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Morti per overdose e il legame tra diverse condizioni socioeconomiche

Negli Stati Uniti, tra il 1999 e il 2014, è stato registrato un incremento delle morti per overdose, circa 16.3 morti per 100.000 casi di overdose nel 2014, inoltre i decessi per overdose sono aumentati esponenzialmente dagli anni ’70. 

 

Vi sono notevoli differenze tra gli stati americani, infatti i tassi di mortalità più alti sono stati osservati in Virginia Occidentale, New Hampshire, Kentucky, Ohio e Rhode Island, mentre tassi più bassi in Iowa, Texas, North Dakota, South Dakota e Nebraska.

Dipendenze e fattori di rischio

Il luogo in cui vivono le persone influenza necessariamente la loro salute, incluso l’uso e l’abuso di droghe. Il gruppo di ricerca condotto da Van Handel osservò una variazione geografica significativa tra le varie contee per quanto riguardava l’infezione acuta da epatite C (provocata per l’iniezione di droghe), i tassi di infezione sono stati associati a fattori sociali, tra cui il reddito pro capite e il fatto che fossero bianchi, e non ispanici.

La suddivisione residenziale in base all’etnia di appartenenza può influenzare i risultati sanitari in modo differenziato tra i vari gruppi sociali.

La maggior parte dei decessi per overdose si verifica in soggetti che presentano un disturbo da uso di sostanze. I fattori di rischio per la tossicodipendenza o per la dipendenza comprendono: familiarità, essere maschi, condizioni di salute mentale coesistenti, pressione dei pari, mancanza di coinvolgimento familiare, ansia, depressione e solitudine.

Mortalità per overdose in relazione alle caratteristiche socioeconomiche

Un nuovo studio, pubblicato su Annals of Epidemiology, condotto dal George Mason University’s College of Health and Human Services, ha valutato i tassi di mortalità per overdose in relazione alle caratteristiche socioeconomiche e rispetto a dove le persone abitassero.

I decessi per overdose a livello delle contee USA sono stati ottenuti dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC Wonder) Underlying Cause of Death, dati acquisiti tra il 1999 e il 2015. I dati relativi agli anni 2010-2015 si riferiscono ai codici ICD-10, quali decessi totali, decessi per etnia e decessi per etnia ispanica.

Dallo studio emerge che 2067 contee registravano più di 10 morti per overdose in totale (66% delle contee totali) e il tasso medio di mortalità era pari a 16,1 per 100.000.

Nella maggior parte delle contee (n= 2029 [65%]) si sono registrati più di 10 decessi per overdose di persone caucasiche (tasso medio = 20,4 per 100.000), in un numero minore di contee 10 decessi per overdose di persone afroamericane (n = 355 [11%], tasso medio = 16,9 per 100.000) e almeno 10 decessi per overdose di persone ispaniche (n = 286 [9%], media tasso = 12,9 per 100.000).

Diverse misure di segregazione residenziale sono state significativamente associate ai tassi di mortalità per overdose per quanto riguarda l’etnia ispanica.

Le contee con una maggiore diversità etnica hanno registrato meno decessi per overdose negli afroamericani e negli ispanici, ma un numero di decessi simile nelle persone caucasiche. Le contee con una più alta disparità tra disoccupazione e occupazione hanno riscontrato più decessi per overdose negli ispanici, ma non nelle persone caucasiche o afroamericane. Le contee con più povertà registravano più morti per overdose negli afroamericani, ma non nelle persone caucasiche o negli ispanici.

Le contee con più civili disabili segnalavano più morti per overdose rispetto a tutti i gruppi etnici. Tuttavia, il legame tra altri fattori socioeconomici e morti per overdose spesso variava tra gruppi etnici. Ad esempio, le contee con più diversità etnica, più diversità di disoccupazione e con meno persone coperte da assicurazione hanno rilevato meno morti per overdose tra persone afroamericane e ispaniche, ma questo non è stato osservato per le persone caucasiche. Le contee con redditi più alti hanno riscontrato meno decessi per overdose tra persone ispaniche ma più morti per overdose tra le persone afroamericane. Le contee con più disoccupazione hanno avuto meno morti tra le persone ispaniche ma più morti tra le persone caucasiche.

La ricerca è messa in discussione dal numero limitato di decessi a livello delle contee, per questo le ricerche future dovrebbero concentrarsi sull’interazione tra le caratteristiche socioeconomiche individuali e la geografia sociale. Ciò potrebbe aiutare a comprendere meglio l’impatto dell’ambiente sociale sull’abuso di sostanze e sui decessi per overdose. 

Condivisione o isolamento? Il fenomeno del phubbing – Psicologia Digitale

Il phubbing, ovvero ignorare gli altri durante interazioni sociali per dedicarsi invece al proprio smartphone, anche se considerato un comportamento normativo, ha un impatto su qualità della comunicazione e porta a sentimenti di isolamento ed esclusione.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 1) Condivisione o isolamento? Il fenomeno del phubbing
 

 

Quante volte ci è capitato di essere a cena fuori con gli amici o col partner e dare un occhio allo smartphone? Magari perché no, anche guardare gli ultimi post pubblicati dai nostri contatti su Facebook o Instagram, rispondere alle chat di Whatsapp, controllare la mail. E quante volte ci siamo accorti che facendolo ci siamo assentati dalla situazione e dalla conversazione, ignorando i nostri interlocutori presenti lì accanto a noi?
 E’ questo il phubbing, termine che unisce le parole “phone” e “snubbing” e che descrive l’atto di snobbare qualcuno in un ambiente sociale: viene preferito l’uso dello smartphone all’interazione sociale con la persona o le persone presenti (Karadağ et al., 2015).

Il phubber è colui che snobba gli altri, mentre il phubbee è colui che ne subisce le conseguenze vedendosi ignorato. Per alcuni può essere così irritante che dal 2013 è online la campagna Stop Phubbing nata per prendere in giro i ‘maniaci del telefonino’ e non solo, infatti sul sito è possibile rispondere ad alcune domande e prendere parte a dei sondaggi oltre a poter scaricare brochure e volantini ironici sul tema.

Da cosa deriva il phubbing e le sue conseguenze

Due Autori, Chotpitayasunondh e Douglas, si sono occupati estensivamente del tema, analizzandolo sotto diverse prospettive e realizzando i primi strumenti per indagarne l’impatto: la Generic Scale of Phubbing (GSP) che esamina il phubbing su quattro fattori (nomofobia, conflitto interpersonale, autoisolamento e riconoscimento dei problemi) e la Generic Scale of Being Phubbed (GSBP) che valuta l’esperienza di essere phubbed su tre fattori (norme percepite, sentirsi ignorati e conflitto interpersonale).

Ignorare gli altri ci porta nel migliore dei casi ad essere distratti ma anche a volte all’isolamento vero e proprio.
 Chotpitayasunondh e Douglas (2018) hanno investigato il tema per comprendere meglio gli effetti del phubbing sugli esiti dell’interazione sociale. La loro ricerca conferma che l’esperienza di phubbing ha un impatto negativo e abbassa il tono dell’umore riducendo la qualità della comunicazione e del rapporto perché va a intaccare gli stessi bisogni che vengono minacciati quando le persone si sentono socialmente escluse: bisogno di appartenenza, di autostima, di attribuzione di significato e controllo, portando a un vissuto di ostracismo e isolamento.

Secondo gli Autori alla base del phubbing c’è la dipendenza da smartphone che a sua volta ha come fattori determinanti l’internet addiction, la cosidetta FOMO (fear of missing out, la paura e l’ansia di esser tagliati fuori, di perdersi qualcosa di interessante sui social o in generale online, accompagnata al pensiero che gli altri stiano facendo qualcosa di più interessante di quello che stiamo facendo noi) e la mancanza di autocontrollo, componente chiave nelle dipendenze. Anche secondo Karadağ e colleghi (2015), dipendenza e uso eccessivo di smartphone (incluso l’utilizzo di messaggi, social network e app di giochi) e in generale internet addiction portano al phubbing, che gli autori definiscono un vero e proprio disturbo trasversale a molte dipendenze.

Phubbing, un comportamento normativo

Siamo tutti sempre, perennemente agganciati al nostro smartphone. Fa parte della nostra vita quotidiana, un accessorio ed uno strumento di cui non possiamo più fare a meno. Se ci guardiamo intorno ad una festa o una serata tra amici non faremo fatica a scorgere ben più di una persona china sul telefono e probabilmente non ci sembrerà per nulla strano; il phubbing è quindi un comportamento che consideriamo ormai comune e abituale?

Secondo Chotpitayasunondh e Douglas (2016) sono falso consenso, reciprocità e frequenza che rendono il phubbing un comportamento percepito come normativo e non dannoso. Infatti, può accadere che gli individui sovrastimino la diffusione di idee o comportamenti percependo quindi un consenso molto più ampio del reale; a questo si aggiunge che chi subisce il phubbing a sua volta lo attua passando spesso e fluidamente dall’essere protagonista all’essere destinatario di questo comportamento in un circuito che si autoalimenta: il phubber diventa phubbee e viceversa, incrementando la frequenza e la reciprocità del comportamento e ampliando l’effetto del falso consenso, in un circolo vizioso.

Che sia normativo o no, l’esperienza di sentirsi invisibili ed esclusi dall’interazione sociale porta a vissuti di depressione, ansia, rabbia, solitudine determinando di fatto esclusione e impoverimento delle risorse dell’individuo; il phubbing è una nuova modalità di isolamento sociale e come tale non ne vanno trascurate le possibili conseguenze negative.

 


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La difficoltà nei rapporti interpersonali dei Disturbi di Personalità: il ruolo della fiducia negli altri e della sensibilità al rifiuto

Un disturbo di personalità viene definito come un pattern costante di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, pervasivo e inflessibile, con esordio nell’adolescenza o nella prima età adulta, stabile nel tempo e che determina disagio o compromissione.

 

In accordo con il modello alternativo dei disturbi di personalità riportato all’interno della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistic Manual of Psychiatric Disorders, Fifth Edition, DSM-5, American Psychiatric Association [APA], 2013), la compromissione del funzionamento personale e interpersonale costituisce il nucleo fondante di tali patologie.

Disturbi di personalità e difficoltà nei rapporti interpersonali

I rapporti interpersonali nello specifico rivestono un ruolo critico all’interno di questi disturbi: spesso, infatti, questi pazienti esperiscono lo stabilire e il mantenere interazioni sociali come sopraffacente e tendono a gestire tali emozioni negative attraverso modalità controproducenti che possono compromettere la qualità delle loro relazioni interpersonali. Una review recentemente pubblicata su Current Psychiatry Report (Poggi et al., 2019) si concentra nello specifico sull’approfondimento delle difficoltà di questi pazienti nella messa in atto di comportamenti cooperativi, analizzando due dimensioni fondamentali per lo sviluppo di tali comportamenti: la sensibilità al rifiuto e la fiducia negli altri. La review è stata condotta compiendo inizialmente due ricerche rispetto alla letteratura sull’argomento tramite i database PsycINFO e PubMed.

Nella prima ricerca sono state utilizzate le parole chiave sensibilità al rifiuto e disturbo di personalità, mentre nella seconda ricerca fiducia e disturbo di personalità. Al termine delle ricerche sono stati selezionati solamente gli studi pubblicati negli ultimi 5 anni, con l’aggiunta di studi meno recenti nel caso in cui questi costituissero contributi di particolare rilevanza o fossero i più recenti.

Disturbi di personalità e sensibilità al rifiuto

Poggi e colleghi hanno evidenziato la presenza di un numero maggiore di studi inerenti la sensibilità al rifiuto e la fiducia negli altri per il Disturbo Borderline di Personalità e per il Disturbo Narcisistico di Personalità, in quanto tali disturbi hanno ricevuto maggiore attenzione e approfondimento nel corso degli ultimi anni da parte dei ricercatori. La sensibilità al rifiuto è una disposizione cognitivo-affettiva di processamento dell’informazione che porta l’individuo ad avere aspettative ansiose, rapida percezione e spiccata reazione emotiva rispetto alla sola possibilità di un rifiuto all’interno di relazioni interpersonali.

Una elevata sensibilità al rifiuto può portare a pattern di interazione sociale disfunzionali come eccessiva ostilità, ritiro sociale o eccessivo accomodamento degli altri. Tale dimensione risulta particolarmente critica nel Disturbo Borderline di Personalità, nel Disturbo Narcisistico di Personalità e nel Disturbo Evitante di Personalità, ma si declina in modo differente in ognuno dei disturbi.

Per quanto riguarda il Disturbo Borderline di Personalità, condizione caratterizzata da spiccata instabilità in ambito emotivo, relazionale e del controllo degli impulsi, è emersa una relazione significativa con un’elevata sensibilità al rifiuto: questi pazienti tenderebbero infatti a reagire con risposte emotive negative e comportamenti maladattivi a situazioni di esclusione effettive o percepite e, in particolare, a sentire un minore senso di appartenenza anche in condizioni in cui vengono effettivamente inclusi.

Gli individui con Disturbo Narcisistico di Personalità, caratterizzati da un pattern pervasivo di grandiosità, necessità di ammirazione e mancanza di empatia, hanno maggiori probabilità di provare emozioni negative e di reagire in modo aggressivo nel momento in cui, tramite il rifiuto sociale da parte degli altri, percepiscono minacce rivolte al sé. Per quanto riguarda il Disturbo Evitante di Personalità, caratterizzato da bassa autostima e senso di inadeguatezza, è stata evidenziata un’associazione tra scarsa autostima ed elevata sensibilità al rifiuto: la tendenza di questi pazienti a sentirsi inferiori rispetto agli altri rafforza le preoccupazioni relative a possibili esperienze sociali negative quali il rifiuto, causando ritiro sociale con funzione preventiva rispetto al rifiuto stesso.

Disturbi di personalità e fiducia

La seconda dimensione sottendente il comportamento cooperativo presa in esame nella review è la fiducia, la quale emerge da un processo di valutazione dell’affidabilità dell’altro, con un conseguente adattamento del proprio comportamento nei suoi confronti. Una valutazione disfunzionale soggetta a bias cognitivi rispetto all’affidabilità degli altri potrebbe essere una possibile causa delle difficoltà relazionali nei disturbi di personalità. La dimensione relativa alla fiducia negli altri è risultata compromessa nel Disturbo Borderline di Personalità, nel Disturbo Narcisitico di Personalità e nel Disturbo Paranoide di Personalità. Nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità, la presenza di esperienze precoci negative con le proprie figure di attaccamento può portare alla formazione di modelli operativi interni basati sulla sfiducia, compromettendo il loro funzionamento sociale futuro. Questi pazienti presentano infatti bias cognitivi rispetto alla valutazione di affidabilità degli altri, che risultano associati alle preoccupazioni relative alla possibilità di essere abbandonati o rifiutati tipicamente presenti nel disturbo.

Per quanto concerne il Disturbo Narcisistico di Personalità la ricerca si divide tra pazienti che presentano un narcisismo vulnerabile o un narcisismo grandioso: per i primi la sfiducia nei confronti degli altri è una delle caratteristiche che ha maggiori possibilità, di concerto alla ruminazione rabbiosa, di portare a reazioni aggressive mentre, per quanto riguarda i secondi, tali reazioni si verificherebbero solo negli individui caratterizzati anche da forte antagonismo. Infine, i pazienti con Disturbo Paranoide di Personalità, caratterizzato dalla tendenza, persistente ed ingiustificata, a percepire e interpretare le intenzioni, le parole e le azioni degli altri come malevole, umilianti o minacciose, presenterebbero una progressiva diminuzione della fiducia negli altri all’aumentare del livello di scetticismo.

Gli studi presi in esame nella review di Poggi e colleghi (2019) evidenziano che differenti disturbi di personalità sono caratterizzati da difficoltà specifiche rispetto alla sensibilità al rifiuto e alla fiducia nei confronti degli altri. Criticità rispetto a tali dimensioni risultano avere un ruolo centrale nel mantenimento delle relazioni disfunzionali nei disturbi di personalità, e necessitano quindi di ulteriori approfondimenti futuri, con l’obiettivo di portare a trattamenti specifici più mirati e informati per questi disturbi.

Bastano 20 neuroni per “vedere”

Da un punto di vista neurale, ancor oggi non si conosce la ragione per cui alcuni specifici pattern neurali siano coinvolti nella percezione visiva mentre altri, nelle medesime aree cerebrali, sembrano non partecipare. Le moderne tecniche di optogenetica sembrano però venirci in aiuto nel rispondere a tale questione.

 

Una nuova ricerca dell’Università di Stanford, pubblicata recentemente su Science, suggerisce come sia sufficiente l’attivazione di soli 20 neuroni per indurre un’allucinazione visiva nei roditori. Il tutto grazie alle eccezionali potenzialità dell’optogenetica.

La percezione visiva è frutto dell’attività della corteccia visiva che elabora l’informazione sensoriale visiva proveniente dalla retina producendone un percetto.

Da un punto di vista neurale, ancor oggi non si conosce la ragione per cui alcuni specifici pattern neurali siano coinvolti nella percezione visiva mentre altri, nelle medesime aree cerebrali, sembrano non partecipare; parimenti non si hanno a disposizione tecnologie in grado di testare causalmente la precisa influenza e azione sul processamento percettivo da parte di specifici e individuali gruppi neurali sia tramite la loro attivazione sequenziale, uno alla volta, o globalmente in sincrono (Reardon, 2019).

A partire da evidenze ottenute su studi animali tra cui quella di Joglekar, Mejias e colleghi (2018) che hanno investigato a livello cellulare la corteccia visiva di roditori, è stata osservata una cruciale relazione tra singoli neuroni e pattern di interconnettività e reciprocità tra diverse aree e strati anatomici della corteccia visiva sia primaria che di livello gerarchico più alto per la codifica visiva.

Da esso ne è risultato che l’attività neurale sincrona, in combinazione con meccanismi sinaptici inibitori, consentirebbe ai neuroni posti nelle aree visive interconnesse tra loro, di amplificare o di sopprimere specifici segnali in risposta allo stimolo visivo realizzando così la parte iniziale della percezione visiva.

Tuttavia la relazione funzionale tra le dinamiche dei networks neurali e l’architettura anatomica delle aree visive che darebbe origine ai compiti percettivi di queste cellule nervose rimane ancora poco chiara (Marshel, Kim, Deisseroth et al., 2019).

Le tecniche optogenetiche per lo studio della percezione visiva

Le tecniche optogenetiche di nuova generazione di controllo in vivo dell’attività di singoli neuroni potrebbe fornire il mezzo più adatto per investigare tale relazione e la più consona ad elicitare tali compiti nei neuroni (Houweling & Brecht, 2008).

Nello specifico questa tecnica, attualmente utilizzata esclusivamente sugli animali da laboratorio, permette di controllare in modo individuale singole cellule nervose tramite impulsi di luce che interferiscono con la loro attività, con il fine di poterne manipolare l’attività e studiarne le relazioni causa-effetto mentre l’animale è impegnato in differenti task percettivi o comportamentali.

Questa tecnica appare particolarmente efficace soprattutto negli animali che hanno subito delle modifiche optogenetiche in quanto le loro cellule nervose a seguito di essa producono una proteina che “risponde” all’impulso di luce quando colpite, emettendo un altro impulso di luce che viene successivamente registrato.

Quest’ultimo consente di individuare il sito di attività delle cellule dalle quali è partito l’impulso di luce in modo tale da conoscere non solo la loro area di origine ma anche di differenziarne i pattern d’attività che sono stati elicitati associandoli ai comportamenti osservati negli animali (Houweling & Brecht, 2008).

Utilizzando una risoluzione cellulare nelle aree visive di roditori geneticamente modificati, Karl Deisseroth dell’università di Stanford e colleghi dei dipartimenti di bioingegneria, fisiologia molecolare e cellulare e medicina del medesimo ateneo, hanno indotto “allucinazioni” visive usando impulsi di luce su singoli neuroni nervosi delle aree visive di roditori, con lo scopo di comprendere come il cervello integri, interpreti e agisca sulla base delle informazioni che provengono dalla retina.

Il gruppo di lavoro di Deisseroth ha addestrato tramite condizionamento un piccolo numero di roditori a rispondere leccando un piccolo tubo che forniva loro acqua, ogni qual volta apparivano immagini di barre verticali, con orientamento a 90°, anziché orizzontali, cioè senza alcun tipo di orientamento.

Mentre il topo era impegnato nel task di discriminazione di stimoli visivi, i ricercatori hanno monitorato l’attività neurale nella corteccia visiva primaria V1, registrando gli spike dei singoli neuroni, posti in diversi livelli della corteccia, che rispondevano al task visivo discriminativo.

Da tale registrazione neurale i ricercatori hanno identificato circa 20 cellule nervose che sono apparse essere associate in modo consistente con l’osservazione delle immagini delle barre verticali da parte dei roditori.

In un secondo momento, utilizzando tecniche di optogenetica, iniettando cioè all’interno delle 20 cellule di V1 un virus in grado di alterare l’espressione genica delle cellule nervose visive rendendole in grado di sintetizzare alcune proteine che ne modificano la conformazione in presenza di un impulso luminoso, i ricercatori hanno innescato un’attività che a sua volta ha determinato in modo sorprendente il comportamento di avvicinamento del roditore al tubo per l’acqua, allo stesso modo di quando gli venivano mostrate le immagini delle barre verticali.

Tuttavia, in questa specifica condizione, l’animale si trovava in una gabbia completamente priva di luce in cui non vi era alcuna immagine da discriminare. In aggiunta a ciò, questo comportamento non era presente quando i ricercatori stimolavano i neuroni di V1 che rispondevano selettivamente alla presentazione delle immagini di barre orizzontali (Marshel, Kim, Deisseroth et al., 2019).

Conclusioni e prospettive future

Nello studio descritto non vi è una spiegazione del tutto chiara e dettagliata dell’eventualità che i roditori, al momento della stimolazione optogenetica, abbiano “visto” le barre verticali in modo consapevole o subliminale, la cui messa in evidenza potrebbe richiederebbe un diverso compito sperimentale.

Nonostante ciò, è sorprendente come la mera stimolazione di sole 20 cellule nervose abbia sviluppato “allucinazioni” nei roditori, cioè la percezione visiva di uno stimolo non presente realmente nell’ambiente.

Le evidenze di questa incredibile ricerca hanno introdotto anche un ulteriore avanzamento scientifico costituito dalle straordinarie potenzialità delle tecniche optogenetiche che consentono attualmente di manipolare attivamente e sul momento l’attività neurale anziché semplicemente registrarla, come se se si stesse suonando il “piano della mente” premendo progressivamente, con i nuovi avanzamenti scientifici, sempre più tasti (Marshel, Kim, Deisseroth et al., 2019).

Il passo successivo sarà in primo luogo quello di stabilire come i neuroni che codificano per uno specifico stimolo, come nel caso della ricerca sopra descritta, siano connessi alle altre regioni cerebrali che integrano e interpretano il significato dei dati visivi che ricevono e in un secondo momento di investigare le proteine che consentono alla cellula nervosa di “leggere” le informazioni riguardo alcuni attribuiti dello stimolo visivo come il colore, la forma o altri dati sensoriali come il suono o il tocco.

Non è ancora possibile utilizzare tecniche optogenetiche su gruppi umani, tuttavia la compagnia americana Second Sight di Los Angeles, ha pubblicato i primi risultati clinici ottenuti su un gruppo di pazienti con cecità che hanno ottenuto un beneficio alla vista grazie all’impianto in corteccia di un device in grado di stimolare e ripristinare l’attività neurale in risposta alle informazioni registrate da una telecamera posta vicino all’occhio della persona (Reardon, 2019).

Quando possiamo dichiarare empiricamente supportata una terapia?

In una meta-analisi appena uscita su una rivista della American Psychological Association (APA) molti dei mostri sacri della psicoterapia cadono di fronte alla spietatezza dello statistical power

 

I Paradosso: l’APA smentisce l’APA

E poi ti alzi una mattina e scopri che in una meta-analisi appena uscita su una rivista della American Psychological Association (APA) molti dei mostri sacri della psicoterapia cadono di fronte alla spietatezza dello statistical power e la stessa Divisione 12 dell’APA (Society of Clinical Psychology) viene smentita! L’articolo afferma infatti che molti degli approcci indicati come gold standard nelle linee guida APA non sono realmente supportati dalle evidenze. La riga conclusiva dell’abstract afferma:

per un numero limitato di terapie empiricamente supportate l’evidenza relativa rimane robusta secondo vari indicatori; l’evidenza è parziale o significativamente debole per molte (terapie), anche per varie classificate come robuste dalla Divisione 12 dell’APA (Sakaluk, Williams, Kilshaw & Rhyner, 2019).

Sebbene non sia la prima volta che esperti autorevoli mettono in dubbio l’efficacia della psicoterapia, devo ammettere un certo sgomento nello scorrere le 10 pagine di tabelle in cui la psicoterapia è esposta al pubblico ludibrio! Tra le maggiori sorprese vi è ad esempio scoprire che la DBT per il disturbo borderline di personalità, la riattivazione comportamentale per la depressione e l’EMDR per il trauma mostrano evidenze ben al di sotto di quelle ipotizzate e formulate dalla Divisione 12. Vi sono poi patologie (es. anoressia nervosa) dove la carenza di dati è tale da suggerire forme di assessment e intervento più prossime alla ricerca che non alle EST (Empirically Supported Therapies).

Sakaluk e colleghi (2019) hanno cercato di rispondere alla domanda: quali sono le reali evidenze delle cosiddette Empirically Supported Therapies (EST)? E di conseguenza ci si è chiesti se il grading (il livello con cui sono classificati gli interventi) presente nelle linee guida APA sia realmente attendibile o debba essere rivisto. Dunque un giornale e un team di ricerca dell’APA… smentiscono l’APA! Se state pensando che questo articolo segni la fine dei ben noti gold standard della psicoterapia moderna la risposta è no! I risultati dell’articolo rimarcano come solo alcune delle EST definite robuste lo sono davvero e come la definizione delle linee guida debba affrontare un processo di revisione. Questo, non temete, non significa che tutto vale o tutto è senza valore!

II Paradosso: la significatività statistica potrebbe non essere significativa

Lo studio nasce dal riconoscere una serie di debolezze metodologiche delle quali alcune travalicano i confini della psicoterapia, altre le sono proprie. Pertanto il razionale delle critiche APA all’APA ruota attorno alle metodologie utilizzate per il succitato grading. Una EST è robusta (strong) se ha ripetutamente dimostrato un’efficacia significativamente superiore (p<.005) rispetto all’assenza di trattamento, ad un placebo o ad un altro trattamento alternativo. Sebbene questo sistema sia un miglioramento rilevante rispetto al passato, l’affidamento alla significatività statistica tradizionale espone a notevoli rischi metodologi.

Recentemente la rivista Nature ha rimarcato la necessità di superare l’onnipresente significatività statistica, vista l’erronea tendenza da parte di metà degli articoli scientifici a considerare la “non-significatività” un sinonimo di mancanza di effetto (Amrhein, Greenland & Mc Shane, 2019). L’uso di una singola soglia probabilistica (l’onnipresente “p” è una probabilità teorica nell’accettare un’ipotesi) ha due effetti deleteri: (I) ci fa pensare in maniera monodimensionale e dicotomica la rilevanza di uno studio; (II) ci fa credere che quel che definiamo significativo sia di conseguenza reale. Se state pensando che noia mortale questo post… lo posso capire! Provate però anche a pensare che se in psicopatologia usiamo una stima di efficacia monodimensionale e dicotomica rischiamo di avvallare il vecchio principio per cui il mondo si divide in maniera netta tra sani e folli, tra normalità e anormalità. E tanti saluti ai modelli dimensionali, ai processi transdiagnostici e alle prassi cliniche del nostro agire quotidiano.

Senza dover scomodare l’ultimo secolo di storia dell’epistemologia penso sia evidente come la scienza moderna che tanto decanta la complessità resti spesso ancorata a metodologie e presupposti ben poco moderni e a mind-set ortodossi ed assai poco pragmatici. In psicoterapia questo ha portato alla creazione di fazioni avverse di ricercatori con comportamenti più affini a quelli di un conclave che di un consesso scientifico. Ad un estremo abbiamo il ricercatore che persegue una strategia di minimizzazione del rischio e si espone a focalizzarsi solo su variabili sperimentalmente controllabili con metodologie ben lontane dalla complessità del reale.

All’altro estremo abbiamo il ricercatore che persegue una strategia di massimizzazione del vantaggio e per ottemperare ad una visione assolutamente complessa finisce per utilizzare parametri non ripetibili e dunque non validi. Trattasi sempre di strategie di evitamento: una più apollinea che ricerca l’irraggiungibile spiegazione del tutto tramite le parti, una più dionisiaca che si inebria del tutto dimenticandosi le parti.

E come spesso succede nelle guerre tra fazioni, prese di posizione e principi aprioristici la scienza diviene un po’ meno scienza.

Marvin Goldfried (2019) sostiene come la totale frammentazione della psicoterapia indichi uno stadio pre-paradigmatico della disciplina, ovvero quella fase storica che Kuhn colloca prima dello sviluppo di un paradigma di ricerca definito. Quel che è certo è che la mancanza di studi di replicazione è uno dei drammi metodologici della psicoterapia: si testa sempre nuovi modelli senza mai corroborare o smentire quelli esistenti. Vi sono poi errori metodologici meno evidenti come il fatto che nelle scienze sociali circa il 50% degli studi riportino almeno un errore di trascrizione dei dati e che solo il 44% ottenga realmente il potere statistico auspicato anche quando viene calcolato l’effect size (Szucs & Ioannidis, 2017). La meta-scientific review in questione ha cercato di bypassare tutti questi bias metodologici utilizzando dei parametri specifici che ambiscono a supportare lo sviluppo di linee guida più attendibili. Se vi state chiedendo come leggere le 10 pagine di tabelle vi consiglio di partire dal Replicability-Index (R-Index) che vuole offrire un potere statistico basato sul valutare quanto sia plausibile un set di effetti descritti da uno studio, o dal Bayes Factor (BF) che rappresenta un tentativo di bypassare la struttura dicotomica della significatività usando una funzione continua (ovvero la verosimiglianza bayesiana, dove la probabilità non è legata al risultato ma bensì al parametro).

III Paradosso: una scienza che si presupponga priva di bias ha almeno un bias

Mentalizzare che aver lo stesso approccio o ancor meglio conoscere l’editor di una rivista fa fare un balzo alle tue probabilità di pubblicare fu come mentalizzare che Babbo Natale non vive con gli elfi in Lapponia. Non fu affatto gradevole. Prima pensai che se anche in società scientifiche non aduse ai costumi latini ci si muove per conoscenze allora vi è ben poca speranza. Poi mi ricordai che la scienza è fatta da uomini e che anche la credibilità personale e relazionale di un ricercatore non è un parametro secondario. Non possiamo non riconoscere la natura sociale e socializzata della scienza. E questo vale tanto per le sue manifestazioni più vitali e prolifiche quanto per quelle più regressive e lobbistiche. Bruno Latour, uno dei geni della moderna epistemologia, condusse una sorta di spedizione antropologica in un notissimo centro di ricerca. Ne venne fuori un libro che descrive la presunta oggettività scientifica come la risultante di dinamiche sociali e interpersonali poste ad un livello sovraordinato rispetto a metodi ed evidenze: la costruzione dei fatti è sempre una costruzione sociale e non esiste un al-di-fuori dal contesto di riferimento (Latour &Woolgar, 1986).  Dunque è impossibile pensare ad una scienza priva di bias e svincolata dal contesto sociale degli uomini che le danno vita e valore. Se riconosciamo l’ineludibilità di tutto questo, possiamo serenamente procedere per tentativi, prove ed errori. Possiamo lavorare per migliorare le procedure di definizione delle nostre linee guida considerando sia gli aspetti tecnici-metodologici che quelli interpersonali-sociologici.

Concludendo, la cattiva notizia è che vi sono variabili che hanno condizionato la formulazione delle linee guida APA ponendo tra i gold standard interventi che richiedono ulteriori verifiche per potersi definire tali. E pertanto non possiamo dichiarare immodificabile la metodologia con cui si stabiliscono i grading. E’ opportuno rivedere le procedure statistiche coerentemente con un’idea moderna di scienza e al contempo riconsiderare quanto poco monitoriamo le variabili interpersonali e sociali. Sakaluk e colleghi (2019) hanno inserito una variabile per monitorare gli errori di trascrizione, ma non hanno preso ad esempio in considerazione se gli studi di efficacia su singoli approcci sono testati da ricercatori non affiliati a questi stessi approcci, se vi è un equo investimento di risorse nei gruppi di controllo, o se vi è una randomizzazione dei terapeuti tra condizione sperimentale e di controllo.

La buona notizia è che l’APA stessa ha promosso e pubblicato uno studio che la obbliga ad andare a revisione, mettendo in discussione la stessa procedura alternativa proposta da Sakaluk e colleghi (2019). Questo aspetto apparentemente secondario rimarca l’importanza di una comunità scientifica al contempo pluralista, per favorire l’emergere di opinioni contrastanti, e al contempo integrata, per superare la continua frammentazione di linguaggi e tecniche (Cheli, 2018). Per quanto Einstein non gradisse la meccanica quantistica nessuno (neanche Einstein) si è mai sognato di considerare il lavoro di Schroendinger altro dalla fisica!

Post Scriptum

Al fine di non considerare i rimandi al pluralismo scientifico semplici chiacchiere vacanziere, ho importunato per un commento Francesco Gazzillo, Giancarlo Dimaggio e Francesco Mancini (ndr: commenti che a breve pubblicheremo su State of Mind), confidando che avrebbero avuto proprie ed alternative letture dell’articolo in questione.

 

Altri articoli sull’argomento:

 

L’impatto delle emozioni positive sulla nostra salute attraverso il circuito anti-infiammatorio colinergico

Recentemente si sono accumulate molte importanti conoscenze relative la connessione tra le nostre emozioni ed il nostro stato di salute attraverso il circuito anti-infiammatorio colinergico del sistema immunitario.

 

Agli inizi del 2000 finalmente si fece luce sul meccanismo attraverso il quale il nervo vago (NV), la principale struttura anatomica che costituisce il sistema nervoso autonomo parasimpatico, gestisce i processi infiammatori precedentemente rilevata dal suo tratto afferente che mette in comunicazione pressoché tutti gli organi con il cervello.

Il nervo vago e il circuito colinergico anti-infiammatorio

Attraverso uno stimolo nervoso il nervo vago rilascia la molecola acetilcolina nell’organo bersaglio oggetto dell’infiammazione inducendo la soppressione della produzione di citochine TNF (Tracey, 2002).

Tracey chiamò questo meccanismo circuito colinergico anti-infiammatorio (CAP, cholinergic anti-inflammatory pathway) per sottolineare il ruolo importante di questa struttura neuro-endocrina che connette il cervello a tutti gli organi del corpo per monitorare e gestire il sistema immunitario e quindi la nostra salute.

Il CAP è quindi un meccanismo che utilizza il Nervo Vago per gestire il sistema immunitario ed il conseguente processo infiammatorio in modo estremamente diffuso, aspecifico, efficiente ed efficace contrastando esposizioni potenzialmente pericolose di antigeni.

Identificando il meccanismo del CAP è stato possibile capire il come ed il perché il cervello controlla il sistema immunitario e, visto che il cervello presenta attivazioni e funzionamenti diversi in base anche allo stato psicologico, si è aperta la possibilità di esplorare il ruolo delle emozioni nell’influenzare il nostro sistema immunitario e la nostra salute in generale.

Gli antagonisti del nervo vago e del circuito colinergico anti-infiammatorio

Vediamo adesso di approfondire i principali protagonisti di questo meccanismo.

Il nervo vago è il principale ed il più esteso ramo parasimpatico del sistema nervoso autonomo, esso collega il sistema nervoso centrale a praticamente tutti gli organi ed apparati permettendo una comunicazione bidirezionale che monitora e controlla funzioni quali la variabilità cardiaca (HRV heart rate variability, un indice di funzionamento dell’interazione tra sistemi complessi come il sistema cardiocircolatorio, il sistema nervoso e quello respiratorio) e migliaia di altre funzioni, compreso l‘asse microbiota-intestino-cervello (Thayer et al., 2012; Bonaz et al. 2018).

Dal punto di vista strettamente biologico, il nervo vago contrasta sia lo stress ossidativo, sia le infiammazioni, sia l’attività del sistema nervoso autonomo simpatico.

L’attività del nervo vago è connessa con il funzionamento della corteccia frontale e dell’amigdala che sono fondamentali per la regolazione delle emozioni (Urry et al., 2006), l’attivazione dell’asse neuro-endocrino dello stress (Thayer et al., 2012) ed i comportamenti inclusi gli stili di vita (Gidron, et al., 2018).

Dall’ampia letteratura presente si evidenzia che un’alta attività del nervo vago, correlata ad un più elevato indice di HRV, predice un minore rischio ed una migliore prognosi di problemi cardiovascolari, tumorali e polmonari che condividono importanti fattori di rischio comportamentali e dinamiche fisiologiche legate allo stress ossidativo, infiammazioni e l’eccessiva attività del sistema nervoso autonomo simpatico (Gidron, et al., 2018). Un basso tono vagale è associato ad un meno efficace recupero successivo a problematiche cardiovascolari, endocrine ed immunitarie (Weber et al., 2010).

Il nervo vago e il suo ruolo nella regolazione delle emozioni

Da qualche anno si stanno accumulando ricerche che dimostrano che alcune attività ed esperienze specifiche connotate da emozioni positive migliorano il funzionamento del nervo vago e la conseguente HRV con tutti i vantaggi derivanti in termini del nostro benessere psicologico e la nostra salute.

La regolazione emotiva, funzione fondamentale per generare emozioni “positive” e gestire efficacemente quelle “negative”, è correlata alla HRV (Appelhans &Luecken, 2006; Thayer & Brosschot, 2005).

I valori di HRV sono inversamente correlati alla percezione di contesti minacciosi o comunque pericolosi e positivamente correlati alla percezione di contesti valutati come “sicuri” (nel senso di privi di pericoli) attraverso l’attivazione di specifiche aree cerebrali in particolare la parte ventrale della corteccia prefrontale (Buchanan et al., 2010; Thayer et al., 2012).

Attualmente la letteratura sembra indicare che questa area corticale della corteccia prefrontale (PFC pre-frontal cortex) svolga un ruolo cruciale nel momento in cui ci sia bisogno di effettuare valutazioni cognitive finalizzate alla regolazione emotiva (Eippert et al., 2007; Urry et al., 2006).

Dal momento in cui una ridotta HRV è associata ad un’ampia gamma di fattori di rischio di mortalità e problematiche cardiovascolari (Thayer and Lane, 2007; Thayer et al., 2010a,b) la funzione inibitoria dei circuiti neurali del PFC può essere stimata attraverso la misurazione del funzionamento del nervo vago attraverso l’HRV (Thayer et al., 2012).

Il funzionamento della corteccia prefrontale è quindi fondamentale per la rilevazione e la gestione dello stress anche psicologico risultando molto importante per la salute dal momento che la regolazione emotiva e le emozioni positive implicate con essa, sono essenziali per svolgere questo compito.

Nervo vago e cambiamenti epigenetici: l’impatto sulla nostra salute

Sempre relativamente alla regolazione emotiva si è visto che la misurazione del tono vagale HRV è associata positivamente alle emozioni positive (allegria e calma) ed alla soddisfazione di vita confermando che la misurazione dell’HRV è un ottimo indice di capacità auto-regolativa (Geisler et al., 2010) e quindi di gestione dello stress.

Per quanto riguarda la relazione tono vagale ed autostima, esperimenti hanno dimostrato che feedback positivi, che quindi elicitano emozioni positive, aumentano il tono vagale HRV rispetto feedback di natura opposta (negativa), mentre altri studi hanno documentato la correlazione positiva tra valutazione dell’autostima ed il tono vagale HRV basale (Martens et al., 2010).

Emozioni positive come la compassione (Stellar et al., 2015; Stellar & Keltner, 2017) sono state trovate essere associate ad una migliore attivazione del nervo vago così come altre emozioni positive sembrano predire bene la bassa produzione di citochine pro-infiammatorie (Stellar et al., 2015) indice di una migliore situazione immunitaria e quindi di un migliore salute generale. Emozioni positive sono state associate ad un più efficace ed efficiente recupero da problematiche cardiovascolari legate ad emozioni negative (Fredrickson & Levenson, 1998).

Come è possibile quindi rilevare, la descrizione delle interazioni delle emozioni positive nel nostro organismo sono piuttosto convergenti e solide nell’attribuire al sistema colinergico anti-infiammatorio il ruolo fondamentale di apparato che permette la reciproca comunicazione tra stati mentali, strutture neurofisiologiche, endocrine e cellulari attraverso cambiamenti epigenetici “esperienza dipendenti” che ne permettono la plasticità e quindi l’adattamento.

La qualità e la quantità di esperienze che viviamo all’interno della nostra vita (sia consapevoli che non, sia psicologiche che squisitamente molecolari) influenzano questi cambiamenti epigenetici in maniera continua contribuendo alla nostra salute ed alla nostra identità individuale e sociale.

Dal senso di colpa al peccato del pensiero ossessivo. Il ruolo dell’educazione religiosa nel Disturbo Ossessivo Compulsivo – Riflessioni dal confronto con padre Guidalberto Bormolini

Senso etico, morale e senso di colpa sono aspetti fortemente presenti nella dimensione dell’uomo occidentale e come ampiamente dimostrato possono contribuire nella genesi e nel mantenimento di disagi psichici.

 

Ne sono esempi di esasperazione alcune forme di Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) dove il pensiero riveste un ruolo principale, accompagnato da un senso di colpa per possibili contenuti dello stesso e propensione al controllo e senso di responsabilità.

La storia della filosofia, così come della psicologia, è ricca di studi ed approfondimenti attinenti sempre alla dimensione del senso etico, morale, coscienza contrapposta all’incoscienza, visione polarizzata tra il giusto e sbagliato.

L’influenza della religione nel disturbo ossessivo compulsivo

Basti pensare ad esempio, nella storia della psicologia, ai contributi dell’illustre Sigmund Freud, padre della Psicoanalisi, il quale all’interno dei suoi lavori distingue tre dimensioni psichiche che interagiscono tra loro: l’Es, ovvero i desideri e le pulsioni istintuali, il Super-Io, che giudica e condanna le spinte che giungono dall’Es ed infine l’Io, che media tra le spinte dell’Es e le proibizioni del Super-Io, al fine di trovare un equilibrio armonico.

Le stesse tematiche sono riscontrabili poi all’interno della storia delle dottrine cristiane, dove la propensione è quella di vedere un Dio severo e punitivo, (Il Dio dei 10 Comandamenti), associato al Vecchio Testamento, contrapposto all’immagine di Dio Padre infinitamente buono, non ancora però arrivato, narrato nel Nuovo Testamento.

L’ influenza della religione è una tematica di grande rilievo all’interno di alcune forme di disagio psichico e soprattutto nel DOC, che andremo ad approfondire all’interno del presente articolo e come aveva già intuito Freud:

ci si potrebbe arrischiare a considerare la nevrosi ossessiva come un equivalente patologico della formazione religiosa e a descrivere la nevrosi con una religiosità individuale e la religione come una nevrosi ossessiva universale.

L’intento del presente lavoro, è riflettere sul ruolo della dottrina cristiana riscontrabile in alcune forme di DOC, ascoltando questa volta il punto di vista di un addetto ai lavori che in questo caso è padre Guidalberto Bormolini, che ringrazio per la disponibilità e per l’arricchimento che mi ha donato, nell’occasione del nostro confronto telefonico.

Chi e’ padre Guidalberto Bormolini

Artigiano falegname, nasce a Desenzano del Garda nel 1967, nel 1992 matura la decisione di consacrarsi alla vita religiosa entrando a far parte della comunità religiosa dei Ricostruttori nella preghiera; nel 2000 ottiene la licentia docendi in antropologia teologica presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale a Firenze; continua la sua formazione teologica, spirituale e non solo, conseguendo il diploma come consuelor presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo; continua la sua missione anche civile attraverso l’iniziativa di ricostruzione di luoghi abbandonati in varie zone di Italia trasformando gli stessi in centri di spiritualità ed ambienti ecumenici, guida numerosi corsi e ritiri spirituali, partecipa ed organizza convegni, si occupa anche di educazione all’accompagnamento alla morte. E’ scrittore ed autore di diversi articoli e testi è anche fondatore e direttore della Collana Tutto è Vita.

Il ruolo della religione nello sviluppo del disturbo ossessivo compulsivo foto

Imm. 1 – PADRE GUIDALBERTO BORMOLINI

Ossessioni religiose e ruolo della religione all’interno delle stesse: il confronto con padre Guidalberto Bormolini

Quando parliamo di ossessioni ci riferiamo a pensieri intrusivi, indesiderati ed angoscianti che compaiono improvvisamente nella mente della persona contro la propria volontà, pertanto definiti egodistonici, e che causano forte disagio e ansia. Tra le possibili tematiche ossessive in questa sede approfondiremo quelle associate ad un senso religioso rigido ed esasperato che può riscontrasi in ossessione di carattere religioso e non solo, che hanno come denominatore comune la paura di commettere peccato trasgredendo ai 10 Comandamenti. Ne sono esempio la paura di commettere atti impuri (anche riferito all’autoerotismo o anche tra coniugi, rapporti sessuali non a scopro procreativo), di avere ossessioni aggressive (paura di potere uccidere o aggredire i propri cari o di potersi suicidare), di bestemmiare, di nominare il nome di Dio invano, di essere tentato dal male o in battaglia contro il male, di poter commettere comportamenti scorretti in luoghi religiosi. Queste si accompagnano a tentativi disperati ed invani di neutralizzare il pensiero con compulsioni che possono riguardare il lavaggio, recitare preghiere mentalmente o rituali magici/scaramantici, ed evitamenti vari.

Il senso di colpa e di responsabilità in tali persone è fortemente spiccato e dunque un pensiero cattivo e malvagio non può essere pensato. Pensare a qualcosa equivale a farla, aspetto dai cognitivisti denominato come fusione pensiero-azione. Nel tentativo di volere tenere il controllo, altro aspetto rilevante nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, la persona perderebbe il controllo della propria emotività aumentando di conseguenza l’intrusività dei pensieri.

Ma noi siamo i nostri pensieri, alcune tradizioni filosofiche ci insegnano che pensare è peccato; la chiesa ci chiede di ricordare e recitare durante la Santa Messa:

Confesso a Dio Onnipotente ed a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni. Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.

Come liberare allora la persona ossessiva del Peccato?

Fatte tali premesse ecco gli interrogativi posti a padre Guidalberto Bormolini.

Padre Guidalberto Bormioli – Le sue risposte ai nostri quesiti

Come mai in queste persone sembra che le tavole dei 10 Comandamenti siano state scolpite addosso sentendo di vivere costantemente nel Peccato?

Padre Guidalberto Bormolini riconosce che gran parte della responsabilità sia dovuta alla cattiva educazione religiosa che abbiamo ricevuto nel tempo. Questa a sua volta sarebbe influenzata da aspetti storici riscontrabili soprattutto dal Medioevo in poi, periodo in cui si comincia a tendere verso un senso morale esasperato e deformato. Durante il Medioevo infatti, la religione invase ogni aspetto dell’uomo facendo della religione uno strumento per sottomettere l’uomo: si combatteva per la fede, si sopportavano fatiche, torture, penitenze; si uccideva per la fede. Atti di penitenza e purificazione diventavano i mezzi ai quali fare ricorso per avvicinarsi a Dio. Il fuoco divenne elemento principale al quale fare ricorso (basti pensare ai roghi dell’inquisizione), tutti aspetti che non hanno nulla a che vedere con la spiritualità, con i messaggi d’amore e con gli atti d’amore che ha fatto Dio per noi. All’interno del libro del Pentateuco, si ritrova il racconto della consegna delle tavole su cui erano scolpiti 10 Comandamenti di Dio donati al popolo liberato dalla schiavitù come guida ai loro passi e non come ancora oggi si tende a fare, per sottomettere l’uomo ed intrappolarlo nel senso di colpa.

Il senso di responsabilità è sano, il senso di colpa gratuito no.

Pensare è peccato?

Anche in riferimento allo stesso termine peccato vi è una deformazione o non conoscenza del significato della parola stessa.

Peccato infatti richiama all’immagine dell’arciere greco che scaglia la freccia e commette peccato non prendendo il bersaglio. Non è peccato dunque la freccia, ma l’uso che ne fai, la direzione che prenderà ad essere sbagliata e dunque peccato.

Anche in questo caso, anche per la religione non è di per sé il pensiero ad essere peccato ma se si associa a questo ad un atto di volontà che ti porta a commettere il peccato. La nostra libertà è inviolabile e non ci sono forze esterne che ci possono costringere. In merito a tali temi una lettura di approfondimento di grande utilità a fare chiarezza sui temi affrontati è L’arte di purificare il cuore di Tomas Spidlik. Infatti all’interno del testo sono riscontrabili argomenti simili e come quelli che ritroviamo poi, in senso più ampio all’interno di persone che soffrono di Disturbo Ossessivo Compulsivo: il dualismo tra il concetto di bene e male, il dualismo tra corpo e spirito, tra passioni e senso morale.

Ma il nostro corpo è tempio, dimora del nostro spirito, dunque come ritenerlo peccaminoso? Allo stesso modo, le passioni al contempo possono avere una connotazione positiva o negativa, solo se queste superano l’uomo e la sua libertà possono diventare negative.

Le ossessioni sono pensieri, non azioni

Giungendo a conclusione di tale confronto in aggiunta alla lettura del testo sopracitato, mi soffermerei sul tema del “pensare è peccato”.

Come sia padre Guidalberto che anche ritrovato all’interno del L’arte di purificare il cuore si ritrova una spiegazione chiara ed esaustiva che risulta essere in piena sintonia con ciò che diventa aspetto terapeutico in fase di ristrutturazione cognitiva. E la risposta questa volta ci giunge dal mondo della fede: i pensieri cattivi e malevoli costituiscono un male solo nel momento in cui li accettiamo consapevolmente e liberamente, quando cioè ci identifichiamo con essi.

Ed ancora, i pensieri cattivi, i desideri passionali girano continuamente, per così dire, intorno a noi. Spesso occupano la nostra fantasia e la nostra mente. Costituiscono la debolezza umana dopo il peccato dei primi antenati. Ma in sé non sono ancora un vero male. La Chiesa afferma che la concupiscenza proviene dal peccato e attira peccato, ma in sé non è peccato. (T. Spidlik, 2001).

Sempre all’interno de L’arte di purificare il cuore, l’autore riporta un quesito che spesso gli viene sollevato dai fedeli che si rivolgono a lui: si è detto che il vero peccato sia solo quando interviene libero consenso che si unisce al pensiero cattivo. Ma come facciamo a sapere con sicurezza se abbiamo acconsentito liberamente o no? E’ un interrogativo che anche in ambito clinico non di rado la persona con ossessioni religiose si pone e ci pone.

Ed ecco che all’interno del testo sopracitato l’autore spiega che gli antichi monaci, per rispondere a tale quesito, proposero un’accurata analisi del processo mentale che si verifica in occasione delle tentazioni interiori, distinguendo 5 fasi:

  1. la suggestione;
  2. il colloquio;
  3. il combattimento;
  4. il consenso;
  5. la passione.

La suggestione viene intesa come la prima fase della comparsa di un’immagine, un’idea, un pensiero ma se a questo non viene posta attenzione, la stessa svanisce nel nulla, ma se l’uomo comincia a riflettere e ragionare su tutto ciò, come è più propenso l’uomo per sua natura, si passa alla fase del colloquio per cadere poi nella terza fase denominata “combattimento”, dove si cercherà di non cadere nella tentazione del pensiero malvagio. Si dovrà giungere al consenso, che passa attraverso un atto di volontà, unito alla passione, conclude la spiegazione, intesa come inclinazione a quel punto al male e volontà di compiere il peccato.

Ma ciò che diventa interessante osservare e sottolineare e che non solo noi terapisti spieghiamo al nostro paziente ossessivo, è che pensare una cosa non equivale a farla e che la battaglia contro i pensieri (strategia fallimentare del “pensare di non pensare”), aumenta solo il disagio e la probabilità di rimanere più intrappolato nel pensiero; anche i monaci su un piano diverso ce lo confermano.

Un bellissimo racconto su Sant’Antonio Abate recita che, portando sul tetto un suo discepolo che si lamentava di avere pensieri cattivi, egli avrebbe ordinato di afferrare il vento con la mano. Poi, dopo un po’, gli avrebbe detto se non puoi afferrare il vento, tantomeno prenderai in mano i pensieri cattivi!

Voleva così dimostrare in queste prime suggestioni non c’è ancora nessuna colpa e che, finché vivremo, non potremo liberarci dalle suggestioni. Esse assomigliano alle mosche che ci molestano tanto più quanto più diventiamo impazienti. (Tomas Spidlik, 2001).

Dipendenza affettiva e pensiero desiderante – Riccione, 2019

Proponiamo al lettore la ricerca presentata all’ultimo Forum di Riccione svoltosi a Maggio 2019 che indaga il pensiero desiderante nella dipendenza affettiva.

 

Qui il link per partecipare alla nostra ricerca, una breve introduzione alla tematica e i principali risultati del nostro studio.

Quando l’amore diventa una dipendenza?

Si parla di dipendenza d’amore (Fisher 2006; Miller, 1987; Schaef, 1987; Sussman & Ames, 2008) quando l’amore impregna la vita quotidiana, porta ad una serie comportamenti non controllati a cui seguono conseguenze negative, fino a divenire un vero e proprio disagio psicologico. La persona amata diviene, in questo caso, oggetto del desiderio e presenza costante e pervasiva dei propri pensieri, al punto che viene considerata come assolutamente necessaria per vivere. In tal caso l’amore viene considerato una dipendenza (Giddens, 1998) poiché ad una prima fase di sensazione di euforia, di ebrezza, di piacere connesso alla droga d’amore che comporta la continua ricerca dell’altro, nonostante possano esserci delle conseguenze negative (fase di costruzione dell’oggetto della dipendenza), segue una successiva necessità di incrementare la quantità di tempo in compagnia della persona amata, come se si dovesse aumentare sempre di più la dose (tolleranza) per raggiungere l’effetto desiderato ed evitare la classica crisi d’astinenza dovuto alla mancanza di una “presenza interiorizzata” del partner.

Di fatto, capita che se l’oggetto d’amore viene percepito come non più disponibile, scattano meccanismi di “disperazione”, caratterizzati, ad esempio, da un oscillamento dell’umore notevole (labilità emotiva) e da un’incapacità a controllare il proprio comportamento.

Si parla, pertanto, di dipendenza affettiva, disturbo caratterizzato dall’instaurazione di un pattern problematico di relazioni affettive che determina un marcato disagio a sua volta associato alla ricerca delle stesse, nonostante vi sia la consapevolezza dei suoi effetti negativi (Reynaud, 2010).

Questo tipo di dipendenza rientra nella categoria delle New Addiction, ed è una dipendenza di tipo comportamentale poiché non ha come oggetto alcuna sostanza. Il suo nucleo centrale infatti risiede nella relazione (psicosociale) con un altro significativo. La persona dipendente seleziona strategie cognitive che favoriscono il processo di ego-depletion (esaurimento dell’Io) tra cui il pensiero desiderante, ovvero una modalità ripetitiva di elaborazione dei propri desideri (Caselli, 2017). È una forma di rimuginio e, come tale, la sua caratteristica fondamentale è la ripetitività e la capacità pervasiva di occupare lo spazio mentale. Questo processo mentale è caratterizzato da una forte attenzione focalizzata (fissazione) su di sé, ed ha una natura di tipo ricorrente e perseverante.

Il pensiero o rimuginio desiderante si esprime attraverso l’elaborazione di informazioni relative a un oggetto o attività piacevoli sia in forma immaginativa (imaginative prefiguration), come ad esempio la costruzione di immagini mentali dell’oggetto desiderato (Kavanagh et al., 2009), sia in forma verbale (verbal perseveration), caratterizzato da un “discorso interno”, di tipo verbale, ripetitivo e con dichiarazioni auto-motivate (Caselli e Spada, 2010).

La funzione principale di tale processo risulta essere quella di motivare all’azione concreta poichè aiuta a mettere in evidenza e a far riaffiorare alla coscienza le conseguenze positive dell’oggetto del piacere, permettendo di assaporarle in anticipo. Il rimuginio desiderante ha un impatto negativo sulla regolazione degli stati emotivi, correla con l’ansia contribuendo al suo mantenimento e aggravamento (Borkovec et al., 1990) e spesso si associa ad un basso livello di consapevolezza metacognitiva. L’uomo possiede una capacità autoriflessiva sul proprio funzionamento cognitivo definita meta-credenza. Il rimuginio desiderante è sostenuto in particolare da metacredenze positive che, in modo disfunzionale ne sostengono l’utilità, mantenendo uno stato di eccitazione (Wells, 2012). Il pensiero desiderante tende ad avere delle similitudini con il craving, con il quale sono in una relazione di mutua influenza (Caselli e Spada, 2011), ma si differenziano poichè quest’ultimo rappresenta un’esperienza motivazionale interna, mentre il pensiero desiderante è uno stile di elaborazione delle informazioni.

Dipendenza affettiva e pensiero desiderante: lo studio

Pappacena, Tedeschi, Mancebo, Cavaiani e Fiore hanno esaminato un campione non clinico di soggetti italiani (n 213) attraverso la somministrazione online di diversi test con l’obiettivo di indagare la relazione tra la dipendenza affettiva e il pensiero desiderante.

Sono state eseguite diverse analisi statistiche sui dati ottenuti.

I dati di correlazione dimostrano la presenza di relazioni positive tra tutte le variabili oggetto di studio. Si è proceduto pertanto alla realizzazione di una regressione, prima lineare e poi gerarchica.

Dall’analisi dei coefficienti di regressione lineare si rileva che le variabili indipendenti che spiegano in maniera significativa la variabilità della dipendenza affettiva sono il pensiero desiderante, la tendenza al craving, la ruminazione e l’autoconsapevolezza cognitiva. In particolare tra queste variabili, quella che ha avuto un maggiore peso è stata il pensiero desiderante (B=0.31).

È stato inoltre eseguito un modello di mediazione con l’ipotesi che l’autoconsapevolezza cognitiva possa essere la variabile di mediazione nel processo che determina l’effetto delle altre variabili indipendenti sulla dipendenza affettiva. Per questo si procede a valutare l’impatto dell’autoconsapevolezza sulla dipendenza affettiva mantenendo le altre variabili nel sistema costanti.

dipendenza affettiva e pensiero desiderante - Imm.1

 

Dipendenza affettiva e pensiero desiderante: cosa ci dicono i dati

Il pensiero desiderante risulta essere il predittore maggiormente significativo della dipendenza affettiva, laddove vi sia una tendenza alla stessa, rispetto ad altri fattori come la ruminazione, la propensione al craving e all’autoconsapevolezza cognitiva, anch’essi presenti.

Una minore consapevolezza del proprio funzionamento cognitivo, ha effetti diretti sulla dipendenza affettiva, pertanto, si associa ad una maggiore disposizione alla dipendenza affettiva e tale effetto risulta moderato dal pensiero desiderante, dalla ruminazione e dalla tendenza al craving.

Al momento non disponiamo di numerosi studi eseguiti in Italia e riteniamo che tale ricerca sia uno spunto per risvegliare l’interesse di chi opera in questo ambito affinché si possa continuare nell’indagine per permettere di creare in futuro protocolli d’intervento utili per i pazienti.

 

Disturbo dello spettro autistico e bullismo tra fratelli: caratteristiche del fenomeno

Bullismo tra fratelli e autismo: in un recente studio, pubblicato sul Journal of Autism and Developmental Disorders, gli autori hanno cercato di indagare se i bambini con autismo abbiano maggiori probabilità di essere vittime oppure di ricoprire il ruolo di bulli con i propri fratelli rispetto ai bambini neurotipici.

 

Il bullismo tra fratelli ha le stesse conseguenze di qualsiasi altra forma di bullismo, il fatto che nasca all’interno del sistema familiare ci spinge però a voler prestare ancora maggiore attenzione all’identificazione e alla gestione di tale fenomeno.

Avere una buona relazione con i propri fratelli è molto importante poiché aiuta i bambini a sviluppare le abilità sociali e ad avere una relazione supportiva; nonostante ciò una relazione fraterna può anche diventare conflittuale e aggressiva.

Nel Regno Unito circa l’85% dei bambini ha almeno un fratello, più del 50% dei bambini è stata vittima di bullismo da parte dei loro fratelli e circa il 40% dei fratelli commetteva atti di bullismo.

Il bullismo tra fratelli è definito come qualsiasi comportamento aggressivo indesiderato da parte di un fratello, ciò comporta uno squilibrio di potere osservato o percepito e si ripete più volte o è altamente probabile che si ripeta; il bullismo può causare danni o angoscia al fratello preso di mira, inclusi danni fisici, psicologici o sociali.

È importante sottolineare che questi comportamenti spesso avvengono sotto l’occhio di uno dei due genitori.

Disturbo dello spettro autistico: fenomeni di bullismo tra fratelli

Il disturbo dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorder-ASD) è un disturbo pervasivo dello sviluppo che colpisce circa l’1% della popolazione del Regno Unito. Questo disturbo è caratterizzato da difficoltà sociali e di comunicazione, da comportamenti ripetitivi e da un’alta sensibilità agli stimoli sensoriali. I bambini con autismo sperimentano difficoltà sociali ed emotive rispetto ai bambini neurotipici, in più molti hanno anche difficoltà nelle interazioni sociali, come ad esempio conversare e deficit nella comunicazione non verbale.

Lo studio, pubblicato sul Journal of Autism and Developmental Disorders, condotto dai ricercatori della Università di York, vuole indagare se i bambini con autismo abbiano maggiori probabilità di essere vittime oppure di ricoprire il ruolo di bulli con i propri fratelli rispetto ai bambini neurotipici.

I dati utilizzati per la ricerca appartengono al Millennium Cohort Study, progetto che ha seguito le vite di circa 19.000 bambini, nati in UK, tra il 2000 e il 2001. Il campione di questo studio è composto da 8.180 partecipanti, di cui 231 autistici (gruppo sperimentale) con un’età compresa tra gli 11 e i 14 anni.

Ai bambini partecipanti viene chiesto con quale frequenza commettono o subiscono atti di bullismo con i loro fratelli e coetanei.

Lo studio evidenzia che, all’età di 11 anni, due terzi dei bambini con autismo riferiscono di essere stati coinvolti in qualche forma di bullismo tra fratelli, rispetto alla metà dei bambini senza autismo. Nonostante si sia registrata una diminuzione di atti di bullismo in entrambi i gruppi (gruppo di controllo e sperimentale) all’età di 14 anni, i bambini con autismo avrebbero comunque una probabilità maggiore sia di essere le vittime sia di commettere atti di bullismo verso i propri fratelli.

Secondo lo studio, i bambini coinvolti in atti di bullismo tra fratelli, indipendentemente dal fatto che siano affetti o meno da autismo, avrebbero maggiori probabilità di incorrere in difficoltà emotive e comportamentali sia nel lungo che nel breve termine.

Quindi..

Dal momento che il bullismo tra fratelli colpisce in modo sproporzionato i bambini con autismo, per il futuro sarebbe utile avere più risorse per aiutare i bambini con autismo e i loro genitori, in particolare nell’identificare e nel gestire i comportamenti di bullismo in casa, soprattutto all’inizio dell’infanzia.

Body shaming e oggettivazione sessuale: descrizione e rapporto tra i due fenomeni

Il body shaming è un fenomeno molto diffuso sul web perché chi lo attua sente di essere protetto da un nome falso o dalle frasi simili proferite da altri, inoltre non sembra soffermarsi sulla numerosità indefinita di soggetti che leggeranno un commento, che potrebbe restare, essere rimosso, o riciclato da altri utenti fino ad aumentare in maniera esponenziale il numero dei visualizzatori.

 

Il body shaming è una denigrazione sull’aspetto estetico che si estende a varie parti del corpo, mentre l’ oggettivazione sessuale è la considerazione degli individui come oggetti tesi al soddisfacimento sessuale, privati delle caratteristiche umane e quindi deumanizzati (Calogero et. al 2012; Rollero & De Piccoli, 2017).

Questi due fenomeni appaiono interrelati e predominanti nelle critiche sull’aspetto estetico che recenti e pregressi avvenimenti hanno esposto al pubblico di internet. In tal senso, alcune modelle e personaggi pubblici, ad esempio, hanno ricevuto commenti sprezzanti sul peso corporeo o per l’assenza del trucco sul viso, come se la bellezza rispondesse a precisi canoni che perfino la moda, per certi versi, cerca di abbattere, valorizzando varie estetiche.

L’oggettivazione sessuale e il body shaming: come interagiscono

Chi esercita un body shaming è solitamente insoddisfatto del proprio aspetto fisico, può maturare l’idea che le donne siano sessualmente desiderabili solo se soddisfano standard elevati e irraggiungibili, consistenti in diete rigide, un esercizio fisico esasperante, un parossistico e interminabile controllo sui cambiamenti corporei. Chi lo riceve, per di più, è predisposto ad interiorizzare l’occhio critico con cui il pubblico diffamante le osserva, sviluppando disturbi alimentari, stati depressivi, l’ansia di apparire sempre al meglio con notevoli conseguenze sull’identità e sul benessere psicofisico (Rollero & De Piccoli, 2017).

A questo si aggiunge anche una cultura sessista, il perfezionismo estetico e le denigrazioni subite nella storia di sviluppo, nonché una struttura di personalità improntata sulla sensibilità al giudizio esterno il cui nucleo del sé è oscillante e ostacola la doverosa distanza dai pensieri altrui (Guidano & Liotti, 2018; Guidano, 2013).

Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, esistono anche altri body shaming dove l’eccessiva magrezza o il trucco elaborato sono oggetto di pesanti critiche, che sottintendono comunque il desiderio di umiliare il bersaglio.

In sostanza le donne che rivolgono critiche sulle altre reagirebbero alla loro insoddisfazione corporea, puntellando chi mostra, in quel momento, caratteristiche fisiche che giudicano incompatibili con quegli standard di bellezza a cui aspirano, specialmente se appartengono a personaggi desiderabili da un pubblico maschile. Show girls, modelle, influencers impiegano molto tempo a curare il proprio aspetto, propendendo sovente verso canoni irrealistici, pertanto sono i bersagli perfetti perché il confronto percepito è assolutamente impari. Gli haters, pertanto, selezionano la più piccola imperfezione per sminuirle e rassicurarsi che la loro bellezza vale meno di quello che la maggior parte pensa.

Non molto tempo addietro, compariva sui social un video dove la giovane e fresca supermodella namibiana Behati Prinsloo, moglie di Adam Levine, l’ambitissimo leader dei Maroon 5, si mostrava al naturale per la sua beauty routine: pullulavano commenti sulla bellezza, ma anche pesanti critiche per le piccole imperfezioni che compaiono in ogni donna e dovrebbero essere considerate assolutamente normali. Lo stesso accade per i rumors attuali su Lady Gaga e Bradley Cooper, in ragione dei quali certe donne non hanno perso occasione per paragonare Miss Germanotta alla storica modella di Intimissimi Irina Shayk, proclamando l’ennesimo divario estetico.

Un punto importante, spesso trascurato, è che esiste una vastità di argomenti da intavolare: ad esempio, alla notizia della presunta relazione tra la cantante e l’attore, alcuni reagiscono con indignazione per una storia terminata dopo poco tempo, solidarietà verso una bambina che vedrà i genitori separarsi in tenera età, ironia sulla veridicità del contenuto e così via. Alla luce di quanto esposto, si ipotizza che la prevalenza di schemi di giudizio su di sé e sull’altro, localizzati sulla fisicità, porti l’hater a focalizzare l’attenzione sull’aspetto esteriore, minimizzando o accantonando le altre componenti, come in questo caso l’ipotesi di una relazione che termina e di un’altra che incomincia (Bara, 2005).

Body shaming: meccanismi psicologici dell’hater e conseguenze per le vittime

Come anticipato sopra, chi esordisce con commenti denigratori ha la precisa intenzione di minare l’autostima della ragazza in questione, rivelando però l’invidia nei suoi confronti. Nella maggioranza dei casi sono cresciute con l’idea che la bellezza sia la chiave principale per il successo e l’autostima, pertanto sono inclini ad osservare se stesse e gli altri come pensano che un uomo possa guardarle. Non maturano, pertanto, una complessità di rappresentazioni interne relativamente al concetto di femminilità e seduzione e alle caratteristiche dell’essere umano, mostrano una mancanza di empatia e spesso un’incapacità di assumersi le responsabilità di ciò che hanno scritto, minimizzando le critiche e mostrando di non conoscere alcuna differenza tra un parere costruttivo e distruttivo.

Il body shaming, infatti, accade frequentemente nel web perché, chi lo attua, sente di essere protetto da un nome falso, dalle frasi simili proferite da altri o dalla distanza interposta dal dispositivo. In più, non sembra soffermarsi sulla numerosità indefinita di soggetti che leggeranno un commento, che potrebbe restare, essere rimosso, o riciclato da altri utenti fino ad aumentare in maniera esponenziale il numero dei visualizzatori. In altre parole tali soggetti non riflettono né sull’effetto delle loro azioni, né sull’impatto emotivo sulla vittima, con le conseguenze potenzialmente devastanti l’autostima.

Se le critiche influenzano la giornata, il lavoro o lo studio, nonché i rapporti con gli altri, si è già in presenza di un campanello d’allarme che dovrebbe destare l’attenzione. Chi è oggetto del body shaming non può fare altro che lavorare su se stessa, alimentando una doverosa distanza dai pensieri degli altri, positivi o negativi che siano, ricercando una sicurezza interna da nutrire e curare continuamente attraverso un percorso psicoterapico. In tal senso, allenandosi a pensare autonomamente sarà meno vulnerabile agli attacchi esterni, nonché attribuirà meno importanza alla villania dei commenti, sperimentando maggior serenità e prevenendo gli effetti devastanti dei potenziali scompensi psicopatologici, come i disturbi alimentari, la fobia sociale e i disturbi depressivi.

Il marketing e la comunicazione – Introduzione alla Psicologia

La comunicazione nel marketing svolge diverse funzioni: innanzitutto deve informare circa il prodotto da pubblicizzare, poi deve convincere e persuadere l’acquirente all’acquisto e lasciare una traccia in memoria che consente di selezionare il prodotto tra i tanti in commercio.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il marketing è un processo che si sviluppa in ambito economico e consente a un’azienda di diventare nota, diffondendo il proprio brand rendendolo riconoscibile rispetto ai diversi competitors. Tale processo consiste nell’individuare una strategia molto precisa di mercato avente lo scopo di far conoscere un prodotto alle masse e, a livello identitario, consente a un determinato prodotto di essere riconosciuto sul territorio grazie all’utilizzo di segnali specifici. Fare marketing significa sostanzialmente concedersi una specifica identità, diversa da quelle dei competitors presenti sul mercato.

Il marketing utilizza un canale per trasmettere i messaggi che è costituito dalla comunicazione. Quest’ultima è fondamentale poiché consente di trasmettere a un pubblico specifico un messaggio specifico.

Quindi per intraprendere una giusta strategia di marketing è necessario utilizzare una adeguata comunicazione focalizzata allo scopo che si intende perseguire

In primis, si devono effettuare delle scelte strategiche di mercato per poi giungere alla parte operativa che è prettamente centrata sulla comunicazione. È necessario, dunque, avere una propria identità che consente di individuare una giusta strategia pubblicitaria da cui deriva la scelta di una adeguata comunicazione. Lo scopo finale è sempre farsi notare e lasciare un messaggio che rimane impresso nella mente delle persone, ovvero potenziali acquirenti.

Il marketing e la comunicazione si sostengono reciprocamente. Infatti, senza la comunicazione, il marketing non avrebbe la forza di trasmettere al mercato i propri messaggi e senza il marketing, la comunicazione trasmetterebbe al mercato dei messaggi che non hanno una propria strategia.

La comunicazione nel marketing

La comunicazione nel marketing svolge diverse funzioni. Innanzitutto deve informare circa il prodotto da pubblicizzare, poi deve convincere e persuadere l’acquirente all’acquisto e lasciare una traccia in memoria che consente di selezionare il prodotto tra i tanti in commercio.

La comunicazione, in ogni caso, si avvale di diverse forme che devono essere accuratamente scelte in base al target di riferimento, ovvero i destinatari del messaggio e gli obiettivi che si intendono perseguire. La comunicazione deve essere accompagnata da un apposito messaggio che avrà lo scopo di persuadere l’acquirente. Il messaggio da diffondere è fondamentale non solo in termini pubblicitari ma anche rispetto ai benefici attesi dal consumatore.

Gli obiettivi della comunicazione nel marketing possono essere divisi in base alle diverse fasi del processo di acquisto di un prodotto. In primo luogo deve essere enfatizzato il valore del prodotto sponsorizzato. Quindi, la comunicazione di marketing ha lo scopo di influenzare la motivazione dell’individuo, agendo in particolare sugli aspetti percettivi, aumentando l’interesse verso il prodotto e di conseguenza la probabilità di suscitare preferenza nella fase valutativa. La comunicazione è volta, dunque, alla creazione di un’immagine positiva del prodotto, in modo che i possibili acquirenti associno mentalmente all’immagine un aspetto valoriale e personale.

È importate, inoltre, comunicare immediatamente tutte le caratteristiche del prodotto, unitamente ai limiti. Soprattutto si tende a enfatizzare principalmente i possibili vantaggi che si potrebbero ottenere nell’utilizzo di quel prodotto, piuttosto che altri. Alla base è necessario avere una comunicazione efficace e focalizzata al raggiungimento dell’obiettivo. Per ottenere dei risultati, dunque, è indispensabile l’identificazione di un pubblico, target, a cui rivolgersi, prefiggendosi degli obiettivi di comunicazione e identificando uno slogan legato al prodotto che possa avere successo nell’attirare l’attenzione, da cui scaturirebbe il desiderio di acquisto che spingerebbe il consumatore a comprare il prodotto.

Ovviamente, saranno fondamentali i mezzi scelti per raggiungere lo scopo e la selezione delle diverse fonti comunicative.
Recentemente, tutto si è spostato sui social media che rendono più facile la gestione e la creazione di nuovi contatti e la sponsorizzazione del prodotto. Lo scopo è commercializzare un prodotto usando tutti gli strumenti disponibili nei diversi social network: storie, video, messaggi, etc.

Il network marketing e la comunicazione

Il Network marketing è un business che coinvolge principalmente le persone e per avere successo in questo ambito è necessario essere capaci di comunicare in maniera efficacie. Nel network marketing è fondamentale diventare un buon comunicatore e soprattutto mettersi in gioco in prima persona per riuscire a sponsorizzare il prodotto. L’aspetto comunicativo vincente è mostrarsi in prima persona come un reale utilizzatore del prodotto, di come la vita sia cambiata dall’arrivo dello stesso e degli infiniti benefici derivanti dal suo utilizzo.

Lo scopo è farsi vedere nella propria quotidianità come reale utilizzatore, cercando di coinvolgere l’altro, attraverso video, foto o dirette effettuate sui diversi social media, a identificarsi con quanto si sta facendo e invogliarlo all’acquisto del prodotto. Inoltre è importante dimostrare come col prodotto possa cambiare la vita, utilizzando tecniche persuasive volte ad accrescere nell’altro curiosità e interesse per il prodotto, fino ad arrivare a comprarlo.

In questo caso tutta la comunicazione è centrata sull’immagine del prodotto consigliato e sul tono della voce, che deve essere sicuro, sincero e accattivante. In ogni caso la mossa vincente è comunicare all’altro di se stessi, del proprio quotidiano, per riuscire a colpire tutti coloro che possono avere uno stile di vita simile e che con il prodotto sponsorizzato potrebbero diventare delle persone migliori, più allegre e spensierate.

La comunicazione in generale coinvolge tre aree:

  1. Lavorare con il prodotto e valorizzare la facilità con cui si può guadagnare attraverso il network marketing
  2. I momenti di formazione aziendale, come i bootcamp, i meeting e le trasferte
  3. La realizzazione dei propri sogni grazie ai tanti guadagni effettuati attraverso il network marketing

In ogni caso, la comunicazione è una capacità essenziale in qualsiasi business e per questo è necessario imparare a diventare un comunicatore efficacie per raggiungere buoni obiettivi.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Perché procrastini? (…non ha nulla a che fare con l’autodisciplina o con la pigrizia!)

La procrastinazione è un processo “esistenziale” più profondo e complesso di quanto appare, che solleva riflessioni sulla nostra capacità di padroneggiare le azioni, di determinare come investiamo il nostro tempo e come disegniamo il nostro futuro.

 

Qualche mese fa è uscito sulla versione digitale del New York Times, un interessante articolo a firma di Charlotte Lieberman, che inquadra in maniera interessante la “procrastinazione”, un comportamento sicuramente più difficile da pronunciare, che da mettere in atto!

L’articolo ha il merito di non limitarsi a fornire soluzioni pratiche (per altro utili, come problem solving, time management ecc) ma fare luce sul nucleo problematico che dà origine all’attitudine seriale a rimandare, ovvero la “relazione complicata” tra noi e le nostre emozioni.

A chi non è mai capitato…? Trovarci di fronte a un impegno, riprometterci di portarlo diligentemente a termine… e dirottare inesorabilmente la nostra attenzione verso altre attività, magari utili e lodevoli, ma decisamente meno prioritarie. Ed ecco che la raccolta dei documenti per la dichiarazione dei redditi viene rimandata in favore di una bella spolverata alla collezione di vinili. La prenotazione della visita medica è sostituita dal lavaggio dell’automobile (che non puliamo da 6 mesi…), la stesura dell’ultimo capitolo della tesi viene posticipata al termine dell’episodio della serie TV consigliata dal collega… e così via.

Quali sono i motivi che ci spingono a procrastinare?

I tentativi di spiegazione di tale fenomeno comunemente presi in esame, spesso includono pigrizia, negligenza, scarso senso del dovere (“Ce la potrebbe fare… ma non si applica!”). Ma anche cattiva gestione del tempo, scarsa pianificazione delle attività, insufficiente efficacia nella risoluzione dei problemi (“Ce la potrebbe fare… prova ad applicarsi… ma lo fa male!”).

 Ciò che caratterizza la procrastinazione, tuttavia, non è solo l’atto di sospendere e rimandare un’attività… ma anche la disturbante percezione emotiva che ne consegue. La sensazione che stiamo andando contro ciò che ci suggerisce il buon senso. Di fatto è un “auto-sabotaggio” bello e buono. Inizialmente ci solleva dall’ansia, ma poi non ci fa sentire a posto con noi stessi.

Essere dei procrastinatori, insomma, è una cosa fortemente irrazionale. Allora perché lo facciamo?

 Secondo Tim Pychyl, professore di psicologia e membro del Gruppo di Ricerca sulla Procrastinazione dell’Università di Carleton di Ottawa, la procrastinazione non è una condotta causata da pigrizia o scarsa vocazione alla gestione degli impegni, ma una reazione di fronte a stati emotivi dolenti che si faticano a gestire: ansia, timore di solitudine o di critica, inadeguatezza, senso di colpa ecc.

In uno studio del 2013 Pychyl e Sirois hanno descritto la procrastinazione come il prevalere dell’urgenza di gestire immediatamente un’emozione dolorosa, rispetto al vantaggio a lungo termine di portare avanti un’attività. Insomma, meglio occuparsi della gallina oggi, che pensare all’uovo di domani.

L’avversione verso un’attività è certamente legata alla natura dell’attività stessa. Pulire un bagno sporco o produrre una noiosa e articolata relazione lavorativa possono essere attività non propriamente esaltanti. Tuttavia, siamo influenzati anche da pensieri ed emozioni più articolati, che vanno al di là dell’incombenza, ma sono legati alla nostra persona: “Sarò in grado di portarla a termine?” “Cosa penseranno gli altri di me?” “Se dovessi fallire cosa succederà?”.

 Davanti a questi pensieri possiamo allarmarci e cercare una via di fuga.

Ciò non elimina per sempre gli stati dolorosi associati all’impegno rimandato. Questi torneranno non appena i nostri pensieri vi faranno ritorno. Spesso in maniera non indulgente, ma sotto forma di dialogo interiore autocritico, severissimo e inflessibile (“Buono a nulla! Incapace! Scansafatiche! Non sei in grado!”) che aumenta la sofferenza e che paradossalmente proviamo a gestire… procrastinando ancora!

Allora cosa ci spinge a rimandare, pur consapevoli delle conseguenze? Presto detto: quel momento di liberatorio sollievo dall’emozione dolente. È quella sensazione lo zuccherino… il “premio”. Il comportamentismo ci ricorda che quando, a seguito di un’azione, riceviamo un rinforzo immediato… questo incrementerà la nostra tendenza a ripeterla. Per questo la procrastinazione è un comportamento a forte “rischio” di cronicizzazione.

Quali sono i costi della procrastinazione? Più pesanti rispetto ai guadagni: stress cronico, un basso livello di soddisfazione rispetto alla propria vita, sintomi depressivi, ansia, cattivi stili di vita che può includere una scarsa capacità di prendersi cura della propria salute, con pesanti ricadute dal punto di vista psicofisico.

Procrastinazione: un tentativo di regolare le emozioni

Considerare la procrastinazione come un tentativo fallace di regolare l’emotività ha dato spunto a interessanti ricerche e considerazioni.
 Ad esempio, uno studio condotto da Eckert e colleghi (Eckert et al, 2016) su un campione di studenti universitari, mostra come acquisire e mettere in pratica strategie focalizzate sull’emozione, che migliorano le capacità di tollerare o modificare gli stati emotivi dolorosi, possa aiutare a ridurre significativamente la tentazione di utilizzare la procrastinazione per regolare lo stato emotivo.

La procrastinazione diventa la strategia di scelta nel momento in cui crediamo di poter raggiungere uno stato emotivo desiderato attraverso l’evitamento, anziché attraverso un’azione finalizzata. 
Ciò avviene spesso anche perché non sempre abbiamo una piena consapevolezza dei desideri che ci guidano e delle aspettative personali e interpersonali, positive o negative, che ci prefiguriamo.

A supporto di questa visione Pychyl e Sirois (2016) affermano che la procrastinazione è un tentativo di regolare l’emotività derivante dalla mancata capacità di vedere continuità tra il sé presente e il sé futuro. Una sorta di prospettiva miope in cui facciamo fatica a mettere a fuoco in maniera benevola un’immagine, una rappresentazione positiva di noi stessi nel futuro.

 In questa prospettiva il lavoro metacognitivo risulta di fondamentale importanza. 
Serve ad aiutare la persona a sbrogliare la matassa e a visualizzare nitidamente quali sono le connessioni, i fili che corrono tra la situazione vissuta, i propri desideri, le aspettative personali e relazionali, le proprie emozioni e i propri comportamenti.

Possiamo offrire al nostro cervello una proposta più allettante rispetto al sollievo dell’evitamento, ovvero una vita in cui possiamo esercitare l’intento di incidere attivamente sulla nostra quotidianità. 
Oltre a comprendere le cause emotive della procrastinazione e provare ad adottare strategie differenti per superare il “blocco”, un altro passo importante è accedere a un sistema di motivazione benevolente nei confronti di noi stessi, in modo da perseguire i desideri con impegno, curiosità, accettazione dei limiti ed entusiasmo, anziché ruminazione e rimorso.

In conclusione

La procrastinazione è un processo “esistenziale” più profondo e complesso di quanto appare, che solleva riflessioni sulla nostra capacità di padroneggiare le azioni, di determinare come investiamo il nostro tempo e come disegniamo il nostro futuro.

Procrastinare ci mette a confronto con la nostra comune condizione di esseri umani, vulnerabili agli stati mentali dolorosi e desiderosi di sentirci felici, a posto con noi stessi e con gli altri, nelle scelte e nelle azioni che compiamo.

Il cambio di assetto mentale sta nell’andare oltre i fantasmi di fallimento e catastrofe che creano sofferenza e che ci spingono alla procrastinazione, verso una prospettiva in cui diamo forma alla nostra giornata, all’esperienza soggettiva, intorno a stati piacevoli in cui ci sentiamo attivi, coinvolti, capaci nello sperimentare azioni coerenti con i nostri desideri e le nostre inclinazioni (Dimaggio et al. 2019).

Assaporare il senso di efficacia, anche nel superare gli ostacoli e abbandonare la paura. Sentirci finalmente liberi di telefonare e prendere quell’appuntamento, inviare l’e-mail che da mesi conserviamo nelle bozze, iniziare il corso che ci incuriosisce da tempo, inserire la nuova strofa nella nostra canzone, mettere il punto finale al nostro nuovo articolo.

Anoressia nervosa: disturbo metabolico oltre che psicologico

I risultati del recente studio di Watson e colleghi, di cui parlerà il seguente articolo, hanno susicitato un notevole impatto mediatico. Qualche giorno fa la redazione di State of Mind ha pubblicato un altro articolo sull’argomento, in cui l’autore, il Dott. Riccardo Dalle Grave, uno dei maggiori esperti in Italia di Disturbi Alimentari, riporta un’interessante riflessione sui risultati dello studio. 

 

Una nuova definizione e riconcettualizzazione dell’ anoressia nervosa come disturbo ibrido psicologico-metabolico arriva dalla ricerca genetica, attraverso uno studio condotto su larga scala su una popolazione clinica proveniente da tutto il mondo, che ha visto il contributo di più di 100 istituzioni dal Karolinska Institutet svedese fino al Berghofer Queensland Institute for Medical Research australiano, passando anche per alcuni nostri centri clinici italiani di eccellenza.

 

Fino a questo momento la ricerca nell’ambito dell’ anoressia nervosa si è prevalentemente concentrata sui suoi meccanismi e aspetti psicopatologici, in particolare quelli che sembrano condurre gli individui che ne soffrono a smettere di alimentarsi e ad andare alla ricerca del peso “ideale” e della magrezza “perfetta”.

Tuttavia vi sono numerose evidenze tra cui quelle messe in luce da Watson e Bulik (2013) che sottolineano come il concentrarsi prevalentemente sugli aspetti psicologici legati a questo disturbo dell’alimentazione non sia sufficiente alla sua risoluzione; infatti, nonostante i numerosi interventi psicologici e terapeutici, le terapie farmacologiche e alimentari, questi pazienti continuano a presentare nel corso della loro vita sintomi residuali che possono ricondurre gli individui a restringere nuovamente l’alimentazione e l’introito calorico e a ricadere nel circolo vizioso della malattia fino alla pericolosa perdita di peso corporeo.

A parere di Cyntia Bulik, supervisore dello studio insieme a Gerome Breen, l’errore più grave fatto fin qui nella ricerca in questo ambito risiederebbe proprio nell’aver considerato l’ anoressia nervosa meramente un disturbo psicologico senza porre sufficiente attenzione ai suoi aspetti e alle sue variabili genetiche e alle sue sfaccettature mediche-metaboliche per il suo esordio e mantenimento.

Lo studio

Combinando i dati provenienti da quasi 17 mila casi clinici di tutto il mondo, provenienti dall’Anorexia Nervosa Genetics Initiative (ANGI) e dall’Eating Disorders Working Group of the Psychiatric Genomics Consortium (PGC-ED) – per i quali si rimanda ai link sottostanti in bibliografia per ulteriori approfondimenti – confrontati con circa 55 mila controlli, lo studio genetico sopramenzionato, recentemente pubblicato su Nature Genetics, ha indagato le anormalità metaboliche presenti nell’ anoressia nervosa mostrando come queste potrebbero determinare e favorire il mantenimento del disturbo anziché essere solo un effetto conseguente all’inedia autoindotta (Watson, Yilmaz, Bulik et al., 2019).

Tramite analisi genetiche multiple molto raffinate e complesse, la ricerca ha evidenziato un’associazione significativa tra l’ anoressia nervosa e otto loci in specifici geni che a loro volta codificano per la produzione di differenti proteine, rafforzando e completando l’ipotesi, già presente nel precedente studio di Yilmaz e colleghi (2017), della presenza di una caratterizzazione metabolica nell’ anoressia nervosa.

In particolare tale caratterizzazione metabolica è stata rilevata da una robusta sovrapposizione tra i geni apparsi specifici per l’ereditabilità dell’ anoressia nervosa (Hardaway et al., 2015) e alcuni tratti genetici di tipo metabolico legati all’insulinoresistenza, alla glicemia e ai trigliceridi, e di tipo antropometrico che regolano la percentuale di massa grassa nel corpo e la circonferenza addominale, indipendentemente dagli effetti delle variazioni che si riscontravano nel BMI del gruppo clinico; ciò a dimostrazione del fatto che un basso BMI, cioè un indice di massa corporea al di sotto dei range di normalità, da sempre considerato una conseguenza della dispercezione corporea e del desiderio di magrezza caratterizzanti l’ anoressia, possa essere anche il frutto di una disregolazione metabolica a monte.

Secondo gli autori, in questo ultimo dato risiederebbe la ragione per cui in alcuni individui non si verificherebbe un ripristino normale e un mantenimento a lungo termine del peso corporeo nonostante l’interruzione della restrizione alimentare e il ritorno ad un giusto apporto calorico secondo struttura corporea, genere ed età (Watson, Yilmaz, Bulik et al., 2019).

In aggiunta, le analisi genetiche hanno evidenziato anche una forte sovrapposizione tra i geni dell’ anoressia nervosa e quelli associati ad altri disturbi psichiatrici come il disturbo ossessivo-compulsivo, spesso osservato in comorbilità con quello dell’alimentazione, la schizofrenia e il disturbo depressivo maggiore, oltre che un’influenza di queste basi genetiche nell’attività fisica.

Questo spiegherebbe l’iperattività motoria spesso manifestata dagli individui con anoressia nervosa per evitare l’aumento di peso.

In conclusione

Date le forti associazioni tra le sue basi genetiche e alcuni tratti metabolici e antropometrici, i risultati, ottenuti da un campione clinico così ampio e dettagliato, incoraggiano a considerare l’ anoressia nervosa un disturbo ibrido sia di natura metabolica che psicologica, in particolar modo quando ci si ritrova ad avere a che fare con i suoi fattori di rischio e di mantenimento e successivamente quando ci si trova a trattarla clinicamente (Watson, Yilmaz, Bulik et al., 2019).

Le alterazioni metaboliche che si ravvedono in questa tipologia di pazienti infatti non sarebbero soltanto frutto del sottopeso e di un basso indice di massa corporea; pertanto da questo momento in poi esse andranno esaminate e valutate come fattori concorrenti all’esordio e al perpetuarsi nel tempo di questo disturbo multifattoriale.

Nella borsa del dottorando: quali implicazioni psicologiche per chi sceglie la carriera accademica?

I PhD (philosophiæ doctor) students, o dottorandi, sono giovani ricercatori che investono tre o quattro anni nell’approfondimento di specifici temi. Sono persone che, terminato il percorso universitario, trasformano la loro “sete di conoscenza” in un’occupazione.

 

I PhD (philosophiæ doctor) students, o dottorandi, sono giovani ricercatori che investono tre o quattro anni nell’approfondimento di specifici temi in ambito scientifico. Si tratta di laureati con background formativo di diversa natura, dagli ingegneri, ai medici fino a discipline più umanistiche come le scienze sociali, la filosofia e la letteratura. Sono, comunque, persone che, terminato il percorso universitario, trasformano la loro “sete di conoscenza” in un’occupazione.

La scelta del dottorato e le implicazioni psicologiche

Quali sono, quindi, le implicazioni psicologiche di questo percorso di carriera? Questo panorama, ha suscitato l’interesse di sociologi, psicologi ed economisti, i quali, partendo dalle statistiche, hanno iniziato a studiare i dottorandi, con delle “ricerche nelle ricerche”. In particolare, una ricerca belga del 2017, pubblicata su Research Policy, ha studiato la relazione tra carriera accademica e salute mentale dei dottorandi (Levecquea et al., 2017). Nello specifico, sono stati coinvolti 3600 dottorandi belgi di tutte le discipline ed è emerso che, indipendentemente dalla formazione, un terzo del campione presentava un elevato rischio di sviluppare, soprattutto, depressione.

Nello specifico, nella ricerca è stato somministrato il General Health Questionnaire-GHQ, strumento impiegato comunemente per rivelare possibili problemi psicologici. Dai risultati è emerso che più del 50% del campione presentava almeno due sintomi, il 40% ne dichiarava tre e circa il 30% segnalava quattro sintomi.

I sintomi rintracciati e che costituiscono la “depressione da dottorato” sono:

  1. il sentirsi costantemente sotto pressione,
  2. l’infelicità,
  3. problemi del sonno legati a preoccupazioni di diversa natura,
  4. il sentirsi incapaci di superare le difficoltà e di godersi le attività quotidiane.

Nonostante ciò, non ci sono altri studi a conferma di questo dato, in quanto la maggior parte dei risultati mostra una correlazione con stress e stati di ansia, indentificati principalmente come preoccupazione per il futuro, a causa della mancanza di prospettive. In particolar modo, i risultati dello studio sul rapporto tra dottorato e salute mentale non possono essere generalizzabili, in quanto il campione di partecipanti coinvolto era belga.

Un dato rilevante è che si registra, anche, l’assenza, nelle università stesse, di figure professionali che si occupino di sostenere le Risorse Umane nell’impiego futuro o, semplicemente, di accogliere difficoltà e bisogni individuali e collettivi. Alcune strategie, già presenti all’interno dei Social Network, utili a sdrammatizzare le pratiche di significato comuni legate al dottorato, sono le pagine umoristiche internazionali, nelle quali ogni dottorando si riconosce. Queste pagine, come molte comunità virtuali, hanno quasi una funzione di “mutuo-aiuto”, in quanto, grazie alla condivisione, è possibile sentirsi meno soli.

I vestiti nuovi di Narciso

Il feticcio è qualcosa di tanto attuale quanto lo era nel passato o lo è ancora tra africani e guineani primitivi. Interroghiamo di continuo i nostri nuovi oracoli hi tech e a loro chiediamo di rispecchiarci e di dirci chi siamo e quanto valiamo, senza accorgerci però del rischio che questi feticci e oracoli ci superino e sfuggano al nostro controllo.

 

Popoli lontani non in contatto tra loro e allo stesso stato di sviluppo socio-culturale, tendono ad avere stesse credenze e stessi culti. Esistono oggetti e soggetti ai quali attribuiamo qualità fantastiche, che divengono quasi oggetto di adorazione e culto e s’impongono alla mente come idee ossessive. Oggetti inanimati come i talismani e gli amuleti erano usati per allontanare le paure e le angosce e spedirle altrove, ma anche per simbolizzare e rappresentare eventi della natura che non trovano una spiegazione razionale.

L’uomo tenta, attraverso l’uso di idoli e amuleti, di cambiare una realtà spiacevole sostituendola con un oggetto che ha lo scopo di soddisfare desideri e bisogni. Il feticcio è definito dal valore che gli è conferito da chi lo usa, e per questo spesso arriva ad alienare il soggetto e a possederlo.

Costruiamo oggi come allora i nostri feticci e oracoli che diventano vivi e autonomi, che ci superano e sfuggono al nostro controllo. Interroghiamo di continuo i nostri nuovi oracoli hi tech, come facevano africani e guineani primitivi, a loro chiediamo di rispecchiarci e di dirci chi siamo e quanto valiamo.

Gli oggetti diventano soggetti con un valore proprio e violano il confine fra se stessi e l’oggetto, il piano reale e quello fantastico si mescolano e insieme rimandano a qualcosa che non può essere mai posseduto, un desiderio in divenire che non sarà mai soddisfatto.

Talismani, oracoli e amuleti: quale valore hanno nella società moderna?

Il feticcio ci appare come gratificante, come una soluzione, diviene oggetto di un’illusione di felicità. Sotto il potere del feticcio iniziamo a trattare le illusioni come realtà e ad organizzare la nostra vita in base ad esse.

Meglio non illudersi troppo di essere completamente padroni delle proprie costruzioni mentali. Il feticcio sembra imbrogliare, manipolare, turbare e superare il soggetto che crede di usarlo, inizia a caratterizzare le relazioni e a definirle, diviene uno specchio che restituisce all’uomo un’immagine della sua identità, legata a ciò che possiede.

L’uomo economico alla distanza è battuto dal feticcio-merce, lo domina e lo sottomette al suo stesso progetto di produzione ottimizzata. Gli altri al pari degli oggetti divengono dei tramiti per arrivare in fondo al proprio progetto, per soddisfare i propri desideri, ma mai completamente.

Anche le relazioni diventano merci da consumare, l’uomo economico regola il contatto e la vicinanza con i suoi simili in base al suo desiderio, gli altri non devono essere troppo vicini altrimenti potrebbero servirsi dell’intimità acquisita per dominare, né troppo lontani da non poter essere controllati.

In questo stato sospeso l’uomo economico è costretto al consumo per avere un minimo di sollievo dalla sua infelicità di fondo, allora si cambia di abito e cerca un nuovo qualcuno che gli tenga lo specchio.

La solitudine, fonte di benessere ma di altrettanta patologia

Alcuni studi suggeriscono che la solitudine è un vissuto essenziale nel determinare l’attivazione dell’individuo e la ricerca della socialità. L’assenza reiterata di stimolazione alla socialità, un rischio più che mai concreto nella società attuale, potrebbe condurre a comportamenti ansiosi e depressivi.

 

Seneca ci tramanda “La solitudine è per lo spirito ciò che il cibo è per il corpo”, il nostro più recente Schopenhauer scrive “Ciò che rende socievoli gli uomini è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, se stessi”. Sin da quando ne abbiamo traccia scritta, le riflessioni dei grandi pensatori si sono soffermate sulla condizione della solitudine / compagnia che segue l’umana condizione da sempre.

Ci sono diversi modi di vivere la solitudine, ne diventa criterio determinante il contesto, l’esperienza soggettiva, può quindi avere connotazioni positive, costruttive o al contrario connotare uno stato negativo, di disperazione. La solitudine evoca aspetti contraddittori: il restare piacevolmente con se stessi, rifugiandosi nel proprio intimo o altresì vivere l’abbandono altrui e quindi la condizione di isolamento/esclusione sociale.

A prescindere da queste connotazioni opposte, positivo vs. negativo, è uno stato fisico, interiore quanto inevitabilmente perturbante. Tale condizione è stata scarsamente studiata dalle ricerche specifiche ma aleggia negli scritti più importanti dell’ultimo secolo, da Freud a Fromm-Reichmann, Tillich, Rank, et Alii. Si tratta, perciò, di una forzatura se lo connotassimo come fenomeno tipico delle nuove generazioni, o frutto di una globalizzazione tecnologica, oppure un fenomeno del nuovo millennio sopraggiunto con l’avvento delle nuove tecnologie.

Etimologicamente il termine solitudine riporta al termine “separare”, composta da “se”: divisione e “parare”: parto. Perciò il termine ci riporta alla separazione del neonato dalla madre, con la conseguente perdita dello stato simbiotico di due essere viventi in un solo corpo, uno nutre il copro dell’altro e questo lo spirito del primo. Il termine stesso ricorda all’individuo la perdita subita per poter sopravvivere, per entrare nell’esistenza, la condizione necessaria è la perdita del duo e l’acquisizione della condizione di solitudine.

Alcune ricerche sociologiche italiane, tra cui quella citata dal Corriere della sera (2008) o dall’ Avvenire (2018), riportano i dati allarmanti in cui 3 milioni di persone dichiarano di non avere una rete amicale o di sostegno. Se si osservano i censimenti degli ultimi 40 anni italiani, il numero di persone sole è cresciuto esponenzialmente, per l’invecchiamento della popolazione, il minor numero di figli nati, legami sentimentali liquidi come li chiamerebbe Bauman.

La solitudine dei nostri tempi nei giovani

La solitudine oltre che un vissuto intrinseco all’esistenza umana, oggi diviene sempre di più una condizione sociale. Cosa è accaduto quindi alla nostra società? Abbiamo assistito ad un processo di indipendenza individuale sempre più imponente con l’avvento della globalizzazione, l’indipendenza fonte di solitudine e la globalizzazione che ci connette ad una sempre più ampia fetta di umanità: due fenomeni in netto contrasto. Allo stesso tempo la quotidianità ci spinge a ottimizzare i tempi ad essere sempre più autonomi, indipendenti, quindi è necessario mantenere questo status, giostrando le nostre vite tra i diversi impegni, diversivi e ruoli. Le relazioni, le associazioni diventano di breve durata, superficiali, per entrare in una relazione profonda e duratura ci vuole tempo ed energia, e questo non è possibile: bisogna ottimizzare il tempo e le energie per stare al passo. La solitudine invade anche gli “insospettabili”, coloro i quali hanno tante relazioni, sono presenti in diversi gruppi social e hanno milioni di Followers.

Si tende ad affidare i propri pensieri, le proprie parole e i propri rapporti umani a strumenti capaci di raggiungere un pubblico sempre più ampio: telefonini, pc, tablet. La comunicazione perde di contatto fisico, divenendo una finta comunicazione che favorisce l’isolamento in quanto aiuta a perdere la capacità di sostenere un reale rapporto con l’altro da sé.

Il periodo della vita maggiormente a rischio in questo panorama in costante mutamento e quindi per nulla solido è l’età adolescenziale, momento dell’esistenza di passaggio, in cui si passa da una condizione di infantile illusione alla realtà responsabilizzante dell’adulto, per fare questo passaggio sono necessari elementi di stabilità e solidità che portino alla formazione di una personalità adulta e matura. Cosa che diviene sempre più complessa in un contesto socio-economico e affettivo in continuo mutamento, le famiglie perdono il ruolo di guida, in quanto rese fragili dai mutamenti sociali, dalle separazioni, dalle assenze, dai divorzi, dalle carenze nella comunicazione e nel dialogo.

In questo panorama che colpisce giovani e meno giovani, l’oggetto diviene il surrogato privilegiato di un appagamento illusorio della propria solidità, infatti va a sostituire l’affettività, l’autostima, la realizzazione: io sono ciò che ho!

Viene sempre meno il tempo da dedicare alla cura e alle attenzioni all’interno della famiglia, non si ha più tempo per le relazioni, deprivando i giovani esseri umani delle basi sulle quali costruire la propria identità, lasciandoli, perciò facili prede dei mass media, delle mode, deli gruppi social e del virtuale portando l’individuo ad un isolamento sempre più profondo, in quanto non si sceglie di restare soli, non si sceglie la condizione di solitudine ma diviene obbligata, non si posseggono gli strumenti per evitarla, sprofondando in un virtuale di relazioni intrecciate superficiali e numericamente spaventose, verso un reale isolamento sempre più profondo e immodificabile.

Anis mette in guardia dagli attacchi alla democrazia, raggiunta con tanti sacrifici umani, mettendo sul banco degli imputati internet, il web e i grandi Data come Microsoft, Apple, Facebook, Amazon, Whatsapp, Twitter, Google et alii. Reclama gli spazi di confronto e dialogo, usurpati dal web, il quale promuove l’autoreferenzialità, prediligendo l’odio verso opinioni e stili diversi, “hate speech”: parole violente come spari. La democrazia, la libertà di opinione rischiano di essere superate da una tecnologia sempre più autoritaria che privilegia velocità e semplificazione a riflessione e tempi. Intendiamo in questo senso la democrazia di Anis nel nostro contesto, come un bene collettivo fatto di relazioni e umanità.

Solitudine epifenomeno della salute mentale

Secondo studi oramai consolidati dalla ricerca, la solitudine influenza l’attivazione dei neuroni dopaminergici e serotoninergici, che sono alla base del nostro benessere emotivo. L’uomo preistorico aveva necessità di affiliarsi in gruppi di umani per sopravvivere, assicurando protezione per sé e la prole. Il cervello è settato ancora su quelle frequenze, se l’uomo vuole sopravvivere deve avvalersi della protezione e del sostegno di altri umani, è un meccanismo biologico che conduce l’individuo a cercare relazioni sociali. Come si è visto in precedenza, la solitudine è un vissuto naturale nell’esperienza umana ma se diviene uno stato cronico può portare a stati depressivi, disturbi post-traumatici da stress, ansia, panico, aspetti correlati alla salute mentale.

Alcuni studi si sono concentrati sui meccanismi dei neuroni dopaminergici e serotoninergici nella regione del cervello denominata nucleo del rafe dorsale in correlazione alla socialità/isolamento dei topi. Tali studi conducono ad osservare come la solitudine sia essenziale come vissuto nell’attivazione del meccanismo di ricerca della socialità, e come di per sé non conduca a comportamenti negativi, ma l’assenza reiterata di stimolazione alla socialità conduce a comportamenti ansiosi e depressivi.

Ne deduciamo che l’essere umano oscilla tra stati di solitudine e ricerca di contatti sociali, infatti l’uomo nasce dipendente dal cargiver, generalmente la madre che accudisce il nascituro, e resta dipendente dai bisogni primari, quindi cibo, riproduzione, ristoro, l’uomo in modo illusorio si sente un essere libero. Nel panorama odierno in cui si costringe alla solitudine, attraverso un vuoto affettivo e relazionale, come abbiamo citato in precedenza, in cui l’oggetto diviene il surrogato del proprio sé non ci stupirà se il fenomeno della dipendenza associata ad una cronicizzazione del vissuto della solitudine producono fenomeni patologici quali depressioni, dipendenze patologiche, new addiction, disturbi dell’umore (Rimandiamo agli specifici studi sulla depressione e la solitudine in correlazione all’abuso di internet: Bessiere, 2010; Young & Rogers, 1998; Kotikalapudiet et al., 2012; Costigan et al., 2013; Rauch et al., 2013).

A questo proposito la panoramica del fenomeno della dipendenza patologica prende diverse forme, identificandosi in “oggetti surrogati” differenti al fine di colmare quel vuoto esistenziale, il vuoto relazionale e affettivo, a colmare una solitudine che deriva dagli standard sempre più elevati richiesti dal mondo esterno, dal bipolarismo del tutto o niente. I giovani adolescenti del nuovo millennio posseggono tutto e troppo, dal cibo, agli oggetti tecnologici, all’abbigliamento sempre più alla moda, in un palmo raggiungono qualsiasi informazione, luogo, persona, tutto questo senza essere in grado di esprimere la propria volontà ed identità.

Tutti questi sono fattori che contribuiscono all’insinuarsi di patologie gravi che deteriorano la qualità della vita dell’individuo e della società poi. Ecco l’insinuarsi dei disturbi alimentari che mentre nel ventennio precedente assumeva un allarme per le tendenze di deprivazione al cibo, oggi vira nell’esatto opposto l’eccesso di cibo, le dipendenze, che venivano vissute come comportamenti trasgressivi all’interno di specifici gruppi devianti oggi si trasformano in dipendenze “condivise” dalla maggioranza della popolazione giovanile, vedasi tutte quelle relative alle tecnologie.

Il vero allarme, quindi non è nella solitudine di per sé che è un esperienza umana come altre, ma se quell’esperienza non viene supportata da strumenti adeguati diventa un evento traumatico, temuto, evitato e infine subito.

Come la bassa autostima fa vivere con rimpianto i sacrifici fatti per il proprio partner

Alcuni autori hanno affermato che uno dei motivi possibili di questa associazione, possa essere dato dal fatto che le persone con una bassa autostima tendono a valutare il proprio partner poco supportivo e questo farebbe in modo che si pentano di aver investito troppo nella loro relazione.

 

Un recente studio ha evidenziato come le persone aventi una bassa autostima siano maggiormente propense a pentirsi dei sacrifici fatti per la propria relazione di coppia. Alcuni autori hanno affermato che uno dei motivi possibili di questa associazione, possa essere dato dal fatto che le persone con una bassa autostima tendono a valutare il proprio partner poco supportivo e questo farebbe in modo che si pentano di aver investito troppo nella loro relazione.

Lo studio

I partecipanti (N=260), 130 coppie olandesi reclutate online, sono state incentivate alla partecipazione dello studio con una piccola somma di denaro. La procedura dello studio era struttutrato in tre principali momenti: una sessione iniziale di laboratorio per la compilazione di alcuni questionari che valutavano l’autostima, lo stile di attaccamento, la scala di soddisfazione della relazione e della vita e la frequenza dei sacrifici fatti per il proprio partner; la seconda parte dello studio prevedeva che i partecipanti per otto giorni, ogni due ore, monitorassero i loro stati d’animo, i livelli di stress e la presenza di sacrifici effettuati per il loro partner nell’ora precedente, oppure la presenza di rimpianti per sacrifici fatti in momenti precedenti. Ogni sera, alla fine della giornata, i partecipanti dovevano scrivere un diario relativo a sentimenti, alla percezione di supporto da parte del partner, ai sacrifici e rimpianti vissuti nell’arco della giornata; il terzo ed ultimo momento, un follow up, ad un anno, chiedeva ai partecipanti di rispondere ad alcune domande che indagavano il livello di soddisfazione della loro vita attuale.

Da questo studio è emerso che le persone con bassa autostima possono essere più inclini a percepire il proprio partner come meno supportivo, rispetto a chi possiede un’ autostima più alta. Questo può correlarsi al fatto che le persone con un’ autostima carente possano rimpiangere maggiormente i sacrifici fatti per il proprio partner, considerandolo appunto come non riconoscente.

Il rimpianto dei sacrifici influenzerebbe, a sua volta, il loro umore, con un minor livello di soddisfazione per la vita e maggior malessere. Il follow up ad un anno ha permesso di valutare quanto la bassa autostima insieme al rimpianto per il sacrificio, inficino il benessere generale del soggetto. La presente ricerca aiuta a comprendere le difficoltà relazionali che le persone con bassa autostima sperimentano.

La natura cross sectional dello studio non permette di presupporre delle relazioni di causa ed effetto, ma soltanto di tipo correlazionale. Di conseguenza, i fattori che potrebbero aver scaturito rimpianto, per i sacrifici di coppia, nelle persone con scarsa autostima, potrebbero essere molteplici e non essere stati considerati in questo studio.

L’anoressia nervosa è una malattia metabolico-psichiatrica?

Un recente articolo pubblicato su Nature Genetics, che ha avuto molto risalto sui media internazionali e nazionali, ha identificato otto loci genetici associati con l’ anoressia nervosa che sono stati correlati con altri loci genetici che influenzano il rischio di cinque categorie di tratti (psichiatrici e personalità, attività fisica, tratti antropometrici, tratti metabolici, scolarità).

 

L’ anoressia nervosa è una malattia complessa che colpisce lo 0,9-4% delle donne e lo 0,3% degli uomini (Hudson, Hiripi, Pope, & Kessler, 2007; Keski-Rahkonen & Mustelin, 2016; Micali et al., 2017). Sebbene negli ultimi anni siano stati sviluppati trattamenti evidence-based promettenti per l’ anoressia nervosa, l’esito delle cure è ancora spesso insoddisfacente (Watson & Bulik, 2013) e il disturbo continua ad avere uno dei più alti tassi di mortalità di qualsiasi altra malattia psichiatrica (Arcelus, Mitchell, Wales, & Nielsen, 2011).

Le cause dell’ anoressia nervosa sono ancora sconosciute, ma gli studi sui gemelli indicano che abbia un’ereditabilità compresa attorno al 50% (Yilmaz, Hardaway, & Bulik, 2015). Questo significa che lo sviluppo dell’ anoressia nervosa sembra dipendere per il 50% circa da fattori genetici e per un altro 50% circa da fattori ambientali. Purtroppo, si conoscono ancora poco sia i fattori genetici e ambientali coinvolti sia come essi interagiscano tra loro.

Anoressia nervosa e genetica: uno studio di associazione genome-wide

Un recente articolo pubblicato su Nature Genetics, che ha avuto molto risalto sui media internazionali e nazionali, ha riportato i dati di un studio di associazione genome-wide (in inglese genome-wide association study, o GWAS) su 16.992 casi di anoressia nervosa e 55,525 controlli con antenati europei provenienti da 17 Paesi incluso l’Italia, che ha combinato i dati dell’ Anorexia Nervosa Genetics Initiative (ANGI) (Thornton et al., 2018) con quelli del Psychiatric Genomics Consortium (PGC-ED) (Watson et al., 2019). Ricordo che il GWAS è uno studio del genoma eseguito senza alcune assunzioni a priori che può aiutare a identificare delle regioni del genoma che potrebbero contenere geni che aumentano o diminuiscono il rischio di anoressia nervosa.

Lo studio ha identificato otto loci genetici associati con l’ anoressia nervosa che sono stati correlati con altri loci genetici che influenzano il rischio di cinque categorie di tratti (psichiatrici e personalità, attività fisica, tratti antropometrici, tratti metabolici, scolarità). L’analisi statistica ha trovato:

  1. correlazioni genetiche significative con altri disturbi psichiatrici come il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo depressivo maggiore, l’ ansia e la schizofrenia;
  2. correlazioni genetiche negative con tratti metabolici (diabete di tipo 2, insulinemia a digiuno, leptina, ma una correlazione positiva con HDL colesterolo) e antropometrici (massa grassa, massa magra, indice di massa corporea – IMC, obesità) che persistono, anche se attenuate, covariando per l’IMC. Ulteriori analisi statistiche (randomizzazione mendeliana – GSMR) hanno trovato una relazione causale bidirezionale tra aumentato rischio di basso IMC e anoressia nervosa (sebbene la direzione tra anoressia nervosa e basso BMI abbia una bassa potenza statistica);
  3. correlazioni genetiche positive con i livelli di attività fisica

Gli autori, commentando i risultati, hanno concluso che l’architettura genetica dell’ anoressia nervosa rispecchia la sua presentazione clinica, mostrando delle correlazioni genetiche significative con disturbi psichiatrici, attività fisica e tratti metabolici-antropometrici, indipendenti dall’IMC. Questi risultati, hanno aggiunto gli autori, incoraggiano a riconcettualizzare l’ anoressia nervosa come un disturbo metabolico-psichiatrico e sottolineano che comprendere meglio la componente metabolica dovrebbe essere una priorità della ricerca futura, mentre prestare attenzione sia alla componente psichiatrica sia a quella metabolica potrebbe essere la chiave per migliorare i risultati del trattamento.

Commento

Non c’è dubbio che lo studio pubblicato su Nature Genetics sia molto importante perché rappresenta lo stato dell’arte per studiare i fattori di rischio genetici dell’ anoressia nervosa. I risultati però, sebbene siano interessanti, sono correlazionali e non possono, per la loro natura, provare che i fattori metabolici siano coinvolti nelle cause dell’ anoressia nervosa. Va anche detto che la metodica GWAS, basandosi su un numero elevatissimo di test statistici svolti, presenta un potenziale senza precedenti di risultati falsi positivi; in questo studio per esempio il locus genetico identificato nel cromosoma 12 dal precedente GWAS dell’ anoressia nervosa (Duncan et al., 2017) non ha raggiunto una significatività genoma-wide. L’identificazione di questi loci genetici potrebbe, comunque, aiutare a scoprire dei geni coinvolti nell’ anoressia nervosa e forse in futuro permettere ai farmacogenetisti di sviluppare nuovi potenziali trattamenti.

In conclusione, si può affermare che questo studio ha fatto un piccolo ma importante passo nella comprensione dei fattori di rischio genetici dell’ anoressia nervosa e che, con l’aumento della numerosità del campione, probabilmente si scopriranno altre decine o centinaia di loci genetici associati a questo disturbo. Siamo però ancora molto lontani dall’avere una comprensione dell’eziologia dell’ anoressia nervosa e non è corretto affermare, come riportato in modo sensazionalistico dai media, che è stata scoperta l’origine genetica di questo disturbo e che presto avremo dei farmaci per curarlo. Per il momento gli unici trattamenti disponibili evidence-based sono quelli psicologici e ad essi è consigliabile affidarsi.

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