteristica primaria di far prendere decisioni ai giocatori; molto più dei libri, dei film o della musica, i videogames obbligano a compiere delle scelte. É vero che dall’esterno l’attività di un videogiocatore sembra essere solo una furiosa ripetizione di click e questo spiega il perché del giudizio negativo riservato all’uso dei videogiochi, ma se si osserva attentamente l’interno della mente del giocatore ci si rende conto che l’attività primaria è di tutt’altro genere: è quella di prendere decisioni e di scegliere strategie a lungo termine. Giocare predispone all’apprendimento e l’essere preparati all’apprendere è già di per sé un esercizio mentale. Ad oggi sono ormai piuttosto diffusi anche gli edugame, giochi per il training che vengono utilizzati in svariati ambiti, dall’università, alle aziende, al settore militare; i computer e i programmi ad essi associati inoltre si comportano da tramite per la comprensione, da parte degli studenti, del loro mondo e di ciò che li circonda. Secondo varie ricerche (Griffiths, 2002; Desai et al., 2010) i bambini possono sviluppare abilità logiche e percettivo-motorie utilizzando i videogames e apprendendo le materie scolastiche divertendosi; inoltre l’apprendimento ludico è motivante per il bambino e stimola il piacere di costruire la conoscenza in gruppo. In questo modo imparare divertendosi diventerebbe il metodo più semplice per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Dalla letteratura recente (Griffiths, 2002; Granic, Lobel, & Engels, 2014) è emerso che l’utilizzo dei videogiochi può incrementare le competenze linguistiche, matematiche, di lettura e sociali; essi risultano inoltre un valido strumento di sostegno all’apprendimento per i bambini con disabilità e con difficoltà attentive e impulsività. I videogiochi sono stati infine utilizzati per migliorare le capacità di prendersi cura di sé in bambini e adolescenti con patologie mediche.

In conclusione, se inizialmente i luoghi comuni identificavano i videogames solo come un qualcosa di dannoso e pericoloso per i giocatori, la letteratura scientifica attuale non solo ha messo in discussione queste credenze ma ha anche dimostrato un valore positivo dei videogiochi nello sviluppo di competenze psicologiche e educative. Quindi non fatevi ingannare dai falsi miti: giocare per credere!

Percorsi di Consapevolezza: la Rèsilience delle Parole (2018): il potere trasformativo delle parole e l’uso della scrittura in terapia – Recensione del libro

Nel saggio Percorsi di Consapevolezza: La Rèsilience delle Parole, la scrittura viene intesa come una via d’accesso per entrare nel proprio mondo interiore, dove gli eventi che sono avvenuti in passato, attraverso la trascrizione vengono riportati ed elaborati nel qui ed ora (unico tempo in cui è possibile avviare il processo di guarigione).

 

È possibile con la sola scrittura elaborare eventi traumatici, migliorare la resilienza nei soggetti ed avere dei benefici a livello del benessere psicofisico?

Gabriella Ilse Viscuso (2018), psicologa ed esperta di psicologia transpersonale, risponde a questa domanda raccogliendo nel suo saggio Percorsi di Consapevolezza: La Rèsilience delle Parole, gli studi riguardanti la relazione tra scrittura e benessere, dimostrando, soprattutto nella prima parte, come la pratica della scrittura sia stata anche in passato utilizzata per esplorare ed esternare il proprio mondo interno.

Analizzando gli studi presenti in letteratura è stato possibile dimostrare che la scrittura possiede al suo interno componenti terapeutiche (Pennebaker & Smyth, 2017), in particolare ha un impatto sul sistema immunitario (Esterling et al, 1994), produce dei benefici a breve e a lungo termine sull’umore (Pennebaker et al, 1988; Páez et al, 1999), migliora l’autostima, apporta dei benefici al benessere psicofisico (Park & ​Blumberg, 2002), riduce i pensieri intrusivi su eventi negativi (Klein & Boals, 2001), allevia i sintomi del Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD) (Greenberg et al, 1996; Schoutrop et al, 1997, 2002; Sloan & Marx, 2004; Klein & Boals, 2001), migliora le relazioni tra gli individui (Slatcher & Pennebaker, 2006) e aumenta la resilienza (Demetrio, 2017).

Il valore della scrittura nel processo di cambiamento

Nel saggio Percorsi di Consapevolezza, il diario, l’autobiografia, la poesia e i racconti vengono intesi come un viaggio le cui strade riconducono al mondo interiore. La scrittura viene intesa come una via d’accesso per entrare nel proprio mondo interiore, dove gli eventi che sono avvenuti in passato, attraverso la trascrizione, vengono riportati ed elaborati nel qui ed ora (unico tempo in cui è possibile avviare il processo di guarigione).

Lo scopo della trascrizione dei ricordi e delle emozioni è quello di avviare un processo di rivisitazione dei propri eventi e successivamente avviare il processo metabletico (di cambiamento), sia a livello individuale sia a livello sociale.

Le parole, durante questo viaggio interiore, fungono da collante tra la realtà esterna e la realtà interna e servono, inoltre, per attribuire significato al proprio vissuto. Il significato che ciascun individuo attribuisce agli eventi, dipende da come il soggetto stesso vede e percepisce il mondo che lo circonda.

Il modo in cui l’individuo percepisce il mondo circostante può essere cambiato, attraverso l’utilizzo della scrittura, che permette all’individuo, per mezzo dell’introspezione, di ascoltare e narrare se stesso. Questi due ultimi aspetti insieme ad un atteggiamento non giudicante e all’accettazione, sono alcuni degli ingredienti per il cambiamento e la crescita personale.

La scrittura permette all’individuo di mettersi in contatto con i propri vissuti e le proprie emozioni e possiede una forte componente riparativa, in quanto permette al soggetto di regolare e rielaborare dei vissuti e crearne nuovi. Scrivere diventa una strategia per elaborare ed ordinare le emozioni che arrecano malessere al soggetto e attraverso la carta e la penna iniziano a prendere forma.

L’importanza della terapia narrativa

In ambito terapeutico, l’autrice enfatizza l’importanza della terapia narrativa in cui il soggetto viene incoraggiato ad attribuire nuovi significati alla sua storia. La terapia narrativa permette di esternalizzare il problema distaccandosi maggiormente da esso, scavare più in profondità nel problema per comprendere i motivi per cui viene percepito come una minaccia e viene aiutato a modificare la trama negativa per aiutare il soggetto a modificarle e renderle diverse da quelle che sono state le fonti dei suoi problemi.

Infine, l’autrice di Percorsi di Consapevolezza, dopo aver posto in rassegna i benefici della scrittura e i principali contributi in ambito scientifico, fornisce al lettore delle tecniche pratiche con l’obiettivo di accompagnare ed aiutare il lettore ad accrescere il benessere psicofisico.

In particolare, nell’ultima parte del libro Percorsi di Consapevolezza: La Rèsilience delle Parole, sono state proposte le seguenti tecniche:

  1. Istruzioni per iniziare a scrivere in un diario sia permettendo al soggetto di scrivere su un argomento a piacere, sia permettendo al soggetto di annotare eventi specifici, descrivendo i pensieri, le emozioni e le sensazioni fisiche associate;
  2. Scrittura espressiva basata su prompt ed esercizi, associati alla respirazione e alla consapevolezza;
  3. Scrittura transazionale, ovvero, una tecnica basata sulla stesura di una lettera; il cui obiettivo è quello di avviare uno scambio di idee, pensieri e sentimenti con persone che sono significative per il lettore.

Il cervello degli assassini

L’omicidio è un grave problema della nostra società: in un solo anno (2016) negli Stati Uniti si sono registrati 17.250 omicidi. Proprio per questo motivo è importante studiarne le basi biologiche, psicologiche e sociali.

 

Un gruppo di ricercatori ha voluto studiare il cervello di centinaia di assassini condannati, soffermandosi sulle differenze significative di materia grigia tra i soggetti che avevano commesso omicidi e altri soggetti che avevano commesso crimini violenti.

Il cervello degli assassini: gli studi per capirne la neuroanatomia

I risultati della ricerca sono stati pubblicati sul Journal Brain Imaging and Behaviour.

Studi precedenti, condotti negli anni ’90, hanno registrato, grazie all’utilizzo della PET, una ridotta attività cerebrale in diverse aree (corteccia prefrontale ed amigdala) negli assassini. È importante sottolineare che in queste ricerche i partecipanti allo studio erano assassini dichiarati “non colpevoli per infermità mentale”, perciò le differenze riscontrate a livello cerebrale potrebbero essere dovute o a disturbi mentali o a lesioni cerebrali.

Studi successivi hanno preso in esame i cervelli di individui violenti affetti da schizofrenia, i ricercatori hanno trovato alterazioni cerebrali nelle stesse aree, tuttavia sono andati incontro anche loro agli stessi problemi, poiché queste differenze a livello cerebrale non erano sufficienti per discriminare chi commetteva un omicidio o chi era affetto da schizofrenia.

Negli studi precedenti si utilizzavano gruppi di controllo di individui appartenenti alla popolazione generale, inoltre nessuno di questi era mai stato in carcere.

In questo studio gli autori hanno utilizzato sia per il gruppo sperimentale che quello di controllo soggetti in carcere.

In particolare, il campione era composto da 808 detenuti maschi adulti; ciascuno dei partecipanti era stato assegnato ad uno di questi tre gruppi:

  • Assassini, ovvero coloro che avevano commesso un omicidio (203 individui)
  • Criminali violenti ma che non avevano commesso un omicidio (475 individui)
  • Criminali non violenti o minimamente violenti (130 individui)

È importante sottolineare che dallo studio sono stati esclusi i soggetti con disturbi psicotici e chiunque avesse perso conoscenza per più di due ore, a seguito di una lesione traumatica.

È stato escluso anche chi aveva commesso un omicidio sebbene la causa della morte fosse stata accidentale, e anche chi non era stato coinvolto direttamente nel reato.

Per lo studio si sono utilizzate sia le scansioni della risonanza magnetica, sia le informazioni relative all’uso di sostanze, all’età dei partecipanti, al loro QI che informazioni riguardanti la loro permanenza in carcere.

I risultati dello studio hanno evidenziato differenze significative a livello cerebrale tra i criminali che avevano commesso omicidi e gli altri due gruppi (criminali violenti e non violenti).

È interessante notare che non ci sono state differenze significative tra il cervello dei criminali violenti e quelli non violenti.

Il cervello degli assassini: lo studio

Nello specifico, gli autori dello studio hanno scoperto che gli assassini, che avevano commesso omicidi, presentavano deficit significativi in diverse aree cerebrali: nella corteccia prefrontale ventrolaterale e dorsolaterale, nella corteccia prefrontale dorsomediale, nell’insula, nel cervelletto e nella corteccia cingolata posteriore.

Le riduzioni della materia grigia nel gruppo omicida erano evidenti, soprattutto in quelle aree cerebrali deputate all’elaborazione affettiva, alla cognizione sociale, al controllo comportamentale strategico, all’empatia, alla regolazione delle emozioni, al prendere decisioni morali e alla valutazione degli stati cognitivi degli altri.

Questo studio presenta dei limiti, dal momento che gli autori non hanno considerato l’impulsività e forse questi cambiamenti neuroanatomici sono semplicemente un segno che queste persone uccidono perché sono più impulsive. Inoltre, gli studiosi non sanno se questi deficit cerebrali negli assassini siano comparsi al momento della nascita o se si siano sviluppati nel tempo.

Sarebbe interessante, in futuro, indagare come e perché avvengono questi cambiamenti neuroanatomici e se questi possono essere trattati o prevenuti.

L’abilità del dimenticare: quadro neuroscientifico e implicazioni per la clinica

Sono incappata seguendo The Browser in un articolo che mi ha molto colpito: “The forgotten part of memory” di Lauren Gravitz, su Nature Outlook. E questo mi ha permesso di ragionare con Mattia Ferro, un neuroscienziato della nostra Università e di discuterne le implicazioni in clinica, per ora solo abbozzate. Riassumo l’articolo per poi fare qualche ipotesi utile a noi clinici.

 

Dimenticare come processo attivo della memoria

In questo articolo si sostiene che l’atto del dimenticare, dello scordare, che era stato spesso considerato un atto di decay, un processo passivo come “lo sbiadire graduale di una fotografia al sole” potrebbe essere invece un meccanismo attivo del cervello utilissimo per l’adattamento e sembra che in tutti gli animali lo standard potrebbe essere la perdita della memoria piuttosto che la sua persistenza. I luoghi dello storage della memoria sono diversi, ma le memorie autobiografiche iniziano a stabilizzarsi nell’ippocampo nelle ore o giorni dopo gli eventi. I neuroni comunicano tra di loro attraverso sinapsi, migliaia di sinapsi per ciascun neurone e la plasticità sinaptica consiste proprio nel loro rimodellamento continuo attraverso il rinforzo o l’indebolimento di tali connessioni. Questi network consolidati di cellule servono tra le tante cose a codificare la memoria, o per meglio dire i diversi ricordi (i neuroscienziati chiamano queste organizzazioni mnestiche “engrammi”). Più una memoria viene richiamata più si rafforza una determinata rete. Nel tempo le tracce mnesiche si stabilizzano sia nell’ippocampo che nella corteccia (quest’ultima è la probabile tappa di immagazzinamento finale degli engrammi).

Poco si è lavorato sulla comprensione dei meccanismi della dimenticanza. “Tutti gli esseri viventi dimenticano, se qualsiasi organismo può apprendere una lezione dall’esperienza la può anche dimenticare” sostiene Michael Anderson della Università di Cambridge. Probabilmente è difficile imparare se non si riesce anche a dimenticare. Ron Davis nel 2012, studiando i moscerini della frutta, per primo ha scoperto l’evidenza che il dimenticare fosse un processo attivo. Davis, un neuroscienziato dell’istituto di ricerca Scripps a Jupiter, in Florida stava studiando la complessità della formazione della memoria in alcuni gruppi di neuroni del moscerino, interessato a comprendere l’influenza dei neuroni che producono dopamina, un neurotrasmettitore modulatorio sia su altri sistemi neurotrasmettitoriali sia su determinati comportamenti. E questo sia nei mammiferi che nel moscerino, (ad esempio svolgendo un ruolo determinante nei processi di gratificazione o reward). Davis ha scoperto che la dopamina è essenziale nel dimenticare. Ha condizionato dei moscerini transgenici, in cui era possibile attivare selettivamente gruppi di neuroni dopaminergici, ad associare shock elettrici con alcuni odori, abituando gli insetti ad evitarli. Poi, attivando i neuroni dopaminergici gli scienziati si sono resi conto che i moscerini tendevano a dimenticare molto rapidamente l’associazione shock-odore. Bloccando gli stessi neuroni la memoria rimaneva intatta. Sembra che questi neuroni dopaminergici rimangano attivi a lungo, almeno nei moscerini. “Il cervello cerca sempre di dimenticare le informazioni che ha appena imparato“.

Esperimenti simili sono stati condotti nei ratti alcuni anni dopo investigando cosa accade alle sinapsi dei neuroni coinvolti nello storage della memoria a lungo termine. La stabilizzazione delle memorie dipende dal rafforzamento delle connessioni sinaptiche tra i neuroni, tramite un processo neurofisiologico denominato “potenziamento a lungo termine”. Il rafforzamento di questa connessione deriva (anche) da alcuni tipi di recettori presenti nelle sinapsi chiamati AMPA, l’inserzione nella sinapsi di nuovi recettori AMPA fa sì che la connessione sinaptica tra cellule nervose si stabilizzi e venga mantenuta elicitando l’apprendimento e mantenendo intatta una memoria. Ma questi recettori non sono stabili e il loro numero oscilla continuamente. Nel laboratorio di Hardt si è visto che vi sono meccanismi molecolari specifici atti all’espressione continua dei recettori AMPA nelle sinapsi. Ma nonostante ciò, alcune memorie vengono dimenticate lo stesso. L’autore quindi ipotizza un processo attivo del dimenticare che si esplicita tramite la rimozione di questi recettori. Quando invece Hardt e colleghi hanno bloccato il meccanismo alla base della rimozione dei recettori AMPA nell’ippocampo dei ratti, si sono resi conto che gli animali non dimenticavano più la posizione di alcuni oggetti. Per dimenticare occorreva un processo attivo che si occupasse di distruggere le connessioni delle sinapsi. Hardt concluse che dimenticare, più che un fallimento della memoria è una delle tante funzioni della memoria.

Anche Paul Frankland, un neuroscienziato dell’ospedale pediatrico di Toronto, ha trovato alcuni dati a conferma della tendenza a perdere ricordi come processo attivo. Il ricercatore stava studiando la neurogenesi di alcuni neuroni nel topo adulto, per molto tempo si è pensato che la neurogenesi avvenisse solo negli animali giovani, solo poco tempo prima si era scoperto che invece avveniva anche nell’animale adulto. Frankland si è chiesto se aumentando la neurogenesi in un topo adulto, si sarebbe potuto aumentare la capacità dei ratti di ricordare, aspettandosi proprio questo risultato. In realtà trovò proprio l’opposto: aumentando la neurogenesi i topi dimenticavano di più. Questo dato fa pensare che una volta che i neuroni si sono integrati nell’ippocampo adulto essi si integrano in un circuito già esistente con un suo equilibrio. Se si comincia a riscrivere sull’informazione esistente (tramite continua neurogenesi), l’accesso a questa informazione diventerà più complicato.

La funzione di questa tendenza è probabilmente di sopravvivere in un mondo costantemente in trasformazione e di adattarsi a nuove situazioni e poiché l’ippocampo non rappresenta il “luogo” nel cervello dove le memorie a lungo termine vengono immagazzinate stabilmente (bensì la corteccia cerebrale) se le nuove informazioni vanno a coprire dinamicamente o sostituiscono le vecchie questo non costituirebbe un difetto ma un vantaggio che aiuterebbe l’apprendimento proprio perché la riscrittura di nuove informazioni su quelle vecchie rappresenterebbe un adattamento continuo alla dinamicità delle informazioni sull’ambiente circostante.

Per quanto riguarda il cervello umano, Blake Richards dell’Università di Toronto Scarborough, sostiene che la nostra capacità di affrontare esperienze nuove ha a che fare con una tendenza controllata a dimenticare. Il rischio, se non ci fosse questa capacità, sarebbe quello di un sovraffollamento, o di sovradattamento, un termine che in intelligenza artificiale indica un modello matematico cosi ben strutturato per affrontare i problemi per cui è programmato che diviene inabile a predire ciò che è imprevisto. Un ricordo troppo minuzioso e dettagliato di un evento anche traumatico potrebbe impedire di trarre conclusioni generali e utili per evitare in futuro eventi simili. Dimenticare dettagli aiuterebbe infatti a ritenere l’essenziale.

Ci sono studi interessanti su persone con memoria autobiografica iper-sviluppata (HSAM) che dimostrano che questi individui, capaci di ricordare mostruosi dettagli di eventi della loro vita, tendono a non essere particolarmente stabili e realizzati e più inclini all’ossessività. Come sostiene Brian Levine, un neuroscienziato cognitivo del Rotman Research Institute at Baycrest Health Sciences di Toronto: “è esattamente ciò che ti aspetti da qualcuno che non riesce a staccarsi da istanze specifiche” Sembra che persone con l’opposto problema, una difficoltà a ricordare i particolari delle memorie autobiografiche, siano particolarmente brave a risolvere problemi astratti probabilmente perché non appesantiti dai dettagli. Anderson con il suo gruppo, utilizzando tecniche innovative (risonanza magnetica e spettroscopia), ha cercato di analizzare il funzionamento dei cervelli di soggetti sani, indagando i livelli del neurotrasmettitore inibitorio GABA (acido aminobutirrico) nell’ippocampo. Si è notato infatti in soggetti che tentavano di liberarsi di alcuni pensieri (e che forse mettevano in atto strategie anti-rimuginio o tentativi di abbandonare il rimuginio) che più era alto il livello di GABA più le regioni della corteccia prefrontale sopprimevano l’attività dell’ippocampo, e questo comportava una abilità maggiore a dimenticare.

L’atto del dimenticare come processo attivo e funzionale della memoria: considerazioni cliniche

Ma quali possono essere le implicazioni cliniche? Innanzitutto questi studi potrebbero spiegare il funzionamento delle benzodiazepine. La corteccia prefrontale comanderebbe all’ippocampo di inibire un pensiero attraverso il rilascio diretto o indiretto di GABA. Il ruolo cruciale del GABA nel sopprimere pensieri indesiderati potrebbe essere utile per comprendere meglio sia le fobie che i pensieri ossessivi, così come alcuni sintomi della schizofrenia e della depressione Il fatto che questi tentativi riescano o meno al soggetto, indipendentemente dalla strategia utilizzata consapevolmente o meno (come la capacità di certi fortunati soggetti di “stare senza pensieri” o ancora i tentativi di ignorare o sopprimere deliberatamente i pensieri che molto spesso mettiamo in atto quando accadono eventi spiacevoli) potrebbe quindi dipendere dal funzionamento della circuiteria GABAergica.

Alla luce di questi studi  possiamo chiederci a cosa serve la memoria? e la memoria autobiografica? Noi diamo in generale molto valore ai dettagli della nostra memoria autobiografica, alla vividezza del ricordare, ma potrebbe essere un errore secondo Hardt. La funzione della memoria deve essere soprattutto adattiva, deve permetterci di conoscere il mondo e di aggiornare questa conoscenza mano a mano che viviamo. Per fare questo occorre costantemente lasciare i ricordi per strada. Molti sintomi come la ruminazione depressiva, i flashback traumatici, i pensieri intrusivi,  e le difficoltà a controllare i pensieri, potrebbero, come suggeriscono le ricerche, derivare da un ippocampo iperattivo. Ciò potrebbe rappresentare un elemento transdiagnostico, ancora poco studiato e conosciuto in clinica. Anche il PTSD, è in fondo un problema del dimenticare.

Sarebbe interessante applicare queste moderne conoscenze derivanti da studi sulla memoria in area neuroscientifica, per aiutare le persone a dimenticare meglio. In clinica molto si è studiato e investito in tecniche per ricostruire, associare, analizzare ricordi dolorosi della vita dei nostri pazienti. Ma vi è la possibilità che queste tecniche ricostruttive abbiano anche qualche problema, ad esempio potrebbero mantenere la ruminazione e l’attenzione sugli elementi dolorosi, non permettendo alla memoria di fare il suo corso, che è spesso quello di aprire spazi per l’adattamento a situazioni nuove, alla sovrascrittura.

Questi studi potrebbero rafforzare i modelli clinici che si muovono nella direzione del lasciare andare i pensieri negativi occupandosi di altro, come ad esempio la Terapia Metacognitiva (MCT, Wells, 2009), e se questo fosse vero, gli aspetti interessanti dell’EMDR non sarebbero gli quelli di costruzione di risorse e di comprensione evolutiva ma proprio gli aspetti dei movimenti oculari che potrebbero funzionare da distrazione e aiutare la cancellazione di memorie difficili da lasciare andare perché dolorose (un recente articolo di Nature ha visto che i movimenti oculari del tipo EMDR in ratti causerebbero il rilascio di GABA nei circuiti collicolo-talamici). Anche la perdita di memoria nell’anziano potrebbe avere una funzione adattiva: rispetto alla riduzione dei neuroni sarebbe conveniente lasciare andare via più memorie del presente, che sono più impegnative da immagazzinare, tenendo viva l’attenzione alle informazioni salienti del presente (attraverso una specie di continuo cut and paste) o mantenendo  le memorie già saldamente e da tempo stabilizzate in corteccia. Anche le tecniche di intervento tipo MCT (Metacognitive therapy) si muovono proprio nella direzione di impedire, tramite spostamento di attenzione, la stabilizzazione dei pensieri negativi in memorie non utili per il presente.

Mi sembra che la visione che questo pur sintetico articolo di Nature vada in direzione funzionalista, vedendo tutti i sistemi viventi come sistemi impegnati continuamente a valutare i propri livelli di adattamento al presente.

Disturbi di personalità: i cambiamenti nel processo diagnostico dopo l’arrivo del DSM-5

La prevalenza dei disturbi di personalità è del 4-10% della popolazione. Il 30% dei pazienti che richiedono un trattamento ricevono una diagnosi di disturbo di personalità.

 

La personalità è il peculiare modo di pensare, sentire e comportarsi che ci distingue gli uni dagli altri. La personalità di ciascuno di noi è influenzata dalle esperienze che facciamo, dall’ambiente nel quale cresciamo e da aspetti ereditari. La caratteristica della personalità è quella di rimanere stabile nel tempo.

I disturbi della personalità sono modelli disadattivi di pensiero, e comportamento a lungo termine che differiscono significativamente da ciò che ci si aspetta, cioè si discostano dalle norme e dalle aspettative sociali del proprio ambiente di riferimento.

Se non diagnosticati e adeguatamente trattati causano problemi interpersonali, inadeguate capacità di coping e sofferenza per tutto l’arco di vita, dal momento che la struttura della personalità si sviluppa precocemente e tende a rimanere stabile nel tempo. Spesso il comportamento è egosintonico, cioè è coerente e funzionale rispetto all’immagine di sé, e quindi è percepito come appropriato, questo contribuisce alla rigidità e pervasività in più aree di vita.

In generale, i disturbi di personalità sono diagnosticati nel 40-60% dei pazienti psichiatrici, rendendoli i più frequenti nelle diagnosi psichiatriche. I disturbi di personalità sono generalmente riconoscibili nell’adolescenza, l’inizio dell’età adulta o talvolta anche dell’infanzia.

I disturbi della personalità influenzano almeno due di queste aree:

  • il modo di pensare a se stessi e agli altri
  • il modo di rispondere emotivamente
  • il modo di relazionarsi con altre persone
  • il modo di controllare il proprio comportamento

Classificazione dei Disturbi di personalità

I disturbi di personalità sono raggruppati in tre cluster basati su somiglianze descrittive:

  • Cluster A – è caratterizzato da comportamenti “strani” o eccentrici, diffidenza e tendenza all’isolamento: comprende la personalità paranoide, e le personalità schizoide e schizotipica.
    • Personalità paranoide: caratterizzata da diffidenza e sospettosità verso gli altri, ai quali tende ad attribuire cattive intenzioni; teme di venire danneggiata o ingannata, anche a fronte di mancanza di prove concrete.
    • Personalità schizoide: è caratterizzata da ritiro e introversione nei rapporti sociali, distacco emotivo e freddezza; la prossimità degli altri e l’intimità sono vissute con fastidio e timore ma sono altresì indifferenti alle opinioni degli altri nei loro confronti.
    • Personalità schizotipica: come la personalità schizoide mostra ritiro sociale e distacco emotivo, ma il comportamento e anche il pensiero risultano bizzarri e atipici. Puo esserci pensiero magico e paranoide.
  • Cluster B – è caratterizzato da comportamenti drammatici e dalla forte emotività espressa, egocentrismo e scarsa empatia: comprende il disturbo di personalità narcisistico, disturbo di personalità istrionico, disturbo di personalità borderline e quello antisociale.
    • Personalità borderline: presenta uno schema di instabilità nei rapporti personali, emozioni intense e scarsa capacità di regolarle, scarsa autostima e impulsività, senso cronico di vuoto e solitudine; una visione di sé e dell’altro che può passare velocemente da rappresentazioni opposte e scarsamente integrate; estrema sensibilità all’abbandono (reale o immaginario) al quale può reagire con disperati tentativi di evitarlo, coping maladattivo di stati emotivi che può esitare in auto ed etero aggressività, fino ad attivare ai tentativi di suicidio.
    • Personalità istrionica: è caratterizzato da una costante ricerca di attenzione da parte degli altri e dall’espressione drammatica di sentimenti ed emozioni; sempre preoccupate della loro immagine, le persone che soffrono di questo disturbo possono usare l’aspetto fisico e la seduzione per attirare l’attenzione, ma anche mostrare comportamenti infantili o esasperare una condizione di fragilità per ricevere cura e protezione.
    • Personalità narcisistica: caratterizzata da senso di superiorità, bisogno di ammirazione e mancanza di empatia per gli altri; sentendosi grandiosi credono di essere ammirati e invidiati dagli altri e si muovono come se avessero particolare diritto a soddisfare i propri bisogni e desideri, considerando l’altro come un mezzo per arrivare a tale scopo; sono sensibili al fallimento e alla critica che, disconfermando la propia grandiosità, possono suscitare rabbia ma anche indurre stati depressivi.
    • Personalità antisociale: ignora o viola i diritti degli altri, non dà valore alla norma sociale e usa l’altro per raggiungere i propri scopi (a differenza della personalità narcisistica lo sfruttamento dell’altro è puramente utilitaristico e non giustificato dalla propria presunta superiorità); può mentire ripetutamente o ingannare gli altri e agire impulsivamente.
  • Cluster C – è caratterizzato da comportamenti ansiosi o timorosi e da scarsa autostima: comprende il disturbo evitante di personalità, disturbo di personalità dipendente, e disturbo di personalità ossessivo-compulsivo.
    • Personalità evitante: caratterizzata da timidezza, sentimenti di inadeguatezza ed estrema sensibilità alle critiche; la difficoltà a stare in relazione spinge all’isolamento che però, a differenza della personalità schizoide, è vissuto con sofferenza e cela un forte desiderio di accettazione e vicinanza da parte dell’altro; critiche, rifiuti e abbandoni aumentano il ritiro sociale e, a differenza del disturbo borderline, non provocano rabbia ma vergogna e tristezza.
    • Personalità dipendente: le persone con personalità dipendente sono caratterizzate da insicurezza e scarsa autostima, possono avere difficoltà a prendere decisioni quotidiane senza essere rassicurate dagli altri o possono sentirsi a disagio o indifese quando sono sole, a causa del timore di essere incapaci di prendersi cura di se stesse; tendono a sottomettersi all’altro mettendo i propri bisogni e le proprie opinioni in secondo piano per il timore che l’altro possa risentirsi a e allontanarsi.
    • Personalità ossessivo-compulsiva: caratterizzata dalla preoccupazione per l’ordine, la perfezione e il controllo, spesso inflessibile in tema di moralità e valori; l’intolleranza all’incertezza e all’errore la rende poco flessibile e adattabile al cambiamento ed estremamente rallentata nel processo decisionale; la personalità ossessivo-compulsiva può essere eccessivamente concentrata su dettagli o programmi da svolgere tanto da faticare nel completamento di un compito o un’attività intrapresa, può lavorare eccessivamente sottraendo tempo a svago e amicizie; a differenza del disturbo ossessico compulsivo non presenta pensieri ossessivi e rituali.

La diagnosi di Disturbo di personalità

La diagnosi di un disturbo di personalità richiede che i professionisti della salute mentale osservino schemi di funzionamento e sintomi a lungo termine. La diagnosi viene generalmente effettuata dopo i 18 anni. Le persone con meno di 18 anni non sono in genere diagnosticate con disturbi di personalità perché le loro personalità sono ancora in via di sviluppo. È comune la diagnosi in una stessa persona di più di un disturbo della personalità. La prevalenza dei disturbi di personalità è del 4-10% della popolazione (Torgersen, Kringlen & Cramer, 2001). Il 30% dei pazienti che richiedono un trattamento ricevono una diagnosi di disturbo di personalità (Kessler et al., 1998; Lenzenweger & Clarkin, 1996)

Le valutazioni essenziali di un disturbo di personalità sono effettuate in base alle compromissioni del funzionamento (sé e interpersonale) e alla presenza di tratti patologici.

I criteri diagnostici per la ricerca ICD-10 e i criteri del DSM-IV sono differenti ma definiscono sostanzialmente le stesse condizioni. Nell’ ICD-10 il disturbo borderline di personalità viene definito come disturbo di personalità emotivamente instabile, tipo borderline.

Elemento di assoluta novità introdotto nel DSM 5 è la proposta di un modello ibrido dimensionale-categoriale per la personalità, che coniughi la possibilità di misurare il funzionamento personologico con la nosografia. A tale scopo è stata ideata una scala, definita “del Funzionamento della Personalità”, in cui si valutano le compromissioni del dominio del sé, che si riflettono nelle dimensioni dell’identità e della auto-direzionalità (self-directness), mentre quelle interpersonali sono considerate alterazioni nella capacità di empatia e di intimità. Il grado di disturbo presente nei domini, del sé e interpersonale, è stato pensato lungo un continuum che va da un livello 0, equivalente a una assenza di deficit, a un livello 4 che indica una compromissione estrema.

Il DSM 5 prevede, dunque, sei specifici disturbi di personalità: Borderline, Ossessivo-Compulsivo, Evitante, Schizotipico, Antisociale, Narcisistico, e Disturbo di Personalità Tratto Specifico (PDTS).

Per fare diagnosi di disturbo di personalità dovranno essere soddisfatti i seguenti criteri:

  • Criterio A – Compromissioni significative del sé (identità o auto-direzionalità self-direction) e del funzionamento interpersonale (empatia o intimità).
  • Criterio B – Uno o più domini del tratto patologico della personalità o sfaccettature/aspetti del tratto.
  • Criterio C – La compromissione nel funzionamento della personalità e l’espressione del tratto della personalità dell’individuo sono relativamente stabili nel tempo e costanti tra le situazioni.
  • Criterio D – La compromissione nel funzionamento della personalità e l’espressione del tratto della personalità dell’individuo non sono meglio compresi come normativi per la fase di sviluppo individuale o per l’ambiente socio-culturale.
  • Criterio E – La compromissione nel funzionamento della personalità e l’espressione del tratto della personalità dell’individuo non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per esempio, un abuso di droga, l’uso di qualche particolare farmaco) o di una condizione medica generale (per esempio, grave trauma cranico, effetti particolari di patologie metaboliche ecc).

Gli elementi chiave per i Livelli di Funzionamento della Personalità, relativamente al criterio A, sono indicati di seguito.

Dominio del Sé:

  • Identità: l’esperienza di sé come unico, con chiari confini tra sé e gli altri, stabilità dell’autostima e precisione di auto-valutazione; capacità e abilità di regolare una gamma di esperienze emotive.
  • Self-direction: perseguire obiettivi coerenti e significativi sia a breve termine che di vita, utilizzo di standard di comportamenti interni costruttivi e prosociali, capacità di auto-riflettere (self-reflect) in modo produttivo (acquisire quindi il senso delle proprie capacità e anche dei propri limiti).

Funzionamento interpersonale:

  • Empatia: comprensione e apprezzamento delle esperienze e motivazioni altrui, tolleranza di prospettive diverse, comprensione degli effetti del proprio comportamento sugli altri.
  • Intimità: profondità e durata della relazione positiva con gli altri, desiderio e capacità di vicinanza, reciprocità nei comportamenti interpersonali.

Per quanto riguarda il criterio B, sono stati individuati i seguenti domini della personalità:

  • Affettività negativa: sperimentare intensamente e frequentemente emozioni negative.
  • Distacco: ritiro da altre persone e da interazioni sociali.
  • Antagonismo: comportamenti che mettono le persone in contrasto con altre persone.
  • Disinibizione vs Compulsività: impegnarsi in comportamenti impulsivi senza riflettere sulle possibili conseguenze future. La compulsività è il polo opposto di questo dominio.
  • Psicoticismo: avere esperienze insolite e bizzarre

Per porre diagnosi di disturbo di personalità il clinico deve seguire una sorta di percorso guidato.

  1. È presente una compromissione del funzionamento (nell’ambito del sé e in quello interpersonale) della personalità?
  2. Se è presente, valutare il livello di compromissione del soggetto nell’ambito del sé e in quello interpersonale sulla Scala dei Livelli del Funzionamento di Personalità.
  3. È presente uno dei sei tipi di disturbi di personalità contemplati dal DSM 5?
  4. Se è presente, valutare il tipo e la gravità di compromissione e disturbo.
  5. In caso contrario, è presente un disturbo di personalità tratto specifico (PDTS)?
  6. Se è presente un PDTS, identificare e elencare i tratti/domini che caratterizzano il soggetto e valutare la gravità della compromissione.
  7. Se, in presenza di un PDTS, si desidera stilare un profilo di personalità dettagliato e utile per la formulazione del caso clinico e si proceda con la valutazione dei sottodomini.
  8. In assenza sia di un tipo specifico disturbo di personalità sia di un disturbo di personalità tratto specifico (PDTS), valutare la presenza dei tratti/domini specifici e dei relativi sottodomini qualora fossero utili nella formulazione del caso clinico.

La nuova modalità di valutazione della personalità e dei suoi disturbi ha prodotto un acceso dibattito all’interno della comunità scientifica ed una parte di essa ha assunto una posizione decisamente critica. In ogni modo, il cambiamento proposto dall’APA rappresenta un’assoluta novità e un importante contributo da parte della psichiatria americana al miglioramento dell’efficacia diagnostica del manuale, soprattutto per quanto riguarda il tentativo di associare una diagnosi di tipo categoriale con un sistema di valutazione dimensionale.

Disturbi di personalità e SCID

Le origini della SCID II, come per la SCID I, risalgono al DSM-III, in particolare quando fu introdotto nel manuale diagnostico il modulo per la valutazione dei disturbi di personalità elaborato da Jeffrey Jonas dell’ospedale Mc Lean di Belmont. Nel 1985, grazie all’ingente interesse per i disturbi di personalità nasce l’esigenza di valutare la presenza nei pazienti dei tratti e per questo fu realizzato uno strumento ad hoc che permettesse di compiere una diagnosi in tal senso. Nel 1986 questo strumento fu aggiornato con l’avvento del DSM-III-R e integrato con un nuovo strumento di screening sui disturbi della personalità. Successivamente, dopo aver verificato empiricamente l’attendibilità e la validità dei criteri riportati nell’intervista si giunse alla versione definitiva della SCID II pubblicata nel 1990.

La SCID II permette di effettuare la diagnosi di 10 disturbi di personalità, secondo il DSM-IV. Inoltre, sono inclusi altri 3 disturbi di personalità: il disturbo di personalità non altrimenti specificato, il disturbo passivo-aggressivo e il disturbo depressivo, cioè tutti quei disturbi che nel DSM IV sono inclusi nell’Appendice B.

La SCID II è composta da due parti: 
1. Un questionario autosomministrato da parte del paziente;
 2. L’intervista semi-strutturata di approfondimento degli item a cui si è attribuita una risposta affermativa al questionario.

Il questionario autosomministrato è formato da 119 item ed è consegnato preliminarmente al soggetto che dovrà riconsegnarlo allo sperimentatore al momento dell’intervista. I tempi di compilazione si aggirano intorno ai 20 minuti e richiede un livello di scolarità non inferiore agli 8. Le domande del questionario riguardano i disturbi di personalità proposti dal DSM IV ed è previsto un formato di risposta dicotomico del tipo Sì/No: Sì è presente il sintomo, No non è presente il sintomo.

Questo strumento di screening funge da guida alla successiva intervista. Infatti, nell’intervista saranno indagati solo gli item cui è stata attribuita una risposta affermativa, cercando di capire quanto è rappresentativa dell’esaminato.

L’intervista semistrutturata, costa di una breve rassegna anamnestica, che consente di focalizzare le principali caratteristiche dell’intervistato, le relazioni e le capacità introspettive. Successivamente, sono analizzati i diversi disturbi di personalità nel seguente ordine:
 Disturbo Evitante di Personalità,
 Disturbo Dipendente di Personalità,
 Disturbo Ossessivo-Compulsivo,
 Disturbo Passivo-Aggressivo, 
Disturbo Depressivo, 
Disturbo Paranoico, 
Disturbo Schizotipico,
 Disturbo Schizoide,
 Disturbo Istrionico,
 Disturbo Narcisistico,
 Disturbo Borderline,
 Disturbo Antisociale.

Quest’ultimo merita una precisazione, poiché con il questionario è possibile verificare unicamente la presenza dei sintomi del Disturbo della Condotta presenti in età infantile, prima dei 15 anni. Solo se confermati questi criteri, possono essere approfonditi nell’intervista semistrutturata procedendo con la diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità.

Come è possibile notare, si inizia con i disturbi appartenenti al cluster C relativo ai disturbi d’ansia, per giungere al cluster B, drammatico, passando per il cluster A. Nei casi in cui non sono soddisfatti i criteri per una specifica area di personalità, si formula una diagnosi di Disturbo di Personalità Non Altrimenti Specificato.

Nel 1994, con l’uscita della nuova versione del DSM IV si ottenne anche una nuova SCID II in cui furono modificate alcune domande per centrarle maggiormente sull’esperienza personale derivante dal paziente. La versione definitiva e autonoma della SCID II per il DSM-IV fu pubblicata nel 1997 in America unitamente alla versione computerizzata.

Con l’uscita del DSM 5 è stata proposta una versione nuova della SCID, versione aggiornata della precedente intervista clinica. I criteri del DSM-IV presenti nella SCID II per DSM IV sono rimasti invariati nel DSM 5, ma le domande del questionario sono state completamente riviste e ridotte da 119 a 106. Inoltre, è stata aggiunta una modalità per effettuare uno scoring dimensionale diverso dal precedente, rispettando la nuova classificazione presentata in appendice nel nuovo DSM 5.
 La SCID-5, come la versione precedente, è una preziosa risorsa per aiutare i clinici e i ricercatori nell’effettuare diagnosi precise e attendibili dei disturbi di personalità.

La SCID-5-PD nasce dal lavoro di revisione della SCID-II (Structured Clinical Interview for DSM-IV Axis II Personality Disorders), che inizia dopo la pubblicazione del DSM 5 nel 2013 e riflette le modifiche apportate nel nuovo manuale dei disturbi mentali. La nuova denominazione rappresenta la definizione non assiale delle diagnosi del DSM 5 e categorie di ricerca precedentemente incluse nel DSM-IV ma eliminate nel DSM 5 (Disturbo di Personalità Passivo- Aggressivo e il Disturbo di Personalità Depressivo) sono state escluse.

Nonostante nessuno dei criteri sia stato modificato nel passaggio al DSM 5, tutte le domande dell’intervista sono state revisionate al fine di garantire di cogliere al meglio il costrutto espresso nei criteri diagnostici e rispecchiare con maggiore aderenza l’esperienza personale dei soggetti.

Inoltre, sebbene la valutazione dimensionale non sia una caratteristica ufficiale del DSM 5, la SCID-5-PD prevede la possibilità di effettuare una valutazione dimensionale di ciascuno dei disturbi di personalità categoriali del DSM 5 sommando il singolo punteggio di ciascuna valutazione (“0”, “1”, “2”) e producendo per quel disturbo un punteggio dimensionale che riflette sia il punteggio a soglia, sia il punteggio sottosoglia del criterio.

La psicoterapia si riappropria del corpo. Dall’ipocondria ai Disturbi da sintomi somatici e Disturbi correlati

L’ ipocondria, corrispondente alla “paura delle malattie”, gradualmente ha mutato la sua connotazione per certi versi stigmatizzante e penalizzante, associata quasi all’idea di malato immaginario

 

Nulla spaventa gli uomini più delle proprie sensazioni
Eraclito

La paura delle malattie e della morte, è una condizione di sofferenza che affligge l’uomo da tutta una vita. Ma quando tali paure si manifestavano sul corpo, si tendeva a scindere tra organico e psichico, quasi considerando coloro che manifestavano sintomi fisici in assenza di patologie organiche, dei “malati immaginari”.

Per molto tempo questa è stata la condizione di chi soffriva di ipocondria.

L’ ipocondria, corrispondente alla “paura delle malattie”, gradualmente ha mutato la sua connotazione per certi versi stigmatizzante e penalizzante, associata quasi all’idea di malato immaginario e grazie ai contributi offerti dall’ultima revisione e rivisitazione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM 5) nel 2013, troviamo riorganizzati i problemi ipocondriaci all’interno di un nuovo capitolo in cui è presente direttamente o indirettamente un aspetto somatico ed una compromissione significativa sul piano personale, lavorativa, sociale, ed esistenziale, approfondendo ed analizzando gli aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali caratteristici dei disturbi.

L’ipocondria sparisce dal DSM-5

Se ti opponi a tutte le sensazioni non avrai alcun metro di giudizio per distinguere quelle vere da quelle false.
Epicuro

All’interno del DSM 5 troviamo una nuova sezione denominata Disturbi da sintomi somatici e Disturbi correlati, in cui vengono inclusi:

  • Disturbo da sintomi somatici
  • Disturbo da ansia di malattia
  • Disturbo di conversione (disturbo da sintomi neurologici funzionali)
  • Fattori psicologici che influenzano altri condizioni mediche
  • Disturbo fittizio
  • Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati con altra specificazione
  • Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati senza specificazione

L’ansia diventa il denominatore comune di gran parte dei disturbi sopracitati ed in linea generale troviamo due tendenze, ossia gli “abusatori” di visite mediche e specialistiche e ricerche online, che nel tentativo di rassicurare le proprie paure le aumentano ed esasperano, ed i “patofobici” che evitano tutto ciò e tutti coloro che possono avere a che fare con malattie.

Non si evidenzia una significativa differenza di incidenza tra maschi e femmine.

Tra i fattori di rischio si evidenziano:

  • Stile familiare iperprotettivo e iperansioso, con attenzione eccessiva allo stato di salute;
  • Esperienze di malattie in famiglia;
  • Essere esposti a fattori di stress come ad esempio lutti, separazioni e divorzi, perdita di lavoro, conflitti in famiglia, problemi economici, problemi di salute.

Le nuove classificazioni proposte dal DSM 5

Ma vediamone più nel dettaglio alcuni di questi, secondo la classificazione proposta DSM 5:

Disturbo da sintomi somatici

Tipicamente gli individui con disturbo da sintomi somatici possono presentare contemporaneamente molteplici sintomi somatici, che procurano disagio o portano ad alterazioni significative della vita quotidiana (Criterio A) e ad avere livelli molto elevati di preoccupazione riguardo la malattia (Criterio B).

Criteri diagnostici:

  • Uno o più sintomi somatici che procurano disagio o portano ad alterazioni significative della vita quotidiana.
  • Pensieri, sentimenti o comportamenti eccessivi correlati a sintomi somatici o associati a preoccupazioni relative alla salute, come indicato da almeno uno dei seguenti criteri:
    • 1. Pensieri sproporzionati e persistenti circa la gravità dei propri sintomi
    • 2. Livello costantemente elevato di ansia per la salute o per i sintomi
    • 3. Tempo ed energie eccessivi dedicati a questi sintomi o a preoccupazioni riguardanti la salute

Sebbene possa non essere continuamente presente alcuno dei sintomi, la condizione di essere sintomatici è persistente (tipicamente da più di 6 mesi).

Specificare:

  • con dolore predominante (in precedenza disturbo algico)
  • persistente (un decorso caratterizzato da sintomi gravi, marcata compromissione e lunga durata, ovvero più di 6 mesi)

Caratteristiche cognitive del disturbo da sintomi somatici: attenzione focalizzata sui sintomi somatici; attribuzione di normali sensazioni fisiche a una malattia organica (con eventuali interpretazioni catastrofiche); paura di essere malati e che qualsiasi attività fisica possa essere nociva per il corpo.

Caratteristiche comportamentali del disturbo da sintomi somatici: ripetuto controllo del corpo alla ricerca di anomalie; reiterata richiesta di aiuto o rassicurazione da parte del medico; evitamento dell’attività fisica e frequenti richieste di auto medico riguardanti sintomi somatici differenti.

Disturbo da ansia di malattia

Caratterizzato dalla preoccupazione di avere o contrarre una grave malattia non diagnosticata (criterio A); i sintomi somatici non sono presenti, o, se presenti, sono solo di lieve entità (criterio B); la preoccupazione riguardante l’idea di essere malati è accompagnata da una sostanziale ansia per la salute e per la malattia (criterio C). La malattia diventa un elemento centrale dell’identità. Gli individui con questo disturbo controllano ripetutamente se stessi (allo specchio) o fanno ricerche eccessive sulla malattia che pensano di avere (Criterio D). In alcuni casi l’ansia porta a un evitamento disadattivo di situazioni (es. visita a familiari malati, guardare tv per paura di sentire parlare di malattie e morti) o di attività (es. esercizio fisico) in quanto si pensa che possa mettere a repentaglio la propria salute. La durata è di almeno 6 mesi.

Disturbo di conversione

Nel disturbo di conversione possono essere presenti uno o più sintomi di vario tipo.

Possiamo riscontrare sintomi motori come debolezza o paralisi; movimenti anomali, come tremori o movimenti distonici; anomalie della deambulazione e postura anormale degli arti, sintomi sensoriali come sensibilità tattile, visiva o uditiva alterata, ridotta o assente, episodi di anormale e generalizzato tremore agli arti con apparente compromissione o perdita di coscienza che possono assomigliare a crisi epilettiche, oppure disfonia/afonia, disartria o una sensazione di nodo alla gola.

Fattori psicologici che influenzano altri condizioni mediche

In questo caso viene riconosciuta l’influenza della dimensione psichica anche in presenza di patologie organiche o di condizioni mediche, infatti è ampiamente dimostrato come anche in presenza di queste, l’aspetto psichico del paziente è in grado di peggiorare lo stato di salute generale dello stesso così come di interferire con gli effetti di eventuali terapie in corso, comprese anche quelle farmacologiche.

Disturbo fittizio

In questo caso ci troviamo di fronte ad una simulazione di eventuali sintomi da parte del soggetto, per vantaggi personali.

La Terapia Cognitivo Comportamentale all’opera

Prima di cercare la guarigione di qualcuno chiedigli se è disposto a rinunciare alle cose che lo hanno fatto ammalare.
Ippocrate

La Terapia Cognitivo Comportamentale, una volta individuato lo specifico disturbo e relative variabili che hanno contribuito all’insorgenza dello stesso, così come al suo mantenimento, procederà per innescare il cambiamento sulle tre dimensioni cardine ossia, cognitiva, emotiva e comportamentale, al fine di ristabilire un armonioso rapporto con il proprio corpo e normalizzare i segnali che provengono da questo.

Si prevederanno degli homework, ossia dei compiti per casa, per dare un ruolo attivo al paziente nel suo percorso di guarigione, esperimenti comportamentali, tecniche di rilassamento, compiti volti a ridurre ed eliminare comportamenti disfunzionali ed evitamenti che la persona ha applicato nel tempo ed infine e non per ordine di importanza e neppure di processo, si lavorerà sulla dimensione cognitiva per consentire la ristrutturazione di tutta una serie di errori di pensiero, anch’essi responsabili dell’instaurarsi ed il mantenersi del disturbo.

Educare la mente senza educare il cuore vuol dire non educare affatto.
Aristotele

 

Hikikomori. I giovani che non escono di casa (2019) di Marco Crepaldi – Recensione del libro

Hikikomori è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte” e viene utilizzato generalmente per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria camera da letto, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno.

 

Il Giappone rimane il paese più colpito in assoluto e la ragione principale va ricercata nell’alta competizione che pervade tutti i suoi contesti sociali, da quelli scolastici a quelli lavorativi, ma anche in altri fenomeni come il bullismo particolarmente doloroso in una società collettivistica come quella giapponese, dove essere esclusi dal gruppo significa aver fallito socialmente.

Hikikomori: alle radici del fenomeno

Questi e altri fattori vengono analizzati dall’autore in modo analitico riportando i dati statistici raccolti nel tempo e facendo una sintesi delle variabili di rischio che delineano l’Hikikomori.

E se è vero che questo fenomeno nasce nel paese del Sol Levante, l’attenzione nei confronti del fenomeno in altri Paesi come l’Italia sta aumentando. L’Hikikomori, infatti, sembra non essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, come si riteneva all’inizio, ma un disagio sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo dove si delinea un atteggiamento competitivo e perfezionista in vari ambiti di vita.

Perché è proprio nel senso di fallimento sociale che sono da rintracciare le cause profonde di questo fenomeno: lì dove si crea un gap tra il proprio sé ideale e la realtà nascono le paure di fallire, di deludere gli altri, di perdere tempo e, come conseguenza, un senso di vergogna di sé. Al disagio e alla sofferenza sperimentata dall’Hikikomori si sommano spesso pensieri valutativi più complessi quali repulsione, sfiducia e delusione verso un luogo e verso le persone che ne fanno parte, i cui valori appaiono a un Hikikomori troppo distanti dai propri.

Hikikomori: il fenomeno in Italia

Sono l’esposizione e la vulnerabilità alla pressione di realizzazione sociale le cause dell’ Hikikomori a cui l’unica soluzione irrinunciabile sembra essere l’isolamento. L’isolamento che inizia già tra i banchi di scuola per finire tra le mura della propria casa che diventa la “tana” sicura dove fuggire: le giornate vengono trascorse in completa solitudine, spesso senza nessun contatto con i propri famigliari, le attività virtuali costituiscono la quasi totalità delle attività quotidiane, notte e giorno vengono invertiti.

L’autore termina il libro illustrando le possibili soluzioni al problema, descrivendo l’esperienza giapponese e parlando del progetto Hikikomori Italia, nato con l’obiettivo di sensibilizzare sul tema nel nostro Paese condividendo esperienze, informazioni, singole competenze e grazie al quale è stato possibile condurre la prima indagine statistica sull’isolamento sociale in Italia.

L’autore spiega il fenomeno con semplicità e chiarezza e la sua esperienza sul campo si intreccia con i racconti degli Hikikomori offrendo così l’occasione di ascoltare più da vicino la voce della loro sofferenza.

Gelosia: mostro dagli occhi verdi o fattore protettivo del nido familiare? Un nuovo studio indaga il ruolo della gelosia durante la gestazione

Un recente studio di Massar & Buunk (2019) dell’Univerisità di Maastricht, si è proposto di indagare come la gravidanza influenzi la gelosia percepita verso le potenziali rivali, sondando in particolar modo le caratteristiche che modulano tale risposta emotiva.

 

La gravidanza rappresenta per una coppia un momento estremamente delicato, i cui cambiamenti non accompagnano solo il progredire della gestazione, bensì interessano il singolo e la diade sotto vari aspetti, come quelli personologici, di ruolo, circa le aspettative per il futuro, il reciproco impegno, solo per citarne alcuni.

Seguendo un trend alternativo rispetto al passato, la nostra società va evolvendosi verso una suddivisione sempre più equa dei compiti genitoriali, incoraggiata dal riconoscimento della parità dei diritti e anche dalla necessità che entrambi gli individui possano contribuire economicamente al sostentamento del proprio nucleo familiare.

Gelosia: quale significato evolutivo

Al di là della ripartizione delle responsabilità e dei compiti, la costante nella storia evolutiva della nostra specie è stata quella di creare dei legami di coppia relativamente stabili e monogamici che massimizzassero le possibilità di concepimento, favorissero l’interdipendenza sentimentale e garantissero un supporto in termine di cure parentali per la progenie umana, caratterizzata da uno sviluppo embrionale e infantile, prima cioè di raggiungere l’autosufficienza, che è in assoluto la più lunga tra tutte le specie animali (Flinn, Quinlan, Coe, & Ward, 2007; Geary, 2000). Da un punto di vista puramente evolutivo, il momento della gravidanza rappresenta per la femmina umana un investimento enorme: essa la rende dipendente dalla protezione e dalle cure del partner (Marlowe, 2003), l’investimento emotivo è sicuramente elevato (Buss & Schmitt, 1993), le cure richieste dalla progenie sono troppo elevate per un solo individuo (Gray & Anderson, 2015).

La capacità eiaculatoria del maschio umano sembra suggerire una maggiore propensione ad ingaggiarsi nel numero maggiore possibile di rapporti sessuali, compatibile con l’imperativo evolutivo di continuazione della specie, il quale sembra rendere almeno parzialmente conto delle differenze di genere nella propensione a consumare rapporti extradiadici (Hughes, Harrison, & Gallup, 2004), specialmente durante la gravidanza della compagna (Whisman, Gordon, & Chatav, 2007), riscontrate in letteratura.

In quest’ottica, la gelosia sperimentata da una donna nei confronti del proprio compagno assume il significato di protezione del proprio investimento sul medio e lungo termine, posto che sembra sia l’interruzione della relazione l’outcome considerato più probabile in caso di tradimento (Leiva, Jacinto, & Ortiz, 2001): un recente studio di Massar & Buunk (2019) dell’Univerisità di Maastricht, si è proposto di indagare come la gravidanza influenzi la gelosia percepita verso le potenziali rivali, sondando in particolar modo le caratteristiche che modulano tale risposta emotiva.

La gelosia in gravidanza: lo studio

Ad un campione di 125 donne, delle quali 66 incinte, è stato chiesto di leggere uno scenario che evocasse l’immagine del proprio partner nell’atto di flirtare con una donna sconosciuta (Dijkstra & Buunk, 1998), alla quale seguiva la fotografia a colori di una donna, nelle due condizioni alternative attraente vs. non attraente, in linea con la precedente letteratura che supporta l’idea che la gelosia venga scatenata in massima misura dalle rivali che rappresentano una minaccia nell’area maggiormente valorizzata dalla controparte maschile, ovvero l’attrattività fisica e la giovinezza (Buss, 1989; Edlund & Sagarin, 2010).

In seguito, le donne dovevano indicare se in quello scenario avrebbero provato maggiore gelosia se la natura del tradimento fosse stata esclusivamente sessuale oppure se il compagno provasse un intenso innamoramento verso la rivale, seppur senza contatto sessuale (Buss et al., 1999): la previsione era che il tradimento emotivo costituisse un’aggravante rispetto al solo atto sessuale per le donne di entrambe le condizioni sperimentali, ma in particolar modo per le donne incinte, per le quali un coinvolgimento emotivo del partner verso un’altra donna rappresenterebbe una perdita inestimabile in termini di cure, tempo e sostegno fondamentali per sé e per il nascituro (Scelza. 2014).

Il significato evolutivo e protettivo della gelosia

In linea con le aspettative degli autori e le precedenti ricerche (Dijkstra & Buunk, 1998; Massar & Buunk, 2010), l’attrattività della rivale ha costituito una variabile determinante nello scatenare la gelosia in tutte le partecipanti, tuttavia, differenziando nelle due condizioni gravidanza vs. non gravidanza, è emerso come le donne incinte provassero un livello di gelosia costante al variare dell’attrattività della rivale, mentre per le donne non incinte, l’aspetto estetico valutato più positivamente correlasse con una maggior gelosia, rispetto alle rivali che costituivano una minaccia percepita inferiore. Curiosamente, le donne incinte erano anche le più propense a dare punteggi più alti nel valutare l’aspetto delle rivali, suggerendo come forse esse risultino più sensibili a qualunque tipo di minaccia da parte delle consimili, situazione precipitata dall’alterata percezione di sé e della propria attrattività tipiche della gravidanza in favore delle rivali (Kamysheva, Skouteris, Wertheim, Paxton, & Milgrom, 2008), sebbene studi futuri siano necessari per chiarire questo legame.

Il tipo di tradimento subìto nello scenario sperimentale è risultato più grave qualora fosse di tipo sentimentale/emotivo che non sessuale per le donne in stato interessante, in particolar modo quando la rivale fosse giudicata come attraente. Contrariamente alla letteratura precedente, non si sono invece riscontrate differenze nelle donne non incinte, che hanno riportato livelli compatibili di gelosia sia che le rivali fossero giudicate attraenti che quando non lo fossero.

I risultati presentati dallo studio di Massar & Buunk sembrano supportare ed ampliare il significato evolutivo e protettivo della gelosia: le partecipanti infatti hanno riportato maggior distress quando la minaccia rappresentata da un’altra donna fosse effettivamente più concreta, ovvero laddove la rivale fosse giudicata come maggiormente competitiva secondo i valori riconosciuti dalla controparte maschile (e.g. bellezza, giovinezza) oppure quando l’investimento emotivo verso l’amante rappresentasse per la donna la perdita maggiore (e.g. nella condizione incinta).

Il desiderio all’interno del setting terapeutico: il coinvolgimento affettivo tra terapeuta e paziente

Il desiderio è rivolto all’altro che è riconosciuto come differente: è un’apertura del narcisismo all’alterità. In questo senso la relazione con l’analista è terapeutica, egli è l’altro riconosciuto come altro da sé nel rapporto col quale è possibile dare spazio alla possibilità di cambiamento. Ma come si gioca questo desiderio all’interno del setting terapeutico?

 

La nascita della soggettività ha origine dalla percezione di un’assenza: la madre ha un ruolo fondamentale all’inizio del processo evolutivo perchè grazie al suo intervento placa la tensione che nasce nel bambino a causa del suo assentarsi. Quando la madre ritorna, risponde con la presentazione al bambino del seno.

Nell’impostazione freudiana, il seno materno (l’immagine della madre soddisfacente) ha un posto di primo piano nella formazione dei desideri del bambino. Secondo Freud, quando avrà di nuovo fame, in assenza della madre, egli tenterà di ripetere questa esperienza di soddisfazione in modo allucinatorio, con l’esito di un abbassamento di tensione, almeno temporaneo.

Il desiderio secondo la psicoanalisi

Ne L’interpretazione dei sogni (1899) Freud inscrive il desiderio nella concezione più ampia di un’iniziale onnipotenza dell’apparato psichico, resa possibilità di esperienza per il tramite delle cure materne e della costanza di queste. L’apparato psichico ha in questa concezione una natura omeostatica, conservativa: insegue il piacere attraverso l’appagamento del bisogno, cercando il sollievo.

Per Gilliéron, la soddisfazione allucinatoria non può essere paragonata a quella reale. Il bambino, nell’esperienza di assenza della madre, è costretto al desiderio: infatti, l’eccitazione non può ridursi tanto semplicemente con l’espediente allucinatorio, che ancorché temporaneo non soddisfa completamente arrivando al pieno sollievo. Il bambino scopre così il desiderio, da una mancanza, che quindi nasce – come origine – da un bisogno biologico non soddisfatto, ma si fissa su una rappresentazione che non è quella del bisogno: essa si riferisce al contesto in cui il piacere avviene, la relazione e questo piacere accompagna la soddisfazione del bisogno. Egli esprime dunque una ricerca di piacere a scapito della realtà. Così il desiderio si distaccherebbe dalla realtà biologica per costituire progressivamente l’apparato psichico del soggetto.

Il desiderio ha, quindi, una natura relazionale: l’oggetto è il mezzo attraverso cui il bambino raggiunge la soddisfazione. Può esserci un oggetto esterno reale, che rappresenta il seno materno, ed un oggetto interno o fantasmatico, che è quello immaginato dal bambino nella fase transizionale tra l’insorgere del bisogno e l’attesa dell’arrivo della madre come risposta a tale  bisogno.

L’assenza dell’oggetto non dà come risultato l’allucinazione bensì rende possibile il realizzarsi di una potenzialità umana, ossia la capacità di provare piacere sulla base di un ricordo e non soltanto con un oggetto reale.

Il desiderio in terapia

Il desiderio è rivolto all’altro che è riconosciuto come differente: è un’apertura del narcisismo all’alterità. In questo senso la relazione con l’analista è terapeutica, egli è l’altro riconosciuto come altro da sé nel rapporto col quale è possibile dare spazio alla possibilità di cambiamento.

Ma come si gioca questo desiderio all’interno del setting terapeutico?

All’interno del setting terapeutico, Lacan ha rilevato l’importanza di questo desiderio quale fondamento della cura psicoanalitica stessa: sia nel momento iniziale dell’analisi – quando terapeuta e paziente si incontrano per la prima volta e la persona sposta tutte le sue inquietudini da uno spazio di sofferenza personale ad uno spazio di sofferenza condiviso – il desiderio è il perno su cui il transfert si può strutturare. Sia alla fine dell’analisi, per l’analizzato il desiderio è allo stesso modo il fondamento dell’apertura indispensabile ad una nuova posizione nei confronti della conoscenza di sé e della natura del suo desiderio.

Anche Lacan pone l’accento sul fatto che si ripresenta nel setting, per l’individuo quale soggetto desiderante, ciò che accade nelle prime sue esperienze di infante. L’individuo, nel setting, chiede all’Altro materno (il terapeuta) la soddisfazione dei propri bisogni, molteplici per natura e genere, ma sintetizzabili in un’unica e fondamentale domanda: la domanda d’amore. Essa rende possibile un rispecchiamento con l’altro che rende possibile un riconoscimento di unicità della persona.

In una similitudine, nel lavoro terapeutico come per il bambino, desiderare il desiderio dell’Altro è qualcosa di essenziale perché senza questa esperienza egli si perderebbe nella sua mancanza ad essere, non avverrebbe il cambiamento.

Freud in Osservazioni sull’amore di traslazione (1914) si interroga se possa derivare qualche cosa di utile per la cura dall’amore  di traslazione o se sia esso ravvisabile come resistenza.

La resistenza partecipa indubbiamente in misura notevole al sorgere di questa tumultuosa esigenza di amore con vari scopi: ostacolare il proseguimento della cura, distogliere ogni interesse dal lavoro, mettere l’analista in una posizione imbarazzante.

Freud si chiede come debba comportarsi l’analista per trarsi d’impaccio, quando egli stabilisca che la cura, nonostante questa traslazione amorosa e proprio attraverso di essa, debba continuare?

Freud ne parla soprattutto a proposito delle nevrosi. Lasciarsi andare a sentimenti di tenerezza nei confronti della paziente non sempre è esente da pericoli. Egli pone un principio generale, che ci confronta con una apertura di possibilità davvero interessante: egli asserisce di lasciar persistere nella paziente i bisogni e i desideri, come forze propulsive al lavoro e al cambiamento. Questo non esula dal ricorso alla regola di astinenza: non solo viene propugnata l’astinenza fisica ma si raccomanda di astenersi dall’imporre privazioni di desideri e mettere in campo dei surrogati. Il terapeuta deve astenersi sia dal respingere la traslazione amorosa sia dal ricambiarla in qualunque modo: si invita a considerarla e a trattarla come qualche cosa di irreale, come una situazione che deve verificarsi durante la cura e va fatta risalire alle sue cause inconsce, aiutando in tal modo a ricondurre alla coscienza, e quindi al controllo della paziente, gli elementi latenti della vita amorosa.

Dal punto di vista del terapeuta, assecondare sentimenti di tenerezza in sé verso la paziente significherebbe un mettere in atto, un agito; dal punto di vista della paziente, significherebbe ripetere nella vita reale quello che essa dovrebbe soltanto ricordare riproducendolo come materiale psichico e trattandolo nella sfera puramente psichica, decontestualizzare la circostanza dell’innamoramento dallo spazio terapeutico.

La resistenza ha comunque un ruolo rilevante nell’amore di traslazione. Tuttavia non è la resistenza che crea un tale amore, essa lo trova di fronte a sé, se ne serve e ne esagera le manifestazioni, ma la resistenza non rende meno vera, autentica l’esperienza amorosa.

Il desiderio tra terapeuta e paziente

E’ possibile sintetizzare i due punti di vista del paziente e del terapeuta rispetto al desiderio e all’innamoramento.

Dal punto di vista dell’analizzato, non si può negare a questo sentimento il carattere di un amore effettivo. Infatti, trova la sua origine all’interno del setting terapeutico; la resistenza enfatizza questo sentimento; non tiene conto delle condizioni reali all’interno delle quali esso si sviluppa né considera adeguatamente le conseguenze nella sua messa in scena.

Dal punto di vista del terapeuta, è essenziale il fatto che esso sia provocato dalla situazione analitica. Egli ha suscitato questo innamoramento iniziando il percorso terapeutico, si tratta per lui dell’inevitabile esito di una situazione terapeutica. Perciò il principio a cui si attiene è che non gli è lecito trarre alcun utile personale da una tale situazione. La disponibilità dell’analizzato non può alterare in alcun modo questa situazione, anche perché questi vive come se il terapeuta avesse una incondivisa responsabilità sullo stato di cose.

Per il terapeuta vi è una coincidenza di motivi sia etici sia tecnici, secondo Freud: egli deve sempre tener presente la sua meta, disvelare le inibizioni della paziente affiché essa superi le sue fissazioni infantili, per garantirle la libertà di agire questi sentimenti nella vita reale.

La paziente deve imparare dall’analista a oltrepassare il “principio di piacere”, a rinunciare a un soddisfacimento immediato, a instradare il proprio desiderio verso la meta reale anche se in favore di un soddisfacimento più lontano.

Il desiderio è al servizio del cambiamento reale, occorre non lasciare prevalere l’Inconscio nei confronti dell’essenza del contratto terapeutico, in entrambi i contraenti.

L’attenzione, nell’analisi, alle dinamiche consce ed inconsce del terapeuta è importante perché il terapeuta possa evitare di usare la sua soggettività per condurre la relazione terapeutica, con degli enactment, degli agiti, in parole e gesti. I vissuti del terapeuta, dunque, non devono essere agiti nè misconosciuti o soffocati.

I vincoli, infatti, derivanti dal contratto non sono una limitazione alle capacità terapeutiche, ma, come gli argini di un corso d’acqua rappresentano, per il fatto stesso di esserci, la definizione di una direzione. Il terapeuta svolge sia il ruolo di contenente sia di contenuto. Egli dovrebbe essere allenato all’osservazione e all’empatia, sia per quanto riguarda i vissuti personali, sia per quelli dell’analizzato. Questi vissuti sono fondamentali per la conoscenza della situazione relazionale e dell’interiorità del paziente. Qualsivoglia risposta personale da parte del terapeuta rappresenterebbe una reificazione della comunicazione, con la conseguente perdita della carica simbolica.

La psicoterapia sistemica: origini e sviluppi – Introduzione alla Psicologia

La psicoterapia sistemica, definita anche sistemico-relazionale o familiare, nasce intorno agli anni ’50 negli Stati Uniti d’America.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Secondo tale approccio l’individuo è considerato come parte di un sistema di relazioni significative, verificatesi durante l’arco di vita.

Quindi un problema psichico è contestualizzato rispetto alle esperienze relazionali passate e attuali dell’individuo. Lo scopo della psicoterapia sistemico relazionale è trovare modalità relazionali alternative e più funzionali con il sistema di appartenenza, sia esso familiare o amicale.

Psicoterapia sistemica: la storia

La psicoterapia sistemica origina dalla più generica teoria dei sistemi, derivante dal pensiero di matematici, fisici e ingegneri e nasce sul finire degli anni ‘40.

Questa teoria è stata rielaborata e ampliata da Ludwing von Bertalanffy e fu considerata comune a tutte le discipline scientifiche, poiché definiva esplicitamente i concetti di apertura e chiusura dei sistemi viventi, di omeostasi, auto-regolazione e di equifinalità, ovvero una serie di concetti che sono alla base della regolazione di ogni sistema. La comunicazione e l’autoregolazione erano considerate le unità operative dei sistemi, grazie alle quali le informazioni del passato sono riportate nel sistema per influire sul futuro. Questo processo definito retroazione autocorrettiva fu denominato da Norbert Wiener “cibernetica” che risulta essere costituita da una serie di meccanismi volti al raggiungimento del comportamento finalizzato.

Più tardi, Gregory Bateson, antropologo, dopo aver studiato la cibernetica pensò che potesse usarla per descrivere le interazioni umane. Egli, partendo da questo presupposto, osservò che la società conteneva due tipi di forze: una centrifuga in cui gli schemi di progressivo antagonismo portano alla rottura all’interno di un gruppo e l’altra centripeta di adattamento, che porta al compromesso e alla coesione sociale.

Ogni parte del sistema rispondeva all’altra, grazie alla messa in atto di forze che portavano all’equilibrio dinamico o omeostatico.

Terapia sistemica: la scuola di Palo Alto

Bateson ottenne dei fondi che gli permisero di portare a termine la ricerca sui processi della comunicazione familiare e fondò la scuola di Palo Alto. Questa scuola ebbe il merito di riuscire a spostare lo studio sui processi psicologici partendo dai contenuti e il sistema famiglia era definito come una totalità, anziché come un agglomerato di individui. In questa ottica la famiglia era equiparata a un sistema cibernetico, che si autogovernava attraverso la retroazione negativa che consentiva di portare il sistema allo stato originario ogni volta che riceveva nuovi input volti allo sbilanciamento del sistema stesso. La famiglia, dunque, è un sistema omeostatico, avente autoregolazione automatica, che riduce qualsiasi deviazione dall’introduzione di nuove informazioni.

Nelle famiglie disfunzionali si ha uno sbilanciamento della comunicazione, che Bateson spiegò con la teoria del doppio legame.

Secondo la teoria del doppio legame si genera una comunicazione in cui si presenta una incongruenza tra il livello verbale e quello non verbale o analogico, che mette in discussione nettamente la comunicazione verbale. Quando questo tipo di comunicazione si genera tra due individui in cui uno si trova in una condizione di dipendenza psicologica dall’altro, come accade tra figli e genitori, e non ha quindi la possibilità di metacomunicare rispetto all’incongruenza comunicativa, si trova intrappolato in un doppio messaggio rispetto al quale ogni risposta è quella sbagliata: rispondere correettamente a uno dei due messaggi significherebbe rispondere in modo errato a quello sull’altro livello comunicativo; il risultato di questa comunicazione quindi è che qualunque risposta venga data è quella sbagliata. La vittima in questo caso si sente intrappolato in questo sistema e non riesce ad andare avanti. Secondo questa teoria il linguaggio dello schizofrenico sarebbe il risultato di un disperato tentativo di sottrarsi a questo tipo di comunicazione paradossale, che nelle famiglie altamente disfunzionali può essere continuo.

Psicoterapia sistemica: il modello Mental Research Institute

La scuola di Palo Alto, successivamente, sviluppò il modello Mental Research Institute di Terapia breve, costituito da al massimo 10 sedute. Esso si basava su una visione di causalità circolare secondo il quale il sintomo era letto all’interno di un contesto relazionale e uscire dal sintomo costituiva il problema. Di conseguenza l’obiettivo era rompere la rigidità del sistema per creare connessioni nuove e più funzionali. L’intervento era più centrato sul sintomo e sui comportamenti manifesti che sul funzionamento psichico che sottendeva il sintomo stesso. Lo scopo era risolvere il problema del paziente partendo dai tentativi infruttuosi di risolverlo.  Il terapeuta aiuta il paziente a raggiungere lo scopo attraverso una serie di interventi strategici attuati in breve tempo.

La cibernetica di primo e secondo ordine

La cornice teorica da cui derivava l’approccio Strategico-Sistemico del Mental Research Institute (MRI) era quello della cibernetica di primo ordine, basata sull’assunto che fosse possibile dividere quello che si osserva da chi lo osserva. In questo caso entrano in gioco i meccanismi di controllo, la retroazione negativa e i processi di riduzione della deviazione che riportano il sistema a una condizione di omeostasi. Il modello MRI di Palo Alto considerava solo la retroazione negativa e non operava una distinzione fra normalità e patologia, ma solo fra problema e soluzione. Il processo terapeutico era fondato su tecniche e strategie che interferivano con il circuito ricorsivo problema-soluzione, quindi permettevano una soluzione dei problemi presentati in un tempo breve, mentre l’orizzonte temporale era centrato sul tempo presente e sul tempo futuro.

Con il passaggio alla cibernetica di secondo ordine alla retroazione negativa, che mantiene l’omeostasi del sistema e gli conferisce una certa rigidità, viene introdotto il concetto di retroazione positiva grazie al quale i sistemi viventi, soprattutto quelli umani, sono in grado di evolvere grazie a comportamenti dinamici e nuovi, che aumentano la deviazione e sono in grado di superare l’omeostasi del sistema. Inoltre con la seconda cibernetica il soggetto conoscente/osservante diviene esso stesso oggetto di osservazione: il punto di vista di chi osserva è quindi a sua volta passibile di osservazione e per questo “relativo”, personale. La conoscenza non è più oggettiva, ma si realizza attraverso l’autoriflessività.

Terapia sistemica: la scuola di Milano

Il modello di psicoterapia sistemica della scuola di Milano, di Cecchin, Boscolo, Selvini-Palazzoli e Prata, si rifaceva all’approccio strategico-sistemico del MRI. Più tardi questo modello si è arricchito di contributi derivanti dal costruttivismo, della cibernetica di secondo ordine e dell’ermeneutica.

Nella prima fase, questo modello si basava su una visione di casualità circolare, all’interno del quale il sintomo era letto all’interno di un contesto relazionale dove i tentativi di soluzione al problema/sintomo venivano considerati un rinforzo al problema. Lo scopo era di rompere i pattern ripetitivi e rigidi cui il sintomo era connesso, utilizzando diversi comportamenti alternativi. Nella seconda fase, che ebbe inizio nel 1975, il pensiero del gruppo di Milano si modificò attraverso l’applicazione di nuove idee che portarono alla teorizzazione di nuovi assunti teorici. In particolare durante la seduta si formulavano ipotesi semplici basate su una visione lineare e causale del sintomo, che portava alla formulazione più generica di una ipotesi sistemica, ovvero lettura del sintomo nel sistema osservato.

Gli obiettivi della terapia non erano più i sintomi e i pattern comportamentali, ma le premesse epistemologiche e i sistemi di significato. Si procedeva, dunque, dal presente per giungere a una cornice di significato più ampia che comprendeva passato, presente e futuro.

La tecnica terapeutica diventava quella dell’esplorazione, dell’empatia, e dell’ascolto. Lo scopo della terapia era di aiutare i pazienti a riorganizzare i loro sistemi interni e il dialogo terapeutico diveniva una dialettica a tre: terapeuta, paziente e interiorizzazione delle relazioni con le persone più significative sia esse positive sia negative. Le nuove teorie si basavano sulla centralità del linguaggio, sull’ermeneutica e sul costruzionismo sociale, che avevano permesso di connettere l’individuo e il gruppo. Nel 1996 con Boscolo e Bertrando, il lavorare sistemico diventava un lavorare con il singolo e non più solo con la famiglia.

Inoltre, il gruppo di Milano comincia a usare la prescrizione, grazie alla quale si possono modificare le regole disfunzionali della famiglia sostituendole con altre regole più funzionali.

Oggi l’impostazione del nuovo gruppo di Milano (Matteo Selvini, Anna Maria Sorrentino, Stefano Cirillo) consiste nel privilegiare l’accoglienza della sofferenza e della richiesta di aiuto da parte della famiglia ma anche del singolo che presenta un disagio.

Psicoterapia sistemica: Andolfi e il trigenerazionale

Il modello sistemico familiare trigenerazionale fa riferimento al modello del ciclo vitale della famiglia. Esso deriva dalla famiglia d’origine, si ripresenta nei figli e poi nel legame di coppia.

Ogni fase richiede precisi compiti evolutivi e ha una certa stabilità strutturale, mentre nei periodi di transizione si verificano profonde trasformazioni psicologiche e strutturali. La riorganizzazione richiesta nel passaggio da una fase evolutiva ad un’altra avviene attraverso modelli trasmessi dalla famiglia d’origine, che consentono di legare ciascuna generazione alla successiva. La coppia è il perno centrale del sistema trigenerazionale. L’ alleanza tra i membri di una coppia si consolida grazie alla formazione di regole, che determinano la complicità di coppia e che dovrebbero sciogliere i vincoli di filiazione di ciascuno con le rispettive famiglie di origine, portando alla delimitazione di un confine di coppia.

Con la nascita dei figli si stabilisce un nuovo vincolo di filiazione che lega la nuova generazione alla precedente. Secondo la psicoterapia sistemico relazionale trigenerazionale la possibilità di separarsi/differenziarsi dalla famiglia d’origine è direttamente proporzionale alla possibilità di appartenere. Quindi, tutto ciò che impedisce l’incontro emozionale e la soddisfazione di bisogni fondamentali all’interno delle relazioni significative mantiene un legame con la generazione precedente e mina sia il senso di appartenenza che le possibilità di differenziazione dalla famiglia di origine.

In quest’ottica anche i problemi della coppia hanno sempre a che fare con difficoltà nei processi di differenziazione intergenerazionale, cioè con i processi incompiuti di appartenenza e separazione del singolo dalle famiglie di origine e di conseguenza con la difficoltà a stabilire un nuovo e funzionale vincolo di alleanza a livello di coppia.

Le relazioni triangolari influenzeranno anche gli altri sottosistemi familiari, amicali e professionali. La non differenziazione dalla famiglia di origine porterà, in un momento successivo del ciclo di vita dell’individuo, a uno spostamento sul partner della richiesta di soddisfacimento dei bisogni rimasti inappagati; quando questa richiesta di appagamento, inevitabilmente, fallirà l’ansia spingerà nuovamente alla ricerca di un’alleanza con i figli (triangolazione). Tutto questo porta alla formazione di sofferenza psichica.

La terapia:

L’approccio sistemico-relazionale può rivelarsi utile per le persone che ritengono avere delle difficoltà in specifici rapporti (di coppia, genitoriale, lavorativo, etc).

In particolare può rivelarsi utile al presentarsi di problematiche evolutive da parte dei bambini, adolescenti e giovani adulti. Il lavoro psicoterapeutico non è dunque prettamente rivolto al trattamento del sintomo presentato ma alle situazioni relazionali che lo hanno generato.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Immagine e immaginazione in psicoterapia (2018) di Marcelo Pakman – Recensione del libro

Immagine e immaginazione in psicoterapia rappresenta il primo volume della trilogia Lo spettro e il segno, un’opera nella quale Marcelo Pakman, psichiatra e psicoterapeuta radicato da anni negli States, tende a coniugare in modo clinico e teorico gli sviluppi di un approccio critico-poetico alla pratica terapeutica.

 

Egli privilegia la dimensione del senso, la materialità sensuale della vita, in un epoca come la nostra, dove il mercato della salute mentale appare dominato da pratiche derivate da criteri esclusivamente di tipo organico/biologico o da quelle che prediligono il linguaggio e l’interpretazione.

Immagine e immaginazione: la loro centralità in psicoterapia

Punto focale della proposta di Pakman è lavorare in quella terra di mezzo dove il senso si fa visibile, nelle immagini ancora vivide della corporeità.

Elena con la “h” o senza la “h”, chiede l’autore a Juan durante una seduta e, prontamente, dal pubblico si leva una domanda sull’importanza di questo dettaglio in un evento immaginato.

A partire da questo episodio, Pakman esplora il tema dell’immaginazione, sia nella vita quotidiana, sia nella pratica e nella riflessione psicoterapeutica, ponendo particolare attenzione a quei momenti di discontinuità che a tratti introducono punti di flessione nella continuità nel contesto psicoterapeutico, indicandoli come eventi poetici. Con tale termine, l’autore intende sottolineare che in tali eventi poetici si fanno presenti, nascono o vengono alla presenza, aspetti significativi della vita.

Pakman, dunque, continua a pensare alla clinica prestando particolare attenzione al tema dell’immaginazione.

Tradizionalmente l’immagine è stata considerata come prodotto dell’immaginazione, come una facoltà della mente individuale e come agente attivo di finzionalizzazione. Nel corso della storia si è andata affermando una dicotomia tra due aspetti dell’immagine: l’immagine come mimesis e l’immagine come poiesis.

Per il primo di questi poli, l’immagine è anzitutto una copia mimetica, una rappresentazione della realtà. Da ciò deriva la sua concezione come mera apparenza che, o deve essere superata grazie all’uso della ragione, in quanto rappresenta un ostacolo all’accesso alla realtà delle Idee come in Platone, o è impossibile da superare, in quanto secondo la visione postmoderna essa è indistinguibile dalla realtà.

Per il secondo polo della dicotomia l’immagine in quanto poiesis è produzione di qualcosa che non è parte dell’essere, ma del poter essere, del posse e non del esse. In questa prospettiva le immagini non sono sottoposte alla logica della rappresentazione o duplicazione della realtà di ciò che già è o è stato o alla logica della percezione, intesa come presenza della realtà empirica. Per passare dal primo al secondo polo della dicotomia, ovvero dalle immagini come mimesis alle immagini come poiesis, è necessario separare l’immaginazione dalla percezione, così come è necessario riconsiderare la memoria in quanto mera riproduzione della percezione. In tal modo è possibile fare spazio alla libera variazione delle immagini che acquisirebbero un ruolo anche nella costituzione della percezione e della memoria.

Immagine e immaginazione in psicoterapia: la svolta di Kant

Kant rappresenta uno spartiacque tra la concezione classica greca, ebraica e cristiana e la concezione moderna dell’immaginazione, ponendo quest’ultima a fondamento sia della conoscenza sensibile sia di quella intelligibile. In Kant l’immaginazione è la condizione di possibilità di entrambe le forme di conoscenza, essa è un’arte nascosta nelle profondità dell’anima umana.

Ma l’egemonia della ragione finisce per occultare l’intuizione di Kant, ritardando la possibilità di mettere al centro la consistenza sensuale dell’immagine. Con Baudelaire e Coleridge, il tramonto del divino implica l’abbandono della concezione classica della poiesis poiché comporta il rischio di imitazione demiurgica di Dio. Ponendo l’immagine sotto l’egidia del linguaggio, si determina una contrazione, se non una negazione di ciò che è nuovo ed inedito.

Nel novecento la questione dell’immaginazione verrà ampiamente approfondita da Jean Paul Sartre per il quale essa acquisisce un potere “irrealizzante” nei confronti delle cose, tale che

attraverso essa si realizza la capacità della coscienza di andare oltre la materialità e quindi di esprimere la propria libertà.

Sono queste forze ad essere sospese dall’evento poetico il cui avvento inaugura ciò che Jean Paul Sartre ha definito i cammini della libertà.

Per i surrealisti l’immaginazione acquista il proprio potere nel manifestarsi come libertà, la quale rende all’uomo la propria umanità e la felicità intrinseca al vivere, come quel “raggio invisibile” che svela al di sotto del reale, il “surreale”.

Immagine e immaginazione in psicoterapia: la rivoluzione di Nancy

Per l’autore, sarà il filosofo Nancy ad operare la rivoluzione. Nell’opera di Nancy troviamo due violazioni della concezione tradizionale dell’immagine fondata sulla dicotomia tra corpo e mente. In primo luogo per Nancy l’immaginazione non è in sé la facoltà mentale generatrice di immagini, perché queste, come la dimensione del senso cui appartengono, precedono il soggetto. La seconda violazione concerne il fatto che le immagini, liberate dalla psicologia che le disciplinava in quanto prodotti di una funzione mentale, non si limitano ad essere copia ma sono l’apparizione stessa di tutta la realtà, come magistralmente esposto da Morin.

Secondo l’autore, la psicoterapia (come la civiltà occidentale) ha bisogno di recuperare una capacità e una possibilità immaginativa che possano salvarla dalla superficialità e dalla frenesia occidentale distruttiva.

Ma come operano le immagini in psicoterapia? Quali reazioni suscitano? Permettono il riconoscimento e fissano l’accaduto per la memoria, fungendo così da medium di ogni conoscenza astratta, ma anche spaventano e suscitano emozioni tanto profonde da promuovere con la loro forza suggestiva e contagiosa convinzioni e comportamenti altrimenti inspiegabili.

“L’immaginazione” porta a vivere delle immagini simboliche, cariche di emozioni e significati. Conflitti, traumi e vari altri stati psichici possono essere rivissuti dal paziente che in uno stato di coscienza più ampia del solo pensiero, riesce ad accedere alla propria interiorità e creatività.

Nell’immagine c’è un’informazione sintetica capace di attivare vari circuiti ma in modo particolare i circuiti che collegano il sistema limbico (amigdala, ippocampo e ipotalamo) con le aree corticali cognitive ed elaborative (corteccia prefrontale).

I metodi che usano l’immaginario costituiscono un prodigioso strumento per entrare in relazione con il mondo interno dell’essere umano e una straordinaria chiave di accesso alla sfera emotiva.

L’immagine nel film Avik e Albertine

Nel film “Avik e Albertine”, un bambino che soffre di tubercolosi, viene portato a Montreal per essere curato. Nell’ospedale Avik fa amicizia con la piccola Albertine, ma quando la suora incaricata della loro istruzione si accorge che tra i due bambini sta sbocciando l’amore decide di separarli trasferendo Albertine in un altro ospedale. Nel corso del film vediamo Avik arruolarsi nell’aviazione britannica e partecipare ai bombardamenti su Dresda.

Avik non ha mai scordato Albertine che in ospedale, disperata per l’imminente separazione da Avik, gli ha donato l’unica cosa che possiede, una radiografia del suo torace nella quale si scorge l’immagine della sua malattia ma anche il suo cuore. Un’immagine che Avik porta sempre con sé, sino a quando molti anni dopo coroneranno il loro sogno d’amore sopra il pallone di un dirigibile. La radiografia di Albertine che nel corso degli anni è stata esposta alla guerra e ai viaggi aerei, non smette mai di essere “l’immagine”, ossia, la realtà dell’apparizione del loro amore attraverso trasparenze nelle quali si scorge la malattia.

In questo film l’immagine non perde la sua capacità di toccarci in quanto escrizione che emerge dalle inscrizioni (una foto per esempio) di un linguaggio catturato dai processi di significato. Il film mette in scena l’auspicio che l’immagine mantenga la capacità di toccarci.

In questi casi il segno, più che ricevere un significato da uno spazio trascendente – divino o umano (Dio, soggetto, struttura), segnala un senso verso una dimensione che sostiene nella sua materialità. Allora il processo di significazione si accompagna al processo di escrizione grazie al quale la significazione ritrova le proprie radici. Come dice Nancy: […] io divento la dissonanza di un accordo, il passo di una danza. “Io”: non è più questione di “Io”. Cogito diventa imago.

La realtà come imago non cessa di apparire come una dimensione intermedia, che non è l’ingenua realtà dell’immediato che rinnega il segno, e nemmeno è riducibile ai processi di significazione che normalmente lo monopolizzano. I segni del cogito non potranno mai sottrarsi dall’essere stregati dallo spettro della materialità vivida e sensuale del senso che prende corpo nell’immagine che il lavoro dell’immaginazione moltiplica sino a dar luogo a eventi poetici.

Immaginazione e significazione in psicoterapia

L’immaginazione è, dunque, di questo mondo, non è fatta solamente di un contenuto incorporeo e nemmeno è sinonimo di finzione. L’immaginazione è sempre ed essenzialmente contraddistinta dalla texture singolare del senso che concilia la pura materialità con i processi di significato.

Il lavoro dell’immaginazione ha la caratteristica del senso, troppo sensuale per essere incorporeo come il linguaggio e troppo etereo per essere pura presenza materiale.

In quanto spettro, l’immaginazione è incerta e ambigua e rompe la dicotomia tra anima e corpo. Essa non si limita ad essere una duplicazione della realtà, né ad essere mera fantasia produttiva. L’immaginazione è un lavoro con le immagini che acquisiscono carattere di percezione, memoria, finzione, sempre immerse in una tonalità affettiva emergente. Nell’immaginario sociale i limiti tra percezione, memoria, e finzione vengono mantenuti, mentre nel processo immaginario questi vengono riorganizzati grazie alla produzione, all’esposizione e al contatto reciproco delle immagini in occasione degli eventi poetici.

Attraverso l’immaginazione si alimenta l’affiorare di immagini che, moltiplicandosi nel loro reciproco contatto, favoriscono l’apparizione di realtà che sino al quel momento hanno avuto un grado di esistenza minimo.

Dall’immaginazione sorgono eventi singolari di senso che mettono alla prova le frontiere che, nell’economia dell’aisthesis, stabiliscono i limiti tra percezione, memoria e finzione, giocando ambiguamente tra ciò che è ed è stato e ciò che forse potrebbe essere. La ridefinizione di questi confini rappresenta un cambiamento ontologico. Per converso la pluralità di significati e interpretazioni non mette in discussione l’ontologia all’interno della quale essi emergono. Per questo il gioco dell’immaginazione, in quanto materia prima degli eventi poetici, è un esercizio estetico ma anche etico, sempre in relazione con la verità storica.

Immagine e Immaginazione in psicoterapia è un’opera rivoluzionaria, appassionata, innovativa che partendo da basi filosofiche apre nuovi scenari della psicoterapia.

Approfondire la descrizione clinica dei disturbi mentali: la prospettiva dei pazienti

L’undicesima versione dell’International Classification of Diseases (ICD-11) verrà utilizzata dai 194 stati membri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, WHO) a partire dal Gennaio del 2022. 

 

Il capitolo relativo ai disturbi mentali e comportamentali presente nell’ICD-10 costituisce il più diffuso sistema di classificazione per i disturbi mentali a livello mondiale. Allo scopo di aumentare l’utilità clinica e l’applicabilità globale delle linee guida diagnostiche che saranno presenti nell’ICD-11, è stato condotto uno studio qualitativo in collaborazione tra il dipartimento di salute mentale e abuso di sostanze del WHO e la Rutgers University in cui a utenti dei servizi di salute mentale è stato chiesto di discutere rispetto a come i loro disturbi venissero descritti da tali linee guida.

Lo studio

Lo studio, pubblicato su The Lancet, è stato condotto in India, Regno Unito e Stati Uniti, dove i ricercatori hanno reclutato pazienti che avessero avuto diagnosi di schizofrenia, Disturbo Bipolare di tipo I, episodio depressivo, Disturbi di Personalità o Disturbo da Ansia Generalizzata.

Il totale di 157 partecipanti è stato suddiviso in 35 focus group e a ogni gruppo, accorpato per diagnosi, è stato chiesto di discutere, con il supporto di un conduttore esterno, in merito a come il proprio disturbo dovesse essere descritto nella prossima versione dell’ICD.

A ogni gruppo sono stati consegnati la bozza del capitolo inerente i disturbi mentali e comportamentali dell’ ICD-11 e un riassunto della stessa che utilizzasse un linguaggio non tecnico, con la richiesta di analizzarlo criticamente e di identificare cambiamenti che permettessero di riflettere più accuratamente la loro esperienza rispetto al disturbo e/o volti a rimuovere termini considerati sgradevoli o confondenti.

Al termine delle discussioni, che sono state registrate e trascritte, è stata condotta un’analisi tematica allo scopo di identificare temi ricorrenti e di particolare salienza per ogni diagnosi presa in esame. Al termine dell’analisi è emerso che la maggior parte dei partecipanti riportava che la bozza aveva omesso esperienze emotive e psicologiche che loro avevano regolarmente.

In particolare, i pazienti con diagnosi di schizofrenia hanno segnalato caratteristiche aggiuntive che fanno parte della loro esperienza diretta del disturbo, quali irritabilità, paura e difficoltà mnestiche. Inoltre i focus group relativi a questo disturbo hanno riportato che le componenti inerenti le difficoltà interpersonali (senso di distanza, isolamento, alienazione) e la difficoltà a comunicare le proprie esperienze interne non erano state adeguatamente approfondite nella bozza dell’ ICD-11.

I gruppi di pazienti con Disturbo Bipolare di tipo I hanno evidenziato la mancanza di riferimenti ad ansia, rabbia, nausea e malessere, ma anche rispetto all’aumento della creatività durante gli episodi maniacali.

I pazienti con diagnosi di episodio depressivo hanno riportato l’assenza delle componenti di ansia e dolore, mentre i pazienti con Disturbo da Ansia Generalizzata hanno aggiunto nausea e rabbia.

Infine, i pazienti con diagnosi di Disturbo di Personalità hanno segnalato la presenza di distress e vulnerabilità allo sfruttamento da parte degli altri.

Conclusioni e prosettive future

Tutti i partecipanti hanno evidenziato che le caratteristiche riportate nella bozza dell’ ICD-11 tendevano a riflettere una prospettiva esterna del disturbo piuttosto che una prospettiva interna basata sull’esperienza vissuta. La maggior parte dei dati aggiuntivi riportati dai pazienti rifletteva infatti stati interni del disturbo.

I diversi gruppi hanno inoltre riportato elementi terminologici vissuti come fastidiosi o confondenti. In particolare, i pazienti con diagnosi di schizofrenia hanno identificato i termini “Bizzarro” e “Disorganizzato” come descrizioni negative basate su una prospettiva esterna, mentre il gruppo di pazienti con episodio depressivo ha considerato poco chiari e potenzialmente confondenti termini tecnici quali “Ritardo” e “Neurovegetativo”. Infine, i pazienti con Disturbo di Personalità hanno segnalato il termine “Maladattivo” come giudicante e potenzialmente invalidante.

Il riassunto della bozza che utilizzava un linguaggio non tecnico consegnato all’inizio della discussione in ogni gruppo è stato ritenuto più chiaro, più accessibile e più semplice da comprendere dai partecipanti rispetto alle linee guida ufficiali. Tale documento sembrerebbe dunque facilitare la creazione di un linguaggio condiviso tra pazienti, famiglie e clinici, verso una presa di decisioni condivisa rispetto al percorso clinico.

Lo studio descritto è il primo a ricercare la prospettiva degli utenti dei servizi di salute mentale nella stesura di importanti linee guida diagnostiche e ha il potenziale di migliorare l’accuratezza clinica descrittiva, massimizzando inoltre l’accettazione di tali linee guida da parte dei pazienti. Una prospettiva di ricerca futura potrebbe vertere sulla coproduzione di linee guida tra clinici e pazienti, creando un linguaggio condiviso che colga aspetti aggiuntivi relativi all’esperienza vissuta, eviti terminologie mediche, permetta una comprensione semplice delle caratteristiche di funzionamento dei disturbi e le arricchisca con componenti relative all’esperienza interna degli utenti.

Dall’autoriflessione all’alleanza terapeutica: l’incontro tra cognitivismo e altri mondi – Report dalla seconda e terza giornata del WCBCT 2019

Nella seconda e terza giornata del 9° congresso mondiale delle terapie cognitive e comportamentali (WCBCT, World Congress of Behavioural and Cognitive Therapies) ho assistito ancora a incontri tra il cognitivismo e altri mondi..

 

Nella seconda e terza giornata del 9° WCBCT (World Congress of Behavioural and Cognitive Therapies) ho assistito ancora a incontri tra il cognitivismo e altri mondi, trascurando un po’ invece le presentazioni più ortodosse che ho lasciato ai miei colleghi.

Autoriflessione negli allievi in training: il contributo di James Bennett-Levy

Uno dei simposi più interessanti era quello dedicato agli strumenti di misurazione dei processi di autoriflessione degli allievi in training. Autoriflessione vuol dire occasioni in cui gli studenti mettono in pratica su se stessi i concetti e gli strumenti clinici che hanno appreso. Non si tratta di una pratica di autoconoscenza però. Il modello non propone una versione naif del conosci te stesso come viatico per poter capire e curare gli altri. Si tratta semmai di utilizzare se stessi come campo di addestramento, in attesa di potersi applicare alla pratica clinica vera e propria. Questa modalità di auto addestramento è stata concepita da James Bennett-Levy dell’Università di Sydney e si chiama Self- Experiential Cognitive Behaviour Therapy Training
 e la sua applicazione ed efficacia sono misurabili grazie alla Self-Reflective Writing Scale (SRWS) presentata da Suzanne Ho-Wai So dell’University of Hong Kong. I risultati sono promettenti.

Arntz e l’evoluzione processuale della Schema Therapy

Dopo l’autoriflessione mi sono dedicato alla Schema Therapy (ST), con la consueta presentazione molto rigorosa da parte di Arnoud Arntz e del suo gruppo. Oltre a mostrare nuove applicazioni della ST che vanno al di là dei disturbi di personalità, come ad esempio l’ansia sociale, la depressione o il trattamento di gruppo, ciò che colpisce nell’operazione di Arntz è l’evoluzione in termini metacognitivi che ha impresso alla ST. Come dice la parola stessa, inizialmente si trattava di un modello di derivazione beckiana incentrato sui contenuti (schemi), mentre ora, con il crescente prevalere dei modes, si tratta di un modello processuale. In questo modo Arntz è riuscito a far confluire questa la ST nel mainstream processuale. Un’operazione simile a quanto fatto da Hofmann e Hayes ma fortunatamente in termini più scientifici che politici.

Relazione e alleanza terapeutica

Un ultimo simposio a cui ho assistito è quello organizzato da Nikolaos Kazantzis della Monash University in Australia. Kazantzis è tra i pochi che ha tentato in questo congresso di gettare uno sguardo nella direzione della relazione terapeutica e dell’alleanza invece che imboccare la strada del processualismo. Già ci aveva provato nella prima giornata del congresso nella tavola rotonda con Hofmann, Padesky e Dobson, beccandosi un fuoco di sbarramento fitto e spietato. Ci riprova nella terza giornata, organizzando un simposio con suoi compagni di cordata. Ovvero Elad Zlotnick della Hebrew University in Israele che ha presentato dati sul modello delle rotture e riparazioni applicato alla terapia cognitiva e Christoph Flückiger della Università di Zurigo che ha presentato una meta-analisi sull’alleanza. Ha concluso il simposio lo stesso Kazantzis con una riflessione sulla differenza tra alleanza terapeutica e competenza terapeutica.

A mio parere, l’apertura di Kazantkis ha finito per sfociare in una necessità molto ortodossa di tenersi vicino alle basi paradigmatiche della terapia cognitivo comportamentale in cui l’alleanza è concepita all’interno delle caratteristiche specifiche di questa terapia, mentre gli aspetti aspecifici sono messi in secondo piano. E ancor di più sono messi da parte gli aspetti specifici non cognitivi, come ad esempio il ruolo degli episodi di rottura e riparazione.

Il lavoro di Zlotnick –dedicato appunto alle rotture e riparazioni in terapie cognitive- ha infatti presentato risultati negativi: il potere predittivo sull’esito terapeutico del modello rotture e riparazioni in terapia cognitiva è risultato scarso, almeno nel suo studio. Non si tratta di una bocciatura definitiva beninteso, ma in ogni caso si tratta di una conferma che rotture e riparazioni sono un modello poco compatibile con la formulazione condivisa del caso di tradizione cognitiva, dato che si basa su una concezione del processo terapeutico di tipo agonistico in cui l’incontro con il paziente non avviene attraverso la condivisione delle regole ma in una esperienza correttiva di tipo conflittuale e psicodinamica, appunto una rottura e riparazione.

Nello stesso simposio Christoph Flückiger ha presentato i suoi dati a favore dell’alleanza basati sulla concezione dei fattori comuni di Lambert, quindi con una propensione a una concezione aspecifica che fa a pugni con la visione cognitiva. Per tale motivo mi è sembrata una presentazione in fondo incongrua con la rotta del simposio. Non a caso la conclusione di Kazantzis è finita per essere un ritorno all’ovile, una riproposizione della centralità delle competenze specifiche cognitivo comportamentali come base dell’alleanza terapeutica di stile cognitivo comportamentale.

I brevetti nella produzione farmaceutica – Riflessioni sulla mancata sperimentazione di una molecola per la cura della Malattia di Alzheimer

Le demenze comprendono un insieme di patologie (demenza di Alzheimer, demenza vascolare, frontotemporale, a corpi di Lewy, ecc.) che hanno un impatto notevole in termini socio-sanitari sia perché un sempre maggior numero di famiglie ne sono drammaticamente coinvolte, sia perché richiedono una qualificata rete integrata di servizi sanitari e socio-assistenziali.

Ilaria Bagnulo, Alessandro Toccafondi, Cristiana Barni, Marco Tanini

 

 

Le demenze, inoltre, rappresentano una delle maggiori cause di disabilità nella popolazione generale. Il progressivo invecchiamento della popolazione generale, nei paesi occidentali ed in quelli in via di sviluppo, fa ritenere queste patologie un problema sempre più rilevante in termini di sanità pubblica (Vanacore N. 2005).

Il Rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riporta stime di crescita allarmanti della demenza: 35,6 milioni di casi nel 2010 che raddoppieranno nel 2030 e triplicheranno nel 2050 con 7,7 milioni di nuovi casi all’anno (uno ogni 4 secondi) e il cui impatto economico sui sistemi sanitari sarà di circa 604 miliardi di dollari l’anno, con incremento progressivo (OMS 2018).

La malattia di Alzheimer

In Europa si stima che la demenza di Alzheimer (DA) rappresenti il 54% di tutte le demenze, con una prevalenza nella popolazione ultrasessantacinquenne del 4,4%. La prevalenza di questa patologia aumenta con l’età e risulta maggiore nelle donne, che presentano valori che vanno dallo 0,7% per la classe d’età 65-69 anni al 23,6% per le ultranovantenni, rispetto agli uomini i cui valori variano rispettivamente dallo 0,6% al 17,6% (EC 2009).

In Italia sono 600.000 i malati di Alzheimer e a causa dell’invecchiamento della popolazione questo numero è destinato ad aumentare (l’Italia è il paese più longevo d’Europa con 13,4 milioni di ultrasessantenni, pari al 22% della popolazione).  I costi diretti dell’assistenza in Italia ammontano a oltre 11 miliardi di euro, di cui il 73% a carico delle famiglie.

Il costo medio annuo per paziente è pari a 70.587 euro, comprensivo delle spese a carico del Servizio Sanitario Nazionale, di quelle che ricadono direttamente sulle famiglie e dei costi indiretti (gli oneri di assistenza che pesano sui caregiver, i mancati redditi da lavoro dei pazienti Censis Aima 2015).

La malattia di Alzheimer, come tutte le forme di demenza, comporta un progressivo decadimento delle funzioni cognitive a cominciare dalla memoria. Le sue cause sono ancora ignote, anche se sono stati identificati numerosi fattori che aumentano il rischio di sviluppare la patologia: l’età avanzata, la storia familiare, traumi cranici, stili di vita e condizioni che comportano problemi ai vasi sanguigni (Ministero della Salute 2019).

Esiste una possibile cura per L’ Alzheimer?

L’ultimo farmaco approvato dalla Food and Drug Administration per curare la malattia di Alzheimer risale a circa 16 anni fa.

Questo farmaco, il Namenda (Memantina), antagonista non inibitore del recettore NMDTA, può alleviare alcuni sintomi della demenza, ma non c’è niente che si possa fare per impedire alla malattia di progredire (Hippus H. 2003).

I farmaci usati per curare i sintomi dell’ Alzheimer sono principalmente molecole nate per curare altre malattie, ma che si sono dimostrati utili nel trattamento dei sintomi ma non per curare il processo patologico di base.

Le molecole più usate sono gli anticolinesterasici (ACHe-I) Rivstigmina, Donepezil, e Galantamina.

Esiste un nuovo Farmaco?

È notizia recente che in un suo articolo Christopher Rowland, del Washington Post, abbia affermato che i dirigenti della Pfizer, appreso che avevano un nuovo potenziale trattamento per prevenire questa patologia, abbiano deciso di non andare avanti perché avrebbero rischiato una perdita di esclusività del mercato.

La molecola in questione è la Etanercept, medicinale antinfiammatorio, usato per il trattamento delle seguenti malattie:

  • artrite reumatoide
  • spondilite anchilosante
  • psoriasi a placche
  • spondiloartrite assiale non radiografica

È una proteina di fusione del recettore umano p75 del fattore di necrosi tumorale con l’Fc, ottenuta tramite tecniche di DNA ricombinante attraverso un sistema mammifero di espressione in cellule ovariche di criceto Cinese (CHO). Etanercept è un dimero di una proteina chimerica geneticamente preparata tramite fusione del dominio extracellulare del recettore-2 del fattore di necrosi tumorale umano (TNFR2/p75) responsabile del legame con il ligando, con la frazione Fc dell’immunoglobulina umana IgG1. Questa frazione Fc contiene la regione cerniera, la regione CH2 e CH3 ma non la regione CH1 dell’IgG1. Contiene 934 aminoacidi ed ha un peso molecolare apparente di circa 150 kilodalton (European Medicine Agency 2014).

La mancata sperimentazione del prodotto

Secondo il citato articolo del Washington Post, alla base della mancata ricerca sugli effetti dell’Etanercept ci sarebbero, non tanto i costi da sostenere per lo studio, ma piuttosto una valutazione costi/ricavi che ha visto prevalere le spese a fronte di una molecola farmacologica con brevetto scaduto e che può, quindi, essere prodotta da qualsiasi casa farmaceutica.

I Brevetti

Il brevetto per invenzione è l’istituto giuridico attraverso il quale si assicura all’inventore il diritto di utilizzazione esclusiva dell’invenzione per 20 anni dalla data di deposito della domanda di brevetto. Per diritto di utilizzazione esclusiva si intende il diritto di impedire a terzi di produrre, usare, mettere in commercio, vendere o importare l’oggetto del brevetto in questione, senza il consenso del titolare (Codice Proprietà Industriale).

La necessità di disporre di farmaci sicuri ha fatto aumentare i costi di produzione dei medicinali, le case farmaceutiche prima di intraprendere la produzione di un farmaco devono valutare attentamente il rapporto costo/ricavo di ogni ricerca.

Attualmente, molte aziende si concentrano su usi of label di farmaci già commercializzati per non dover affrontare i costi legati alla nuova commercializzazione di una molecola da immettere sul mercato.

L’unica garanzia di profitto per un’industria farmaceutica resta quella legata allo sfruttamento del brevetto, anche se questo può comportare una diminuzione di interesse verso la ricerca, a favore della produzione di utili.

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