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L’impatto che l’utilizzo della cannabis avrebbe sul riconoscimento emotivo dei volti

La capacità di elaborare le espressioni facciali di chi ci circonda risulta essere uno dei processi importanti alla base dell’empatia.

 

Cannabis e riconoscimento emotivo dei volti: uno studio sulle differenze di genere

Un recente studio ha voluto indagare gli effetti che l’utilizzo della cannabis può avere sulla capacità di elaborare le espressioni facciali, soffermandosi sulla differenza fra uomini e donne.

Lo studio parte dai risultati di una precedente ricerca che ha messo in luce l’associazione fra utilizzo di cannabis e minor capacità di interpretare le emozioni facciali e provare empatia con i soggetti che le stanno esprimendo (Troup et al., 2016).

Il campione di 144 studenti universitari, 80 femmine e 64 maschi, è stato chiamato a svolgere un compito di elaborazione delle espressioni facciali, inerente il riconoscimento delle emozioni (volti felici, arrabbiati, spaventati e neutri).

Il campione comprendeva soggetti che facevano uso di cannabis in modo occasionale e soggetti che facevano uso frequente. Il monitoraggio dell’attività elettrica cerebrale è avvenuto tramite elettroencefalogramma (ECG).

I risultati hanno mostrato che fra le donne, l’uso della cannabis non impattava le risposte neurali deputate all’elaborazione emotiva dei volti. Mentre tra gli uomini è emerso che durante i compiti di elaborazione emotiva dei volti, in particolare all’inizio del compito, l’attività cerebrale dei processi attentivi si modificava in base alla modalità di utilizzo della cannabis (frequente, occasionale).

Dunque, sembrerebbe che l’utilizzo di cannabis, più negli uomini che nelle donne, interferisca negativamente con i processi di riconoscimento emotivo.

 

I risultati che non ti aspetti

Ho un rapporto conflittuale con gli studi di efficacia in psicoterapia. Una parte di me li ritiene indispensabili, il vero pilastro che ci ha fatto uscire dal mondo prescientifico. Una parte di me li ritiene divertenti, il gioco della scienza- Un’altra parte di me invece li legge con inevitabile nervosismo..

 

Primi di agosto, appena arrivato in Puglia dopo una settimana all’Isola di Elba. Mi arriva un messaggio whatsapp di Simone Cheli.

Giancarlo, leggi questo”. Lo leggo. Vado a nuotare.
Giancarlo lo hai letto?
”.
Che ti sembra?
Un bel casino”.
Ci ragiono su.

Un articolo di Sakaluk e colleghi (2019) in cui rivisitano gli studi di efficacia che portano alle linee guida per la cura dei vari disturbi. Una mazzata.

Ho un rapporto conflittuale con gli studi di efficacia in psicoterapia.

Una parte di me li ritiene indispensabili, il vero pilastro che ci ha fatto uscire dal mondo prescientifico, dell’ipse dixit, del: “Siccome lo dice il mio maestro, la terapia della mia scuola è meglio della tua, stacce”.

Una parte di me li ritiene divertenti, il gioco della scienza, quella componente competitiva che, ammettiamolo, fa parte della mente scientifica, quel gusto di arrivare prima, meglio e più in alto degli altri. Il nostro campionato, il nostro US Open, quell’imitare Federer e Nadal seduti sulla poltroncina di studio e poi davanti al nostro computer a ragionare sui dati raccolti.

Un’altra parte di me (siamo a tre, lo so, ma non è strano, basta basarsi su modelli che vedono il Sé molteplice e non ci si preoccupa) li legge con inevitabile nervosismo che nessuno esercizio di mindfulness placa. Il motivo? Nella maggior parte dei casi sono fatti da scienziati con seri problemi di miopia. Testano modelli di terapia basati su una concezione così semplicistica della psicopatologia, mirano un numero così limitato di variabili psicologiche e, soprattutto, sono ultrabrevi. Otto sedute. Sedici sedute. Allarghiamoci, 24 sedute. Non ne sono immune, bene che lo confessi subito. Con il mio collega Raffaele Popolo ci siamo messi in questa League di partite a durata ridotta e abbiamo disegnato un protocollo di gruppo di 16 sedute e lo abbiamo testato in un primo RCT (Randomized Controlled Trial) (Popolo et al., 2018); ora lo stiamo replicando in un RCT più ampio. E ai risultati ci teniamo tanto. Era un modo di entrare in classifica, altrimenti non ti considerano, tutto qui, gli altri giocano in campionato e tu sui campetti di periferia sperando che un osservatore competente ti noti, ma non avviene, perché per arrivare dove giochi tu la strada è dissestata e polverosa.

Ma la questione della durata ha da tempo superato il suo obiettivo originale, contrastare la follia della psicoanalisi a tempo indeterminato, si sieda sul lettino e vediamo che succede. Poi dopo 10 anni eri ancora lì. Quella missione è compiuta. Ora a dettare la durata è il potere del denaro, una scienza dettata dalla mancanza di risorse e dalle assicurazioni. Tagli al budget, rimborsi limitati, questo paziente te lo affido per due mesi, fai tutto quello che devi fare e poi ciao ciao, salut, adios, goodbye. I ricercatori, specie di stampo anglosassone, non so per quale motivo, prendono molto sul serio queste terapie lampo, ci credono, ne fanno una missione, si beano della loro intelligenza di laboratorio. Sono alla ricerca del mitico bersaglio perfetto sul quale mirare il magic bullet. Pensiero intrusivo, rimuginio, bias attentivo. Colpisci lì e otterrai la terapia vincente, più rapida ed efficace delle altre. È la logica per cui se hai un trauma ti fanno giocare a Tetris nelle unità antitrauma del pronto soccorso. Così carichi la memoria visuospaziale e impedisci alle immagini intrusive di prendere campo nella mente. Emily Holmes al congresso WCBCT di Berlino ne parlava tutta soddisfatta. Forse si sarebbe data un premio da sola.

Simone Cheli fa presa su questo sottofondo tutto personale. Leggo e rileggo l’articolo e gli chiedo consulenza su come interpretare i dati statistici. I risultati sono, a dir poco, esplosivi. La metodologia la descrive con grande chiarezza Cheli stesso nel suo target article per State of Mind. I risultati?

Alcune terapie ne escono molto bene: comportamentali e cognitive per l’ansia generalizzata, CBT per il disturbo ossessivo-compulsivo (ci sta tutta) e la schizofrenia (qui ho i miei dubbi ma è un altro discorso), terapie espositive per fobie specifiche (se non le conoscete e non avete un training specifico, imparatele, anche se non venite da scuole cognitiviste).

Altre ne escono a pezzi. Fra tutte, le terapie per l’anoressia. Nessuna delle attuali terapie considerate empiricamente supportate per questo disturbo tiene alla prova delle analisi effettuate da Sakaluk e colleghi.

Alcune terapie ne escono ridimensionate, 3 fra tutte: l’attivazione comportamentale per la depressione, la DBT per il disturbo borderline e l’EMDR per il PTSD. La DBT non va meglio in realtà delle altre terapie per lo stesso disturbo, e il grado di prove per la sua efficacia appare modesto. Nella cura del PTSD, l’affidabilità degli studi di efficacia a sostegno dell’EMDR è invece nettamente minore di quelli a favore della Cognitive Processing Therapy e della Prolonged Exposure.

Sakaluk e colleghi spiegano bene che il loro articolo non va interpretato come una conferma del Dodo bird, ovvero che tutte le terapie hanno la stessa efficacia, ma che in molti casi chi vince è il Don’t know bird, ovvero non sappiamo se quella terapia è veramente efficace, allo stato attuale delle cose molto meno di quanto si pensasse.

Le riflessioni che questo lavoro muove sono di vario genere. La prima è che si tratta, come sempre, di dati da interpretare con cautela, scommetterei qualche centinaio di euro che presto arriveranno altre meta-analisi che solleveranno dubbi sui risultati di questa.

La seconda è che fattori sociali e politici pesano sulle scelte formative molto di più di quelli scientifici. E ho solo vaghe idee dei motivi. Un esempio? Pensate alla terapia per il PTSD. Guardatevi intorno, chiedete ai vostri colleghi. Quanti si sono formati nella Cognitive Processing Therapy e nella Prolonged Exposure. La mia idea è che forse non ne troverete neanche uno, dipende da quanto ampia è la vostra rete di conoscenze. Quanti si sono formati nell’EMDR? Ecco, esatto. Tanti. Alla luce delle prove di efficacia che, al di qua dello studio in questione, non hanno mai mostrato un’efficacia dell’EMDR superiore alle terapie precedenti per il PTSD, qual è il motivo di questo bias formativo? Non l’efficacia clinica, non ci sono prove a supporto.

E per quanto riguarda la DBT? Idem. Quanti colleghi non vedevano l’ora di imparare ad applicare le skills per ridurre gli atti autolesivi nei loro pazienti borderline? Sembrava quasi che se non applicavate gruppi di skills training nel trattamento di questi pazienti avreste dovuto vergognarvi. Se avete provato quell’emozione, ora lo sapete, non ne avevate motivo.

Il problema dell’anoressia? Siamo seri: non esiste un clinico con un filo di esperienza che abbia mai creduto che l’applicazione sic et simpliciter dei protocolli CBT (o di altro genere) per questo problema, fosse davvero risolutiva. I risultati di questa meta-analisi confermano quello che gli esperti sapevano, la cura per l’anoressia va ancora costruita e quello che esiste finora è una serie di tasselli lontani dal formare una figura completa.

E quindi? Ripeto, i risultati di questo lavoro ci dicono che alcuni dati di efficacia sono solidi. Quello che a me pare più evidente è che la combinazione di esposizione e riflessione tipica della terapia che include esperimenti comportamentali e riflessione cognitiva post-esperimento funziona bene e solidamente in alcune patologie specifiche. E poi emerge che per molte altre patologie i risultati sono poco affidabili. Serviranno nuovi studi di efficacia? Sì, molti. Ma disegnati bene.

Cosa serve in particolare? Modelli di terapia che:

  • a) si basino su una lettura della psicopatologia che ne rispetti i molteplici meccanismi e non riduca tutto a un solo target. Senza mezzi termini, una terapia che colpisca solo uno tra: disregolazione emotiva, evitamenti comportamentali, mancanza di abilità sociali, mentalizzazione, rimuginio, bias cognitivi, pensieri intrusivi nasce claudicante;
  • b) si basino su una formulazione individualizzata del caso, possibilmente condivisa col paziente, coerentemente con quanto osserva Francesco Gazzillo in un altro commento al lavoro di Cheli. In quest’ottica è sempre possibile avere un focus allo stesso tempo su una determinata psicopatologia ma mantenendo una formulazione individualizzata del caso. Breve esempio: posso trattare due ragazze anoressiche sapendo che dovrò affrontare problemi tipici della restrizione calorica, che le accomunano, e allo stesso tempo formulare un caso in termini di: “Devo essere magra perché altrimenti sarò brutta e rifiutata” e un altro in termini di: “Devo essere magra perché se metto su peso sarò più femminile e quindi oggetto di minaccia sessuale”. In entrambi i casi dovrò mettere in atto strategie perché queste ragazze mangino regolarmente, riprendano peso, ma la strada a cui ci arriverò passerà per percorsi relazionali del tutto differenti;
  • c) siano di durata ragionevole.

È bene mirare a essere efficaci nel più breve tempo possibile. Ma pretendere che tra terapie di 8 sedute emerga quella definitiva non è sensato. È necessario rendersi conto che ci vorrà più tempo, specie in pazienti con comorbilità (ovvero la stragrande maggioranza). Bisogna pensare a terapie da un lato ragionevolmente breve, dall’altro che abbiano il tempo di affrontare i problemi effettivamente presenti. È possibile e sensato. I medici non curano il diabete per due mesi. Non tengono la pressione bassa per 12 settimane. Non danno anticoagulanti per 10 giorni. Danno i farmaci al dosaggio minimo efficace per il tempo necessario: breve o lungo che sia. Perché la psicoterapia nella sua declinazione empirica deve sfuggire a questo minimo di sensatezza?

 

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Anche in USA hanno paura dei “patentini”?

Il diavolo si cela nei dettagli e in un dettaglio diabolico mi sono imbattuto durante l’ultimo congresso mondiale di terapia cognitivo comportamentale, quello di Berlino del mese di luglio.

 

Ero lì nel salone degli stand pubblicitari e guardavo il materiale espositivo dell’Istituto Beck. Probabilmente in quel momento Judith Beck era nei paraggi seduta e sorridente che spiegava le meraviglie dei corsi dell’Istituto di suo padre e suo (confermo: sono ottimi corsi, ancor meglio quelli online) ma io ero più attirato da quel che leggevo sul volantino. Leggevo un avvertimento molto cautelativo firmato dai due Beck, padre e figlia, in cui si specificava che gli attestati di partecipazione rilasciati dall’Istituto Beck di Filadelfia non avevano valore come certificati di qualificazione come terapeuti cognitivi comportamentali negli USA.

Per quanto non si parlasse di “valore legale”, una qualifica che dicono non viga laggiù (che poi mi chiedo: sarà vero?) il succo dell’avvertimento era proprio quello.

Ben presto collegai l’avvertimento a quanto mi avevano detto alcuni colleghi su recenti polemiche esplose negli USA a proposito della sopravvalutazione degli attestati dei corsi dell’Istituto Beck, che in qualche modo starebbero assumendo il valore di certificati di qualificazione (i cosiddetti “patentini”) nell’unica vera psicoterapia cognitivo comportamentale negli USA. Con ovvie conseguenze per tutti i terapeuti cognitivi che non si sono formati al Beck Institute e che rischiano di trovarsi per le mani una qualifica di terapeuti non-proprio-cognitivi o semi-cognitivi o, peggio, falso-cognitivi.

Riflettendo notavo che si trattava di una smentita del detto “certe cose accadono solo in Italia” a favore dell’altro “tutto il mondo è paese”. In questo caso si passava dalla convinzione che solo da noi i certificati dei corsi post-specializzazione in psicoterapia, i “patentini”, starebbero creando problemi alla presa d’atto che si tratta di un problema diffuso. Di chi è la colpa? Del larvato messaggio di questi corsi che suggeriscono che solo loro hanno l’origine controllata? Difficile sostenerlo conoscendo la condotta dell’Istituto Beck. Nei corsi che avevo frequentato a Filadelfia e online avevo osservato di persona la correttezza dei Beck, padre e figlia, il loro non ricorrere a messaggi espliciti e nemmeno subliminali del tipo: la psicoterapia cognitivo comportamentale la si impara solo da noi.

A quanto pare, però, questa correttezza non basta. Questi corsi post-scuola, in Italia come negli USA, stanno assumendo un prestigio crescente che non dipende solo dal sistema educativo di un paese, valore legale derivato dai codici napoleonici in Italia o dalla common law anglo-sassone in USA (ma sarà vera questa distinzione? Io ho dubbi crescenti su queste supposte differenze culturali e legislative) e nemmeno dalle scorrettezze di chi diffonde la voce o suggerisce surrettiziamente che solo questi “patentini” offrano il permesso più o meno legale di operare una certa terapia. I Beck queste scorrettezze non le fanno eppure la voce si diffonde e si diffonde in un paese come gli USA nei quali, si dice, nessun titolo educativo ha alcun valore legale (forse).

Forse è il caso di chiedersi perché. Perché questi patentini assumono un valore intrinseco che va al di là della conferma di aver svolto una certa formazione e acquistano quasi la qualità di una abilitazione? La risposta credo è la crescente caratterizzazione della psicoterapia come disciplina da imparare in una condizione di formazione continua, un esercizio ininterrotto di raffinamento delle abilità cliniche e di aderenza a procedure sempre più precise e mirate.

A questo crescente bisogno le scuole stanno iniziando a rispondere. Ormai sempre più ci si chiede in che senso quello che s’impara è davvero psicoterapia cognitivo comportamentale o psicoanalisi. È passato il tempo in cui ci si poteva illudere di poter inserire un paio di tecniche aggiuntive nel proprio quadro clinico e teorico di riferimento leggendo un libro o facendosi descrivere a voce una tecnica da un collega. Non basta più nemmeno dedicare un fine settimana a un corso dedicato a una tecnica. Si tratta ormai di scegliere dei percorsi prolungati. I corsi che rilasciano i “patentini” rispondono a questo bisogno.

Allora che si fa? Meglio attrezzarsi per evitare il rischio che si diffonda la voce che l’unica vera psicoterapia cognitivo-comportamentale è quella che si insegna ai corsi dell’istituto Beck di Filadelfia. Ora che poi sono online si possono frequentare dalla propria scrivania.

 

Risonanze della psiche. Il Disegno Narrativo Condiviso: immagini e storie in psicoterapia (2019) di G. Passaro – Recensione del libro

Il libro Risonanze della psiche. Il Disegno Narrativo Condiviso: immagini e storie in psicoterapia enfatizza l’importanza della musicalità nelle relazioni e nelle interazioni umane, in terapia come nella vita, e amplia gli orizzonti teorici tracciati nel primo volume dello stesso autore sulla psicoterapia in età evolutiva

 

A due anni dalla pubblicazione del volume sul Disegno Narrativo Condiviso nella psicoterapia con bambini e con bambini e genitori (Passaro, 2017), come naturale continuazione del proprio lavoro e della ricerca sulle potenzialità espressive e creative in psicoterapia, Gianluigi Passaro pubblica un secondo libro, questa volta dedicato all’utilizzo del Disegno Narrativo Condiviso con i pazienti adulti, proponendo anche un esempio di come questo gioco terapeutico possa essere utile durante una supervisione clinica.

Il Disegno Narrativo Condiviso e il ruolo centrale della coppia terapeutica

Il Disegno Narrativo Condiviso (DNC) è un gioco terapeutico grafico-narrativo che vede impegnati contemporaneamente paziente e terapeuta e racconta di come dal loro incontro nasca una coterapia: un processo di cura e di guarigione in cui paziente e psicoterapeuta sono essenziali l’uno all’altro. Centrale nella proposta di Passaro è l’idea della coppia terapeutica, intesa come unione delle possibilità e dell’intimità di paziente (bambino o adulto) e terapeuta.

In quest’ultimo lavoro, l’Autore sottolinea come l’attitudine ludica alla narrazione e alla relazione sia una risorsa preziosa anche nell’incontro terapeutico con gli adulti e presenta le attività del gioco, del disegno e della narrazione in terapia come una strada naturale per superare le difficoltà e trovare nuove risorse per guardare alla vita, a se stessi e agli altri da un punto di vista differente.

Il libro enfatizza l’importanza della musicalità nelle relazioni e nelle interazioni umane, in terapia come nella vita, e amplia gli orizzonti teorici tracciati nel primo volume sulla psicoterapia in età evolutiva (Passaro, 2017) facendo riferimento in maniera più ampia e approfondita alla psicologia analitica e al mito, e tracciando un parallelo tra il disegno narrativo condiviso e il Gioco della Sabbia (anche grazie al contributo della psicologa analista Stefania Baldassari).

Disegnare e raccontare assieme a un paziente in psicoterapia – scrive Passaro – presuppone uno scambio ricco di ritmi differenti, con musicalità proprie, pause, dissonanze, momenti di sintonia e di co-creatività. Lo spazio della terapia diviene simile a una partitura musicale, dove più voci e strumenti si accordano per dar vita alla musica e al racconto. La musicalità della coppia terapeutica contribuirà al racconto nuovo che il paziente darà della sua storia e ai nuovi orizzonti di senso che si riusciranno a vedere. Il libro, attraverso lo sfondo epistemologico e culturale offerto dall’infant research, dalla psicoanalisi, dalla psicologia analitica e dal Gioco della Sabbia, dal mito, dalla fiaba e dall’arte, presenta il gioco terapeutico del Disegno Narrativo Condiviso in percorsi clinici con pazienti adulti e sottolinea l’importanza di un’attitudine ludica alla narrazione tanto nella terapia con i bambini quanto nell’incontro con l’adulto  (Passaro, 2019, pagina 38).

Risonanze della psiche: un libro sugli aspetti ludici, narrativi e simbolici del lavoro terapeutico

Il libro Risonanze della psiche possiede una scrittura fluida e interessante, a tratti poetica. Il lavoro si articola idealmente in tre parti: nella prima parte del libro viene descritto il gioco terapeutico del Disegno Narrativo Condiviso e il suo utilizzo nella psicoterapia con i pazienti adulti; è presentata una breve introduzione sul gioco e sulle capacità co-creative della coppia terapeutica (a questo riguardo, Passaro rilegge in maniera originale un percorso clinico della psicoanalista Lidia Tarantini con il Gioco della Sabbia; cfr. Tarantini, 2014), e sono proposti degli esempi di DNC con pazienti adulti per riflettere su alcuni aspetti teorico-clinici.

La seconda parte del libro è occupata da un contributo di Stefania Baldassari che traccia un parallelo tra il Gioco della Sabbia e il Disegno Narrativo Condiviso ponendo in luce i tratti comuni e le differenze da cogliere ed esplorare.

Infine, il volume si conclude con la presentazione di un percorso clinico durato alcuni anni (“La storia di Cosmo”), raccontato estesamente, nel quale la coppia terapeutica gioca diversi Disegno Narrativo Condiviso, e per il quale Passaro propone al lettore un Disegno Narrativo Condiviso giocato durante una supervisione clinica assieme a un altro psicoterapeuta.

Il libro è ricco di spunti per il lettore interessato agli aspetti ludici e simbolici della narrazione terapeutica. La presenza dei disegni, in calce al volume, e i tanti estratti narrativi (i testi dei DNC, sogni e le Sabbie) permettono al lettore di riflettere con facilità sui principi teorici cui il Disegno Narrativo Condiviso si ispira e di ampliarne personalmente la ricchezza dello sfondo culturale e clinico, così da continuare il lavoro di ricerca sul Disegno Narrativo Condiviso, come auspica lo stesso Autore che scrive a tal proposito:

Dopo aver lavorato al DNC per anni, dopo aver esplorato le sue potenzialità nella psicoterapia con bambini, con bambini e genitori, e con pazienti adulti, sono felice di aver compreso che, ai miei occhi, la strada da percorrere per me e per lui è molto più lunga di quella percorsa: non si è mai davvero uno psicoterapeuta, ma si continua sempre a diventarlo (Risonanze della Psiche, 2019, pagina 39).

Risonanze delle psiche è un testo interessante per chi sia incuriosito dagli aspetti ludici, narrativi e simbolici del lavoro terapeutico, e dà voce al filone della ricerca psicoanalitica e psicoterapeutica che vede nella relazione e nelle risorse messe in campo da paziente e terapeuta il motore principale per il cambiamento possibile.

 

Il cervello flessibile

Quando tentiamo di capire la natura, essa ci appare aleatoria finché non viene istituito un punto di vista, un codice, per interpretarla. Selezioniamo in parte il contenuto di ciò che stiamo analizzando, una libera scelta, eliminando le informazioni non pertinenti, il rumore di fondo che limita la precisione del nostro messaggio.

 

A tutti sarà capitato di viaggiare in auto costeggiando un frutteto o un boschetto artificiale. Gli alberi sembrano disposti in modo causale, ma, raggiunta un’angolazione particolare, è possibile vedere la regolarità delle file nelle quali gli agricoltori hanno deciso di piantarli. Quando tentiamo di capire la natura, essa ci appare aleatoria finché non viene istituito un punto di vista, un codice, per interpretarla. Selezioniamo in parte il contenuto di ciò che stiamo analizzando, una libera scelta, eliminando le informazioni non pertinenti, il rumore di fondo che limita la precisione del nostro messaggio. Un codice non è però assoluto, ci possono essere parecchi messaggi nella medesima materia e un cambiamento della modalità di lettura può rilevare messaggi importanti, contenuti in qualcosa, prima considerato semplicemente rumore, e viceversa. Le neuroscienze si sono spesso scontrate con questa problematica, in particolare nella definizione del connettoma, ovvero la descrizione strutturale comprensiva del nostro sistema nervoso (Sporns, Tononi, & Kötter, 2005).

Network cerebrali: prospettive d’analisi

Cosa usare come “nodi” di questa rete? Che relazione c’è fra di loro? Sono domande difficili a cui rispondere. Ad esempio, costruire un network a livello dei collegamenti fra miliardi di singoli neuroni non è una prospettiva realistica e potrebbe comunque non essere necessario. Salendo, invece, a livello di intere aree cerebrali, un compito possibile per le moderne tecniche di imaging, si perderà la capacità di delineare gli agenti della rete in modo preciso. Non esiste infatti un unico schema universalmente accettato della parcellizzazione del cervello.

Negli ultimi anni, si è iniziato a considerare il pattern di connessioni neurali anatomiche sempre più come l’insieme dei “confini” che riducono il numero dei possibili stati cerebrali assumibili, entro i quali le dinamiche del sistema nervoso rimangono fluide e sensibili alle perturbazioni (Sporns, 2011). Mappe funzionali e strutturali del cervello sono intrinsecamente legate e parzialmente sovrapponibili, entrambe presentano una forma altamente clusterizzata, caratterizzata da brevi distanze che ne collegano le varie parti, un’organizzazione multiscala, dinamiche non lineari e la capacità di auto-organizzarsi. Da queste proprietà deriva la naturale propensione a promuovere la segregazione, quindi la clusterizzazione locale, e l’integrazione, ovvero l’efficienza globale del sistema. Nonostante ciò, esistono forti connessioni funzionali fra regioni non direttamente legate da vie anatomiche. Ciò ha disincentivato l’utilizzo teorico di reti spazialmente fisse in favore di una concezione degli agenti e delle loro connessioni come variabili, in funzione del tempo (Calhoun, Miller, Pearlson, & Adalı, 2014).

Sistema neurale: variabilità e fluidità delle sue connessioni

Un recente studio ha fatto un ulteriore passo in questa direzione, proponendo una misura che permette di considerare la rete dinamica dei livelli di correlazioni fra i vari sottosistemi che formano il nostro cervello, chiamata per l’appunto cronnettoma spaziale (Iraji, et al., 2019). I ricercatori americani hanno prima calcolato l’attività temporale di ogni sottosistema cerebrale, svolgendo una independent component analysis, un algoritmo in grado di dividere un segnale multivariato nei fattori che lo costituiscono. Hanno poi calcolato la relazione temporale di ogni sottosistema cerebrale così trovato con quello di ogni voxel, i pixel tridimensionali che costituiscono le unità dei dati di neuroimaging.

Ciò ha permesso di incapsulare le variazioni spazio-temporali del sistema in diversi momenti, porzionando i dati in una sequenza di blocchi consecutivi, un approccio chiamato finestra scorrevole. Attraverso questo processo è stata costruita una matrice di transizione spazio-temporale, in grado di rappresentare distintamente gli stati neurali in modo fluido, mostrando la frazione di tempo nel quale diverse aree cerebrali partecipano in un determinato sottosistema. Ciò ha permesso di individuare, per la prima volta, importanti caratteristiche non identificabili dalle analisi classiche. Ad esempio, l’attività del cervelletto è risultata associata positivamente con i network frontoparietali e negativamente con i network visivi, uditivi e somatomotori. Inoltre, questo metodo si è rivelato sensibile alle differenze fra controlli e soggetti affetti da schizofrenia, quali una maggiore variabilità generale e una minore intensità delle correlazioni fra i vari sottosistemi cerebrali, in particolare per le regioni sensomotorie.

Il futuro sembra portare all’abbandono della classica visione del nostro sistema neurale come la statica interazione di definiti sottosistemi, in favore di una concezione fluida e variabile delle sue componenti e delle loro connessioni. La ricerca di Iraji e collaboratori ha proposto una nuova misura, un nuovo codice, per l’interpretazione dei network cerebrali e della loro evoluzione nel tempo, un risultato che potrebbe avere effetti profondi per le neuroscienze e la psicopatologia.

Le terapie online: quello che accade attraverso uno schermo

Le terapie online stanno prendendo sempre più piede, adeguandosi così ai tempi e riducendo le distanze, accedendo a professionisti anche geograficamente lontani.

Si suggerisce l’ascolto del brano “Astradyne” (Ultravox, 1980) durante la lettura.

 

Negli ultimi anni si sta diffondendo la cultura di incontri e relazioni nate e coltivate attraverso i preziosi mezzi che l’era digitale offre. Lo sanno bene le coppie che si conoscono, fidanzano o si lasciano tramite Whatsapp, oppure amici, coniugi, genitori e figli, partner e amanti che vivono lontani e che si scambiano lunghi messaggi amorosi o litigiosi, che si trovano costretti a ricorrere ad infinite videochiamate emotivamente molto intense e cariche.

Nuove frontiere della psicoterapia

Alla luce di questa tendenza anche la psicoterapia si è adeguata, ma ci sono ancora tanti dubbi sulla terapia on-line. Si crede che non favorisca un’adeguata vicinanza emotiva interferendo con i processi empatici alla base di outcames positivi. Considerando la maggiore familiarizzazione delle nuove generazioni (nativi digitali) con i device informatici (videochat, multiplayer in real time dei videogiochi, whatsapp, ecc.), si potrebbe pensare che il problema della supposta ridotta empatia, possa essere percepita maggiormente dai cosiddetti ibridi o migranti digitali. Insomma forse per un paziente o un terapeuta giovane non c’è molta differenza tra sedute Skype o di persona, perché, in qualche modo, è già avvezzo a esprimere aspetti intimi, personali, emozionali con queste modalità!

Si definisce “empatia digitale” la capacità di prendersi cura degli altri, nonché esprimere in modo immediato pensieri, emozioni e sensazioni mediante canali digitali, senza gli specifici indicatori di empatia sociale caratteristici delle modalità tradizionali di interazione (Terry, Cain, 2016). Alla luce di tutte queste considerazioni, allora, la distanza relazionale nelle sedute Skype, forse, è più percepita che reale ed infatti sembra che la Psicoterapia tramite video (VCP: Videoconferencing Psychotherapy) funzioni al pari delle terapie standard, faccia a faccia, con diverse tipologie di utenza (Backhaus et al., 2012).

Psicoterapia on-line: possibile risorsa?

Ammetto che io stessa ne ero perplessa. Mi dicevo che sarebbe stato complesso gestire la relazione, che la connessione sarebbe saltata nei momenti meno opportuni e che le condizioni della luce non avrebbero favorito un bel niente. Mi chiedevo come avrei potuto sentire tutte quelle cose che si muovono nella pancia quando hai un paziente ad un metro di distanza in carne ed ossa, quando ne senti il profumo della pelle, quando riesci ad intravedere il luccichio negli occhi o il rossore sulle gote appena prima di pervadere tutto il volto. Poi un giorno, impossibilitata a raggiungere la mia terapeuta, abbiamo utilizzato Skype e non è andata così male. Successivamente, alcuni pazienti si son dovuti trasferire per lavoro, la terapia era nel vivo del suo ciclo di vita ed abbiamo deciso di continuare, grazie ai preziosi mezzi della tecnologia. Superando le mie perplessità, ho scoperto che le videochiamate possono addirittura essere una risorsa. I motivi sono vari ed ora li spulciamo insieme.

Nel focalizzarmi sulla immagine dello schermo, in un quadrato piccolissimo in alto a destra, ho notato che c’ero io riflessa e potevo scrutare esattamente tutte le mie smorfie, espressioni, il mio modo di gesticolare. Ecco la prima risorsa delle sedute on line: il terapeuta può guardarsi, monitorare il suo stato interno. Ricordo che un tempo lessi un articolo sulla Self Mirroring Therapy (SMT) (Vinai & Speciale, 2013) e pensai che registrare e poi osservare le sedute fosse un lavoro davvero interessante. Con Skype lo si può provare a fare in “real time”. La propria espressione facciale diventa un feedback molto importante e soprattutto ricchissimo di informazioni relative alla relazione con il singolo paziente o a quello che accade nella mente del terapeuta. Allora mi sono incuriosita ed ho cominciato a vivermi le sessioni via Skype con uno spirito diverso. All’inizio mi sembrava difficile condurre la seduta, focalizzarmi sul paziente e anche su quel piccolo rettangolino che mi conteneva, che avrei addirittura potuto spostare o ingrandire per guardare meglio, poi ho capito che avrei potuto fare entrambe le cose contemporaneamente e che questo avrebbe condotto ad un patrimonio ricco di informazioni. Avrei potuto anche aiutare il paziente ad ancorarsi al suo non verbale. Come non pensarci prima? Ad esempio, M. ha osservato, grazie al mio suggerimento, quel sopracciglio destro, che assume una vita tutta sua, ogni qual volta mi narra una scena in cui l’altro la umilia. Ecco la seconda risorsa: anche il paziente può osservare meglio le sue espressioni facciali.

Guardarsi mentre il volto esprime, in modo non verbale, una certa emozione attiva i neuroni specchio. Tale processo favorisce un maggior riconoscimento dell’esperienza emotiva senza effettuare un lavoro autoriflessivo, perché, proprio per le caratteristiche intrinseche del sistema mirror, si attiva un riconoscimento preriflessivo, immediato ed automatico. Di conseguenza, però, riflettere consapevolmente su questi processi favorisce una maggiore conoscenza autoriflessiva in termini cognitivi ed emotivi. Ciò accade sia scrutando l’altro, sia quando osserviamo il nostro stesso volto impegnato ad esprimere una certa emozione: l’attivazione neuronale permette un riconoscimento viscerale, corporeo, motorio, oltre che cognitivo-semantico, che coinvolgono aree neuronali attive quando noi stessi proviamo quella emozione. Questo è ciò che si chiama “simulazione incarnata” (Shapiro, 2007), strettamente legata all’empatia e alla simpatia interpersonale.

Che valore hanno le informazioni perse?

C’è un punto che resta un po’ in ombra: e il resto del corpo? Questo aspetto forse effettivamente si perde un po’. Gli autori di questo articolo hanno opinioni leggermente diverse e non sveliamo chi dei due la pensa in un modo piuttosto che nell’altro. Lasciamo la questione aperta e ci impegniamo a rifletterci su per futuri confronti: il fatto che il paziente non veda che stiamo giocherellando con l’orologio o che stiamo seduti sul bordo della poltrona in modo eccessivamente rigido, dopo quel determinato episodio narrativo, è un bene o un male? Chi dei due crede che possa essere un bene, argomenta questa posizione sostenendo che in questo modo evitiamo che il paziente possa costruirsi una rappresentazione mentale del terapeuta schema-guidata. Per l’altro autore è l’esatto contrario, credendo, anzi, che tutti questi elementi sono fondamentali nella seduta, soprattutto se vengono portati a galla, metacomunicati ed incorniciati assieme.

Sembra quasi che tra i due autori ci sia chi voglia proteggere il paziente e chi crede che così facendo perda una porzione notevole di informazione! Certo è che il nostro volto ed il nostro corpo possono trasmettere sicurezza o minaccia, e non sempre ci rendiamo conto di quel che accade. Le microespressioni facciali, le pieghe muscolari del volto, i piccoli momenti di distrazione o di perdita del contatto visivo del terapeuta sono spesso inconsapevoli e vengono “captati” in modo ugualmente inconsapevole dal paziente, assieme a tutti altri aspetti verbali e corporei. Gli stimoli sensoriali percepiti sono procedurali e attivano le memorie associate del paziente e le rappresentazioni dell’altro (Dimaggio, Popolo, Ottavi, Salvatore, 2019).

Psicoterapia on-line e le sue potenzialità

Poter osservare le nostre espressioni tramite Skype e modularle, può aiutarci a offrire maggiori segnali di ingaggio, facendo sentire il paziente al sicuro e questo può tradursi in un volto più rilassato o in un cambiamento nella frequenza delle vocalizzazioni (Porges, 2018). Dal vivo lo possiamo notare e rimandare al paziente, durante una video-seduta lo possiamo far constatare proprio mentre accade, potendo esplorare ed accedere a contenuti mentali rilevanti. Certo, il terapeuta esperto dovrebbe essere abituato a cogliere ogni suo coping corporeo, come muovere un piede, serrare le mascelle, bruxare o giocare con le dita, tutti gesti che rappresentano un adattamento o una gestione di suoi stati interni.

Durante una seduta dovremmo ascoltare il paziente su un piano di realtà e tradurre tutto in “psicologese”, al contempo dobbiamo tenere d’occhio il suo corpo e i suoi stati emotivi interni, fare interventi tecnici, ricostruire schemi e funzionamenti, osservare le nostre reazioni, riconoscere i nostri schemi, le nostre emozioni e i nostri coping corporei. Tanta roba e tutto da soli. Perché non approfittare di un piccolo aiuto? Magari grazie della “reverse camera” di Skype? I piccoli movimenti che noi attuiamo come cambiamenti posturali, piegamenti del tronco in avanti o all’indietro, movimenti del capo, mandano continuamente informazioni al cervello, sia in chi li attua che a chi li riceve, e queste informazioni si traducono in segnali che producono cambiamenti nell’altro e in noi stessi (Porges, 2014). Ecco un’altra risorsa: il terapeuta può riconoscere l’attivazione di un suo coping somatico e procedurale cogliendolo in diretta e può consapevolizzarlo, notando che sta succedendo qualcosa dentro di sé o con il paziente e può, forse, perfino ipotizzare cosa sta provando il paziente e perché. Identificare e modulare tutto questo favorisce una maggiore sintonizzazione e di conseguenza una relazione terapeutica più salda.

Alla luce di tutte queste osservazioni e grazie anche alle conclusioni di studi scientifici che cercano di provarne sempre di più l’efficacia, segno di maggiore predisposizione alla questione, le terapie online stanno prendendo sempre più piede, adeguandosi così ai tempi e riducendo le distanze, accedendo a professionisti anche geograficamente lontani. Siamo certi che una delle ripercussioni notevoli risiede nella possibilità di svolgere sedute di terapia, in pieno agosto, senza scarpe.

Indiscutibile opportunità anche per i pazienti.

 

L’audizione protetta del minore nei procedimenti di presunti abusi sessuali o maltrattamenti in famiglia

Sono in aumento i procedimenti penali che vedono come testimone un minore, vittima di reati quali abusi sessuali o maltrattamenti in famiglia; per tutelare questa fascia debole viene messa in atto una attività di raccolta delle informazioni denominata audizione protetta.

 

Sono in aumento i procedimenti penali che vedono come testimone un minore, vittima di reati quali abusi sessuali o maltrattamenti in famiglia, procedimenti sempre più delicati e difficili da affrontare per ogni attore che entra a farne parte. Per tutelare questa fascia debole viene messa in atto una attività di raccolta delle informazioni denominata audizione protetta, che può essere disposta sia dal Pubblico Ministero (P. M.) che dal Giudice (di solito G. I. P.) durante la fase dell’incidente probatorio (legge n.66/96 nell’art. 14 e comma 4 del 498 c.p.p.)

Audizione protetta: come ascoltare la testimonianza della vittima

Il PM e/o il Gip devono nominare un ausiliario che vada a coadiuvare l’escussione testimoniale della vittima, che di solito viene scelto all’interno di queste categorie professionali: psicologo dell’età evolutiva o neuropsichiatra infantile; poiché non è semplice far parlare un minore, riuscire a creare empatia, metterlo a proprio agio e raccontare situazioni intime ed imbarazzanti ad uno sconosciuto.

Fondamentale che l’esperto conosca il caso per cui si procede, non faccia domande suggestive né tanto meno induttive. La raccolta della testimonianza deve avvenire in un sito adeguato per il minorenne e la fascia evolutiva in cui si trova, ovvero in una stanza che deve essere dotata di strumenti specifici quali impianti di audio- fono- registrazione, con auricolari, che deve utilizzare l’esperto quando il Magistrato pone le domande al minore e microfono a clips (viene sconsigliato il vecchio microfono perché potrebbe inibire la presunta vittima di abuso sessuale nel racconto); oppure uno specchio unidirezionale in cui le persone possono assistere senza che il minore le veda.

La videoregistrazione è finalizzata anche a ridurre le audizioni del minore. 

All’interno di questa stanza è fondamentale che vi siano dei giochi (puzzle, memory), dei fogli con dei colori (meglio a matita) e dei fazzoletti nel caso di eventuale labilità emotiva della vittima.

Ci si interroga su chi faccia cosa, nel senso che è poco chiaro chi debba condurre l’audizione, se il magistrato o l’esperto.

Audizione protetta del minore: le linee guida

Sono molte le linee guida che cercano di regolarizzare i punti fondamentali di questa attività: le linee guida C. S. M. -Unicef “L’ascolto dei minorenni in ambito giudiziario” (art. 4.2, p. 72), le Linee Guida Nazionali sull’ascolto del minore testimone, Carta di Noto (aggiornata nel 2011, recependo le disposizioni contemplate dall’art. 8, comma 6 del Protocollo della Convenzione di New York ratificato l’11 marzo 2002 e dall’art. 30, comma 4 della Convenzione di Lanzarote, ratificata in Italia con L. 172/2012) con il Punto 7: le dichiarazioni del minore vanno sempre assunte utilizzando protocolli di intervista o metodiche ispirate alle indicazioni della letteratura scientifica, nella consapevolezza che ogni intervento sul minore, anche nel rispetto di tutti i canoni di ascolto previsti, causa modificazioni, alterazioni e anche perdita dell’originaria traccia mnestica, le Linee Guida per l’ascolto del minore testimone della Questura di Roma (2011).

 

Carl Rogers, la psicologia umanistica e la terapia centrata sul cliente – Introduzione alla Psicologia

Carl Rogers ideò un modello psicoterapeutico definito terapia centrata sul cliente detta anche non direttiva e terapia rogersiana, che nacque all’interno dalla psicologia umanistica. 

Secondo tale approccio non sono le pulsioni istintuali a motivare il soggetto, ma il bisogno di conoscere, e autorealizzarsi.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La vita di Carl Rogers: dalla natura alla teoria basata sul cliente

 Carl Rogers è nato a Oak Park, una contea dell’Illinois, l’8 gennaio 1902 da una famiglia protestante avente rigidi principi morali, che, qualche anno più tardi, si trasferì in campagna per dedicarsi all’allevamento di bestiame. Da qui Rogers maturò l’interesse per la natura e gli animali al punto da iscriversi alla facoltà di Agraria, ma subito dopo scoprì di essere interessato maggiormente agli studi teologici. Qualche anno più tardi, intraprese un viaggio in Cina, con dei colleghi, per partecipare alla conferenza internazionale organizzata dalla Federazione Mondiale degli Studenti Cristiani. Questo incontro diede la possibilità a Carl Rogers di operare un confronto non solo culturale ma anche teorico e di pensiero, chiarendo quale fosse il suo reale interesse di studio.

Da questa esperienza maturò l’intenzione di abbandonare l’indirizzo teologico e di intraprendere un percorso di studi a orientamento psicopedagogico. Dopo un anno presso l’Institute for Child Guidance iniziò a lavorare presso il Child Study Deparment di Rochester. Il suo interesse per le teorie di Otto Rank e per l’Esistenzialismo europeo, portarono nel 1939 alla pubblicazione del suo primo libro The clinical treatment of problem child, grazie al quale ottenne una cattedra di psicologia clinica in Ohio.

Tre anni più tardi pubblicò il libro dal titolo Counseling and Psychotherapy, pilastro al suo innovativo approccio teorico, ovvero la teoria basata sul cliente.

Nel 1957 ottenne la Cattedra di Psicologia e Psichiatria presso l’Università del Wisconsin. In questa sede cominciò a sperimentare il suo approccio terapeutico, concretizzando i primi risultati.

Successivamente, decise di abbandonare l’insegnamento per fondare in California il Center for the Study of the Person e l’Institute of Pedace, orientato allo studio e alla soluzione dei conflitti.

Carl Rogers è stato candidato al Premio Nobel per la pace nel gennaio del 1987 e morì qualche giorno dopo, esattamente il 4 febbraio dello stesso anno.

Carl Rogers e la psicologia umanistica

Carl Rogers fondò la Psicologia Umanistica, che pone le sue radici nel valutare positivamente le risorse e le potenzialità presenti in ogni individuo. Secondo Rogers, ognuno possiede un proprio valore e una determinata capacità di autodeterminazione che consente di perseguire specifici scopi o risultati. 
Carl Rogers sosteneva che tutti hanno le capacità di autodeterminazione, utile a determinare il proprio comportamento per migliorarlo. Tale processo è stato definito da Rogers come tendenza attualizzante e consiste nella volontà naturale di vivere, perfezionarsi, preservarsi e modificarsi.

Secondo Rogers le persone sane sono aperte mentalmente verso nuove esperienze, vivono liberamente ogni momento e sono in grado di ascoltare sia se stessi che gli altri perseguendo i propri bisogni o obiettivi.

Il pensiero di Carl Rogers era in netto contrasto con quello psicoanalitico vigente, e per questo era considerato molto innovativo e rivoluzionario.

Egli fu il primo a considerare la natura umana come una capacità innata volta al raggiungimento e al mantenimento della salute e dell’autoregolazione.

Partendo da questo presupposto, rifiutò il termine paziente, poiché lo considerava viziato dal concetto di malattia e lo sostituì con il termine “Cliente”. Rogers dunque partiva dal presupposto che non esiste una malattia mentale da curare ma tutti possiamo incappare in momenti difficili da affrontare e per questo, grazie alle risorse personali, è possibile superare questi stati liberamente. I problemi che possono verificarsi durante l’arco della vita derivano da una distorsione della tendenza attualizzante e lo scopo è ripristinare questa funzione ciclica e continuativa.

La terapia di Carl Rogers

Carl Rogers ideò un modello psicoterapeutico definito terapia centrata sul cliente detta anche non direttiva e terapia rogersiana, che nacque all’interno dalla psicologia umanistica. 

Secondo tale approccio non sono le pulsioni istintuali a motivare il soggetto, ma il bisogno di conoscere, e autorealizzarsi. Rogers sostiene che bisogna superare il pessimismo antropologico Freudiano secondo il quale l’uomo risponde agli impulsi non razionali e guardare come il comportamento è dato da un naturale fluire di stadi. Infatti,il comportamento umano è razionale ed è determinato dagli obiettivi che ognuno si prefigge di raggiungere. Lo scopo della psicoterapia dunque è quello di consentire alla tendenza attualizzante di agire liberamente, eliminando gli ostacoli che impediscono l’autorealizzazione della persona. L’individuo possiede in se stesso le risorse necessarie per guarire e per questo è esso stesso a dover lavorare in terapia. Per queste ragioni, la psicoterapia rogersiana si difinisce “centrata sul cliente”.

Terapia centrata sul cliente

La terapia centrata sul cliente è determinata dalla relazione che si instaura tra terapeuta e cliente. Secondo tale approccio lo psicoterapeuta non possiede delle tecniche di intervento protocollari e per questo è libero di interagire con l’individualità del cliente.

La relazione, però, deve seguire un determinato schema:

  • Non-direttività: la relazione che si instaura tra terapeuta e cliente è di tipo paritetica, il terapeuta incita il cliente a utilizzare le sue risorse personali per individuare una soluzione al problema presentato.
  • Empatia: affinché la relazione possa portare a dei risultati è necessario che il terapeuta vesta i panni del cliente e tenti di vedere il mondo con i suoi occhi, abbandonando i propri schemi personali.
  • Accettazione: il terapeuta accetta i pensieri e i comportamenti del cliente in maniera incondizionata e per questo ascolta attivamente e senza mettere in atto pregiudizi.

La terapia centrata sul cliente è particolarmente indicata nei casi in cui non si riesca a entrare in contatto con le proprie esperienze e a riconoscere le proprie emozioni. Si determina in questo modo una sorta di conflitto interiore e inautenticità, che porta la persona a non essere pienamente se stessa nella relazione. Carl Rogers definisce questo stato “incongruenza”, che non permette all’individuo di crescere positivamente o di effettuare le proprie scelte in maniera ottimale.

La terapia centrata sul cliente ha come obiettivo l’aprirsi liberamente all’altro in maniera autentica. Inoltre, attraverso tale processo terapeutico è possibile comprendere empaticamente come l’altro costruisce il proprio rapporto con se stesso, gli altri, il mondo. Questo concetto rappresenta la base dell’epistemologia della Psicoterapia Centrata sul Cliente e della sua pratica psicoterapeutica.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Dolcificanti senza calorie: alleati o nemici nella lotta contro l’obesità?

Obesità e dolcificanti senza calorie: dibattito ancora aperto sugli effetti dei dolcificanti a zero calorie. Se nel breve termine sembrano facilitare la perdita di peso, il loro consumo abituale, influenzando processi cognitivi, scelte alimentari e soddisfazione post-consumazione, ostacolerebbe invece la gestione del peso corporeo. 

 

Con obesità e sovrappeso aumenta l’offerta di dolcificanti senza calorie

Che l’eccesso di grasso corporeo rappresenti un rischio per la salute non è certo una novità. Il sovrappeso e l’ obesità sono infatti tra i principali fattori di rischio per diabete e patologie cardiovascolari, due tra le principali “malattie non trasmissibili” (NCDs). Strettamente legate allo stile di vita occidentale medio, in cui alimentazione scorretta e sedentarietà regnano sovrane, le NCDs sono oggi responsabili del 71% dei decessi prematuri a livello globale. Ciononostante, i tassi di obesità e sovrappeso sono in costante aumento in tutto il mondo.

Un trend di questo tipo richiede un urgente e drastico cambio di rotta. Non stupisce, quindi, l’offerta sempre maggiore di prodotti dietetici “senza zuccheri aggiunti”, in cui lo zucchero viene sostituito con dolcificanti a zero calorie. Prodotti, questi, che si pongono l’obiettivo di facilitare la perdita di peso, o di prevenirne l’aumento, ma i cui effetti hanno generato non poche controversie tra i ricercatori. Da un lato, infatti, molte ricerche evidenziano come, soprattutto nel breve termine, il consumo di tali prodotti in sostituzione dei tradizionali, ricchi in zuccheri, faciliti la perdita di peso (e.g., de Ruyter et al., 2012; Raben et al., 2002). Dall’altro, tuttavia, i risultati di alcune ricerche mostrano come, nel lungo termine, il consumo di prodotti “senza zuccheri aggiunti” si associ ad un aumento di peso (e.g., Green & Murphy, 2012; Rudenga & Small, 2012; Smeets et al., 2011; Swithers & Davidson, 2008). I dolcificanti presenti in questi prodotti determinerebbero infatti alcuni cambiamenti psicologici e comportamentali, che ostacolerebbero, anziché facilitare, la gestione del peso corporeo.

Dolcificanti ed effetti psicologici: un ostacolo alla perdita di peso?

I sostenitori di questo secondo filone di pensiero partono dall’assunto che il nostro cervello sia, per motivazioni evolutive legate alla sopravvivenza, predisposto ad associare il sapore dolce alla disponibilità di energia che segue il consumo di zucchero. Da qui, la preferenza innata per i cibi dal sapore dolce. Nei cibi “senza zuccheri aggiunti”, tuttavia, questa associazione verrebbe meno, e si ipotizza che questo vada in qualche modo ad alterare i naturali processi di regolazione dell’assunzione di cibo e la risposta edonica (di piacere) al cibo, ostacolando in maniera subdola la perdita di peso.

In linea con queste affermazioni, alcuni ricercatori della Texas Christian University (Hill et al., 2014) hanno condotto una serie di esperimenti per verificare quali fossero gli effetti del consumo bevande contenenti dolcificanti senza calorie sui processi cognitivi, sulle scelte alimentari e sulla soddisfazione post-consumazione. In particolare, i ricercatori hanno osservato le differenze tra coloro che avevano consumato Sprite, Sprite Zero e acqua frizzante.

Dai risultati dei tre esperimenti, è emerso che:

  • Chi ha consumato Sprite Zero mostra una maggiore accessibilità cognitiva (i.e. una maggiore facilità di recupero dalla memoria) delle informazioni riguardanti alimenti altamente calorici: di fronte a stringhe di lettere da categorizzare come “parole” o “non-parole”, quando le stringhe di lettere formano nomi di cibi altamente calorici (es. pizza, cookie) il tempo impiegato per riconoscere la stringa di lettere come “parola” è inferiore rispetto a quello impiegato dagli altri partecipanti.
  • Chi ha consumato Sprite Zero riporta una maggiore volontà di mangiare alimenti ad alto contenuto calorico: posti di fronte ad un ipotetico scenario di scelta tra alimenti ad alto (es. m&m’s) ed a basso contenuto calorico (es. gomme da masticare senza zucchero), tendono a scegliere in misura maggiore alimenti ad alto contenuto calorico rispetto agli altri partecipanti.
  • Chi ha consumato Sprite Zero riporta, rispetto agli altri partecipanti, minore soddisfazione in seguito al successivo consumo un alimento (biscotto) contenente zucchero. Non ci sono però differenze rispetto alla quantità di biscotti mangiati e rispetto alla valutazione della bontà del biscotto.

In generale, sembra quindi che il consumo di bevande “senza zucchero” aumenti il desiderio implicito di alimenti ad alta intensità calorica (esperimento 1) e possa, potenzialmente, portare alla successiva assunzione di un numero maggiore di calorie tramite la scelta di consumare tali alimenti (esperimento 2). Tuttavia, le bevande “senza zucchero” non sembrano avere un impatto sulla quantità di cibo consumato nei pasti immediatamente successivi. Si rileva però una minore soddisfazione in seguito al consumo di alimenti contenenti zucchero (esperimento 3), che potrebbe rivelarsi una lama a doppio taglio: se, da un lato, potrebbe inibire la ricerca di alimenti zuccherini, proprio a causa della loro incapacità di generare piacere, dall’altro potrebbe infatti portare a cercare altro cibo per gratificarsi.

I risultati di questa ricerca offrono un importante contributo al corpus di ricerche che sostengono che i dolcificanti a zero calorie possano, con il tempo, ostacolare la gestione del peso corporeo, sottolineando anche l’importanza di includere la dimensione psicologica all’interno del dibattito circa gli effetti dei dolcificanti a zero calorie sull’organismo.

Dolcificanti e comportamento alimentare: quale relazione allora?

È tuttavia importante sottolineare come ad oggi non sia ancora stata trovata una risposta definitiva al dibattito. Queste sostanze sembrano infatti avere effetti diversi, e persino opposti, sul comportamento alimentare e sulla gestione del peso corporeo, che non necessariamente si escludono l’uno con l’altro. Inizialmente, utilizzare dolcificanti in sostituzione dello zucchero e ridurre così l’apporto energetico degli alimenti sembra facilitare la perdita di peso.

In seguito, però, il consumo abituale di queste sostanze potrebbe promuovere l’aumento del peso tramite meccanismi di compensazione: avendo ridotto il numero di calorie introdotte tramite la semplice eliminazione dello zucchero, alcune persone potrebbero sentirsi legittimate a mangiare di più. Oltre a questo, la continua esposizione al sapore dolce fa sì che il soggetto non modifichi le proprie preferenze in termini di gusto, e che continui a cercare alimenti dolci, alimentando così il circolo vizioso. Non bisogna, inoltre, tralasciare le differenze metaboliche individuali e le differenti composizioni dei cibi e delle bevande che contengono i dolcificanti senza calorie, che hanno un impatto rilevante sul bilancio energetico complessivo e, quindi, sulla gestione del peso corporeo.

L’utilizzo dei dolcificanti artificiali per intervenire contro la diffusione a macchia d’olio di sovrappeso e obesità, almeno da un punto di vista prettamente psicologico, non sembra essere la soluzione migliore. Può certamente rappresentare un mezzo, ma l’obiettivo finale non può che essere quello di educare le persone ad una corretta alimentazione e di rieducare il palato ai sapori semplici e genuini.

 

Genitori in carcere: le conseguenze a lungo termine sui figli

Lo studio, pubblicato su JAMA Network Open, è stato condotto dal Center for Child and Family Policy presso la Duke University Stanford School, e ha come scopo quello di indagare l’associazione tra la detenzione genitoriale e lo sviluppo di disturbi mentali in età adulta ed esaminare il futuro di questi bambini in ambito sanitario, legale, finanziario e sociale.

 

Negli ultimi 50 anni, i tassi di detenzione negli Stati Uniti sono cresciuti enormemente ed è stato stimato che circa l’8% dei bambini statunitensi di età inferiore ai 18 anni ha vissuto l’incarcerazione di un genitore o tutore nel 2016. In particolare, i bambini che assistono all’incarcerazione di una delle due figure genitoriali appartengono a gruppi di minoranze etniche e vivono in ambienti svantaggiati.

Diversi studi hanno dimostrato che, durante l’infanzia,la detenzione genitoriale è un fattore di rischio per lo sviluppo di comportamenti aggressivi e antisociali.

Per quanto riguarda l’adolescenza, si hanno risultati limitati sulla detenzione genitoriale: alcuni studi la indicano come fattore di rischio per lo sviluppo di problemi riguardanti l’internalizzazione o l’esternalizzazione, comportamenti autolesionistici, tentativi di suicidio, problemi nella sfera emotiva e in quella comportamentale, ed infine problemi legati alla salute mentale.

Allo stesso modo, nella giovane età adulta, la detenzione genitoriale è associata a livelli più alti di depressione, a maggiori livelli di ansia e al disturbo post traumatico da stress.

Detenzione genitoriale: uno studio sulle sue conseguenze

Lo studio, pubblicato su JAMA Network Open, è stato condotto dal Center for Child and Family Policy presso la Duke University Stanford School, e ha come scopo quello di indagare l’associazione tra l’incarcerazione dei genitori e lo sviluppo di disturbi mentali in età adulta ed esaminare il futuro di questi bambini in ambito sanitario, legale, finanziario e sociale.

Questo studio ha utilizzato come dati quelli di uno studio longitudinale e rappresentativo della comunità: lo studio Great Smoky Mountains. I partecipanti allo studio erano 1420 ed il campione era formato sia da bambini (9-16 anni) che dai loro genitori. Queste coppie sono state monitorate nel tempo, da gennaio 1993 fino a dicembre 2000. I ricercatori hanno utilizzato il Child and Adolescent Psychiatric Assessment per valutare i risvolti della detenzione genitoriale sui bambini, possibili diagnosi di disturbi mentali ed infine altre avversità. Successivamente, da dicembre 1999 fino a dicembre 2015, i partecipanti sono stati nuovamente monitorati, più precisamente all’età di 19, 21, 25, e 30 anni per vedere gli esiti e i risvolti causati dalla detenzione genitoriale sulla loro vita da giovani adulti.

Dallo studio emerge che 475 dei partecipanti (259 uomini e 216 donne), all’età di 16 anni, avevano vissuto l’incarcerazione di uno dei genitori.

L’incarcerazione dei genitori era associata a una maggiore prevalenza di diagnosi psichiatriche infantili, come l’ADHD e il disturbo della condotta.

Dopo aver tenuto conto delle diagnosi psichiatriche infantili e dell’esposizione alle avversità, la detenzione genitoriale si associava ad un aumento delle probabilità di sviluppare, in età adulta, un disturbo d’ansia, un disturbo da uso di sostanze, avere una condotta criminale, essere incarcerati a loro volta, non terminare la scuola e di conseguenza non diplomarsi, diventare genitori molto presto ed infine essere isolati socialmente.

Per concludere, questo studio mostra come la detenzione genitoriale sia associata a un vasto numero di conseguenze a livello psichiatrico, legale, finanziario e sociale durante la giovane età adulta. La detenzione dei genitori è un’esperienza che può perpetuare lo svantaggio di generazione in generazione.

Dal punto di vista della salute pubblica, pensare a interventi tempestivi per bambini e adolescenti che hanno uno dei due genitori in carcere potrebbe rivelarsi utile per migliorare il benessere psicofisico dei più piccoli. Sarebbe altrettanto utile fornire sostegno agli altri membri del nucleo famigliare, che allo stesso modo vivono spesso in condizioni di notevole difficoltà a causa della detenzione del parente.

 

Briciole. Storia di un’anoressia (1994) – La stigmatizzazione dell’anoressia nervosa

Comincia con tre polpette al sugo questa storia. Tre polpette di carne di vitello vomitate nel bagno di casa con la porta spalancata. Anoressia mentale, sarebbe stata la diagnosi psichiatrica.

Germana Celentano – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

L’ anoressia nervosa in Briciole

 Briciole: storia di un’anoressia, di Alessandra Arachi, pubblicato nel 1994, è un testo duro, diretto che racconta le emozioni e i pensieri, le paure e le angosce di Elena, una ragazza affetta da anoressia nervosa.

Possiamo definirlo a distanza di anni dalla sua pubblicazione un valido testo di riferimento per chi vive o voglia conoscere il mondo interiore di chi soffre di anoressia e bulimia nervosa.

Il testo ci avvicina ad un demone strisciante che spinge Elena gradualmente a vedere nel cibo un nemico e nella sua scelta di centellinarlo, renderlo briciole, una fonte di potere e controllo.

A portarla sull’orlo del baratro è il tormentato tentativo di compensare una esistenza vissuta allo scopo di soddisfare bisogni altrui.

Mangiare mi aveva sempre dato gusto.[…] una bambina vivace. Poi un adolescente allegra e sportiva. E’ a metà della crescita che ho voluto rovinare una vita bella, dunque tranquilla, dunque noiosa.[……] Le cosce ingrassate da un’adolescenza veloce non possono bastare come spiegazione

Elena comincia la sua dieta, la sua “crociata contro il il cibo” e si sente

improvvisamente adulta così decisa a resistere alle tentazioni della gola

nutrendosi dei complimenti di chi la ammirava per mettere a tacere lo stomaco. A spingerla nel baratro in meno di un mese il suo cervello, che

riuscì a trasformare un pezzo di pane in un dannoso concentrato di zuccheri, l’olio in un accumulo irrecuperabile di grassi.[….] A questo punto vomitai le tre polpette al sugo.

L’autrice racconta l’inizio dell’ anoressia che, come spesso accade, esordisce in adolescenza, quando ci si confronta faticosamente con gli altri, con gli stereotipi ambiti e bramati, quando il corpo improvvisamente cambia, spesso anche in modi non desiderati, e sopraggiunge all’improvviso l’idea che dimagrendo ci si possa sentire parte di qualcosa, e quindi non più esclusi.

Cos’è l’anoressia nervosa e come si distingue

Il testo affronta l’ anoressia nervosa, un Disturbo dell’Alimentazione caratterizzato, secondo il DSM-V, dai seguenti criteri:

  • A. Limitazione dell’assunzione di cibo rispetto al fabbisogno calorico, che porta al mantenimento di un peso corporeo significativamente basso per età, sesso e salute fisica e per quanto previsto durante il periodo di crescita. Il peso significativamente basso è definito come un peso che è inferiore al minimo normale, o per i bambini e gli adolescenti, inferiore a quello minimo previsto
  • B. Intensa paura di acquistare peso o un comportamento persistente che interferisca con l’aumento di peso, anche se il peso è significativamente basso
  • C. Ruolo eccessivo del peso e della figura fisica nel determinare l’autostima e/o distorsione della percezione corporea

Se ne distinguono due sottotipi:

  1. Con Restrizioni durante gli ultimi tre mesi
  2. Con Abbuffate/Condotte di Eliminazione durante gli ultimi tre mesi

Tra le righe del testo prendono forma i criteri del DSM-V e la sintomatologia che definisce il quadro clinico dell’ anoressia, come ad esempio il repentino calo ponderale di Elena avvenuto nell’arco di 3 mesi, causato dalla messa in atto di un’alimentazione estremamente controllata e limitata e l’ eccessivo esercizio fisico

Per dimagrire ancora, cominciai a correre quattro ore al giorno [….] due ore la mattina, prima di andare a scuola e due la sera, dopo aver passato il pomeriggio sui libri, l’induzione del vomito o il forte utilizzo di lassativi. Aspettavo soltanto il momento di vomitare per dare un senso a quelle serate

Elena presenta pensieri continui e eccessivi relativi al cibo e all’immagine corporea,

Diffidavo di qualsiasi cosa commestibile, ma riservavo al cibo tutti i pensieri della mia giornata

un’estrema paura di prendere peso, una percezione dismorfica del proprio corpo, visto come brutto e grasso, nonostante l’evidente sottopeso.

In tre mesi l’ anoressia si era divorata un terzo del mio corpo. A me non bastava ancora.

In lei ritroviamo l’alto livello di perfezionismo, l’iperattività, la mancata consapevolezza della malattia e la dismenorrea.

[…..] il cibo che mi veniva sbattuto nel piatto era magicamente diventato la fonte di tutti i miei problemi: rigettandolo li avrei risolti. E non mi importava delle forze che mi abbandonavano, perchè c’erano i nervi a sorreggere le gambe e a stimolare il cervello che rimaneva lucido per uno studio sempre più frenetico ed ossessivo.[….] il corpo era soltanto una macchina che macina energia se la riempiamo di cibo, ma raggiunge l’infinito se la nutriamo di sapere.

Leggiamo poi la sua propensione a cucinare per gli altri, ad incoraggiarli a mangiare.

Quando tornavo a casa mi mettevo davanti ai fornelli e cucinavo per ore [….] mi rigiravo il cibo davanti agli occhi e tra le mani [….] Obbligavo chiunque mi stesse vicino a mandar giù tutto fino all’ultima briciola. Io non leccavo nemmeno un cucchiaio per sbaglio

infine una tendenza al ritiro e alla depressione.

Tacevo e correvo in camera, soddisfatta del mio isolamento.

Pensieri ed emozioni di chi soffre di anoressia nervosa

Da un punto di vista cognitivo in generale una paziente anoressica sembrerebbe sperimentare una mancanza di controllo sul proprio Sé: mancanza che viene compensata proprio attraverso l’adozione del digiuno, inteso come controllo dell’appetito, e dunque del corpo.

Sentire il controllo del proprio corpo per sentirsi in controllo di se stessi e delle proprie emozioni che non vengono più riconosciute, vissute, sentite, ma spesso vengono mal giudicate, negate, quindi diventano un intralcio da allontanare gestendo e controllando il cibo, per sentirsi più sicuri del proprio corpo, della propria immagine, più padroni della propria vita, perchè le emozioni sono semplicemente diventate troppo, e così renderle innominabili sembra la soluzione.

Per quanto concerne l’aspetto emotivo, le emozioni più spesso trattate nella clinica dei Disturbi Alimentari sono l’orgoglio e due stati emotivi autocoscienti che affliggono l’Io: la colpa e la vergogna.

Con la colpa si assiste ad una risposta emotiva evento-specifica, quindi l’attribuzione negativa è legata allo specifico comportamento attuato.

Non avevo la forza di uscire di casa, contenta di lasciarmi trascinare nel vortice di abbuffate e vomito. Sembravo una tigre in gabbia, in quella casa dove le sbarre erano i miei solidi sensi di colpa, i pensieri cupi, le incomprensioni.

Con la vergogna il giudizio negativo è attribuito al Sé nella sua interezza; questa emozione è vissuta come interna, dunque auto valutazione negativa, ma anche come esterna, ovvero sensazione che gli altri li giudichino male.

Nemmeno tra anoressiche si ha il coraggio di confessare l’anoressia.[…..] Ti sembra tutto inutile, vero? Tu ti senti inutile e goffa perchè i pantaloni non ti scivolano via lungo le gambe come ad un manichino.

Si oppone alla vergogna lo stato emotivo dell’orgoglio, associato al successo sociale, all’approvazione da parte degli altri; l’orgoglio nasce dall’autocontrollo rispetto alla gestione del cibo, è generato dall’apparenza fisica, dalla ribellione e dalla protesta, manifestato con difese ripetute e irremovibili della sindrome. I primi complimenti che Elena riceve all’inizio della dieta che sceglie di intraprendere, diventano fonte di nutrimento per la sua mente che, trascinandola nel baratro, le farà poi vivere il suo calvario; Elena trova nella magrezza una soluzione per sentire il controllo:

“No grazie”, rispondevo fiera agli sguardi stupiti dei miei genitori. “No grazie”, rispondevo ad ogni portata del pranzo e della cena. [….] No grazie”, diventava quindi il trionfo della volontà – e sentirsi accettata.

Tuttavia persiste latente la tematica di vergogna e quelle sperimentate sembrano essere: vergogna di emozioni come la rabbia e la tristezza; vergogna del fallimento; vergogna del corpo; vergogna rispetto all’autocontrollo e ai comportamenti auto-distruttivi; vergogna di avere un disturbo alimentare per il problema legato al mangiare, per auto-accuse di vanità, per timore dello stigma sociale.

Anoressia e stigma sociale: gli studi

In particolare lo stigma è un problema per le persone con disturbi alimentari e costituisce una barriera alla divulgazione ed alla ricerca di aiuto.

Lo stigma è un costrutto multidimensionale, che porta con sé risposte emotive negative nei confronti di individui affetti da questi disturbi, impressioni negative delle loro caratteristiche personali, un maggior desiderio di distanza sociale dall’individuo interessato. Questo costrutto è fondato sul pregiudizio, sulla discriminazione, sullo stereotipo. Si tratta di un costrutto indagato nel contesto della psicologia sociale, l’indagine scientifica di come pensieri, sentimenti e comportamenti degli individui siano influenzati dalla presenza oggettiva, immaginata o implicita degli altri.

La cognizione sociale è l’insieme dei processi cognitivi volontari o involontari che ci spinge a comportarci in un certo modo all’interno della società, organizzando le informazioni riguardanti noi stessi e gli altri soggetti sociali in schemi, insiemi circoscritti e coerenti di cognizioni interconnesse.

Il modo in cui elaboriamo le informazioni per creare una impressione può essere bottom-up, induttivo, tramite un ragionamento che ci porta ad approfondire gli aspetti, oppure top-down, deduttivo, cioè tramite stereotipi o schemi pre esistenti.

Quando gli schemi di gruppi sociali, spesso applicati agli outgroup (gli appartenenti ad altri soggetti, gruppi, categorie, ecc.) sono associati a pregiudizi, discriminazioni, conflitti, si genera lo stereotipo, un atteggiamento sfavorevole e ostile verso l’altro senza che si abbiano sufficienti prove, che può avere come conseguenze la discriminazione o nei casi più gravi la disumanizzazione.

Lo stereotipo è frutto di schemi di gruppi sociali, spesso applicati agli outgroup, associati a pregiudizi, discriminazioni e conflitti tra gruppi. Si tratta di immagini semplificate dei membri di un gruppo, spesso dispregiative, quando applicati agli outgroup, che si basano su differenze o che creano differenze tra i due gruppi e che causano un irrigidimento della percezione della realtà. Questi schemi si basano sull’etnocentrismo (preferenza per il gruppo di appartenenza, il metro di giudizio dipende dal mio gruppo)

Gli schemi raramente cambiano, ma secondo Rothbart possono cambiare per tre motivi:

  • registrazione, ovvero accumulo di prove ed esperienze differenti
  • conversione improvvisa, grazie ad una sola esperienza
  • formazione di sottotipi: se abbiamo prove discordanti tendiamo a creare un sottogruppo, una sottocategoria diversa.

Per migliorare le relazioni intergruppo può essere utile:

  1. l’ educazione, poiché i pregiudizi derivano dall’ignoranza. Educare attivamente alla tolleranza e all’apertura mentale, all’attenzione verso l’altro, visto come individuo complesso e non stereotipo.
  2. il contatto intergruppo, infatti spesso i pregiudizi si mantengono perché manca il contatto con l’outgroup e quindi non abbiamo informazioni contrarie, con le quali modificare gli schemi; il contatto, l’esposizione, porta a verificare somiglianze prima non rilevate.

In questo contesto può essere d’aiuto anche il comportamento prosociale, ovvero azioni compiute a vantaggio di un’altra persona, valutate positivamente dalla società e che portano conseguenze positive agli altri, come ad esempio la comprensione, l’empatia (capacità di sperimentare le esperienze altrui, identificandosi con le sue emozioni, pensieri e atteggiamenti), il coinvolgimento empatico (sentimenti di affetto, disponibilità e compassione nei confronti di chi soffre).

Il comportamento prosociale viene appreso e non è innato; il modo in cui rispondiamo alla sofferenza altrui è legato al modo in cui impariamo a condividere, aiutare e dare conforto. Questo può essere appreso tramite istruzioni coerenti, rinforzo delle azioni, esposizione a modelli che praticano condivisione, aiuto, conforto.

Nell’ottica di voler agire sullo stigma legato ai Disturbi Alimentari, quanto appena descritto fornisce alcuni esempi degli interventi attuabili e volti a promuovere il consenso sociale, a creare nella società un miglior consenso in questo caso, nei confronti dell’individuo con Disturbi Alimentari: incoraggiare il contatto diretto con una persona che soffre di DA; la psicoeducazione per correggere la disinformazione sui disturbi alimentari, per ridurre al minimo le attribuzioni biasimevoli e l’offerta di diversi resoconti eziologici; ridurre lo stereotipo; modificare gli schemi; incentivare il comportamento prosociale; migliorare le relazioni intergruppo, incoraggiare la modalità bottom up per elaborare informazioni volte a creare delle impressioni diverse; aumentare gli atteggiamenti positivi; ridurre le convinzioni negative.

Questo approccio è una strategia alternativa che ha mostrato risultati promettenti nel ridurre lo stigma. Esso suggerisce che gli atteggiamenti stigmatizzanti degli individui sono un prodotto delle credenze e dei comportamenti degli altri. Ricerche suggeriscono che le persone modificano il proprio sostegno alle credenze stereotipate in modo che siano più in linea con quelle espresse da un particolare gruppo cui appartengono.

Gli studi che hanno utilizzato un approccio volto a promuovere il consenso sociale ha dimostrato efficacia nel ridurre lo stigma:
Puhl et al. (2005) hanno riscontrato che la promozione di un consenso favorevole nei confronti delle persone con obesità ha prodotto una riduzione delle convinzioni negative e un aumento delle convinzioni positive. Hanno rilevato che l’aumento degli atteggiamenti positivi ha avuto maggiore successo quando le informazioni di consenso provenivano da una fonte interna al gruppo di appartentenza.

Allo stesso modo i partecipanti allo studio di Yan, Rieger e Shou hanno mostrato un aumento significativo degli atteggiamenti positivi nei confronti degli individui con anoressia nervosa in termini di diminuzione di distanza sociale, caratteristiche positive attribuite e reazioni affettive, in seguito ad un intervento volto a promuovere il consenso sociale. Anche in questo caso l’intervento basato sul consenso sociale è stato efficace quando le informazioni normative sul consenso sociale riguardavano i membri del gruppo, piuttosto che quelli esterni, quindi gli individui hanno maggiori probabilità di cambiare i loro atteggiamenti quando gli spunti per promuovere il consenso sociale provengono da una fonte interna al gruppo piuttosto che da una fonte esterna al gruppo.

Su queste premesse si fonda la ricerca australiana di Cassone S., Rieger E., Crisp DA., la quale suggerisce che attribuzioni biasimevoli nei confronti di individui con anoressia nervosa sono comuni e che queste a loro volta suscitano atteggiamenti più stigmatizzanti nei confronti di chi ha il disturbo. Anche qui si è verificato come l’approccio del consenso sociale per ridurre gli atteggiamenti stigmatizzanti in vari domini e, in quanto tale, questo approccio sembra poter essere una strada promettente per perseguire il miglioramento della stigmatizzazione nell’anoressia nervosa. Il loro studio nello specifico ha cercato di valutare l’efficacia di un approccio di consenso sociale nel ridurre lo stigma nei confronti degli individui con anoressia nervosa. Lo studio ha anche esaminato se attribuzioni biasimevoli fossero associate a cambiamenti nella stigmatizzazione. È stato utilizzato un disegno sperimentale, in cui studentesse universitarie (N = 126) hanno completato le valutazioni self-report che hanno valutato lo stigma verso l’anoressia nervosa al  tempo 1 e  poi al tempo 2, ovvero 6-10 giorni dopo l’assegnazione a una delle due condizioni: consenso sociale e controllo sociale. É stato visto che l’intervento di consenso sociale è stato più efficace della condizione di controllo nel ridurre gli atteggiamenti stigmatizzanti sulle misure che valutano le reazioni affettive (p = 0,025) e che l’efficacia dell’intervento di consenso sociale nel ridurre gli atteggiamenti stigmatizzanti nei confronti del soggetto bersaglio con anoressia nervosa, non era moderato dal livello delle attribuzioni basate sulla colpa.

Interventi per ridurre lo stigma dei DCA possono aiutare a rimuovere le barriere alla divulgazione e alla ricerca di aiuto da parte dei pazienti; tuttavia, non è noto con certezza quali strategie (ad es. spiegare l’eziologia per ridurre la colpa, contattare una persona con un DCA o educare sul DCA) siano efficaci nel ridurre lo stigma. Una review australiana del Department of  Psychology and Counselling, La Trobe University, Melbourne; della Melbourne School of Global and Population Health, University of Melbourne, Parkville; e della  School of Psychology, Deakin University, Burwood; ha descritto l’efficacia delle strategie di intervento e le lacune identificate nella letteratura. É stata eseguita una ricerca di quattro database usando i termini (disturbo alimentare * O bulimia * O anoressia * O binge-eating disorder) E (stigma * O stereotipo * O credenze O atteggiamenti negativi) E (programma O esperimento O intervento O istruzione), con testi aggiuntivi ricercati tramite LISTSERVs.

Due valutatori hanno esaminato i documenti, estratto i dati e valutato la qualità. Le strategie di riduzione della stigmatizzazione e le caratteristiche dello studio sono state esaminate nella sintesi narrativa critica. La meta-analisi esplorativa ha confrontato gli effetti delle spiegazioni biologiche e socioculturali dei DCA sulla stigmatizzazione e si è visto che le spiegazioni biologiche riducevano la stigmatizzazione rispetto ad altre spiegazioni, comprese le spiegazioni socioculturali nella meta-analisi (g = .47, p <.001).

Lo stigma sociale impedirebbe di chiedere aiuto

Un ulteriore studio eseguito dal Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’ Università Milano-Bicocca insieme alla Division of Psychiatry, dell’University College London, in UK, ha indagato come stigmatizzare gli atteggiamenti nei confronti dei disturbi alimentari può portare a una riduzione della ricerca del trattamento. Nello studio è stata stimata la prevalenza di stigmatizzare tendenze e convinzioni legate all’anoressia nervosa (AN) e alla bulimia nervosa (BN), e le associazioni con la conoscenza esperienziale del problema, in un ampio campione di studenti universitari italiani.

Un totale di 2109 partecipanti ha completato un sondaggio online che include questionari relativi a credenze stigmatizzanti verso le due patologie e contatti personali con persone con DCA.

Gli studenti universitari hanno riportato sovrapponibili bassi livelli di tendenze stigmatizzanti per AN e BN, oltre alla responsabilità personale e alla distanza sociale. Gli studenti con una età compresa tra i 18 e i 25 anni e che vivono con la famiglia hanno atteggiamenti di stigmatizzazione più elevati. La stigmatizzazione era inferiore nei partecipanti sottopeso e in quelli (12%) che riportavano una precedente diagnosi di DCA. Sebbene non stia migliorando le attitudini stigmatizzanti, l’83% del campione aveva familiarità con le persone con un DCA.

Sono necessarie azioni che contrastino lo stigma per aumentare la consapevolezza sui DCA e per migliorare i comportamenti di ricerca del trattamento. E’ importante che la ricerca futura continui a guidare lo sviluppo, la valutazione e la diffusione degli interventi di riduzione dello stigma nel contesto di questi disturbi dati gli effetti nefasti della stigmatizzazione sugli individui affetti.

Stigma e autostima nell’anoressia nervosa

Lo stigma sociale è un dato di fatto, sul quale è auspicabile si possa fare tanto di più, per poter abbattere la barriera alla divulgazione ed quindi alla ricerca di aiuto, poiché esiste purtroppo evidenza di auto-stigmatizzazione negli stessi individui con anoressia nervosa (AN) e questo può influenzare l’impegno nel trattamento. L’obiettivo dello studio canadese effettuato dalle Università di Calgary Faculty of Social Work, Calgary, Alberta; di Toronto, Factor-Inwentash Faculty of Social Work; Hospital for Sick Children, Research; e Health Network, Eating Disorders Program, Toronto, Ontario, era di testare un modello di stigmatizzazione del Sé per identificare l’influenza della stigmatizzazione pubblica, interiorizzata, l’autostima e l’autoefficacia sugli atteggiamenti di recupero negli individui in trattamento ospedaliero per AN.

36 partecipanti di sesso femminile con AN hanno completato i questionari durante la prima settimana di trattamento ospedaliero intensivo. Un migliore atteggiamento verso il recupero era correlato positivamente con una maggiore autostima e autoefficacia e correlato negativamente con una maggiore stigmatizzazione interiorizzata e percezioni di altri che svalutavano le famiglie di individui con AN.

Questi fattori hanno rappresentato il 63% della varianza negli atteggiamenti di recupero. I risultati dimostrano dunque gli effetti avversi della stigmatizzazione nei confronti delle famiglie, l’auto-stigmatizzazione e l’autostima nei comportamenti di recupero nei soggetti con AN.

Sono dunque necessari anche interventi clinici per sfidare l’auto stigmatizzazione e rafforzare l’autostima per migliorare gli sforzi di recupero degli individui. Nel libro viene descritta con grande delicatezza l’importanza di recuperare gradualmente le emozioni, ricominciando ad esplorarle e la vitalità che porta con sé l’iniziare a sentire di nuovo.

Briciole di emozioni positive possono aiutare lentamente ad affrontare briciole di emozioni che fanno più paura, per trovare insieme un modo più efficace di affrontarle. Nutrire la resilienza e stimolare un senso di sé più forte e capace di affrontare le difficoltà è la grande sfida, iniziare a coltivare il dubbio che le emozioni non siano proprio così inutili e pericolose è il primo passo verso la guarigione.

[….] l’importanza di essere al mondo e mi ha insegnato a gustare il fascino di un tramonto. […..] in questa battaglia con il corpo deve essere una mente sensibile [….] ad avere la meglio

Inconsci e coscienza: un confronto tra distinte prospettive psicologiche

Un aspetto fonte di grandi divergenze nell’ambito della Psicologia è stato – e troppo spesso ancora è – il concetto di inconscio: essenziale per tutta la Psicoanalisi; relegato nella famosa “scatola nera” dal Comportamentismo; ribattezzato con termini come “implicito”, “tacito”, “non consapevole”; o addirittura negato.

 

La plus belle des ruses du diable est de vous persuader qu’il n’existe pas
(Charles Baudelaire)

 

Abstract

In Psychology terms as “consciousness” or “unconscious” have often different meanings depending on different theories. So in order to understand them it’s useful to compare them. Starting from the developing of the Freud’s unconscious and continuing whit Jung’s view, the Foulkes’ social unconscious or the Henderson’s cultural unconscious, the cognitive unconscious, the unconscious aspects in Evolutionary psychology and in Social psychology. Likewise different point of view about consciousness are explored, both in our species and in animals or in artificial intelligence.

Introduzione

Lo sappiamo, la psicologia non è una disciplina monolitica bensì un variegato insieme di modelli, teorie e orientamenti solo parzialmente sovrapponibili, quando non in aperta contraddizione. Un aspetto fonte di grandi divergenze è stato – e troppo spesso ancora è – il concetto di inconscio: essenziale per tutta la Psicoanalisi; relegato nella famosa “scatola nera” dal Comportamentismo; ribattezzato con termini come “implicito”, “tacito”, “non consapevole”; o addirittura negato. A tutt’oggi non è inconsueto leggere due articoli che citando le scoperte delle neuroscienze affermano, l’uno che non essendo stata trovata in alcun luogo la sede l’ inconscio non esisterebbe, l’altro che i processi sottocorticali ne proverebbero l’esistenza.

D’altronde la Scienza è ben lungi dall’avere trovato anche solo una definizione condivisa di “coscienza”, meno che mai la sua sede, non può pertanto stupire che relativamente al concetto di inconscio le sue scoperte si prestino ad interpretazioni contraddittorie. Inevitabilmente, cercando di comprendere noi stessi intraprendiamo un complicato lavoro di “reverse engineering”, ci costruiamo rappresentazioni di come pensiamo che siamo fatti e con esse operiamo, poi le sottoponiamo sì (o almeno dovremmo) a verifica sperimentale, tuttavia la rappresentazione stessa determina tanto la prospettiva da cui osserviamo, quanto l’interpretazione delle osservazioni.

Troppo facilmente dimentichiamo che “a map is not the territory it represents” (Korzybski, 1933, p.58). Lo stesso territorio può essere rappresentato da mappe più o meno conformi ad esso, ma anche da mappe basate su aspetti diversi (cartine politiche, idrogeologiche, climatiche, altimetriche, ecc…), ovvero tra loro incommensurabili (Kuhn, 1970), e poiché in psicologia lavoriamo con costrutti non univocamente definiti, come “coscienza” o “inconscio”, è facilmente comprensibile l’esistenza di opinioni, studi ed interpretazioni differenti, giacché probabilmente essi non stanno neppure parlando della stessa cosa. Ecco perché ritengo sia utile esplorare i significati dei lemmi, probabilmente non per giungere in questa sede ad un’univoca definizione, ma quantomeno per avere consapevolezza dell’esistenza di linguaggi diversi e tentare di arricchirsi comprendendone le reciproche sfumature.

Inconscio e inconsci

L’aggettivo “inconscio” deriva dal latino tardo “inconscius”, formato dal prefisso “in” e da “conscius”, a sua volta derivato da “scire” (sapere) col prefisso “con” (dalla stessa radice latina derivano l’inglese “unconscious” e il francese “inconscient”). Similmente in tedesco “unbewusst” (“unbewußt” nella grafia non riformata) è formato dal prefisso “un” e “bewusst”, alterazione tramite l’influenza dal moderno “gewusst” participio passato di “wissen” (sapere), dell’antico tedesco “bewist” participio passato di “bewissen”, dall’analogo significato. Nelle lingue europee il termine si attesta primariamente come aggettivo per designare ogni aspetto della psiche che non è conosciuto.

Il suo uso come sostantivo è invece più recente e solitamente riportato nei vocabolari come specifico dell’ambito psicoanalitico, benché sia rintracciabile in letteratura prima di essere diffuso da Freud; ad esempio in System des transzendentalen Idealismus (Schelling, 1800), o addirittura nel titolo del saggio Philosophie des Unbewussten (Hartmann, 1869). Inoltre – come magistralmente espone lo storico della psicoanalisi Henri Ellenberger nel suo monumentale The Discovery of the Unconscious (1970) – non è imputabile a Freud la “scoperta” del concetto di inconscio, che bensì affonda le sue radici nello sciamanesimo, nella letteratura esoterica di ogni tradizione, e in epoca moderna nel Romanticismo e nell’ipnotismo.

A Freud è tuttavia certamente riconoscibile il merito di avere studiato l’ inconscio al di là della sua comprensione in negativo (ciò che non è conscio) teorizzandone caratteristiche e modalità di interazione che confluiscono in un moderno sistema da lui definito Psicoanalisi; e per quanto Freud non abbia propriamente “scoperto” che “l’io non è padrone in casa propria”, è stato certamente lui ad averlo insegnato alla moderna cultura occidentale.

Sigmund Freud e l’inconscio

Il pensiero di Freud evolve nel corso delle sue opere, nuove formulazioni talvolta affiancano talaltra sostituiscono vecchie definizioni, creando la necessità, parlando del suo pensiero, di riferirsi ad una specifica pubblicazione. Non è tuttavia questa la sede per esplorare tale evoluzione, già ampiamente ripercorsa da numerosi studi scientifici e testi divulgativi. Ai fini del presente articolo è sufficiente rilevare alcuni aspetti più macroscopici necessari per essere messi in relazione con altre prospettive nel prosieguo della trattazione. Iniziando dal sottolineare il passaggio dall’uso sostantivale del termine inconscio nella prima topica, nel quale le caratteristiche inconsce sono proprie di uno specifico “luogo mentale”, appunto denominato Inconscio, alla seconda topica, a partire dalla quale il termine, come aggettivo, si riferisce sia all’Es, che alle parti non consce dell’Io e del Super-Io (Ellenberger, 1970).

Relativamente ai contenuti dell’Inconscio occorre innanzitutto ricordare che Freud stesso (1915) afferma che:

Tutto ciò che è rimosso è destinato a restare inconscio; tuttavia […] il rimosso non esaurisce tutta intera la sfera dell’ inconscio. L’ inconscio ha un’estensione più ampia; il rimosso è una parte dell’ inconscio (p.49).

Per Freud sono pertanto inconsci anche contenuti che non sono mai precedentemente stati consci, aspetti non derivanti dalla storia personale, di origine filogenetica (soggetti alla cosiddetta “rimozione primaria”, attiva fin dalla nascita e precedente la “rimozione secondaria” relativa l’esperienza personale), condivisi da ogni essere umano ed influenti sulla storia della nostra specie. La visione psicoanalitica dell’inconscio e la sua visione della psiche è dinamica – dal greco δυναμικός (dynamikós), derivato di δύναμι (dýnamis), ovvero “forza” – nella duplice accezione di scontro tra forze da cui deriva uno spostamento di energia psichica e di movimento tra la dimensione conscia e inconscia, e viceversa, dei contenuti della psiche.

Altro elemento della visione freudiana ricorrente in modo trasversale alle sue opere è la necessità di favorire il dominio della coscienza sull’ inconscio, o in termini successivi, che per quanto non sovrapponibili ne ricalcano gli aspetti di principale sede della coscienza e di istanza totalmente inconscia, dell’Io sull’Es. Freud (1932) infatti scrive:

Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. Un’opera di civiltà, come, ad esempio, il prosciugamento dello Zuiderzee (p.190)

Lo Zuiderzee era il mare che una volta sommergeva buona parte dell’Olanda, poi prosciugato tramite un sistema artificiale di dighe, consegnando all’uomo nuove terre coltivabili.

L’ inconscio nel pensiero di Carl Gustav Jung

Come è noto, per Jung l’ inconscio rappresenta molto di più di quanto individuato da Freud, in una sua definizione (1946) scrive:

Tutto ciò che io so, ma a cui momentaneamente non penso; tutto ciò che per me una volta è stato cosciente, ma che ho dimenticato; tutto ciò che viene percepito dai miei sensi, ma che non viene notato dalla mia coscienza; tutto ciò che io sento, penso, ricordo, voglio e faccio senza intenzione e senza attenzione, cioè inconsciamente; ogni cosa futura che si prepara in me e che affiorerà alla coscienza solo più tardi, tutto questo è contenuto dell’inconscio. […] in questo fenomeno marginale dovuto a un’alternanza di luce e d’ombra rientra anche il risultato cui è giunto Freud. […] dobbiamo includere nell’ inconscio anche le funzioni psicoidi incapaci di coscienza e della cui esistenza abbiamo solo conoscenza indiretta (p. 204).

Per Jung (1927) è inoltre necessario distinguere tra:

1) la coscienza; 2) l’ inconscio personale […]; 3) l’ inconscio collettivo, che è un patrimonio ereditario di possibilità rappresentative non individuale, ma comune a tutti gli uomini e forse a tutti gli animali, e costituisce la vera e propria base della psiche individuale. (p. 170);

e ancora (Jung, 1936):

L’ inconscio collettivo è una parte della psiche che si può distinguere in negativo dall’ inconscio personale per il fatto che non deve, come questo, la sua esistenza all’esperienza personale e non è perciò un’acquisizione personale. Mentre l’ inconscio personale è formato essenzialmente da contenuti che sono stati un tempo consci, ma sono poi scomparsi dalla coscienza perché dimenticati o rimossi, i contenuti dell’inconscio collettivo non sono mai stati nella coscienza e perciò non sono mai stati acquisiti individualmente, ma devono la loro esistenza esclusivamente all’ereditarietà. L’ inconscio personale consiste soprattutto in ʻcomplessiʼ; il contenuto dell’ inconscio collettivo, invece, è formato essenzialmente da ʻarchetipiʼ. Il concetto di archetipo, che è un indispensabile correlato dell’idea di inconscio collettivo, indica l’esistenza nella psiche di forme determinate che sembrano essere presenti sempre e dovunque. (p. 78).

Inoltre, lungi dall’essere come per Freud uno “Zuiderzee” da prosciugare, per Jung (1928):

L’ inconscio è negativo o pericoloso soltanto perché noi siamo disgiunti e quindi in contrasto con esso. […] Se si riesce a produrre la funzione che ho chiamato trascendente, si abolisce questa disgiunzione e si può quindi attingere serenamente al lato favorevole dell’ inconscio. Allora l’ inconscio fornisce tutti gli appoggi e gli aiuti che una natura benevola può dare in sovrabbondanza all’uomo. L’ inconscio ha infatti possibilità che sono precluse alla coscienza; esso dispone di tutti i contenuti psichici subliminali, di tutto ciò che è stato dimenticato e trascurato, e per di più della saggezza derivante da un’esperienza vecchia di secoli, sepolta nelle sue strutture archetipiche. L’ inconscio è costantemente attivo e crea combinazioni dei suoi materiali che prefigurano il futuro. Esso produce combinazioni subliminali, anticipatrici, come fa la nostra coscienza, ma le combinazioni dell’inconscio sopravanzano assai quelle della coscienza per finezza e portata. L’ inconscio può essere quindi una guida senza uguali per l’uomo, se questi è in grado di far fronte al rischio di essere fuorviato. (pp. 117, 118).

In queste righe, tanta appare la fiducia nella capacità teleologica delle forze inconsce che viene quasi da dire, parafrasando il titolo della celebre acquaforte di Goya, che “il sonno della ragione non genera mostri”, a condizione che sia liberamente guidato dai sogni dell’ inconscio.

Altri inconsci psicodinamici

Oltre all’ inconscio personale e l’ inconscio collettivo in ambito psicodinamico sono stati teorizzati almeno altri due tipi di inconsci: l’ inconscio sociale, costrutto derivato in parte dalla sociologia, dall’antropologia, dal lavoro degli psicoanalisti Erich Fromm (1930) e Karen Horney (1937), ed in particolar modo del padre della gruppoanalisi, Siegmund Heinrich Foulkes (1964); e l’ inconscio culturale di cui scrive l’analista junghiano Joseph Lewis Henderson (1962).

Il concetto di inconscio sociale è descritto in tempi più recenti dallo psicoanalista Earl Hopper (1996) che così ne riassume gli aspetti fondanti:

The effects of social facts and forces are more likely to be unconscious than conscious. The concept of the social unconscious refers to the existence and constraints of social, cultural, and communicational arrangements of which people are unaware, in so far as these arrangements are not perceived (not known), and if perceived, not acknowledged (denied), and if acknowledged, not taken as problematic (given), and if taken as problematic, not considered with an optimal degree of detachment and objectivity. Although social constraints are sometimes understood in terms of myth, ritual, and custom, such constraints are in the realm of the “un- known” to the same extent as the constraints of instincts and fantasies. (p. 9).

Hopper (1996) tiene inoltre a specificare che:

the concept of the social unconscious differs from the traditional Jungian concept of the collective unconscious, with its emphasis on the inheritance of acquired characteristics (p. 11).

Sull’ inconscio culturale, scrive Henderson, nella traduzione italiana della sua relazione al 2° Congresso Internazionale di Psicologia Analitica di Londra (1975):

l’inconscio culturale non deriva dall’inconscio collettivo e neppure da quello personale. In parole povere, ritengo che molto di ciò che Jung chiamava personale fosse, in realtà, culturalmente condizionato. (p. 11).

Prosegue poi prendendo come esempio il Complesso di Edipo che non sarebbe

strettamente personale, come sosteneva Freud, né strettamente archetipico come voleva Jung. (p. 12);

riconosce poi a Fromm il merito di avere per primo inquadrato il mito di Edipo nel contesto della cultura greca, di conseguenza che

il complesso di Edipo può prodursi soltanto in un bambino che, nell’ambito della propria famiglia, sia esposto ad un modello culturale del genere. (p. 12).

Non mi risulta tuttavia una definizione più strutturata di quello che Henderson chiama inconscio culturale, né esso mi sembra pertanto chiaramente distinguibile dal concetto di inconscio sociale precedentemente esposto. Nondimeno, a prescindere dal nome e dai confini che si voglia delineare, ritengo utile distinguere dall’ inconscio personale e da quello collettivo una dimensione che chiamerei socio-culturale. Nel mondo globalizzato di oggi, nel quale anche le differenze culturali a livello conscio si assottigliano sempre più, non è semplice individuare tracce di ipotetici inconsci socio-culturali, ma a ben vedere a cos’altro sarebbero altrimenti imputabili le cosiddette Sindromi Culturalmente Caratterizzate descritte nel DSM-5 (APA, 2013, p. 967)?

Un esempio più estremo, più ipotetico, ma certamente più esemplificativo può offrircelo un’interpretazione del fenomeno chiamato “Voodoo death” dal medico americano Walter Bradford Cannon, l’autorevole scopritore della cosiddetta “Fight-or-Flight Response”. Cannon (1942), studiando numerose osservazioni riportate da vari antropologi tra i nativi sudamericani, africani, e gli aborigeni australiani, rileva l’alta frequenza con cui alcuni indigeni additati dallo stregone della tribù, gesto equiparato in tali culture ad una condanna a morte, effettivamente muoiono nei giorni successivi. Col ripetersi di tali osservazioni antropologiche le morti sono difficilmente considerabili casuali e, a meno di accettare spiegazioni soprannaturali, la loro causa più plausibile sembra dovuta a suggestione, al grande spavento provato e al conseguente effetto nocebo. Sugli innegabili ed importanti effetti somatici degli effetti placebo e nocebo ho già scritto altrove (Tangocci, 2018) e non ritengo sorprendente che il loro effetto possa perfino condurre alla morte. Più sorprendente è invece che, come riportano suddette osservazioni, con altrettanto stupore degli studiosi che hanno osservato le morti dei membri della tribù additati dallo stregone, quest’ultimo presumibilmente constata l’inefficacia dei suoi poteri sugli stranieri che, anche se forse in soggezione e spaventati da quanto hanno assistito, appartengono ad una cultura che non ritiene possibili tali fenomeni. L’indigeno e l’antropologo occidentale, se entrambi additati da uno stregone, non hanno solo distinte credenze consce sul fenomeno, bensì anche e soprattutto diverse credenze inconsce più profondamente radicate e pertanto refrattarie, nel caso dell’indigeno, a tentativi di convincimento che l’atto è innocuo e, nel caso dello studioso, allo spavento provato dall’avere precedentemente assistito alla morte di individui cui è toccata la stessa sorte. Tali credenze inconsce non possono essere considerate strettamente personali, poiché presenti nella maggior parte degli individui che condividono una certa cultura, né strettamente collettive, poiché anche se riscontrabili in società tra loro distanti, e probabilmente virtualmente accessibili ad ogni società, sono di fatto assenti in altre culture.

Inconscio cognitivo

Il concetto di inconscio è stato per decenni estraneo alla psicologia cognitiva che, pur riconoscendo l’innegabile esistenza di aspetti non consapevoli della psiche, preferiva ricorrere ad altri termini per riferirvisi. Finché lo psicologo americano John Frederick Kihlstrom pubblica su Science l’articolo The cognitive unconscious (1987). In esso sarebbero compresi i processi mentali automatici, la memoria implicita o procedurale, la percezione subliminale, i fenomeni ipnotici di analgesia e amnesia.

L’ inconscio cognitivo così descritto si differenzia tuttavia da quello psicodinamico per essere composto da processi, invece che da contenuti. Mentre i contenuti sono per l’appunto dinamici, ovvero forze soggette a conflitti intrapsichici che determinano uno spostamento di energie, nonché capaci di trasformarsi da consci a inconsci e viceversa; il concetto di processo non contiene in sé alcuna di queste caratteristiche. Per quanto si potrebbe obbiettare che nei processi automatici inconsci rientri a ben diritto anche quello che potremmo chiamare “inconscio biologico”, ovvero il controllo da parte del cervello di funzioni biologiche, tra cui ad esempio le funzioni omeostatiche governate dall’ipotalamo, come la termoregolazione; ed in tali casi, tramite antiche tecniche meditative, in parte assimilate nel Cognitivismo col nome di Mindfulness, è dimostrata (ad esempio: Kozhevnikov, Elliott, Shephard, & Gramann, 2013; Kox et al., 2014) la possibilità di modificare alcuni paramatri biologici abitualmente governati dal Sistema Nervoso Autonomo, ovvero di far diventare conscio un processo inconscio.

Oramai inglobata nella prospettiva cognitiva è anche la Teoria dell’attaccamento, sviluppata a partire dai primi lavori dello psicanalista britannico John Bowlby (1969), con i suoi stili di attaccamento e i conseguenti Internal Working Model (Modelli Operativi Interni). Nell’assimilazione di tale teoria da parte del Cognitivismo possiamo ad ogni modo sorvolare sull’estrazione psicoanalitica di Bowlby, mentre non possiamo ignorare che la teoria prevede che delle relazioni del passato influenzino il comportamento attuale attraverso processi non consapevoli, ovvero inconsci, che si voglia o meno utilizzare il termine.

Psicologia evoluzionistica

Appare paradossale che un’intera branca della psicologia, la Psicologia Evoluzionistica, sviluppata a partire della pionieristica pubblicazione, curata degli antropologi Jerome Barkow e John Tooby e dalla psicologa Leda Cosmides, The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture (1992), si occupi pressoché interamente di cercare le cause di comportamenti non consapevoli, o solo parzialmente tali, senza mai, a quanto mi risulta, utilizzare il termine “inconscio”. La disciplina, nella quale confluiscono contributi dall’etologia comparata, della psicologia cognitiva e dell’antropologia, prende le mosse da due concetti cardine, quello della modularità della mente e quello dell’adattamento dei suoi moduli secondo gli stessi principi darwiniani della selezione naturale e della selezione sessuale, comunemente accettati dalla biologia.

Senza addentrarsi oltre nella sua impostazione teorica, ai fini della presente esposizione è sufficiente affermare che la psicologia evoluzionistica ha rilevato l’esistenza di tendenze comportamentali, condivise da tutte le società umane e da tutte le specie animali che si trovano in condizioni comparabili, che sovente si presentano senza che gli individui ne siano consapevoli, o addirittura in contraddizione a quanto, probabilmente in buona fede, sostengono e affermano del proprio comportamento. Naturalmente occorre tenere presente che si tratta di tendenze distribuite lungo una gaussiana, la quale per sua natura prevede l’esistenza di singole deviazioni; che nell’eventualità di cambiamenti sociali o ambientali tali tendenze muteranno adattandosi ad essi; e che secondo la teoria il comportamento osservato è multifattoriale e pertanto le contingenze di uno specifico caso possono essere maggiormente influenzate da fattori estranei a quelli inerenti la tendenza osservata. Nondimeno, studi cross-culturali, di confronto con altre specie, di neuroimaging, questionari self report, osservazioni, dati socio-statistici e studi genetici, mostrano l’esistenza di alcune tendenze universali (Buss, 2012).

Tenendo ben a mente tutti i punti precedenti, un buon esempio può essere offerto dai diversi criteri eterosessuali maschili o femminili di preferenza nella scelta del partner a lungo termine in relazione al diverso investimento parentale. Nella nostra specie la donna ha un’ovulazione mensile e se fecondata porterà in grembo un figlio per nove mesi e dovrà successivamente provvedere all’allattamento. In senso strettamente biologico l’uomo dispone invece di milioni di spermatozoi ogni giorno, ed il suo ruolo si esaurisce lì, a meno che sia interessato alla sopravvivenza della prole ed in grado di accudirla. Questi ultimi due aspetti dovrebbero pertanto essere preferiti dalle femmine di ogni specie caratterizzata da un analogo investimento parentale, mentre i maschi dovrebbero prediligere compagne sane e fertili. Ed infatti, gli studi (Buss, 2012) confermano che le femmine sono maggiormente attratte da indicatori di capacità di protezione, tra cui principalmente elevato status sociale, ricchezza, prestanza fisica (altezza, ampiezza delle spalle), e indicatori di disponibilità ad offrire protezione, tra cui affidabilità e impegno; mentre i maschi da indicatori di fertilità (giovane età, basso rapporto vita/fianchi) e di buon accudimento della prole (dolcezza, disponibilità, affidabilità). Per entrambi è inoltre importante la bellezza, in quanto indicatore di salute e pertanto di capacità di trasmettere buoni geni alla prole; ma in particolar modo questo criterio diviene rilevante per la femmina in caso di rapporti occasionali o di tradimenti, mentre in tali casi il maschio diviene coerentemente molto meno selettivo.

In quello che Schopenhauer (1819) chiamava il grande inganno della Natura per perpetuare la specie, raramente si è tuttavia consapevoli di conformare il comportamento a delle tendenze universali, anche nei casi in cui la tendenza corrisponda esattamente alla media della gaussiana. Esempi a tutti noti sono offerti dalle cronache rosa di matrimoni tra uomini anziani potenti e facoltosi e compagne giovani e attraenti; ma nell’odierna società liquida, col mutare della distribuzione delle ricchezze tra i generi e l’attribuzione di un minore legame tra sessualità e procreazione, non è impossibile neppure assistere al caso contrario. Difficilmente i protagonisti di questi esempi affermeranno che le motivazioni sovraesposte abbiano avuto influenza nelle loro scelte, è bensì più probabile che perfino le loro presumibilmente sincere narrazioni interne adducano tutt’altre motivazioni. Probabilmente non ci è dato saperlo con certezza, ma ad ogni modo ai fini del presente lavoro – quali che siano le motivazioni realmente in atto e la correttezza delle interpretazioni proposte – la questione è qui presentata con il solo scopo di esemplificare che per la psicologia evoluzionistica il nostro comportamento risulta quantomeno influenzato da tendenze non necessariamente consapevoli. Ovvero nuovamente, che si voglia o meno utilizzare il termine, è evidente che la disciplina si occupa di situazioni nelle quali gli individui subiscano dinamiche inconsce, nello specifico, di tipo filogenetico.

Psicologia sociale

Altra disciplina psicologica su cui è necessario soffermare l’attenzione relativamente allo studio di comportamenti non consapevoli è la psicologia sociale. Ben noti a qualsiasi studente di psicologia sono i pionieristici lavori di Muzafer Sherif, Kurt Lewin, Solomon Asch, o Stanley Milgram. Non ritengo pertanto necessario presentare la disciplina né soffermarmici oltre il riportarne alcuni esperimenti emblematici. Ad esempio, quelli citati da Myers (2008) sullo studio dei pregiudizi impliciti (inconsci): in esperimenti nei quali viene chiesto ai soggetti di premere velocemente i bottoni “sparare” o “non sparare” in corrispondenza all’improvvisa comparsa su uno schermo di immagini di uomini bianchi o di colore, con in mano una pistola o un oggetto innocuo, anche i partecipanti che consapevolmente non presentano pregiudizi espliciti (consci) commettono più spesso l’errore di sparare agli uomini di colore.

In questa e nelle molte altre circostanze di incongruenza tra comportamento effettivo e convinzioni consapevoli rilevate dalla psicologia sociale, è palese l’esistenza di due distinti livelli di elaborazione. La disciplina si limita tuttavia a rilevare l’esistenza di influenze non consapevoli sul comportamento, non indaga se la natura di queste influenze consista di processi, in senso cognitivo, o di forze, in senso dinamico. Peraltro, profittando della questione per ampliarla ad una dimensione più generale, la differenza tra le due visioni è realmente sostanziale o forse più imputabile alla prospettiva di osservazione, come la natura ondulatoria o corpuscolare della luce? Chiaramente la domanda rimane aperta ed è qui posta col solo scopo di suscitare una possibile riflessione sull’effettiva esistenza di quei confini che troppo spesso sono stati fonte di conflittualità tra differenti orientamenti.

A questo punto, dopo avere evidenziato la presenza in psicologia di più “inconsci”, in alcuni casi parzialmente sovrapponibili ed in parte tra loro complementari, è giunto il momento di indagare cosa si intenda invece con “coscienza”.

Coscienza: cos’è? Come possiamo definirla?

Si potrebbe dire che ognuno di noi sa cosa sia la coscienza, finché non gli viene chiesto di definirla. A quel punto, come avviene usualmente per quanto diamo per scontato, iniziano i problemi, forse ancora maggiori di quelli incontrati per il concetto di “inconscio”, che ha quantomeno beneficiato dell’essere stato messo in discussione dalle distinte correnti psicologiche. Pochi tuttavia sarebbero pronti a mettere in discussione l’esistenza stessa della coscienza, per quanto tesi funzionaliste che la coscienza non sia altro che un epifenomeno della mente, ed in quanto tale non realmente esistente, ci siano (Dennet, 1991). La difficoltà di una definizione nondimeno resta, amplificata dal fatto che il termine può assumere i distinti significati, correlati ma non certo sovrapponibili:

  • di consapevolezza e/o padronanza sui processi mentali e i comportamenti;
  • di stato di maggiore o minore vigilanza e attivazione del sistema nervoso;
  • di capacità di riflessione su se stessi, di attribuzione di significato ai propri atti, in un contesto autobiografico;
  • di funzione attribuente un senso ad ogni esperienza;
  • inerente la dimensione morale.
  • inerente la dimensione spirituale

Padronanza e vigilanza

La prima accezione si collega al precedente breve excursus sull’ inconscio, a partire dalla prima topica freudiana, ed in forma diversa in tutte le successive prospettive esplorate. In realtà in tali prospettive la capacità di consapevolezza e padronanza si può dire sia il punto di partenza, dato per implicito, a cui vengono gradualmente sottratte aree mentali di competenza. Si scopre – e talvolta ci si stupisce – di “non essere padroni in casa propria”, poiché la padronanza, ovvero la coscienza nella sua prima accezione, era scontata. Quindi, come abbiamo visto, gli studi si sono concentrati sulle presunte eccezioni in cui così non è.

La seconda accezione è più fisiologica, medica, neuropsicologica o pertinente la cosiddetta psicologia generale. Il termine “coscienza” assume i significati di vigilanza, attivazione, reattività, capacità di intendimento. Si parla pertanto di stati di coscienza relativi alla veglia, il sogno, o il sonno senza sogni, correlati con definite frequenze cerebrali; di stati alterati di coscienza provocati da specifiche pratiche o da sostanze psicoattive; ma anche di mancanza di coscienza dovuta ad anestesia, al coma, a lesioni cerebrali o di pazienti in stato vegetativo; della coesistenza di più coscienze in pazienti affetti da personalità multiple o di differenze qualitative di coscienza nella schizofrenia o in altri disturbi psichiatrici. L’interesse è focalizzato sulla quantità di coscienza o sulla qualità dei suoi contenuti, non su cosa la coscienza sia.

Coscienza di Sé

Un’altra prospettiva da cui guardare al termine “coscienza” concerne la coscienza di Sé, come entità definita, avente una propria continuità biografica. Anche il termine “Sé” necessiterebbe di distinzioni con i termini “Io” o “Ego”, solo in parte sovrapponibili, qui tuttavia può essere usato nella sua più generica accezione di differenziazione tra se stessi e il resto del mondo. Con tale significato di senso di identità è stato indagato soprattuto per quanto riguarda il suo sviluppo da uno stato inizialmente indifferenziato, da autori come William James, George Herbert Mead, Margaret Mahler, Donald Woods Winnicott, e molti altri.

Più recentemente, il neurologo Antonio Damasio (1999) ha distinto tra tre livelli di sviluppo del Sé: Proto-sé (uno stato preconscio, centrato sul mantenimento dei bisogni omeostatici dell’organismo), Coscienza nucleare (consapevolezza di sé limitata al presente), Coscienza estesa (autobiografica, dipendente dallo sviluppo delle aree della memoria e del linguaggio). Una teorizzazione affine era già stata offerta dallo psicoanalista Daniel Stern (1985) con la sua ripartizione tra le fasi di sviluppo del Sé emergente (esperienze isolate relative al corpo), Sé nucleare (iniziale differenziazione e autopercezione di essere autore di azioni), Sé soggettivo (completa distinzione tra sé e altri sé, dotati come lui di propri pensieri e emozioni), Sé verbale (capacità di simbolizzazione e autoriflessive); Sé narrativo (autobiografico).

La questione della consapevolezza di Sé, o autoconsapevolezza, non è tuttavia limitata alla nostra specie, ma indagabile anche in altre specie animali, e perfino in automi robotici dotati di dispositivi sensori ed effettori gestiti da un’intelligenza artificiale. Negli animali è comune testare la presenza di forme di autoconsapevolezza ricorrendo al cosiddetto “mirror test” (riconoscimento di sé allo specchio), che alcune specie hanno mostrato di superare, tra le quali anche non primati, ad esempio elefanti (Plotnik et al, 2006) o gazze Pica Pica (Prior et al, 2008). Nonostante molte specie, tra cui i cani, non sembrano capaci di autoriconoscimento allo specchio, occorre ricordare i limiti intrinseci di qualsiasi test basato su criteri umani applicato ad altre specie, poiché – come ci ricorda il filosofo Thomas Nagel (1974) – probabilmente non potremmo mai sapere “what is it like to be a bat”; dato che per i pipistrelli, o per i cani, non la vista, ma rispettivamente l’ecolocalizzazione e l’olfatto sono il senso più importante, su cui pertanto più plausibilmente si baserebbero eventuali capacità di autoriconoscimento.

Più contesa, ed emotivamente carica, è l’attribuzione di capacità di autoconsapevolezza ad un automa, a lungo arbitrariamente considerata impossibile. Pochi mesi fa tuttavia due ricercatori della Columbia University hanno pubblicato su Science Robitics un articolo (Kwiatkowski e Lipson, 2019) che riferisce della realizzazione di un robot dotato di dispositivi sensori, arti artificiali e intelligenza artificiale, che è stato in grado di autocostruirsi da zero una corretta immagine di sé, della propria forma, capacità di movimento e interazione con l’ambiente (parametri non definiti dai programmatori), e correttamente impiegare tale immagine di sé per muoversi nello spazio, afferrare e spostare oggetti e perfino autoripararsi.

L’essenza della Coscienza

Valutare la presenza o meno di coscienza da un comportamento apparentemente tale può tuttavia essere ingannevole. Soggetti perfettamente coscienti, ma incapaci di dimostrarlo, come nella sindrome locked-in (paralisi dei muscoli volontari del corpo, talvolta totale, anche se più frequentemente sono esclusi i soli nervi oculomutori, tramite i quali il paziente riesce a comunicare) possono non essere riconosciuti come tali. Mentre, ipotetiche entità antropomorfe, in tutto simili all’uomo per aspetto e comportamento (i recenti successi della robotica fanno facilmente supporre che non dovremo attendere molto per vederli nella realtà, oltre che nei film), sarebbero anche coscienti o piuttosto ciò che il filosofo David Chalmers (1996) chiama “philosophical zombie”? Cosa differenzierebbe un soggetto dotato di coscienza da uno capace di simularne gli otuput comportamentali è – sempre per Chalmers – “the hard problem”, in contrapposizione ai (relativamente) “easy problems”, riguardanti la comprensione degli aspetti cognitivi come la memoria, l’attenzione, o il controllo comportamentale. In pratica, cosa è la coscienza, ed in quali condizioni è possibile?

Tale domanda, che da secoli ha attirato l’attenzione filosofica, nell’ultimo ventennio è diventata di interesse centrale anche per i neuroscienziati. Infatti, a partire dal pionieristico lavoro del biologo Francis Crick (lo scopritore del DNA) ed il neurologo Christof Koch (1990), fioriscono ipotesi sul meccanismo neurale alla base della coscienza, tra cui soprattutto la Global Neuronal Workspace Theory (Dehaene et al, 1998) che lo individuerebbe nelle regioni corticali prefrontali, caratterizzate da ampia condivisione di informazione con molti sistemi cerebrali.

Diversamente, l’Integrated information theory (IIT), del neurologo italiano Giulio Tononi (2004) dell’Università del Wisconsin (tra le ipotesi oggi più accreditate) prende le mosse dal dato fenomenologico dell’esperienza cosciente, ed in particolare da cinque proprietà individuate come caratterizzanti (Oizumi et al, 2014): esistenza intrinseca (per il soggetto che l’esperisce, non per un osservatore esterno); struttura composita (ogni esperienza consiste di molteplici aspetti in varie combinazioni); informazione (specifica e differenziata da ogni possibile alternativa); integrazione (unitaria e irriducibile); esclusione (l’esperienza è definita, dotata di specifici confini e riferimenti spazio-temporali). Ne consegue un modello matematico basato sull’integrazione dell’informazione, corrispondente al valore Φ (phi), al cui crescere aumenta il livello di coscienza consentito dal substrato fisico della coscienza, denominato complesso (complex). Nella nostra specie le caratteristiche necessarie sarebbero proprie della struttura talamo-corticale, ed il livello di integrazione sarebbe misurabile tramite una tecnica – capace di discriminare correttamente tra pazienti sani o in stato vegetativo (Casarotto, 2016) – denominata Zapping and Zipping (Koch, 2017), nella quale la stimolazione transcranica magnetica evoca una risposta nella rete neurale che è monitorata da elettroencefalogramma e successivamente elaborata da un algoritmo di compressione (simile a quello utilizzato per comprimere i file, “zip” appunto) che genera il Perturbational Complexity Index (PCI). La possibilità di coscienza non sarebbe tuttavia limitata dalla teoria alla nostra specie, bensì potenzialmente riconosciuta (panpsichismo) a qualsiasi sistema capace di informazione sufficientemente integrata: animali, sebbene non siano ancora state effettuate misurazioni; o future intelligenze artificiali, purché basate su una diversa architettura, poiché le attuali non soddisfano i necessari requisiti di integrazione richiesti dalla teoria per supporre presenza di coscienza.

Coscienza morale e spirituale

Alla consapevolezza di Sé, l’attribuzione di significato ai propri atti, e la propria biografia si collega l’accezione morale del termine coscienza, intesa sia come responsabilità delle proprie azioni, sia come sede della capacità di autoregolazione moralmente orientata. Allo sviluppo della capacità di regolazione delle proprie azioni in senso morale e le condizioni ambientali intervenienti si sono interessati, tra gli altri, gli psicologi jean Piaget, Lawrence Kohlberg e Albert Bandura; gli studi psichiatrici su soggetti antisociali e le valutazioni della capacità di intendere e volere di soggetti resosi colpevoli di reati. In senso più ampio il tema è centrale nella filosofia morale, nella giurisprudenza e nelle religioni, in particolare in quella cristiana, cui è peculiare anche l’accezione di Coscienza intesa come sede del senso morale.

Una più ampia concezione di coscienza è invece riferibile ad altre tradizioni spirituali, tra cui soprattutto, ma non unicamente, alcune di matrice induista, come l’Advaita Vedanta. In questa prospettiva la Coscienza assoluta, o Brahman, o in termini più generali Dio, è tutto ciò che esiste, l’Unità, che per conoscere se stessa si differenzia, dando vita alle coscienze individuali, ātman. La separazione tra ātman e Brahman è tuttavia solo māyā, “illusione”, ma in sanscrito anche “creazione”, a sottolineare l’inevitabile illusorietà di tutto ciò che è o viene creato. Come è noto il fascino di una tale prospettiva ha da tempo varcato i confini indiani ed in psicologia ha, almeno parzialmente, influenzato il pensiero di Carl Gustav Jung; del fondatore della Psicosintesi, Roberto Assagioli; ed il lavoro del filosofo Ken Wilber, confluito insieme a quello dello psichiatra Stanislav Grof nella cosiddetta Psicologia Transpersonale.

Conclusioni

Una vecchia e molto nota storiella indiana (riportata originariamente negli Udāna, VI, 4) racconta di sei ciechi che tentano di descrivere un elefante attraverso la loro esperienza tattile. Per il cieco che tocca la coda l’elefante assomiglia ad una corda; mentre chi tocca la gamba lo percepisce simile ad un albero, chi tocca la zanna lo ritiene simile ad una lancia, chi tocca l’orecchio lo crede simile ad un grande ventaglio, chi tocca la proboscide lo reputa simile ad un serpente, e chi ne tocca il fianco lo raffronta ad un’alta muraglia.

Delle prospettive parziali, che si concentrano solo su alcuni aspetti di un problema, rischiano facilmente di falsare le nostre percezioni, portandoci anche molto lontano dalla reale natura delle cose. Per questo ho tentato di esplorare i concetti di “coscienza” e “inconscio” in psicologia da più prospettive, evidenziandone differenze e similitudini, nella convinzione che l’integrazione di più punti di vista sia più utile del limitarsi a considerare unicamente quello specifico del proprio indirizzo – dinamico, cognitivo, od altro che sia – rischiando una visione troppo parziale che in quanto tale preclude la visione della bellezza “dell’elefante” nel suo insieme, oltre alla capacità di essere professionalmente realmente efficaci.

 

Non ho capito: la cannabis fa male oppure no?

Nonostante vi siano evidenze sempre più frequenti sui benefici della cannabis, soprattutto nella pratica medica-terapeutica per la riduzione del dolore cronico, permangono ancora molti dibattiti aperti e questioni irrisolte riguardo l’utilizzo della sostanza..

 

Nonostante una sempre più crescente mole di ricerche evidenzi i benefici della cannabis, utilizzata prevalentemente a scopo ricreativo, nella pratica medica-terapeutica per la riduzione ad esempio del dolore cronico, sono ancora molti i dibattiti aperti e le questioni irrisolte riguardo l’utilizzo di questa sostanza: qual è il limite massimo per il suo uso e quali sono i componenti specifici dei cannabinoidi che interagendo esacerbano i suoi effetti dannosi sulla salute psicofisica dei suoi consumatori? Un recente Outlook di Emily Sohn, apparso recentemente su Nature, ne presenta una breve rassegna.

Cannaibis: un male o una cura?

La cannabis non rappresenta né il male oscuro per eccellenza né la cura ottimale per qualsivoglia malattia o problema: detto questo, a parere di Andrew Monte, medico tossicologo dell’università del Colorado, è necessario che sia i governi e che gli individui o pazienti che ne fanno uso siano il più possibile consapevoli dei suoi benefici ma anche dei rischi che si corrono, i primi nel legalizzarla e renderla così disponibile a tutti, i secondi nell’assumerla (Shon, 2019).

Un occhio più attento agli studi epidemiologici che hanno indagato nello specifico gli effetti nocivi della cannabis ha mostrato come, a seguito della legalizzazione della cannabis da parte del governo del Colorado, tra il 2012 e il 2014, la percentuale di ricoveri ospedalieri per dolori addominali, problematiche cardiovascolari e gastrointestinali e per diagnosi di disturbi psichiatrici sia notevolmente aumentata tra gli individui che aveva assunto cannabinoidi rispetto a quelli che si erano astenuti dal farlo (Monte, Zane et al., 2015).

In aggiunta all’analisi di Monte e colleghi (2015), Wang, Lait e colleghi (2016), in uno studio pubblicato su JAMA pediatrics, hanno riscontrato un’ulteriore allarmante problematica associata al consumo di cannabinoidi, cioè un incremento dei ricoveri per episodi di avvelenamento accidentale tra la popolazione pediatrica, al di sotto dei due anni di età, che ha avuto accesso ai reparti ospedalieri di competenza nella regione di Aurora, Colorado.

La popolazione che appare più a rischio medico a seguito dell’assunzione di THC (tetraidrocannabinolo), il principio attivo della cannabis,  è quella dei giovani adulti senza patologie pregresse; sembra infatti che questa sia particolarmente vulnerabile allo sviluppo di malattie sia fisiche che psichiatriche nel lungo periodo, in quanto il THC presente nella cannabis, una volta inalato o ingerito, si legherebbe ai recettori cerebrali dei cannabinoidi alterando l’umore, la memoria, l’appetito e la percezione del dolore, alterazione che tende a persistere anche a seguito dell’interruzione della sostanza (Sohn, 2019).

Cannabis: quale differenza tra consumo frequente e saltuario?

Generalmente gli studi che si occupano della presenza di tali conseguenze nocive sul lungo periodo prendono in considerazione i cosiddetti consumatori “pesanti” di questa sostanza, cioè coloro che ne fanno un uso regolare – almeno tre volte a settimana –  e massiccio in termini di quantità.

Questa modalità e frequenza d’uso è stata altresì associata ad una riduzione dei punteggi nei test cognitivi per la valutazione di alcune funzioni menestiche, attentive, di pianificazione e di decision making.

A tal proposito, una review di Broyd, van Hell, Solowij e colleghi (2016) ha evidenziato un peggioramento delle prestazioni in compiti di memoria e apprendimento verbale in un gruppo di giovani “sani” che aveva interrotto il consumo di cannabis da diversi mesi.

In aggiunta alla riduzione di alcune specifiche capacità cognitive che potrebbero compromettere di conseguenza alcune attività quotidiane come ad esempio la guida di automobili, uno fra i maggiori rischi presenti tra i consumatori di cannabis è la “slatentizzazione” precoce di sintomi psicotici e schizofrenici, soprattutto in quei giovani adulti che presentano una predisposizione genetica a tali patologie e che fanno un uso frequente di cannabis ad alto dosaggio di THC.

A supporto di tale associazione, un recente studio di Di Forti, Freeman e colleghi (2019), pubblicato su The Lancet Psychiatry, confermerebbe l’ipotesi di un ruolo causale, non meramente associativo, tra l’uso di cannabis e lo sviluppo di sintomi psicotici in una popolazione di 900 individui che ha avuto accesso ai reparti psichiatrici di ospedali in varie regioni europee per il trattamento di un esordio psicotico.

Il rischio si andava ad amplificare di cinque volte a seguito di un utilizzo giornaliero di cannabis ad alto dosaggio di THC.

Un ulteriore dato a favore delle modifiche a lungo termine associate all’utilizzo di cannabis proviene dallo studio di neuroimaging di Filbey e colleghi (2016), i quali hanno mostrato una riduzione della risposta dei recettori per i cannabinoidi ad alcuni stimoli di ricompensa in un gruppo di giovani che sono stati cronici consumatori di cannabis, suggerendo come un utilizzo prolungato della sostanza possa favorire un decremento della motivazione alla ricerca di altri stimoli di ricompensa, nel caso dello studio rappresentati dalle interazioni sociali, e possa determinare un effetto di tolleranza alla sostanza stessa tale per cui gli individui sentono il bisogno di una maggior quantità di cannabis per tenere alti i loro livelli appetitivi e di ricompensa.

Quest’ultimo punto risulterebbe centrale per l’eziologia di un disturbo da uso di sostanze in cui sono presenti comportamenti compulsivi di ricerca della sostanza, un anedonia indotta per quelle attività prima piacevoli oltre che una compromissione del funzionamento sociale (APA, 2013).

Legalizzazione della cannabis: uno sguardo alla ricerca

A detta dei maggiori esperti del campo, una maggiore disponibilità e accessibilità alla sostanza a seguito della sua legalizzazione, aumenterebbe non solo il rischio di un suo consumo prolungato che potrebbe favorire lo sviluppo di una dipendenza, ma aumenterebbe soprattutto il rischio di un consumo precoce nelle popolazioni adolescenziali, al di sotto dei 16 anni. Gli asolescenti, ancora in fase di sviluppo cerebrale, vedrebbero compromesse alcune loro funzioni cognitive legate in special modo all’inibizione degli impulsi e alla rievocazione mnestica. (Sohn, 2019).

Cannabis ad uso teraputico e dosaggio di THC

Non è attualmente disponibile un dosaggio di THC che assicuri l’evitamento totale dei rischi sopra citati e che possa di conseguenza essere usato a scopo terapeutico.

La sua concentrazione nel dosaggio sembra infatti essere il fattore centrale da tenere in considerazione quando si parla di “cannabis ad uso terapeutico”: in un trial randomizzato controllato, Solowiy e colleghi (2019) hanno evidenziato come una bassa concentrazione di CBD (cannabidiniolo) fosse in grado parimenti di aumentare gli effetti tossici di THC soprattutto per un gruppo di soggetti che non sono mai stati consumatori di cannabis. 

Al contempo nell’analisi di Solowij (2019) vi sono evidenze circa la riduzione degli effetti psicoattivi del THC a seguito di un’alta somministrazione di CBD ad un gruppo di individui consumatori, come se il CBD avesse degli effetti protettivi sul loro sistema nervoso.

Ma quindi la cannabis è dannosa oppure no?

A fronte di questi dati, sorgerebbe spontaneo domandarsi se effettivamente la cannabis sia dannosa o sia, in alcune circostanze, terapeutica.

Nonostante alcune compagnie che si occupano della distribuzione della cannabis si facciano porta voci di un effetto palliativo della sostanza promettendo con speranzosi aneddoti una riduzione del doloro cronico, degli stati di stress e una facilitazione del sonno per coloro che soffrono di varie tipologie di insonnia, le evidenze che si possiedono attualmente non consentono di rispondere a questa domanda in modo chiaro e preciso

A parere degli esperti tossicologi in materia, i dati a disposizione non supportano l’uso terapeutico della cannabis per il trattamento delle malattie fisiche eccetto alcune forme di epilessia infantile e disturbi muscolari caratterizzati da frequenti spasmi.

A onor del vero, sarebbe al contempo sbagliato demonizzare la cannabis: come non ci sono prove scientifiche atte a dimostrare i suoi effetti benefici per alcune tipologie di malattie, non esistono prove volte a dimostrare la sua causalità per alcuni tipologie di infiammazioni o varietà di tumori (Sohn, 2019).

Earl Miller, neuroscienziato al Picower Institute for Learning and Memory del MIT di Boston, sarebbe convinto che un suo uso moderato possa essere la soluzione migliore a questo spinoso dibattito, così come si tende a fare per il consumo di alcol.

Ciò che realmente è rilevante all’interno di questo ambito è tentare di capire genuinamente quali siano i pattern di attivazione cerebrale, le alterazioni cognitive e comportamentali che si ravvedono nei consumatori, accumulando quanti più dati possibili e accedendo a tutti i prodotti contenenti cannabis attualmente disponibili per i consumatori.

Per concludere, si sa che una specifica modalità d’uso della cannabis risulta potenzialmente rischiosa e arreca danni rilevanti ma si è ancora lontani dal capire con esattezza quali siano i suoi meccanismi che determinano le compromissioni a livello delle funzioni esecutive.

 

Stereotipi di genere, ruolo sociale e scelte professionali

Gli stereotipi legati al sesso condizionano i bambini fin dalle prime fasi della loro vita e continuano ad agire, in maniera inconsapevole, dirigendo le volizioni relative ad un probabile futuro lavorativo.

 

Il ruolo che ciascun individuo svolge nei contesti che caratterizzano la sua vita è influenzato dall’appartenenza al genere maschile o femminile. Questo ruolo può essere sintonico o distonico rispetto alle aspettative sociali differenti che si hanno in base al sesso dell’individuo. Fin dalle prime fasi della sua vita, l’infante è esposto alle influenze sociali di genere, che danno un taglio differente al proprio modo di essere. A cementare la sintonia fra il proprio modo di condurre la vita e il genere di appartenenza interviene anche il condizionamento mass – mediatico precoce. L’interiorizzazione degli stereotipi di genere dirige, anzitempo, il modo di pensare, le credenze, gli interessi e le scelte dei giochi e dei giocattoli dei bambini e delle bambine. Relativamente all’origine degli stereotipi di genere sono state proposte due differenti teorie. Secondo la teoria dello schema di genere, proposta da Bem (1981), un ruolo cardine nella nascita degli stereotipi di genere lo svolge l’osservazione. La teoria del ruolo sociale, proposta da Eagly e Wood (2011), afferma che i differenti ruoli sociali, svolti da uomini e donne, si strutturano in base alle differenti credenze che le persone hanno relativamente alle caratteristiche maschili e femminili di personalità.

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Il ruolo e l’appartenenza al genere

Il ruolo che ciascun individuo svolge nei contesti che caratterizzano la sua vita è influenzato dall’appartenenza al genere maschile o femminile. In pratica, questo ruolo può essere sintonico o distonico rispetto alle aspettative sociali differenti che si hanno in base al sesso dell’individuo (Eagly e al., 2000).

Fin dalle prime fasi della sua vita, l’infante è esposto alle influenze sociali di genere, che danno un taglio differente al proprio modo di essere. Il condizionamento sociale, che induce a strutturare la propria vita in obbedienza agli stereotipi sessuali, viene promosso dagli attori sociali con cui il bambino entra in relazione, ovvero i genitori, la parentela allargata, gli insegnanti e i coetanei.

A cementare la sintonia fra il proprio modo di condurre la vita e il genere di appartenenza interviene anche il condizionamento mass – mediatico precoce, che propone ruoli sociali nettamente differenti per il genere maschile e femminile (Murnen e al., 2016; Reich e al., 2018). A questo riguardo, se si analizzano, per esempio, i programmi di prima serata che i bambini guardano più frequentemente, appare netta la distinzione del ruolo lavorativo in base al sesso. Di fatto, gli uomini sono rappresentati in lavori in cui predomina l’affermazione di sé come individui, le donne, invece, svolgono ruoli meno importanti, sovente legati all’accudimento della “focolarità”, intendendo con tale costrutto tutte le attività che gravitano intorno al focolare domestico (accudimento della casa, cura della prole ecc.) (Lauzen e al., 2008).

Chiaramente l’interiorizzazione degli stereotipi di genere dirige, anzitempo, il modo di pensare, le credenze, gli interessi e le scelte dei giochi e dei giocattoli dei bambini e delle bambine (Bian e al., 2017; Golden e Jacoby, 2018). A tal proposito, gli stereotipi di genere intervengono sulla percezione di sé in funzione dei processi apprenditivi scolastici. Infatti, nel periodo della scuola primaria i bambini pensano di essere meno portati per la lettura, mentre le bambine credono di avere una minore propensione per l’informatica e per le scienze (Freedman – Doan e al., 2000).

Gli stereotipi legati al sesso condizionano, quindi, i bambini fin dalle prime fasi della loro vita e continuano ad agire, in maniera inconsapevole, dirigendo le volizioni relative ad un probabile futuro lavorativo. In tal senso, le bambine, con più frequenza, pensano di poter svolgere, una volta divenute adulte, delle professioni legate alla cura della salute oppure di dedicarsi all’insegnamento o di accudire esclusivamente la propria futura famiglia, mentre i bambini hanno aspirazioni che spaziano dall’ambito scientifico a quello tecnologico, dall’ambito ingegneristico a quello matematico (Beed e al., 2011). Attualmente molti Stati, grazie ad organismi governativi che si occupano di pari opportunità, stanno implementando nella popolazione la scelta di percorsi lavorativi distonici con gli stereotipi di genere.

Stereotipi di genere: due teorie sulla loro origine

Relativamente all’origine degli stereotipi di genere sono state proposte due differenti teorie. Secondo la teoria dello schema di genere, proposta da Bem (1981), un ruolo cardine nella nascita degli stereotipi di genere lo svolge l’osservazione. In altri termini, attraverso l’osservazione il bambino apprende le conoscenze che si traducono in schemi cognitivi, che ipotecano i comportamenti. Per esempio, una bambina che sceglie una bambola per giocare lo fa in seguito ad un ragionamento. In pratica, ella ha osservato nei differenti contesti empirici che la bambola è un giocattolo per bambine. Da questa datità osservativa discende uno schema cognitivo, ovvero la bambina pensa che, appartenendo al sesso femminile, deve anche lei giocare con le bambole, perché questo è un giocattolo femminile (Olsson e Martin, 2018). Questi schemi cognitivi di genere influenzeranno tutte le scelte che verranno fatte anche successivamente, ossia si effettuerà una cernita di esse in base alla congruenza con il genere di appartenenza.

La teoria del ruolo sociale, proposta da Eagly e Wood (2011), afferma che i differenti ruoli sociali, svolti da uomini e donne, si strutturano in base alle differenti credenze che le persone hanno relativamente alle caratteristiche maschili e femminili di personalità. Da queste credenze discendono i preconcetti di genere, ovvero che le donne sono più portate verso ruoli di accudimento sociale, che hanno come paradigma di fondo la protezione e la cura; invece, gli uomini sono più predisposti verso ruoli sociali che permettono l’affermazione di sé e il dominio sugli altri. In virtù di queste credenze, i genitori sviluppano nei confronti dei propri figli delle teorie attributive differenti. Solitamente, essi attribuiscono il successo delle proprie figlie al loro impegno, in quanto esse non sono naturalmente portate all’autoaffermazione, mentre il successo dei propri figli maschi è imputato al talento innato e alle caratteristiche biologiche legate al sesso, che li rendono capaci di affermarsi in campo sociale (Eagly e Wood, 2013).

In conclusione, i ruoli sociali e le scelte lavorative maschili e femminili sono ipotecati dagli stereotipi di genere. Per spiegare la nascita di essi sono state proposte due teorie, ovvero la teoria dello schema di genere e la teoria del ruolo sociale.

L’attaccamento. Dal comportamento alla rappresentazione (2008) di Mary Main – Recensione del libro

La storia della ricerca sull’ attaccamento ha attraversato tre momenti: nel primo John Bowlby ha proposto un’interpretazione etologica ed evoluzionistica sui legami di attaccamento precoce; Mary Ainsworth ha inaugurato la seconda fase della ricerca sviluppando la procedura di laboratorio della Strange Situation.

 

La Ainsworth inoltre ha determinato la celebre classificazione dell’organizzazione sviluppo affettivo del bambino. La terza fase si è aperta con il passaggio al livello rappresentazionale, in cui si inseriscono gli studi di Mary Main, che sono raccolti in questo volume.

L’attaccamento. Dal comportamento alla rappresentazione

Questo libro funge da tassello essenziale per comprendere le basi degli elementi di attaccamento che si osservano nel lavoro clinico. Ricco di spunti empirici e di letteratura in materia, potrebbe instaurarsi come guida al professionista per comprendere in maggior profondità l’essenza etologica, biologica e psicologica dell’attaccamento, le manifestazioni nella diade madre-bambino e la conseguente capacità narrativa nella Adult Attachment Interview (AAI). La ricchezza di descrizione delle categorie di studio a mio avviso rappresenta una chiave di lettura di alcune modalità comportamentali e stili linguistici, per comprendere più a fondo le tematiche del paziente e sostenerlo nell’interpretazione dell’instaurarsi di alcuni tipi di relazione.

Il testo è suddiviso in cinque parti.

La prima porzione è introduttiva, riporta uno sguardo generale sulla teoria dell’ attaccamento, descrivendo sinteticamente le differenze nelle risposte alla Strange Situation nella prima infanzia osservati da Ainsworth e alle categorie dell’AAI in relazione ai corrispondenti stili. Qui vengono riprese le massime di Grice di qualità, quantità, rilevanza e modo per le analisi discorsive, che poi saranno richiamati in vari punti del volume. Già in questa fase vengono esplicitati come i vari stili di attaccamento possono influenzare ragionamento, attenzione e memoria nei cicli di vita, quindi l’importanza delle ricerche longitudinali e follow up.

La seconda parte verte sull’ attaccamento in rapporto alla teoria dell’evoluzione e il mondo animale, condotto da un interrogativo di sfondo: comprendere qual è il comportamento di attaccamento adatto per la sopravvivenza e la riproduzione. Questo discorso è interessante poiché aiuta il lettore a comprendere appieno l’importanza del sistema comportamentale dell’ attaccamento, abbracciando una prospettiva delle possibili funzioni della formazione dei legami: reazioni adattive e disadattive che il bambino attivamente mette in atto per affrontare una questione biologicamente rilevante. Qui si inizia ad accennare il discorso sulle conseguenze dovute al maltrattamento, considerando uno scopo di sopravvivenza, che porta l’abusato a ritornare irrazionalmente verso l’oggetto abusante: il bambino non ha un passato evoluzionistico che lo giustifichi nell’allontanarsi dalla figura istintivamente sicura, nonostante ne sia spaventato. Correlato a ciò mi ha fatto riflettere questa citazione:

evitare la figura di attaccamento potrebbe servire come strategia condizionale che paradossalmente consente di tenersi vicini il più possibile in condizioni di rifiuto materno. Il bambino, anziché lasciarsi andare ad alti livelli di rabbia e di angoscia, evita, mantiene il controllo e continua ad esplorare.

L’attaccamento disorganizzato e le sue conseguenze

La terza parte è dedicata alla rappresentazione dell’ attaccamento con i suoi connessi con AAI e teoria della mente. Si sono esaminati le differenze individuali in rapporto alle differenze dei modelli operativi interni, differenze non soltanto correlate sui modelli non verbali ma anche agli stili riguardanti il linguaggio e le strutture mentali. Main dedica una parte alla descrizione di un bambino che mostra un modello comportamentale ed emotivo tipicamente sicuro/evitante/ambivalente nel corso della Strange Situation, per dare al lettore un’idea più completa delle varie fasi della procedura e apprezzare un esempio di ciò che si può osservare in presenza di tali stili organizzati; cosi definite poiché il comportamento e il livello di attenzione sono coerenti e rappresentano delle strategie condizionali ed adattive rispetto alla situazione in cui si trova il bambino. Non manca un capitolo riservato al protocollo semi strutturato AAI, per la valutazione dello stato mentale dell’adulto rispetto alle esperienze passate di attaccamento, e offrendo alcuni esempi di intervista declinate ai diversi stili. Infine un capitolo prende in considerazione relazioni tra funzionamento meta cognitivo e processi connessi all’attaccamento; infatti gli studi mostrano un monitoraggio metacognitivo relativamente avanzato nei bambini sicuri, al contrario, difficoltà ad accedere ai ricordi o comprendere la natura del pensiero per i bambini insicuri: un infante che non deve tenere sotto controllo la disponibilità fisica e psicologica delle figure di attaccamento può avere maggiore capacità attentiva (WM).

La quarta parte si concentra sull’attaccamento disorganizzato, descrivendo i processi riguardanti comportamento, linguaggio e rappresentazioni che indicano uno stato di attaccamento disorganizzato nella prima infanzia, nella seconda infanzia e nell’età adulta. I riflettori su tale stile poiché si è visto che un attaccamento disorganizzato nella prima infanzia ha specifiche conseguenze negative sulle fasi successive e gli studi indicano un maggior rischio di psicopatologia. Mi pare molto interessante riportare che i bambini che in situazioni difficili mostravano un pattern comportamentale non organizzato, a sei anni rivelavano un inversione dei ruoli e controllano i genitori, organizzando il discorso e l’attenzione della madre; quindi un comportamento organizzato ma controllante. Invece i genitori dei bambini disorganizzati avevano cadute nel linguaggio, nel ragionamento, un comportamento minaccioso/spaventato o dissociativo. Main in questo volume descrive tutte le espressioni di tali anomalie comportamentali dei genitori, sottolineando l’ effetto sulla seconda generazione del trauma vissuto in passato dal genitore. Ritorna il tema del paradosso per il bambino di dover conciliare la tendenza ad avvicinarsi con quella a fuggire da uno “spavento irreparabile” di un genitore dal comportamento minaccioso invece che dal ruolo di rifugio sicuro. Questo paradosso senza soluzione può portare a un corto circuito dell’attenzione, con conseguenze quali malfunzionamento della memoria di lavoro e perdita di aderenza al contesto.

L’attaccamento: dall’infanzia all’età adulta

La quinta parte descrive l’evoluzione dell’ attaccamento dall’infanzia alla età adulta. Sintetizza i risultati emersi da uno studio longitudinale sull’ attaccamento, riportando predicibilità dei processi di comportamento, rappresentazioni e linguaggio fino all’età di diciannove anni. Il resoconto non mostra una stabilità significativa ma emerge il ruolo svolto dai traumi intercorrenti, per spiegare i cambiamenti nello stato di attaccamento.

Personalmente ho trovato affascinante la descrizione presentata dal testo sul comportamento disorganizzato di una bambina al ricongiungimento, che per altri versi si era mostrata sicura nel corso della Strange Situation:

Mentre gattonava rapidamente verso il padre, come per accoglierlo sull’uscio, la bambina si ferma improvvisamente e gira la testa di novanta gradi. Fissando la parete nel vuoto, con un viso impassibile e gli occhi socchiusi, la piccola sbatte la mano sul pavimento per tre volte. Sembra un gesto aggressivo e in qualche misura rituale. Poi la bambina guarda in avanti, sorride e ritorna ad avvicinarsi al padre, chiedendo di esser presa in braccio.

Benessere a scuola: il punto di vista dei genitori – Partecipa alla ricerca!

Ci rivolgiamo ai genitori, invitandoli alla compilazione e alla diffusione di un breve questionario, in forma anonima, che ci permetterà di raccogliere informazioni indispensabili in vista di nuovi progetti volti al benessere scolastico.

 

Il Gruppo di lavoro nazionale di Psicologia Scolastica nasce a marzo del 2018 ed è formato da psicologhe e psicoterapeute che, come componenti del “Movimento Psicologia a Scuola” nato su facebook, hanno deciso di creare un progetto volto alla ricerca, all’informazione, alla consulenza e all’intervento nella scuola.

Per comprendere le reali esigenze della scuola di oggi, nel 2018 abbiamo condotto un’indagine relativa alla percezione che i docenti italiani hanno dello Psicologo Scolastico, con un campione di 440 soggetti partecipanti. I risultati sono stati condivisi sul nostro sito, in testate giornalistiche on line quali “State of Mind. Il giornale delle Scienze Psicologiche” ed “OrizzonteScuola.it”, ed attraverso un webinar condotto dal presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, Nicola Piccini, per FCP (Formazione Continua in Psicologia).

Troverai tutto all’interno del nostro sito, cliccando qui 

Partire dai dati di ricerca significa per noi offrire una progettualità basata su bisogni ed esigenze reali della scuola e dei suoi attori, costruendo risposte volte a renderla un luogo di benessere in cui crescita didattica e sviluppo psicologico possano favorirsi a vicenda.

Quest’anno abbiamo necessariamente deciso di dar voce al prezioso punto di vista dei genitori arricchendo la prospettiva sulla scuola attraverso l’esperienza “indiretta” di chi vi affida i propri figli.

Ci rivolgiamo quindi a voi genitori: vi invitiamo alla compilazione e alla diffusione di questo breve questionario, in forma anonima, che ci permetterà di raccogliere informazioni indispensabili in vista di nuovi progetti volti al benessere scolastico.

 

GUARDA I RISULTATI DELLA RICERCA 9998

 

Ti ringraziamo per la partecipazione!
  GdL nazionale Psicologia Scolastica 

Rifiuto e aggressività maschile

Si intende per violenza di genere qualsiasi atto di violenza, abuso o vessazione, sia fisica che psicologica, agita nei confronti di una donna.

 

I fatti di cronaca riportano crimini commessi contro le donne ad un ritmo allarmante: basti pensare che in Italia, dall’inizio del 2019 all’8 Marzo, tredici donne hanno perso la vita e nella maggioranza di questi casi per mano del proprio compagno o marito (Ansa, 2019).

La comunità scientifica ha iniziato recentemente a prendere in esame i processi che conducono a tale agito violento, rivelando come vi sia una correlazione positiva tra la sessualizzazione della figura femminile nella cultura Occidentale e la possibilità per una donna di essere oggetto di un’azione violenta.

Aggressività maschile e rifiuto: uno studio sperimentale

Un recente studio di Blake, Bastian e Denson (2018) ha simulato in condizione sperimentale diversi scenari-appuntamento, nei quali i partecipanti venivano rifiutati, su base di una breve interazione tramite video-presentazioni, da una ragazza vestita in maniera differente per richiamare rispettivamente la rappresentazione sessualizzata vs non-sessualizzata. La ragazza aveva inoltre espresso con un punteggio la propria propensione al sesso occasionale e al frequentare qualcuno, nelle due condizioni disponibile vs non-disponibile.

In seguito al rifiuto ricevuto, i partecipanti e le controparti femminili hanno preso parte al Paradigma dell’aggressività di Taylor, proposto sotto forma di un gioco di velocità, nel quale il perdente viene punito con un suono fastidioso la cui intensità e volume sono decisi dal vincitore.

Il primo round è stato sperimentalmente manipolato per favorire l’uomo, in modo da ottenere una misura della “vendetta” per il rifiuto ricevuto. Coerentemente con studi precedenti, che rintracciavano l’eziologia della reazione violenta maschile nella percepita minaccia alla propria autostima (Baumeister et al., 1996; Twenge & Campbell, 2003), Blake e colleghi hanno confermato che la “vendetta” peggiore veniva somministrata nella condizione in cui i soggetti venivano respinti da una donna sessualizzata, la quale veniva percepita come più possibilista verso relazioni sessuali occasionali, anche in questo caso, in linea con la precedente letteratura (Farris, Viken, Treat & McFall, 2006).

In altre parole, maggiore era l’anticipazione di un successo nella conquista percepito dai partecipanti, maggiore è stata la reazione aggressiva dimostrata nel Paradigma di Taylor. Con le dovute limitazioni, questo studio supporta le preoccupanti premesse che hanno reso necessari gli studi sulle violenze di genere, in primo luogo: in linea con un crescente numero di ricerche, viene dimostrato come l’attivazione di un obbiettivo sessuale negli uomini, a cui segua poi un rifiuto, medi una risposta aggressiva, nella misura in cui un uomo si sente “autorizzato” al sesso, sulla base delle proprie aspettative.

La scienza (sorprendente) della felicità

Nel 2004, lo psicologo americano Daniel Gilbert, autore del volume “Stumbling on happiness”, tenne per TED uno dei discorsi ancora ad oggi più visualizzati di sempre sulla felicità umana, o meglio, sugli errori che gli esseri umani compiono nel valutare la loro felicità.

 

L’argomento del video di Gilbert era (ed è tuttora) di sicuro interesse: la felicità umana, o per meglio dire, gli errori che gli esseri umani compiono nel valutare la propria felicità.

Il ricercatore presentò durante i minuti a sua disposizione una posizione alquanto affascinante e su cui vale la pena, a mio avviso, fermarci a riflettere (ndr: il video è riportato a fondo pagina, dopo l’articolo)

Felicità: quanto dipende dagli eventi di vita

Il cervello umano si è evoluto nel tempo, arrivando all’incirca in due milioni di anni a triplicare la propria massa. Il dato interessante non è solo l’aumento di dimensioni, quanto più le modifiche alla struttura e il generarsi di nuove connessioni.

I ricercatori ci dimostrano che i lobi frontali (corteccia prefrontale) sono lo sviluppo “più recente” del cervello umano; una delle loro funzioni è quella di simulare l’esperienza. Ciò che ci distingue da buona parte degli altri animali, dunque, è la capacità di provare/immaginare/figurarci esperienze senza viverle. Un esempio molto semplice: tutti noi possiamo immaginare che gusto avrebbe un gelato al sapore di “fegato con le cipolle” senza bisogno di sperimentarlo veramente.

Ecco. Questo è ciò che i nostri lobi frontali ci consentono di fare, quotidianamente.

Al di là della storia evolutiva del nostro cervello, durante il famoso discorso The surprising science of happiness, Daniel Gilbert pone l’auditorio davanti a due scenari possibili, chiedendo quale sia preferibile: vincere alla lotteria, o diventare paraplegico.

Vi sembrerà scontato – per non scrivere assurdo – rispondere ad un dilemma simile.

Ebbene, ciò che risulta sorprendente sono i dati degli esperimenti riportati da Gilbert durante la conferenza: a distanza di un anno dall’incidente o dalla vittoria della lotteria, le persone sperimentano il medesimo livello di felicità.

In altre parole, eventi che pensiamo nell’immediato ci potrebbero appagare, potrebbero non avere invece effetto sulla nostra felicità se riconsiderati dopo sei mesi.

Altrettanto, se immaginassimo, invece, una delle cose peggiori che ci potrebbe succedere, scopriremmo che saremmo infelici solo nei primi tempi, ma la disperazione pian piano svanirebbe (salvo grandi eccezioni).

Questo perché “il simulatore di eventi” di cui siamo dotati risente di errori di valutazione (i così detti bias), portandoci a credere che due eventi profondamente diversi possano avere risultati altrettanto dicotomici in termini di soddisfazione.

Felicità: come il nostro cervello è in grado di aiutarci

Come è possibile, vi starete chiedendo, essere soddisfatti (per non dire felici), dopo un evento negativo? Ebbene, Gilbert prosegue stupendoci e suggerendoci che il nostro cervello è in grado di sintetizzare la felicità.

Gli esseri umani, infatti, sono dotati di quello che lui chiama “un sistema immunitario psicologico”, un insieme di processi cognitivi (per lo più non consci) che ci portano a cambiare visione del mondo, così da sentirci meglio all’interno del contesto nel quale finiamo a trovarci.

L’aspetto oltremodo interessante, a mio avviso, è l’accento posto su un meccanismo che abbiamo “al nostro interno”: siamo in grado di auto-produrre felicità, quando in realtà siamo convinti che dipenda per lo più da fattori esterni.

Gilbert non parla di accontentarsi, però. Non sta facendo una distinzione tra felicità di serie A (vinco alla lotteria) e di serie B (non ho vinto ma me ne faccio una ragione, consolandomi con altro). Il ricercatore sostiene che la felicità autentica (quella che potremmo definire derivante dall’ottenere ciò che desideriamo, o crediamo di desiderare) e quella “sintetica” (derivante dal non ottenere ciò che desideriamo) abbiano la stessa qualità.

A supporto della sua tesi, Gilbert espone un esperimento “classico”, chiamato paradigma della libera scelta.

Ad un gruppo di soggetti si chiede di mettere in ordine di preferenza alcuni oggetti (supponiamo, sei stampe di Monet). Dopo che le persone hanno indicato su una scala da 1 a 6 le proprie preferenze, si concede loro un regalo: una copia gratuita della stampa numero 3 o numero 4. I soggetti tenderanno a portare a casa la stampa numero 3, poiché sulla scala è più vicina all’indice di gradimento più alto.

Contattati in un periodo di tempo successivo, viene chiesto ai soggetti di mettere nuovamente in scala i quadri preferiti. Il risultato è la prova, per Gilbert, di come il nostro cervello sintetizzi la felicità: i soggetti assegneranno al quadro che hanno portato a casa un punteggio più alto rispetto alla volta precedente e al quadro che non hanno ottenuto un punteggio più basso.

Come a dire: il quadro che sono riuscito a portare a casa è migliore di quanto pensassi! E fin qui, forse, potremmo ancora avere il dubbio del “chi si accontenta gode”.

Gilbert, però, fa un passo avanti, e replica il medesimo esperimento con pazienti affetti da amnesia anterograda, che non possono formare nuovi ricordi. Potranno ricordare la loro infanzia ma se ci si presenta loro e si lascia trascorrere, diciamo, 15 minuti, non ricorderanno né la faccia né il vissuto.

I risultati dell’esperimento sono i medesimi del campione di controllo “sano”.

Significa che i soggetti affetti da amnesia, nonostante non potessero ricordare di aver ricevuto la stampa in regalo, in una seconda valutazione la reputavano migliore di quanto avessero fatto in precedenza, così come la stampa che non avevano scelto risultava in seconda analisi più sgradita.

Felicità: possiamo crearcela

Ciò dimostra che quando sintetizziamo la felicità, siamo in grado di cambiare concretamente e realmente la nostra reazione (e il punto di vista) rispetto ad un evento.

Infatti i pazienti affetti da amnesia, per riprendere il nostro esempio, non possono accontentarsi o farsi piacere la stampa perché è quella che possiedono, dal momento che non sono in grado di ricordare di possederla.

Possiamo sintetizzare la felicità anche quando siamo in una situazione di svantaggio, anzi, quando non abbiamo possibilità di scelta e gli eventi ci travolgono, è in quel momento che la felicità sintetica ci viene in soccorso. Conoscere questo aspetto di noi può sicuramente aiutarci a gestire situazioni che pensiamo essere in partenza “devastanti”.

Attenzione, però, Gilbert non ci sta dicendo che non ci sia differenza tra un evento negativo e un evento positivo. Ci sono sicuramente cose/eventi/situazioni migliori di altre.

Ciò che ci sta aiutando a capire è come talvolta i nostri desideri o le nostre “catastrofi” possano essere “ridimensionate”, ricordandoci che abbiamo – all’interno di noi stessi – tutti gli strumenti necessari se non per creare, quanto meno per reagire positivamente ad una, o più, situazioni che appaiono negative.

 

LA SCIENZA DELLA FELICITA’ – GUARDA IL VIDEO DI DAN GILBERT:

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