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Psicologia del viaggio 

Il viaggio è un fenomeno non solo economico, ma anche psicologico. Il viaggio, infatti, nelle sue fasi (partenza, percorso e arrivo) rende l’idea della ciclicità della vita e del suo dinamismo. Il viaggio è, quindi, un’esperienza interiore dell’individuo che richiama la circolarità della vita: la nascita, l’adolescenza, la fase adulta e la morte.

 

L’uomo è un essere sociale mobile. Quando lo spostamento è di breve durata e ha la finalità di visitare nuovi luoghi per svago, si parla di mobilità turistica. Proprio grazie alla facilità degli spostamenti e all’accessibilità, anche in termini economici, delle strutture ricettive di soggiorno, il turismo è diventato un fenomeno di massa, che coinvolge la vita di moltissime persone e organizza l’assetto di intere comunità. Una definizione sintetica, ma al tempo stesso tale da renderne la complessità, descrive il turismo come:

The sum of the relationships arising the interaction of tourists, business suppliers, host governments and host communities in the process of attracting tourist and other visitors (McIntosh e Goeldner, 1984).

Si tratta, perciò, di un fenomeno non solo economico, ma anche psicologico. Da un punto di vista psicologico si può dire che ci sia analogia tra il viaggio inteso come conoscenza di realtà esterne (luoghi, culture, lingua ecc.) e il percorso di conoscenza di sé (Carbonetto, 2007). La vita è un viaggio: tale affermazione, riconosciuta come espressione idiomatica, sottende un significato più profondo (Papapicco, Scardigno, Mininni, 2017). Il viaggio, infatti, nelle sue fasi (partenza, percorso e arrivo) rende l’idea della ciclicità della vita e del suo dinamismo. Il viaggio è, quindi, un’esperienza interiore dell’individuo che richiama la circolarità della vita: la nascita, l’adolescenza-la fase adulta e la morte.

La partenza

Il termine ‘partenza’ fa riferimento al verbo ‘partire’, la cui etimologia è fondamentale per comprendere come questa prima fase del viaggio possa essere considerata metafora della vita. Il verbo ‘partire’ deriva dal latino ‘partire’ denominativo di ‘pars’, ‘parte’. Il significato letterario del verbo latino è ‘dividere, separare’, da cui deriva il significato più generico di ‘allontanarsi’. Da questi presupposti etimologici, è possibile rilevare come il concetto di partenza abbia una duplice valenza: di nascita e di morte. Da un lato la partenza corrisponde alla nascita, perché al momento del parto si verifica una separazione del neonato da sua madre, dall’altro la partenza si connette anche alla morte, in quanto viene considerata una separazione dalla vita terrena.

La partenza, nel suo doppio significato di iniziare e, all’opposto, di finire e, in assoluto, di morire, è una sintesi simbolica di un’esperienza universale in cui nascita e morte rappresentano momenti essenziali del far parte per se stesso nel processo di individuazione (Carbonetto, 2007).

Da un punto di vista psicologico, la partenza risulta essere un momento di estrema rilevanza.

Rappresenta un momento di distacco, infatti il piacere di spostarsi da una situazione rassicurante come quella della propria terra d’origine e del proprio nucleo familiare presuppone il superamento della fase simbiotica del bambino nei confronti della madre (Carbonetto, 2007).

Così come teorizzato dalla psicoterapeuta Margaret Mahler (1897), superando la fase simbiotica, il bambino approda ad una fase definita separazione-individuazione che è compatibile con il momento della partenza, perché comporta il distacco dalla madre, considerata una base sicura, per raggiungere un livello sempre maggiore di autonomia che si intensifica nell’adolescenza, ma si definisce nell’età adulta. Viaggiare, quindi, rappresenta il superamento delle azioni abituali e quotidiane o anche la rottura dalla routine della vita condotta nel luogo di residenza, che denota una base sicura per l’individuo. Viaggiare significa anche avere una possibilità di svago dalla vita lavorativa e quotidiana. Si può, perciò, vivere un viaggio come un’occasione per riconquistare la propria libertà e creatività e la possibilità di riavvicinarsi a parti “alienate di sé” (Carbonetto, 2007).

Tutto questo comporta una disponibilità a mettersi in gioco, ad affrontare l’ansia dell’imprevisto e dell’ignoto che ogni viaggio, anche quello più organizzato o vicino, comporta, ad abbandonare la sicurezza di ciò che è conquistato e garantito. Anche la scelta della meta risulta, in tal senso, significativo perché permette di cogliere la possibilità da parte dell’individuo di aver costruito una corretta immagine di sé, dal momento che si è spinti a cercare una località turistica in base a caratteristiche personali. Tuttavia, se l’individuo non ha costruito adeguatamente il proprio Sé, non ha raggiunto un’identità stabile, non può ricercare il sostegno in programmi turistici attraenti o nei compagni di viaggio. Se è vero, infatti, che il viaggio può avere valenze terapeutiche, non può, da solo, funzionare come una cura (ibidem).

L’arrivo

L’arrivo nella località scelta comporta il raggiungimento di un traguardo. Questa fase implica una pausa, una sospensione di un flusso sempre più minaccioso che suscita ansie, implica la realizzazione di un’aspettativa. Si pensi alla necessità diffusa di informare subito i congiunti sull’andamento del viaggio, alla situazione più rilassata e tranquilla di chi ha raggiunto l’albergo (Carbonetto, 2007). L’arrivo, però, non rappresenta il punto finale del viaggio, ovvero la ricerca della stabilità, perché l’individuo sarà alla ricerca di nuovi traguardi, orizzonti da esplorare, nuovi abbandoni. In questo stadio, fondamentali sono le aspettative che il soggetto si crea al momento della partenza e che possono essere confermate oppure disconfermate in seguito all’incontro con la nuova realtà. Più ci sarà accordo tra il nuovo contesto e le aspettative, più il soggetto sarà soddisfatto del suo viaggio. La fine del viaggio, il ritorno, è una ricongiunzione circolare al punto di partenza, recupero di ciò che è noto e caro, in cui è implicito il concetto di nostalgia (ibidem).

Proprio per superare la nostalgia legata al ritorno a casa, il viaggiatore tende ad acquistare souvenir che gli permettono di avere un ricordo dei luoghi visitati. Negli ultimi anni, con il crescente impatto della tecnologia, sta aumentando il fenomeno di raccolta di fotografie non professionali scattate durante il viaggio. Queste fotografie stanno sostituendo il classico souvenir, in quanto si basano su immagini “auto-prodotte” (Panizza, 2013) con, a conclusione, la creazione di uno story-telling turistico.

L’uomo moderno, che fa uso massiccio di Internet, impiega molte immagini. Instagram o Facebook, ad esempio, sono social network nati per lo scambio di fotografie. La fotografia, proprio per queste possibilità che offre ai turisti, sta sostituendo il tradizionale souvenir. Il termine souvenir deriva dal latino ‘subvenire’ che significa ‘venire in aiuto’.

Il souvenir è dunque qualcosa che può essere regalato a qualcuno o che si tiene per sé; è un pensiero di un viaggio che ha lo scopo di ricordare un luogo visitato. Il souvenir solitamente schematizza, concentra in sé un luogo, si pensi alla Tour Eiffel parigina e al Colosseo romano, ridotti a portachiavi o a piccole statuine. In più, la dimensione piccola, dovuta all’ovvia necessità di trasporto, aumenta la carica emotiva (Iannone, Rossi, Salani, 2005).

Il souvenir diviene “feticcio” (Panizza, 2013) per colui che lo acquista, poiché vengono assegnati a questo oggetto significati aggiunti in base all’esperienza vissuta; i souvenir aiutano e sorreggono la narrazione del viaggio, riportano il possessore nel luogo in cui è avvenuto il contatto con l’oggetto. Il significato del souvenir ed il tipo di souvenir ricercato è cambiato insieme al significato del viaggio. All’epoca dei viaggi commerciali il souvenir era qualcosa di esotico, di non facilmente recuperabile in altri luoghi. Era qualcosa da mostrare con fierezza, quasi come prova indiscutibile del viaggio intrapreso. In altre epoche, come quella dei Grand Tour, vi era la tendenza di appropriarsi di piccoli frammenti dei luoghi, che supportavano i ricordi del viaggio.

Oggi il souvenir turistico ha connotazioni diverse e si configura nello scattare fotografie. Questa trasformazione del souvenir in fotografia dipende da varie ragioni: innanzitutto la fotografia è qualcosa di personale, auto-prodotta, è molto economica ed è tipica del luogo visitato. Da un punto di vista psicologico, il souvenir risponde all’appagamento di bisogni di viaggio.

 

Quando l’amore diventa perversione

Nella perversione non c’è empatia o sensibilità, non esiste rispetto o delicatezza, mentre l’amore è generoso e orientato al Tu. Una breve illustrazione del passaggio tra amore a perversione e dell’impossibilità dei due di coesistere.

 

Il primo a parlare di perversione e a sfatare il tabù che da sempre ha aleggiato, e tutt’ora aleggia, sul tema delle perversioni è stato Sigmund Freud, medico austriaco e padre della psicoanalisi con i suoi saggi sulla sessualità del 1905. Egli individua, nello sviluppo psico-sessuale del bambino, una fase fondamentale e determinata denominata “fase genitale”, in cui il bambino impara a conoscere e a scoprire il proprio corpo e la propria sessualità. Il bambino comprende le differenze tra i generi e le differenze sessuali tra i coetanei e gli adulti. Inoltre, vive quello che è conosciuto come Complesso di Edipo, in cui desidera sostituire il padre a fianco della madre, provando per lui un sentimento a metà tra amore e odio e tentando in tutti i modi di possedere in modo esclusivo la propria madre.

In questa fase, afferma Freud, il bambino comprende l’impossibilità di sostituirsi al padre ed accetta così la sua posizione e quella dei suoi genitori. Quando il bambino non riesce a riconoscerlo, si istaura in lui il seme della perversione: inizia a vivere in un mondo privo di differenze sessuali, di rapporti familiari, di regole e vincoli nei rapporti generazionali e sociali. Colui che cresce nella e con la perversione non cerca trasgressione, poiché trasgredire vuol dire superare un limite che in essa non esiste, non esiste confine, non esiste una regola.

Questa è una prima e fondamentale differenza tra amore e perversione: il primo è regolato, ha un limite, un confine, il secondo è privo di ogni confine umano e sociale, è un baratro senza fine. Inoltre, nella perversione non esiste riconoscimento dell’Altro, come persona, come umano e anzi, l’altro smette di essere persona e diventa oggetto da possedere, privo di diritti, di volontà, di desideri. Questa assenza di riconoscimento dell’altro è riscontrabile in ogni forma di trauma inflitto da mano umana ed, in particolare, in quella forma di trauma che Giovanni Stanghellini e Mario Rossi Monti chiamano “trauma di effrazione”, il cui prototipo è l’abuso sessuale. Si può affermare, quindi, che amare vuol dire riconoscere l’altro, il suo desiderio ed il proprio, mentre nella perversione c’è un misconoscimento totale dell’altro.

Sempre Freud rintraccia alla base della perversione, non il movente sessuale, ma un’estrema esaltazione del Sé e della propria onnipotenza, un mezzo per poter dimostrare, a se stessi e al mondo, che tutto gli è possibile, che non esiste un limite a cui attenersi. Ed è per questo che la perversione è più vicina alla morte che all’amore: nella sua onnipotenza cerca di distruggere l’altro, di degradarlo, riducendolo ad oggetto da possedere e non percepisce che nel distruggere l’Altro distrugge anche se stesso. Pertanto, tutte le culture e società, non hanno potuto che confinare la perversione ed esaltare l’amore nelle regole e nei confini.

Nella perversione non c’è empatia o sensibilità, non esiste rispetto o delicatezza, c’è solo violenta distruzione dell’amato e del mondo circostante, desiderio di possesso ed esclusività. Mentre l’amore è generoso, è orientato al Tu, la perversione è egoista e meschina e deride l’equilibrio e la mediocrità.

Anche la sessualità assume una diversa connotazione: non è più un abbraccio tra due corpi e tra due anime, un modo per entrare in sinergia completa, ma un mezzo per possedere l’altro nel modo più terreno possibile, per annientare il suo corpo e la sua persona, per depersonalizzare totalmente l’altro. È un piacere non condiviso, singolo, una danza con la morte, a cui spesso artisti e poeti hanno preso parte per poter descrivere e decantare realtà al confine tra vita e morte.

Secondo Galimberti, l’amore differisce ulteriormente dalla perversione per la sua capacità di trascendersi, superare la propria solitudine ed incontrare quella dell’altro, donare all’altro la propria anima, oltrepassando la carne. Nella perversione, invece, l’altro è privato, anzi, derubato della propria solitudine e degradato nella propria identità.

Concludendo, potremmo affermare che l’amore diventa perversione quando il rispetto diventa non rispetto, quando il limite diventa inesistente, quando sensibilità ed emozioni vanno via e lasciano spazio al desiderio di possesso e distruzione o ancora all’indifferenza. E con sé, avvicina la vita alla morte, la giustizia all’ingiustizia o peggio, all’assenza di giudizio.

 

Vivere momento per momento. Sconfiggere lo stress, il dolore, l’ansia e la malattia con la mindfulness – Di John Kabat Zinn, recensione del libro

Vivere momento per momento è un testo per tutti: sia per professionisti della salute che neofiti della materia, sia per coloro che stanno combattendo qualche sofferenza, sia per chi sta solamente cercando una disciplina di equilibrio.

 

Ora è veramente il solo momento che hai da vivere.

Il presente è “il solo momento di cui disponiamo”. Eppure spesso non ce ne rendiamo conto. Ci lasciamo catturare dai pensieri, orientati al passato o al futuro, ed è facile cadere in uno stato di pilota automatico, correlato da vulnerabilità fisica e psichica. Vivere momento per momento è un testo per tutti: sia per professionisti della salute che neofiti della materia, sia per coloro che stanno combattendo qualche sofferenza, sia per chi sta solamente cercando una disciplina di equilibrio. Perché questo libro è un invito ad intraprendere un viaggio di auto esplorazione, di crescita e di guarigione, mobilitando le forze e risorse interiori. La consapevolezza può essere praticata, in ogni momento della giornata, anche attraverso le attività quotidiane, perché ogni cosa parla di noi e ci insegna qualcosa.

Il libro si suddivide in cinque parti.

Parte 1 – La pratica della consapevolezza

Il capitolo si apre con il suggestivo titolo Affrontare la catastrofe. Di cosa si tratta? È studiare l’arte di abbracciare l’intera catastrofe del vivere. Questa espressione stimola in noi l’ossimoro che è la consapevolezza: accogliere gli aspetti più difficili della vita e coglierne gli spazi di crescita, mentre si gusta l’intera meraviglia dell’essere. Il nostro primo alleato è il respiro. Il modo più facile ed efficace per iniziare una pratica di meditazione, è quello di concentrare l’attenzione sul respiro ed osservare le sensazioni che lo accompagnano. Sembra banale ma il respiro aiuta a concentrarci, ci aiuta ad affrontare la nostra esperienza consapevolmente e la mente diventa più calma e meno reattiva. Un altro elemento rilevante è la concentrazione sul proprio corpo, perché spesso “non siamo in casa”. I nostri standard ed automatismi ci trasmettono un senso di insicurezza che si tramutano in ossessione sul corpo e/o disattenzione di esso, trascurando la meraviglia di aver un corpo. Infine tra gli strumenti di meditazione vi è lo yoga. Nello stiramento dei muscoli e nella ricerca di equilibrio impariamo ad avvicinarci ai nostri limiti senza mai attraversarli, con una consapevolezza costante. Il testo offre diverse pagine a raffigurazioni di posizione yoga per la pratica indipendente.

Parte 2 – Un nuovo modo di pensare alla malattia

La medicina sta riconoscendo sempre più l’influenza sulla salute dello stile di vita, delle tendenze di pensiero ed emozione, relazioni e fattori ambientali. Ne sono testimonianza le ricerche in psicoimmunologia, il modello biopsicosociale, studi sui tratti di personalità che proteggono dagli effetti negativi dello stress o predispongono a determinate malattie.

Parte 3 – Lo stress

L’autoregolazione è il processo in cui il sistema riesce a mantenere la stabilità del proprio funzionamento e ad adattarsi a nuove circostanze, ripristinando l’equilibrio prestando attenzione ai feedback dell’organismo. La pratica della meditazione trasforma la nostra capacità di adattamento allo stress.

Parte 4 – La consapevolezza al lavoro

Praticare la consapevolezza significa imparare a lavorare proprio con quello stress e quel dolore di cui vogliamo liberarci. In questa sezione l’autore presenta diverse applicazioni della tecnica (ai dolori cronici, alla sofferenza emotiva, all’insonnia, all’alimentazione e sensibilizzazioni a tematiche di risonanza globale).

Parte 5 – Il viaggio continua

Dopo il primo approccio, magari praticando il programma di otto settimane che l’autore presenta in Vivere momento per momento, la grande sfida è riuscire a tener viva la pratica della consapevolezza nella vita quotidiana. Non è una filosofia, ma un modo di essere, vivere pienamente ogni momento:

la consapevolezza è il viaggio di tutta una vita su un cammino che alla fine non porta da nessuna parte: solo a scoprire chi sei.

Durante la lettura, ho incontrato queste citazioni e concetti interessanti per una riflessione personale e professionale:

Per noi ogni momento è un nuovo inizio, una possibilità di ricominciare – quando il fallimento sembra un’esperienza senza via d’uscita, dobbiamo ricordare che il qui e ora è una nuova opportunità.

All’inizio si erano chiesti se il programma avrebbe potuto fare qualcosa per loro. Alla fine hanno scoperto che loro stessi possono fare qualcosa di importante per sé, qualcosa che nessun altro al mondo può fare per loro – il ruolo dei terapeuti è di accompagnare i pazienti nel loro viaggio di comprensione e cambiamento, ma il ruolo principale lo hanno i pazienti con le proprie risorse.

Se ritieni che aiutare gli altri sia la cosa più importante, può valer la pena di considerare che la misura in cui sei in grado di farlo dipende dal tuo proprio equilibrio. Prendere tempo per accordare il tuo strumento..è una scelta intelligente – perla di saggezza per tutti coloro che esercitano relazioni di aiuto, mai dimenticarsi di prendersi cura di sé per riuscir ad accudire gli altri.

 

Il “gene gay” non esiste! E la cosa non ha sorpreso nessuno: ecco cosa abbiamo imparato dal più grande studio sulle basi genetiche della sessualità

È stato di recente pubblicato su Nature il report relativo al più grande studio di associazione genome-wide (GWAS) mai condotto, con l’obiettivo di indagare la base genetica del comportamento sessuale verso gli individui dello stesso sesso. La conclusione a cui si è giunti è una ed inequivocabile: il “gene gay” non esiste.

 

Tuttavia, non saranno stati in molti a sorprendersi di tale risultato, possiamo infatti avere un’idea della complessità della variabilità genetica se consideriamo un parametro relativamente semplice come l’altezza: è infatti riconosciuto il forte carattere ereditario di tale caratteristica, con circa l’80% di influenza genetica a fronte di una piccola varianza, circa il 20%, determinata epigeneticamente (caratteristiche ambientali che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo). Grazie agli studi di associazione genome-wide sono stati ad oggi isolati almeno 700 variazioni comuni e 83 mutazioni non comuni (Marouli et al., 2017) che contribuiscono ad una varianza nell’altezza del loro portatore da 0,1 mm a 2,0 cm, evidenziando come molteplici geni contribuiscano a modulare l’espressione di una singola caratteristica.

Sarebbe dunque stato estremamente semplicistico aspettarsi che una singola mutazione fosse responsabile di un comportamento complesso quale la sessualità ed infatti, contrariamente a quanto i titoli sensazionalistici vorrebbero farci credere, la risonanza che tale studio ha avuto e continuerà ad avere non ha nulla a che vedere con questa unica e semplice smentita, il “gene gay” non esiste, bensì vi sono altri risultati e altre caratteristiche di questa indagine che potrebbero (e forse dovrebbero) cambiare il modo in cui viene approcciato lo studio della sessualità umana.

L’analisi condotta da Ganna e colleghi (2019) ha preso in esame un campione vastissimo, analizzando i profili genetici degli individui afferenti a cinque diversi database: in primo luogo The UK Biobank (circa 500.000 individui, dati raccolti tra il 2006-2010), la 23andMe Inc. che raccoglie ad oggi i dati di oltre 4milioni di persone, il National Longitudinal Study of Adolescent to Adult Health (AddHealth) da cui sono stati estrapolati i profili di 4755 adolescenti americani (anni 1994-1995), il Molecular Genetic Study of Sexual Orientation (MGSOSO) che ha analizzato il genoma di 1077 uomini omosessuali e 1231 eterosessuali ed infine 8109 profili derivanti dal Child and Adolescent Twin Study in Sweden (CATSS), studio longitudinale ancora in corso sui gemelli nati dopo il 1991. L’accesso ad un campione così vasto ha permesso agli scienziati di trovare delle correlazioni tra le diverse varianti genetiche (o SNPs, Single Nucleotide Polymorphisms) statisticamente robuste, al contrario degli studi precedenti che, avvalendosi di campioni più ridotti e analizzando un numero inferiore di markers genetici, non potevano eguagliare tale livello di confidenza statistica.

Una prima e importante specifica che ha guidato la ricerca è stata quella di dividere il campione analizzato, distinguendo tra quegli individui che non avessero mai sperimentato comportamenti sessuali verso lo stesso sesso (eterosessuali), da quegli individui che fossero stati, almeno una volta, coinvolti in comportamenti sessuali verso il proprio genere, prescindendo quindi dalla definizione del proprio orientamento sessuale. In altre parole, si è partiti dall’assunto che il comportamento sessuale e l’orientamento sessuale non siano necessariamente congruenti, permettendo di includere una gamma più vasta delle identità sessuali presenti: non solo omosessuali quindi, ma anche bisessuali, pansessuali, demisessuali, etc. Per isolare con certezza comportamenti che fossero definibili omosessuali, è stato necessario includere nello studio solo quegli individui la cui identità di genere e sesso di appartenenza fossero congruenti, escludendo quindi individui transessuali, intersessuali, queer che non ricadessero in questa divisione dicotomica.

In primo luogo, si sono potute replicare e confermare le stime precedentemente ottenute da studi minori effettuati sui gemelli (es. Långström et al., 2010) nel determinare l’ereditabilità del comportamento sessuale, secondo cui individui più vicini geneticamente abbiano più probabilità di essere concordanti in termini di comportamento sessuale. In tal senso si è confermato che circa il 32,4% della varianza di tale tratto sia da attribuirsi a fattori genetici.

Per determinare quali varianti genetiche specifiche, o SNPs, fossero associate all’esibizione di un comportamento sessuale verso lo stesso sesso, gli autori si sono serviti di studi di associazione GWAS sul vastissimo campione a loro disposizione. Sono stati rilevati cinque marcatori genetici comuni (ovvero presenti in almeno l’1% della popolazione) associati ad un comportamento omosessuale, due dei quali comuni ai due sessi, uno riscontrato esclusivamente nei soggetti femminili e due esclusivamente maschili. È stato inoltre possibile avanzare delle ipotesi su quali possano essere i correlati biologici risultanti dall’espressione di tali geni: ad esempio, lo SNPs denominato rs34730029 contiene un gran numero di geni responsabili dei recettori olfattivi nel maschio, determinando una sensibilità a certi tipi di odori; un secondo, conosciuto come rs28371400, è invece coinvolto nella regolazione degli ormoni sessuali, la sua presenza è infatti altamente correlata con l’incedere della calvizie negli uomini (nella quale è implicata la sensibilità agli ormoni sessuali). Oltre a questi cinque SNPs rilevanti, ne sono stati riscontrati altri migliaia coinvolti, ma che non raggiungevano la rilevanza statistica necessaria.

Una prima conclusione inequivocabile alla quale i ricercatori sono giunti tramite questa analisi è che la sessualità umana sia estremamente complessa, irriducibile quindi all’influenza di uno o pochi geni. Basti pensare che la somma di tutte le varianti genetiche riscontrate può rendere conto di una percentuale limitata del comportamento verso lo stesso sesso (8-25%), lasciando la rimanente parte a influenze ambientali (storia di vita, influenze familiari, sociali, etc) e, di questa percentuale, le cinque varianti più statisticamente rilevanti costituiscono appena l’1%.

Sono state riscontrate delle correlazioni rilevanti anche con altri tratti comportamentali e legati alla salute mentale, per le quali gli autori avanzano delle caute ipotesi, rimandando a studi futuri il compito di gettare luce sulla natura e sulla direzionalità di tali legami. Ad esempio, il comportamento omosessuale risulta statisticamente correlato con tratti di personalità tendenti alla solitudine e all’apertura verso le nuove esperienze (openness to experience), così come alla propensione per alcuni comportamenti a rischio (tabagismo o uso di cannabis) e la co-occorrenza di psicopatologie quali la depressione o la schizofrenia. La difficoltà nello stabilire il nesso causale è dovuto all’impatto delle variabili sociali e culturali che, come suggerito dagli autori, potrebbero manifestarsi sottoforma di pregiudizi o condotte discriminatorie, che spiegherebbero il disagio psicologico esperito dall’individuo che ha comportamenti sessuali verso il proprio sesso.

Da ultimo, gli autori hanno cercato di superare il dualismo imposto dalla ricerca, ovvero il carattere binario del comportamento sessuale distinto in eterosessuale o non-eterosessuale, analizzando nello specifico la quantità di partner relativi all’uno o all’altro sesso. È stato riscontrato come le varianti genetiche sottese alla probabilità di avere rapporti sessuali con persone dello stesso sesso siano differenti dalle varianti genetiche che rivelano un’influenza sulla preferenza sessuale (ovvero ricercare partner prevalentemente dell’altro sesso vs. partner prevalentemente dello stesso sesso). In altre parole, sarebbe una semplificazione non corroborata dai dati scientifici continuare a pensare la sessualità come uno spettro (come siamo abituati a fare dalla prima formulazione avvenuta in tal senso ad opera di Kinsey nel lontano 1948) e dare per scontato che ad una maggior attrazione verso lo stesso sesso corrisponda una minore attrazione verso gli individui di sesso opposto e vice versa.

Nel complesso, lo studio di Ganna e colleghi (2019) ha certamente ampliato le nostre conoscenze riguardo alla sessualità umana, ma nel fare ciò si è distinto magistralmente nella maniera in cui tale costrutto è stato indagato, da ultimo mettendo in crisi alcuni assunti dati per scontati per oltre 70 anni.

Assolutamente degna di menzione è stata inoltre la scelta dei ricercatori di coinvolgere associazioni e difensori dei diritti della comunità LGBTQAI nel processo divulgativo, cercando di veicolare i propri risultati nella maniera meno fraintendibile e ideologicamente traviabile possibile e creando inoltre una piattaforma online dedicata alla presentazione dello studio al vasto pubblico, in termini comprensibili a chi non abbia il background di conoscenze necessarie alla comprensione delle conclusioni raggiunte. Nel procedere in questo senso gli autori hanno dimostrato una spiccata sensibilità non soltanto verso la scienza come materia di indagine, bensì verso la comunità LGBTQAI nel suo intero, mostrando attenzione verso questioni che, dividendo l’opinione pubblica, hanno ripercussioni rilevanti nella vita degli individui che si trovano a veder negati diritti o la propria libertà personale a causa delle discriminazioni subite in contesti sociali così come istituzionali.

 

La dipendenza da videogames: in che modo i videogiochi ci attraggono e soddisfano i nostri bisogni

Dipendenza da videogiochi: in questo articolo descriveremo alcune tecniche di marketing dell’industria videoludica, analizzandone i meccanismi psicologici sottostanti. Le compagnie sono sempre più abili nel costruire giochi che soddisfino i bisogni dei propri giocatori. Quali sono questi bisogni? Quali i rischi e le trappole da evitare? 

 

Aggiornamenti, Microtransazioni, Engagement e Obiettivi Prossimali

L’età media di un videogiocatore è 31 anni (2018 ESA annual report, figura 1), i videogiochi che una volta erano creati in modo da rispondere ad interessi e bisogni di un pubblico indifferenziato (prevalentemente adolescenziale) oggi vengono diversificati in base agli interessi e alle caratteristiche specifiche del proprio pubblico. Inoltre essendo prevalentemente online, c’è la possibilità di continuare ad aggiornarne i contenuti e modificare il gioco in base alle richieste degli utenti stessi, ascoltandone il feedback e studiandone i dati. Questo avviene per motivi diversi: la soddisfazione degli utenti derivata dal sentirsi ascoltati; la vendita di prodotti mirati nello store online del videogioco; la creazione di una player-base solida e fedele, talvolta dipendente dal gioco o dalla compagnia. Questo continuo aggiornamento e fidelizzazione ha permesso ad alcuni giochi di durare oltre 10 anni (World of Warcraft è stato creato nel 2004 e League of Legends nel 2009, entrambi sono tuttora ampiamente giocati).

Videogiochi: come ci attraggono e in che modo soddisfano i nostri bisogni - imm 1

 

Figura 1. Età dei videogiocatori 2014 – ESA annual report 

Un tempo la pubblicizzazione del videogioco avveniva solo all’uscita, in quanto l’unico profitto consisteva nella vendita del gioco. Unica eccezione facevano le arcade machine, i cabinati a gettoni delle sale giochi, in cui l’acquisto non era una tantum ma continuativo.

La situazione attuale è molto cambiata. Il mercato è dominato da aziende che producono giochi gratuiti, ma con “in-game transaction” ossia pagamenti all’interno del gioco, spesso sotto forma di microtransazioni (piccoli pagamenti effettuati con un’elevata frequenza). Queste microtransazioni vengono percepite come meno rilevanti; ma se venissero presentate all’utente tutte insieme si concretizzerebbero in una somma ingente ben superiore al prezzo di acquisto di un normale videogame. Spesso gli acquisti sono fatti in momenti emotivamente caldi (Smith, 2014), sia come rifugio da emozioni spiacevoli (noia, tristezza, rabbia) sia sull’onda di euforia: ci lasciamo quindi trascinare dalle emozioni del momento (Artz, Kitcheos, 2016; Caetano, 2017).

L’acquisto di un videogioco oggi è sempre possibile. Nel passato i negozi avevano degli orari e dei luoghi ben precisi e il gioco aveva delle caratteristiche fisiche di dimensioni e peso; queste caratteristiche rendevano impossibile l’acquisto in qualunque momento. Oggi le caratteristiche di internet e dei videogiochi online li rendono facilmente acquistabili senza limiti temporali (Soodan & Pandey 2016). Alcune ricerche inoltre mostrano come questa grande accessibilità sia un elemento molto attrattivo soprattutto per gli individui più impulsivi (Aylott & Mitchell, 1998; Mihic & Kursan, 2010).

L’engagement è facilitato: molto spesso il gioco è gratuito e questo consente di bypassare la fase di iniziale indecisione preacquisto. Anche la possibilità di giocare su diversi devices permette di raggiungere un pubblico molto più vasto. Un altro aspetto interessante legato alla modalità di engagement è che i giochi nelle loro fasi iniziali sono diventati molto più facili rispetto ad una decina di anni fa. La causa potrebbe essere dovuta ad un processo che in psicologia si chiama errorless learning, ossia apprendimento senza errori: il giocatore si è appena avvicinato ad un gioco che non ha acquistato, la sua motivazione intrinseca a giocarlo è bassa, quindi è probabile che alla prima frustrazione lo possa abbandonare; i giochi tendono però ad essere sempre più guidati soprattutto nelle prime fasi, proponendo una serie di obiettivi prossimali crescenti che favoriscono una sensazione di autoefficacia: ossia numerosi obiettivi, facilmente raggiungibili, ma che occupino progressivamente più tempo possibile e siano distribuiti omogeneamente nella giornata del giocatore. Questo porta a creare una routine e una sensazione di engagement nel giocatore (Heather & Elaine, 2008; Zamara & Chiapasco, 2017): ossia un senso di produttività, di fare qualcosa di costruttivo che contrasta le sensazioni emotivamente spiacevoli che possono aver portato al desiderio di giocare (Jones et al., 2014). Un ragazzo che studia per un esame e poi lo fallisce potrebbe pensare che tutto il tempo impiegato a studiare sia stato inutile, non ha infatti una ricompensa immediata e tangibile per il lavoro che ha svolto e questo può essere frustrante e porta spesso ad un conseguente calo della motivazione allo studio. Il gioco, garantendo lo stato di engagement sopra descritto potrebbe rappresentare un tentativo di sfuggire al senso di poca efficacia e di mancanza di motivazione.

Il senso di engagement viene soddisfatto soprattutto, ma non solo, dai giochi per smartphone, che per la loro accessibilità e semplicità ben si prestano a riempire i buchi della giornata.

L’industria videoludica degli smartphone è in continua crescita (Naramura, 2019; vedi figura 2), soprattutto in Asia ed è basata sull’uso massiccio delle microtransazioni. Le applicazioni che generano maggiore fatturato sembrano essere proprio quelle gratuite con microtransazioni e non quelle a pagamento.

 

Videogiochi: come ci attraggono e in che modo soddisfano i nostri bisogni - imm 2

Figura 2. Ricavato dell’industria videoludica, crescita del settore mobile, morte dell’arcade (Naramura, 2019)

Come abbiamo già accennato le aziende fanno targeted marketing: utilizzano tutti i dati che hanno a disposizione riguardo ai propri giocatori per disegnare dei prodotti più attraenti per quel tipo di pubblico.

Dalle ricerche di mercato è evidente che esistano tipologie diverse di videogiocatori, questo forse è il riflesso di diversi bisogni individuali insiti nella persona, ma che talvolta vengono rafforzati e mantenuti attraverso il gioco stesso, che non li appaga se non temporaneamente.

Bisogni Individuali

I bisogni individuali legati ai videogames sono stati recentemente studiati da Przybylski et al. (2010) che hanno realizzato un modello motivazionale, basato sulla teoria dell’autodeterminazione di Deci e Ryan (2000). La teoria di Przybylski concerne il potenziale di contesti sociali (tra cui il gaming) di produrre esperienze che soddisfino bisogni psicologici universali. In particolare, pare che se vengono soddisfatti i tre bisogni universali di competenza, autonomia e relazione, i giocatori percepiscono maggiore divertimento e saranno più portati a giocare in futuro (Ryan M.R., Rigby C.S., Przybylski A., 2006).

Ma non pensiamo che esistano solo questi tre bisogni o che corrispondano a tre categorie di giocatori, la realtà è molto più complessa e diversificata. Richard Bartle (1996), analizzando i tipi di giocatori ne identifica 4 categorie: killer, realizzatori, esploratori e socializzatori; ma fa anche un’affermazione interessante:

Ho pubblicato i miei risultati non perché volessi dire: ‘questi sono i quattro tipi di giocatori esistenti, ma piuttosto […] ‘le persone hanno ragioni differenti per giocare ai videogames’ […]. 

Bisogna oltretutto tenere presente il fatto che la ricerca di Bartle risale al 1996, quando il numero di giocatori era 20 volte inferiore e quindi ipoteticamente anche la varietà nelle tipologie di giochi e giocatori.

Analizzeremo ora i tre macro-bisogni di competenza, autonomia e relazione, vedendo quali sono le tipologie di gioco che li vanno a soddisfare e le tipologie di videogiocatore. È però importante evitare di pensare a questi bisogni come a compartimenti stagni: spesso i bisogni si intrecciano e tutti i giochi di successo tendono a soddisfarne il maggior numero possibile, in maniera diversa.

  • 1- Autonomia

Il bisogno di sentirsi artefici del proprio destino, di avere un certo grado di controllo sulle scelte della propria vita. Alcuni videogiochi puntano particolarmente a dare la sensazione di essere artefici del proprio destino, di avere scelte con un impatto su di sé e sugli altri e di poter scegliere cosa fare e dove andare; fornendo così spesso una fuga dalla realtà e dalle sue regole. Vi sono due aspetti minori che seppur non sempre presenti sono legati al bisogno di autonomia: il desiderio di esplorazione e il desiderio di completezza. L’esplorazione entra in gioco nello scoprire un videogioco, un mondo nuovo, una storia, un’avventura mentre è il desiderio di completezza che ci spinge a vivere tutta l’avventura per concludere il videogioco. Alcuni titoli che maggiormente sembrano puntare a soddisfare il bisogno di autonomia sono Minecraft e altri giochi open world come Sea of Thieves, Grand Theft Auto, Life is Strange e World of Warcraft, perché hanno aspetti di autonomia nelle scelte e negli obiettivi, esplorazione, customizzazione del personaggio. Questi videogiochi spesso puntano anche ad altri bisogni come quello di appartenenza perché aspetti come l’esplorazione e la customizzazione tendono ad esaurirsi col tempo: una volta conclusa la storia, o esplorato il mondo o scoperte tutte le combinazioni del gioco il giocatore tende a stancarsi e ad abbandonarlo per passare ad un altro gioco.

  • 2- Competenza

Caratteristico soprattutto dei giochi di guerra, di corsa e di lotta, generalmente con modalità PvP (Player versus Player), ma in maniera minore il senso di competenza è presente in tutti i giochi e consiste in quella sensazione di progresso e di miglioramento. Vi sono poi giochi con una curva di apprendimento graduale e continua che permettono ai giocatori di migliorarsi sempre anche dopo anni di gioco. Si parla principalmente di giochi strategici o giochi di squadra come League of Legends, Hearthstone o Fifa, o anche giochi d’azione come Call of Duty, Dark Souls o Fortnite. La fascia di età di questi giochi incentrati sull’aspetto competitivo PvP va dal ragazzo al giovane adulto. Ancora una volta se un gioco soddisfa solo questo bisogno è probabile che il giocatore si stanchi nel lungo termine o che vi dedichi sempre meno tempo a mano a mano che sente di aver raggiunto un buon livello di competenza. Spesso però questi giochi puntano anche sul soddisfare il bisogno di appartenenza, vedremo successivamente come questo possa avvenire. Se ben delimitato nei tempi e usato in modo equilibrato rispetto alle altre attività, questo tipo di gioco può avere un effetto positivo per scaricare la tensione della giornata, per sviluppare competenze strategiche e gioco di squadra, parimenti ad uno sport (Adachi & Willoughby, 2015; Eichenbaum et al., 2014; Chiappe et al., 2013) oltre che potenziare le abilità attentive e visuospaziali (Pallavicini et al. 2018; Anderson et al., 2010; Jones et al., 2014).

  • 3- Relazione/Appartenenza

Il bisogno di creare e mantenere relazioni interpersonali è intrinseco all’uomo e permane per tutta la durata della vita sebbene sia in età adolescenziale che viene percepito con più forza. Questa è l’età in cui il ragazzo sta iniziando a definire la propria identità e i giochi che rispondono a questo bisogno sono probabilmente i più pericolosi (Smyth, 2007) perché in questa fase si apprendono le competenze comunicative e sociali (Jerome et al., 2015). Le aziende appagano e mantengono questo bisogno attraverso forum, eventi come tornei o fiere, oppure all’interno del gioco tramite obiettivi che si possano completare soltanto con l’aiuto di altri giocatori: come Manfred Spitzer afferma in ‘Demenza Digitale’ (Rehbein, 2010; Spitzer, 2013):

missioni di gioco complesse che possono essere compiute solo all’interno di una comunità di gioco affiatata e funzionale, che favorisce un forte senso di responsabilità verso il tessuto sociale, in modo che la presenza nell’ambito di gioco non possa essere ridotta senza forti resistenze interne (senso di responsabilità nei confronti degli altri giocatori, rimorsi) o esterne (i giocatori minacciano l’esclusione dalla comunità o l’interruzione del contatto).

Sempre più comune è l’utente che gioca quasi esclusivamente ad un solo videogame, da anni, avendo costruito ormai un’identità parallela, investito soldi e tempo e formato così una fortissima motivazione intrinseca a continuare, anche legata alla possibile perdita delle amicizie fatte all’interno del gioco. Si parla soprattutto di MMO ossia giochi multiplayer online con un’enorme community, come World of Warcraft o Clash of Clans. Avere una community numerosa può provocare effetti come la cosiddetta cyberbalcanizzazione: la segregazione della popolazione di internet in gruppi con interessi simili, che portano ad avere una mentalità chiusa e ristretta rispetto a chi la pensa diversamente dal gruppo (University of Minnesota, 2016). Perché accontentarsi di avere amici reali con interessi diversificati quando puoi avere amici virtuali con interessi molto simili ai tuoi? Questo atteggiamento potrebbe portare ad un impoverimento di stimoli, maggiore chiusura, incapacità di accettare le critiche ed ascoltare gli altri.

Per capire meglio come si generi il senso di appartenenza in un videogioco prenderemo ad esempio una particolare categoria di MMO: gli MMORPG ossia giochi di ruolo online con una playerbase molto vasta. Chi gioca a questi giochi si identifica nel personaggio, apprende una quantità incredibilmente vasta di informazioni necessarie alla progressione, che vengono spesso trasmesse di giocatore in giocatore creando legami e fidelizzazione (giocatori più esperti che indottrinano quelli meno esperti). Questo nel tempo crea una vera e propria rete sociale interna al gioco e spesso in parallelo si sviluppa un forte senso di community più genericamente esteso a tutti i giocatori, non solo quelli conosciuti. Questo avviene per via della condivisione di esperienze comuni (obiettivi del gioco, livelli, zone, meccaniche e altro).

Non a caso recentemente è diventato incredibilmente popolare il guardare terzi giocare ad un gioco, attraverso piattaforme quali YouTube e Twitch (sito di streaming online) che permettono di osservare qualcuno che gioca, a volte anche mentre si sta giocando al gioco stesso, per vedere e condividere indirettamente le reazioni e le emozioni di persone che stanno vivendo la nostra stessa esperienza. La sensazione di non essere soli a perseguire gli obiettivi dettati dal gioco, ma di avere dei pari con cui si condividono emozioni, obiettivi, valori, modelli (pro-players), inside-jokes (battute comprensibili ai soli membri del gruppo) e abitudini, è una forma di appagamento del bisogno di appartenenza. Le aziende produttrici sanno molto bene che i giochi più longevi e remunerativi sono quelli con una community coesa e vasta che si rafforza col tempo e la condivisione di contenuti.

Conclusioni

Il fatto che l’industria videoludica generi molti profitti implica che le aziende investano molti soldi per creare giochi sempre più accattivanti e interessanti. Per coinvolgere e attrarre il maggior numero di giocatori possibili, gli sviluppatori affineranno sempre di più le capacità dei giochi di soddisfare i nostri bisogni in modo facile e veloce. Il rischio è che quanto più i giochi saranno efficaci nel generare questo senso di temporaneo appagamento tanto meno le persone coinvolte saranno motivate a soddisfare quei bisogni attraverso altre modalità. Il gioco potrebbe quindi agire indirettamente sugli individui limitandone gli interessi e le possibilità di soddisfare quei bisogni attraverso altre modalità come il lavoro o gli sport o la musica (Pryzbylski et al., 2010; Weinstein & Przybylski, 2017).

Questa situazione potrebbe portare ad un impoverimento delle opportunità sociali e relazionali dell’individuo e successivamente ad una forma di chiusura e distacco dalla realtà esterna con un meccanismo che agisce in modo molto lento in cui i giocatori che cadono in queste trappole ci scivolano dentro lentamente, per abituazione, senza rendersene conto, seguendo obiettivi prossimali sempre più richiedenti in termini di tempo e apparentemente sempre più efficaci a sfuggire da situazioni spiacevoli della vita.

Non è nostra intenzione e sarebbe ovviamente scorretto generalizzare o ipotizzare delle relazioni dirette. Per quanto riguarda le skills sociali, ad esempio, non sono state rilevate differenze tra giocatori MMORPG e gruppo di controllo (Sergeyeva et al. 2018; Scott & Armstrong, 2013).

Se ben delimitato nei tempi e usato in modo equilibrato rispetto alle altre attività, infatti, il gioco online può avere un effetto positivo per scaricare la tensione della giornata, per sviluppare competenze strategiche e gioco di squadra, parimenti ad uno sport (Adachi & Willoughby, 2015; Eichenbaum et al., 2014; Chiappe et al., 2013) oltre che per potenziare le abilità attentive e visuospaziali (Pallavicini et al. 2018; Anderson et al., 2010; Jones et al., 2014).

L’obiettivo di questo articolo è sottolineare l’importanza della consapevolezza delle reali ragioni che ci portano a passare del tempo su un videogioco.

Riteniamo infatti che considerare un uso problematico o una dipendenza basandosi unicamente sul fattore “tempo dedicato” sia limitativo rispetto ad una realtà molto più complessa che richiede una valutazione molto più approfondita. Allo stesso tempo sottolineiamo come i tre bisogni considerati in questo articolo siano solo un esempio delle possibili motivazioni che ci spingono a giocare.

La fuga da emozioni spiacevoli come la noia la tristezza o la rabbia sembra esser un altro importante fattore (Virvilaite et al., 2009) che merita un ulteriore e dedicato approfondimento.

Cosa sto cercando veramente in questo gioco? Mi sta proteggendo da qualcosa o gratifica qualche mio bisogno? Nella mia vita in quali altri modi cerco la soddisfazione di questo mio bisogno? La ricerca di appagamento attraverso il videogioco sta in qualche modo condizionando la mia vita lavorativa, scolastica, familiare o sociale?

Queste sono alcune delle domande più importanti che ci possono dare una indicazione su quanto l’uso che stiamo facendo dei videogiochi potrebbe trasformarsi o si è già trasformato in problematico. In questo caso rivolgersi ad un esperto può essere utile per ristabilire il giusto equilibrio tra gioco online e benessere personale e relazionale.

Disturbo da Stress Post Traumatico: introduzione alla teoria psicotraumatologica e utilizzo del Training Autogeno nella Psicoterapia Bionomica Autogena

Il Disturbo da Stress Post Traumatico è una patologia mentale che per la letteratura più tradizionale insorge in situazioni di esposizione a gravi stress, traumi ed eventi non usuali, quali catastrofi naturali, rapine, violenza fisica e sessuale. Il Disturbo da Stress Post Traumatico non corrisponde alla normale fase di adattamento fisiologico che ogni persona sperimenta dopo uno shock, ma a un disagio molto intenso e protratto che deve essere affrontato in modo specifico.

 

Forse tutto l’orrore non è altro che l’inerme, che ci chiede aiuto
(Rilke – Lettere a un giovane poeta)

 

DPTS E DSM 5. Le novità

Il Disturbo da Stress Post Traumatico è una patologia mentale che per la letteratura più tradizionale insorge in situazioni di esposizione a gravi stress, traumi ed eventi non usuali, quali catastrofi naturali, rapine, violenza fisica e sessuale. In questo articolo ci proponiamo, attraverso una revisione della letteratura esistente, di valutare il DPTS nella vita quotidiana e di suggerire dei criteri che permettano di individuare, tra gli episodi di ogni giorno, quelli che possono in qualche modo generare delle reazioni che possono essere ricondotte all’evento traumatico in quanto tale. Allo stesso tempo, verranno citati alcuni articoli che sono stati importanti circa l’utilizzo del Training Autogeno, come tecnica psicoterapica del profondo, nonché metodo di rilassamento.

Lo stesso DSM 5 pare dedicare maggiore attenzione ai disturbi da stress correlati, dal momento che, al suo interno, ci sono state delle modifiche riguardanti questo argomento. In primis, nel DSM 5 il disturbo non è più incluso nei disturbi d’ansia, ma all’interno di una categoria autonoma, nuova, i Disturbi Correlati a Eventi Traumatici o Stressanti.

Il criterio di stressor (Criterio A) è più esplicito per quanto riguarda come un individuo ha vissuto gli eventi “traumatici”. Inoltre, il Criterio A2 (reazione soggettiva) è stato eliminato. Mentre nel DSM-IV c’erano tre principali gruppi di sintomi (risperimentazione, evitamento/attenuazione dell’attività generale e aumento dell’arousal), nel DSM-5 ci sono quattro gruppi di sintomi, perché l’evitamento/attenuazione dell’attività generale è stato suddiviso in due gruppi distinti: evitamento e alterazioni negative persistenti nella cognizione e nell’umore. Quest’ultima categoria, che conserva la maggior parte dei sintomi di attenuazione del DSM-IV, include anche nuovi sintomi oppure la riconcettualizzazione di quelli vecchi, come nel caso degli stati emotivi negativi persistenti. Infine, le alterazioni nell’arousal e della reattività conservano la maggior parte dei sintomi elencati nel DSM-IV. La nuova diagnosi comprende inoltre un comportamento irritabile o aggressivo e un comportamento imprudente o autodistruttivo. Il Disturbo da Stress Post-Traumatico è ora sensibile al fattore evolutivo, in quanto le soglie diagnostiche sono state abbassate per i bambini e gli adolescenti. Sono stati anche aggiunti criteri distinti per bambini dai 6 anni o più giovani. Le più recenti ricerche in ambito psico-traumatologico fanno riferimento al concetto di stress post traumatico complesso e a tutto ciò che concerne il dopo trauma.

I principali criteri diagnostici secondo il DSM 5 sono i seguenti (si applicano ad adulti, adolescenti e bambini di età superiore ai 6 anni):

A. Esposizione a morte o minaccia, lesioni gravi o di violenza sessuale in uno (o più) dei seguenti modi:

  • Vivendo direttamente l’evento traumatico
  • Ascoltare di persona la testimonianza dell’evento da parte di altri
  • Apprendere che l’evento traumatico si è verificato a un parente stretto o un amico. In caso di morte o minaccia di un familiare o un amico, l’evento deve essere stata violento o accidentale
  • Vivere ripetute o estreme esposizioni a particolari spiacevoli dell’evento traumatico (es. i primi soccorritori raccolgono resti umani; gli agenti di polizia ripetutamente esposti a dettagli di abusi sui minori)

B. Presenza di uno (o più) dei seguenti sintomi associati all’intrusione dell’evento traumatico, con esordio successivo al verificarsi dell’evento traumatico:

  • Ricordi angoscianti ricorrenti, involontari ed intrusivi dell’evento traumatico
  • Sogni spiacevoli ricorrenti in cui il contenuto è relativo all’evento traumatico
  • Reazioni dissociative (es. flashback), in cui l’individuo si sente o si comporta come se l’evento traumatico sta verificandosi
  • Disagio psicologico intenso o prolungato all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o somigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico
  • Marcate reazioni fisiologiche a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o somigliano ad un aspetto dell’evento traumatico

C. Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico, con esordio successivo al verificarsi dell’evento traumatico, come evidenziato da uno o entrambi i seguenti:

  • Evitamento o sforzi per evitare ricordi angoscianti, pensieri o sentimenti strettamente associati all’evento traumatico
  • Evitare o sforzi per evitare stimoli esterni (persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti, situazioni) che suscitano ricordi angoscianti, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico

D. Negative alterazioni di cognizioni e umore associati all’evento traumatico, con esordio o peggioramento successivo al verificarsi dell’evento traumatico, come evidenziato da due (o più) dei seguenti elementi:

  • Incapacità di ricordare un aspetto importante dell’evento traumatico (in genere a causa di amnesia dissociativa e non ad altri fattori, come trauma cranico, alcol o droghe)
  • Credenze negative persistenti ed esagerate o aspettative su se stessi, gli altri o il mondo (es. “Io sono cattivo”, “Nessuno può essere attendibile”, “Il mondo è assolutamente pericoloso”, “Il mio sistema nervoso è permanentemente deteriorato”)
  • Cognizioni distorte persistenti circa la causa o le conseguenze dell’evento traumatico che portano l’individuo ad incolpare se stesso o agli altri.
  • Persistente stato emotivo negativo (paura, orrore, rabbia, senso di colpa o vergogna)
  • Marcata diminuzione di interesse o partecipazione ad attività significative
  • Sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri
  • Persistente incapacità di provare emozioni positive (incapacità di provare la felicità, soddisfazione o sentimenti di amore)

E. Marcate alterazioni dell’arousal e reattività associati all’evento traumatico, con esordio o peggioramento successivo al verificarsi dell’evento traumatico, come evidenziato da due (o più) dei seguenti elementi:

  • Comportamento irritabile e scoppi d’ira (con poca o nessuna provocazione) tipicamente espressi come aggressione verbale o fisica verso le persone o gli oggetti
  • Comportamento sconsiderato o autodistruttivi
  • Ipervigilanza
  • Esagerate risposte di allarme
  • Problemi di concentrazione
  • Disturbi del sonno (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno o sonno agitato)

Il Disturbo da Stress Post Traumatico non corrisponde alla normale fase di adattamento fisiologico che ogni persona sperimenta dopo uno shock, ma a un disagio molto intenso e protratto che deve essere affrontato in modo specifico. Per ottenere una remissione completa dal disturbo post-traumatico da stress servono in media 6-8 mesi, ma in genere i pazienti iniziano a stare meglio già dopo le prime 4-6 settimane di terapia.

Fattori che influenzano lo svilupparsi del sintomo.

I nostri centri per la Salute Mentale vengono sempre maggiormente contattati da pazienti che a causa di situazioni traumatizzanti, non comunemente definite come tali, iniziano a sviluppare dei sintomi psichici. Arrivano in visita vissuti traumatizzanti di malattie dei compagni, di figli e genitori, lutti e vissuti traumatici legati al posto di lavoro, raccontati da chi sta subendo mobbing, o vissuti relativi alla perdita del lavoro stesso. Così, recentemente, hanno iniziato a comparire una serie di diagnosi di DPTS in cui l’evento traumatizzante ha perso qualsiasi connotato di eccezionalità, come richiesto nella precedente versione del DSM. È giusto, ad esempio, giudicare traumatica la morte di una madre novantenne da tempo affetta da una neoplasia incurabile? Con i criteri DSM alla mano, riteniamo che chiunque proponesse una diagnosi di DPTS per il figlio sintomatico non potrebbe essere biasimato. Alla luce di queste ricerche, alcune sindromi genericamente indicate come disturbi d’ansia generalizzata o dell’umore andrebbero ripensate come epifenomeni di un Disturbo da Stress Post-Traumatico primario.

Alcuni tendono effettivamente a sviluppare un disturbo vero e proprio, altri no. Cos’è che differenzia gli uni dagli altri e cos’è che fa sì che alcuni sviluppino dei sintomi? Oltre alle variabili genetiche, presenti per ogni patologia, soprattutto psichica, esistono variabili bio-psico-sociali e storico-culturali che agiscono come mezzi sulla dinamica della formazione di un sintomo a prescindere dai precisi meccanismi derivanti dalle esperienze psicologiche.

Da prima della nostra nascita siamo sottoposti a continui stimoli ai quali reagiamo in base alle nostre caratteristiche per mantenere il miglior adattamento alle situazioni e richieste ambientali, abituandoci inconsapevolmente a modalità di reazione in auto tensione. Tra i fattori di rischio che creano una vulnerabilità pre-trauma, ci sono fattori di rischio genetici e biologici, fattori relativi alla vita dell’individuo, all’ambiente in cui è cresciuto, alla salute mentale e alla personalità. I fattori biologici includono la familiarità dei disturbi mentali. Infatti, alcuni tratti della personalità, come, per esempio, nevroticismo, introversione e precedenti disturbi, sembrano influenzare la predisposizione allo sviluppare dei sintomi. In chi sviluppa un DPTS l’immagine della memoria rimane “congelata”  e “intrappolata” nelle reti del cervello in modo disfunzionale. Scopo delle terapie è combattere il sintomo (ad esempio con i più tradizionali Antidepressivi ad azione serotoninergica), ma il vero obiettivo si raggiunge quando si riesce a toccare, far riaffiorare ed elaborare il vissuto traumatico, fino a renderlo “innocuo”. Alcune psicoterapie vanno a modificare indirettamente tali variabili interiori, così da avere una struttura di personalità in un certo senso più forte, o meglio, con meccanismi difensivi dell’Io più maturi, tali da consentire, talvolta, un migliore adattamento alla circostanza traumatizzante.

Che cosa è il Training Autogeno (T.A.). Qualche cenno sul Training Autogeno di J. H. Schultz, all’interno della Psicoterapia Autogena.

Il Training Autogeno è una tecnica psicoterapica della Terapia Bionomica Autogena. Prima d’iniziare un esercizio occorre mettersi comodi, seduti o sdraiati, in una delle tre particolari posizioni consigliate dall’Autore. Durante la seduta si deve essere spettatori di ciò che accade dentro, senza razionalizzare e sforzarsi di sentire le sensazioni indotte. Per entrare nello stato di “attenzione passiva”, il Training Autogeno si serve di formule che indicano al subconscio le condizioni da raggiungere.

La tecnica si compone di due esercizi fondamentali (pesantezza e calore) e quattro esercizi complementari (respiro, battito cardiaco, plesso solare e fresco alla fronte). La pesantezza si ottiene portando l’attenzione alle diverse parti del corpo, inducendola con semplici formule che si riassumono in: “Il corpo è pesante”. Dopo la pesantezza si passa al calore, che corrisponde ad una vasodilatazione. Schultz ritiene che il T.A. possa essere utilizzato con vantaggio per favorire già nello stesso bambino la capacità di far fronte alla tensione. Egli afferma: “E allora, perchè non pensare di realizzare una educazione della tensione? Noi riteniamo che ciò possa essere perfettamente realizzabile non soltanto esteriormente, ma anche interiormente”.

Va detto che la tecnica proposta dall’autore non è una tecnica di auto rilassamento, così come viene descritto il T.A. nella maggior parte di testi, siti web e pratiche psicoterapiche non di tipo bionomico autogene. Il rilassamento ottenuto durante gli esercizi è fondamentale per iniziare il lavoro sull’inconscio e per far sì che processo prosegua nell’inconscio, anche se non se ne è consapevoli.

Caratteristica della filosofia schultziana è il “lasciar accadere”, intesa in un certo senso come indifferenza e passività per quanto riguarda il risultato (ad esempio, la Pesantezza del primo esercizio del T.A. Inferiore). Luthe parla di “accettazione passiva” nei confronti di tutto quanto accada durante l’esercizio. E’ dunque un’attività passiva e una passività attiva. Il parallelo più importante con la concentrazione passiva di Schultz è dato dal wei-wu-wei dello zen, che significa fare-senza-fare, concentrarsi e nel contempo lasciar-accadere.

Schultz asserisce che “l’allenamento sistematico agli esercizi porta di per sé [da solo] allo stato autogeno”, cioè a uno stato di commutazione organismica, caratterizzato da tipiche reazioni psichiche e somatiche. La “commutazione autogena” è lo specifico stato regressivo che il training autogeno intende instaurare. Una disattivazione globale, che investe l’intero organismo (deconnessione organismica), modifica il funzionamento sia fisiologico sia psicologico e segna il passaggio (commutazione) a un registro funzionale diverso rispetto a quello abituale, caratterizzato anzitutto da passività in luogo di attività. Ciò acquisisce notevole importanza se si considera la risposta del sistema neurovegetativo e polivagale che contempla la messa in attività di tre canali neurali differenti, a seconda del tipo di risposta: il nervo Vago Ventrale (che innerva la maggior parte degli organi sovradiafframatici ed è evolutivamente più recente), il Sistema Nervoso Simpatico, il Nervo Vagale Dorsale (che innerva gli organi sottodiaframmatici, evolutivamente più antico).

Il tratto più saliente di questa deconnessione organismica è il verificarsi dello stato di rilassamento e la modificazione di questo sistema polivagale, ma anche il verificarsi di fenomeni autogeni, cioè che “si generano da sé” e che vengono poi analizzati in seduta. Lo stato di deconnessione e di “passività” intervengono sull’attività e sull’attivazione sempre presenti durante un episodio di disturbo da stress acuto o post traumatico. Ciò diviene utilissimo se si considerano i risvolti sulla componente neurobiologica, neurovegetativa  e sull’assetto ormonale (ormoni dello stress, cortisolo, arousal). Nel corso della giornata il nostro stato di arousal si muove a tratti verso l’alto, tendendo allo stato di iperarousal, e a tratti verso il basso (ipoarousal) contestualmente a situazioni percepite più o meno attivanti o più o meno calmanti. Fluttuare all’interno di una finestra di tolleranza è totalmente normale fino al punto in cui, per varie ragioni, il tono di arousal non superi verso l’alto o verso il basso i confini della finestra di tolleranza. In quel momento inizia lo stato di disregolazione, percepito come un senso di essere fuori controllo (troppo agitati ansiosi, attivati) o al contrario troppo scarichi o apatici (nello stato di ipoarausal) e accompagnato da uno stato di malessere soggettivo da cui si tenta di fuoriuscire. Il T.A. pone equilibrio agendo sul sistema neurovegetativo e su questo sistema complesso.

L’esperienza del rilassamento è fondamentale per poter toccare questo aspetto principale e se vogliamo più superficiale, ma ha un risvolto ancora più importante: avere un corpo calmo è infatti fondamentale per poter accedere ai contenuti inconsci che sono alla base dell’individualità e dei meccanismi di difesa del nostro Io, che sono, a loro volta, alla base della formazione di eventuali sintomi. L’elaborazione di questi vissuti autogeni si sviluppa su un registro transferale (anche se Schultz non tiene in grande considerazione il transfert e preferisce lavorare alla realizzazione di un’alleanza) di una solidarietà fra paziente e terapeuta che egli chiama “noi terapeutico”. Wallnöfer e, soprattutto, Durand de Bousingen hanno fortemente rivalutato la portata del transfert nella psicoterapia autogena, ma l’impronta di Schultz rimane: l’inconscio viene esplorato più nella sua proiezione sullo scenario che nella sua proiezione sul terapeuta. Altra caratteristica fondamentale del T.A. è l’immagine come rappresentazione curativa, talvolta sostitutiva di un’altra, o fondativa di una basale mancante.

Gli obiettivi generali del training autogeno sono pertanto sia psicofisiologici sia psicologici che ancora psicospirituali e comprendono: il raggiungimento della concentrazione psichica passiva e dell’accettazione passiva, dello stato autogeno, dell’autoregolazione autogena degli affetti e delle funzioni neurovegetative, dell’espansione del campo di coscienza, l’accesso a un processo evolutivo epigenetico di trasformazione (analogo al cambiamento tipico dei rituali di iniziazione suddetti) e il processo di realizzazione del piano di vita del soggetto.

L’importanza dell’utilizzo di meccanismi difensivi maturi dell’Io è stato dimostrato in uno lavoro di Green e colleghi, i quali hanno valutato 24 vittime di incidenti ad un mese e a 18 mesi dal fatto. È risultato che, dopo un anno e mezzo, 16 persone presentavano una sintomatologia di DPTS: queste avevano manifestato un maggior disagio psichico dopo il trauma e si distinguevano per l’utilizzo di difese psicologiche meno mature. Da qui l’importanza di poter modificare alla base questo substrato per la risoluzione efficace del sintomo e per la prevenzione del disturbo nel futuro.

Più nello specifico sono stati condotti studi sul T.A. e la reazione allo stress, che mettono in evidenza sia le variazioni del sistema neurovegetativo (quindi sui sintomi da iperattivazione e iperarousal), sia le variazioni più profonde legate all’adattamento e alla resilienza. Gordon e colleghi hanno condotto uno studio che prova l’efficacia delle tecniche di rilassamento e del Training Autogeno, in particolare nella riduzione dei sintomi conseguenti i Disturbi Post Traumatici da Stress negli adolescenti. Studi effettuati nelle scuole dimostrano l’importanza dell’azione delle psicoterapie, in questo caso del T.A., nei ragazzi e l’importanza di agire sin dall’età più giovane per poter determinare un substrato solido capace di far fronte alle sfide, talvolta pesanti, che la vita ci propone. Uno studio (Sheridan C. L. et al.) sullo stress e il conseguimento del successo accademico negli studenti ha dimostrato variazioni significative in 3 misuratori dello stress. Anche Sakai nella sua disamina del ruolo del Training Autogeno nella scuola, conclude sottolineandone l’utilità nella gestione dello stress e dell’ansia che ne deriva e il possibile utilizzo come metodo di prevenzione. L’Autore ne auspica maggior diffusione all’interno del sistema scolastico.

Se si tiene conto che i ritmi pressanti della vita odierna fanno dello stress un nemico ormai sempre in agguato, per la salute fisica e psichica, e che tale nemico non risparmia i bambini e i giovani, si può apprezzare l’importanza della funzione preventiva offerta dal Training Autogeno. E’ un metodo proponibile a costi non elevati, che si presta alla realizzazione in gruppo, fin dai primi anni della scuola. Forse proprio in questo settore è auspicabile un impegno maggiore in termini di ricerca e di studio teorico.

Breve Caso Clinico – Carlo

I pazienti che arrivano in psicoterapia da storie traumatiche di sviluppo presentano quello che la Teoria dell’Attaccamento definisce uno stile insicuro di attaccamento. Sintetizziamo ciò come uno stile relazionale esistente tra bambino e genitore caratterizzato da una costante necessità di riconfermare e di ricostituire la sintonizzazione emotiva da parte del bambino verso l’adulto, oppure dall’assenza totale di ricerca della stessa da parte del bambino nei confronti del caregiver.

Carlo è un ragazzo di quindici anni che frequenta il primo anno del liceo socio-psico-pedagogico. Familiarità psichiatrica assente. A Carlo è stato diagnosticato un Disturbo Post-Traumatico da Stress, conseguenza di un abuso sessuale extrafamiliare all’età di quattro anni da parte di un individuo di genere maschile. Il ragazzo, che in precedenza non ha ricevuto trattamento di alcun tipo, è stato sottoposto ad una terapia individuale, con una frequenza di un incontro a settimana.

Da circa 6 mesi ha iniziato, oltre i comuni sintomi del DPTS, a manifestare nervosismo e scatti d’ira, un comportamento problematico a scuola e idee ossessive circa la possibilità che possa lui essere, a sua volta, un abusatore. Inoltre, avrebbe iniziato a scaricare immagini pedo-pornografiche. Tutta la parte affettiva del periodo in cui il paziente ha subito l’abuso è repressa.

Dopo circa 3 mesi inizia a fare il Training Autogeno: il vissuto di pesantezza è disturbante ed è riferito al peso dell’uomo sopra di lui. Le associazioni lo portano al senso di impotenza vissuto “senza fiatare”, che pone in correlazione alla paura per formazione reattiva di sviluppare una personalità abusatrice a sua volta. Inizia un lungo percorso che lo mette in contatto con la rabbia, emozione che viene esternata maggiormente durante la fase dell’esercizio del calore e che sino ad ora era stata repressa e che rischiava di sfociare in un disturbo del comportamento con tratti di antisocialità. Per lui questa modalità era l’unica per riprendere il controllo della situazione e divenire potente in una situazione in cui ciò era stato inibito.

Dopo circa un anno il paziente è consapevole delle sue emozioni e la paura ossessiva di divenire lui il carnefice acquisisce anch’essa un altro senso: capisce che non avrebbe mai voluto e potuto fare del male a dei bambini, ma anche che, tutte le volte che guardava quelle immagini scaricate, ricercava nei volti di quei bambini un’emozione, cercava di capire se al bambino piacesse o meno, così come cercava di capire se a se stesso bambino fosse mai piaciuta quella violenza proposta come un gioco innocente, quasi accusando se stesso per non essersi saputo sottrarre e interrogandosi sulla sua colpevolezza. Da allora la sintomatologia ossessiva e la necessità di guardare le immagini (mai utilizzate a scopo sessuale) sono andate scemando.

La conoscenza delle emozioni favorisce la mentalizzazione degli eventi e previene gli agiti. Nella Psicoterapia Autogena uno dei primi obiettivi è la Somatizzazione (Somatisierung). Con tale termine Shultz intende il rivolgersi verso il proprio corpo, verso la percezione dei vissuti corporei.

La distensione non rappresenta soltanto qualcosa che agisce a livello muscolare ma determina anche globali modificazioni esistenziali sul sistema nervoso, sia per quanto riguarda lo schema corporeo che la problematica affettiva….Vengono rese accessibili ex novo intere parti della coscienza, vengono scoperte nuove percezioni e vengono formate nuove condizioni interiori di compimento della corporeità.

 

Buone relazioni con amici e partner possono influenzare positivamente l’autostima di individui timidi

Data l’importanza delle relazioni con gli altri per la costruzione del sé, è possibile che avere relazioni soddisfacenti e di buona qualità possa influenzare positivamente l’autostima e il senso di sé per coloro che le intrattengono

 

Quando gli individui entrano nella prima età adulta, periodo di vita che si attesta tra i 18 e i 29 anni, si trovano a doversi confrontare con nuove sfide dettate anche dal maggior livello di indipendenza e autonomia dalla famiglia di origine.

Se alcune persone fioriscono in questo particolare periodo di vita confrontandosi con nuove situazioni sociali, ad esempio in ambito universitario, lavorativo o relazionale, altre faticano ad adattarsi al cambiamento. Il confronto con situazioni sociali nuove può indurre in generale ansia e nervosismo, ma per coloro che sono caratterizzati da ritiro sociale, l’inserimento in nuovi contesti può creare livelli di ansia e apprensione tali da compromettere il loro benessere, le loro probabilità di successo e la loro autostima. Il ritiro sociale non può essere definito come semplice timidezza: esistono infatti motivazioni differenti che spingono gli individui a evitare il contatto sociale con gli altri.

In particolare, Asendorpf (1990) ha illustrato quali siano le motivazioni sottostanti che possono portare gli individui al ritiro sociale: gli individui timidi desiderano interagire con gli altri ma allo stesso tempo esperiscono forte ansia e paura, vivendo quindi un conflitto interno che li porta all’evitamento delle situazioni sociali, mentre gli individui evitanti non desiderano interagire con gli altri e al contempo evitano le situazioni sociali. Sia il sottotipo timido che quello evitante sono risultati associati a problematiche internalizzanti, in particolare a una bassa autostima, e a relazioni con i pari di scarsa qualità durante l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. Data l’importanza delle relazioni con gli altri per la costruzione del sé, è possibile che avere relazioni soddisfacenti e di buona qualità possa influenzare positivamente l’autostima e il senso di sé per coloro che le intrattengono piuttosto che per coloro che hanno relazioni di qualità inferiore.

In uno studio recentemente pubblicato sul Journal of Relationship Research è stato quindi analizzato il possibile ruolo moderatore che le relazioni di buona qualità con amici, partner e genitori potrebbero avere sul legame tra ritiro sociale e bassa autostima in giovani adulti caratterizzati da ritiro sociale. Clifford e colleghi (2019) hanno reclutato per lo studio 519 studenti universitari provenienti da quattro differenti atenei negli Stati Uniti, ai quali sono stati fatti compilare questionari riguardanti le motivazioni sottostanti il ritiro sociale, l’autostima e la qualità delle proprie relazioni.

Al termine delle analisi è stato rilevato che sia il sottotipo timido che quello evitante risultavano associati a un livello inferiore di autostima e a relazioni di qualità inferiore, confermando quanto già riportato da altre ricerche. E’ stato evidenziato inoltre che avere relazioni di buona qualità con amici e partner risultava influenzare positivamente l’autostima e il senso di sé degli individui timidi, ma tale effetto moderatore non ha trovato conferma per quanto riguarda gli individui evitanti. La causa di questa mancata conferma può essere individuata nella presenza di alta motivazione all’evitamento e di bassa motivazione all’approccio rispetto alle situazioni sociali riportate dagli individui evitanti, la cui autostima dipende quindi probabilmente da altri fattori.

Avere relazioni di buona qualità con le figure genitoriali non è risultato influenzare significativamente il legame tra ritiro sociale e autostima nei giovani adulti, sottolineando come i pari assumano un ruolo primario in questa fase dello sviluppo individuale mentre i genitori risultino gradualmente meno determinanti per l’adattamento e il benessere dei giovani adulti.

La ricerca di Clifford e colleghi (2019) sottolinea quindi il ruolo fondamentale svolto dalle relazioni con i pari nella vita di giovani adulti caratterizzati in particolare da timidezza e mette in luce come il ritiro sociale costituisca un costrutto complesso e multisfaccettato che necessita di essere ulteriormente approfondito.

La dipendenza affettiva: quando l’amore diventa ossessivo, simbiotico e fusionale

Oggi la dipendenza affettiva non compare nei manuali diagnostici come un disturbo a sé. Nel DSM 5 è stata inserita nel capitolo sui Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction e citata senza però fare riferimento né ai criteri diagnostici né alle caratteristiche proprie del disturbo.

Sara Bui – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva, Firenze

 

Il tema della dipendenza affettiva ha delle radici molto lontane, già Ovidio (Amores, 19-24 a. C.) introduceva il tema con una frase celebre “non posso vivere né con te, né senza di te”, frase che continua tutt’oggi a tornare nel nostro linguaggio comune anche con variazioni del tipo “ho bisogno di te per vivere”, “non riesco a stare lontano da te”.

Tuttavia, il temine dipendenza affettiva entra nel lessico della psicopatologia solo nel 1986 grazie alla psicoterapeuta americana Robin Norwood e al suo libro Donne che amano troppo nel quale fa riferimento alle caratteristiche di quello che secondo l’autrice è un amore “pericoloso”.

La dipendenza affettiva, o love addiction, viene considerata una forma di amore ossessiva, simbiotica e fusionale; è una modalità “non sana” di vivere la relazione e si sviluppa generalmente tra due partner adulti, ma può nascere anche tra terapeuta/medico e paziente o tra genitore e figlio (Borgioni, 2015).

Inquadramento nosografico

Ad oggi, la dipendenza affettiva non compare nei manuali diagnostici come un disturbo a sé, anche se all’interno del DSM 5 (American Psychiatric Association, 2014), nel capitolo sui Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction, viene citata la love addiction, senza però fare riferimento né ai criteri diagnostici né alle caratteristiche proprie del disturbo.

La dipendenza affettiva, rientra quindi all’interno delle New Addiction, ossia quelle dipendenze comportamentali nelle quali non sono presenti sostanze chimiche di abuso o alcool. Una delle caratteristiche comuni a tutte le nuove dipendenze, è il fatto che spesso, proprio in virtù dell’assenza di sostanze di abuso, possono rimanere in ombra per tutta la vita del paziente (Guerreschi, 2011).

Un aspetto importante riguarda la distinzione tra la dipendenza affettiva e il disturbo dipendente di personalità, in quanto spesso si tende ad equiparare le due condizioni. In realtà, come sottolinea anche Borgioni (2015), le due condizioni devono essere considerate in maniera separata per vari motivi:

  1. Nel disturbo dipendente di personalità prevale il bisogno di protezione e accudimento, nella dipendenza affettiva tale bisogno non è solo prevalente, ma esasperato;
  2. Le persone con disturbo dipendente di personalità permettono agli altri di impossessarsi e gestire le aree della loro vita, mentre nella dipendenza affettiva questo non accade;
  3. Nel disturbo dipendente di personalità, la figura di dipendenza viene subito sostituita con un’altra o con una sostanza, mentre nella dipendenza affettiva il paziente si “fissa” sulla relazione precedente e tenta di recuperarla in ogni modo;
  4. Nel disturbo dipendente di personalità la dipendenza dalle altre persone è costante, essendo un tratto di personalità, mentre nella dipendenza affettiva si sviluppa solamente in alcune relazioni.

Possiamo dunque considerare la dipendenza affettiva come un disturbo relazionale del “qui e ora”, non necessariamente riconducibile ad eventi traumatici infantili (Secci, 2014).

La dipendenza affettiva è una dipendenza reale?

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo innanzitutto esaminare se nella dipendenza affettiva sono presenti i sintomi tipici delle dipendenze (ebrezza, tolleranza, astinenza, incapacità a controllare il proprio comportamento) ed eventualmente secondo quali modalità si esplicano.

  • Ebrezza: il paziente prova una sensazione di benessere quando sta con il partner, tale sensazione è indispensabile per stare bene e non ottenibile in altro modo.
  • Tolleranza: il paziente avverte il bisogno di aumentare la quantità di tempo da trascorrere con il partner, riducendo sempre di più il tempo dedicato a se stesso e la propria indipendenza. Tale comportamento è alimentato dall’incapacità di mantenere la presenza interiorizzata dell’altro.
  • Astinenza: l’assenza del partner porta ad uno stato di disperazione che può essere alleviato solo con la presenza fisica dell’altro.
  • Incapacità a controllare il proprio comportamento: riduzione della capacità critica relativa a sé, all’altro e alla situazione.

In questo modo si crea un circolo che si autoalimenta rinforzando il comportamento di dipendenza:

  • Gratificazione immediata e piacere (rinforzo positivo)
  • Sollievo dalla sofferenza abbandonica (rinforzo negativo)
  • Sensazione di amabilità e valore

Teorie eziopatogenetiche

L’ipotesi evolutivo-sociale
Ghezzani (2015) sostiene che la dipendenza affettiva non debba essere considerata una patologia vera e propria per due motivi: per la sua valenza evolutiva e di sopravvivenza e per doti cooperative innate proprie della specie umana. L’autore spiega che, mentre nel mondo animale la dipendenza dei cuccioli dai propri caregivers è funzionale ma solo per brevi periodi, nella specie umana tale dipendenza ha periodi molto più lunghi e quindi è impensabile che il legame di dipendenza che si crea si possa poi dissolvere. Inoltre negli esseri umani la cooperazione è fondamentale per la sopravvivenza e come sostengono Aronson e colleghi (2013) invece che di dipendenza dovremmo parlare di inter-dipendenza per sottolineare la reciprocità affettiva delle relazioni umane.

L’ipotesi neurobiologica

È stato ampiamente dimostrato in letteratura (Bottaccioli, 2005) che se un bambino viene sottratto dalle cure dei caregivers aumenta la sua produzione di endorfine e cortisolo, i cosiddetti “ormoni dello stress”; tale secrezione può danneggiare le aree del sistema limbico, quella porzione del Sistema Nervoso Centrale che ci permette di emozionarci e di creare sentimenti in grado di perdurare nel tempo e nella memoria.

Il sistema della ricompensa

Si preferisce utilizzare il termine “addiction” nell’accezione di “schiavitù” in quanto una qualsiasi situazione, relazione o sostanza che creano piacere nel soggetto e ne alleviano il dolore possono renderlo “schiavo” da essa (Fisher, Xu, Aron, & Brown, 2016).

Il comportamento motivato da stimoli gratificanti è composto da una fase appetitiva, nella quale viene ricercato l’oggetto del piacere e da una fase consumatoria nella quale il comportamento si manifesta secondo schemi rigidi legati alla specifica attività. I disturbi del piacere riguardano la fase appetitiva: la reiterazione della ricerca di stimoli piacevoli crea la dipendenza (Aron, Fisher, Mashek, Strong, Li & Brown, 2005).

Stile di attaccamento

Analizzando le caratteristiche degli individui con le varie tipologie di attaccamento, risulta evidente che le persone con attaccamento insicuro-ambivalente rispecchiano i tratti tipici degli individui con dipendenza affettiva: controllo ossessivo di sé, dell’altro e della relazione; la convinzione di non essere degni d’amore; la ricerca continua di relazioni simbiotiche con persone idealizzate; il terrore della separazione e della perdita.

L’esperienza del dipendente affettivo è stata caratterizzata quindi da figure di riferimento presenti ma in maniera intermittente, arrivando spesso ad un’inversione di ruoli che vede il bambino adultizzato e il genitore-bambino (Borgioni, 2015).

Trattamento

Prima di parlare del trattamento della love addiction, è necessario capire se è etico e necessario intervenire. A tal proposito esistono due diversi schieramenti: nella “narrow view” l’amore diventa dipendenza solamente quando si attiva il circuito della ricompensa o quando l’individuo ha un disturbo pre-esistente; nella “broad view” chiunque sia innamorato rientra nello spettro della dipendenza affettiva, che non viene considerata quindi una patologia, ma semplicemente una dote innata dell’uomo.

Se facciamo riferimento alla “narrow view” esistono delle situazioni nelle quali è necessario un intervento per la dipendenza affettiva. Tale intervento può essere farmacologico (date tutte le dimostrazioni sulle cause neurobiologiche della patologia) oppure psicologico. In questo caso possiamo fare riferimento alla terapia cognitivo comportamentale che interverrà su alcuni punti fondamentali:

  • Ristrutturazione di pensieri irrazionali
  • Training per le social skills
  • Controllo degli impulsi
  • Prevention relapse

In conclusione sottolineamo che la relazione terapeutica è stata dimostrata essere uno dei maggiori predittori di efficacia di una psicoterapia (Safran & Muran, 2000) e ciò appare ancora più importante quando la tematica affrontata è puramente relazionale, come nel caso della dipendenza affettiva.

Il viaggio del Piccolo Principe nella R.E.M.S.

Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, da sempre uno dei libri più letti, ha coinvolto milioni di lettori tra i più disparati. Un’opera letteraria che non manca, di solito, nelle librerie di ogni Paese e in particolare nel programma scolastico delle nostre scuole.

Isabella Barbon, Martina Meneghelli, Ilaria Curti

 

Questa volta, però, il contesto in cui viene proposta la lettura de Il Piccolo principe è diverso, i lettori non siedono tra i banchi di scuola ma sui divani di un reparto ospedaliero particolare.

Ci troviamo nella R.E.M.S. del Veneto, una delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza presenti in ogni Regione d’Italia e introdotte dalla legge 81/2014, la quale ha stabilito la chiusura degli OPG e l’istituzione di tali strutture esclusivamente sanitarie e territoriali.

Qui vengono ospitati pazienti autori di reato con problemi psichici, coloro che sono stati assolti per vizio di mente parziale o totale e per i quali è previsto un percorso terapeutico riabilitativo in misura di sicurezza, che si espleta appunto all’interno della REMS.

Gli utenti che risiedono in questa struttura, a gestione sanitaria, hanno un’età compresa tra i 23 anni e i 60 anni, con prevalenza maschile e con diagnosi tra loro molto diverse. Principalmente disturbi dello spettro psicotico, disturbi della personalità e disturbi dell’umore.

Dal punto di vista criminologico nella storia dei pazienti troviamo diversi tipi di reati: reati gravi contro la persona (omicidio, tentato omicidio, matricidio..) e reati contro la persona (maltrattamenti familiari). Si trovano occasionalmente anche reati minori.

L’obiettivo principale del lavoro multidisciplinare svolto in REMS è quello di fornire agli utenti modalità più funzionali per le loro vite, al fine di diminuirne anche la pericolosità sociale.

Vengono pertanto proposte diverse attività riabilitative strutturate, sia individuali che di gruppo, che mirano a potenziare le risorse e le qualità dei singoli.

Il piccolo principe: le molteplici personalità, nel libro come in R.E.M.S.

L’organizzazione del gruppo lettura, che ha scelto l’opera di Antoine de Saint-Exupéry come brano proposto, ha previsto un incontro a settimana di un’ora ciascuno nella biblioteca del reparto.

In questo spazio di ritrovo, i pazienti più incuriositi e dediti alla lettura si sono riuniti con lo psicologo e con altri operatori e ogni incontro è stato così suddiviso: una prima parte dedicata alla lettura di due/tre capitoli del libro e una seconda parte riservata ad un aperto confronto sulle tematiche emerse e sui temi per loro più significativi.

Immersi nel viaggio del piccolo principe, lasciandosi guidare dal suo percorso di scoperta di pianeti e personaggi bizzarri, è stato interessante notare come ogni partecipante del gruppo cogliesse diversi aspetti e significati profondi.

Inevitabilmente, incontro dopo incontro, è emersa quella parte infantile e ancora capace di meravigliarsi presente in ogni adulto e risvegliata dall’indole pura del piccolo principe, lasciando riaffiorare tra i pazienti ricordi di vita e ‘‘pezzi’’ di storia personale.

La prima parte del viaggio tra i vari asteroidi richiama il viaggio alla scoperta di sé, dei propri lati nascosti e più intimi. Uno dei partecipanti del gruppo lettura, a tal proposito, dice di aver apprezzato l’incontro del piccolo principe con i diversi personaggi bizzarri ‘‘per la varietà dei caratteri umani che mostrano. Aiuta a soffermarsi sulla molteplicità di personalità esistenti e a migliorare la propria cultura umanistica’’. Un confronto continuo con individualità differenti e particolari, che secondo questo paziente è simile a quello che avviene in R.E.M.S., dove inevitabilmente si viene messi di fronte a ‘‘personalità diverse da osservare’’, che permettono di approfondire la conoscenza degli altri e quindi di se stessi. E conclude ‘‘è un po’ come incontrare le varie piccole parti di sé, un’utile riflessione sulla natura umana e sui suoi diversi lati’’.

Gli strani personaggi che incontra il piccolo principe rappresentano e personificano caratteristiche specifiche, prevalentemente attribuibili a comportamenti viziosi del mondo adulto. Un re prepotente, un vanitoso, un ubriacone, un avaro, tutte personalità che il nostro piccolo protagonista definisce ‘‘strane’’ e ‘‘bizzarre’’, ma che senza dubbio ci pongono di fronte ai limiti umani, a quegli aspetti che ci distanziano dai veri valori della vita e in cui ognuno può in parte riconoscersi.

Il viaggio di asteroide in asteroide, che lo porterà ad atterrare sulla Terra, può simboleggiare il percorso di riflessione e consapevolezza, un cammino di crescita interiore alla scoperta di sé.

Il piccolo principe, con tutta la naturalezza e la spontaneità propria dei bambini, ci spinge a soffermarci sulle cose importanti, sui valori spesso dimenticati dai grandi.

Il piccolo principe, la volpe e la rosa

Non è forse un caso che l’aspetto che più ha colpito i lettori del nostro gruppo, la parte che è riuscita a toccarne le corde più profonde, è la relazione che viene a crearsi tra il piccolo principe e la volpe, tanto quanto il legame con la sua rosa. ‘‘Per creare dei legami bisogna dedicare del tempo, bisogna essere molto pazienti, ci sono dei rituali da rispettare’’ sostiene uno dei membri del gruppo, ‘‘anche tra le persone si creano proprio così, fuori avevo sempre tanta fretta, non dedicavo tempo agli amici. Bisognerebbe dedicarci più tempo’’.

Diverse sono le riflessioni che emergono sul tema ‘‘Affezionarsi’’. Prendersi cura dell’altro con costanza e attenzione che rende unica e irripetibile una relazione.

Qualcuno sostiene che la stessa esclusività viene a crearsi anche con alcuni operatori all’interno di strutture come la R.E.M.S., ‘‘a volte lo fanno anche solo chiedendoti come stai, con le piccole attenzioni quotidiane, dedicando un po’ di tempo.. tutto questo è un prendersi cura.. come il piccolo principe con la sua rosa.’’

E’ proprio questa la riflessione che circola con più vivacità nel confronto di gruppo, l’importanza di dedicare del tempo alle cose, la premura, la dedizione; sembrano essere questi gli ingredienti principali di una relazione.

“Anche qui in R.E.M.S. c’è un prendersi cura di noi, anche con la terapia.. mi sono fidato del medico che in questo modo si occupa di me. Si creano legami così facendo, se sbaglio qualcosa gli operatori mi rimproverano, sento che qui si prendono cura di me. Anche gli orari che ci sono per le attività, per i pasti.. creano un insieme di cose positive, che danno sicurezza.’’  Sembra pertanto evidente l’analogia che emerge tra i legami descritti nel racconto e la relazione terapeutica, o più precisamente tra le dinamiche e le condizioni necessarie alla creazione di entrambi i tipi di rapporto, per quanto differenti. Stiamo facendo in parte riferimento a quello che in ambito psicoterapeutico prende il nome di setting terapeutico, la cornice entro cui si svolge il processo curativo.

Il setting è costituito da una serie di regole che strutturano gli incontri tra terapeuta e paziente e che prevedono il rispetto degli orari, della cadenza, della frequenza, ma soprattutto l’impegno di una presenza reciproca, di sincerità e di una responsabilità verso l’altro. Tali principi relazionali facilitano indubitabilmente l’instaurarsi di un’alleanza terapeutica e, di conseguenza, la plausibile riuscita del trattamento.

Una cornice entro cui viene garantito il progetto terapeutico e che permette il crearsi di una relazione unica per entrambi, similmente al legame del piccolo principe con la rosa di cui si è preso cura giorno per giorno e che è diventata per lui unica al mondo.

‘‘Ci vogliono i riti’’, scrive Antoine de Saint-Exupéry, quelle abitudini che consentono il crearsi di una relazione che nel tempo viene interiorizzata, un meccanismo naturale secondo il quale vengono acquisite e assimilate parti della realtà esterna. In questo processo, oggetti esterni vengono interiorizzati e convertiti in rappresentazioni mentali.

E’ proprio questo l’insegnamento prezioso della volpe al piccolo principe sul potere dell’addomesticamento, che rende la vita ‘‘illuminata’’ come scrive l’autore.

La relazione che nasce e che viene coltivata può diventare nel tempo parte di sé, continuare ad esistere dentro di noi nonostante il tempo e la separazione.

Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica […] I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano… – con queste righe Antoine de Saint-Exupéry descrive la magia dell’affezionarsi a qualcuno e del creare un legame che cambia il modo di guardare il mondo.

Ed è questa la forza più grande della relazione, il potere che possiede di modificare il nostro modo di guardare le cose. Tutto assume un colore diverso, nuove sfumature che non eravamo in grado di vedere prima di legarci a quella persona ora prendono vita e nulla è più uguale a prima.

Ma la vera scoperta, che anche i nostri pazienti sembrano cogliere dagli spunti di riflessione di gruppo, è che tutto questo grande regalo concesso dalla relazione permane nel tempo dentro di noi, al di là del distacco e della separazione fisica.

In una struttura come la R.E.M.S. gli addii sono frequenti, sia dalla propria famiglia sia dagli altri ‘‘compagni di reparto’’. ‘‘Chi se ne è andato lascia in noi un pezzetto, fa male al cuore quando gli altri se ne vanno.. Qui è tutto amplificato perché si vive insieme..’’, questi sono i pensieri che emergono dalla riflessione di gruppo sulla morte, sulla separazione e sul dolore che ne deriva. Anche in una struttura e in una realtà come queste.

Un altro partecipante sembra colpito dalla crescita personale che regala l’esperienza del distacco, un dolore che permette di maturare e di progredire.

L’esperienza del gruppo lettura ha permesso una condivisione e un confronto su tematiche profonde, partendo da una semplice storia.

Non da tutti i dolori si esce ‘‘ammaccati’’, ci sono esperienze difficili che ci permettono di crescere e dalle quali può comunque uscire qualcosa di buono. Ma l’ingrediente centrale ed essenziale per generare un cambiamento sembra essere la relazione, il legame con l’Altro che valorizza e illumina la nostra vita.

E’ lì che risiede il potere trasformativo della cura e questo sembra essere il messaggio che i pazienti della R.E.M.S. del Veneto vogliono lasciare.

 

Valutazione del paziente suicidario

La valutazione del rischio di suicidio richiede flessibilità e costante adattabilità nelle prospettive durante il colloquio. Molteplici aspetti devono essere presi in considerazione per effettuare una valutazione del rischio di suicidio; se non si mantiene una veduta ad “ampio angolo” nel nostro esame, si corre il rischio di essere troppo concentrati su una visione parziale della propria esperienza, perdendo così la capacità di eseguire una valutazione valida

 

Un caso di suicidio costituisce un evento non diagnosticabile. Il primo ostacolo affrontato nella valutazione di un paziente suicidario consiste nel come definire adeguatamente il comportamento che stiamo per valutare. Per quanto possibile, il professionista deve mettere in atto misure che siano in grado di offrire al paziente il tempo necessario per la valutazione, senza interruzioni: per una valutazione del rischio, è importante assicurarsi che lo stato mentale e fisico del paziente sia compatibile con il colloquio che sta per intraprendere.

Il paziente suicidario

Negli ultimi anni, vi è stato un notevole dibattito sulla validità delle definizioni attuali, in particolare per quanto riguarda la nostra capacità di distinguere il comportamento suicidario dal comportamento di autolesionismo senza intento suicida (De Leo, D., et al., 2006; Silverman et al., 2007). In questo articolo il termine “suicidario” verrà utilizzato per descrivere qualsiasi comportamento o ideazione coinvolgano danno per sé, indipendentemente dal livello di intenzione di morire. La ragione è duplice. Da un lato, (Hawton et al., 2002), i motivi dietro comportamenti autolesivi e di ideazione suicidaria sono a volte così difficili da stabilire da non poter mai escludere a priori un’intenzionalità. (De Leo, D., 2011). L’altra considerazione da fare è che nonostante le molte differenze osservate tra gli individui con comportamenti autolesionistici, l’assenza di segnali di intenzionalità suicidaria non è sufficiente ad escludere la possibilità di una messa in atto di comportamento suicidario. Al contrario, la presenza di un comportamento autolesivo aumenta significativamente il rischio di suicidio nel corso della vita: in un recente studio di persone fisiche che si presentavano all’osservazione per tentativi suicidari, si è riscontrato che nei 4 anni successivi alla presentazione il tasso di suicidi portati a termine era 30 volte superiore a quello atteso nella popolazione generale (Cooper et al., 2005). Inoltre, i professionisti della salute mentale dovrebbero essere consapevoli della possibilità che negli individui si manifestino frequenti fluttuazioni di intenzionalità suicidaria che vanno dal desiderio di portare a termine il suicidio ad intervalli liberi da ogni ideazione suicidaria (De Leo, D., et al 2005; Milner, A., et al., 2010).

Dati epidemiologici

Per i paesi che riportano i dati di mortalità all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il tasso di suicidi è aumentato del 60% negli ultimi 45 anni (World Health Organization, 2005): il suicidio rappresenta una tra le prime dieci principali cause di morte per la fascia di età dai 15-34 anni (World Health Organization, 2005). I “Tentativi Suicidari” (Non-fatal suicidal behaviours) sono stimati essere fino a 20 volte più frequenti come il suicidio (De Leo, D., et al., 2005). I dati sull’incidenza dell’ideazione suicidaria sono sfortunatamente non affidabili: in un recente studio si è rilevato che fino al 25% degli intervistati ha riferito di aver contemplato l’ideazione suicidaria nel corso della vita, arrivando addirittura alla pianificazione dell’atto ed inoltre, nel medesimo studio, tra il 0,4% e il 4,2% degli intervistati ha riportato almeno un tentativo di suicidio nel corso della loro vita (Bertolote, JM., et al.,2005).

Fattori di rischio

Nel valutare il rischio suicidario, si comprende che alcune delle variabili osservate durante l’intervista sono fuori dal nostro controllo. Per esempio, ci sono una serie di variabili demografiche che hanno una forte correlazione con il suicidio: una tra le più significative risulta essere il genere. Sebbene il genere femminile abbia maggiori probabilità di giungere all’osservazione per un tentativo di suicidio, il genere maschile presenta una maggiore incidenza di suicidi portati a compimento, in un rapporto di 3-4 uomini per ogni donna (De Leo, D., et al., 2002). Queste differenze sembrano essere costanti nel tempo e, a parte per pochissime eccezioni, coerenti tra culture (De Leo, D., et al., 2002): un “paradosso di genere” sembra essere quello secondo cui gli uomini sembrerebbero scegliere metodi più letali, sono più propensi a manifestare comportamenti impulsivi, ad abusare di sostanze e inoltre, gli uomini risultano meno inclini alla richiesta di aiuto (Milner, A., et al., 2010; Brent, D.A. et al., 1996). Tra i dati demografici, l’età è una variabile significativa della valutazione del rischio: i tassi di suicidio aumentano con l’età, fino a raggiungere il livello di 50/100.000 negli anziani di sesso maschile. Il tasso di suicidio per la donna mostra un graduale aumento con l’età, il primo picco di tasso di suicidio negli uomini è nell’età adulta mediana, che poi mostra un calo marginale fino al drammatico aumento per il gruppo 75+ (World Health Organization, 2002).

Lo stato civile è un altro fattore importante da esaminare con attenzione, anche se, a causa di barriere nella raccolta dei dati, sembra essere stato meno studiato degli altri fattori di rischio discussi finora. Nonostante questo, ci sono prove sufficienti per suggerire un legame tra stato della relazione e comportamento suicidario: la ricerca sostiene una correlazione positiva tra suicidalità e l’essere single, una correlazione che appare più forte se si considerano condizioni come il divorzio e soprattutto la separazione (Wyder, M.,et al., 2009; Kolves, K.,et al., 2011). Uno studio ha riscontrato che gli uomini separati hanno circa sei volte più probabilità di morire per suicidio rispetto alla loro controparte coniugale (Cantor,C.H., et al., 1995). L’impatto di essere single o separati su tassi di suicidio è per gli uomini di gran lunga superiore che per le donne (Wyder, M.,et al., 2009). E’ stato suggerito che nelle donne l’effetto di essere single o separate è mitigata dal ruolo protettivo della genitorialità che è stato riscontrato essere più forte nei soggetti di sesso femminile (Quin,P., et al., 2002). Inoltre, le donne generalmente beneficiano maggiormente dei social network rispetto agli uomini, e questo offrirebbe un supporto emotivo ed opportunità per nuovi rapporti (Kolves, K.,et al., 2011). Oltre alle caratteristiche demografiche, il rischio di suicidio sembra anche essere influenzato dal patrimonio genetico. Ad esempio, è stato osservato che il rischio di suicidio in individui con storia familiare di suicidio è due volte più grande rispetto alla popolazione generale, indipendentemente dalla presenza di gravi malattie mentali (Runeson, B.,et al., 2003). In secondo luogo, il miglioramento dei modelli di genetica ha permesso di confermare che gli individui adottati che portano un suicidio a compimento hanno maggiori probabilità di avere una storia familiare di suicidio tra i loro parenti biologici: anche in questo caso, l’impatto della predisposizione genetica era indipendente da disturbi psichiatrici comunemente associati a un suicidio (Roy,A.,et al., 2006). Lo scopo di questo articolo è discutere tutti i possibili fattori di rischio legati ad un aumento della probabilità di suicidio negli individui.

La valutazione del rischio di suicidio richiede flessibilità e costante adattabilità nelle prospettive durante il colloquio. Molteplici aspetti devono essere presi in considerazione per effettuare una valutazione del rischio di suicidio; se non si mantiene una veduta ad “ampio angolo” nel nostro esame, si corre il rischio di essere troppo concentrati su una visione parziale della propria esperienza, perdendo così la capacità di eseguire una valutazione valida. Dopo aver esaminato l’incidenza di alcune delle variabili biologiche e demografiche sul livello di rischio, veniamo ora ad esaminare, probabilmente il gruppo più significativo di rischio ovvero gli aspetti clinici che non possono essere ignorati.

Una storia di tentativi di suicidio, di ideazione suicidaria o di ricovero in ospedale per un grave disturbo mentale espone in modo significativo gli individui ad un aumentato rischio di comportamento suicidario. Numerose ricerche confermano l’entità dell’impatto che questi fattori hanno sulla capacità di prevedere il comportamento futuro: circa il 5% delle persone che hanno tentato il suicidio l’hanno poi portato a compimento entro 10 anni (Gibb, S.J.,e al., 2006). Costituisce un fattore di rischio non solo uno storico di tentativi di suicidio, ma anche la storia passata di ideazione suicidaria (Beck, A.T.,et al., 1999). Una storia di ideazione suicidaria è il migliore predittore di comportamenti suicidari futuri rispetto al livello di ideazione suicidaria al momento della valutazione, con odds ratio di 13,85 vs 5.42. Una grande attenzione è stata anche focalizzata sul rapporto tra ricovero e rischio di suicidio: nel corso degli ultimi 30 anni uno spostamento significativo sulla relazione cure ospedaliere/ricoveri (Johannessen, H.A.,et al.,2009) e diversi studi hanno stabilito una chiara relazione tra suicidio e alcuni aspetti del trattamento ospedaliero. Il rischio suicidario è più elevato nei primi giorni dopo il ricovero in ospedale rispetto ai giorni successivi. In secondo luogo, il rischio suicidario aumenta insieme al numero di ricoveri in una struttura ospedaliera (Hoyer,E.H., et al.,2004; Quin, P.,et al., 2005). Siamo abituati a pensare che il trattamento ospedaliero rappresenti il modo migliore per evitare il suicidio quando si è in presenza di individui considerati ad alto rischio. Purtroppo, in molte occasioni l’ambiente ospedaliero è inadeguato a sostenere il paziente suicidario, la stigmatizzazione dell’ospedalizzazione psichiatrica spesso ostacola il processo di recupero. Il risultato è che, in alcuni casi, la persona suicida percepisce la prospettiva di un ricovero ospedaliero come “ultima spiaggia” quando in realtà il ricovero dovrebbe essere sempre considerato come uno delle componenti di un piano di gestione, e non come un modo semplice per prevenire il suicidio o accelerare il processo di guarigione (De Leo, D., et al 2007).

Fattori di rischio modificabili

Gli individui che presentano ideazione suicidaria hanno maggiori probabilità di portare a termine il suicidio indipendentemente dalla natura e dalla gravità del disturbo mentale di cui soffrono (Beck, A.T., et al., 1999). Molto spesso gli individui percepiscono quei pensieri come causa di angoscia. Un’esplorazione attenta dell’ideazione suicidaria dei pazienti necessita di notevoli capacità ed esperienza, in particolare con specifiche popolazioni, ovvero gli anziani e gli adolescenti. È importante sottolineare che l’esplorazione dell’ideazione suicidaria non aumenta il rischio di suicidio dei pazienti: in realtà, spesso i pazienti trovano conforto nell’essere in grado di discutere dei loro conflitti ed i loro pensieri autodistruttivi. Nella valutazione del livello di ideazione dei pazienti, è essenziale indagare sulla presenza di intenti di agire su quei pensieri e ancor più sulla pianificazione che consenta ai pazienti di compiere l’atto. Inoltre, è responsabilità del professionista quella di esplorare la disponibilità del paziente di mezzi letali per portare a termine l’atto suicidario e garantire che siano prese misure per limitarne l’accesso: più dettagliata è la pianificazione suicidaria, maggiore è il rischio di suicidio. Tuttavia, è anche importante considerare che, in molti casi, gli individui che hanno un alto livello di intenti possono essere riluttanti a rivelare qualsiasi informazione che potrebbe portare all’ostacolo della loro pianificazione. Di tutti i fattori di rischio suicidario considerati finora, i ricercatori hanno identificato il disturbo mentale come il più significativo. Oltre il 90% degli individui che portano a compimento il suicidio presenta almeno un disturbo mentale: la depressione è il disturbo più comunemente riportato (almeno nel 30% dei casi). Sono frequenti anche i disturbi da abuso di sostanze (17,6%), così come la schizofrenia (14,1%), e disturbi della personalità (13,0%) [Wasserman, D., et al., 2001]. Il rischio di suicidio nel corso della vita in seguito a malattie psichiatriche come la depressione, la schizofrenia e l’abuso di alcol è segnalato essere circa il 5 – 15% (Wasserman, D., et al., 2001). E’ inoltre importante considerare che, anche se un numero significativo di persone che muoiono per suicidio non ha mai avuto alcun contatto terapeutico, tra il 40% e il 60% è giunto all’osservazione nel mese precedente il suicidio (World Health Organization, 2000). Soprattutto nel mondo occidentale, la relazione tra rischio di suicidio e disturbo mentale è così forte che nessuna strategia di prevenzione avrebbe avuto successo senza un trattamento efficace del disturbo presente in quei soggetti (Bertolote, J.M. et al., 2003; De Leo, D., et al., 2009).

Fattori protettivi

Alcuni studi hanno evidenziato come alcuni fattori ad esempio responsabilità familiare e sulla prole, la religiosità ed il sostegno sociale possano avere un impatto positivo sui tassi di suicidio (De Leo, D., et al., 2003). Un questionario, The Reason of Living Inventory, è stato trovato utile nella pratica clinica per documentare la presenza di fattori di prevenzione (Linehan, M.M., et al., 1983). Tra i fattori protettivi esplorati dai ricercatori nel corso degli anni, l’alleanza terapeutica è probabilmente uno dei più rilevanti (Hendin, H., et al., 2006). Indipendentemente dalla natura del trattamento offerto, il colloquio con un individuo a rischio di comportamento suicidario richiede che il professionista costruisca un rapporto di fiducia e di cooperazione. È solo quando si stabilisce un sufficiente rispetto reciproco che l’esperienza del paziente può essere completamente esplorata e può essere effettuata una valutazione affidabile: l’empatia è uno degli strumenti più potenti che si possano utilizzare nella cura degli individui a rischio di un suicidio. Tuttavia, può essere difficile mantenere un livello sufficiente di empatia quando gli sforzi terapeutici sono in contrasto con la necessità di garantire la sicurezza dei pazienti [Jacobs, D., et al., 1989].

Integrazione delle informazioni

Non esiste uno strumento in grado di prevedere in modo affidabile il rischio di suicidio. L’unica certezza è che tutti i professionisti sono tenuti ad effettuare una valutazione del rischio indipendentemente da quali siano le circostanze che hanno portato alla valutazione (Simon, R.I. et al., 2002). Per facilitare un colloquio efficace, abbiamo bisogno di fornire un ambiente sicuro e confortevole. In realtà, il modo in cui viene effettuato il colloquio avrà un impatto significativo sul risultato. Un ambiente idoneo dovrebbe garantire che le informazioni riservate ed emotivamente sensibili possano essere comodamente comunicate al professionista senza il rischio di distrazione o di intimidazione. Oltre alle informazioni derivanti dal colloquio con la persona a rischio di suicidio, si potrebbe beneficiare della disponibilità delle informazioni divulgate dal partner o dal coniuge, dai parenti o dagli amici. Nonostante questo, altrettanto spesso non riusciamo ad ottenere le informazioni: esempi comuni sono pazienti che hanno volutamente nascosto i loro intenti e le loro pianificazioni suicidarie, o coloro che sono affetti da disturbi mentali così gravi da non essere in grado di esprimere le proprie ideazioni in modo comprensibile. C’è ancora un altro importante compito che i professionisti devono padroneggiare nella pratica moderna, che è quello di documentare le informazioni raccolte in modo approfondito: è essenziale per un professionista avere informazioni sufficienti raccolte in una cartella clinica in caso di controversia o di controllo (Simon,R.I. et al., 2004).

 

Si cambia davvero nelle diverse relazioni sentimentali?

Quando si conclude una relazione sentimentale, e se ne intraprende una nuova, riusciamo a mettere in atto nuove e migliori dinamiche relazionali per avere più successo col nuovo partner? Cosa ci rivela un recente studio a tal proposito?

 

Quando si conclude una relazione sentimentale, e se ne intraprende una nuova, spesso ci si ripropone di mettere in atto delle nuove e migliori dinamiche relazionali al fine di avere maggior successo con il nuovo partner. Tuttavia, un recente studio tedesco ha rivelato che tale buon proposito è molto lontano dalla realtà dei fatti: generalmente, tendiamo a riproporre, nel corso tempo, gli stessi pattern relazionali originari, in quanto essi fanno parte di noi e del nostro modo di entrare in relazione con l’altro.

Lo studio ha esaminato la vita relazionale di 554 persone, prendendo in considerazione alcune informazioni inerenti l’inizio e la fine di una prima relazione sentimentale ed il primo e il secondo anno di una nuova relazione. In particolare, le dinamiche relazionali tipiche dei partecipanti sono state controllate attraverso il monitoraggio di sette fattori relazionali: soddisfazione della vita sessuale; soddisfazione della relazione generale; frequenza dei rapporti sessuali; livello di apertura della comunicazione fra i partner; frequenza degli apprezzamenti rivolti al partner; frequenza dei conflitti e fiducia nella solidità della relazione.

Dallo studio si evince come, in linea generale, per ogni partecipante, questi fattori siano rimasti invariati nella prima e nella seconda relazione, ad accezione della frequenza sessuale e degli apprezzamenti verso il partner che pare tendano ad aumentare nella seconda relazione.

Dunque, questo studio sembrerebbe mettere in evidenza la tendenza a riproporre gli stessi pattern relazionali nelle storie d’amore, in quanto schemi mentali impliciti e poco flessibili.

Tuttavia, gli unici due fattori mutevoli (frequenza sessuale e degli apprezzamenti) fra le due relazioni, potrebbero essere spiegati nell’ottica del classico decorso di una relazione sentimentale, scandito da determinate fasi. Difatti, la prima fase di una relazione, nota come fase della “luna di miele”, sarebbe caratterizzata da un’estrema eccitazione ed un inteso coinvolgimento, fisico ed emotivo, per l’inizio di una nuova esperienza. Questo non permetterebbe di avere una visione globale e reale del nuovo partner che verrebbe in tal modo idealizzato. D’altra parte, non appena questa fase giungerebbe al termine, il partner verrebbe guardato realisticamente, con i suoi pregi e difetti, e la relazione inizierebbe a concretizzarsi nelle responsabilità della vita quotidiana.

Sarebbe proprio questo il momento in cui i vecchi schemi relazionali si ripresenterebbero. Questo, se da una parte dà continuità al nostro modo di essere con l’altro, d’altra parte potrebbe risultare disfunzionale nel momento in cui ci accorgiamo della disfunzionalità di tali schemi e non facessimo nulla per modificarli.

Battiato ai tempi delle Neuroscienze

Battiato ai tempi delle Neuroscienze: la lungimiranza del cantautore siculo che già nel 1971 cantava le prospettive della manipolazione genetica sull’essere umano. 

 

Non ero ancora nato che già sentivo il cuore, che la mia vita nasceva senza amore. Mi trascinavo adagio dentro il corpo umano, giù per le vene verso il mio destino.

Questa frase costituisce il testo della seconda traccia dell’album Fetus di Franco Battiato, pubblicato nel 1971, quasi quarant’anni dopo la pubblicazione di Brave New World di Aldous Huxley (1932). Fetus è, infatti, un concept album non a caso interamente dedicato al libro di Huxley: come la musica pionieristica di Battiato, anche Brave New World è stata una brillante anticipazione degli sviluppi della tecnologia riproduttiva e della manipolazione psicologica entro una società distopica, dove ogni essere umano è frutto di una costruzione in laboratorio. Nonostante il romanzo non tocchi mai il tema dell’ingegneria genetica, la manipolazione artificiale e controllata dello sviluppo embrionale è un argomento pregnante nel racconto ed è un concetto non molto lontano dal dibattito, tutt’oggi molto acceso, sulle pratiche di modifica del genoma umano.

Gli interventi sul genoma: il sistema CRISPR-Cas9

Le biotecnologie per la modifica e la ricombinazione del DNA degli organismi viventi esistono ormai da tempo e sono in continuo perfezionamento. Durante gli anni ’90 nasce una nuova e promettente tecnica di intervento sul genoma, la quale abbatte costi, tempi e complessità degli interventi precedenti: il sistema CRISPR-Cas9.

La CRISPR-Cas9 è stata adattata da un meccanismo che avviene naturalmente nei batteri quando attaccati da un virus. La nuova tecnica ha costituito una vera e propria rivoluzione nel momento in cui i ricercatori sono riusciti a riprodurre artificialmente la procedura in laboratorio: viene creato un segmento di RNA che si attacca ad una specifica sequenza target nel DNA di un altro organismo e tale RNA si unisce a sua volta all’enzima Cas9; in seguito a tale unione ha inizio il setacciamento per il riconoscimento della sequenza target di DNA, la quale, non appena individuata, viene tagliata in una specifica locazione. I ricercatori utilizzano poi il naturale sistema riparatore del DNA per aggiungere, eliminare o modificare alcuni frammenti di codice genetico, sostituendoli con altri segmenti di DNA costruiti su misura.

Cambieranno le mie cellule e il mio corpo nuova vita avrà. Le molecole che ho guaste, colpa dell’ereditarietà: sarò una cellula fra i motori, come una cellula vivrò.

Nella traccia Una cellula, Battiato anticipa alcune odierne modalità di applicazione del genome editing. Particolarmente interessante sembra, infatti, la possibilità di intervenire sul genoma embrionale portatore di sequenze geniche associate all’insorgenza precoce o tardiva di gravi patologie, come ad esempio la trisomia 21, il morbo di Parkinson, la malattia di Alzheimer e così via, con l’intento di tagliare quei frammenti di DNA, risparmiando di fatto al futuro individuo sofferenze connesse alla malattia.

Se un figlio si accorgesse che, per caso, è nato fra migliaia di occasioni, capirebbe tutti i sogni che la vita dà, con gioia ne vivrebbe tutte quante le illusioni. […] Quante frasi false ho detto, quante strane verità per fare sul mio metro questa personalità.

Tali nuove tecnologie possono, tuttavia, generare delle controversie se impiegate per scopi non direttamente clinici. Nel brano Energia, infatti, Battiato fa riferimento ai tentativi umani, talvolta malsani, di sovrastare la natura stessa. In questo senso, l’intervento con la CRISPR-Cas9 sugli embrioni, per scopi che potremmo definire estetici, determinerebbe a priori il “destino” dei futuri adulti modificati. La manipolazione genetica degli aspetti fenotipici soggetti a discriminazioni sociali come l’obesità o l’intelligenza, è uno scenario che, anche nell’ottica di Battiato, non lascerebbe spazio al ruolo del caso nel processo riproduttivo, sottolineando una sorta di incapacità dell’uomo ad accettare di non essere completamente perfetto o felice.

Slavoj Žižek, filosofo sloveno contemporaneo, propone un’interpretazione del fenomeno in questione molto accurata. Egli riporta l’ottimista posizione che David Pearce, co-fondatore della World Transhumanist Association, assume nel suo libro The Hedonistic Imperative:

[…] nanotechnology and genetic engineering will eliminate aversive experience from the living world. Over the next thousand years or so, the biological substrates of suffering will be eradicated completely – dal momento che bisognerebbe raggiungere, dice Pearce – the neuro-chemical precision engineering of happiness for every sentient organism on the planet.

Žižek però controbatte che la manipolazione delle proprietà psichiche e fisiche degli individui prima ancora di essere concepiti superi una sorta di soglia naturale, tramutando gli uomini in veri e propri prodotti, togliendo loro la possibilità di esperire se stessi come agenti responsabili dell’acquisizione delle proprie capacità e competenze, cancellando di fatto il sentimento di soddisfazione che deriva dallo sforzo impiegato per raggiungere un obiettivo.

Il sistema CRISPR-Cas9 per migliorare le capacità intellettive

Meccanici i miei occhi, di plastica il mio cuore. Meccanico il cervello, sintetico il sapore. Meccaniche le dita di polvere lunare, in un laboratorio il gene dell’amore. (Meccanica; Fetus, Franco Battiato, 1971)

Il sistema CRISPR-Cas9 potrebbe anche costituire una modalità di intervento per il miglioramento delle capacità intellettive umane. Un numero sempre più ampio di evidenze converge sul fatto che le strutture cerebrali coinvolte nell’intelligenza siano sotto una forte influenza genetica, anche se non interamente determinate da essa. Tuttavia, l’idea che esista un gene associato ad una specifica abilità, come “il gene dell’intelligenza” o “il gene della religiosità”, è naive oltre che lontana da ciò che ad oggi si conosce della genetica legata a particolari comportamenti o processi cognitivi. Sono già in atto, però, molti progressi nella direzione di individuare sequenze geniche associate ad alcune capacità cognitive.

Interessante è il caso dei SuperAgers, individui di ottant’anni o più che nei test di valutazione delle capacità di memoria hanno una prestazione pari o migliore di quella degli adulti tra i cinquanta e i sessantacinque anni sottoposti al medesimo test. Uno studio recente ha dimostrato che tali individui presentano una mutazione nel gene MAP2K3: gli inibitori del MAP2K3 potrebbero quindi rappresentare una nuova strategia terapeutica per prevenire il deterioramento delle capacità cognitive associato all’invecchiamento. Persino l’abilità di ricordare il passato ed il multitasking, ossia completare diverse operazioni simultaneamente, sembrano essere due abilità incapaci di coesistere assieme per motivi legati proprio alla genetica. Alcuni ricercatori hanno indagato come l’efficienza nel multitasking è regolata dal gene COMT. Una variazione dello stesso gene porta contemporaneamente ad una minore prestazione nel compiere più azioni nello stesso momento, ma ad un incremento delle capacità di memoria a lungo termine. In altre parole, sembra esserci un trade-off su base genetica tra le due funzioni cognitive: essere più abili nel memorizzare informazioni a lungo termine penalizza l’efficacia nel multitasking.

Tra modificazioni genetiche ed etica

D’altra parte, nella valutazione di qualsiasi tecnologia che vada nella direzione di potenziare le abilità umane, è necessario fare delle considerazioni etiche approfondite, prima tra tutte la sicurezza della tecnica ed eventuali rischi annessi.

La CRISPR-Cas9 è una procedura giovane e relativamente semplice. Infatti, non ci sono ancora abbastanza dati che ci informino sull’attendibilità di tale tecnica. Alcuni studi recenti hanno mostrato che, sebbene la CRISPR-Cas9 sia molto precisa sulla locazione dei segmenti di DNA da tagliare, la naturale riparazione del DNA conseguente al taglio, essendo “generica” potrebbe portare a una riorganizzazione cromosomica rischiosa e con possibili ripercussioni negative.

Un’altra criticità è riscontrabile nella libertà individuale e nelle possibili forme di coercizione sociale tra umani modificati geneticamente e individui che, invece, preferirebbero non ricorrere alla manipolazione del proprio genoma. Al contrario di altre forme di potenziamento cognitivo,  quello tramite CRISPR-Cas9, costituisce una condizione permanente e trasmissibile alla progenie, soprattutto nel caso di intervento su stati embrionali. Questo potrebbe creare forme molto più nette e gravi di coercizione indiretta e di disparità sociale rispetto a quelle che conosciamo oggigiorno.

Inoltre, come afferma il neuroeticista Andrea Lavazza, è da tenere in considerazione che il produttivismo è una prospettiva pregnante al giorno d’oggi, dove i limiti e i fallimenti di ciascun individuo vengono svalutati e l’unico aspetto che viene ricompensato e quantificato è la performance. Questo fenomeno potrebbe spingere le persone a sottoporsi a tecniche di modifica del genoma senza valutarne coscienziosamente rischi e conseguenze.

Come considerare, invece, le scelte di un genitore che vorrebbe applicare la CRISPR-Cas9 sul proprio figlio? Le figure parentali di fatto già decidono tutto ciò che riguarda i propri figli e l’educazione impartita è essa stessa un’influenza notevole per l’espressione genica. Secondo il principio di eugenetica liberale proposto dal filosofo tedesco Habermus, le istituzioni non dovrebbero limitare o proibire la libertà di ciascun individuo di intervenire sul proprio genoma o su quello dei propri figli. Tuttavia, richiamando l’analisi di Žižek, usare la CRISPR-Cas9 per attribuire a priori determinate caratteristiche fisiche o intellettive ad un figlio porterebbe ad una concezione di umanità come prodotto manipolabile e non più come frutto di una combinazione genetica casuale, dell’educazione parentale e di fattori ambientali.

In conclusione, si può affermare che il progresso tecnologico nell’ingegneria genetica sia estremamente promettente e porti con sé la potenzialità di eliminare molte sofferenze che affliggono l’umanità. I rischi e i benefici per gli individui sono da valutare approfonditamente e in una prospettiva a lungo termine. Parallelamente ai veloci progressi della CRISPR-Cas9, risulta necessario sia coinvolgere e informare la popolazione verso tali tematiche sia avviare, con il consulto degli esperti, una regolamentazione di tali procedure da parte delle istituzioni al fine di garantire la sicurezza, l’equità sociale, evitando un uso inappropriato e potenzialmente negativo delle nuove sorprendenti tecnologie di editing genetico.

 

La terapia psicologica in oncologia. L’approccio breve strategico tra mente e malattia (2019) di Eleonora Campolmi e Lindita Prendi – Recensione del libro

La terapia psicologica in oncologia si rivela un validissimo testo all’interno del quale le autrici offrono un’attenta analisi di tutte le dimensioni messe in gioco sia dalla persona che scopre e lotta contro una neoplasia, che dai suoi familiari..

 

Il cancro rappresenta da un punto di vista sociale, l’archetipo della malattia mortale ed il tema della morte rimane sempre un tabù con il quale l’uomo fa fatica a confrontarsi. E non sono escluse le difficoltà sperimentate anche nell’ambito della psicoterapia dallo stesso professionista. Ma considerando il notevole aumento delle malattie oncologiche, in risposta alle esigenze della persona e dei suoi familiari, l’intervento dello psicologo deve riuscire ad addentarsi all’interno di tale dimensione. In tal senso La terapia psicologica in oncologia si rivela un validissimo testo all’interno del quale le autrici offrono un’attenta analisi di tutte le dimensioni messe in gioco sia per la persona che scopre e lotta contro una neoplasia, che per i suoi familiari, nelle sue diverse fasi, dalla diagnosi, alle terapie, alle possibili recidive, o peggio ancora alla morte e relativa elaborazione del lutto per i familiari.

Analizzando le principali problematiche di ordine psicologico e riscontrabili nella persona affetta da un cancro, il testo approfondisce anche le strategie fallimentari che la persona mette in atto, offrendo anche utili ed interessanti contributi sul piano operativo secondo la tradizione Breve Strategica.

Il testo inoltre, sottolinea aspetti essenziali che il professionista non deve sottovalutare nel lavoro con il paziente oncologico e con i suoi familiari ossia la relazione, la comunicazione (come, quando, quanto comunicare), la capacità di ascolto e la flessibilità mentale di riadattare il lavoro in seduta secondo le esigenze o le problematiche che possono emergere o essere più importanti di volta in volta durante l’iter.

La terapia psicologica in oncologia: le aree più colpite dalla malattia

Il primo capitolo offre un breve excursus, approfondendo anche le dimensioni più colpite in un paziente oncologico come l’immagine corporea, includendo in sé la dimensione cognitiva ed emotiva, relative a tutti i timori di ciò che accadrà al corpo o di ciò che già si sta verificando (caduta dei capelli, gonfiore per trattamenti farmacologici o deperimento) e ai vissuti di forte rabbia e paura che diventano compagni nella quotidianità del paziente, uniti al dolore e momenti di intensa disperazione. La paura fa da padrona di casa: paure che riguardano la patologia fisica; paura di decidere il trattamento o l’eventuale intervento; paura riguardante i trattamenti e i postumi; paura di andare in pezzi; paure personali ed esistenziali (sarò più come prima?); paura per i familiari e la rete sociale; queste alcune fra le paure che il paziente sperimenta di frequente.

Ed ancora reazioni depressive legate sia alla paura di un’immanente morte, ma anche legate alla perdita di un’identità che si aveva fino ad un momento prima della diagnosi.

Anche la sfera della sessualità viene intaccata e pertanto è bene approfondirla e non tralasciarla in un lavoro come questo. Le autrici infatti, ricordano come in presenza di una neoplasia la persona possa sperimentare dei disturbi sessuali, anche in questo caso alcuni di ordine organico ed anche di natura psicogena e non per forza riconducibili alla patologia. Dispareunia, ossia dolore nelle donne durante rapporto sessuale, anorgasmia sia maschile che femminile, riduzione del desiderio sessuale, questi i disturbi più frequentemente riscontrati in tale ambito e sul quale il professionista deve sapere ben informare ed intervenire. La sfera relazione comincia a presentare, nella maggioranza dei casi, un progressivo isolamento. Le autrici infatti, riferiscono che un pensiero comune del paziente in questi casi diviene ”cosa penseranno gli altri di me; se sto male; se mi vedono così; se mi chiedono qualcosa”.

Infine, e non per ordine di importanza, il sistema familiare, che andrà approfondito come sistema, aiutato e supportato a sua volta.

La terapia psicologica in oncologia: obiettivi terapeutici e strumenti di lavoro

Nel terzo e quarto capitolo le autrici trattano aspetti essenziali dell’approccio strategico in ambito oncologico e le principali strategie di intervento. Ciò che viene sottolineato è come in questo caso sia il tempo che gli obiettivi non possano essere prevedibili e programmabili a monte, ma la flessibilità diventa l’elemento essenziale a cui far ricorso per l’intero iter terapeutico, sottolineando come in questo caso l’obiettivo terapeutico non coinciderà con la guarigione, ma con il lavorare su paure, dolore, angoscia, rabbia e tutti gli aspetti associati alla malattia affinché possano essere gestiti dalla persona e non danneggino ulteriormente l’equilibrio precario della persona stessa.

Vengono inoltre esaminate le tentate soluzioni che le autrici, insieme al gruppo di lavoro del Centro di Terapia Breve Strategica, hanno individuato per i pazienti con malattie oncologiche come l’ascoltarsi continuamente, concentrandosi costantemente sul proprio fisico e sul proprio stato di salute, poiché tutto ciò che si percepisce di negativo (come stanchezza, dolori o possibili sintomi post trattamento chemioterapico) potrebbe influire negativamente sulla credenza di salute. Un’altra soluzione è scacciare i pensieri brutti: la persona prova a non fare brutti pensieri ma le proprie paure talvolta diventano vere proprie ossessioni. Un’ulteriore soluzione riguarda il parlare del problema o l’evitare di parlarne: si può infatti assistere alla tendenza della persona a condividere continuamente con familiari e conoscenti il proprio fardello, confermando involontariamente di essere una persona con una malattia o di essere solo quello. Di contro, altre persone tendono ad applicare la strategia opposta, ossia entrare in un’assoluta negazione e silenzio, ma anche in questo caso tale strategia si rivela disfunzionale in quanto la persona finisce per portare tutto il carico della malattia da solo ed anche questo è deleterio.

Sarebbe bene inoltre intervenire sull’evitamento sociale per timore del giudizio: in questo caso non capita di rado che pazienti esposti a chemioterapia e/o radioterapia possano vivere gli effetti collaterali delle stesse terapie. La propria immagine corporea messa a dura prova, infatti, spinge molti pazienti, spiegano le autrici, ad evitare gli altri per paura di essere evitati o trattati solo per pietà.

Ed ancora, bisognerebbe intervenire sulla tendenza del paziente a non accettare la situazione attuale cercando in tutti modi di vivere la condizione precedente alla malattia, atteggiamento che talvolta mette a dura prova il fisico, porta a rimuginare fino al punto che il tema della malattia e le relative paure diventano martellanti nella mente della persona.

Il lavoro dunque, verterà sul dare il giusto sfogo al dolore, alla rabbia, alla paura e per fare ciò uno degli strumenti che viene citato è quello della scrittura, strumento attraverso cui far decantare le proprie emozioni. Ma si lavorerà anche sull’eliminare tutte quelle tentate soluzioni che peggiorano la condizione del paziente.

Ma più che mai serve intervenire quando purtroppo al paziente giunge una diagnosi infausta e ci troviamo allo stadio di fine vita. Anche in questo caso il lavoro del professionista punterà a ristrutturare eventuali errate credenze circa “tanto non c’è più nulla da fare” con “si può sempre vivere fino alla fine, non nel senso di prolungare la sopravvivenza ma di dotare di significato il tempo che si ha a disposizione.”

Il quinto capitolo, curato da Francesca Luzzi, affronta la fine del viaggio e la gestione strategica del lutto, illustrando le varie fasi del lutto già individuate da Bowlby come la fase dello stordimento, la fase di struggimento, la fase di disperazione e la fase di accettazione e di riorganizzazione con accenni a tecniche e strategie terapeutiche. L’ultimo capitolo, emotivamente più toccante, riporta ritagli di casi clinici.

Un libro altamente completo da un punto di vista clinico, al contempo toccante e coinvolgente, che si rivolge agli addetti ai lavori in modo chiaro, affrontando argomenti complessi in modo apparentemente semplice e che punta alla cura della persona e non della malattia.

Se si cura una malattia, si vince o si perde; ma se si sicura una persona, vi garantisco che si vince, si vince sempre, qualunque sia l’esito della terapia.  
(Patch Adams)

 

Le adolescenti che assumono contraccettivi orali sarebbero più vulnerabili a sviluppare un Disturbo Depressivo Maggiore in età adulta

A partire dall’adolescenza, le donne hanno il doppio delle probabilità di sviluppare la depressione rispetto agli uomini. Vi sono diversi studi che evidenziano il ruolo importante degli ormoni (estrogeno, progestinico e testosterone) nel rischio di sviluppare la depressione, oltre ai fattori psicosociali e ambientali. 

 

I contraccettivi orali (OC) contengono forme sintetiche di estrogeni e/o progestinici; la loro funzione è quella di sopprimere la produzione endogena di estrogeni, progestinici e testosterone, di conseguenza gli OC possono alterare la vulnerabilità di una donna alla depressione.

I cambiamenti indotti dall’assunzione dei contraccettivi orali possono essere particolarmente pronunciati durante l’adolescenza, periodo caratterizzato da un intenso sviluppo sociale, cognitivo, riproduttivo e fisiologico. Uno studio danese ha analizzato la popolazione femminile, quasi 1 milione di donne, tra i 15-34 anni, ed ha scoperto che l’uso di contraccettivi ormonali era associato ad un numero maggiore di antidepressivi e ad una maggiore probabilità di diagnosi di depressione, soprattutto per quanto riguardava le adolescenti.

Contraccettivi orali e depressione: quando l’assunzione avviene in adolescenza

Un nuovo studio, condotto dalla University of British Columbia e pubblicato sul Journal of Child Psychology and Psychiatry, ha indagato l’associazione tra l’uso dei contraccettivi orali nelle adolescenti e lo sviluppo della depressione in età adulta.

Le partecipanti allo studio erano state reclutate attraverso il United States National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES): in questi sondaggi era possibile conoscere la loro età, la loro salute mentale ed infine la prima volta in cui avevano assunto un contraccettivo orale.

Il campione era composto da 1.236 donne, tra i 20 e 39 anni. Nello specifico, lo studio ha confrontato 3 gruppi: donne che avevano assunto contraccettivi orali in adolescenza (n=561), donne che non avevano mai fatto uso di contraccettivi orali (n=353), ed infine donne che avevano utilizzato per la prima volta i contraccettivi in età adulta (n=322). Complessivamente circa l’11% del campione (n=131) presentava una diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore, secondo il DSM 5.

Dai risultati dello studio emerge che: le donne che hanno fatto uso di contraccettivi orali in adolescenza erano 1,7 volte più inclini a sviluppare un Disturbo Depressivo Maggiore da adulte rispetto alle donne che non avevano mai fatto uso di contraccettivi o rispetto alle donne che avevano fatto uso di contraccettivi per la prima volta in età adulta.

Concludendo, dallo studio emerge un’associazione a lungo termine tra l’uso dei contraccettivi orali da parte delle ragazze adolescenti e il rischio di sviluppare depressione in età adulta, indipendentemente dall’uso attuale dei contraccettivi. Per questo è importante sottolineare che l’adolescenza è un periodo sensibile durante il quale l’assunzione di contraccettivi orali potrebbe aumentare il rischio di sviluppare un Disturbo Depressivo in futuro, anche dopo anni dalla prima assunzione.

La democrazia manipolata nell’era digitale dei social network

Una recente analisi pubblicata su Nature, di Stewart e colleghi (2019), mostra come i social network siano in grado di manipolare il flusso di informazioni e le connessioni sociali tra individui, distorcendo la loro percezione su come altri, appartenenti alla medesima comunità elettorale, voteranno, alterando di conseguenza l’esito elettorale.

 

Le democrazie, ovvero quelle forme di governo che garantiscono a tutti gli individui la partecipazione in piena uguaglianza a qualsivoglia processo decisionale, richiedono un elemento imprescindibile: la “corretta” informazione di coloro che si apprestano a prendere una decisione (Bergstrom et Bak-Coleman, 2019).

I giornali, i programmi televisivi di confronto e dibattito, le radio, fin dalla loro nascita, hanno rappresentato i principali veicoli di diffusione dell’informazione, il modo più diretto e rapido a disposizione per persuadere e convincere le comunità elettorali o più in generale gli individui.

Tuttavia da qualche decennio questi hanno subito un rapido oscuramento da parte dei social network che si sono imposti con forza come canali informatici principali e preferenziali per la maggior parte degli individui di tutto il mondo, sostituendo qualsiasi tipo di conversazione e confronto su carta o broadcast.

Al contrario dei precedenti, essi consentono in tempo reale e con un click di interagire e condividere opinioni comuni con tutto il mondo, dal momento che hanno la ineguagliabile capacità di abbattere virtualmente ogni confine geografico; allo stesso tempo però, tramite gli algoritmi che li costituiscono e i dati che maggiormente condividiamo, sono in grado di realizzare una nostra profilatura digitale, incrementando quel fenomeno definito di “personalizzazione” dell’informazione (Bergstrom et Bak-Coleman, 2019).

Social network e personalizzazione dell’informazione

Facebook, Twitter, Instagram, Google, per citarne alcuni, raccogliendo dati sulle nostre abitudini, le nostre preferenze nella scelta dei siti internet, dei blog e dei profili, sui nostri acquisti più recenti o sulle nostre “wish list” di vita, sono in grado di prevedere la prossima cosa che cercheremo, il prossimo capo che indosseremo, se si utilizzano siti di e-commerce, le persone che ci piacerebbe frequentare con i siti d’incontro, le informazioni che siamo soliti condividere e la prossima notizia su cui vorremmo essere informati, filtrando e selezionando al posto nostro tutto ciò che con più alta probabilità è per noi di maggior interesse e ciò che al contempo vogliamo trascurare.

Questa nostra costante profilatura e personalizzazione “su misura” delle informazioni che riceviamo da parte dei social inevitabilmente sta influenzando le nostre decisioni e i nostri comportamenti in un modo tale che, a parere di Eric Schmidt, CEO di Google, a breve si arriverà a delegare a internet anche scelte di vita importanti, arrivando a chiedergli cosa potrebbe essere meglio per noi.

A parere di Pariser (2011), questi fenomeni hanno ridefinito per ognuno l’intero bacino di informazioni alle quali accedere creando intorno a noi delle “bolle” invisibili che sottilmente distorcono il modo in cui ci approcciamo alle notizie e al loro contenuto.

Queste “bolle” rinforzano alcune idee, spesso di natura politica, in alcune circostanze le estremizzano e le polarizzano dando adito a commenti populistici, riducendo inoltre la possibilità per le persone di confrontarsi con altri pareri discordanti e di aggiornare e ampliare le loro connessioni sociali in quanto le porta a gravitare intorno ad altri che possiedono opinioni ideologiche e pensieri affini (Pariser, 2011).

Alexander Stewart del dipartimento di biochimica e biologia dell’Università di Houston, insieme ai colleghi della Sloan School of Management del MIT e dell’Enviromental Change Institute dell’Università di Oxford, ha descritto un modello computazionale per descrivere come la struttura delle connessioni sociali e il flusso di informazioni all’interno di un gruppo possano essere influenzate dai social network modificando di conseguenza il comportamento e i processi decisionali collettivi degli individui che costituiscono il gruppo stesso (Stewart, Mosleh, Diakonova et al., 2019).

Processi decisionali: un esperimento sull’esercizio del voto

La massima espressione del processo di decisione collettiva risiede nell’esercizio del voto, pertanto gli autori hanno sviluppato una situazione sperimentale, basata su un gioco, per la quale due gruppi, appartenenti a differenti schieramenti (viola vs giallo), si sono trovati a dover prendere una decisione e votare per risolvere un contenzioso ed evitare così un blocco politico.

Le regole del gioco sperimentale prevedevano che ogni singolo individuo, assegnato ad un “partito”, fosse incentivato da una parte a prendere una decisione e a votare in linea con la propria preferenza e dall’altra a coordinare il proprio voto con l’intero suo gruppo prendendo in considerazione le intenzioni di voto degli altri; il tutto affinché vi fosse il più possibile un consenso e una maggioranza e non si sfociasse nell’inattività.

Alla fine del gioco, ogni giocatore avrebbe infatti ricevuto il massimo guadagno qualora il proprio partito avesse ricevuto una maggioranza significativa – i voti per quel partito avrebbero dovuto superare una soglia stabilita per ottenere la maggioranza – un guadagno minore qualora l’altro partito avesse ricevuto la maggioranza e nessun tipo di ricompensa nel caso in cui entrambi i partiti avessero fallito nell’ottenere la maggioranza.

Nel modello sviluppato da Stewart e colleghi, ogni giocatore, nel decidere come votare, sarebbe dovuto arrivare ad un compromesso tra la propria preferenza e la linea decisionale adottata dal “partito” integrando le proprie intenzioni di voto, continuamente aggiornate lungo tutto il tempo di gioco, la preferenza di partito e il desiderio auspicabile di non raggiungere l’inattività con le notizie sociali provenienti dagli altri giocatori.

Secondo il modello di Stewart, ogni giocatore, per il suo processo decisionale, poteva essere influenzato in modo predominante dai membri del proprio partito, dai membri dell’opposto partito oppure oscillare tra le due posizioni politiche; fintanto che l’influenza tra i membri di uno stesso partito fosse risultata uniforme, nessuno schieramento avrebbe potuto orientare la scelta di voto dell’altro.

Al contrario, una manipolazione della struttura di diffusione del flusso di informazioni all’interno di un partito avrebbe alterato la distribuzione dell’influenza, rendendola asimmetrica in una maniera tale per cui la maggioranza dei giocatori sarebbe stata primariamente influenzata dall’opinione dei membri del proprio partito senza che vi fosse una modifica nell’influenza tra membri e un cambiamento nel numero di connessioni tra i soggetti all’interno del gruppo.

Nello studio preso in considerazione (Stewart, Mosleh, Diakonova et al., 2019) la manipolazione è stata realizzata tramite l’inserimento all’interno di un “partito” di un individuo estremista che avrebbe in ogni caso votato tenendo in considerazione esclusivamente la sua opinione personale.

L’estremista ha fatto sì che le persone traessero dagli altri delle conclusioni fuorvianti circa le preferenze politiche del proprio partito e che vi fosse un profondo contagio di parte degli indecisi, determinando di conseguenza un dirottamento di voti verso il partito opposto.

In questa condizione di manipolazione, ad esempio è molto più probabile che alcuni componenti “estremisti” del partito viola abbiano strategicamente influenzato i membri del partito giallo, mentre quest’ultimi sperperano la loro influenza o su persone del loro stesso partito che già condividono la loro idea, o peggio su membri del partito viola che avevano un numero tale di connessioni con altri membri del loro partito da non lasciarsi persuadere.

In questo modo, la maggior parte dei partecipanti al gioco ha inferito erroneamente che il partito opposto al loro avesse ottenuto la maggioranza e di conseguenza, per ricevere comunque una  ricompensa ed evitare così la situazione di “stallo politico” ha deciso di votare per il partito opposto.

Dalle evidenze ottenute, appare evidente che, per la manipolazione dell’informazione, l’elemento determinante non sia stato come gli elettori fossero concentrati all’interno di un gruppo ma come le connessioni sociali fossero distribuite tra di loro (Bergstrom et Bak-Coleman, 2019).

Le implicazioni dello studio di Stewart e colleghi sono molteplici: prima fra tutte il fatto di aver svelato i meccanismi sottili e inconsapevoli sottostanti i processi di decision-making collettivo, ma soprattutto di aver portato all’attenzione della comunità il rischio di probabili manipolazioni digitali da parte dei social network che più di altri (giornali o palinsesti televisivi) sono in grado di alterare le connessioni sociali tra gli individui e i flussi di informazione tramite sistemi di feedback tra algoritmi e persone.

Gli algoritmi infatti realizzano delle previsioni e suggeriscono delle connessioni con commenti, persone o opinioni anche estremiste, le persone che li utilizzano rispondono a queste dando origine ad un circolo vizioso che andrebbe ad alterare il modo in cui queste ultime ricevono le informazioni, modificandone la prospettiva sugli eventi e le opinioni.

Attualmente i social network non sono soggetti a specifici requisiti di trasparenza o ad una chiara supervisione legislativa.

A questo punto vale la pena di riflettere se non sia il caso di prendere nota.

 

The Role of “The Classics” in the Present and Future of Psychology – Report dal IV Congresso Internazionale della REBT

Dal 13 al 15 settembre  in Romania si è svolto il quarto congresso internazionale della REBT (Rational Emotive Behavior Therapy) intitolato The Role of “The Classics” in the Present and Future of Psychology. Duecento partecipanti, un po’ come avveniva in certi congressi di una volta in cui ci si conosceva tutti. Il vantaggio? La possibilità di uno scambio reale tra tutti i presenti.. 

 

REBT: dall’osmosi con la CBT ai principali punti di forza

Dal 13 al 15 settembre a Cluj Napoca in Romania si è svolto il quarto congresso internazionale della REBT (Rational Emotive Behavior Therapy) intitolato The Role of “The Classics” in the Present and Future of Psychology

La REBT è la forma primigenia di terapia cognitiva e in qualche modo condivide con la cognitive behavioural therapy (CBT) di Beck e Clark la definizione di forma standard di terapia cognitiva. Il che è in parte vero se non altro perché la REBT ha affermato per prima il principio del primato della mediazione cognitiva come chiave di esplicazione degli stati mentali, sia emozionali che sintomatologici. D’altro canto però la REBT non ha mai prodotto i rigorosi studi di efficacia specifici per diagnosi psichiatrica che hanno fatto la fortuna mondana della CBT di Beck e Clark. Questo è il suo svantaggio. In questo senso potremo sospettare la REBT gode dello status di terapia cognitiva standard e di provata efficacia per una sorta di osmosi con la CBT. È una condizione un po’ parassitaria di cui godono anche molte altre terapie cognitive le quali peraltro non hanno i meriti storici della REBT.

La REBT però ha anche i suoi punti di forza. Mentre il congresso internazionale CBT di Berlino di luglio è stato una kermesse faraonica con migliaia di partecipanti, alla REBT invece si era in duecento, un po’ come avveniva in certi congressi di una volta in cui ci si conosceva tutti. Il vantaggio è la possibilità di uno scambio reale tra tutti, mentre invece al congresso faraonico si finisce per chiudersi nella bolla dei simposi e dei workshop che interessano al singolo. Un altro vantaggio è la minore dispersione: al congresso CBT, accanto alla uniforme rigorosità scientifica del mainstream, tutto declinato secondo il modello CBT britannico della triade di Oxford (Clark, Salkovskis e Fairburn) delle presentazioni, vi è un’eccessiva varietà del retroterra formativo, nel quale ormai confluisce di tutto, compresi percorsi costruttivisti o integrati lontanissimi dalla CBT. Al congresso REBT invece tutti condividono un percorso formativo comune e questo facilita la discussione clinica e tecnica.

Tuttavia il principale punto di forza della REBT è un altro: il suo principio di funzionamento ha le sue caratteristiche specifiche e differenti dalla CBT che in qualche modo hanno anticipato alcuni sviluppi recenti della terapia cognitiva. Il primato dell’informazione nella REBT è declinato secondo principi che sono in gran parte processuali e metacognitivi e non di contenuto come nella CBT: mentre nella CBT si gestisce lo stato emotivo disfunzionale ragionando in che misura un certo rischio è reale, nella REBT si mette in discussione l’intollerabilità e la non accettazione (denominata “demand”, pretesa, o “should”, doverizzazione) di uno scenario negativo. Si lavora non su una previsione ma su una valutazione di uno stato emotivo, e quindi metaemotivamente se non proprio metacognitivamente.

The Role of “The Classics” in the Present and Future of Psychology – La parola agli esperti

Su questa possibilità di sviluppo futuro si gioca il destino della REBT e su di essa ha giocato nella plenaria introduttiva Daniel David, organizzatore del congresso e professore all’Università di Cluj Napoca, sviluppando queste analogie tra REBT e modelli processuali di terza onda. David tuttavia lancia un ponte anche verso certi sviluppi costruttivisti che guardano all’elaborazione cognitiva tacita e implicita e che in qualche modo si sono avvicinati al modello psicodinamico. Mi chiedo però se David comprenda che le due strade sono alternative non compatibili tra loro. Il processualismo si concentra su funzioni mentali esecutive sottoposte a controllo volontario e cosciente, il costruttivismo privilegia i processi impliciti, inconsci e non esecutivi.

Un discorso analogo, ma più clinico, a quello di David è stato proposto da Raymond DiGiuseppe –attuale direttore didattico dell’Ellis Institute di New York e professore alla St. John University- nella sua plenaria dedicata alle caratteristiche cliniche della REBT.

Nella stessa giornata abbiamo assistito a una dimostrazione clinica, in cui Kristene Doyle ha impersonato una terapeuta REBT mentre Arthur Freeman ha impersonato un terapeuta CBT e una studentessa romena, Tania, ha impersonato una paziente in stato depressivo per la morte di un suo caro amico. La dimostrazione ha dimostrato plasticamente la differenza tra i due orientamenti, con la REBT avvantaggiata nell’ispirare tolleranza e accettazione degli aspetti negativi della vita e la CBT più adatta a indebolire il distorto giudizio negativo che la paziente dava di sé a partire da circostanze esterne.

La giornata di sabato ha confermato questa convergenza tra REBT e processualismo con altre due plenarie, quella di Douglas Mennin della Columbia University che ha esposto il suo modello processualista, la Emotion Regulation Therapy, sottolineandone le analogie con la REBT, e quella di Steven Jay Lynn, il quale investigando le molte mancanze delle nostre conoscenze sulla psicoterapia ha giustamente concluso che il futuro sviluppo di questa disciplina dovrà sempre più privilegiare l’esplorazione dei processi.

Durante il congresso erano molti i simposi che affrontavano i problemi transculturali di applicazione della REBT in paesi del Sudamerica e dell’Europa orientale dove sono presenti degli Istituti REBT, come il Perù, l’Argentina, la Romania e la Turchia. I problemi principali sembrano essere il cozzo tra la promozione dell’autonomia relazionale facilitata dalla REBT e i residui patriarcali e tradizionalisti di queste società in cui il controllo sociale prevale sull’autonomia individuale. Un altro limite è la difficoltà di diffondere la possibilità di incrementare il senso di agency e mastery per mezzo della disputa REBT in culture che sembrano invece privilegiare l’insormontabilità degli stati emotivi, un problema che per la verità sembra riguardare anche l’Italia e che, forse, riguarda più i terapisti che i pazienti.

Domenica infine c’è stata la giornata di chiusura con le presentazioni di Arthur Freeman e di Irving Kirsch. Freeman è stato molto evocativo e coinvolgente, descrivendo lo sviluppo della REBT dai tempi di Albert Ellis al presente e incoraggiando gli sviluppi futuri mentre Kirsch ha esplorato l’effetto placebo degli psicofarmaci rivelandoci che esso è molto più ampio di quanto pensassimo. Le conseguenze di una simile riflessione sono per la psicoterapia al tempo stesso incoraggianti e scoraggianti. Incoraggianti perché confermano che anche negli psicofarmaci l’effetto è più psicologico che chimico, il che consola noi psicoterapeuti. Tuttavia un simile risultato né deve consolarci troppo perché il processo psicologico del placebo risulta essere troppo vago per essere interpretato come un dato a favore della forza dei processi psicologici, in qualche modo vicini alla classe dei cosiddetti fattori comuni. Non possiamo accontentarci di un simile effetto così generico. La psicoterapia si svilupperà man mano che comprenderemo la sua specificità d’azione che non può risolversi in un vago incoraggiamento delle aspettative e delle speranze del paziente, come fa appunto l’effetto placebo.

 

La REBT in Italia: le slides dell’intervento di Giovanni M. Ruggiero

 

Genderqueer: indicazioni cliniche per il colloquio oltre al binarismo di genere

Una persona, che non si sente né maschio né femmina o che si sente entrambi, può arrivare ad un colloquio psicologico per l’eventuale disagio connesso alla propria identità di genere o per altre motivazioni, ma purtroppo la maggior parte degli psicologi ignora le tematiche “transgender and gender nonconforming” (TGNC). 

Greta Riboli – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Perché si possa lavorare meglio con clienti non-binary, Chang e colleghi (Chang, Singh & Rossman, 2017) suggeriscono ai professionisti della salute di sviluppare tre componenti: consapevolezza, conoscenze e competenze.

Lo scopo di questo articolo è dunque quello di aumentare le conoscenze dei clinici rispetto a tematiche legate al TGNC e in particolare al genere non binario (non-binary), al vocabolario ad esso connesso e ai rischi clinici a cui queste persone sono maggiormente esposte. Si intende, inoltre, lasciare spazio a indicazioni utili per la consulenza psicologica destinata a persone non-binary.

Identità sessuale: sesso, ruolo, genere

L’identità sessuale è la percezione che le persone hanno di sé come individui sessuati. È un costrutto multidimensionale composto da sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale e orientamento affettivo.

Il sesso biologico include caratteristiche biologiche (determinate da ormoni, caratteristiche sessuali secondarie e cromosomi). I bambini possono nascere maschi, femmine o intersessuali.

Il ruolo di genere è l’esternalizzazione della propria identità di genere (modo di vestire e atteggiarsi), come costrutto socioculturale.

Solitamente l’identità di genere, definita come il senso interno e privato del genere esperito, viene dato per scontato sia coerente al sesso biologico (cisgender). Così i neonati, spesso, nascono in un ambiente che li tratta in modo socialmente aderente alla percezione del sesso biologico, parlando loro al maschile o femminile, dando loro un nome maschile o femminile, insegnando loro ad entrare nel bagno dei maschi piuttosto che delle femmine e talvolta vestendoli o insegnando loro come comportarsi in base alle norme sociali di genere che si sono strutturate nel tempo. Eppure, non è un dato scontato che l’identità di genere sia cisgender, essa potrebbe, ad esempio, essere anche transgender binary o non-binary.

L’orientamento sessuale, infine, è un’ulteriore componente dell’identità sessuale e si riferisce all’attrazione affettivo-sessuale di una persona nei confronti di un’altra. Gli orientamenti sessuali sono diversi e sono ad oggi considerati come normali varianti della sessualità, tra i più conosciuti troviamo l’orientamento eterosessuale, omosessuale e bisessuale.

Genderqueer: non-binary identity

A livello sociale ci sono diverse comunità che, nell’arco della storia, hanno abbracciato identità di genere non binarie: un esempio sono i gruppi indigeni degli attuali Stati Uniti d’America che riconoscono una “two-spirit identity” in coloro che sono sia maschili sia femminili (Robinson, 2017), oppure i Chuckchi in Siberia, i Bakla nelle Filippine, i Hijra in India e i Quariwarmi in Perù (Stryker, 2008).

L’APA considera le identità transgendernonconforming (TGNC) come una normale parte della diversità umana, anziché come aspetti da patologizzare (APA, 2015; Singh & dickey, 2017), eppure, le identità non binarie sono considerate non valide o inesistenti (Chang et al., 2017). La maggior parte delle persone, infatti, è convinta del fatto che i generi siano due, maschile e femminile, e che siano collegati al sesso biologico. Questo è il binarismo di genere. In questi anni sorge invece la necessità di andare oltre al binarismo, includendo nuove categorie di genere.

Il significato di identità di genere non binaria non è stato ancora ben indagato. Emmie Matsuno, dell’Università della California – Santa Barbara (USA), sta effettuando diversi studi relativi al tema dell’identità di genere non binaria e attualmente in letteratura troviamo come il termine “non-binary identity” si riferisca a diversi gruppi di persone, tra cui: individui la cui identità di genere non è rispecchiata né da quella femminile né da quella maschile, individui che esperiscono un’identità talvolta maschile talvolta femminile e individui che non esperiscono l’appartenenza ad un genere o che si rifiutano di avere un’identità di genere precisa.

Solitamente l’espressione “gender fluid” viene usata per persone che possono sentirsi uomini o donne in diversi momenti: questo significa che in alcuni giorni la persona assumerà il ruolo di genere maschile o femminile in modo alternato, arrivando talvolta a definire se stesso con pronomi maschili o femminili a seconda del genere esperito. I termini che rientrano sotto all’ombrello “gender fluid” sono in realtà molteplici, tra i più comuni si ritrovano “agender”, “nogender” “neutrois”, “bigender”, “intergender”, fino ad arrivare al più classico “non-binary”.

A dimostrazione del fatto anche l’identità di genere, così come l’orientamento sessuale (Diamond, 2008), possono fluttuare e modificarsi nel tempo (talvolta a fronte di una maggiore consapevolezza), non è raro il fenomeno che vede persone, inizialmente identificatesi come uomini o donne transgender, identificarsi successivamente come non-binary (Galupo, Pulice-Farrow & Ramirez, 2017). La comprensione che le persone maturano del proprio genere è complessa, può variare nel tempo e può includere infinite possibilità oltre al maschile e femminile (APA, 2015).

Allo scopo di aumentare le conoscenze relative alle persone dal genere non binario, si ritiene opportuno presentare una serie di giudizi erronei che psicologi e psicoterapeuti potrebbero avere rispetto al genere:

  • tutti sono cisgender, ovvero l’identità di genere di chiunque corrisponde al suo sesso biologico (es. un maschio è un uomo e si sente tale);
  • esistono per natura solo due generi (maschile e femminile), determinati dall’anatomia;
  • è possibile intuire qual è il genere di una persona in base all’apparenza con la quale si mostra agli altri;
  • tutte le persone transessuali desiderano transitare binariamente da un genere all’altro;
  • le persone con identità non binaria sono in realtà persone con orientamento omosessuale;
  • essere non-binary fa parte di un fenomeno di moda o di un capriccio.

Tutti questi giudizi possono portare il clinico alla gestione di un trattamento psicologico inappropriato (Chang et al., 2017).

Rischi per la salute delle persone non binary

Gli studi scientifici condotti sulle persone con genere non binario non sono molti. Tuttavia, la letteratura sottolinea comunque l’esistenza di un forte rischio per questi soggetti di sviluppare un disagio psichico (sintomatologia ansiosa e depressiva). La letteratura mostra, inoltre, come questi rischi siano più alti dei rischi delle persone transgender binarie medicalizzate (coloro che transizionano ad esempio, dal genere femminile a quello maschile – FTM (o viceversa – MTF) (Budge, Rossman & Howard, 2014; James, Herman, Rankin, Keisling, Mottet & Anafi, 2016).

Lo studio con il campione più ampio ad oggi condotto ha mostrato come, su 27.715 adulti americani, il 49% delle persone con genere non binario ha riportato distress psicologico, rispetto al 35% delle persone transgender binarie e rispetto al 5% della popolazione cisgender (persone il cui genere è coerente rispetto al proprio sesso biologico). Gli individui non-binary, inoltre, riportano più alti tassi di discriminazione e di molestie rispetto a persone transgender binary (Harrison, Grant & Herman, 2012) e anche un rischio suicidario molto più elevato rispetto ai soggetti con genere binario e dieci volte più alto rispetto alla popolazione generale (Harrison et al., 2012).

L’alto rischio di sviluppare un disturbo mentale sarebbe dovuto a “minority stress”, quali lo stigma sociale, le esperienze di violenza, le molestie e il rifiuto (Harrison et al., 2012; Hendricks & Testa, 2012). Stressor esterni o distali influenzano lo sviluppo di pensieri negativi rispetto alla propria identità (transnegatività interiorizzata), aspettative di rifiuto da parte degli altri e occultamento agli occhi altrui della propria identità (Testa, Habarth, Peta, Balsam & Bockting, 2015).

Indicazioni cliniche per la presa in carico di persone non-binary

Dall’analisi della letteratura emerge un basso livello di conoscenze dei clinici rispetto alle tematiche legate all’identità di genere non binaria e una scarsa presenza indicazioni cliniche per condurre un colloquio psicologico con questo tipo di pazienti. Il rischio è che si generalizzi la categoria transgender a tutti i soggetti con identità di genere non coerente al proprio sesso biologico, dando per scontato che, ad esempio, qualsiasi maschio che non si senta uomo sia transgender binario e tendente dunque al genere femminile (MTF).

Genderqueer: assunti di base

Nella pratica clinica, all’interno di un percorso affermativo, sarebbe buona norma essere al corrente di alcune caratteristiche dei soggetti genderqueer. I pazienti genderqueer non desiderano necessariamente intraprendere un percorso di transizione medicalizzato per modificare le proprie caratteristiche sessuali secondarie rendendole coerenti con la propria identità di genere. Nonostante ciò, alcuni di essi, desiderano intraprendere trattamenti medici (assunzione di ormoni o interventi chirurgici) per sentirsi più in armonia col proprio corpo (Alexander, Orovecz, Salkas, Stahl & Budge, 2016). Coloro i quali non desiderano intraprendere un percorso di natura medica, rispetto alla controparte binaria medicalizzata, corrono minor rischi connessi alla salute fisica.

Un altro aspetto importate riguarda le diverse forme di stigma che possono subire le persone genderqueer rispetto alle persone transgender binarie: infatti, non esiste un linguaggio specifico per riferirsi ad essi, i negozi di vestiti sono dedicati unicamente al genere maschile o femminile e così via. Essi spesso hanno la sensazione che la società non abbia ritagliato nemmeno un piccolo angolo dedicato al loro riconoscimento. Gli individui con genere non binario vivono una forte discriminazione, come anche i soggetti con orientamento bisessuale, da parte non solo della comunità cisgender, ma dalla comunità transessuale stessa, la quale non li ritiene “abbastanza transessuali” (Ross, Dobinson & Eady, 2010). Solitamente si pensa che le persone non binarie siano confuse rispetto alla propria identità di genere o che stiano attraversando una fase destinata a concludersi con una scelta in favore del genere maschile o femminile (Singh & Burnes, 2009).

Alcune indicazioni per i clinici, per evitare che siano sempre gli eventuali pazienti genderqueer a doverci istruire, sono le seguenti: il clinico potrebbe accorgersi di trovarsi innanzi ad una persona non binaria, quando questa tronca le parole (es. bello o bella divengono bell*), oppure quando si sforza di produrre frasi in cui al posto del pronome si inserisce sempre un nome, oppure varia i pronomi ed usa desinenze diverse a seconda del proprio genere percepito. Allo stesso tempo, sarebbe opportuno non dare per scontata l’identità di genere di qualcuno in base all’uso di pronomi, nomi e desinenze: la persona potrebbe declinarli in base al sesso biologico per comodità o, più spesso, per non trovarsi in situazioni di “coming out” e di conseguenza dover dare spiegazioni.

È importante incoraggiare i propri clienti ad auto-definire il proprio genere, accompagnandoli verso una maggiore comprensione della propria autentica identità, ed evitare di dar per scontata l’identità di genere. A questo proposito, qualora ci fosse della testistica da compilare, si potrebbe aggiungere alla casella del “genere” (anziché del “sesso”) la possibilità di trovare spazio per definire se stessi. Questo può essere percepito dal cliente come una conoscenza del clinico relativa a queste tematiche, aumentando l’alleanza e diminuendo l’eventuale difficoltà sperimentata dal paziente nel fare coming-out nel corso delle sedute.

Per ampliare le proprie conoscenze, si consiglia la lettura del seguente manuale: The Gender Quest Workbook: A Guide for Teens and Young Adults Exploring Gender Identity (Testa, Coolhart & Peta, 2018).

Genderqueer: la presa in carico

Riprendendo le indicazioni di Chang e colleghi, in seguito ad una maggiore conoscenza del fenomeno, si dedicherà quest’ultima parte alle terapie affermative e, più in generale, alla presa in carico di clienti non-binary (Chang et al., 2017).

Come già accennato, in primo luogo si deve evitare che siano i pazienti stessi a dover istruire il proprio clinico rispetto alle tematiche di genere. Esistono molteplici siti che affrontano queste tematiche ed è importante che gli psicologici si aggiornino rispetto alla terminologia e ai nuovi concetti nascenti, per poter interagire al meglio soprattutto con clienti adolescenti. Non facendosi cogliere impreparato, il clinico può chiedere all’inizio del colloquio il nome, i pronomi e le desinenze che la persona preferisce usare per parlare di sé, servendosene poi nei colloqui e nelle eventuali note scritte-homework da condividere con il paziente (Singh & dickey, 2017). Può essere d’aiuto, inoltre, usare un linguaggio neutro, privo di “signora/signore”, “lei/lui”. Un esempio è quello fornito da Matsuno (2017): “c’è una persona con una camicia rossa che l’aspetta in sala d’attesa” anziché “c’è una donna che l’aspetta in sala d’attesa”.

Durante i primi colloqui è compito del clinico concettualizzare il caso, cogliendo quanto lo stigma sociale e il binarismo impattino sulla salute del cliente, quanto gli stressor minoritari abbiano contribuito allo svilupparsi dell’eventuale sintomatologia presentata (es. sintomi ansiosi) ed indagando l’eventuale disforia legata alla propria anatomia. Inoltre è importante non dare per scontato che i sintomi siano necessariamente connessi al genere esperito dalla persona, solo perché nella percezione del clinico presentarsi con un genere non binario sia inusuale. Fondamentale è supportare il paziente nell’elaborazione dello stigma internalizzato: essendo nato e cresciuto in un ambiente prettamente binario, molto probabilmente avrà la sensazione di essere lui stesso “sbagliato”. I clinici possono aiutare i propri clienti in questo processo attraverso la psicoeducazione, validando gli effetti negativi che tale stigma può avere sulla persona. Attraverso l’uso di tecniche della terapia cognitivo-comportamentale (CBT), si può aiutare il paziente a lavorare sui propri pensieri disfunzionali connessi alla transessualità (es. “non piacerò a nessuno perché sono non-binary”, “nessuno mi amerà mai perché sono non-binary”) (Austin & Craig, 2015). Infine, il clinico può condividere materiale che promuove messaggi positivi relativi alle non-binary identities: serie tv, film, libri, blog, etc.

Essere continuamente scambiati per membri appartenenti ad un genere in cui non ci si riconosce è un forte stress, anche a causa della paura di rifiuti, molestie o violenze. Il paziente dovrà quindi essere accompagnato e sostenuto dal clinico verso la scelta di un consapevole coming-out o meno: è bene discutere con il proprio cliente rispetto ai vantaggi e ai rischi di una disclosure piuttosto che di una nondisclosure, in diversi contesti (famiglia, colleghi, compagni, partner). Non essendoci una scelta giusta o sbagliata, è importante che il paziente decida ciò che ritiene sia meglio per sé. Detto ciò, lo psicologo può aiutare il cliente ad individuare le possibili strategie di coping, qualora vi fossero effettive risposte negative.

Il clinico può dedicarsi a interventi sociali (nelle scuole, ad esempio) per la diffusione di informazioni relative all’identità di genere, con lo scopo di prevenire discriminazioni e atti di bullismo a matrice transfobica.

Infine, psicologi e psicoterapeuti non devono dimenticare i genitori di questi clienti, i quali spesso necessitano di una psicoeducazione o di un effettivo supporto psicologico. Un intervento familiare può aumentare le possibilità di accettazione e di benessere della persona transessuale (binaria o non) (Coolhart & Shipman, 2017) e diminuire le probabilità che venga agito un atto suicidario. Quest’ultimo aspetto viene sottolineato da uno studio del 2012, in cui i tassi di tentato suicidio della popolazione presa i esame erano il 57% per i giovani transgender rifiutati in famiglia e solo il 4% per i giovani transgender accettati in famiglia (Travers, Bauer, Pyne & Bradley, 2012).

 

Verso la personalizzazione della Robotica: i Robot Socialmente Interattivi (SAR)

Stiamo procedendo verso una “personalizzazione” dei Robot, ovvero umanoidi capaci di sostenerci su campi disparati. Il dott. Claudio Lombardo, in questo articolo, ci spiega le funzioni e le tipologie dei Robot Socialmente Interattivi (SAR): da quelli che esprimono le emozioni e sono dotati di diversi sensori per rilevare diversi tipi di tocco determinando l’“abbracciabilità”; ad altri in grado di promuovere l’esercizio fisico e cognitivo ed ancora altri usati come pet therapy nelle case di cura.

 

Una comunicazione efficace tra persone e robot interattivi avrebbe un vantaggio se, persone e robot, avessero un terreno comune di comprensione. (Kiesler, 2005).

La robotica di servizio e la robotica di assistenza includono un ampio spettro di settori applicativi, come ad esempio assistenti d’ufficio, ausili per la mobilità autonoma e robot didattici. Questa vasta area integra la ricerca di base HRI (‘Interazione Uomo-Robot’) con i domini del mondo reale, ovvero in chi ha richiesto qualche servizio o funzione di assistenza.

Lo studio dei robot sociali (o Robot Socialmente Interattivi – SAR) si concentra sulla interazione sociale (Fong et al., 2003) e quindi è un sottoinsieme proprio di problemi studiati sotto l’HRI.

I SAR sono una forma emergente di tecnologia assistita che comprende tutti i sistemi robotici in grado di fornire assistenza all’utente attraverso l’interazione sociale (Feil-Seifer e Mataric, 2005 ; Broekens et al., 2009 ; Flandorfer, 2012).

La ricerca sulla robotica di assistenza comprende i robot riabilitativi; i robot su sedia a rotelle e altri aiutanti di mobilità; robot da compagnia; bracci manipolatori per disabili fisici e robot educativi.

Questi robot sono destinati ad essere utilizzati in una vasta gamma di ambienti tra cui scuole, ospedali e case.

Il robot socialmente interattivo scaturisce da un corpo grande e crescente di domini adeguati all’assistenza robot che coinvolge l’aspetto sociale anziché l’interazione fisica (Lord et al., 2001; Taub et al., 2006; Wolf et al., 2005).

Nella letteratura sono state utilizzate diverse definizioni di robot sociali o di concetti correlati, compresi quelli che seguono:

  1. Robot socialmente evocativi. I Robot che si basano sulla tendenza umana all’antropomorfismo (la nostra tendenza vederli provvisti di facoltà umane) “capitalizzano” sui sentimenti evocati, soprattutto quando gli esseri umani vengono coinvolti dalla loro “creazione” (Breazeal 2002, 2003 ).
  2. Robot Socialmente situati. I Robot che sono circondati da un ambiente sociale che percepiscono e reagiscono. I robot socialmente situati sono in grado di distinguere tra altri agenti sociali e vari oggetti dell’ambiente (Fong et al., 2003).
  3. Robot socievoli. I Robot che interagiscono proattivamente con gli esseri umani al fine di soddisfare scopi sociali “interni” (drive, emozioni, ecc.). Questi robot richiedono modelli profondi di cognizione sociale (Breazeal, 2002, 2003).
  4. Robot socialmente intelligenti. Sono i robot che mostrano aspetti dell’intelligenza sociale in “stile” umano, basati su possibili modelli profondi di cognizione umana e competenza sociale (Dautenhahn, 1998).

I robot socialmente interattivi presentano le seguenti caratteristiche: esprimono e/o percepiscono le emozioni; comunicano con un dialogo di alto livello; apprendono modelli o riconoscono altri agenti; stabiliscono e/o mantengono relazioni sociali; utilizzano segnali naturali (lo sguardo, i gesti, ecc.); mostrano un carattere distintivo e possono imparare e/o sviluppare competenze sociali.

Verso una personalizzazione dei Robot

La nozione di robot sociale e il grado associato di intelligenza sociale robotica è diverso e dipende dalla particolare enfasi della ricerca. In robotica di riabilitazione, osservando i progressi dell’utente, i robot forniscono incoraggiamento personalizzato e orientamento. Altri progetti di riabilitazione hanno esplorato utilizzando un robot come mezzo per motivare la riabilitazione attraverso la reciproca narrazione (Lathan et al., 2001; Plaisant 2000).

Funzione dei SAR

Una varietà di sistemi di robotica di assistenza è stata studiata per l’utilizzo da parte degli anziani. Tali robot sono destinati ad essere utilizzati in casa, in strutture di residenza assistita, in ambienti ospedalieri. Essi lavorano per automatizzare alcune attività fisiche che una persona anziana potrebbe non essere in grado di fare, tra cui l’alimentazione (Kawamura, 1995), lavarsi i denti (Topping, Smith, 1999), entrare e uscire dal letto, salire e scendere di una sedia a rotelle, e la regolazione di un letto per un massimo comfort (Jung et al., 2005). In alcuni casi, i robot vengono immaginati come parte di un sistema ubiquitous computing (Jung et al., 2005), che combina telecamere e altri sensori nell’ambiente e apparecchi controllati da computer (quali interruttori, porte e TV) (Baltus et al., 2005). In altri, i SAR devono promuovere l’esercizio fisico e cognitivo (Tapus et al., 2008). In altri casi sono stati usati come robot da compagnia nelle aree pubbliche di case di cura, volti ad aumentare la socializzazione residente. Un esempio è l’“abbracciabilità”, un robot dotato di diversi sensori per rilevare diversi tipi di tocco (Stone, DeCarlo, 2003); Huggabl, ad esempio, è un finto robot munito di diversi sensori per rilevare di differenti tipi di contatto (Dan Stiehl et al., 2006) o Nursebot, un robot utilizzato per guidare gli utenti intorno ad una casa di cura (Montemerlo et al., 2002). Paro (Wada, 2002; Wada et al., 2005) è un robot che si comporta in risposta al tatto e il suono. Il suo obiettivo è quello di fornire i benefici del pet therapy assistita, che possono avere un effetto sulla qualità della vita dei residenti (Edwards, Beck, 2002) in case di cura, che non possono sostenere gli animali domestici. Gli studi iniziali hanno mostrato livelli di stress abbassati nei residenti che interagiscono con questo robot, così come un aumento globale della quantità di socializzazione tra i residenti nelle aree comuni della stessa struttura (Feil-Seifer, Matarić, 2009).

Conclusioni

Da tali progressi, studi e ricerche – oltre al grado di stupore che si può manifestare a fronte, non solo delle competenze crescenti e stupefacenti dei Robot, ma delle risposte dell’uomo in seguito a tali competenze dimostrate – possiamo chiederci se alcune peculiarità (come l’espressione delle emozioni) siano dominio esclusivo di uomini, donne e animali e che posto avranno, tali peculiarità, nell’evoluzione di quest’ultimi. Crescenti, curiose e bizzarre ricerche stanno emergendo dallo scenario innovativo e paradossale dell’interazione tra uomo e robot per mettere i riflettori su una concezione nuova/consapevole ma primitiva/istintuale allo stesso tempo.

 

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