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La guarigione sociale (2017) di A. Cirincione. Un libro che racconta chi è il TeRP, il Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica – Recensione

Alessandra Cirincione dedica il libro La guarigione sociale alla figura del Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica: chi è, qual è il suo ruolo, quanto è riconosciuta a livello professionale e sociale questa professione e che importanza riveste all’interno dei servizi di assistenza alla persona. 

 

L’ambito è quella della disabilità psichiatrica e in particolare il focus riguarda l’importanza della riabilitazione delle persone che incontriamo in tale contesto. Alla domanda su quale professione si occupa di tali questioni la risposta giunge tramite una sigla: TeRP ovvero Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica.

La prima parte del libro La guarigione sociale è dedicata alla descrizione di tale figura partendo dall’iter formativo per averne il titolo fino ad arrivare alle mansioni che tale professionista può svolgere all’interno di un contesto lavorativo di comunità.

Il tecnico della riabilitazione psichiatrica non è l’unica figura che si occupa dell’assistenza di questo tipo di pazienti, per tale ragione l’autrice evidenzia l’importanza del concetto di integrazione multiprofessionale: il lavoro in équipe, lo scambio di punti di vista diversi che si incontrano per giungere poi al concetto di supervisione inteso come strumento di formazione e confronto continuo a mezzo di prevenzione del burn out, essendo questa una professione ad alto rischio per la natura delle richieste.

Una volta inquadrata la figura professionale, il libro racconta le aree di intervento all’interno delle quali il Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica indirizza il suo intervento che per definizione è di tipo riabilitativo; mira cioè a lavorare sulle abilità di autonomia delle persone distinguendo due livelli: tramite il primo si sviluppano quelle abilità di base legate alla vita quotidiana, il secondo invece si potrebbe definire più introspettivo in quanto interessa la sfera intrapersonale.

Qual è l’importanza di avere una figura come il TeRP?

L’autrice di La guarigione sociale su questo punto presenta una riflessione sul concetto che in inglese viene espresso con il termine di ricovery ovvero la percezione di padronanza della propria vita al di là della disabilità. La figura del Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica appare fondamentale in questo perché permette all’utente di scoprire le proprie risorse personali e ambientali e di coltivarle in un ambiente accogliente e mai giudicante.

L’utente è considerato come persona, nella sua globalità, inserita in un contesto di vita personale e relazionale in cui i co-protagonisti sono i familiari, ecco dunque che la famiglia prende parte all’intervento attraverso i momenti di psicoeducazione.

Oltre a offrire una buona visione della figura professionale del Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica, il testo di Alessandra Cirincione è anche una sorta di critica alla mancanza, usando le parole dell’autrice, di una chiara identità di tale figura che non è riconosciuta nel panorama assistenziale italiano e a cui spesso vengono assegnate mansioni non pertinenti. Questo aspetto emerge molto forte nel capitolo dedicato alle esperienze personali.

In conclusione

Verrebbe da dire che La guarigione sociale è un testo che nel suo complesso può essere visto come una denuncia in termini letterari che mira a dar voce a una professione che per quanto utile non è adeguatamente considerata nell’ambiente dei servizi dedicati alle persone.

Se ho colto, anche solo in parte, l’intento dell’autrice, apro lo spunto ad alcune questioni che potrebbero aiutare a riflettere per giungere forse a una soluzione..

Che cosa si potrebbe fare oggi per valorizzare la figura del tecnico della riabilitazione psichiatrica?

Come si potrebbe far capire realmente l’importanza di tale figura agli altri professionisti e ancora come far diventare tale figura punto di riferimento per l’utente e per la famiglia valorizzandone il ruolo e assicurando a questi professionisti il giusto compenso economico?

 

Burnout genitoriale: quali le conseguenze per il genitore e per il bambino 

La genitorialità viene spesso attesa dagli individui come un’esperienza meravigliosa, foriera di emozioni positive e di un aumento di significato nella propria vita. Sebbene tali fattori siano presenti, essere genitore può rivelarsi un impegno gravoso per la persona che viene investita di tale ruolo.

 

Lo stress di diventare genitori

Dalla nascita in poi i figli sottopongono i genitori a un livello di stress considerevole, coinvolgendoli nella gestione di eventi stressanti giornalieri, quali fare i compiti e frequentare attività che necessitano di spostamenti, eventi stressanti acuti, quali sfoghi o liti tra fratelli, e possibili eventi stressanti cronici, quali problemi comportamentali o di salute. La costante mancanza delle risorse necessarie per la gestione dei figli può portare il genitore a sviluppare burnout genitoriale.

Tale condizione è definita come uno stato di forte esaurimento relativo al proprio ruolo genitoriale che porta l’individuo a sentirsi emotivamente distaccato dai propri figli e a mettere in dubbio la propria capacità di essere un buon genitore. Al momento attuale la maggior parte degli studi condotti sull’argomento si sono concentrati su quali possano essere i fattori predisponenti allo sviluppo di tale condizione. Tra questi spiccano il porsi lo scopo di essere un genitore perfetto, difficoltà nella gestione delle emozioni e dello stress e la mancanza di supporto emotivo e pratico da parte del partner e della rete sociale più ampia.

Le implicazioni del burnout genitoriale

Uno studio recentemente pubblicato su Clinical Psychological Science è andato invece a indagare quali possano essere le conseguenze del burnout genitoriale sia per i genitori che per i figli. Mikolajczak e colleghi (2019) hanno condotto due studi longitudinali incrociati, il primo dei quai ha indagato nello specifico le conseguenze del burnout genitoriale, mentre il secondo è andato ad analizzare gli effetti comuni e specifici del burnout genitoriale e lavorativo ed è stato utilizzato per testare la robustezza dei dati ottenuti nel primo studio.

Nel primo studio i genitori sono stati reclutati tramite social network, scuole e pediatri per la partecipazione a uno studio relativo al benessere genitoriale. I partecipanti, genitori che parlavano francese e che risiedevano principalmente in Belgio, hanno completato la stessa batteria di questionari online a distanza di cinque mesi e mezzo per tre volte. I questionari andavano a indagare nello specifico la presenza di burnout genitoriale, di pensieri relativi alla fuga, intesa sia come allontanamento dal nucleo familiare sia come suicidio, il grado di trascuratezza rispetto ai bisogni fisici, emotivi ed educativi dei figli e la tendenza a mettere in atto violenza verbale, fisica o psicologica. Data la natura sensibile di molti degli item proposti, i ricercatori hanno valutato anche la tendenza dei partecipanti a rispondere in maniera socialmente desiderabile. Un totale di 2068 partecipanti ha risposto al primo invio della batteria di questionari e 557 partecipanti hanno continuato a rispondere fino al terzo.

Dai dati forniti dai partecipanti è emersa una forte associazione tra burnout genitoriale e tre variabili specifiche, ovvero ideazione di fuga, trascuratezza genitoriale e violenza genitoriale, in cui il burnout genitoriale portava ad un aumento delle tre variabili in ognuna delle tre fasi di somministrazione. I ricercatori hanno evidenziato inoltre una relazione circolare tra burnout genitoriale e trascuratezza genitoriale: la presenza di burnout genitoriale causa di una maggiore trascuratezza genitoriale, la quale porta a sua volta ad un aumento del burnout e così via. La violenza genitoriale è risultata essere una diretta conseguenza del burnout genitoriale. Tali risultati sono stati mantenuti anche nel momento in cui è stata presa in considerazione la tendenza dei partecipanti a rispondere in modo socialmente desiderabile.

Il secondo studio è stato condotto con la stessa procedura online con genitori di lingua inglese provenienti per la maggior parte dal Regno Unito e ha prodotto risultati analoghi. L’insieme dei dati ottenuti evidenzia la probabilità che il burnout genitoriale sia causa di ideazione di fuga, trascuratezza genitoriale e violenza genitoriale, fattori che colpiscono sia i genitori che, di conseguenza, i loro figli. Le implicazioni cliniche della ricerca di Mikolajczak e colleghi (2019) sono particolarmente salienti, in quanto sia la trascuratezza che la violenza genitoriale hanno effetti dannosi a lungo termine sullo sviluppo infantile.

 

Empirically supported treatments: e se il problema dipendesse dal Frame?

Nel campo della ricerca in psicoterapia, però, a mio parere vi sono alcuni problemi più macroscopici. Il primo, di ordine assolutamente generale, è il meta-modello o frame adottato da gran parte dei ricercatori e da molti clinici.

 

Il bel post di Simone Cheli è a mio parere del tutto condivisibile. Dinamiche identitarie, interpersonali e politiche influenzano il discorso scientifico, anche quello sull’efficacia delle psicoterapie. Come non ricordare la ricostruzione proposta da Feyerabend (1975) del progressivo imporsi delle idee di Copernico e Galileo in campo astronomico, in un intreccio di fattori che andavano dalla costruzione di nuovi strumenti di osservazione all’ascesa di nuove classi sociali e al declino di quelle che fino ad allora detenevano il potere e plasmavano il sapere? Così come è vero che possiamo trarre speranza e fiducia dalla dialettica scientifica, che rispettati certi parametri dà voce anche a opinioni tra loro contrastanti, alla ricerca di ciò che appare, di volta in volta, vero o non già falsificato.

Nel campo della ricerca in psicoterapia, però, a mio parere vi sono alcuni problemi più macroscopici. Il primo, di ordine assolutamente generale, è il meta-modello o frame adottato da gran parte dei ricercatori e da molti clinici. Se dovessimo sintetizzarne il nucleo, potremmo descriverlo così: esistono entità discrete che si chiamano “disturbi psichici”, che possono essere identificati e descritti in modo ateoretico facendo riferimento a manuali diagnostici riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale – ad esempio, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM). Esistono modelli di intervento time-limited pensati per curare questi disturbi che possono essere manualizzati, applicati e validati empiricamente. E quello più giusto si rivelerà anche quello più efficace. Le variabili della persona-paziente, della persona-terapeuta e del loro incontro sono fattori che possono facilitare o ostacolare in forma più o meno marcata questa applicazione e la sua riuscita, ma non sono i fattori centrali. La psicoterapia assimilata a una cura farmacologica.

Questo modello ispira da anni certa ricerca in psicoterapia, e ha portato dei frutti. Migliaia di studi ci hanno dimostrato che la psicoterapia è più efficace di una non-terapia in un range che va dal 70 all’80% dei casi, ma non vi è una psicoterapia specifica per disturbo che sia più efficace di un’altra psicoterapia specifica per quello stesso disturbo, rispettate certe condizioni di base. Che tipo di condizioni? Che si paragonino trattamenti pensati per essere efficaci, guidati da un modello psicologico che lega in modo coerente speigazione del disturbo e tipo di intervento offerto, che i terapeuti credano in buona fede che quello che stanno offrendo ai pazienti è un trattamento efficace, che siano stati formati a offrire quell tipo di trattamento ecc.

Esatto, si tratta del famoso verdetto di Dodo che ha ispirato la costruzione di un modello contestualista della psicoterapia (Wampold, Imel, 2015) e la ricerca su fattori come l’alleanza terapeutica, le caratteristiche del terapeuta, le caratteristiche dei pazienti e quelle della loro relazione. Parafrasando Ippocrate, si inizia a studiare che tipo di persone siano coinvolte in una psicoterapia e come interagiscono tra loro più che che tipo di psicoterapia si stia facendo o che tipo di disturbo si stia curando. E si inizia a pensare che certe terapie o tecniche funzionino meglio per alcuni, altre per altri pazienti.

Ma periodicamente emerge un nuovo studio randomizzato controllato (RCT) che paragona una terapia X con una Y, e in genere il verdetto di Dodo viene confermato. Quando non lo è, magari per una variabile singola, anche secondaria, questo risultato è clinicamente più o meno irrilevante, riguarda una percentuale minima di pazienti o un cambiamento sintomatico minimo, e studi successivi non lo replicano, o smascherano i limiti dello studio che lo ha messo in evidenza. Ma il gioco continua – questa horse race tesa a dimostrare che c’è qualcuno che è molto più bravo degli altri a offrire trattamenti disturbo-specifici, brevi, efficaci e che cambiano stabilmente la vita dei pazienti.

Poi arrivano gli studi come quelli di Sakaluk e colleghi (2019) o articoli come quelli di Westen et al. (2004) o quello di Shedler (2018), che invitano alla modestia i sostenitori degli empirically supported treatments. E modelli che mettono in discussione la fondatezza del nostro modo di intendere i disturbi mentali (ad es., Caspi et al., 2014).

Personalmente, credo che quella degli studi randomizzati controllati sia una strada senza via di uscita, o meglio una strada che porta sempre allo stesso risultato, che ormai è atteso ma non è mai quello desiderato. E ripenso alla celebre affermazione di Einstein: “Follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi”. Penso al contempo che sia non solo possibile, ma anche più utile, provare a ripensare a molte forme di disagio psichico per cui i pazienti ci chiedono aiuto come forme di adattamento ad ambienti relazionali di sviluppo per loro meno che ottimali (vedi anche Fonagy et al., 2017 a, b), e alla psicoterapia come a una relazione pensata per dar loro ciò di cui hanno bisogno al fine di realizzare obiettivi evolutivi a cui hanno dovuto rinunciare, o che hanno dovuto distorcere, per sopravvivere in quegli ambienti.

La psicoterapia come relazione in grado di fornire esperienze emotive correttive e strumenti che consentano ai pazienti di realizzare quegli obiettivi evoluzionisticamente fondati superando gli ostacoli che glielo impediscono. Da questo punto di vista, non si tratta di tradurre la sofferenza di un paziente in una categoria diagnostica a priori per poi curare quella categoria con trattamenti standardizzati ad hoc. Si tratta bensì di capire origine, senso e funzione di quel disagio, i bisogni e le aspirazioni frustrate del paziente, e di aiutarlo a trovare una relazione e degli strumenti che gli permettano di appagarli. Un approccio di questo tipo implica, tra le altre cose, un modo diverso di fare ricerca. Più dispendioso e difficile, ma comunque possibile. Un modo di fare ricerca che parta da una descrizione e concettualizzazione empiricamente affidabile di ciò che il singolo paziente cerca da noi (Gazzillo, Dimaggio, Curtis, 2019) e che valuti poi quanto ciò che proviamo a dare a quella persona sia coerente con ciò di cui ha bisogno (Gazzillo, Genova et al., 2019). E, dal punto di vista clinico, si tratta di costruire terapie ogni volta specifiche per il paziente che si è rivolto a noi, partendo da quegli elementi che la ricerca ha dimostrato efficaci.

Non ci sono manuali da seguire, se non i bisogni dello specifico paziente che ci sta di fronte (Gazzillo, 2016; Silberschatz, 2005; Weiss, 1993).

 

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Il ruolo dei traumi precoci e dell’attaccamento traumatico nei disturbi ed esordi psicotici

Il ruolo trans diagnostico del trauma è attualmente al centro del dibattito tra clinici e ricercatori che si occupano di psicosi ed esordio psicotico, anche se in passato è stato poco considerato a causa della tendenza a non indagare altri sintomi clinici ed esperienze precoci in seguito ad una diagnosi di disturbo psicotico.

Antonio Cozzi e Sharon Vitarisi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Psicosi: quando il rapporto con la realtà si altera

Il termine psicosi, riassume uno spettro di disturbi psichiatrici che si manifestano con severi sintomi cognitivi, percettivi, affettivi e comportamentali, in cui il rapporto con la realtà circostante può essere gravemente alterato. Il disturbo più invalidante in questo cluster è la Schizofrenia.

I disturbi psicotici, come indica il DSM 5, hanno un’età di insorgenza compresa tra 14 e i 35 anni e si manifestano con sintomi positivi e negativi, disorganizzazione del pensiero e del linguaggio, bizzarrie comportamentali, disturbi affettivi e marcato calo del funzionamento (APA, 2013).

I sintomi positivi consistono principalmente in disturbi del pensiero, deliri ed allucinazioni. I sintomi negativi consistono in un insieme di comportamenti collegati all’appiattimento emotivo, l’apatia, l’abulia, la passività, portando a stati di forte ritiro sociale.

Tali disturbi, come detto precedentemente, hanno un esordio collocato nell’adolescenza e nella giovane età adulta, ma sono preceduti da fasi prodromiche molto lunghe, che possono durare anni, in cui si manifestano i primi sintomi generici, sottosoglia, intermittenti, e il calo del funzionamento, fino alla strutturazione dei sintomi psicotici principali. L’intervento precoce in questi stati mentali a rischio può evitare o ritardare la transizione alla psicosi, ridurre l’impatto dei sintomi e favorire un buon adattamento e funzionamento (Cozzi, 2017).

Trauma e PTSD

Nel DSM 5 troviamo, tra i vari disturbi psicopatologici, un capitolo dedicato ai disturbi correlati a trauma e stress. Viene suddivisa in: Disturbo reattivo dell’attaccamento, Disturbo da impegno sociale disinibito, Disturbo da stress post-traumatico (PTSD), Disturbo da stress acuto, Disturbi dell’adattamento e altri due disturbi con altra o senza specificazione.

La diagnosi di Trauma Complesso non viene riconosciuta dal DSM 5. Vari filoni di ricerca si stanno occupando di determinare e studiare quelli che sono gli effetti a lungo termine dell’abuso, del maltrattamento e della trascuratezza nell’infanzia, sulla salute mentale e sull’organizzazione di personalità dell’adulto. Accesi dibattiti e punti di domanda ancora aperti lasciano tale argomento all’interno di controversie. Il Disturbo da Stress Post-Traumatico è legato all’esposizione ad un singolo evento di minaccia alla vita e riporta sintomi ben definiti. Un buon obiettivo sarebbe differenziare il PTSD Complesso attraverso una definizione più chiara ed esaustiva dei suoi sintomi sull’individuo.

Traumi precoci e attaccamento

Molti clinici, indipendentemente dalla scuola teorica di riferimento, ritengono significativa l’influenza delle esperienze di “piccoli e grandi traumi” vissuti nei primi anni di vita, sull’instaurarsi del disagio psicologico. Brown et al. (1993) ritengono che l’esposizione a stimoli imprevedibili e incontrollabili nel corso dell’infanzia o l’esposizione a esperienze di abbandono e separazione possano predisporre a sintomi psicotici.

Inoltre, è importante prendere in considerazione non solo l’evento traumatico e il suo effetto, ma anche la capacità mentale di elaborazione del soggetto. Un evento innocuo per un adulto può risultare sconvolgente e traumatico per un bambino (Faretta, 2001). Per questo motivo è essenziale considerare anche l’atteggiamento dei genitori. Apprensività, severità, rigidità tendono a prendere il controllo totale sulla vita dei figli, riducendo così la loro capacità di esplorazione autonoma e di conseguimento di sicurezza in se stessi (Parker, 1981).

Le emozioni che il bambino sperimenta fanno da sfondo alla creazione di un certo tipo di attaccamento o separazione, poiché è grazie ad esse che il bambino intuisce se richiamare l’attenzione della madre o allontanarsene (Panksepp, 1998). L’attaccamento, secondo una definizione universale, può considerarsi come il tono emotivo che unisce il bambino e l’adulto che si prende cura di lui. Come tale comprende il carattere generale della relazione, la modalità reciproca di entrare in rapporto, il modo di pensare, di sentire le cose, di comportarsi e agire (Hazan et al., 1998).

Possiamo ipotizzare, con la dovuta cautela, che tali esperienze, il tipo di attaccamento, la vulnerabilità familiare e i fattori biologici del bambino possano influire sulla comparsa in età adolescenziale o adulta di sintomi psicopatologici e di possibili esordi psicotici.

Traumi precoci e Psicosi

Gli eventi traumatici rappresentano dunque un importante fattore di rischio nello sviluppo delle psicosi, in particolare quando essi sono collocati nell’infanzia e nelle prime esperienze familiari. Varese e colleghi (2012), hanno condotto un’importante meta-analisi in cui hanno evidenziato il ruolo di eventi come il neglect, gli abusi fisici, sessuali ed emotivi, i lutti precoci e le esperienze di bullismo in queste sindromi.

Tali esperienze, così come il coinvolgimento o l’aver assistito a eventi incontrollabili, incidenti, attentati, catastrofi naturali e guerre, sono dunque fattori predisponenti per uno stato Ultra High Risk (UHR) per i disturbi psicotici (Bechdolf et al, 2010), allo stesso modo è molto probabile come questi eventi possano fungere da evento di rottura – la goccia che fa traboccare il vaso – nei soggetti con un’elevata vulnerabilità, portando alla slatentizzazione di un disturbo psicotico sottostante (Van Os, 2008).

Gli abusi sessuali, in particolare, sembrano essere gli eventi che più degli altri influenzano la transizione da uno stato UHR ad un disturbo franco (Cutajar et al., 2010; Thompson et al., 2014).

La ricerca, inoltre, mostra come vi sia una frequente associazione tra i disturbi post-traumatici da stress (PTSD) e lo sviluppo successivo di sintomi psicotici (Bechdolf et al., 2010; Gibson et al., 2016; Kline et al., 2016), sottolineando ancor di più l’importanza di effettuare un’indagine sulla presenza di tali eventi nella storia di vita dei pazienti a rischio. Considerando l’ampia incidenza del trauma legato alla violenza nelle psicosi, la ricerca ha inoltre ipotizzato il ruolo causale delle esperienze di vittimizzazione, i risultati preliminari sembrano essere in linea con tale ipotesi (Hardy, 2017).

Difatti, disturbi psicotici e PTSD sembrano condividere caratteristiche e sintomi clinici come ad esempio le dispercezioni, il ritiro sociale, la dissociazione. Bailey e colleghi (2018) hanno inoltre studiato le possibili interazioni nel tempo tra PTSD e sintomi UHR in adolescenti, notando come le esperienze traumatiche possano effettivamente portare alla comparsa di sintomi positivi come i deliri e le allucinazioni.

Sebbene le esperienze traumatiche siano estremamente diffuse nelle sindromi psicotiche, è importante sottolineare come esse non debbano necessariamente sfociare in disturbi psichiatrici. Vi sono fattori come la durata di un trauma, il fatto che esso sia ripetuto nel tempo, la resilienza dell’individuo e del caregiver, i quali sembrano avere un effetto esacerbante rispetto all’impatto di questi eventi (Kline et a.l, 2016).

Un recente studio, infine, ha indagato l’impatto di mediatori specifici attivi nell’associazione tra esperienze avverse nell’infanzia e psicosi. In particolare, emerge come vi siano specifiche famiglie di variabili, tra cui i sintomi post-traumatici, la disregolazione affettiva, processi cognitivi, impatto degli eventi di vita ed esposizione ad altri fattori di rischio, come l’abuso di sostanze (Williams et al, 2018)

Il ruolo trans diagnostico del trauma è dunque attualmente al centro del dibattito tra clinici e ricercatori che si occupano di esordio psicotico, anche se in passato è stato poco considerato a causa della tendenza a non indagare altri sintomi clinici ed esperienze precoci in seguito ad una diagnosi di disturbo psicotico. Attualmente, tale rinnovata attenzione ha stimolato la sperimentazione di protocolli indirizzati specificamente ai sintomi traumatici nel trattamento dei disturbi psicotici (Cozzi, 2018).

La suscettibilità ai falsi ricordi in contesti multipli

Decenni di ricerche mostrano come le persone siano suscettibili a sviluppare falsi ricordi. Un falso ricordo è definito come il fenomeno di ricordare cose che non sono accadute o di ricordarle diversamente da come sono accadute

 

Un falso ricordo è definito come il fenomeno di ricordare cose che non sono accadute o di ricordarle diversamente da come sono accadute (Roediger & McDermott, 1995).

Ma se le persone sono indotte a sviluppare un falso ricordo in relazione ad un compito specifico o in un contesto particolare, sono portate a fare lo stesso in contesti diversi?

A tale proposito è importante riflettere sui meccanismi alla base della memoria e del consolidamento dei falsi ricordi, per osservare come, in alcuni casi, i processi della mente umana possano essere manipolati a proprio discapito.

La memoria non è solamente il “guardiano” del nostro passato, ma è un sistema attivo che riceve, immagazzina, organizza, modifica e recupera le informazioni. Tali informazioni vengono trasformate in ricordi che ci guidano nella vita di tutti i giorni e contribuiscono ad attribuire un significato a noi stessi e al contesto sociale in cui viviamo (Coon & Mitterer, 2016). I ricordi, tuttavia, possono essere soggetti a distorsioni o manipolazioni: essi sono suscettibili a influenze legate a suggestioni esterne e potrebbero contenere informazioni di eventi che non si sono mai verificati.

Modelli teorici alla base della formazione dei falsi ricordi

Per spiegare come i ricordi possono essere modificati senza nessuna particolare difficoltà, un recente studio, condotto da Nichols e Loftus (2019), ci presenta tre paradigmi teorici, i loro metodi e le differenze individuali riguardo il grado di suscettibilità.

Il primo è il Misinformation Effect (Loftus, Miller & Burns, 1978), un modello che riguarda l’esposizione a informazioni errate relative a un ricordo passato. Ad esempio, in un esperimento, dei partecipanti prendevano parte ad un evento del quale, successivamente, venivano fornite informazioni sbagliate. Quando veniva valutato il ricordo di questo evento la maggior parte dei partecipanti incorporava nel proprio ricordo le informazioni sbagliate e le presentava come se fossero state delle caratteristiche dell’evento stesso. Una spiegazione teorica per questo effetto è data dagli errori che si commettono nel codificare la fonte dell’informazione: spesso i soggetti non la codificano adeguatamente e la attribuiscono all’evento originale. Questo può accadere perché i due tipi di informazione, quella corretta e quella errata, hanno delle caratteristiche simili che rendono difficile la distinzione.

Un altro approccio per spiegare questo effetto è il Fuzzy Trace Theory (FTT; Brainerd & Reina, 2005). Questa teoria mostra due modelli di rappresentazione mentale del ricordo: il primo è una rappresentazione letterale, spesso vivida e molto dettagliata del ricordo, la seconda invece è una rappresentazione concettuale e sottoscrive il significato del ricordo e non le sue specifiche qualità. Queste rappresentazioni possono indurre un effetto di disinformazione perchè intervengono in modo inefficace o in un momento sbagliato della fase di richiamo dell’informazione. Tale paradigma presenta delle differenze individuali importanti che determinano il grado di suscettibilità del soggetto. La prima è l’età, per cui le persone più anziane tendono ad essere più soggette a questo effetto. Si è trovata, inoltre, una relazione positiva tra il modello e i soggetti con tratti di personalità estroversi e socievoli. L’effetto di disinformazione ha anche un’alta probabilità di presentarsi in caso di esperienze dissociative.

Un altro paradigma è il Deese-Roediger-McDermott paradigm (DRM; Deese, Roediger & McDermott, 1959), che induce falsi ricordi a causa di una convergenza di più associazioni semantiche su una sola parola. Ai soggetti viene presentata una lista di parole da memorizzare, tutte associate ad una parola critica. Essi devono memorizzare quante più parole possibili e riscrivere quelle che si ricordano meglio. Successivamente, vengono inserite parole “nuove” e parole “critiche”. Il soggetto deve poi definire se la parola che gli viene presentata è nuova o vecchia e, nel secondo caso, deve riferire se la ricorda e, quindi, se riesce a rievocare particolari relativi alla lettura di quella parola o se la conosce, cioè ricorda la lettura della parola ma non ne ricorda i particolari. Al momento del richiamo libero, la percentuale dei falsi ricordi per la “parola critica” è del 55%, mentre al compito di memoria del falso riconoscimento della parola critica, la percentuale sale all’81%.

Una teoria alla base di questo paradigma è l’Activation-Monitoring Hypothesis (Roediger & McDermott, 2000; Roediger, Watson, McDermoth & Gallo, 2001). Questa teoria afferma che l’item decisivo è creato sia durante la codifica che durante il recupero, a causa di un’attivazione diffusa, tramite cui i nodi, che rappresentano dei concetti in un network, sono attivati in prossimità e in ordine di grandezza rispetto all’attivazione degli altri nodi. Per questo motivo, la stimolazione di nodi-concetti uniti tra loro causa una diffusione dell’attivazione anche al nodo della parola critica non citata. Nella fase di recupero, il soggetto crede falsamente che sia presente anche la parola critica. Il tutto potrebbe dipendere da un collegamento sbagliato fra la fonte interna dell’attivazione mentale e la fonte esterna dell’ascolto delle parole.

Questo modello è considerato il metodo più utile ed efficace di induzione dei falsi ricordi. In relazione alle differenze individuali, anche in questo caso troviamo una relazione positiva tra il tratto della personalità dell’estroversione e il processo precedentemente esposto. Un’altra relazione positiva è presente con la tendenza a fantasticare e l’abilità di immaginazione.

Il terzo paradigma (Loftus & Bernstein, 2005), usato nello studio dell’induzione dei falsi ricordi, afferma che le persone possono sviluppare falsi ricordi relativi ai contenuti della memoria autobiografica. I ricordi attinenti al proprio vissuto possono essere completamente manomessi con informazioni errate riguardo il nostro passato che vengono consolidate nella memoria come falsi ricordi. Un esempio è un esperimento condotto su soggetti ai quali venne fatto credere erroneamente di essersi persi in un centro commerciale da bambini. Il 25% di loro, dopo interviste suggestive, ricordavano questo evento come se lo avessero vissuto davvero. Per la creazione di questi falsi ricordi sono state usate diverse tecniche psicologiche, dall’interpretazione dei sogni, l’ipnosi, il ricorso a feedback falsi e la visualizzazione guidata, oppure l’immaginazione guidata.

L’ultima tecnica dà origine al fenomeno dell’Imagination Inflation (Garry, Manning, Loftus & Sherman, 1996), secondo cui immaginare un evento che non è mai accaduto, fa sì che aumenti la nostra convinzione sull’effettiva avvenuta di quell’evento. Questo processo è supportato dalla creazione di falsi ricordi da parte dei soggetti o dalla formazione di una credenza che supporta che l’evento sia accaduto veramente. Questo effetto, a differenza del Misinformation Effect, ha un’origine interna. Un’ipotesi alla base di questa teoria è la Familiarity Misattribution Hypothesis (Jacoby, Kelley & Dywan, 1989), secondo cui un’esercitazione costante nell’immaginazione di un evento, rende questo evento più familiare e cognitivamente accessibile. Questa esercitazione è possibile quando si ha un’accurata e dettagliata elaborazione sensoriale.

In merito alle differenze individuali relative al grado di suscettibilità ai falsi ricordi che si sviluppano attraverso l’immaginazione guidata, molte di queste riguardano i tratti di personalità relativi alla dissociazione dalla realtà.

Tutti e tre i modelli sostengono la possibilità che la memoria e i ricordi degli eventi possano essere manipolati e distorti, tuttavia provengono da spiegazioni teoriche e metodologiche diverse le une dalle altre. Questa differenza è stata considerata come un ottimo punto di partenza per indagare se lo sviluppo dei falsi ricordi equivale in tutti e tre i paradigmi o se la formazione di un falso ricordo secondo un modello predice la formazione di un altro sulla base di un modello diverso.

Dalle recenti evidenze empiriche (Nichols & Loftus, 2019) emerge che non vi è nessuna relazione significativa tra i falsi ricordi studiati dai diversi modelli, anche perché nessuno ha mai esplorato la formazione dei falsi ricordi usando tutti e tre i modelli sugli stessi soggetti.

Per questo motivo è stato condotto uno studio (Nichols & Loftus, 2019) in cui si è indagato le relazioni tra i tre paradigmi e la performance della memoria in soggetti, in cui si è valutata l’ipotesi che le differenze individuali predicessero la funzionalità di ogni modello al fine di individuarne di nuove e valutare quale di queste collaborasse nella formazione di falsi ricordi. L’obiettivo è stato quello di utilizzare le differenze individuali per ridefinire i meccanismi alla base dello sviluppo dei falsi ricordi.

Ciò che emerge da questo studio (Nichols & Loftus, 2019) è che esiste una inter-relazione positiva tra i tre paradigmi nello sviluppo dei falsi ricordi, ma questa relazione, al livello di grandezza, non è statisticamente significativa. Tali risultati (Nichols & Loftus, 2019) confermano ancora una volta la natura di ogni singolo modello. In particolare il DRM nasce da processi interni e spontanei, il Misinformation Effect, invece, è dovuto a processi esterni suggestivi e l’Imagination Inflation si sviluppa quando ciò che si immagina viene confuso con ciò che è reale. Anche i ricordi che si formano sulla base dei modelli hanno una natura diversa: con l’Imagination Inflation il ricordo proviene dalla memoria autobiografica, con il Misinformation Effect si ha un ricordo di un evento esterno e il ricordo sulla base del DRM riguarda la memoria episodica. Il DRM, inoltre, coinvolge soltanto due fasi, ovvero la codifica e la verifica, mentre gli altri due coinvolgono quattro fasi che sono la codifica, la suggestione, l’immaginazione e la verifica. Quindi, i tre paradigmi si differenziano non solo nei loro metodi ma anche nel modo in cui vengono esperiti dai soggetti.

Le differenze individuali che possono portare allo sviluppo dei falsi ricordi presenti in ogni paradigma sono correlate tra di loro ma la correlazione risulta molto bassa e non statisticamente significativa. L’unico predittore comune ai tre modelli sembra essere l’aver vissuto esperienze anomale.

Conclusioni

Lo scopo di questo studio (Nichols & Loftus, 2019) è stato quello di rispondere a delle domande che fino ad ora nella letteratura non avevano trovato una risposta e che possono essere utili per la comprensione dei processi di memoria. Uno dei quesiti riguardava la predisposizione delle persone a sviluppare falsi ricordi in contesti multipli.

La risposta è evidentemente negativa poiché lo studio (Nichols & Loftus, 2019) non ha rilevato delle relazioni abbastanza significative tra i tre paradigmi studiati che sono stati presi ad esempio di tre possibili contesti in cui si possono sviluppare i falsi ricordi.

Questo, però, ci dimostra la natura onnipresente della distorsione della memoria poiché viviamo in contesti diversi che influenzano i nostri ricordi, per cui quando dobbiamo richiamare alla memoria un evento vissuto è probabile che questo abbia avuto delle influenze da diverse fonti con cui noi abbiamo interagito oppure da dettagli che abbiamo generato internamente o immaginato. Si è dimostrato, inoltre, che qualsiasi persona può essere vulnerabile alla formazione di falsi ricordi e quindi ad essere influenzata da informazioni che vanno a cambiare i ricordi degli eventi che ha vissuto.

In merito al grado di suscettibilità, presente più o meno marcatamente in ognuno di noi, questo recente studio (Nichols & Loftus, 2019) suggerisce alla ricerca futura, di indagare questo tratto attraverso tecniche di neuroimaging, affinché una prospettiva biologica possa fare più chiarezza sui dati raccolti.

Il rischio del piacere (2018) di Anna Paola Lacatena: la relazione terapeutica nel trattamento delle dipendenze patologiche – Recensione del libro

Nel libro Il rischio del piacere viene sottolineata l’importanza della qualità della relazione di cura nel trattamento di pazienti tossicodipendenti o, più in generale, che soffrono di dipendenze patologiche.

 

Ne Il rischio del piacere l’autrice, Anna Paola Lacatena, sottolinea da subito l’intento di invogliare il lettore ad andare oltre i pregiudizi comuni per poter guardare la dipendenza da sostanze come la soluzione a una sofferenza insostenibile. Ma se in un primo momento il tentativo di alleviare l’angoscia viene assolto, in un momento successivo la soluzione diventa il problema: la persona cade in un baratro di sofferenza insopportabile da cui è difficile venirne fuori.

L’importanza di considerare la tossicodipendenza non più come una scelta di lusso ma come una vera e propria malattia, lo è ancora di più per gli esperti del campo in quanto il loro modo di pensare la tossicodipendenza ha importanti ripercussioni sul trattamento dei pazienti in cui ciò che rappresenta l’elemento significativo è proprio la qualità della relazione di cura: una relazione terapeutica difficile che deve fare i conti con la frustrazione, la rabbia, l’angoscia, la continua riflessione sui fallimenti.

Ma se è vero che il piacere è un sentimento o un’esperienza che induce l’uomo in uno stato di benessere, quando la sua ricerca diventa ossessiva l’uomo finisce per diventarne dipendente. Questo meccanismo viene spiegato mettendo in evidenza l’interazione tra gli aspetti psicologici, sociali e quelli farmacologici caratteristici di ciascuna sostanza: così le nuove droghe e quelle da sempre conosciute quali cannabis, alcol, cocaina, eroina, metadone vengono illustrate esplicitandone gli effetti sul circuito del piacere e dando voce ai pazienti in carico al Serd di Taranto, che con le loro parole consentono al lettore di avvicinarsi alla loro voce, le loro opinioni, i loro sentimenti, la loro esperienza.

Il rischio del piacere: una riflessione sulle New Addiction

Ma oltre all’uso di sostanze, l’autrice fa una riflessione anche sulle new addiction e sulla relazione tra sesso e droghe, rimandando l’evidenza che anche questi comportamenti riescono ad attivare sistemi di ricompensa simili a quelli attivati dalle sostanze di abuso e producono alcuni sintomi comportamentali che sembrano comparabili a quelli prodotti dai disturbi da uso di sostanze: nell’Internet Addiction Disorder e la dipendenza dai social si fa spazio una patologica insensibilità al piacere, un narcisismo digitale in cui l’individuo perde la capacità di un piacere concreto, articolato e differito; nel Chemsex, nel tentativo di liberare il desiderio sessuale dai legacci della morale, amplificandone performance e piacere, si corre il rischio di creare una maratona fisica in cui resistenza e pericolo assumono un ruolo centrale.

Così, se nella società occidentale, la patologia più corrente sembra essere un narcisismo di civiltà che si esprime in un’esistenza immatura, alla ricerca dell’immediato, in una società senza padre e, dunque, senza punti di riferimento. E nulla come il settore delle dipendenze patologiche è espressione del contesto in cui la problematica è calata: d’altronde, a provare piacere qualcuno deve avertelo insegnato, insegnandoti il valore di te.

In conclusione

Il rischio del piacere è un testo chiaro, ricco di riferimenti scientifici e basato sulle ultime Evidence Based. Un linguaggio specifico che con un senso di ironia pungente sottolinea criticità e lascia spazio a spunti di riflessione.

In amore, minestra riscaldata non fu mai buona: ma è davvero così?

E’ risaputo che la fine di una relazione non sempre presenta dei contorni netti. Può capitare che i membri di una coppia indugino in una zona grigia laddove i contatti rimangono frequenti, spesso accompagnati da brevi ritorni di fiamma o veri e propri relapse sessuali che pospongono, più che scongiurare, la rottura definitiva.

 

Quando la rottura sopraggiunge poi, non è sempre facile mantenere la propria posizione, rispettare la decisione concordata o la volontà della controparte, a seconda che la chiusura sia stata decisa unilateralmente o in comune accordo. La tecnologia moderna ed i social media contribuiscono a rendere questo compito ancora più difficile, motivo per cui applicazioni come Blockyourex o Drunk mode hanno avuto grande successo nel cercare di arginare le possibili ricadute. Nello specifico, la prima app non consente di visualizzare i contenuti relativi all’ex partner su Twitter e Facebook, la seconda, invece, impedisce di scrivere o chiamare l’ex se non dopo aver risolto una complicata equazione, impossibile da risolvere se, ad esempio,la decisione è stata presa sotto l’effetto di alcool.

Tutte queste contromisure si basano su di un assunto ben preciso: cercare un contatto con un ex non è bene per te. Ma fino a che punto questo assioma va dato per scontato? Tre quarti degli studenti universitari intervistati da Spielman (2016) confermano la credenza che ricercare sesso con un ex possa ostacolare la ripresa a seguito di una rottura sentimentale. Tuttavia pare che il sesso con un ex partner sia estremamente comune: Mason, Sbarra, Bryan e Lee (2012) hanno riscontrato che il 22% delle coppie divorziate ha avuto rapporti sessuali dopo la separazione, così come il 27% dei giovani adulti intervistati da Halpern-meekin, Manning, Giordano e Longmore (2012) e il 40% dei giovani tra i 13 e i 17 anni sessualmente attivi, che dichiarano di aver intrapreso qualche tipo di attività sessuale con un ex partner nel corso dell’anno precedente (Manning, Giordano & Longmore, 2006).

Tentativi di riavvicinamento e attaccamento emotivo

Un recente studio sembra addirittura suggerire che la principale motivazione per rimanere amici con un ex possa proprio essere il mantenere aperta la possibilità di avere incontri sessuali con loro (Mogilski & Welling, 2017). Determinare se effettivamente questo comportamento abbia effetti negativi sulla “guarigione” post rottura (specialmente se questo dovesse alimentare un desiderio di vicinanza emotiva o sessuale che vanifichi sul lungo termine il desiderio e la possibilità di avere una chiusura), diventa particolarmente rilevante nella pratica clinica. Psiclogi e terapeuti sono chiamati spesso ad arginare gli effetti negativi derivanti dalle rotture sentimentali, come ad esempio difficoltà nella regolazione delle emozioni e rischio di un generale peggioramento della salute mentale, che nei casi più estremi sfociano in episodi depressivi o in ideazione suicidiaria (Sbarra & Ferrer, 2006; Ford-Wood, Asarnow, Huizar & Reise, 2007).

Nel tentativo di rispondere a questo interrogativo Spielmann, Joel e Impett hanno condotto due diversi studi, pubblicati su Archives of Sexual Behavior, volti a cogliere nel dettaglio la veridicità della presunta relazione tra la ricerca di intimità con un ex ed eventuali difficoltà nel riprendersi dopo una rottura sentimentale. Il primo studio ha coinvolto 113 partecipanti, provenienti da un campione più ampio di un precedente esperimento di Spielmann e colleghi, selezionati in virtù della recente fine della propria relazione. Nei giorni immediatamente successivi alla rottura con il partner, i soggetti hanno compilato una survey online preliminare, composta da quattro item sull’attaccamento emotivo residuo nei confronti dell’ex (e.g. “sono ancora innamorato di lui/lei”, punteggio da 1 “fortemente in disaccordo” a 5 “fortemente d’accordo”). Nel mese seguente hanno poi compilato quotidianamente un questionario, indicando eventuali tentativi di avvicinamento al proprio ex partner (e.g. “ho tentato di fare sesso con il mio ex” oppure “ho tentato di baciare, toccare o essere fisicamente affettuoso/a verso il/la mio/a ex partner”). I soggetti hanno poi indicato il proprio attaccamento emotivo verso l’ex di giorno in giorno ed è stato inoltre somministrato loro un questionario circa il malessere percepito a seguito della rottura (e.g. “mi sento angosciato dalla rottura”, “faccio generalmente fatica a gestire gli esiti della rottura”, “soffro molto a causa della rottura”, “faccio fatica ad accettare la fine della relazione”). Sono state poi analizzate le emozioni, sia positive (e.g. felice, allegro, grato, simpatetico, sollevato, etc) che negative (e.g. solo, isolato, depresso, deluso, umiliato, etc), emergenti a seguito della separazione dal partner e valutate su di una scala da 1 (“per niente“) a 7 (“molto“). Successivamente si è indagata la presenza di pensieri intrusivi mediante l’utilizzo dell’Impact of Events Scale, adattata da Lepore & Greemberg (2002) per valutare gli effetti di una rottura sentimentale (e.g. “Ho pensato alla rottura anche quando non ne avevo intenzione”). Da ultimo è stato chiesto ai soggetti di indicare su base giornaliera se fossero entrati o meno in contatto con l’ex partner.

I risultati ottenuti indicano che coloro i quali cercavano di avere un contatto intimo con l’ex hanno anche riportato un attaccamento emotivo maggiore rispetto coloro che non lo avevano fatto. Inoltre, l’attaccamento verso l’ex risultava essere maggiore nei giorni in cui si riscontravano tentativi di approccio. In generale, la ricerca di un contatto intimo con un ex non sembrava essere associato ad una prospettiva di recupero peggiore: nella fattispecie non si sono riscontrate associazioni con pensieri intrusivi o sofferenza generalizzata, addirittura, nei giorni in cui si verificavano tentativi di approccio verso l’ex, i soggetti sperimentavano più emozioni positive che negative. Nel testare la direzionalità di questi risultati (è il tentativo di fare sesso che aumenta l’attaccamento emotivo all’ex o è un maggiore attaccamento emotivo percepito ad indurre un tentativo di approccio?) si è riscontrato come ad un tentativo di approccio sessuale non seguisse una traiettoria peggiore di recupero il giorno seguente. Allo stesso modo, lo sperimentare sensazioni più intense verso l’ex partner in un determinato giorno non è risultato un valido predittore per il tentativo di approccio sessuale il giorno seguente.

Somministrando ai soggetti un questionario a due mesi di distanza dalla rottura è stato possibile verificare come la traiettoria di ripresa dopo la separazione rimanesse sostanzialmente invariata e l’attaccamento emotivo riscontrasse un progressivo declino, a prescindere che vi fossero stati o meno tentativi di approccio sessuale nei confronti dell’ex partner. Inoltre si è riscontrato come coloro che alla survey preliminare avessero riportato un attaccamento emotivo maggiore a poca distanza dalla rottura avessero una probabilità 1,74 volte maggiore di tentare un approccio fisico con l’ex.

Tentativi di riavvicinamento e recupero post-rottura

Il secondo studio condotto da Spielmann, Joel e Impett ha avuto l’obbiettivo di determinare se al di là dei tentativi dei soggetti, il fatto di essere effettivamente riusciti ad avere contatti sessuali con l’ex partner potesse aver determinato un outcome peggiore in termini di recupero post rottura. Il tasso di successo che seguiva ai tentativi di approccio si è dimostrato essere estremamente alto (tra l’84 e l’89% di successo), in secondo luogo si è riscontrata un’associazione positiva tra l’attaccamento emotivo e l’approccio sessuale, intentato o effettivamente riuscito, trascendendo quindi la reazione dell’ex partner.

Con le dovute limitazioni, i due studi presentati sembrano raccontare una storia che smentisce la saggezza popolare: fare sesso con un ex non sembra, in definitiva, comportare una maggiore difficoltà nel recupero che segue ad una rottura sentimentale. Tuttavia studi futuri dovrebbero indagare se l’effetto nullo riscontrato sia da attribuirsi al fatto che i soggetti che tentano un approccio sessuale con gli ex possano non avere attivato l’obiettivo di vicinanza in contemporanea con quello di chiusura, oppure tali obiettivi potrebbero essere entrambi presenti ma non in conflitto tra loro. In sostanza questi soggetti potrebbero beneficiare della vicinanza con l’ex partner, come ad esempio già suggerito dai risultati ottenuti da Mason et al. (2012) che vedeva i partecipanti con minore accettazione nei confronti del proprio divorzio beneficiare maggiormente dall’approccio sessuale con l’ex, in un periodo altrimenti arduo per il benessere personale. Da ultimo, sono auspicabili ulteriori studi che possano cogliere il modificarsi di tale traiettoria di guarigione, in funzione ad esempio di una nuova relazione intrapresa dal soggetto o dall’ex partner, o in quei casi in cui si continui a rivolgersi sessualmente all’ex per un periodo superiore al lasso considerato nei presenti studi.

 

La schizofrenia e le neuroscienze – Introduzione alla Psicologia

La schizofrenia è una malattia caratterizzata dalla presenza di deliri, di allucinazioni, visive o uditive, di deficit cognitivi, di memoria, di pianificazione, nonché di difficoltà a concentrarsi, organizzare i propri pensieri e portare a termine semplici attività della vita di tutti i giorni.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano


La schizofrenia è una patologia avente una componente biologico-genetica, accanto ad altri fattori eziopatogenetici, presenta un quadro di cronicità e ha come conseguenza un evidente scollamento dalla realtà. Infatti, chi ne soffre mostra delle difficoltà a distinguere tra esperienze reali e non reali, presenta un eloquio disorganizzato, pensieri non logici e reazioni emotive non consone al contesto vissuto.

La schizofrenia è una malattia degenerativa e debilitante, che si sviluppa negli ultimi anni dell’adolescenza o primi anni dell’età adulta.  Tende a insorgere tra i 20 e i 28 anni nei maschi, e tra i 26 e i 32 anni nelle femmine.  Le conseguenze della malattia possono essere devastanti, mettendo in alcuni casi a rischio la vita stessa di chi ne soffre.

La  schizofrenia  presenta sia sintomi positivi che sintomi negativi.

I sintomi positivi includono deliri e allucinazioni, pensiero disorganizzato e agitazione.

I sintomi negativi, invece, sono affettività coartata, povertà di pensiero, isolamento sociale, appiattimento emotivo, anedonia e apatia.

Spesso, queste manifestazioni possono essere precedute da una serie di sintomi prodromici, ad esempio l’isolamento dalla vita sociale, l’incapacità di svolgere il proprio lavoro, i comportamenti e le idee stravaganti, la trascuratezza nell’igiene personale e l’appiattimento dei rapporti affettivi.

Anatomia cerebrale della schizofrenia

I pazienti affetti da schizofrenia mostrano la presenza di ventricoli laterali di dimensioni maggiori rispetto a un soggetto sano, una diminuzione quantitativa del parenchima cerebrale e una riduzione delle dimensioni delle strutture temporali mesiali (Bordier, Nicolini & Bifone, 2017).

Nonostante la presenza di alterazioni fisiopatologiche in aree cerebrali specifiche possa essere una spiegazione sufficiente per alcuni segni della schizofrenia, essa non costituisce una spiegazione approfondita per la totalità dei sintomi del disturbo. Si ipotizza che i sintomi, quali deliri e allucinazioni, siano meglio compresi in termini di interazioni o integrazioni anomale tra aree corticali differenti.

Un’integrazione disfunzionale è espressa a livello fisiologico come anomala connettività funzionale, misurabile tramite tecniche di neuroimaging, e a livello cognitivo come un fallimento nell’integrazione tra percezione e azione che si manifesta come sintomatologia clinica. Le evidenze relative ad anomalie funzionali e strutturali a livello della corteccia prefrontale e dei lobi temporali sono solide, in particolare nell’emisfero sinistro. Tramite l’utilizzo della PET, si sono rilevate differenze significative tra soggetti affetti da schizofrenia e soggetti normativi rispetto alla connettività tra aree prefrontali e temporali: i soggetti affetti da
schizofrenia riportavano infatti anomalie nella connettività funzionale tra queste due aree. In particolare, sono state rilevate interazioni negative tra l’area prefrontale sinistra e le aree temporali bilaterali superiori in soggetti normativi ma non nei soggetti affetti da schizofrenia.

Viceversa, è stata mostrata una correlazione positiva tra l’area prefrontale sinistra e l’area temporale sinistra nei pazienti affetti da schizofrenia e non nei soggetti normativi. Questi risultati indicano non solo differenze significative a livello regionale specifico e differenze importanti nella connettività funzionale tra le due aree, ma anche una completa inversione nella natura della connettività tra ampie aree prefronto-temporali. Questa inversione potrebbe essere interpretata come un fallimento della corteccia cerebrale nell’inibire l’attività dei lobi temporali (o viceversa). Tali anomalie risultano particolarmente rilevanti considerando che molti sintomi positivi della schizofrenia riflettono un fallimento nell’integrazione del comportamento intrinsecamente generato e i fenomeni percettivi co-occorrenti. Anomalie cerebrali si riscontrano a livello cerebrale in gemelli monozigoti discordanti per diagnosi di schizofrenia (Suddath et al., 1990).

Schizofrenia: studi sui gemelli

Recenti studi neuroradiologici e neuropatologici indicano che almeno alcuni pazienti con schizofrenia hanno ventricoli cerebrali leggermente allargati e sottili anomalie anatomiche nella regione dell’ippocampo anteriore. Usando la risonanza magnetica (MRI), sono stati studiati una serie di 15 gemelli monozigoti discordanti per la schizofrenia (fascia di età, da 25 a 44 anni; 8 coppie maschili e 7 femminili). Per ciascuna coppia di gemelli, le sezioni coronali contigue pesate in T1 (spessore 5 mm) sono state confrontate alla cieca e le misurazioni quantitative delle strutture cerebrali sono state effettuate con un sistema computerizzato di analisi delle immagini. In 12 delle 15 coppie discordanti, il gemello con schizofrenia è stato identificato mediante ispezione visiva degli spazi del liquido cerebrospinale. In due coppie nessuna differenza poteva essere individuata visivamente, e in una il gemello con schizofrenia era stato identificato erroneamente. L’analisi quantitativa delle sezioni attraverso il livello dell’ippocampo ha mostrato che questa area è più piccola a sinistra in 14 dei 15 gemelli affetti, rispetto ai loro gemelli normali e più piccolo a destra in 13 gemelli affetti (entrambi P <0,001). Nei gemelli con schizofrenia, rispetto ai loro gemelli normali, i ventricoli laterali erano più grandi a sinistra in 14 (P <0,003) e a destra in 13 (P <0,001). Anche il terzo ventricolo era più grande in 13 gemelli con schizofrenia (P <0,001). Nessuna di queste differenze è stata trovata in sette gruppi di gemelli monozigoti senza schizofrenia che sono stati studiati allo stesso modo come controlli. Inoltre, sottili anomalie dell’anatomia cerebrale (vale a dire un diminuito volume dell’ippocampo anteriore e una maggiore ampiezza dei ventricoli laterali e del terzo ventricolo) sono caratteristiche neuropatologiche coerenti della schizofrenia la cui causa è almeno in parte non genetica.

Anomalie cerebrali nella schizofrenia e ipossia fetale

Le riduzioni della sostanza grigia corticale e gli aumenti del liquido cerebrospinale (CSF) sono correlati della schizofrenia, ma i loro rapporti con fattori di rischio ostetrici e altri fattori eziologici rimangono da stabilire. Interviste diagnostiche strutturate, registri ospedalieri ostetrici e scansioni di risonanze magnetiche cerebrali sono state ottenute per 64 pazienti schizofrenici o
schizoaffettivi (rappresentativi di tutti questi probandi in una coorte di nascita di Helsinki, in Finlandia), insieme a 51 dei loro fratelli sani e 54 soggetti di controllo demograficamente simili senza storie familiari di psicosi.

L’ipossia fetale ha predetto una riduzione della materia grigia e un aumento del liquido cerebrospinale bilaterale in tutta la corteccia nei pazienti (dimensioni dell’effetto materia grigia, da -0,31 a -0,56; dimensioni dell’effetto CSF, da 0,25 a 0,47) e fratelli (dimensioni dell’effetto materia grigia, da 0,33 a 0,47; effetto CSF dimensioni, da 0,17 a 0,33), più fortemente nel lobo temporale. Le dimensioni dell’effetto erano da 2 a 3 volte maggiori nei casi di soggetti nati piccoli per la loro età gestazionale. L’ipossia era anche significativamente correlata all’allargamento ventricolare, ma solo tra i pazienti (dimensione dell’effetto, 0,31). Al contrario, l’ipossia fetale non era correlata alla sostanza bianca tra pazienti e fratelli, né a nessun tipo di tessuto in nessuna regione tra i controlli. Le associazioni erano indipendenti dall’appartenenza alla famiglia, dal volume generale del cervello, dall’età, dal sesso, dall’abuso di sostanze e dall’infezione prenatale. L’ipossia fetale è risultata quindi associata a maggiori anomalie cerebrali strutturali tra i pazienti schizofrenici e i loro fratelli non schizofrenici rispetto ai controlli a basso rischio genetico per la schizofrenia.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Doc post-partum: “Ho paura di far del male al mio bambino”

La motivazione che ci spinge ad approfondire questo tema è stato il desiderio di esplorare le ragioni che hanno portato alcune neo-mamme a rivolgersi ai Servizi di Salute Mentale. La maggior parte di esse ha ricevuto una diagnosi di Disturbo Depressivo Post Partum, mentre una minoranza manifestava un Disturbo Ossessivo Compulsivo Post Partum

 

La nascita di un bambino rappresenta un evento unico che concretizza il progetto di una coppia di creare una famiglia. I futuri genitori sperimentano, durante l’attesa, un periodo di formazione e apprendimento che li traghetterà, gradualmente, dalla condizione di figli a quella di genitori.

Alla fine il bambino tanto desiderato arriva e la neo-mamma si trova a fare i conti con nuovi impegni e necessità che possono spaventarla e farla sentire tremendamente inadeguata e impaurita dall’eccessiva responsabilità.

Depressione post-partum e Disturbo Ossessivo Compulsivo Post Partum

La motivazione che ci ha spinto ad approfondire questo tema è stato il desiderio di esplorare le ragioni che hanno portato alcune neo-mamme a rivolgersi ai Servizi di Salute Mentale. La maggior parte di esse ha ricevuto una diagnosi di Disturbo Depressivo Post Partum, mentre una minoranza manifestava un Disturbo Ossessivo Compulsivo Post Partum. I disturbi depressivi post partum sono i più conosciuti e vi sono numerosi studi in materia, ma del Doc post partum non se ne parla molto. Le future mamme vengono preparate, durante la gravidanza, alla possibilità di provare tristezza e angoscia dopo il parto, ma non viene fatta parola sulla possibilità di sviluppare un DOC. Le donne che si trovano a soffrire di Doc post partum riferiscono di avere pensieri “strani” tutte le volte che si trovano sole con il bambino.

I pensieri vengono spesso descritti come immagini violente, inquietanti tipo: prendere un coltello e ferire a morte il bambino o percuoterlo contro un muro. Il momento del bagnetto diventa particolarmente angosciante per la paura di non resistere all’impulso di annegarlo.

A questo riguardo, in letteratura è stato evidenziato che i pensieri indesiderati riguardo il fare del male al proprio bambino sono riportati dalla stragrande maggioranza delle neo-mamme; la metà di loro, infatti, riporta di avere avuto pensieri indesiderati e intrusivi di aggredire il proprio figlio intenzionalmente (Fairbrother et al., 2008).

Questi pensieri sono molto angoscianti sia per le donne che per i loro partner. I pensieri materni, indesiderati e intrusivi, sono noti per essere associati al disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) e alla depressione. Alcuni studi suggeriscono che tali pensieri non sono associati ad un aumentato rischio di aggredire il proprio bambino (Collardeau & Fairbrother, 2019).

Questi ultimi possono includere (Abramowitz et al. 2006), ad esempio:

  • idee di soffocamento e sindrome della morte infantile improvvisa (81,4-90%);
  • incidenti (83,7-92%);
  • contaminazione (53,5-59%);
  • danno intenzionale (32,6-46%).

Questi pensieri, di solito, raggiungono il picco di intensità durante le prime settimane dopo il parto (Brok et al. 2017).

Disturbo Ossessivo Compulsivo Post Partum: è rischioso per il bambino?

Una preoccupazione chiave nello studio del Disturbo Ossessivo Compulsivo Post Partum è quella di capire la reale possibilità che le intrusioni indesiderate di questi pensieri possano rappresentare un reale fattore di rischio per i comportamenti violenti nei confronti del proprio figlio. Se i pensieri indesiderati di far del male al proprio bambino fossero predittivi di comportamenti violenti, allora sarebbe necessario agire adottando misure drastiche, come ad es. allontanare il bambino dalla madre per proteggerlo. Al contrario, se questi pensieri indesiderati e intrusivi fossero, in realtà, un’esperienza post-partum comune, che predisponesse una donna, già vulnerabile, a difficoltà di salute mentale (ad esempio disturbo ossessivo-compulsivo, DOC), allora l’allontanamento dal figlio potrebbe essere molto dannoso.

Alcuni studi (Brewin et al., 1996) suggeriscono che i pensieri intrusivi materni di danneggiamento assomigliano molto ai pensieri, immagini e impulsi indesiderati della maggior parte della popolazione generale.

Questo tipo di pensieri molto comuni hanno dimostrato la predisposizione allo sviluppo e/o all’aggravarsi del disturbo ossessivo compulsivo in individui vulnerabili. I pensieri intrusivi materni sembrano essere più frequenti in situazioni con alti livelli di stress ed in presenza di prolungati stati emotivi negativi (Brewin et al., 1996).

Non sorprende, quindi, che quando le nuove mamme sperimentano pensieri indesiderati, il contenuto dei pensieri è spesso collegato al bambino, proprio perché l’accudimento è una fonte di forte stress.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo Post Partum ha implicazioni potenzialmente negative per la maternità, il funzionamento coniugale, lo sviluppo infantile e il sostegno sociale. Inoltre, lo stress e l’ansia in gravidanza sono associati a compromissione dello sviluppo fetale e infantile, sofferenza materna e esiti cognitivi e temperamentali negativi per il bambino (Matthey et al., 2016).

Rischio di sviluppare un DOC Post Partum

Ma può succedere a tutti?

Le ricerche epidemiologiche ci dicono che fra i fattori predisponenti l’esordio del Disturbo Ossessivo Compulsivo Post Partum troviamo:

  • Esperienze associate con il parto pre o post termine, il taglio cesareo e la primiparità;
  • Premorbosità del disturbo evitante e ossessivo-compulsivo di personalità;
  • Donne con una storia psichiatrica precedente;
  • Complicazioni ostetriche in gravidanza o legate al parto;
  • Disturbi somatici.

Le ricerche scientifiche ci dicono anche che attraverso una diagnosi precoce è possibile strutturare un percorso terapeutico multidimensionale attraverso il lavoro di èquipe.  Per concludere riteniamo di fondamentale importanza l’introduzione, durante la fase di preparazione al parto, di un intervento psicoeducativo volto alla conoscenza dell’esistenza del Disturbo Ossessivo Compulsivo Post Partum. Questo permetterebbe alle donne di poter normalizzare i pensieri che possono comparire dopo il parto.

Relazione tra mindfulness disposizionale e sintomi depressivi: il ruolo della ruminazione

Nel mondo più di 300 milioni di persone soffrono a causa degli effetti negativi della depressione, gli studi hanno messo in luce come la mindfulness possa risultare sia un fattore protettivo che un intervento efficace rispetto ai sintomi depressivi.

 

Nel mondo più di 300 milioni di persone soffrono a causa degli effetti negativi della depressione, patologia che è stata identificata come causa principale di disabilità a livello mondiale. Diversi studi hanno messo in luce come la mindfulness possa risultare sia un fattore protettivo che un intervento efficace rispetto ai sintomi depressivi (Baer 2003; Hofmann et al., 2010), anche se i meccanismi sottostanti tale effetto rimangono per la maggior parte sconosciuti.

La Mindfulness in campo psicologico

La mindfulness è un’area di ricerca relativamente nuova in psicologia che ha cominciato ad essere studiata più approfonditamente a seguito dell’aumentata popolarità delle pratiche di consapevolezza in occidente a partire dagli anni settanta. Tale disciplina trova le sue radici in tradizioni spirituali differenti, quali l’Induismo, il Buddismo e lo yoga.

Le pratiche di mindfulness vengono definite come pratiche meditative il cui obiettivo consiste nel concentrare intenzionalmente la propria attenzione sulle esperienze che hanno luogo al momento presente, internamente ed esternamente, in modo non giudicante, raggiungendo quindi uno stato di consapevolezza.

Mindfulness e sintomi depressivi – Il ruolo della ruminazione

In uno studio recentemente pubblicato su Mindfulness la relazione tra mindfulness e sintomi depressivi è stata ulteriormente approfondita: è stato infatti evidenziato che le persone caratterizzate da una più elevata propensione disposizionale alla mindfulness tendono a riportare livelli di ruminazione sugli eventi passati inferiore, e di conseguenza minori sintomi depressivi. La ruminazione viene definita come una modalità di pensiero ripetitiva, automatica e negativa rispetto a se stessi.

Tale modalità viene spesso utilizzata come strategia disfunzionale per la gestione di situazioni difficili o di emozioni negative, quali ansia, paura e senso di sconfitta. Coloro che mettono in atto un pensiero ruminativo tendono a fissarsi sulle emozioni negative analizzandone ripetutamente le implicazioni a livello mentale. La ruminazione è stata identificata come un predittore affidabile rispetto all’esordio, al mantenimento e alla severità della depressione.

Lo studio di Jury e Jose (2019) è stato condotto in Nuova Zelanda, dove i ricercatori hanno sottoposto a 483 adulti tra i 16 e gli 80 anni questionari self-report che andavano a valutare aspetti di mindfulness, ruminazione e depressione. Tali questionari sono stati compilati all’inizio dello studio, dopo 3 mesi e infine dopo 6 mesi. Al termine dello studio è emerso che tre specifiche componenti della mindfulness, ovvero agire con consapevolezza, non giudicare e non reagire, risultavano correlare negativamente con i sintomi depressivi, e che tale relazione risultava mediata dalla ruminazione.

In altre parole, i partecipanti che avevano riportato punteggi più elevati rispetto alle tre specifiche componenti di mindfulness all’inizio dello studio erano meno propensi a mettere in atto cicli di pensiero ruminativo 3 mesi dopo, e questo risultava a sua volta associato a un livello minore di sintomi depressivi dopo ulteriori 3 mesi. I risultati emersi evidenziano quindi che è più probabile che individui che tendono a essere maggiormente consapevoli delle proprie azioni al momento presente e a non giudicare i loro pensieri e le loro emozioni accettandole e lasciandole essere, sperimentino livelli inferiori di ruminazione e, di conseguenza, minori livelli di sintomi depressivi.

Mindfulness, depressione e ruminazione: un risultato inatteso

I ricercatori hanno rilevato anche un risultato inatteso: infatti una componente della mindfulness, nota come osservare, è risultata positivamente associata alla ruminazione e quindi ai sintomi depressivi. La componente dell’osservare descrive il prestare attenzione a sensazioni che compaiono a livello mentale e corporeo. Tali risultati suggeriscono la possibilità che i trattamenti basati sulla mindfulness che enfatizzano le componenti dell’agire con consapevolezza, del non giudicare e del non reagire possano portare ad una maggiore riduzione della ruminazione e dei sintomi depressivi rispetto a trattamenti che si concentrano su altre componenti. Dallo studio preso in esame emerge inoltre la natura opposta della mindfulness rispetto alla ruminazione.

Come già riportato da Selby e colleghi (2016), il controllo attentivo costituisce un elemento chiave della mindfulness, mentre la ruminazione è caratterizzata da una mancanza di tale controllo. Dunque, un individuo che metta in atto pratiche di consapevolezza ed eserciti quindi un controllo attentivo sulla propria esperienza, sarà propenso in misura minore ad ingaggiarsi in cicli di pensiero ruminativi.

 

Sindrome premestruale: tra mito e realtà

Le persone che soffrono di Sindrome Premestruale, specialmente quelle che hanno una vulnerabilità per la depressione, potrebbero sviluppare un vero e proprio disturbo disforico premestruale, con tutte le conseguenze che questo comporta.. 

 

“Non è colpa mia, sono gli ormoni!”. Sottotitolato: non puoi lamentarti del mio umore e, soprattutto, non provare per nessuna ragione a darmi la colpa!

Essere Donne è una scuola di sangue: tutti i mesi offriamo a noi stesse il suo spettacolo odioso (Oriana Fallaci)

E così, care donne, ce la caviamo e usciamo più o meno illese da giorni particolari, in cui ci eravamo trasformate in un pericoloso incrocio tra un T-Rex e Bambi abbandonato sul ciglio della strada, con qualche tratto di Signorina Rottermeier.

Sindrome premestruale: cos’è, al di là di falsi miti

Durante queste settimane di “metamorfosi”, mentre noi donne cerchiamo di combattere gli sbalzi ormonali, è possibile assistere a una vera e propria selezione naturale. Alcuni dei nostri conoscenti non sopravvivono a più di due/tre cicli mestruali, altri riconoscono la “trasformazione” da lontano e ci evitano come la peste; poi ci sono le peggiori vittime, spesso i partner o i genitori, che sviluppano straordinarie abilità di sopravvivenza.

Ma siamo proprio sicure che sia tutta colpa degli ormoni? E soprattutto, quando si può parlare realmente di Sindrome Premestruale? Care donne, mi dispiace per tutte noi ma sembra proprio che gli sbalzi ormonali non bastino più per giustificare i nostri scoppi di rabbia o i nostri pianti isterici…

In questo breve articolo cercheremo quindi di fare un po’ di chiarezza sulla Sindrome Premestruale, smascherando falsi miti e credenze erronee per aiutare le donne, ma anche gli uomini, ad affrontare con maggiore consapevolezza questo fenomeno.

Prima di iniziare a parlare di miti e credenze, è bene fare un’opportuna distinzione tra la più conosciuta Sindrome Premestruale (SP) e il Disturbo Disforico Premestruale (DDP).

Il Disturbo Disforico Premestruale è caratterizzato da irritabilità, labilità dell’umore, ansia e umore marcatamente depresso. Questi sintomi si verificano precedentemente alla fase mestruale del ciclo (intorno ai 9 giorni precedenti) e terminano subito dopo la sua comparsa. Essi comportano cambiamenti psicologici e fisici e, per poter fare diagnosi, si devono verificare nella maggior parte dei cicli durante l’ultimo anno e causare un distress sociale-lavorativo significativo. I sintomi possono riguardare anche un diminuito interesse per le attività abituali, difficoltà di concentrazione, letargia e facile faticabilità, modificazioni nell’appetito, modificazioni del ciclo del sonno, sensazione di perdita di controllo e sintomi fisici come dolore al seno o dolori muscolari (APA, 2014).

Per poter fare diagnosi di DDP, inoltre, è necessario che si verifichino almeno cinque sintomi tra quelli precedentemente elencati. Questi non devono essere l’esacerbazione di un altro disturbo (come un disturbo depressivo maggiore, un disturbo di panico o un disturbo di personalità) e non devono essere altresì attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza o di una condizione medica. Nel caso non si raggiunga tale criterio di numerosità, o nel caso in cui l’intensità della sintomatologia sia più lieve, si parla di Sindrome Premestruale (APA, 2014).

Sindrome Premestruale e del Disturbo Disforico Premestruale: cosa ci dicono i dati

Tutte le donne soffrono di Sindorme Premestruale o Disturbo Disforico Premestruale? No!

L’85% delle donne in età riproduttiva presenterebbe una lieve e facilmente gestibile sintomatologia premestruale; il 20-25% presenterebbe invece una sintomatologia più severa tale da poter fare diagnosi di Sindrome Premestruale; infine solo il restante 5% soddisferebbe i criteri per un vero e proprio Disturbo Disforico Premestruale, con importanti conseguenze nella propria vita quotidiana, relazionale e lavorativa (Di Scalea e Pearlstein, 2017).

Le donne che soffrono di tali disturbi, infatti, andrebbero ad affrontare notevoli perdite economiche dovute all’aumentato assenteismo al lavoro, ad una diminuita produttività e una maggiore ricerca di sostegno sanitario (Ducasse et al., 2016).

La Sindrome Premestruale si conclude prima dell’inizio del ciclo? Si!

Nonostante il prefisso “pre” indichi chiaramente che i sintomi si manifestino prima del ciclo mestruale, molte donne confondono alcuni sintomi che compaiono durante la mestruazione (come irritabilità, gonfiore, faticabilità e alterazione dell’appetito) con la Sindrome Premestruale. Tuttavia, come già specificato, i sintomi si manifestano nella fase luteale del ciclo mestruale: tendenzialmente peggiorano una settimana prima e raggiungono il picco circa i due giorni precedenti l’inizio del ciclo; inoltre la durata della sintomatologia varia da donna a donna e va da un minimo di qualche giorno a un massimo di due settimane (Ryu e Kim, 2015).

Sindrome premestruale: sono tutte scuse? No!

Le persone che soffrono di Sindrome Premestruale, specialmente quelle che hanno una vulnerabilità per la depressione, potrebbero sviluppare un vero e proprio disturbo disforico premestruale, con tutte le conseguenze che questo comporta (Ducasse et al., 2016).

Inoltre, nonostante i risultati presenti in letteratura siano ancora controversi, alcune ricerche mostrano una relazione significativa tra il Disturbo Disforico Premestruale e tentativi di suicidio (Shams-Alizadeh et al., 2018; Pilver, Libby e Hoff, 2013).

In generale la ricerca è concorde nel riconoscere l’alta comorbilità con altri disturbi psicopatologici come i disturbi dell’umore (31%) e i disturbi d’ansia (25%) (Ducasse et al., 2016).

Sindrome premestruale e ormoni

Sindrome premestruale: è solo una questione di ormoni? No!

Le fluttuazioni ormonali, sebbene vengano considerate una componente chiave nella patogenesi del Disturbo Disforico Premestruale, non possono essere considerate l’unica causa degli sbalzi d’umore e degli altri sintomi della Sindrome Premestruale. Nonostante le donne con Disturbo Disforico Premestruale risultino ipersensibili ai cambiamenti ormonali normali che si verificano durante il ciclo mestruale, l’eziologia di tali disturbi rimane ancora non chiara (Ryu e Kim, 2015). I fattori biologici, come appunto i cambiamenti ormonali o alcuni aspetti genetici, non sembrano essere sufficienti per spiegare i disturbi premestruali (Eggert et al., 2016).

Alcuni teorici sottolineano, per esempio, il ruolo di fattori sociali come la religione, le credenze culturali sul ciclo mestruale, le condizioni socio-economiche e il contesto nel quale vive la donna (Elyasi e Zendehdel, 2018). Infatti il modo in cui le donne appartenenti a culture diverse sperimentano fluttuazioni dell’umore durante il ciclo mestruale, varia in modo significativo da paese a paese (Eissa, 2010).

Sebbene le spiegazioni psicologiche risultino ancora controverse, secondo alcuni ricercatori i disturbi premestruali sarebbero associati a particolari tratti di personalità.

Eissa (2010), per esempio, sottolinea la relazione tra il perfezionismo e la Sindrome Premestruale, ma trova correlazioni soltanto con i sintomi fisici e non quelli psicologici.

Nel 2016, invece, Eggert e collaboratori hanno dimostrato che le donne con Sindrome Premestruale, a differenza del gruppo di controllo, mostrava significative difficoltà nella regolazione delle emozioni. Sempre a proposito di emozioni, sembrerebbe che donne con alti livelli di rabbia corrano un rischio maggiore di soffrire di Sindrome Premestruale o di Disturbo Disforico Premestruale (Ducasse, 2016).

Sebbene la letteratura non abbia ancora chiara l’eziologia di tali disturbi, questi risultati lasciano spazio ad un’interpretazione bio-psico-sociale del fenomeno (Eissa, 2010).

“Sono fatta così, non ci posso fare niente!” Falso!

Anche nelle situazioni meno critiche, in cui la sintomatologia è lieve, si possono avere degli accorgimenti che possono portare effetti benefici e migliorare la nostra routine nel periodo premestruale.

Innanzitutto, semplici modifiche al nostro stile di vita possono aiutare ad alleviare i sintomi premestruali. Per esempio, svolgere attività aerobica regolare (come pilates, camminata veloce o corsetta leggera), cercare di mantenere una buona regolarità del sonno, aumentare il consumo di carboidrati complessi (come pasta, pane e tuberi) e assumere carbonato di calcio, potrebbe già alleviare i sintomi premestruali (Ryu e Kim, 2015). Inoltre, diventare più consapevoli delle situazioni che favoriscono il nostro stress e cercare di modificarle, sembrerebbe avere un ruolo fondamentale per il benessere premestruale (Ryu e Kim, 2015).

Un ulteriore aiuto potrebbe arrivare dall’erboristeria e in particolare, dall’utilizzo dell’agnocasto (detto anche “pepe falso” o “pepe del monaco”). Questa pianta officinale, infatti, ridurrebbe l’emissione di estrogeni, progesterone e prolattina, diminuendo di conseguenza i sintomi fisici del disturbo premestruale. I sintomi fisici, inoltre, potrebbero essere ridotti anche utilizzando contraccettivi orali come per esempio l’estradiolo e il drospirenone (Ryu e Kim, 2015).

Nei casi di Disturbo Disforico Premestruale e in generale nelle situazioni in cui la sintomatologia è grave e invalidante, la letteratura consiglia un trattamento farmacologico o psicoterapeutico.

Riguardo al trattamento psicoterapeutico, la maggior parte degli studi fa riferimento alla terapia cognitivo comportamentale: la persona può imparare ad utilizzare nuove strategie di coping e diventare più consapevole dei propri pensieri e delle proprie emozioni (Hantsoo e Epperson, 2015; Ryu e Kim, 2015).

A livello farmacologico, invece, il trattamento di elezione è rappresentato dagli antidepressivi SSRIs (Ryu e Kim, 2015).

Poiché i disturbi premestruali derivano dall’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali, anche il trattamento dovrebbe integrare interventi terapeutici con interventi psicoeducativi e di sostegno.

Alcune ricerche, per esempio, hanno mostrato che un buon rapporto con la madre e la percezione di avere un buon supporto sociale da parte di familiari e partner, modera l’impatto dei sintomi premestruali soprattutto nelle donne con alti livelli di perfezionismo (Haywood, Slade e King, 2007). Allo stesso modo, una mancanza di supporto sociale sembrerebbe aggravare la sintomatologia (Eissa, 2010).

Il ruolo dell’attività fisica nella prevenzione e nel trattamento della depressione

Il Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) è un disturbo mentale fortemente diffuso nella maggior parte delle culture, il quale raggiunge una prevalenza che si attesta tra il 6% e il 18% nel mondo. Tale patologia è inoltre la prima causa di disabilità a livello mondiale e comporta costi notevoli sia dal punto di vista personale che sociale.

 

Disturbo depressivo maggiore: sintomi e trattamenti

I sintomi principali del Disturbo Depressivo Maggiore includono umore deflesso, diminuzione dell’interesse o del piacere per la maggior parte delle attività quotidiane, diminuzione della motivazione, incremento o decremento di appetito e peso, insonnia o ipersonnia, agitazione o ritardo psicomotorio, affaticamento, sintomi cognitivi quali deficit di memoria, pensieri suicidari con o senza pianificazione e tentativi effettivi di suicidio.

Oltre a influire significativamente sul benessere e sulla salute mentale, è stato più volte evidenziato come le persone affette da  Disturbo Depressivo Maggiore abbiano uno stato di salute fisica più cagionevole, essendo frequentemente portatori di malattie cardiovascolari e diabete, e riportando una mortalità precoce di circa dieci anni rispetto al resto della popolazione.

Il trattamento di elezione per le persone con diagnosi di DDM consiste nella prescrizione congiunta di antidepressivi e psicoterapia, ma entrambe queste componenti non risultano efficaci per tutti i pazienti affetti da Disturbo Depressivo Maggiore. Data l’entità dell’influenza negativa di questa patologia sia sul piano personale che su quello sociale, risulta necessario identificare ulteriori fattori che possano portare a un miglioramento delle terapie attuali per questa condizione clinica.

Depressione: gli effetti dell’esercizio fisico

In una review recentemente pubblicata su Current Sports Medicine Reports, Schuch e Stubbs (2019) hanno evidenziato come l’adozione di una pratica regolare di esercizio fisico possa contribuire alla diminuzione del rischio di sviluppare un quadro depressivo, nonché risultare un’utile strategia per il trattamento effettivo della depressione, riducendo l’intensità dei sintomi depressivi e migliorando la qualità di vita e la salute fisica dell’individuo affetto da depressione.

In primo luogo, gli autori hanno analizzato i dati provenienti da 49 studi prospettici, per un totale di 266.939 partecipanti, relativi all’effetto dell’attività fisica sulla prevenzione dello sviluppo di un quadro depressivo. Nella metanalisi è stato messo in luce che, presi in considerazione fattori quali l’età, il sesso biologico e lo stato di fumatore, la pratica regolare di esercizio fisico aiutava a ridurre il rischio di sviluppare depressione del 17%. Tale effetto è stato confermato per tutte le fasce d’età dei partecipanti (bambini e adolescenti, adulti e anziani) e in tutti i continenti in cui gli studi sono stati condotti (Asia, Europa, America e Oceania).

Schuch e Stubbs hanno inoltre analizzato studi che andavano a valutare l’efficacia dell’attività fisica come trattamento per un DDM già diagnosticato. In particolare, gli autori riportano una metanalisi da loro condotta nel 2016, la quale includeva 25 studi dal campione complessivo di 1487 persone affette da depressione, di cui 757 erano state assegnate casualmente ad una condizione di esercizio fisico mentre le altre 730 a una condizione di controllo. Al termine della metanalisi era stato evidenziato un effetto antidepressivo ampio e significativo favorito dall’esercizio fisico. I meccanismi neurobiologici sottostanti gli effetti antidepressivi dell’esercizio fisico sono per la maggior parte sconosciuti, ma studi precedenti hanno ipotizzato diversi fattori compartecipanti quali infiammazione, stress ossidativo e rigenerazione neurale. I livelli dei marker di infiammazione e stress ossidativo risulterebbero infatti maggiori negli individui affetti da depressione, ed è stato dimostrato che l’esercizio fisico è in grado di promuovere un aumento di enzimi antiossidanti e antinfiammatori. Inoltre, le persone con DDM riportano livelli inferiori di fattore neurotrofico cerebrale (Brain-derived neurotrophic factor, BDNF), un marker di plasticità e crescita neuronale, e l’esercizio fisico è risultato promuovere, nello specifico, la plasticità neuronale.

L’esercizio fisico regolare è quindi in grado di ridurre i sintomi depressivi in persone affette da DDM ma, analogamente ad altri tipi di trattamento, l’attività fisica può non funzionare con lo stesso grado di efficacia per tutti i pazienti. Schuch e Stubbs riportano una serie di fattori moderatori associati a un maggiore grado di risposta positiva all’esercizio fisico in persone affette da depressione, quali un maggiore livello di BDNF, un migliore funzionamento globale dal punto di vista clinico, una maggiore autostima e soddisfazione di vita e la presenza di supporto sociale.

Iniziare e continuare un programma regolare di attività fisica è una sfida per qualsiasi popolazione clinica e questo risulta valido anche per gli individui con Disturbo Depressivo Maggiore. Elementi importanti per evitare il drop-out dal trattamento, che si attesta intorno al 18%, sono la presenza di motivazione autonoma all’esercizio fisico, considerato dalla persona piacevole o stimolante, la supervisione da parte di esperti in pratiche sportive, e il supporto sociale da parte di amici e familiari. Risulta quindi fondamentale adattare la prescrizione di attività fisica per le persone affette da depressione tenendo in considerazione le preferenze individuali e le esperienze pregresse del singolo paziente, incoraggiandolo a svolgere tali pratiche in compagnia in modo da rendere l’esperienza il più piacevole e motivante possibile.

 

Il corpo e la riparazione del sé. Mindufulness e approccio corporeo in NeuroPsicosomatica (2018) di Silvia Ghiroldi – Recensione del libro

L’Autrice Silvia Ghiroldi, Psicologa e Counselor Relazionale ne Il corpo e la riparazione del sé, ha voluto ordinare e raccogliere in un volume la sua esperienza, trascorsa a comprendere i processi di crescita ed i percorsi di intervento volti alla scoperta di un’individualità profonda quanto unica.

 

Le neuroscienze, per l’Autrice, ci permettono di constatare come il Sé corporeo sia una componente primaria dello sviluppo della persona.

Esso pone le basi per lo sviluppo dei successivi piani dell’individuo, fino all’organizzazione di tutti i livelli psicocorporei nella loro globalità e costante interrelazione. L’uomo è inteso in una visione sistemica, come un insieme funzionale di piani interagenti tra loro ed in costante interazione con il contesto, guidati da un elemento centrale: la coscienza di Sé.

Il corpo e la riparazione del sé: l’importanza del se corporeo

Il corpo e la riparazione del sé ci mostra una visione sistemica dell’approccio alla NeuroPsicosomatica dell’uomo e quindi come i diversi piani del Sé interagiscono tra loro. Ci mostra inoltre, come un Sé corporeo sia prevalente nella primaria esperienza di vita e come guidi la formazione dei piani successivi del Sé. A tal proposito la Dott.ssa Ghiroldi osserva quanto segue:

Risulta sempre più chiaro che l’essere umano si struttura in un’interazione tra il suo genotipo, il contesto relazionale ed il contesto ambientale in cui si trova, pertanto in un soggetto adulto non è facile separare ciò che è innato e ciò che non lo è. Già l’ambiente uterino, infatti, determina caratteristiche permanenti nell’individuo che non dipendono dalla sequenza dei suoi geni, ma che dureranno per tutta la vita.

Il bambino in quest’ottica, ricevendo rinforzi verso certi repertori emotivi e comportamentali o il rifiuto rispetto ad altri vissuti, crescendo privilegerà specifiche modalità e funzioni e ne bloccherà altre, modificando la sua struttura in tutti i diversi piani del Sé.

Il volume Il corpo e la riparazione del sé prosegue nell’analisi dello studio della Neuropsicosomatica, nella descrizione degli elementi relativi al contatto con il ricevente e degli strumenti di consapevolezza, con l’illustrazione di alcune specifiche tecniche corporee prese in esame.

Vengono inoltre analizzati i parametri del Sé quali passi imprescindibili al fine di operare adeguatamente in tale approccio di studio. L’autrice ne individua dieci ripartiti equamente in: parametri di stabilità sociale e parametri dell’identità psicosomatica.

Viene inoltre sottolineata l’importanza che ha per l’individuo, la genesi dei blocchi psicosomatici in quanto funzionali, a proteggere il Sé da eventi portatori di sofferenza, paura, dolore e disagio o al perseguimento del piacere.

Il corpo e la riparazione del sé: le tecniche psicosomatiche

Le tecniche psicosomatiche, differenziate secondo quattro gradi di intensità vengono magistralmente presentate quali strumenti efficaci all’attivazione di un processo che porta con sé la riscoperta di potenzialità, di sensibilità, intuizione, presenza e connessione con gli altri e con la vita.

Il volume si conclude con tre interessanti Appendici:

  • Interventi di comunicazione
  • Oggetti di osservazione e tecniche di consapevolezza
  • Mindfulness: una traccia personalizzata.

In una prospettiva che intende l’unità mente-corpo come inscindibile unità psicobiologica dell’individuo, la persona potrà perseguire un individuale progetto di vita, esprimendosi nella propria esistenza.

 

Seguire le nuove intelligenti briciole di Hansel e Gretel per prendere la decisione giusta ed evitare di procrastinare

Un nuovo approccio basato su modelli matematici per ottenere intelligenze artificiali in grado di ristrutturare i complessi problemi decisionali umani incasellandone i “pezzi” nella giusta sequenza temporale per poter fare la scelta dell’azione più rapida e in linea con i propri scopi preordinati, senza perdite di tempo e in modo efficace senza spreco di risorse, come promosso da un nuovo studio del Max Plank Institute e dell’Università di Berkeley, pubblicato su Nature Human Behaviour. 

 

Le principali differenze tra un computer di ultima generazione e il cervello umano sono la capacità di ritenzione e l’uso di risorse per la computazione dei dati: mentre infatti per i computer più all’avanguardia vi è una potenza di calcolo, capacità e potenzialità pressoché illimitate per raccogliere, confrontare e analizzare dati, al contrario il cervello, per quanto straordinario sia, non possiede tali peculiarità e pertanto risulta fallibile e vulnerabile ad un numero ingente di euristiche, soprattutto quando si trova a dover far fronte a specifiche problematicità decisionali.

Ne deriva che queste limitate capacità di risorse cognitive a disposizione rendono impraticabili per la persona la scelta della strategia decisionale ottimale sempre e in qualsiasi contesto.

A partire da questo dato di fatto, si potrebbe dire che lo studio e il progresso della tecnologia a favore dello sviluppo dell’intelligenza artificiale (AI) sia il prodotto di questa nostra ammissione di debolezza cognitiva, sviluppando l’AI come una sorta di “stampella” cognitiva volta a potenziare e migliorare la presa decisionale in quelle specifiche situazioni decisionali dove incontriamo maggiore difficoltà e si va incontro automaticamente e con più facilità ad euristiche (Lieder, Chen, Griffiths et al., 2019).

In questa prospettiva, molti studi (Hoffrage, Lindsey et al., 2000; Johnson, Shu, Dellaert et al., 2012) si sono concentrati sull’approfondimento dei processi decisionali e del giudizio umano, cercando di capire meglio come poter ristrutturare le informazioni che vengono poi presentate alle persone e delegare agli algoritmi la soluzione di compiti difficili, dal momento che spesso la soluzione migliore e più rapida di un problema segue una riformulazione dello stesso in termini diversi.

Un elemento cruciale nella presa di decisione: la motivazione

Tuttavia questi studi sulla riformulazione del problema poco si sono occupati di un altro elemento altrettanto importante, se non addirittura cruciale, quando si entra nel campo della presa di decisione: la motivazione, ovvero come favorire il superamento di tutti quegli ostacoli che impediscono alla persona di raggiungere i propri obiettivi a lungo termine.

Tra gli ostacoli motivazionali più ostinati e refrattari all’eliminazione vi è la procrastinazione, il tergiversare, il rinviare continuamente la scelta, dando priorità a ciò che si può esperire immediatamente a discapito però del raggiungimento del proprio obiettivo a lungo termine.

Procrastinando, noi tutti sistematicamente scegliamo ricompense immediate e disponibili che però, spesso e volentieri, non sono in linea con il valore che abbiamo assegnato ad un nostro obiettivo a lungo termine: ad esempio tergiversare sul divano davanti al televisore anziché perseverare nello studio dei manuali per la preparazione all’esame di abilitazione per l’esercizio della professione psicologica o lasciarsi andare ad un pranzo luculliano dimenticandosi di essere sottoposti ad una dieta dimagrante.

Solitamente questi trade-off decisionali sono estremamente sfidanti la motivazione personale e costituiscono terreno fertile sia per l’impulsività che per la procrastinazione.

Pertanto un intervento che sia in grado di riallineare la ricompensa immediata di ogni azione con il valore delle sue conseguenze a lungo termine potrebbe rivelarsi decisamente utile, dal momento che non abbiamo a disposizione illimitate capacità cognitive.

Sorge tuttavia un ulteriore problema, il fatto che è particolarmente difficile modificare il modo in cui le persone esperiscono e vivono le azioni più complesse e marcate da puro senso del dovere, convincendole per esempio che seguire una dieta rispetto al mangiare un dolce ipercalorico è più utile e meno dannoso – generalmente le persone ne sono consapevoli ma nonostante ciò scelgono il cioccolato.

Potenziare il decision making sfruttando la gamificazione

Per tentare di potenziare la presa di decisione umana facilitando la selezione dell’azione più in linea con lo scopo preordinato della persona e per incrementare la motivazione ad intraprendere quelle scelte che si potrebbero definire “complesse” (dieta vs dolce ipercalorico), Falk Lieder del Max Plank Institute for Intelligent Sistem, con i colleghi Chen, Krueger e Griffiths del dipartimento di Psicologia e Ingegneria elettronica dell’Università di Berkeley, California, ha messo a punto un sistema di intelligenza artificiale in grado di supportare le persone nella risoluzione di complesse sequenze di decision making sfruttando la “gamificazione”.

L’approccio che utilizza la “gamificazione” termine che deriva dall’inglese “game”, gioco, non è nuovo alla letteratura scientifica ed è risultato particolarmente efficace nell’incrementare sia la motivazione personale che l’apprendimento di nuove strategie più funzionali alla messa in atto di comportamenti produttivi alternativi tramite degli incentivi o premi alla persona, come se si stesse partecipando ad un gioco (Deterding, Dixon et al., 2011).

Diventa così cruciale comprendere quale azione debba essere incentivata e come lo si debba fare affinchè la persona la possa mettere in atto senza procrastinare o senza che si lasci prendere dall’impulsività in vista di un beneficio immediato.

L’approccio messo a punto dagli autori dello studio (Lieder, Chen, Griffiths et al., 2019) ha come obiettivo la ristrutturazione e riproposizione in gioco di uno scenario di scelta, in un modo tale da permettere ai “decisori” di identificare rapidamente la giusta sequenza di azioni volte alla risoluzione del problema stesso e di realizzare conseguentemente azioni fruttuose e finalistiche, tramite incentivi e obiettivi da seguire sia a breve termine per ogni livello del “gioco” sia a lungo termine con uno scopo alto prioritario.

Studiare le strategie decisionali per capire come potenziarle

Lo studio, che è stato recentemente pubblicato su Nature Human Behaviour, si compone di quattro esperimenti di decision making sequenziale volti alla dimostrazione dell’efficacia di tale approccio, che affonda le sue radici in un quadro matematico assai complesso, costituito da algoritmi e funzioni per le quali la probabilità che un agente passi da uno stato 1 ad uno stato 2 compiendo un’azione è determinata dal valore, assegnato dalla persona, di quell’azione tale per cui essa è continuamente selezionata per ottenere più ricompense e arrivare all’obiettivo primario finale e dalla distanza stimata che separa la persona da quest’ultimo (Lieder, Chen, Griffiths et al., 2019).

Il compito sperimentale per ciascuna condizione consisteva in un gioco di programmazione e pianificazione di rotte aeree: ciascun partecipante, partendo di volta in volta da una città diversa, avrebbe dovuto muovere un aereo verso quelle rotte che lo avrebbero condotto alla meta più redditizia.

L’obiettivo principale del gioco era infatti quello di guadagnare il maggior numero di punti e denaro scegliendo per il proprio aereo la rotta migliore tra le sei disponibili, ognuna delle quali caratterizzata da un valore in denaro che la persona avrebbe guadagnato o perso nello sceglierla.

Ciò che differenziava le condizioni sperimentali tra di loro era il sistema matematico, determinato da formule e algoritmi diversi tra loro, che avrebbe dispensato gli incentivi; il sistema di incentivi che meglio avrebbe ridotto le scelte controproducenti e il numero di perdite rendendo la sequenza di azioni scelta dal giocatore più efficace nel raggiungimento dell’obiettivo finale, avrebbe costituito la strategia migliore per il potenziamento della presa di decisione e la riduzione dell’uso delle euristiche (Lieder, Chen, Griffiths et al., 2019).

Lo studio ha dimostrato che specificatamente la distribuzione di incentivi volto ad allineare le ricompense immediate al valore dello scopo a lungo termine tramite elementi di gioco ha avuto effetti positivi nel motivare le persone a scegliere e poi a seguire la “giusta” sequenza di azioni per il raggiungimento dell’obiettivo finale, ristrutturando e adattando nel modo più efficace il contesto decisionale alle preferenze del “decisore”.

Quest’algoritmo, a parere degli autori, potrebbe essere sfruttato dai sistemi di intelligenza artificiale per la realizzazione di device di supporto decisionale al giudizio umano, sotto forma di applicazioni, per incrementare la motivazione personale ad agire per il raggiungimento dei propri scopi a partire da ciò che è di primario interesse per la persona.

Ad esempio, si potrebbe ristrutturare la tendenza di una persona a selezionare per economicità la prima opzione disponibile che ritiene sufficientemente buona sul momento, ma controproducente sul lungo periodo, chiedendo all’AI di supportarlo nello scegliere quelle alternative che sono in ordine discendente direttamente dal valore dello scopo prioritario della persona, senza annullare il suo libero arbitrio.

 

Cortisolo e depressione negli adolescenti

Negli ultimi tempi, il numero di adolescenti affetti da depressione è in maggiore crescita (National Institute of Mental Health, 2017). Dunque, la ricerca si sta indirizzando sempre più verso la possibilità di individuare i biormarcatori della depressione.

 

Ad esempio, uno studio recente ha trovato nel cortisolo pilifero una buona misura che potrebbe segnalare la presenza di sintomi depressivi negli adolescenti. Questi risultati sembrano seguire la stessa linea di alcuni dati emersi da un altro studio che ha trovato, invece, come in un campione di adulti i livelli di cortisolo (alti e bassi), presenti nell’urina, erano predittivi di sintomi depressivi (Penninx at al., 2007).

Il presente studio si è servito di un campione di 432 adolescenti fra gli 11 e i 17 anni, che è stato chiamato a compilare un breve questionario sulla presenza di sintomi depressivi. Successivamente, ai partecipanti è stata tagliata una ciocca di capelli che ha permesso agli sperimentatori di valutare la concentrazione di cortisolo presente in ognuna di esse.

Cortisolo e sintomi depressivi negli adolescenti: i risultati dello studio

I risultati di questo studio appaiono interessanti, in quanto hanno messo in luce la presenza di una relazione significativa tra concentrazione dell’ormone dello stress (cortisolo) nei capelli e sintomi depressivi negli adolescenti. In particolare, è stato trovato che sia alti che bassi livelli di cortisolo pilifero sono associati alla presenza di sintomi depressivi. Dunque, sarebbe utile approfondire questa ricerca per capire in che modo una concentrazione anomala di cortisolo, quindi una disregolazione dell’asse ipotalamo- ipofisi- surrene, possa essere predittiva dei sintomi depressivi; sarebbe altrettanto interessante estendere tale studio ad una fascia di popolazione più ampia, per una migliore generalizzazione, dal momento che la pubertà porta di per sé ad una serie di cambiamenti ormonali che potrebbero influire sulla veridicità dei risultati trovati.

In conclusione, individuare i biomarcatori della depressione segnerebbe la conquista di un grande traguardo per la pratica clinica, poiché permetterebbe di prevenire un disturbo tanto grave quanto diffuso, quale è la depressione, evitando la possibilità che possa cronicizzarsi nelle sue forme più gravi.

 

Livello filosofico e psicoterapeutico: un esempio su come possono interagire nella pratica clinica

Facendo attenzione a non perdere di vista il fine terapeutico della psicoterapia, ciò che vogliamo proporre in questo articolo è un esempio di come filosofia e psicoterapia possano interagire tra loro.

 

Giorni fa Su State Of Mind è stato pubblicato un interessante articolo da Giovanni Maria Ruggiero e Sandra Sassaroli sui rischi delle aspirazioni filosofiche della psicoterapia. Il tema mi è molto caro, anche perché io mi sono formato in Terapia della Gestalt con Barrie Simmons, il quale affermava che la Gestalt, lungi dall’essere una psicoterapia fondata su una psicologia e su una psicopatologia, è più da considerarsi come il “reparto operativo di una filosofia esistenziale.

Il punto in cui concordo con i colleghi è il rischio di perdere di vista il fine terapeutico della psicoterapia, quando questa si pensa come conoscenza che trascende i suoi confini epistemologici e pretende di diventare quasi una religione. Detto questo, considero comunque l’interrelazione tra filosofia e psicoterapia di vitale importanza nella clinica, perché, se la filosofia ci permette di cogliere la struttura del mondo in cui tutti noi viviamo, questa conoscenza può certamente aiutare il terapeuta nella sua pratica clinica. Quello che segue è un esempio di come i livelli filosofico e psicoterapeutico possano interagire tra loro.

La società della prestazione e la rimozione del desiderio

I tempi che stiamo vivendo sono difficili, caratterizzati dallo sfarinamento progressivo delle organizzazioni sociali così come le abbiamo conosciute fino ad ora, dalla pervasitvità della precarietà come cifra dell’esistenza e conseguentemente da un atteggiamento nei confronti della vita in cui prevale il ripiego verso se stessi, la difficoltà nell’intrecciare nuove relazioni, i vissuti di paura e diffidenza nei confronti dell’altro, tanto più acuti quanto più lo è la propria precarietà esistenziale.

Negli ultimi decenni si è determinato un importante cambio di paradigma nell’organizzazione della società occidentale. La società, fino a qualche decennio fa, si fondava sulla differenziazione tra sé e altro da sé, sul conflitto e in generale sulla dialettica come motore dei mutamenti sociali. Byung – Chul Han chiama questo modello sociale ormai superato come “società immunologica”. Questo modello ha performato la storia dei secoli scorsi, promuovendo cambiamenti importanti e strutturali a partire da conflitti di varia natura e dimensione: tra stati, tra forme di governo e tra classi sociali. La metafora del conflitto è stata fondante anche per la comprensione della sofferenza psichica (soprattutto nel variegato mondo della psicoanalisi, ma non solo); basti pensare al diffuso impiego di parole mutuate da quell’universo semantico: conflitto, resistenze, meccanismi di difesa, solo per citarne alcuni.

Oggi invece viviamo in una società caratterizzata da incertezza, estrema individualizzazione, liquidità dei rapporti e delle connessioni sociali, perdita del senso di sé, che Byung – Chul Han chiama “società della prestazione” e Bauman “modernità liquida”, nella quale l’altro scompare insieme al conflitto e alla dialettica sociale, vi è un clima caratterizzato da un eccesso di positività, gli esseri umani costruiscono la propria identità come “soggetti di prestazione”, imprenditori di se stessi, esaltando la propria libertà che diventa una libertà costrittiva che arriva all’autosfruttamento e all’alienazione da se stessi e che prende la forma illusoria dell’autorealizzazione, una libertà e una individualizzazione che sono quasi messe a fondamento del nuovo ordine sociale.

A questo nuovo paradigma si associa una sostanziale modifica della costituzione dell’identità e della vita relazionale degli individui: il soggetto, lungi dall’essere in relazione con l’altro da sé, è appunto ripiegato su se stesso, non più in relazione (esperienza che presuppone il contatto, cioè l’apprezzamento delle differenze) ma eventualmente in co(a)nnessione, inglobando l’altro che diventa un correlato narcisistico. L’individuo è una monade che ingloba il mondo come estrinsecazione del sé, l’ipertrofia del narcisismo è un fallace tentativo di compensare la sua estrema fragilità.

In questo clima si genera una sofferenza del tutto nuova, che non nasce dal conflitto ma che è endemica e strutturale, una sofferenza caratterizzata dalla pervasività del desiderio di accumulare oggetti, informazioni, relazioni, al fine unico di gratificare l’immagine di sé tentando una compensazione della precarietà esistenziale con un’inflazione del narcisismo che però resta assai fragile. Una metafora convincente per questa tendenza è quella dell’ingordigia:

l’ingordigia è un modo per evitare di prendere delle decisioni: se ho tutto, non devo scegliere ciò che voglio. E scegliere ciò che voglio significa accettare certi piaceri per rinunciare ad altri. Siamo ingordi, quindi, perché abbiamo paura di perdere ciò di cui abbiamo bisogno; poiché abbiamo paura che non sia la cosa giusta; perché abbiamo paura di dipendere da qualcosa che non ci appartiene; e poiché abbiamo paura di decidere. […] L’eccesso di appetito che chiamiamo ingordigia è a tutti gli effetti una forma di disperazione. L’ingordigia emerge quando non crediamo più nei nostri appetiti, quando ciò che desideriamo non è più disponibile.

Sofferenza psichica, vuoto esistenziale e mancanza di desiderio

Queste parole introducono il correlato forse più significativo di questo mutamento antropologico per l’individuo: l’afasia (quando non la rimozione) del desiderio.

Il desiderio è, insieme all’intenzionalità, la caratteristica a fondamento dell’unicità dell’umano (per Otto Rank, uno dei più originali eredi di Freud, purtroppo poco noto in Italia, desiderio e intenzionalità sono alla base dell’atto di volontà, attraverso il quale l’individuo afferma se stesso). Per potersi manifestare, il desiderio ha bisogno di spazio e di tempo e il suo presupposto è la costitutività della mancanza nell’esserci dell’individuo (Heidegger). Una definizione interessante di Desiderio è quella di Quattrini:

Wittgenstein ritiene che gli esseri umani abbiano inclinazioni senza forme specifiche, che si concretizzano nelle opportunità offerte dal mondo; il desiderio risulterebbe così da un incontro tra un’inclinazione e una disponibilità.

Il riferimento alla “disponibilità” introduce un elemento imprescindibile nella genesi del desiderio, ossia quello che gli psicoanalisti hanno chiamato il suo “oggetto”. La peculiarità del movimento del desiderio verso il suo oggetto è che questa è paradossale: ancora con Phillips, possiamo dire che

perdersi, ossia la creazione del labirinto, è ciò che facciamo quando esiste un oggetto del desiderio. Ci perdiamo perché non siamo perduti.

I mutamenti sociali descritti, che improntano l’esisitenza col mito dell’autorealizzazione, sono poco compatibili con la percezione di sé come soggetto affetto da mancanza e quindi desiderante. Uno dei tabù fondanti di questo modello sociale è la rimozione dell’essere umano come soggetto “impotente”, in contatto con la propria frustrazione e con la propria inadeguatezza e al contempo con la possibilità di sperimentare la soddisfazione:

Se non possiamo tollerare l’impotenza, non possiamo tollerare la soddisfazione. Esiste un complotto contro l’impotenza che scopriamo essere un complotto contro la soddisfazione.

In questo contesto, lo psicoterapeuta si trova spesso a confronto, oltre che con la psicopatologia “classica”, con tutta una serie di richieste di aiuto per una sofferenza psichica spesso afasica, che fatica a declinarsi in problemi discreti da affrontare e risolvere e viene piuttosto presentata come un’incapacità a trovare un posto per sé nel mondo, un’instabilità esistenziale vorticosa che finisce per far perdere i punti di riferimento e appiglio, il vissuto di impossibilità di agire in modo efficace per operare cambiamenti in un’esistenza che pare meccanica e predeterminata.

Per comprendere questo scenario, che diventa sempre più pressante, lo psicoterapeuta necessita di rivedere alcuni concetti del suo armamentario teorico ed esperienziale, che vanno appunto riadattati, in quanto coniati in un mondo diverso da questo. Accade quindi che quello che fino a qualche decennio fa era il presupposto di ogni relazione psicoterapeutica, a prescindere dall’orientamento teorico, ossia la presenza di due persone in relazione, oggi sia un obiettivo da co-costruire, premessa imprescindibile per ogni altro obiettivo terapeutico.

Il primo movimento nella psicoterapia con questi individui è quello che porta a sviluppare la capacità di percepirsi come un essere umano, vale a dire come essere dotato di una soggettività desiderante, e per fare questo il punto di partenza è una sorta di rovesciamento del cogito cartesiano, in cui si passa per quella che è una vera e propria rieducazione al sentire, ricostituendo il senso del proprio sé attraverso la riappropriazione della capacità di sperimentare sensazioni e stati affettivi e di poter dare loro parola. E’ un processo lento, delicato, anche perché l’individuo che chiede aiuto per l’insopportabilità del vuoto esistenziale, attraverso il recupero della capacità di sentire sperimenta il vissuto della mancanza, doloroso e a volte persino violento, e solo a questo punto riceve come un dono la possibilità del desiderio.

Perls descrive questo processo come il susseguirsi di alcuni passaggi nell’esperienza terapeutica: il punto di partenza è la condizione di vuoto sterile, a cui segue uno stato di implosione in cui il copione personale non regge più e una nuova possibilità esistenziale non si intravede ancora e l’individuo è come bloccato, in piena impasse; l’approfondimento di questo vissuto in psicoterapia porta alll’esplosione, il contatto col proprio sé attraverso l’irruzione delle sensazioni e delle emozioni, e la loro integrazione porta alla maturazione di uno stato di vuoto fertile, condizione appunto di disponibilità ed apertura al desiderio.

 

L’uomo e l’ologramma: pericolosi confini porosi

L’elevata velocità dell’innovazione tecnologica porta a delegare alle macchine un ventaglio sempre più ampio di azioni, funzioni e decisioni. Quando ci si sofferma sui complicati rapporti tra uomo e tecnologia, si fa spesso l’assunto implicito che si tratti di due entità ben distinte e separate – benché interagiscano fra loro – e inoltre, si ipotizza che l’evoluzione dell’uomo sia un fenomeno secolare, al contrario di quella tecnologica.

 

Spesso sfugge che il fenomeno davvero interessante non è tanto la tecnologia in se stessa, quanto la relazione uomo-tecnologia. L’attenzione allo sviluppo della tecnologia e gli entusiasmi e le perplessità che essa suscita fanno in genere trascurare l’esigenza di una riflessione critica su questi processi nel loro insieme (Longo, 2006). Alcune direzioni di tale rapporto uomo-tecnologia hanno profonde ricadute negative sotto il profilo psicologico.

Realtà aumentata e realtà confusa

Questo accade soprattutto nei contesti in cui il confine fra gli umani e la loro simulazione viene a sfuocarsi e diviene problematico catturare le differenze. Il mondo reale si trasforma in “realtà mista” o realtà aumentata.

Concorre a creare una situazione confusiva la crescente diffusione di ologrammi dalle sembianze umane, che sta raggiungendo livelli parossistici e inquietanti.

Tanti sono i casi e gli esempi. Qui ci si limiterà a citarne tre. Presi a fattor comune, i tre esempi sembrano suggerire che il business tramite l’ intelligenza artificiale ha un andamento carsico, emergendo di tanto in tanto in nuove e più avanzate fattezze. Ne conseguono maggiori opportunità di consumo offerte sul mercato. Ma è davvero questo che vogliamo o ciò di cui abbiamo veramente bisogno?

La “mano invisibile” di smithiana memoria si è forse slogata, creando mercati su mercati che ci allontanano sempre più dal mondo vero tramite la realtà aumentata?

Con la realtà aumentata, il mondo stesso rischia di diventare una fake news, se non una deep fake – traducibile in “falsi realistici” – quando aggiungiamo ulteriori componenti, vale a dire gli algoritmi di intelligenza artificiale per la sintesi di immagini umane, utilizzati per combinare e sovrapporre immagini e video (ad esempio, di una persona famosa) su immagini o video di origine (un’altra persona) al fine di generare un video molto realistico completamente finto. Alcuni di questi falsi, benché rimossi, sono rintracciabili nel darkweb.

Sicché, se il mercato ottimizza grazie ai crescenti profitti, le persone rischiano di destabilizzarsi a causa dei piani confusivi fra realtà diverse. Tale considerazione induce ad analizzare alcuni effetti psicologici sugli esseri in carne e ossa di questi nuovi fenomeni.

Ologrammi: abbiamo già influecer, cantanti e musicisti

Consideriamo il primo fenomeno: molto note sono le influencer virtuali, sponsor di brand prestigiosi, pericolose competitor di quelle umane. Viene subito in mente Miquela Sousa: dal fascino un po’ nerd, che ci sta sempre bene; socialmente impegnata con il suo supporto a cause civili, anche a costo di diventare impopolare e perdere follower (duro ma dura!); fa falsi passi falsi per sembrare più umana; dice di desiderare tutto. Un’affermazione, quest’ultima, che la avvicina ancor di più agli esseri umani, nell’assioma – appartenente alla sfera economica – di “non sazietà”: a parità di condizioni, un consumatore razionale sceglie sempre il paniere con maggiore quantità di beni. Questo mix di forza e debolezza di Miquela conquista, desta coinvolgimento ed empatia: un mix che genera profitti fantastici ai brand che l’hanno ingaggiata. Che vita orrenda è diventata quella delle influencer umane! Senza più like su Instagram; sempre meno quelli disposti a offrire loro “free lunch”; e ora ci si mettono anche gli accattivanti ologrammi… Barcollo, ma non mollo!

Un caso ancor più peculiare è quello di artisti deceduti, che resuscitano nella forma di ologrammi. Ecco che lo spettacolo ha scoperto un nuovo business, un filone d’oro da sfruttare. Tutto “live”. Al momento è aperto il dibattito tra scettici ed entusiasti, ma la tecnologia è in grado di immaginare un futuro sempre più immateriale e di far riapparire tra suoni ed effetti speciali artisti scomparsi (D’Agnese, 2000)..

Maria Callas, deceduta nel 1977, è tornata in scena come “Holo-Callas” – nella rappresentazione della Carmen di Bizet (Selinger, 2018).

Prima di lei altri artisti scomparsi sono tornati a calcare la scena grazie ai loro ologrammi: dal rapper Tupac, a Dalida, passando per Michael Jackson, Frank Zappa, Amy Winehouse.

L’era degli ologrammi musicali risale ai primi anni del 2000, in occasione della 48^ edizione dei Grammy Award, dove il gruppo animato dei Gorillaz ha dato vita a un’esibizione tra il reale e il virtuale con Madonna e De La Soul. Segue Celine Dion nel duetto con l’ologramma di Presley in una puntata di American Idol; nel 2012 i fan di Tupac Shakur sono stati scioccati dalla sua apparizione durante il popolare Festival di Coachella, in California, imperdibile per gli amanti della musica alternativa ed elettronica, ma anche per chi vuole capire i nuovi trend della moda, al punto che si parla ormai di Coachella style. Nel 2014, in occasione dei Billboard Music Award, uno dei più importanti premi musicali statunitensi, ecco che appare l’ologramma di Michael Jackson. A trent’anni dalla prematura scomparsa, Roy Orbison è il protagonista di In Dreams, uno show in cui la sua immagine prende corpo seguita da un’orchestra.

Tornando alla Carmen, spiega la direttrice d’orchestra, Eimear Noone,

sapevo sarebbe stato complicato, tecnicamente parlando […] Ho memorizzato tutti i movimenti dell’ologramma perché fossero in sincronia con l’orchestra. Ogni frase, ogni pausa, ogni singola cosa per 90 minuti di musica (Rizzi, 2018).

La “Holo-Callas” prevede la sua morte e quella dell’amante interpellando un mazzo di carte che poi butterà in aria. Esse, però, rimangono immobili sospese per aria come se il tempo si fermasse in quell’istante.

Il pubblico applaude non come riconoscimento della tecnica avanzata sottostante, né trascinato dall’entusiasmo della spettacolo, bensì come reazione a una semplice e ben congegnata “imbeccata”. In momenti ben studiati, la “Holo-Callas” fa gesti coreograficamente attenti e inchini che valorizzavano al massimo la sua grazia.

E mentre gli artisti in carne e ossa – lirici, musicisti, attori – entrano in sintonia con il pubblico, la “Holo-Callas” è commossa dall’emozione di quest’ultimo non più di quanto potesse esserlo una roccia, malgrado il suo ingannevole movimento di occhi e labbra.

Non tutti gli spettatori hanno lasciato la sala soddisfatti. La Callas mi ha sempre fatto vibrare, ma non questa sera. E’ un peccato.

E’ pietrificante, dichiara un altro spettatore (D’Agnese, 2019).

Ologrammi e teletrasporto

Ma andiamo ancora più sul sofisticato, al terzo caso qui considerato: quello del teletrasporto. Si tratta di un sistema di realtà virtuale che, grazie a un dispositivo, teletrasporta una copia virtuale di un individuo da un luogo a un altro. Infatti, all’evento Inspire 2019, la Micrososoft Research ha rivelato tale sistema di realtà virtuale su cui sta lavorando da anni: l’Holoportation. L’azienda ha messo a punto un dispositivo, i visori Hololens che, grazie a immagini catturate in 3D da alcune telecamere, permettono di creare un’immagine olografica. Di se stessi o di persone che si trovano altrove.

La dimostrazione è stata realizzata dal vicepresidente di Microsoft, Julia White, che ha indossato gli Hololens e attivato un ologramma di sé. Questa dimensione “rimestata” ha permesso al manager di creare una rappresentazione tridimensionale di se stessa in grado di interagire con l’ambiente esterno, vedere e ascoltare.

Che dire? Scopri l’ologramma che è in te!

Gli studiosi di robotica hanno individuato i seri pericoli che possono emergere quando le macchine, tra cui le più sofisticate per intelligenza artificiale, sono pensate per sembrare esseri umani. L’approccio per tale analisi è interdisciplinare in quanto coinvolge sia la psicologia sia l’economia comportamentale.

In linea di principio, la tecnologia in sé non è né buona né cattiva; bontà e cattiveria dipendono dall’uso che se ne fa.

La manipolazione appare il filo rosso di molti aspetti dell’uso deviato dell’intelligenza artificiale. I pericoli diventano ancora maggiori quando la manipolazione via intelligenza artificiale si intreccia con i bias cognitivi degli esseri umani.

Uomo, realtà virtuale, ologrammi: i rischi dei bias cognitivi

Infatti, le persone possono rimanere talmente coinvolte sul piano emotivo, da essere facilmente manipolabili e commettere errori cognitivi, comportandosi di conseguenza. E, quindi, ecco una “spinta gentile” da parte del mercato volta a cambiare la loro struttura delle preferenze e degli stimoli. Ad esempio, sprecare risorse – tempo, denaro, capitale umano – e rinunciare alla propria privacy. Il loro grado di coinvolgimento e manipolazione può arrivare al punto da convincersi che tali macchine siano da tutelare sul piano dei diritti e su quello etico persino a scapito della tutela e dei bisogni di altri esseri umani.

In tale società mista, gli esseri umani potrebbero perdere di vista le interazioni veramente importanti – quelle con i propri simili – privilegiando quelle con le macchine. Le persone e la comunità con cui ci si identifica e a cui ci si associa hanno una marcata influenza nel determinare in ciascuno di noi il modo di interpretare la realtà, i principi etici e le regole di comportamento, le tradizioni. In tale prospettiva, l’identità sociale assolve un ruolo centrale nella vita di ognuno (Sen, 2000) e costituisce uno stock di “beni relazionali”, nella terminologia economica. L’intelligenza artificiale con le sue macchine dalle fattezze umane rischiano di depauperare questo prezioso capitale sociale.

Per di più, le persone tendono ad acquisire cattive abitudini o modi di fare quando interagiscono con le macchine, che sono portate a replicare nei rapporti con il prossimo.

La stessa intelligenza artificiale, inoltre, può indurre o rafforzare i bias cognitivi degli esseri umani. Infatti, la qualità dei risultati ottenuti da un algoritmo alla base delle intelligenze artificiali dipende totalmente dalla bontà dei dati utilizzati per addestrarlo, essendo questi la materia grezza che permette alle macchine di trarre le loro conclusioni e previsioni. Se i dati sono di cattiva qualità non ci si può aspettare che un algoritmo svolga un buon lavoro. E se, in particolare, questi dati sono viziati dai pregiudizi umani, ecco che la macchina li farà suoi, riportandoli nei risultati ottenuti e determinando i c.d. pregiudizi algoritmici. In tal senso, l’intelligenza artificiale può diventare un moltiplicatore di bias cognitivi. E’ stato dimostrato infatti che se non sono correttamente programmati, questi sistemi possono diventare razzisti e misogini, perché rispecchiano le convinzioni innate, e spesso inconsapevoli, di chi li ha creati.

Vengono a cumularsi, in tal modo, i bias cognitivi presenti in ciascuno di noi e quelli presenti negli algoritmi. Una tempesta perfetta!

Ridurre l’ansia in 7 settimane (2018) di Arlin Cuncic – Recensione del libro

Se sei alla ricerca di qualcosa che possa chiarirti come l’ ansia ti abbia innescato un ciclo di pensieri da cui non riesci a venirne a capo, ma vuoi iniziare a far qualcosa a riguardo, questo è il libro che fa per te.

 

Arlin Cuncic, grazie al suo background in psicologia clinica, ha scritto diversi libri riguardanti la terapia cognitivo-comportamentale e i disturbi d’ansia. Da tempo approfondisce le tematiche riguardanti diverse patologie sperando di poter aiutare il prossimo attraverso il sapere psicologico.

Ridurre l’ansia in 7 settimane: contenuti del libro

Ti introdurrà nel mondo dei disturbi connessi all’ansia, chiarendo cosa comporta e cosa significa ogni forma di patologia. Inoltre descrive e definisce in maniera esaustiva i principali approcci teorici che hanno riscontri positivi nell’apportare un maggior benessere a chi è afflitto da dei disturbi connessi all’ansia e non solo.

Il primo capitolo del volume Ridurre l’ansia in 7 settimane illustra le diverse forme che l’ansia può assumere, partendo dall’ansia specifica, passando poi per l’ansia sociale, il disturbo di panico, l’agorafobia fino al disturbo d’ansia generalizzata. Successivamente prima di iniziare il percorso diviso in 7 settimane, vengono declinate le origini e le varie trasformazioni della psicoterapia cognitivo-comportamentale, focalizzandosi su come agisce e quali sono i risultati di questo approccio. Quando si entra nel vivo del percorso potrai prendere nota di ogni progresso, attraverso delle check list e dei grafici, facendo per ogni settimana dei semplici esercizi in cui imparare a capire meglio cosa ti succede internamente.

Ridurre l’ansia in 7 settimane: una guida per il percorso di cura

Inizialmente ti sarà chiesto di comprendere meglio la tua ansia analizzando i sintomi fisici, cognitivi e comportamentali che riconosci e da quando questi si manifestano e che aree della tua vita intaccano. Dopo questa presa di coscienza sarai guidato nel formulare un obiettivo da raggiungere, e nelle seguenti settimane ci si focalizzerà nel comprendere quali siano i tuoi pensieri disfunzionali, ovvero quelli che alimentano la tua ansia, come si originano e come attraverso determinate strategie possono essere arginati.

Tutto questo percorso ti permetterà di diventare un po’ più consapevole dei tuoi stati emotivi e scoprire cosa si cela dietro a quest’ultimi potendo cosi essere sempre più padrone di te stesso. Anche se con questo materiale intraprenderai un percorso in solitaria, considera l’eventualità di iniziare un percorso psicoterapeutico così che, durante le sedute, potrai mostrare i tuoi successi e discuterne con il terapeuta, avviando un cammino a due in cui non sarai solo ma avrai un alleato al tuo fianco.

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