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Come gli animali domestici aiutano ad affrontare la perdita di una persona cara

Alcuni ricercatori hanno voluto indagare se la condizione di malessere legata al lutto per la perdita di una persona cara potesse essere alleviata attraverso la vicinanza di un animale da compagnia.

 

Con l’avanzare dell’età aumenta anche la possibilità di andare in contro a perdite sociali importanti, come quella relativa al proprio partner. Perdere un coniuge in età adulta, per morte o divorzio, non è un’esperienza semplice da affrontare e superare in quanto si è chiamati a combattere con la solitudine, ed in alcuni casi, la depressione.

A tal proposito, alcuni ricercatori hanno voluto indagare se questa condizione di malessere potesse essere alleviata attraverso la vicinanza di un animale da compagnia. I risultati della ricerca sono interessanti, sottolineano i benefici sulla salute che gli animali da compagnia potrebbero apportare nella vita di adulti che hanno subito una perdita importante.

I dati presentati sono stati tratti da un precedente studio longitudinale americano, sul pensionamento e sulla salute, che ha coinvolto adulti con età pari o superiore ai 50 anni.

Sono stati esaminati i cambiamenti, nel corso del tempo, dei sintomi relativi alla depressione ed alla solitudine inerenti la perdita del coniuge, in adulti con animale domestico e senza animale domestico.

Lo studio longitudinale ha permesso di trarre delle conclusioni: indipendentemente dal possesso di un animale domestico, la perdita di un coniuge è associata a solitudine e depressione.

Tuttavia, la bella notizia sta nel fatto che la presenza di un animale domestico sembrerebbe alleviare sia la solitudine che i sintomi depressivi. Difatti, i coniugi superstiti, aventi un animale da compagnia, mostravano minori punteggi di sintomi depressivi e solitudine rispetto ai coniugi superstiti che non possedevano un animale domestico.

Sarebbero opportune ulteriori ricerche per indagare la valenza terapeutica degli animali domestici in tutte quelle fasi e situazioni della vita contrassegnate da importanti e delicate transizioni che potrebbero ripercuotersi sulla salute psicologica dell’individuo.

 

Perché ci si innamora di persone già impegnate? Una spiegazione secondo Sigmund Freud

Perché ci si innamora sempre di persone già impegnate? E perché il terzo nella relazione spesso non disturba? La spiegazione secondo Sigmund Freud.

 

Perché si è attratti sempre da persone impegnate o da coloro che hanno dubbia reputazione? E perché, in altri casi, la presenza di un terzo nella relazione amorosa non ci disturba?

Queste tematiche, per quanto moderne e sempre più attuali, sono state discusse e analizzate già dal padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, in un breve trattato sulla vita amorosa del 1910. Il medico austriaco parla di una scelta oggettuale, in cui l’altro è percepito, in alcuni casi, più come oggetto che come soggetto, più come bene materiale da possedere che come persona di cui prendersi cura.

In particolare, partendo dall’osservazione dei suoi pazienti nevrotici, giunge ad osservare comportamenti analoghi in soggetti in “salute” e oserei dire, oggi comportamenti molto frequenti, quasi quotidiani. L’attrazione o infatuazione per donne già impegnate è per Freud, una precondizione per amare, in cui è saliente la figura del terzo, un terzo offeso su cui rivendicare un diritto di possesso. In questo caso, più che essere spinti dall’amore, si è mossi dal desiderio di mostrare la propria superiorità nei confronti dell’altro, di essere riconosciuto da lui come “re indiscusso della foresta”. È un bisogno primordiale che conduce alla rivalità e all’ostilità proveniente dall’ ES e dalla fissazione in età infantile del trio madre-padre–bambino. Nella fase edipica, infatti, il bambino prova sentimenti ostili nei confronti del padre, un misto di affetto e odio, in quanto possessore della madre, e fa in modo di conquistarla ad ogni costo senza poi riuscirci. E per questo che egli, poi, divenendo adulto, si interesserà a donne già impegnate, e cercherà così di riscattarsi da quel primo grande fallimento, divenendo il primo ed unico nel cuore dell’amata.

Freud nel suo scritto, si rivolge ad un parterre prevalentemente maschile, ma la sua teoria è applicabile sicuramente anche a quello femminile, letto nell’ ottica di possesso del padre e di rivalità con la madre.

Per quanto riguarda l’attrazione nei confronti di partners dalla dubbia reputazione, Freud fornisce una spiegazione alquanto complessa e articolata: reputa anch’essa una precondizione necessaria per amare, ma questa volta mossa dalla differenza tra la figura materna, caratterizzata da grande moralità e purezza, ed una donna di dubbia reputazione o dalla moralità opinabile. È necessario però sottolineare come per Freud ciò che è separato nel conscio è, invece, unito nell’ inconscio. Appare, quindi, possibile un accostamento tra la madre e la donna più libertina, tra la purezza e la trasgressione. A questa idea, il giovane vi giunge dopo aver compreso e scoperto che anche la propria madre, come tutte le persone del mondo, è dotata di impulsi e desideri sessuali, facendo venir meno gli ideali di angelica purezza che, da sempre, lui le aveva conferito.

E pertanto la propria madre non è poi così lontana da donne dai facili costumi o da prostitute, ed è per questo che si riattiva il complesso edipico, se non ben concluso, e che lo spingerà poi, a ricercare donne aventi come caratteristica fondamentale la facile sessualità o semplicemente atteggiamenti trasgressivi. Freud sottolinea, inoltre, la tendenza di questi uomini a reputare la propria amata come unica, straordinaria e di altissimo valore, quasi dimenticando il loro passato o la loro continua capacità all’inganno, alla menzogna e al tradimento. Diventano, ai loro occhi, pure e degne della più assoluta fiducia, proprio come le loro madri, prima che venisse scoperta la loro sessualità. Spesso, nonostante il tradimento evidente, la grande sofferenza derivante e la grande quantità di energia psichica investita in un rapporto quasi unilaterale, tali uomini tenderanno a perdonare l’amata, e se si allontaneranno da questa, inconsciamente ne cercheranno un’altra avente simili caratteristiche e ne saranno nuovamente succubi.

Infine, cosa ci dice Freud riguardo alla presenza del terzo nella relazione e al fatto che questi non crei disturbo?

Egli afferma che alcuni uomini non nutrono nessun desiderio di esclusività con la propria donna e nessun fastidio per la presenza di un terzo elemento, anzi, in casi estremi, quasi vogliono che la partner trovi un marito o un altro partner. Ciò potrebbe essere letto come un’accettazione del triangolo familiare edipico ed, anzi, una fissazione a tale condizione. Il valore della donna viene spesso sminuito, quasi fosse solo un mezzo per ricreare quella prima condizione di triangolo o che il suo valore dipendesse da quel terzo elemento, senza la quale lei non sarebbe né attraente e né interessante.

Concludendo, il breve scritto freudiano può essere fonte di numerose riflessioni sull’argomento in questione e sul rapporto con i propri genitori, spesso specchio della nostra esistenza.

 

Coinvolgimenti analitici con gli adolescenti. Sessualità, genere e sovversione – Recensione del libro

Transfert e controtransfert erotico, omofobia interiorizzata ed esteriorizzata, i movimenti sovversivi, gli stati di torpore e tutti quegli ideali eccessivamente rigidi, che possono presentarsi in adolescenza, sono affrontati, nel libro Coinvolgimenti analitici con gli adolescenti. Sessualità, genere e sovversione, nelle loro peculiarità limitanti il processo di crescita, ma anche nelle opportunità di sviluppo che nascondono

 

Coinvolgimenti analitici con gli adolescenti. Sessualità, genere e sovversione è l’ultimo contributo – edito da Astrolabio- di T. Mary Brady, psicoanalista dell’American Psychoanalytic Association, nonché docente presso il San Francisco Center for Psychoanalysis.

Con questo testo, che si presenta come il frutto di una scelta che punta all’essenziale, da qui la preferenza verso una struttura breve ad una più articolata, l’autrice sembra parlare al lettore con semplicità e sincerità di temi scottanti, scarsamente esplorati e complessi.

I punti focali della sua indagine analitica, infatti, che ad una prima impressione si colgono in maniera rapida, chiedono, tuttavia, al lettore di partecipare ad un esercizio di ripetuti richiami al fine di chiarirli, verificarli e consolidarli.

È nel suo sentire e in quello che può evocare nel lettore – di fronte a pagine di terapia che si lasciano guardare – che, a mio avviso, si dipana il suo intero lavoro.

La sua scelta, comunica una curiosità profonda verso l’adolescenza e un altrettanto profondo desiderio di condurre – chiunque sia disposto ad abbandonare i timori che essa solleva – verso territori ancora impervi del lavoro analitico e che proprio per tale ragione sarebbe importante conoscere e attraversare.

A tale scopo, il transfert e il controtransfert erotico, l’omofobia interiorizzata ed esteriorizzata, i movimenti sovversivi, gli stati di torpore e tutti quegli ideali eccessivamente rigidi, che possono presentarsi in adolescenza, sono affrontati nelle loro peculiarità limitanti il processo di crescita, ma anche nelle opportunità, se adeguatamente affrontati, di sviluppo che nascondono.

Uno spaccato su un periodo denso di sfide e trasformazioni, in cui l’adolescente è abitato da cambiamenti corporei, prorompenti pulsioni sessuali, stati di confusione e disorganizzazione, una tensione costante tra vecchio e nuovo, tra interno ed esterno, tra appartenenza e separazione, ambivalenza, ansie e sensi di colpa che lo impegnano nel compito di una nuova costruzione identitaria.

Nel lessico di Mary Brady, dunque, non si può fare a meno di notare concetti come sufficienza erotica, turbolenza adolescenziale al rovescio, sovversione, gremlin, che raccontano di un transito verso il mondo adulto per niente semplice; un mondo che poter essere scoperto richiede un avvicendarsi di generazioni in cui il vecchio deve essere messo da parte per lasciare posto al nuovo. Un processo sicuramente non privo di sensi di colpa e resistenze.

Di tutte le fasi evolutive l’adolescenza è quella in cui ci si impegna nella battaglia con il sesso e con l’identità, battaglia il cui esito può essere lo sviluppo, oppure varie forme di difesa (o anche di crollo) (Brady, 2019, p.43).

In tal senso, provando a seguire il discorso dell’autrice e percorrendo per prima la direzione dello sviluppo, ci troviamo dinanzi alla sovversione. Di quest’ultima sono esaltate le qualità positive, la messa in discussione dell’ordine familiare, la conoscenza delle sue peculiarità, l’accertamento della sua resistenza, ossia tutte quelle qualità favorevoli all’indipendenza. Viceversa, imboccando l’altra direzione, quella in cui l’adolescente si difende dal caos dell’adolescenza, è il ritiro dal trambusto emotivo a dominare il campo, nelle sembianze di uno stato letargico che va oltre la sua funzione protettiva. Oppure ancora, sono gli ideali virili, che non ammettono il fallimento – e che compaiono in maniera subdola – riportando alla luce le parti allontanate sotto forma di sintomi spiacevoli come l’insonnia, la balbuzie, l’impotenza, a minacciare il processo maturativo.

Nelle storie dei suoi pazienti, infatti, ci conduce a cogliere proprio lo spazio riservato a questi movimenti e a questi “intoppi”, come pure la sofferenza, i timori, le fantasie e i desideri che a essi si accompagnano. Frank, Mario, Laura, Evelyn, Adele, Luke, Evie, incarnano alcune delle difficoltà incontrate in adolescenza e affrontabili con il lavoro analitico. In esse, l’autrice segnala il ruolo giocato da un ambiente familiare poco contenitivo, disorientato e incapace di riconoscere i bisogni evolutivi del proprio figlio e di sapervi rispondere, ma ci presenta un ambiente – se aiutato adeguatamente – altrettanto idoneo a svolgere la sua funzione di sostegno.

Il suo spirito critico la conduce a non nascondere i limiti dell’indagine psicoanalitica, i retaggi nei confronti dei quali sarebbe necessario uno sguardo più profondo e innovativo e a rivolgere la sua attenzione verso quei contributi, direttamente nati per il lavoro con gli adolescenti e non, che ritiene utili e applicabili al lavoro individuale e con le famiglie.

Il caso di Mario, costituisce, infatti, un importante spunto di riflessione sui necessari passi in avanti da compiere per affrontare le difficoltà che riguardano lo sviluppo della sessualità e il modo in cui le variabili personali, familiari e culturali s’intrecciano indissolubilmente producendo una pericolosa omofobia che è doppiamente dolorosa, proprio perché interiorizzata e vissuta nel proprio ambiente.

L’immagine dell’analista che vuole veicolare è dunque quella di un professionista, ispirato e in accordo con la visione bioniana, che colloca al centro del suo lavoro la capacità negativa, la rêverie, una lettura dei significati multipli dei comportamenti dell’adolescente, il riconoscimento dell’importanza dell’autorità genitoriale, l’accoglienza della propria esperienza con le proprie parti adolescenziali, la possibilità di condurre il paziente verso una condizione di “sufficienza erotica”. In proposito ho trovato particolarmente significative le sue parole quando afferma:

L’analista di un bambino o di un adolescente è esposto a un fuoco nemico quasi continuo. Dobbiamo partecipare al gioco e reagire al comportamento, assorbire le emozioni e i ruoli veicolati nel campo analitico. Dobbiamo reagire al comportamento dentro e fuori dalle sedute, soprattutto con gli adolescenti. A volte siamo costretti e fare opposizione e porre limiti, cercando nel frattempo di conservare la capacità di pensare (Brady, 2019, p.109).

Se nei capitoli precedenti il pensiero di Bion si confonde con quello di altrettanti noti psicoanalisti, è negli ultimi due capitoli che è condensata la testimonianza del suo tentativo di conciliare il corpus bioniano con il lavoro psicoanalitico con gli adolescenti e in particolar modo, come lei stessa segnala, con le famiglie.

Più nel dettaglio, quest’ultima parte accoglie, dapprima una sintetica rassegna dei principali concetti di Bion: lo sviluppo del pensiero, la rêverie materna, il rapporto contenitore/ contenuto, il legame k, la trasformazione di elementi beta in alfa, poi una documentazione della possibile applicazione della teoria dei gruppi al lavoro con gli adolescenti e le loro famiglie.
In quest’ultimo capitolo, in particolare, si concentrano gli sforzi dell’autrice nel segnalare la rilevanza che riveste il lavoro con le famiglie proprio per il buon andamento del lavoro psicoanalitico individuale.

Benché l’adolescente possa aver bisogno di un trattamento individuale […] dobbiamo essere consapevoli del fatto che quando l’adolescente non servirà più da ricevitore di proiezioni patogene le ansie della famiglia rischiano di aggravarsi (Brady, 2019, p.130).

In altri termini, raccogliere informazioni sulle dinamiche familiari consente di riconoscere su quale tipo di funzionamento esse si reggano e il modo in cui poterle aiutare al meglio. È in questo modo che diventa possibile un impegno condiviso verso un funzionamento tipico dei gruppi di lavoro, dunque, proficuo per tutti. Questa è sicuramente la prospettiva migliore, ma va segnalato che passare da una condizione di –K a una di +K, conduce si ad una maggiore consapevolezza, ma anche a una quota di sofferenza che non tutti, in specifici momenti del percorso terapeutico, sono pronti ad accogliere e tollerare.

Svegliarsi dopo la puntura del fuso, come accade a Rosaspina nella fiaba dei fratelli Grimm, non appartiene solo all’adolescente, ma come la stessa Mary Brady segnala, può essere letto anche come passaggio proprio e necessario che coinvolge i genitori e a cui il lavoro analitico può condurre.

Per concludere, la prospettiva che l’autrice propone sembra segnalare una peculiarità del lavoro analitico con gli adolescenti che chiama l’analista a “stare dentro la cosa”. Si tratta di una propensione, a mio avviso, all’esplorazione, un penetrare con non troppo timore in territori mutevoli, dominati da movimenti progressivi e regressivi, movimenti transferali e controtransferali molto vivi, in cui l’atto, il silenzio e il corpo sono al centro della relazione e l’indefinizione cerca un ambiente contenitivo.

 

Fondazione TIM lancia il Bando: Liberi di comunicare. Tecnologie intelligenti e innovazione per l’autismo – Comunicato Stampa

Comunicato Stampa

Fondazione TIM lancia il Bando: “Liberi di comunicare. Tecnologie intelligenti e innovazione per l’autismo”. Le più avanzate tecnologie digitali per progetti mirati a favorire l’autonomia individuale e le interazioni tra persone autistiche e neurotipiche

 

Roma, 9 settembre 2019

Fondazione TIM lancia oggi il bando “Liberi di comunicare. Tecnologie intelligenti e innovazione per l’autismo”, iniziativa mirata a realizzare soluzioni digitali per favorire l’autonomia personale, domestica e lavorativa, l’apprendimento scolastico, lo sviluppo di abilità di linguaggio e di comunicazione nelle persone maggiori di 16 anni con autismo.

Il bando, destinato a soggetti pubblici e privati che operino senza finalità di lucro, è indirizzato in particolare a stimolare nuove idee basate sulle tecnologie più innovative come ad esempio gli algoritmi di intelligenza artificiale, stampa 3D, sistemi vocali, realtà aumentata, giochi e robot, tool immersivi e di localizzazione. Progetti che dovranno essere in grado di raggiungere il più ampio numero di destinatari, con la sicurezza e facilità di utilizzo degli strumenti e l’adattabilità ai bisogni dell’utente, come pure l’integrabilità con eventuali protocolli/tecnologie standard già implementati come, per esempio, le soluzioni smart city/smart home.

Saranno privilegiati progetti open source e tali da garantire l’accessibilità delle soluzioni e la sostenibilità economica dell’evoluzione degli strumenti proposti, elemento chiave per supportarne efficacemente la diffusione in diversi contesti di utilizzo e l’aggiornamento tecnologico.

Fondazione TIM con questo Bando risponde a sempre più diffusi bisogni, come confermano recenti studi epidemiologici (ved. bibliografia), secondo i quali l’incidenza dei disturbi dello spettro autistico si attesta intorno all’1% della popolazione, senza evidenza di variazioni di rilievo per area geografica, né dovute a fattori culturali o socioeconomici.

Maggiori informazioni sul bando www.fondazionetim.it

Per scaricare il comunicato stampa: clicca qui

 

*Fondazione TIM nasce nel 2008 come espressione dei principi etici, del forte impegno di responsabilità verso la comunità e dello spirito di innovazione di TIM. L’impegno è lavorare per un’Italia sempre più digitale, innovativa e competitiva collaborando con gli enti alla realizzazione dei progetti e mettendo a disposizione risorse economiche e competenze proprie del Gruppo.

Riduzione dell’empatia: tra depressione e antidepressivi

Precedenti ricerche hanno trovato una carenza di empatia nei soggetti con depressione. Tuttavia, molti di questi studi sono stati effettuati su pazienti depressi in cura con antidepressivi. La carenza empatica nei depressi è dunque correlata agli antidepressivi o alla depressione in sé? 

 

La depressione è un disturbo psichico invalidante che può compromettere il funzionamento sociale di chi ne è affetto. Poiché l’empatia è una delle abilità alla base del funzionamento sociale, in quanto permette di condividere e comprendere i vissuti emotivi altrui, alcuni studi hanno voluto indagare la relazione che intercorre fra empatia e depressione.

A tal proposito, precedenti ricerche hanno trovato un’effettiva carenza di abilità empatica nei soggetti depressi (Schreiter et al., 2013). Tuttavia, la gran parte di questi studi sono stati condotti su pazienti depressi in cura farmacologica con antidepressivi. Dunque, il presente studio ha voluto indagare se la carenza empatica nei depressi potesse essere correlata agli antidepressivi più che alla depressione in sé.

Lo studio si è avvalso di 64 soggetti, 29 con depressione acuta e 35 controlli, i quali sono stati esposti alla visione di alcuni video (soggetti che venivano sottoposti a stimoli dolorosi) che avrebbero dovuto suscitare empatia. La visione dei video è avvenuta in due momenti diversi: la prima volta senza trattamento farmacologico, la seconda volta, dopo 3 mesi, sotto trattamento farmacologico con antidepressivi serotoninergici (SSRI) e noradrenergici (SNRI, NaSSA). Durante la visione dei filmati i pazienti sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale, per monitorare l’attivazione delle aree cerebrali associate all’empatia, e sono stato chiamati ad indicare il livello di spiacevolezza che le persone del video stavano vivendo (empatia cognitiva) e il livello di spiacevolezza che stavano vivendo loro nel guardarli (empatia affettiva).

I risultati indicano che l’empatia dei depressi, pre-trattamento farmacologico, risultava nella norma (pari a quella dei controlli); al contrario, dopo il trattamento farmacologico (SSRI, SNRI, NaSSA), i livelli di empatia dei depressi calavano sia rispetto ai controlli che rispetto ai loro iniziali livelli di empatia. In particolare, si evince un calo dell’empatia affettiva, ovvero quella che permette di condividere e provare le emozioni altrui, mentre l’empatia cognitiva restava stabile. Il calo di empatia affettiva è stato associato alla riduzione dei sintomi depressivi indotti dagli antidepressivi (SSRI, SNRI, NaSSA).

In conclusione, sembrerebbe che gli antidepressivi diminuiscano il coinvolgimento emotivo a situazioni emotive negative, ma non il coinvolgimento cognitivo che permette di comprendere cosa sta avvenendo. Ulteriori studi potrebbero approfondire tali risultati.

 

Il dolore cronico come preformatore: strategie d’intervento

Il dolore è il risultato di un’elaborazione cognitiva-valutativa, spesso non consapevole, di vari fattori; un coacervo di risultanze: aspetti fisici, genetici, biologici, struttura di personalità, storia personale, emozioni, contingenze, cultura, modelli appresi e anche coordinate spazio/temporali..

 

Un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, associata a un danno tessutale, in atto o potenziale, o descritto in termini di tale danno (International Association for the Study of Pain – IASP).

Con tale definizione il dolore diventa il risultato di un’elaborazione cognitiva -valutativa, spesso non consapevole, di vari fattori, un coacervo di risultanze: aspetti fisici, genetici, biologici, struttura di personalità, storia personale, emozioni, contingenze, cultura, modelli appresi, coordinate spazio/temporali (passato, presente e futuro). Il dolore è stato ed è un segnale importante per l’uomo, gli ha permesso e gli permette di proteggersi da danni, è un campanello d’allarme per eventuali pericoli, ha promosso l’omeostasi fisiologica. Allorquando il dolore persiste e perde queste sue caratteristiche “protettive” diventa disfunzionale ed esso, con un meccanismo a feedback, influenza e viene “colorato” dalle emozioni: C(d)olore. Questo sistema d’allarme, quinto segno vitale in grado di avvisarci se siamo in zona di danneggiamento, perde questa sua funzione essenziale per lasciare spazio ad altro.

L’insieme dei dati clinici e sperimentali indica che il dolore in origine è mediato sulle fibre nervose mieliniche ed amieliniche, le quali hanno corpi cellulari nei gangli dei nervi cranici e spinali, o sinaptici, per finire nella cute, nei tessuti sottocutanei o nei visceri. Le branche prossimali di questi nervi entrano nel sistema nervoso centrale; nel cervello, nel caso dei nervi cranici, e nel midollo spinale nel caso dei nervi spinali, dove continuano mediante sinapsi con fibre connettici o coi neuroni specifici.

Sappiamo che i recettori specifici deputati per la recezione, localizzazione e trasmissione del dolore sono i nocicettori; siamo a conoscenza che esistono due vie del dolore, anatomicamente individuate in una via della regione sottocorticale ed un’altra nella corteccia, ma poco sappiamo ancora oggi di come questo meccanismo che ci appartiene viene integrato con altri altrettanto complessi procedimenti cognitivi, che ci permettono di elaborare l’esperienza nocicettiva.

Oggi, comunque, generalmente ammesso che sebbene esista una disposizione topografica delle fibre nervose, esistono tuttavia considerevoli variazioni individuali le quali spiegherebbero molte delle apparenti contraddizioni riscontrabili fra i dati patologici del midollo spinale, quando paragonati con i dati clinici (Bonica, Il dolore ,1959)

Già nel 1950, l’autore si interrogava su come il cervello poteva attuare un’azione integrativa nell’interpretazione del dolore, riferendolo ad uno stato emotivo presente, inoltre introduceva un concetto importante: quello della profonda interconnessione tra mente e corpo, della loro reciprocità nel comunicarsi il dolore e di seguito esprimerlo e/o in dati fisici o in un comportamento.

Oggi sappiamo che sono molti i fattori che vengono a convergere e influire su questa comunicazione neuronale: la memoria, l’attenzione, le emozioni, i tratti di personalità e assieme questi riescono a mediare la relazione tra danno fisico e percezione del dolore. Gli autori riuscirono a localizzare le aree deputate alla percezione illusoria; esse sono dovute a una rete neurale disposta tra il talamo e la corteccia e tra la corteccia e il sistema limbico; Melzack(1965) denominò questa rete body – self neuromatrix, che, sebbene sia geneticamente determinata, può trasformarsi in base all’esperienza sensoriale. Il cervello elabora gli stimoli che giungono dalle aree periferiche e li integra in uno schema corporeo, ne consegue che il dolore non è solo la risultanza di dati dovuti a danno tessutale, esso è dovuto ad uno schema sinaptico (in continuo divenire) della neuromatrice, capace di originare pattern neuronali specifici, unendo dati sensoriali con quelli affettivi, cognitivi.

Melzack e Wall(1965) hanno riconosciuto, con le loro ricerche, che nel dolore cronico vi sono delle componenti psicologiche e sociali e che quest’ultime svolgono il ruolo importante nel mantenimento del dolore. Fordyce (1969) notò che le risposte comportamentali che le persone affette da dolore cronico attuavano, venivano rinforzate dall’ambiente, sia perché era il loro stesso comportamento che le sosteneva, sia per fattori culturali. Da qui ne dedusse che vi erano, oltre ad aspetti spiacevoli della malattia, anche benefici o vantaggi secondari che diventavano rinforzatori e mantenevano i comportamenti non adattivi. Fu così che si iniziò ad attuare un trattamento al dolore con approccio multifattoriale.

Nel modello di intervento psicoterapeutico cognitivo comportamentale di terza generazione Acceptance and Commitment Therapy (ACT) viene sottolineato che all’origine della sofferenza umana vi è un voler controllare le proprie esperienze interne; J. Dahl e T. Lundgren nel loro libro (Oltre il dolore cronico, 2014) rintracciano nella persona con dolore cronico comportamenti atti al fine di evitare, allontanare, controllare, modificare i pensieri, le emozioni, i ricordi, tutto ciò che viene ritenuto spiacevole e doloroso. Gli autori differenziano il dolore in pulito e sporco; nel primo fanno rientrare il dolore fisico, mentre in quello sporco rintracciano quello che chiamano la catena del dolore. La persona affetta da dolore cronico inizia ad utilizzare strategie per poter allontanare, cambiare il dolore e questi comportamenti di evitamento diventeranno di seguito degli script rigidi, pervasivi e continuativi nel tempo, l’individuo metterà in atto una lotta con se stesso, contro i propri contenuti mentali spiacevoli e dolorosi.

La persona affetta da dolore cronico è una persona che è stata sottoposta ad esami, più o meno invasivi, ad una serie estenuanti di visite specialistiche, a volte ha subito diagnosi errate prima di poter approdare a quella esatta, altre volte l’accertamento è stato tardivo e il danno si è venuto ad aggravare, si è sottoposto a terapie errate, oppure infinite, chirurgiche, alternative, terapie al limite della scientificità e ha sopportato tutto ciò pur di non sentire il suo dolore. Sono persone che non si sono sentite capite, credute, ascoltate o accolte dai medici, dalle persone che hanno accanto, familiari, amici, parenti. Si sono viste stravolgere la loro vita, hanno rinunciato, o interrotto, non volontariamente, la loro attività lavorativa, gli hobby, le loro relazioni affettive, il loro stile di vita. Sono persone che si trovano imprigionate dai loro sintomi, dalle loro stesse lamentele, dal rumore di sottofondo che quotidianamente gli ricorda che hanno perso dei gradi di libertà.

Inizialmente la persona sente “il dolore pulito”, quello che nasce in una specifica area fisica, esso è solo dolore, successivamente questo diventerà un ritmo pervasivo, un rumore costante e quotidiano, l’individuo sentirà che il dolore lo sta preformando (studi di neuroimaging MRI, fMRI Danes 2016), mutando sia nella sua struttura che nella sua funzionalità. Il dolore pulito si trasforma in dolore sporco. Dahl e Lundgren(2014), paragonano il primo al brusio vitale, mentre il secondo al fango, l’unione dei due dolori porterà la persona a cercare comportamenti di evitamento per non sentire e per poter controllare il suo dolore, bloccando il fluire delle sue azioni, avviandosi verso una restrizione dei valori, verso degli script mentali disfunzionali e verso comportamenti di evitamento.

Nella pratica clinica ho potuto riscontrare come in verità da questo dolore sporco nasce qualcosa di creativo, che porta a trasformare il fango, elemento materico, in giara o altro contenitore di narrative intrapsichiche ed interpsichiche rielaborate e ristrutturate e di dolore/colore accettato in tutte le sue possibili nuance; appunto una preformazione sia in profondità che in superficie come viene attestato dagli studi di neuroimmaging.

Attraverso studi (Vadivelu, 2017) effettuati tramite revisione della letteratura scientifica sappiamo che vi è una maggiore probabilità, per chi ha una sofferenza cronica, di sviluppare ansia, depressione, rabbia, somatizzazioni, bassa autostima e un senso di impotenza, non self efficacy e in generale comportamenti emotivi disfunzionali. Spesso chi soffre di dolore cronico può sviluppare una psicopatologia. La persona con sofferenza cronica mette in atto strategie disfunzionali pur di evitare l’esperienza dolorosa, vi sono dei pensieri irrazionali. La catastrofizzazione è una delle possibili strategie che le persone affette da dolore cronico possono mettere in atto; essa è un’amplificazione dell’evento spiacevole, doloroso, degli effetti negativi del dolore; è il pensare che l’evento che gli sta “capitando” possa diventare minaccioso, nocivo, appunto catastrofico.

La CBT prende in esame un vasto range di contenuti di elaborazione cognitiva che coesiste con i pensieri delle persone affette da patologie croniche risultando così utile sia per prevenire sia per il trattamento terapeutico attivo. Essa viene usata nel trattamento dei disagi, delle abitudini disfunzionali, per ridurre i sintomi di tanti disturbi picopatologici; viene impiegata attraverso tecniche quali: il rilassamento (rilassamento progressivo, stress inoculation, ad es.), la Cognitive restructuring, il Coping skills training, la psicoeducazione, il goal setting, pianificazione mediante diari delle fasi quotidiane del paziente (ad es. circa il suo ritmo circadiano). Lavora sui costrutti di attribuzione causale come quelli della self- efficacy, del locus of control, permettendo di avviare un percorso attivo per motivare e mantenere il tragitto della cura. Un valido strumento che viene in aiuto a noi operatori del settore e che possiamo somministrare durante l’assessment per poter individuare indici di cronicizzazione è il Cognitive Behavioural Assessment (CBA). Obiettivo di base delle terapie cognitivo comportamentale è quello di ridurre i comportamenti non adattivi, disfunzionali, dovuti ad apprendimenti, a sentimenti di impotenza, all’eccessiva sensibilità al dolore. Per attuare ciò si utilizzano strategie che rendono capace la persona di affrontare il dolore, modificando e migliorando la sua flessibilità psicologica, la capacità di controllare il dolore, promuovendo nuove strategie di coping, empowerment, nuove competenze ed abilità. Nel setting e grazie alla relazione terapeutica e al conseguente empirismo collaborativo, si lavora assieme al paziente verso obiettivi condivisi, lo si pone nella condizione di attuare le sue scelte poiché è lui che sa qual è la direzione dei sui valori, come vuole vivere la sua Vita. Compito dello psicoterapeuta è quello di aiutare a riconoscere i sentimenti, i comportamenti, i pensieri e il dolore, dolore che non verrà ad essere eliminato; assieme al paziente si analizzeranno gli ambiti di vita per cercare di renderli più variegati, significativi, ricchi, flessibili; gli si indica l’accettazione come apertura verso il proprio dolore cercando di non contrastare quest’ultimo, prediligendo di vivere realizzando scelte e azioni “libere” e non in relazione al dolore; portando la persona verso la costruzione di nuovi pattern flessibili di comportamento.

Le persone affette da dolore cronico si identificano e rimangono intrappolate col dolore stesso, con il dolore “sporco/ colorato”, con la loro patologia, con le loro emozioni e da essi si lasciano manipolare: spesso questi comportamenti sono supportati dalle contingenze (modelli culturali ad esempio). La defusione è un’opportunità per ritornare ad esperire la vita rielaborando l’esperienza nocicettiva e ampliando il repertorio esperienziale. Da supporto per poter attuare la defusione si può utilizzare la Mindfulness (letteralmente significa “piena consapevolezza”), secondo Thich Nhat Hanh (2017) essa è come un energia dell’essere consapevole e svegli nel momento presente. Nel 1979 il dr. J. Kabat- Zinn ideò e strutturò la Mindfulness- Based Stress Reduction (MBSR) per poter somministrare una terapia ai malati cronici; questa tecnica risulta d’aiuto ai pazienti affetti da dolore cronico, nello specifico nel ridurre i pensieri e i comportamenti di rimuginio e di distrazione. Obiettivo della terapia è quello di defondersi dai propri pensieri dolorosi ampliando e sviluppando il Sé Osservante, per porsi in una posizione di differente prospettiva, iniziando un percorso verso l’accettazione del dolore, passo importante per poter vivere una vita che si incammina verso i propri valori: come un impegno quotidiano.

L’accettazione non è la rassegnazione passiva… non significa arrendersi e accettare semplicemente che non possiate fare nulla per il vostro dolore o per la vostra vita. Questo stato mentale non scaturisce dal darsi per vinti nella lotta con il dolore, ma è la conseguenza dello smettere di lottare contro sé stessi  (J. Dahl, Oltre dolore cronico, 2014)

 

Costruire l’autonomia e contrastare i comportamenti problema: l’importanza dell’educazione strutturata

Di fronte a persone con disabilità, la cui vita dipende spesso dalle scelte che altri fanno per loro, risulta importante strutturare interventi per far emergere le loro abilità e potenzialità: l’educazione strutturata si presenta come un’ottima strategia di intervento tesa a costruire e arricchire l’autonomia dei singoli e a contrastare i comportamenti-problema di ognuno, in un ambiente ricco di stimoli.

 

La questione dell’indipendenza è un’impresa cruciale per il mondo della disabilità mentale ma non impossibile in quanto molti risultati possono essere raggiunti anche facilmente.

In questa sfida sono coinvolti molti protagonisti e molti fattori; alcuni di questi ultimi sono:

  • Il potenziale di apprendimento di abilità nella persona
  • La valutazione competente, approfondita e realistica delle abilità della persona
  • L’ambiente organizzato per l’indipendenza
  • Calma, tempo e tranquillità
  • La gestione del rinforzo
  • Il controllo degli stimoli

La tecnica TEACHH

La tecnica TEACCH del lavoro indipendente consiste nel proporre compiti non solo organizzati secondo un’appropriata gradazione di difficoltà, allo scopo di favorire apprendimento senza errori, ma anche materialmente organizzati in modo da garantire assoluta indipendenza nella comprensione del compito, del modo di svolgerlo, della sua durata e della sua fine. Nata all’interno del programma statale del Nord Carolina fondato da Eric Schopler negli anni ’70, questa metodologia ha come scopo il trattamento e l’educazione delle persone affette da disturbi generalizzati dello sviluppo e con disabilità intellettiva, comprende servizi di diagnosi-valutazione, programmazione educativa, training dei genitori, degli insegnanti e degli operatori e si occupa di persone con autismo e disabilità intellettiva dall’infanzia all’età adulta, dalla scuola materna all’impiego e vita nella comunità; esso è l’unico programma universitario statale autorizzato per legge a fornire servizi, ricerca e formazione multidisciplinare per questi tipi di problematiche.

Tre sono i princìpi fondamentali della Division TEACCH:

  • Individualizzazione: mete e obiettivi devono essere scelti in base all’approfondita valutazione individuale e la scelta dei modi per aggirare le difficoltà deve sfruttare i punti di forza riscontrati nel disabile
  • Flessibilità: modalità e strumenti dell’educazione, oltre ad essere scelti per rispondere ai bisogni dell’individuo, si devono modificare in base al variare delle sue necessità e delle sue abilità
  • Indipendenza: gli sforzi di tutti coloro che lavorano con persone affette da disabilità intellettiva non sono limitati all’insegnamento di nuove abilità, ma concentrati anche nella facilitazione dell’uso indipendente, utile, significativo, flessibile e spontaneo delle abilità possedute. Chiaramente deve essere ridotta al minimo, anche gradualmente, l’interferenza da parte di una persona esterna.

Fondamentale è quindi individuare chiaramente le attuali abilità possedute dal disabile e le abilità necessarie per svolgere il compito proposto: si ha infatti indipendenza in un compito quando esso richiede, per essere svolto, abilità che sono già possedute da chi lo svolge.

Se vogliamo davvero favorire l’indipendenza bisogna ricordare che:

  • È indispensabile una valutazione delle abilità del soggetto con disabilità intellettiva relative al compito da proporre
  • Occorre una conoscenza di quali abilità sono necessarie per svolgere il compito proposto (analisi del compito)
  • Bisogna controllare il modo il cui si chiede di svolgere il compito, così da legare il comportamento del soggetto alle variabili inerenti al compito e non alle interferenze

Un concetto fondamentale legato a quanto detto sopra è quello della facilitazione. Facilitare significa adattare i compiti alle abilità già possedute depurandolo da quelle complicazioni che renderebbero l’apprendimento o l’esercizio autonomo impossibile.

Se si riuscirà a facilitare frequentemente lo svolgimento dei compiti ai soggetti con disabilità intellettiva, allora sarà più probabile che essi apprendano a svolgere questi compiti in autonomia.

Possiamo dividere le facilitazioni in due tipi:

  • Intervento di aiuto a svolgere il compito: si tratta dell’usuale aiuto graduale. Davanti al compito difficile dal disabile, lo si aiuta a compierlo, ritirando poi progressivamente l’aiuto fino a permettere l’esercizio autonomo del compito appreso. Nel caso in cui l’attività richieda l’uso di abilità non possedute o emergenti, il tempo di aiuto sarà lungo e ciò potrà provocare dipendenza: in questo caso conviene aiutare direttamente il disabile
  • Organizzazione facilitata del compito – esso consiste nel:
    • Preparare il compito in modo che esso si presenti di adeguata complessità e alla portata del soggetto con disabilità intellettiva
    • Variare gradualmente questa organizzazione in modo che il soggetto possa affrontare in modo indipendente la novità in quanto quest’ultima comporta l’uso di una abilità che è già presente nel repertorio ma viene usata di solito in compiti diversi
    • Organizzare il compito in modo che fornisca immediatamente il prompt a fare da soli

Educazione strutturata: l’esperienza nell’Istituto Ospedaliero di Sospiro (CR)

È in quest’ultima categoria che è contenuta l’ educazione strutturata, attività che data la semplicità, l’evidenza e l’utilizzo nella realizzazione di materiale povero, dal 2014 i medici, la caposala e le educatrici professionali hanno deciso di farla svolgere agli ospiti del reparto RSD6 dell’Istituto Ospedaliero di Sospiro in provincia di Cremona.

Inizialmente le attività venivano svolte per riempire il tempo, per tenere occupati quei pazienti affetti da gravi disabilità che causavano problemi di tipo relazionale e gestionale, per cercare di creare un ambiente di vita il più possibile ricco di stimoli per tutti e per creare una sorta di autonomia in ciascuno degli ospiti, sempre dipendenti dagli operatori; successivamente, vedendo dei risultati nella maggior parte dei casi positivi, si è deciso di mantenere attivo questo progetto.

Nella realizzazione delle attività, il team ospedaliero ha così agito:

  • Stilato una sorta valutazione iniziale il più possibile attenta e realistica delle abilità e delle capacità di ciascun paziente così da non creare esercizi troppo complessi od inadeguati
  • Raccolto il materiale ed assemblato
  • Creato un ambiente il più adatto possibile alle esigenze di ciascuno con tavoli, scaffali a destra e a sinistra di ciascun piano d’appoggio, sedie per chi non è in carrozzina
  • Mostrato l’iter dell’attività (prendere il materiale dallo scaffale di sinistra, svolgerlo, posizionarlo in quello di destra) tutte le volte che l’educatore lo riteneva disponibile
  • Rilevato, tramite griglie, i possibili miglioramenti; esse sono:
    • Griglia di valutazione Prima e Dopo: questo strumento si basa sulla valutazione AAPEP (Profilo psico-educativo per adolescenti ed adulti) la quale è costituita da una serie di prove che permettono di definire il profilo psicoeducativo del disabile adulto; il suo obiettivo è quello di definire specifiche abilità di base su cui lavorare al fine di sviluppare nuove abilità. Per ogni item esistono tre punteggi possibili: Acquisito (quell’abilità è saldamente posseduta), emergente (quella determinata capacità risulta essere il possibile insegnamento), non acquisito (l’item è troppo lontano dalle sue momentanee possibilità). Il profilo psicoeducativo completo del disabile deriverà quindi dall’analisi dei successi, degli insuccessi e delle emergenze di ognuno alle diverse prove. Con esse gli educatori valutano e monitorano le abilità di ciascuno, sia all’ingresso che durante tutta la permanenza in istituto del paziente.
    • Scheda di rilevazione attività occupazionali e tempo di impiego: la scheda mostra le attività che ogni paziente svolge durante la settimana; possono essere eseguite interamente, parzialmente o non eseguite del tutto per diversi motivi.

Le attività vengono svolte, durante la mattinata, dalle ore 9:45 circa, dopo la colazione e l’igiene personale di ciascuno, alle 11:30 circa, prima del pranzo.

Osservazione dei dati

Analisi bivariata con calcolo delle differenze Prima – Dopo:

Educazione strutturata strategia di intervento per raggiungere l autonomia - IMM 1

Imm. 1 – * 2 casi sono rimasti invariati (Giovanni C., Gianfranco S.)
* 9 casi hanno avuto dei miglioramenti in modo totalmente acquisito o emergente (Maria Catena S., Giovanna B., Ines D., Dina B., Maria Grazia S., Giuseppe G., Carlo P., Angelo C., Renzo L.), con una rispettiva diminuzione dei valori nell’ambito dei non acquisiti

Educazione strutturata strategia di intervento per raggiungere l autonomia - IMM 2

Imm. 2 – Il grafico mostra i dati relativi al punteggio Acquisito: i miglioramenti si notano in tutti i casi tranne in tre casi rimasti invariati (Giovanni C., Franco S., Renzo L.)

Educazione strutturata strategia di intervento per raggiungere l autonomia - IMM 3

Imm. 3 – Il grafico mostra i dati relativi al punteggio Emergente: nella rilevazione Dopo si notano dei miglioramenti tranne in due casi (Giovanni C., Franco S.) rimasti immutati

Educazione strutturata strategia di intervento per raggiungere l autonomia - IMM 4

Imm. 4 – Il grafico mostra i dati relativi al punteggio non acquisito: la diminuzione è evidente in tutti i casi tranne nei tre (Giovanni C., Carlo P., Franco S.) in cui i valori sono pari a zero sia Prima che Dopo

Di fronte a persone con disabilità, la cui vita dipende dalle scelte che altri fanno per loro, non bisogna dimenticarsi della dimensione soggettiva e dei loro sentimenti: esse non sono oggetti da manovrare ma individui da stimolare così da far emergere le loro abilità e potenzialità. Per operare positivamente a favore delle persone con disabilità occorre quindi formulare delle possibilità di vita e di benessere che superino le menomazioni reali e visibili. Leggere in modo competente le difficoltà è una delle abilità che gli educatori che si occupano di disabilità devono possedere: la possibilità di mettere a punto strategie ed interventi efficaci dipende anche dalle capacità di formulare ipotesi appropriate e significative rispetto a quei comportamenti ritenuti problematici.

Visti i risultati ottenuti, l’educazione strutturata si è presentata come un’ottima strategia di intervento tesa a costruire ed arricchire l’autonomia dei singoli e a contrastare i comportamenti-problema di ognuno, in un ambiente ricco di stimoli ottimizzando il loro tempo.

Consiglierei dunque l’utilizzo di questo programma anche ad altri istituti ed a soggetti affetti da disturbi generalizzati dello sviluppo e con disabilità intellettiva e psichica.

 

ARTICOLO ESTRATTO DALLA TESI DI LAUREA
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L’esperienza disumanizzante della guerra tra le pagine de “La lunga attesa” di Wilfred Bion

La Lunga Attesa, la prima parte della autobiografia di Wilfred Bion, è un’opera incompiuta e impressionistica che narra i primi 24 anni di vita dell’analista britannico, cercando di mescolare “Due correnti di verità: quella che proviene dai fatti, la verità storica, e quella che proviene dalla psicologia, la verità psicoanalitica”. 

 

Sono dell’idea che tutti, non solo i pochi fortunati addetti ai lavori della psicologia che vi ci si possono imbattere, dovrebbero leggere La Lunga Attesa, la prima parte della autobiografia di Wilfred Bion.

Un’opera incompiuta e impressionistica, pubblicata postuma nel 1986, che in questo volume – il racconto prosegue e rapidamente si interrompe ne “A ricordo di tutti i miei peccati” – narra i primi 24 anni di vita dell’analista britannico, cercando di mescolare “Due correnti di verità: quella che proviene dai fatti, la verità storica, e quella che proviene dalla psicologia, la verità psicoanalitica”.

Partendo dall’infanzia in India, si risale e si attracca nell’Inghilterra vittoriana dove Bion trascorse la sua adolescenza, per culminare nel racconto dell’esperienza più sconfinata che egli sperimentò nella sua vita: la partecipazione come soldato, ufficiale carrista, alla Prima Guerra Mondiale.

Quasi 200 delle 300 pagine sono risucchiate dal tumulto di quei 4 anni.

In questo libro – recita la prima riga della prefazione – la mia intenzione è stata quella di essere veritiero.

Non ci è riuscito del tutto Bion. Nella rievocazione della sua storia egli ha sacrificato alcuni aspetti di sé per dare voce, soprattutto, alle parti più tormentate e dolorose. Come se scrivendo si sentisse libero di restituire un po’ di riconoscimento alle correnti pulsionali che negli anni della sua affermazione come uomo e come psicoanalista aveva dovuto imparare a riconoscere e a gestire, senza riuscire completamente ad integrare.

Il suo testo tracima di cinismo e disincanto. Bion lascia riaffiorare soprattutto la vergogna, la paura, il senso di inettitudine e di fallimento che per tutta la vita, come un borsone pesante, aveva avuto l’impressione di trascinarsi appresso:

Ora ero assai cosciente di me stesso, ma quel me stesso di cui ero cosciente, pavido e imbronciato, non era all’altezza del valore che attribuivo alla mia persona…Quello mi piaceva pensare era il mio vero aspetto, non l’oggetto triste e deprimente che vidi per tanti anni. Mai mi capitò di vedere qualcosa di diverso. 

Il flusso torbido e unilaterale di emotività finisce con l’inficiare la sua aspirazione, un po’ chimerica, alla Verità. Ma forse è proprio abbandonandosi a questo flusso che Bion ha potuto riesumare con così grande dettaglio e coinvolgimento il drammatico ingorgo esistenziale che fu per lui l’esperienza di soldato.

La generazione di chi scrive è vissuta all’infuori della guerra. Ne ha sentito parlare, magari nei ricordi frammentati di qualche anziano in famiglia o a scuola; si è lasciata avvincere da ricostruzioni cinematografiche o romanzesche più o meno grossolane; ha assistito, di solito più per caso che per intenzione, a qualche filmato di telegiornale che immortalava lumi di fuochi artificiali comparire e svanire nei cieli notturni del Kosovo, dell’Afghanistan, dell’Iraq o della Siria.

Ma la mia generazione non sa nulla di ciò che sia davvero la guerra. E questa è un’ignoranza pericolosa, perché ciò che non si conosce si può solo ipotizzare, fantasticare o ricostruire. E nel gioco forzoso della ricostruzione rischiano di venir meno pezzi del passato determinanti nei momenti in cui, nel nostro quotidiano, operiamo le scelte che definiscono il nostro futuro.

La guerra che noi ascoltiamo, leggiamo o guardiamo su uno schermo, è sempre permeata di una razionalità, di un’anima che non le appartiene. Ma la guerra, come manifestazione più pura della distruttività umana o di quella che Freud ha chiamato Pulsione di morte o Thanatos, è in sé impermeabile agli strumenti più evoluti dell’intelligenza umana. La ragione precede o segue una guerra, ma non può mai fondarne lo sviluppo, non può mai costituirne la materia essenziale.

Ciò che a noi può arrivare di intellegibile è sempre una rilettura postuma, frutto della propensione umana a ricostruire narrativamente tutto ciò che accade.

Ma rileggendola in tale maniera, la guerra si riempie di caratteri impropri di razionalità. Ci sono vincitori e vinti, attaccanti e difensori, buoni e cattivi. Ci sono manovre dotate di significato, intenzioni e strategie. La guerra, nei limiti entro cui noi la possiamo raccontare, diventa necessariamente una storia dotata di senso.

Per questo tutti dovrebbero leggere un libro come La lunga attesa.

Perché Bion, che la guerra l’ha vissuta davvero, ci sbatte in faccia tutta un’altra storia. E ci trascina dentro uno scenario che a noi, assuefatti al senso e alla ragione, non può che sembrare alieno, incomprensibile, ai confini di quello che si può considerare reale.

Ciò che emerge con più violenza dal suo racconto è la totale insensatezza della guerra. Ma non una insensatezza morale od etica, qualcosa come una condanna – La guerra genera sofferenza. Gli uomini non dovrebbero farsi la guerra -. Bion su questo evita esplicitamente di prendere una posizione:

Anche la guerra era una faccenda complicata. La mia esperienza in proposito fino a quel momento avrebbe ben potuto permettermi di trarre qualche conclusione, ma per quanto mi riguardava non avevo imparato proprio nulla.

La scelta di sospendere il giudizio sorge dalla necessità di spogliare il testo di ogni posticcia contaminazione razionale, per ricercare un contatto puro con la dimensione emotiva di quello che fu il suo sé ventenne. E Bion, calandovisi dentro, non può evitare di riesumare anche le meschinità, i piccoli egoismi e i timidi sogni di gloria che animavano quel ragazzo e che gli impedivano una condanna assoluta del conflitto:

Ero furioso. Perché? Non mi rendevo ben conto del fatto che in realtà ero lì per combattere. Ero dominato dall’idea romantica che il mio ruolo adesso fosse quello dell’eroe, del decorato, che trascorre il resto della sua esistenza crogiolandosi al tepore dell’approvazione altrui…Sentivo che da parte mia era stato bello “guadagnarmi” quella medaglia…penso proprio che già cominciassi a credere di essermela guadagnata.

Ma allora, se non è una questione di giusto o di sbagliato, perché è insensata la guerra?

Il messaggio che trapela dalla narrazione aggira il più delle volte le valutazioni consce del giovane Bion, troppo indaffarato a restare vivo e a colmare la distanza infinita tra il suo sé ideale e quel grosso bamboccione inetto che sentiva al tempo stesso di essere. Ma si intrufola nell’intreccio degli avvenimenti, nell’impressione estenuante di distorsione, di irrealtà e di caos che ne caratterizza l’avvilupparsi:

Restammo lì in attesa che accadesse qualcosa. Non avevamo nemmeno cominciato a renderci conto che in guerra non succede nulla, oppure (che in fin dei conti è quasi la stessa cosa) che in guerra nessuno sa cosa stia succedendo.

Vivere una guerra vuol dire ritrovarsi sballottati in un groviglio incomprensibile di situazioni prive di logica e direzione, che muovono gli individui senza che questi possano afferrarne il senso o rivendicare su di esse alcuna intenzionalità. Viene cancellato lo spazio potenziale per l’epicità, l’eroismo, la tragedia o qualsiasi altra categoria concettuale con cui noi siamo soliti Rileggere una guerra, e ciò che rimane è una sequela infinita di frammenti un po’ grotteschi tra loro impossibili da legare:

Se avessi saputo da che parte era il nemico, o anche solo la Germania, avremmo potuto sparare in quella direzione. Tirai fuori la bussola. A malapena riuscii a credere ai miei occhi quando vidi che eravamo rivolti nella direzione sbagliata.

Ciò che estrania di più il lettore però non è la stolida irragionevolezza delle azioni belliche – Non ricordo che a nessuno di noi fosse passato per la testa, anche per un solo momento, che un carro armato da 40 tonnellate potesse galleggiare; il fango doveva essersi infiltrato in quel luogo dove avrebbe dovuto esserci il cervello. – ma la precarietà delle stesse, l’assoluta inconsistenza dell’Azione in generale. I tentativi di fare qualcosa inciampano con la casualità delle conseguenze, impedendo all’individuo di tracciare la linea causale che porta da ciò che si è fatto a ciò che quindi accadrà. Con il risultato che persino la veridicità degli eventi si ritrova costantemente in discussione:

(Cercando su una mappa la posizione del suo battaglione) Ovviamente non poteva essere a ovest; ci saremmo trovati dietro le linee tedesche. E nemmeno a Est, perché avrebbe voluto dire che non eravamo entrati in azione. Però, ora che ci pensavo, non ero affatto certo che fossimo davvero entrati in azione.

La realtà presto inizia a vacillare e si tramuta in un gigantesco e indecifrabile pantano in cui l’individuo non solo non riesce a distinguere la cosa accaduta da quella non accaduta, ma fatica a discernere i compagni dagli avversari, gli attaccanti dai difensori, i morti dai vivi. L’ambiente esterno si confonde in un marasma da cui ognuno prova a scappare, rincorrendo le uniche possibili certezze negli stati emotivi e nelle sensazioni che sgorgano dall’interno di sé:

Dalla sera prima avevamo dovuto sostenere sei assalti nemici contro le nostre posizioni. Non dirò che li avevamo respinti. Li avevamo affrontati; gli avevamo sparato. Perché avessero insistito e come mai alla fine si fossero fermati, non lo so. Forse i loro incubi erano peggiori dei nostri, in quanto ai loro era frammista la speranza, mentre i nostri non erano turbati da qualcosa di così snervante.

Rabbia, inquietudine e terrore, così come fame, sonno, caldo o freddo, diventano gli unici segmenti di realtà di cui ci si possa fidare. Ma sono segmenti penosi, che logorano con estenuante lentezza o che divampano in improvvise esplosioni che valicano le possibilità individuali di contenimento e comprensione:

La nostra marcia era malinconica, irritante, irragionevole, quasi dovessimo rispettare un appuntamento con le illustrazioni di un settimanale popolare, dalle didascalie intese a suscitare una languida curiosità…per quanto ci riguardava, sembrava improbabile che la nostra marcia potesse in qualche modo ottenere un risultato. Avrebbe rappresentato soltanto una seccatura, se non fosse stata rovinata da orrendi, informi, grumi di paura.

Qual è l’assurdità dell’esperienza di guerra? Ciò che Bion pare volerci suggerire, è che pur attraversandola, pur ritrovandosi immersi dentro di essa, della guerra non è possibile fare esperienza.

Fare esperienza di qualcosa significa, per noi uomini, viverla nella sua interezza, in un percorso interiore che dalle sensazioni più immediate della percezione risale attraverso l’innescarsi di emozioni e sentimenti, di associazioni e memorie che si inerpicano fino agli strati più alti della coscienza, là dove l’integrazione di ogni parte trova il suo compimento.

Io so chi sono, io so cosa sento, io so cosa sta succedendo, io so cosa farò.

Ma la guerra è una non-esperienza perché rende impossibile questo concatenarsi di passaggi.

Dati sensoriali estremi, ai limiti della sostenibilità fisica, si mescolano a emozioni ingovernabili, angosce primitive di morte e annichilimento che sopraffanno la capacità del singolo e del gruppo di elaborazione razionale. E il risultato è una scissione costante tra il sopra e il sotto, tra uno strato stravolto da orrendi, informi, grumi di paura e una sovrastante coscienza rattrappita, orfana di dati organizzabili, che sbanda e smarrisce le sue capacità di guidare l’agire.

L’individuo si ritrova perciò prigioniero in un limbo di non-esistenza dove l’unico, reale combattimento diviene quello per preservare la sua integrità e non crollare nel baratro della frammentazione.

La bellezza del testo sta proprio nella maestria con cui Bion è riuscito infondervi questo senso di precarietà, di smarrimento, di – sfibrante caracollare sull’orlo del precipizio – in una maniera così vivida e autentica che si impressiona nella mente di chi legge più di qualsiasi lezione morale sulle ingiustizie e le sofferenze che può causare una guerra. Ciò che ci rimane dentro è l’immagine di un colossale e frastornante teatrino dell’assurdo, in cui nulla può essere preso sul serio e nemmeno gli eventi più tragici possono rivendicare alcuna pretesa di dignità. Perché nella rigida compartimentazione che si genera e disconnette i segmenti della nostra psiche, qualsiasi emozione, per quanto feroce o impetuosa, si riduce ad un lapillo che arde brevemente e si poi spegne senza lasciare nulla di decifrabile dietro il suo passaggio. Restando così aliena non solo alla comprensione individuale, ma pure ad ogni forma di commozione e condivisione con l’altro.

Pensai che avrei potuto scambiare un’ultima parola con Bonsey, sulla via del ritorno, ma era rimasto ucciso. Requiescat in pace. “Ci vediamo in tempo di pace, vecchio mio”. Ne fui scosso; e fui scosso nello scoprire che non me ne importava. Dovevo ancora familiarizzare con l’intensità del cameratismo del tempo di guerra, quando ogni dettaglio, un gesto o un’intonazione, si imprimeva nella mente in modo apparentemente indelebile. Trascorsa una settimana tutto era passato, e allo stesso tempo non era passato.

 

Un altro organo per regolare le reazioni di stress: le ossa!

Anche lo scheletro, come i circuiti cerebrali, si sarebbe evoluto per consentire ai vertebrati di fronteggiare stress e pericoli, soprattutto nella fase acuta quando cioè il pericolo è imminente e vi è l’urgenza da parte dell’animale di una reazione.

 

Adrenalina. Questa parola è sinonimo di eccitazione, agitazione, dell’intero nostro corpo che si prepara all’attacco o alla fuga, del respiro affannoso, della vista che si acuisce, dei pensieri che corrono velocemente nella mente, della temperatura corporea che aumenta, del cuore che comincia a battere all’impazzata.

Una volta prodotta dalle ghiandole surrenali, l’adrenalina entra in circolo nel flusso sanguigno raggiungendo organi e muscoli periferici rendendo possibile la reazione dell’organismo a fronte di un pericolo imminente.

La detezione e la successiva esposizione a uno stimolo esterno valutato come pericoloso e minaccioso comportano l’attivazione repentina e selettiva dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) da parte dell’amigdala (Calhoon & Tye, 2015). A partire dall’amigdala, l’attivazione dell’asse HPA porta alla secrezione e al rilascio di ormoni glucocorticoidi – tra i più famosi vi troviamo il cortisolo, l’ “ormone dello stress” – che contribuiscono alla modulazione del sistema nervoso autonomo di tipo simpatico, ultimo coordinatore delle reazioni acute allo stress.

In parallelo agli studi di approfondimento dei circuiti neurali legati alla paura, nel 2009 il gruppo di lavoro della Columbia University, guidato da Gerardm Karsenty, ha investigato la funzione del sistema endocrino nell’innesco dei processi fisiologici caratterizzanti le reazioni a eventi stressanti scoprendo l’interessante e sorprendente ruolo dell’osteocalcina nel favorire l’aumento della produzione di testosterone, del metabolismo energetico (Yadav, Karsenty et al., 2009) per supportare l’animale nell’attacco o nella fuga di fronte al pericolo e di alcune capacità mnestiche (Oury, Khrimian, Denny et al., 2013): l’animale infatti necessita di codificare in memoria e successivamente di recuperare informazioni pregresse, emotivamente salienti, circa l’ambiente in cui si trova e le potenziali minacce presenti con lo scopo ultimo di sopravvivere.

Pertanto, a partire da questi dati, la sua équipe di lavoro ha voluto approfondire l’ipotesi per la quale anche lo scheletro, come i circuiti cerebrali, si sarebbero evoluti per consentire ai vertebrati di fronteggiare un pericolo, soprattutto nella fase acuta quando cioè quest’ultimo è imminente e vi è l’urgenza da parte dell’animale di una reazione.

Per testare il ruolo dell’osteocalcina nel coordinamento dei processi fisiologici che darebbero origine alle reazioni acute allo stress, Berger, Karsenty del dipartimento di genetica della Columbia University e colleghi del Metabolic Research Laboratory afferente al National Institute of Immunology di New Delhi, hanno utilizzato un modello sperimentale animale che prevedeva l’utilizzo di due gruppi di roditori, di cui uno geneticamente modificato per non produrre osteocalcina, e diverse misurazioni elettrofisiologiche complesse per la registrazione dell’attività nervosa simpatica degli animali e dei loro livelli ormonali presenti nella circolazione sanguigna (Berger, Singh, Khrimian et al., 2019).

Le evidenze ottenute, pubblicate recentemente su Cell Metabolism, sono state ottenute confrontando le reazioni d stress dei due gruppi di topi, precedentemente condizionati in modo avversivo, a fronte di uno shock elettrico.

A seguito della somministrazione dello shock elettrico, il gruppo di topi, geneticamente modificati per non produrre osteocalcina, a malapena manifestava una reazione avversiva di paura rispetto al secondo gruppo, che a sua volta, in modo sorprendente, presentava un incremento delle risposte fisiologiche sotto forma di aumento della temperatura, della frequenza respiratoria e del battito cardiaco, dopo la somministrazione tramite iniezione di osteocalcina, senza che vi fosse stata l’esposizione allo shock elettrico: è apparso da subito evidente come la mera somministrazione di osteocalcina, senza la presenza di un trigger esterno minaccioso, sia stata sufficiente a determinare quei medesimi livelli di attivazione fisiologica esperiti dagli animali nella fase precedente di condizionamento avversivo.

I dati fisiologici di attivazione animale determinati dalla presenza/assenza di osteocalcina hanno suggerito come, una volta avvenuta la detezione di uno stimolo minaccioso da parte degli organi percettivi preposti e l’attribuzione di una salienza negativa da parte dell’amigdala allo stimolo ambientale, immediatamente quest’ultima tramite segnali chimici aumenti la ricaptazione di glutammato da parte degli osteoblasti, le cellule ossee, che a loro volta rilasciano osteocalcina; questa va ad inibire l’attività del sistema parasimpatico favorendo di conseguenza la reazione fisiologica simpatica di stress (Berger, Singh, Khrimian et al., 2019).

Tutto ciò a sostegno di come lo scheletro si sia in parte evoluto nel corso del tempo per incrementare ulteriormente la capacità dei vertebrati di rispondere efficacemente ad un ambiente esterno imprevedibile ed ostile andando a potenziare le reazioni fisiologiche attivate dal sistema nervoso autonomo simpatico tramite la bioattivazione dell’osteocalcina.

In conclusione, non sarebbe l’adrenalina ad avere un ruolo cruciale nel determinare il passaggio da uno stato di “riposo” ad uno di attivazione fisiologica, bensì l’osteocalcina e ciò spiegherebbe la ragione per cui alcuni soggetti ai quali sono state asportate entrambe le ghiandole surrenali a causa di gravi condizioni mediche, continuino ad esperire intense reazioni fisiologiche assimilabili a quelle di paura.

 

L’amico di Wigner e la psicoanalisi relazionale

Il concetto di osservatore in fisica ci porta verso una riformulazione della nozione di relazione, sia in natura che in psicologia. Relazionale, allora, è la natura nel suo nucleo più profondo, dove nulla è quello che è se non in relazione a qualcos’altro che funge da osservatore, che ne è la misura.

 

Da pochi mesi il gruppo di lavoro guidato da Alessandro Fedrizzi (viennese, di italiano ha solo il nome) presso la Heriot-Watt University di Edimburgo ha portato a termine un esperimento che, fino ad oggi, era stato solamente un esperimento mentale conosciuto come Wigner’s friend paradox, successivamente immaginato nella sua possibile realizzazione dal fisico austriaco Caslav Brukner ed infine, realizzato, appunto, dal team di Fedrizzi. In cosa consiste l’esperimento mentale da cui è poi partita la ricerca? Eugene Wigner (Nobel per la fisica nel 1963) si chiedeva che cosa sarebbe successo se nel laboratorio nel quale c’era la scatola col “gatto di Schrodinger” un suo amico avesse proceduto alla misura dello stato di sovrapposizione gatto vivo gatto morto, facendone collassare la funzione d’onda in uno dei due stati possibili. A quel punto poi, Wigner stesso, avrebbe potuto a sua volta procedere con la sua misura del dato già osservato dall’amico nel laboratorio accanto, senza saperne il risultato. La questione scientifica fondamentale sottostante è semplicemente questa: i due osservatori vedrebbero la stessa cosa? Questo è in sintesi l’esperimento mentale dell’amico di Wigner che si interroga sull’esistenza di una realtà oggettiva indipendente dall’osservatore in meccanica quantistica (O – observer indipendent facts) e sulla libertà degli osservatori di scegliere quale misura effettuare (F – free choice), oltre a chiedersi, infine, se le scelte operate da un osservatore non influenzino il risultato di un altro osservatore in un sistema entangled (L – Locality). L’esperimento dell’Università scozzese ha dimostrato proprio come queste tre assunzioni appena accennate, O, F, L, siano incompatibili con la meccanica quantistica.

Vediamo in breve come è stato progettato l’apparato sperimentale. Come si vede dalla figura (Imm. 1) che segue ci sono tre sorgenti di coppie di fotoni entangled (6 fotoni), So, Sa, Sb, che interagiscono nelle due scatole degli amici di Alice e Bob, dentro le quali i due fotoni a, b vengono misurati attraverso gli altri fotoni α1 e β1 che scompaiono. Altri due fotoni invece, entangled con i precedenti, chiamati α e β raggiungono Alice e Bob, così come pure i primi due fotoni a, b raggiungono Alice e Bob. Ricordiamoci che tutti i 4 fotoni sono ora intricati, cioè legati tra loro indissolubilmente. A questo punto quello che possono fare Alice e Bob è scegliere se fare una loro nuova misura sui fotoni a ed α che li hanno raggiunti contemporaneamente, oppure registrare la misura del fotone α già misurato dai loro amici, spegnendo semplicemente lo splitter di fascio posizionato nell’apparato sperimentale. Il risultato finale, davvero notevole, è il fatto che, sia per Alice che per Bob, il dato relativo alla misura fatta nelle scatole dei loro amici e la nuova misura fatta da loro stessi, non corrisponde, i due osservatori hanno visto cose diverse, pur essendo tutte le particelle in gioco sottoposte a entanglement.

Questo significa due cose fondamentali: primo, ciò che è osservabile lo è in relazione ad un osservatore, qualunque cosa sia l’osservatore (uomo, macchina, computer, particella elementare), non esiste cioè una realtà oggettiva indipendente dall’osservatore; secondo, le assunzioni di località, indipendenza e realismo, assunzioni sovrane in fisica classica, non sono compatibili con la meccanica quantistica, non valgono nel mondo dell’infinitamente piccolo.

Il paradosso dell amico di Wigner e la psicoanalisi relazionale - Psicologia IMM1

Imm. 1 – Apparato sperimentale. Una coppia di fotoni entangled dalla sorgente S0 viene distribuita, nelle modalità a, b, agli amici di Alice e Bob i quali misurano i loro rispettivi fotoni se sono su asse verticale o orizzontale, attraverso la sorgente di fotoni entangled Sa, Sb. utilizzando uno splitter di fascio polarizzato (Pbs). I fotoni in modalità α1, β1, sono rilevati attraverso un cavo superconduttore (Snspd) che evidenzia il successo della misura effettuata, mentre i fotoni in modalità α e β, registrano la misura degli amici di Alice e Bob. Ora Alice e Bob possono fare la loro misura su a, α (b, β) oppure registrare, spegnendo lo splitter, il risultato già ottenuto dagli amici (Contenuto ricavato da Fedrizzi et al. 2019)

Ora, in cosa consiste l’analogia tra il mondo dell’infinitamente piccolo con la dimensione della clinica psicologica a orientamento dinamico?

Facciamo una piccola digressione; la definizione di psicologia dinamica non è sufficiente a descrivere il cambiamento paradigmatico che voglio sottolineare. In sintesi, la svolta relazionale in campo psicoanalitico suggerisce di abbandonare il mito della mente isolata, così come l’interpretazione pulsionale e intrapsichica; non è poco se pensiamo come la psicoanalisi sia nata proprio con queste premesse e le abbia mantenute, pur se in forme e dottrine differenti, per oltre un secolo. Non si tratta, tuttavia, di un nuovo modello univoco a cui fare riferimento; anzi, vi ritroviamo proprio la cifra esatta della postmodernità, una pluralità di riferimenti concettuali che si arricchiscono reciprocamente, che funzionano come griglie interpretative da utilizzare nella relazione analitica quali strumenti a disposizione dell’analista nell’attualizzazione del paradosso analitico giocato tra la simmetria e l’asimmetria che caratterizza il rapporto analista-paziente.

Più nello specifico, come emerge dal bel lavoro di sintesi ad opera di Vittorio Lingiardi per l’editore Cortina, convergono sotto il paradigma relazionale gli approcci della psichiatria intersoggettiva americana (Sullivan), la psicologia evolutiva britannica (Fairbairn, Winnicott), l’infant research (Lachmann, Fosshage), gli studi sul terzo analitico intersoggettivo (Ogden), l’ecobiopsicologia complessa (Frigoli), l’evoluzione delle teorie dell’attaccamento ed alcune aree di ricerca neuroscientifica (Knox, Fonagy), i moderni studi sul femminismo e sulle identità di genere (Benjamin). Tanti autori e studi diversi ma, tutti, sia sul versante della teoria che su quello della pratica clinica, incardinati sul presupposto scientifico della natura relazionale ed intersoggettiva della psiche così come lo è profondamente il rapporto analitico tra analista e paziente. Le conseguenze sul piano clinico non sono poche rispetto a ciò che si può fare nella stanza dell’analisi, in termini di astinenza vs partecipazione dell’analista, di analisi del controtransfert, così come rispetto alla relativizzazione della quota verbale nella comunicazione. Un nuovo modo di intendere la cura psicologica che, dal punto di vista epistemologico, non è riconducibile né all’empirismo, né alla fenomenologia. Non all’empirismo poiché non si cerca all’esterno della psicoanalisi un appoggio scientifico più solido come, per esempio, si vorrebbe fare attraverso gli studi della divisione 12 dell’Apa a proposito degli Est (Empirically Supported Treatments). I due volumi pubblicati dall’American Psychological Association, rispettivamente dalle divisioni 12 e 49, Treatments that work e Psychoterapy relationships that work, danno perfettamente conto della differenza di impostazione e interpretazione sia nella ricerca che nel fare psicoterapia. Non alla fenomenologia poiché non si cerca di sminuire ed emarginare teoria e conoscenza dell’analista nel processo terapeutico. Quello che si cerca di promuovere è, piuttosto, un approccio ermeneutico costruttivista, non oggettivante e relativo ad un presunto sapere assoluto detenuto dall’analista scienziato, senza tuttavia cadere nelle secche di un relativismo aleatorio e inconsistente dove nulla ha un nome e niente è definibile. Si tratta di ridefinire il ruolo della asimmetria analista-paziente e di ridisegnare la realtà co-costruita del lavoro analitico inteso come una diade indissolubile.

Fine della digressione; torniamo alla nostra analogia con il mondo della fisica delle particelle. In cosa consiste? È proprio il concetto di osservatore in fisica, come abbiamo visto nell’esperimento di Fedrizzi, che ci porta verso una riformulazione della nozione di relazione, sia in natura che in psicologia. Relazionale, allora, è la natura nel suo nucleo più profondo, dove nulla è quello che è se non in relazione a qualcos’altro che funge da osservatore, che ne è la misura, ben oltre a qualsiasi effetto relativistico previsto da Einstein, che per tutta la vita ha sempre comunque pensato ad una realtà oggettiva, indipendente dall’osservatore. Ogni particella elementare è quello che è in relazione ad un osservatore qualunque esso sia, un fotone, un apparato strumentale, la coscienza dell’uomo. Allo stesso modo, nel campo della psicologia, perdono il primato le definizioni categoriali della psicopatologia per fare posto ad un paradigma epistemologico di tipo probabilistico, olistico (nella sua quota non deterministica), emergentista, in una sola parola, relazionale.

L’analogia con la fisica teorica, naturalmente, riguarda il paradigma scientifico sottostante e comune, che impressiona perché ci costringe a rivedere la storica differenza tra scienze della natura e scienze dello spirito che ha contraddistinto la cultura occidentale moderna, fino ai giorni nostri. Non è poco, da una parte, così come dall’altra, non ci si può spingere oltre per la sola ragione che ci sono almeno 30 ordini di grandezza tra la realtà della psiche e il mondo dell’infinitamente piccolo (30 zeri), così come i due ambiti sono divisi dal tempo profondo dell’evoluzione biologica, circa 3,5 miliardi di anni. Allora, tra le due scienze, la fisica elementare e le psicologie del profondo, l’affascinante analogia epistemologica suggerisce di superare ogni velleità deterministica oggettivante, senza tuttavia commettere l’errore di scambiare una metafora con una spiegazione.

Chiudo con una considerazione sul lavoro di definizione e sintesi del modello relazionale ad opera di Greenberg e Mitchell, a cui dobbiamo la principale sistematizzazione storica e concettuale del paradigma, sintesi nella quale non viene presa in considerazione in alcun modo l’opera di Jung. La complessità di un pensiero poco sistematico e, per certi versi, paradossale è nota ed infatti, anche in questo caso, è come se i due autori newyorkesi non fossero riusciti ad inquadrare e collocare Jung rispetto alla svolta relazionale nelle psicologie del profondo.

Non è certo la prima volta che Jung venie frainteso o associato impropriamente a interpretazioni, anche opposte tra loro, proprio a causa di una sorta di indeterminatezza delle sue teorizzazioni da una parte e della vastità ed eterogeneità degli argomenti trattati, dall’altra. Anche in questo caso, emerge una certa paradossalità della posizione junghiana in merito al primato della relazione nel contesto clinico. A prima vista sembra proprio che la psicologia analitica abbia una concezione monopersonale della psiche, non pulsionale naturalmente, ma riconducibile all’interno di un quadro interpretativo intrapsichico, come ben esprimono le formulazioni teoriche che riguardano sia gli archetipi sia il processo di individuazione. Entrambi i concetti, infatti, rimandano all’ambizione di costruire una psicologia generale, universale o, diremmo oggi, evidence based. Si tratta dello Jung scienziato che, insieme ad altri, ha cercato una strada che conducesse la psicologia verso l’appartenenza alle discipline scientifiche in un contesto storico fondativo per una branca della ricerca e della cultura appena nata. Poi, però, c’è anche lo Jung clinico, da sempre attento al ruolo e all’identità del terapeuta (a lui dobbiamo l’analisi didattica), che, attraverso lo studio e la considerazione degli aspetti dissociativi della psiche, intesi quali naturali meccanismi regolatori del funzionamento psichico, ha sempre insistito e sottolineato l’importanza del coinvolgimento della psiche dell’analista contro ogni assurda pretesa di neutralità del lavoro analitico. In questo senso, i fenomeni di enactment e di self-disclosure, così centrali nel dibattito scientifico contemporaneo nell’ambito psicoanalitico relazionale, sono analizzati e discussi da Jung in molte parti della sua opera, come inevitabili dimensioni della mutualità analitica, che, per sua stessa natura, mai potrà ricondursi ad una asettica neutralità interpretativa.

Il dono, dal culturale alla cultura

Per culturale indichiamo il processo attraverso il quale un individuo apprende ed elabora i valori, i simboli, i temi, le arti, le scienze di un determinato contesto. Con cultura indichiamo il complesso del sapere letterario, artistico e scientifico proprio di un popolo o di un’epoca

 

Ho, nei precdenti articoli, più volte fatto riferimento al sistema sociale, simbolico e culturale come significanti delle azioni soggettive. Ho più volte accennato che il riconoscersi, la costruzione o la percezione dell’identità, l’appartenere sono da riferire al luogo dell’altro che altro non è che uno spazio simbolico determinato dal sistema culturale. Abbiamo, in sostanza, tenuto da sfondo, mettendo in primo piano il soggetto, il culturale. Nell’analizzare queste relazioni e rapporti possiamo fare riferimento agli studi della gestalt sulla percezione delle figure e dello sfondo, tenendo conto che le figure tendono ad emergere mentre allo sfondo tendiamo a non dare importanza. Allo stesso modo il culturale emerge rispetto alla cultura poiché:

  • È più piccolo e i suddetti studi ci informano che le forme più piccole si leggono come figure e quelle più grandi come sfondo. Il culturale essendo più limitato tende ad emergere nella nostra razionalità, mentre la cultura rimane sullo sfondo come una sorta di inconscio collettivo;
  • Il culturale, essendo di immediata lettura, si presenta più nitido e definito rispetto alla cultura, viene percepito come figura mentre la cultura, essendo aperta, come sfondo;
  • Il culturale, presentandosi come forma semplice, viene percepito come figura; al contrario, la cultura essendo più elaborata e ingarbugliata viene letta come sfondo;

Ciò che emerge, in particolare, dagli studi della Gestalt è che per figura si intende quell’elemento – o insieme di elementi – delimitato da un contorno che, all’interno di un’immagine, attira la nostra attenzione. Per sfondo si intende la parte dell’immagine che avvolge la figura, e che ci appare più lontana e indefinita.

Non vi è dubbio che il soggetto rispetto alla cultura si presenti come una figura più piccola, con una forma chiusa, più semplice, simmetrica, convessa e molto legata al basso. L’ultimo dei paradigmi dell’organizzazione percettiva, inoltre, ci dà una indicazione chiara ovvero il soggetto tende ad essere legato alla terra mentre il culturale guarda di più verso il cielo. Eppure la figura del soggetto non potrebbe emergere se non come partecipante ed effetto dello sfondo. Infatti, il soggetto non è fuori dal quadro ma ne è una parte costituente e, quindi, la sua difficoltà è di non potersi leggere dal di fuori in maniera oggettiva. Al contrario, egli è inserito, anche se si stacca, all’interno dello sfondo il quale ne delinea i contorni, lo avvolge, lo descrive, lo ritaglia, lo differenzia.

La cultura che fa da sfondo come ci indica Ida Magli (1982), è

uno strumento biologico perché è il prodotto dell’attività encefalica; senza di essa la specie umana non avrebbe potuto sopravvivere; nelle sue espressioni però ha assunto significati e dimensioni tali che l’uomo non si accorge di usarla e quindi l’assume come sua natura al punto da non riconoscerla e da non poterla pensare in forme diverse (1982).

Ciò, vuol dire che, in senso antropo-poietico, la cultura fa rinascere il soggetto mettendolo al centro della scena. E’ la cultura che, da un lato lo plasma e, dall’altro, gli permette, elaborando il materiale incorporato, di compiere le necessarie trasformazioni ed evoluzioni culturali.

Questa distinzione la troviamo nell’utilizzo del nome e del suo aggettivo. Per culturale indichiamo il processo attraverso il quale un individuo apprende ed elabora i valori, i simboli, i temi, le arti, le scienze di un determinato contesto. Con cultura, così come riportato nel dizionario italiano Garzanti, indichiamo “il complesso del sapere letterario, artistico e scientifico proprio di un popolo o di un’epoca: la cultura greca, romana; la cultura europea del Settecento; la cultura moderna; uno studioso di cultura classica”. E’ attraverso la inizializzazione prevista dai riti antropo-poietici che attraversiamo il culturale per entrare dentro la cultura. E’ l’essere culturale che ci lega alla cultura. Sono le azioni e le trasformazioni culturali che ci rendono partecipi e protagonisti della cultura personale, familiare, della stirpe, del sistema sociale, della comunità, di un’epoca, dell’intera storia umana. Possiamo ipotizzare, seguendo Scabini e Cigoli che tratteremo più avanti, che l’inconscio, in senso lacaniano, sia il luogo della cultura.

La cultura non è solo il sapere e, quindi, non è un contenuto razionale. Il sapere è il culturale essendo ciò che apprendiamo nelle nostre attività razionali. Se dovessimo esplicitare queste informazioni, in termini batesoniani, la cultura è la “struttura che connette” in quanto meta struttura ovvero struttura che contiene al suo interno altre strutture. La “struttura che connette” per Bateson è tipica della “creatura”. Il culturale, invece, è ciò che avviene all’interno della struttura che connette ovvero le relazioni tra le varie parti, tra membri della stessa struttura o le relazioni tra strutture. Il culturale è, inoltre, la storia delle relazioni tra la “creatura” e tutti i membri del suo mondo dotando di significato le stesse relazioni. In altre parole, è il contesto che dà significato alle singole azioni o alla relazioni. Se il culturale dà significato alle relazioni, è la cultura che dà significazione alla produzione culturale inserendola all’interno dei fenomeni antro-poietici.

Il culturale è antro-poietico nella misura in cui tende ad inserire l’essere biologico nella cultura. Nell’articolo precedente ho descritto il processo biologico dalla meiosi alla nascita come il percorso di differenziazione rispetto alle cellule responsabili della fecondazione e, con la nascita, del duo madre-bambino. Ora possiamo affermare che dall’atto della fecondazione inizia il processo culturale di trasformazione del biologico in culturale che trova i suoi significati nella cultura che è il contenitore dei significati che si sono sviluppati sul piano antropologico. Se il culturale, infatti, si occupa di ontogenesi, la cultura di filogenesi ed, in questo senso, è il contenitore della storia antropologica dell’uomo.

Il culturale è poietico perché riproduce, nel senso etimologico del termine, in maniera creativa. E’ questa caratteristica che fa sì che la cultura è dinamica e si evolve. Ogni nuovo evento viene analizzato ed elaborato nel culturale per poi passare nella cultura. D’altronde anche la riproduzione è un processo poietico poiché da due gameti si forma un zigote che contiene le caratteristiche delle cellule madri, ma non è la loro somma essendo unico all’interno della specie. Allo stesso modo, alla nascita, il neonato contiene le caratteristiche dei due genitori ma è un essere unico. Nei precedenti articoli ho già analizzato lo sviluppo del bambino dall’atto della sua nascita e i processi di differenziazione che mette in atto.

Ciò che interessa in quest’ambito sono i vari riti sociali e culturali. Alcuni autori, tra cui Sartre, Gould, Rose, fanno risalire l’esigenza antro-poietica alla consapevolezza che il biologico è incompleto e, quindi, l’individuo deve costruire la sua umanità. Herder sostiene che l’individuo questa costruzione deve inventarsela: deve, in qualche modo, fingere. Ecco come mai in questa piena libertà l’uomo assume molteplici aspetti che vanno dalla conformità alla non conformità.

Mircea Eliade fa coincidere l’esigenza antro-poietica con i riti d’iniziazione delle società arcaiche che spesso sono collegate al sacro. Egli sostiene che

l’iniziazione mette fine all”uomo naturale e introduce il novizio alla cultura – che ha – origine soprannaturale. Gli anziani, gli sciamani, i maestri spirituali che sono stati investiti e iniziati dal sacro fin dai tempi remoti hanno il compito di far rinascere l’uomo come culturale ‘in conformità a un canone esemplare e transumano’

Nella stessa opera afferma che la società moderna ha perso i connotati della sacralità e, quindi, l’uomo, liberato dai riti d’iniziazione, dagli idoli, ha cercato di scoprire il proprio sé all’interno del biologico. In effetti, come abbiamo visto all’inizio della trattazione del dono, i teorici dell’homo oeconomicus sostengono che l’uomo per ritornare allo stato di natura deve liberarsi degli idoli e dei relativi rituali. L’uomo moderno, appunto l’homo oeconomicus, secondo questi autori, non è un essere con un sistema biologico manchevole anzi, al contrario, deve sforzarsi di far emergere il biologico al fine di trovare tutte le risorse razionali in modo da perseguire l’utilità e il proprio interesse. In sostanza, l’uomo può produrre il culturale senza cultura che, invece,  deve essere in qualche modo scrostata da tutte le paranoie ritualistiche e credenziali dei secoli precedenti.

Si tratta per i teorici dell’homo oeconomicus di produrre un uomo nuovo che attraverso il culturale deve scrivere una nuova cultura. Uno dei limiti evidenti delle suddette teorie è di voler produrre un uomo senza radici. La cultura, infatti, costituisce la radice dell’uomo da cui il soggetto trae, attraverso l’azione culturale, i suoi elementi vitali e alla quale restituisce maggiore linfa. Credo che sia una regola abbastanza banale affermare che l’albero non può crescere senza le sue radici così come quest’ultime muoiano senza l’albero. Dall’altro lato, il limite dell’antro-poietica classica sta nel ritenere che un rituale d’iniziazione possa formare la cultura, semmai il rituale può essere una delle tante manifestazioni del culturale.

Io sono d’accordo con l’affermazione di Herder che “l’uomo si costruisce giorno dopo giorno”. Dal momento della fecondazione trasformandosi in culturale entra all’interno della cultura e, nello stesso momento, quest’ultima cambia in funzione del nuovo arrivato. D’altronde che lo sviluppo avvenga giorno dopo giorno è ormai patrimonio della psicologia dello sviluppo sia che esso avvenga attraverso il superamento di vari stadi – Freud e Piaget – o che sia un processo continuo di apprendimento, come nel comportamentismo.

 

Il metodo per crescere i bambini in un mondo digitale (2019) di Jordan Shapiro – Recensione del libro

Le differenze generazionali e con esse la diversa familiarità con l’utilizzo degli strumenti informatici e le conseguenti linee guida a riguardo sono argomenti affrontati con una certa frequenza, ma stavolta a parlarne è Jordan Shapiro, esperto in materia di tecnologia digitale e bambini. 

 

Come ben sappiamo l’epoca odierna è caratterizzata da strumenti altamente tecnologici; strumenti che hanno caratterizzato un po’ tutte le interazioni, il mondo del lavoro e dell’istruzione, della ricerca e via discorrendo.

Coloro che sono un po’ più avanti con gli anni notano senz’altro una differenza: essi infatti hanno vissuto un contesto ben diverso da quello attuale, privo di tecnologia, o quantomeno dove l’informazione e gli strumenti digitali non erano caratterizzanti della società.

Di contro i più giovani, fin dalla prima infanzia, hanno preso contatto e dimestichezza con il mondo “digitale”.

È pur vero che le generazioni precedenti si sono ormai adattate a questa nuova società prendendo una certa familiarità con l’utilizzo degli strumenti informatici, ma non bisogna sorvolare su un particolare di una certa importanza: i genitori di oggi potrebbero avere più di una difficoltà nel relazionarsi ai propri figli che nascono e crescono nel mondo digitale.

Le differenze generazionali e le conseguenti linee guida a riguardo sono argomenti affrontati con una certa frequenza, ma stavolta a parlarne è Jordan Shapiro, esperto in materia di tecnologia digitale e bambini.

Nel suo libro Shapiro suggerisce ai genitori di oggi come crescere i propri figli in un mondo ormai digitalizzato, partendo dal basso per poi ampliare le sue vedute.

Infatti l’autore affronta dapprima la tematica del gioco e delle attività ludiche, per poi proiettarsi sulla cosiddetta società digitale.

Quali sono i giochi digitali per eccellenza? Naturalmente i Video-Games.

Shapiro, facendo riferimento a celebri esponenti come Piaget e Vygotskij, addestra l’adulto a costruire insieme al bambino un contesto in cui il gioco diviene partecipazione civica.

Il gioco infatti svolge la stessa funzione ludica ormai da anni, il genitore deve solo essere abile nell’adattarsi alle tecnologie odierne.

Attraverso il gioco i bambini affinano l’autodisciplina e le funzioni cognitive, padroneggiando le nozioni di base necessarie per diventare adulti realizzati. Per partecipare e crescere sani in un’epoca specifica è necessario che la percezione di Sé sia in linea con gli sviluppi economici e tecnologici del momento.

Dunque gli adulti di oggi non dovrebbero preoccuparsi che i propri figli trascorrano meno tempo all’aperto, in quanto un gioco, seppur virtuale, comunque stimola la fantasia e la creatività del bambino, e ciò avviene mediante gli strumenti dei tempi odierni.

Accantonato il contesto “Gioco”, Shapiro poi affronta la tematica Casa e Famiglia.

Naturalmente non può non affrontare l’argomento telefoni cellulari e tablet.

 Pare infatti che i genitori si preoccupino molto del fatto che i propri figli si nutrano adeguatamente ai pasti, e poco importa se a tavola sono presenti strumenti quali smartphone o tablet.

Shapiro guida i genitori verso una corretta valorizzazione dei momenti di socializzazione in famiglia: durante i pasti vanno accantonati tutti gli strumenti digitali, anche la televisione.

Piuttosto il genitore può giocare ai video giochi insieme al proprio figlio o con lui guardare la tv in un momento più adeguato e dedicato proprio a ciò.

In questo caso lo strumento digitale diverrà un mezzo di socializzazione familiare.

E la scuola?

Ormai anche il contesto scolastico è caratterizzato da numerosi strumenti informatici, a partire dalla nuova campanella ormai computerizzata e di conseguenza collegata ad un registro elettronico.

Shapiro guida il genitore in un contesto scolastico ben diverso dai tempi passati, dove la tastiera ha sostituito la calligrafia, e dove il raggiungimento delle informazioni è diventato velocissimo.

L’autore spiega come sia possibile stimolare la creatività del bambino utilizzando i nuovi strumenti tecnologici, ma dà anche dei suggerimenti agli insegnanti: essi devono includere nelle lezioni progetti giocosi e di immaginazione anche con componenti informatiche. In questo modo si incoraggiano i bambini a vedere le tecnologie del mondo connesso come strumenti per l’auto-espressione creativa.

Gli ultimi capitoli del libro di Shapiro sono dedicati alla “Nuova Empatia”: il bambino dovrebbe essere guidato a sfruttare gli strumenti digitali in modo che favoriscano una percezione di Sé significativa e un approccio empatico con gli altri.

Al giorno d’oggi si può comunicare in svariati modi, e con tante metodologie digitali. Il problema è che comunicando in modo virtuale potrebbe venire meno la percezione creativa di sé e dell’altro.

In questo caso il genitore deve imparare a guidare suo figlio a vedere il mondo da altre prospettive, e ciò sarà possibile mediante l’interazione genitore – figlio grazie all’ausilio proprio degli strumenti digitali.

Shapiro infatti evidenzia nel suo libro prettamente gli aspetti positivi di tali strumenti, in quanto essi sono dei mezzi volti ad educare i giovani di oggi in questa società.

Si tratta non solo di una guida volta ad accompagnare le madri e i padri di oggi in un’epoca moderna, ma anche di un manuale di riflessione sull’utilità e sui vantaggi dei nuovi mezzi digitali.

Deep Transcranial Magnetic Stimulation: nuovo trattamento per il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC), è una patologia invalidante con una prevalenza del 2%-23%; solo il 40%-60% dei pazienti risponde al trattamento. La stimolazione cerebrale non invasiva può rappresentare un nuovo trattamento alternativo, per modulare l’eccitabilità, l’attività e la plasticità neuronale. 

 

 Il circuito cortico-striato-talamo-corticale (CSTC) sporge dalla corteccia allo striato, dallo striato al talamo, attraverso il globus pallidus, e quindi di nuovo alla corteccia.

Diverse ricerche hanno evidenziato il ruolo importante del circuito CSTC nel disturbo ossessivo compulsivo, dal momento che nei soggetti affetti sono state rilevate diverse anomalie in queste aree.

Il circuito è comunemente diviso in tre circuiti principali: sensomotorio, cognitivo e limbico; rispettivamente sono coinvolte le cortecce sensomotorie, la corteccia prefrontale dorsolaterale e le cortecce cingolate anteriori e orbitofrontali.

Queste ultime strutture sono spesso risultate iperattivate nei pazienti con DOC durante il riposo e ulteriormente iperattivate dopo la provocazione dei sintomi, sebbene la loro attivazione risultasse ridotta dopo un trattamento efficace.

Lo studio pubblicato su The American Journal of Psychiatry, condotto dall’Università di Tel Aviv, ha lo scopo di esaminare gli effetti della dTMS (deep Transcranial Magnetic Stimulation) sui soggetti che soffrono di DOC  e che non rispondono a nessuna terapia.

In particolare i ricercatori hanno stimolato delle aree ben precise, visto il loro coinvolgimento nel disturbo: la corteccia prefrontale mediale e la corteccia cingolata anteriore.

La ricerca multicentrica è stata effettuata in 11 centri diversi, 9 negli USA, 1 in Israele e 1 in Canada, da ottobre 2004 fino a febbraio 2017.

 Lo studio consisteva in tre fasi: una fase di screening di 3 settimane, una fase di trattamento di 6 settimane (composta da 5 settimane di trattamenti giornalieri 5 giorni a settimana e quattro trattamenti durante la sesta settimana) e una fase di follow-up dopo 4 settimane.

Per la ricerca sono stati reclutati 100 soggetti, di cui 28 tramite pubblicità sul web e 72 tramite segnalazioni dei medici locali, in seguito la diagnosi di DOC è stata confermata da un medico, attraverso un’intervista clinica strutturata per il DSM5. L’età dei partecipanti era compresa tra i 22 e 68 anni, inoltre, i loro punteggi alla Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (YBOCS) dovevano essere superiori a 20.

I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: il primo ha ricevuto un trattamento “placebo” mentre il secondo la dTMS.

Il trattamento “placebo” produceva una sensazione al cuoio capelluto, i partecipanti venivano informati sulla possibile contrazione involontaria del viso o della mano, erano all’oscuro della loro condizione di trattamento, inoltre veniva assegnata loro una scheda magnetica che regolava la bobina del casco, la quale si sarebbe attivata dopo il posizionamento del casco.

I due gruppi hanno mostrato una riduzione diversa nei punteggi relativi alla YBOCS: il secondo gruppo ha avuto una riduzione maggiore rispetto al primo, rispettivamente il secondo di 6 punti, mentre il primo solo di 3 punti.

La risposta iniziale al trattamento con dTMS era del 38.1 %, dopo 1 mese del 45.2 %, mentre per il trattamento “placebo” dell’11.1% e del 17.8%. Durante la fase di follow up i due gruppi continuavano a presentare una differenza significativa nella risposta al trattamento.

Concludendo, le stimolazioni della dTMS ad alta frequenza sulla corteccia prefrontale mediale e sulla corteccia cingolata anteriore hanno migliorato significativamente i sintomi del DOC, perciò questo nuovo trattamento può essere considerato un intervento efficace per i pazienti che non rispondono adeguatamente agli interventi farmacologici e psicologici.

Un’insegnante viene umiliata in classe dagli studenti perché mentalmente sofferente

Sta circolando in questi giorni sul web un video girato da alcuni studenti di una scuola superiore italiana nel quale si riprende un’insegnante visibilmente in difficoltà e con importanti problemi psicologici che viene derisa dall’intera classe. Le questioni, enormi, che tale documento pone all’attenzione pubblica sono di vario genere, tutte di rilevanza assoluta ed urgente. Proviamo qui a indicarne le principali

 

Sta circolando in questi giorni sul web un video girato da alcuni studenti di una scuola superiore italiana nel quale si riprende un’insegnante visibilmente in difficoltà e con importanti problemi psicologici che viene derisa dall’intera classe.

È preferibile non diffondere questo raccapricciante documento sia per evitarne la viralità, sia per non dare risalto ad un illecito. Ma purtroppo il video è ormai pubblico e testimonia una realtà delle nostre scuole molto più diffusa di quanto si pensi. Le questioni, enormi, che tale documento pone all’attenzione pubblica sono di vario genere, tutte di rilevanza assoluta ed urgente. Proviamo qui a indicarne le principali, solo le prime che mi sovvengono.

Problema Salute Mentale nella scuola

La tutela della salute mentale nei luoghi di lavoro e nella società tutta è tema di proporzioni inavvicinabili, ma quando si parla di scuola, stiamo parlando della formazione umana e culturale delle prossime generazioni.

È esperienza comune come genitore, come professionista, come persona, come collega, come cittadino, che raccoglie centinaia di testimonianze simili, che nel corpo docente, come ovunque del resto, la salute mentale non sia sufficientemente tutelata. Potrei raccontare decine di episodi di docenti non semplicemente bizzarri, ma anche severamente problematici, del tutto incompatibili con la funzione che svolgono e per di più sovraesposti a condizioni di stress emotivo inaudito con le classi e con i colleghi. E non stiamo parlando solo del noto fenomeno del burn out, ubiquitario nella scuola, ma anche di situazioni palesemente cronicizzate e che qualunque studente, fin dalle elementari è in grado di raccontare.

Ciò che principalmente indigna nella visione di questo video è stato constatare la condizione indecorosa e vergognosa nella quale questa povera persona si stava trovando.

Nessun essere umano merita di essere esposto a tale umiliazione pubblica mentre patisce di una condizione di difficoltà o di minorità. Eppure questa docente era in classe, da sola, nessuno la stava aiutando, proteggendo, consigliando. Nessuno le ha potuto dire di evitare quella penosa arena, nessuno si è accorto di come ella stesse effettivamente, nessuno le ha potuto concedere del riposo, nessuno probabilmente ci avrà parlato o se è stato fatto è stata ignorata la sua condizione.

Come funziona allora, mi domando ingenuamente, se un insegnante manda chiari segnali di squilibrio o di malessere psicologico? Chi se ne accorge? Chi interviene a proteggerlo? Chi l’aiuta?

La filiera di responsabilità morali, civili, istituzionali e politiche che ha sbattuto questa persona (come molte altre non segnalate) nell’arena dell’umiliazione pubblica è evidentemente lunga e andrebbe snocciolata.

Problema credibilità/autorevolezza dell’istituzione-scuola

Ma qual è messaggio implicito che adulti irresponsabili mandano ai ragazzi nel momento che quella insegnante viene data in pasto alla classe?

Guardate che qui non si fa sul serio: chiunque ma proprio chiunque può stare in cattedra e perciò voi fate benissimo a pensare che la nostra autorevolezza non esista e fate bene a calpestarla in ogni modo.

Infatti, si moltiplicano le opinioni che derubricano e deresponsabilizzano totalmente il comportamento illegale, illecito e inappropriato di questi ragazzi perché tutti sappiamo che tanto funziona così e che di meglio non possiamo aspettarci da questi giovani. Ma questo è l’ennesimo errore di misura di questa vicenda.

La mancanza di compassione dei ragazzi, visibile in quel filmato e soprattutto in chi lo diffonde, è lo specchio fedele di un mondo adulto inesistente e irresponsabile. La metacomunicazione a livello sociale è: le istituzioni sono morte, la scuola è morta, siamo l’emblema della cattiva coscienza pubblica. Vogliamo solo intrattenere i giovani e procurare stipendi a persone che altrimenti soccomberebbero. Se la scuola abbandona totalmente la propria mission per diventare contenitore di disagio, muta automaticamente la sua reale funzione per adottare quella di contenitore sostitutivo del welfare sanitario. In questo caso gli utenti finali della scuola, gli studenti (i cittadini di domani) e le loro famiglie diventano ospiti sgraditi e inopportuni.

Problema della qualità formativa della scuola

A corollario dei punti precedenti, la riflessione che emerge da una vicenda del genere si estende ai criteri con i quali si valuta la qualità formativa in possesso degli insegnanti e la qualità formativa offerta agli studenti.

Oggi la scuola ha alzato molto i criteri formativi necessari per accedervi come insegnante, ma evidentemente in tale programmazione accanto alle competenze formali e abilitanti non si riesce a valutare altre competenze, altrettanto importanti, quali le attitudini personali all’insegnamento e altre valutazioni personologiche essenziali per poter svolgere un lavoro così importante come questo.

Un insegnante in burn out o in crisi personale per qualunque ragione, peggiora verticalmente la propria efficacia oltre che la propria vita e si dovrebbero predisporre dei dispositivi istituzionali che aiutino i lavoratori a prevenire il burn out.

Problema dell’educazione e dell’umanità degli studenti

Alla fine di questa penosa sequenza di problematiche giganti, ma non da ultimo, troviamo forse il capitolo più dolente di tutti, quello della formazione umana degli studenti. In quel filmato i ragazzi rispondono collettivamente con derisione di fronte ad una situazione che a loro deve essere apparsa come francamente grottesca.

La sofferenza della docente, pur palese, è stata evidentemente fonte di angoscia per questi studenti, tale da trasformarsi immediatamente, come avviene nei ben noti fenomeni di gruppo e adolescenziali, in presa in giro sadica. Qualcuno pensa di documentare e poi diffondere il filmato come ulteriore forma di esorcismo contro la follia, il disagio, la diversità, la bizzarria, e tutto quanto ci spaventa a morte e che ci insegue nel buio. La scuola diventa luogo dove si sospende ogni pensiero, ogni riflessione e si dà spazio ad ogni forma primitiva di difesa organizzata. Anzi, è la scuola stessa che in fondo organizza la difesa dall’angoscia, drammatizzando il teatro dell’assurdo fornendo alla classe una docente in difficoltà.

Perché dunque porsi il problema della illegalità della diffusione pubblica di questo filmato dal momento che chi siede in cattedra è un pezzo della scuola che deride se stessa?

Quali adulti pensa una scuola del genere? Quali competenze emotive, relazionali, sta formando? Quali capacità di empatia, conoscenza, comprensione, possono mai sviluppare questi studenti che si abbandonano alle risa impaurite e imbarazzate subito dirette sadicamente contro l’oggetto strano e debole che si palesa in cattedra?

Per concludere, direi che i problemi, qui solo accennati, che questa vicenda solleva riguardano questioni annose e cronicizzate che non si vogliono in alcun modo osservare e affrontare.

Basti pensare che l’Italia è forse l’unico paese europeo che non prevede la presenza per legge di uno psicologo scolastico. Molte le proposte ferme in parlamento da molte legislature in qua. Mai giunte in aula. L’unico paese civile, inoltre, dove non esiste, di contro, alcuna istituzione storica che si occupi a tempo pieno di psicologia scolastica. In altre parole la psicologia scolastica in Italia è totalmente estemporanea e affidata alla fortunosa buona volontà delle singole scuole e dei singoli professionisti.

Sia chiaro, non penso che questa sia la soluzione magica a questo genere di problemi, ma è solo un sintomo di come la nostra politica pensa (o forse dovrei dire non pensa) alla nostra salute e alla nostra formazione come cittadini.

Come risolveranno questo problema (se mai qualcuno proverà a farlo) in questa scuola una volta che è diventato un problema pubblico?

Molto probabilmente ci metteranno le solite pezze a colori. Puniranno i fanciulli un po’ stupidini, ma tanto sono ragazzi, che ci vuoi fare… Chiameranno qualcuno a riverniciare le screpolature della brutta figura (qualche counselor o psicopedagogista illuminato). Tante pacche sulle spalle della povera collega maltrattata e tutto tornerà come prima. In questa come in altre centinaia di scuole italiane.

In attesa del delirio – In preparazione all’inaugurazione dell’anno accademico 2019/2020 della Sigmund Freud University di Milano

Questo articolo su State of Mind vuole essere premessa e cornice di riferimento all’intervento che Sandra Sassaroli, benevolente, per antica amicizia e prolungata complicità, mi ha chiesto di portare all’inaugurazione dell’anno accademico 2019/20 della Sigmund Freud University

(NdR: Roberto Lorenzini non sarà presente all’inaugurazione dell’anno accademico, al suo posto interverrà il Prof. Giovanni Maria Ruggiero)

 

In attesa del delirio – I parte

Questo articolo su State of Mind vuole essere premessa e cornice di riferimento all’ intervento che Sandra Sassaroli, benevolente, per antica amicizia e prolungata complicità, mi ha chiesto di portare all’inaugurazione dell’anno accademico 2019/20 della Sigmund Freud University (mica pizza e fichi!) su quello che era il mio cavallo di battaglia nei tempi esaltanti degli ideali antipsichiatrici e della sporca pratica territoriale, ovvero “la comprensione, il senso ed il trattamento del delirio” e che ora definirei più propriamente il mio ronzino da marchette nel tempo del pensionamento e delle incalzanti spese sanitarie. Approfitto, dunque, come ogni buon italiano che si rispetti affascinato dai balconi, del pulpito che mi è offerto per abbaiare arrogante una predica, come si addice ai vecchi, diretta a coloro che saranno i futuri ricercatori e psicoterapeuti o sono tuttora in servizio permanente effettivo nell’esercito dei consolatori di anime inquiete come la loro per evitare che ripetano quelli che reputo gli errori perpetrati dalla mia generazione permettendogli di farne altri magari opposti ma comunque del tutto nuovi.

Il ‘900, il cosiddetto secolo breve (che tale risulta ad Hobsbawm solo perché lo considera dal 1914 al 1991), ha visto con l’affermarsi degli stati-nazione e della tecnologia una conflittualità globale senza precedenti. Allo stesso modo, forse per alchemico isomorfismo una sorta di spinta sovranista, per dirla con un termine tristemente attuale, ha motivato la psichiatria a rivendicare la propria autonomia dalla neurologia e invocato “la separazione delle carriere” per cui mentre prima con tre anni di specializzazione si diventava neuropsichiatri tout court, poi ne sono diventati necessari 4 per la neurologia e altrettanti per la psichiatria, ma ognuno era felicemente padrone in casa propria. Poco importa se al prezzo di disorientare i pazienti, sarebbe valso loro come utile allenamento per orientarsi poi tra le mille diverse e più o meno blasonate psicoterapie che andavano affermandosi, distinguendosi puntigliosamente e orgogliosamente l’un l’altra nel tempo della inarrestabile avanzata farmacologica somigliando così ai proverbiali capponi di Renzo Tramaglino.

Tale processo sovranista e autonomistico era in linea con la deriva iperspecialistica di tutta la medicina occidentale che è diventata sempre più medicina d’organo, di cellule se non di molecole, perdendo di vista la complessità dell’essere umano e lasciando così ampio spazio agli approcci olistici delle medicine non tradizionali che mantenevano, se non altro, il pregio di visitare, toccare, guardare, annusare e persino ascoltare il paziente creando una relazione, indicata dal saggio Ippocrate su cui ancora giuriamo, come il primo dei medicamenti, non limitandosi semplicemente a prescrivere esami strumentali e di laboratorio per inviare poi ad un altro e più specifico iperspecialista. La medicina difensiva ha poi accelerato ulteriormente questo processo e il paziente abbandonato a se stesso si è rivolto senza un Virgilio a guidarlo sui tortuosi sentieri di internet combustibile pregiato per ogni onanismo ipocondriaco.

La medicina in generale e con essa la psichiatria soprattutto accademica -un po’ meno quella dei colleghi ruspanti e praticoni impegnati sui molteplici fronti della psichiatria territoriale nata nel 1978 dalla legge Basaglia che però, ingiustamente afflitti da un complesso di inferiorità da deprivazione da camice bianco e stetoscopio a tracolla, non producevano cultura scientifica- ha smesso di considerare la malattia come un segnale di disagio esistenziale da ascoltare e utilizzare per reindirizzare la propria vita e, invece, l’ha oggettivata come un nemico esterno ed estraneo semplicemente da sconfiggere e annientare –ovvero rendere niente- come fosse altro dal soggetto che l’ha prodotta, da qui l’utilizzo di una terminologia prevalentemente bellica del rapporto tra il malato e la sua malattia. In tal senso trovo inopportuna la personificazione della malattia come quando si parla del disturbo ossessivo compulsivo come di un parassita estraneo che ci ha infettato. In tal modo si asseconda l’idea che non dipenda da noi e sia fuori del nostro controllo alimentando la fantasia di molti pazienti che ci chiedono di eliminare il sintomo non modificando però nulla del loro modo di stare al mondo (non si può fare, non funziona). Illusione su cui prolifera la lobby farmaceutica. Negli ultimi decenni del secolo scorso il pendolo ha invertito la direzione ed è iniziato un movimento opposto di ricomposizione mente/corpo grazie alle neuroscienze che tuttavia rischia di generare quelle terribili semplificazioni, verso cui metteva in guardia già Bateson, che possono uccidere la psicologia, la riflessione psicopatologica e conseguentemente la psicoterapia mentre, al contrario, i suoi risultati, se esaminati criticamente in una prospettiva a centralità psicologica che ponga l’uomo come il livello su cui è utile riflettere, possono esserne un sostegno solidissimo. Ormai è evidente come gli psicofarmaci non mantengano affatto le strepitose promesse delle aziende produttrici perché la loro efficacia è spesso parziale, modesta o nulla; la loro azione è tutt’altro che specifica e mirata, ma piuttosto generica e grossolana (non più intelligente delle bombe americane che colpiscono asili e ospedali); l’effetto è quasi esclusivamente sintomatico e transitorio e non è affatto chiaro su quali dimensioni agiscano per produrre la riduzione sintomatologica auspicata. Detto in altri termini, significa che se ne conosce appena il meccanismo d’azione a livello biochimico e si ignora quasi del tutto il passaggio tra questo e lo psichico. A tal proposito si consideri che alcuni farmaci (vedi gli antidepressivi serotoninergici) sono efficaci su sintomi molto diversi tra loro come ansia e depressione, è dunque ipotizzabile che agiscano su una sottostante dimensione comune. La sfida per l’identificazione di un mediatore prossimale dell’efficacia non riguarda solo i farmaci.

Infatti se è vero che sarebbe importante capire come gli antidepressivi serotoninergici migliorino sia la depressione che l’ansia, ad esempio reindirizzando l’attenzione su eventi positivi (se ci concentriamo sul bene siamo sia meno depressi che meno ansiosi) potenziando così l’illusione ottimistica che ci rende tollerabile l’esistenza, altrettanto importante sarebbe, ad esempio, comprendere in che modo le esperienze precoci negative costituiscano un fattore di rischio per la salute mentale. Insomma, entrambi gli approcci dovranno collaborare per definire quelli che possiamo chiamare “mediatori prossimali” o “dimensioni sottostanti” per scoprire probabilmente che sono gli stessi. Questo è un compito comune per dare una solida base sia agli interventi farmacologici che a quelli psicosociali e riabilitativi. Per procedere in questa direzione occorrono modelli esplicativi psicologici che non possono essere inferiti dalle ricerche delle neuroscienze che spesso compiono l’errore, tipico di una scienza giovane, di scambiare semplici correlazioni per rapporti causali. Ciò, speriamo, varrà a superare l’attuale genericità del modello “multifattoriale sommatoristico” (conio questo orribile neologismo) che non risolve il problema centrale di stabilire se esista una differenza tra “res extensa” e “res cogitans” e, se sì, dove sia il passaggio, insomma dove la materia diventi spirito e il cervello mente. Che la mente stia nel sistema nervoso (forse non solo in quel pezzo che sta nel cranio) e sia un suo prodotto è un’ovvietà, ma questo non significa affatto che le malattie della mente siano malattie del cervello e neppure che tutte le malattie del cervello determinino necessariamente malattie mentali, sebbene possa darsi che i due fenomeni in taluni casi siano sovrapposti.

Attenzione! Non si tratta di stabilire quale sia il livello di descrizione ultimo, basilare, quello più vero a cui tutti gli altri possono essere ridotti -perché ciò già presupporrebbe che esistano livelli diversi e non semplicemente categorie e linguaggi differenti per parlare della stessa cosa- ma semmai quale sia il livello di descrizione più utile ovvero più euristico, che permetta cioè di fare previsioni attendibili. Ora considerato che noi siamo persone e ci interessa capire e prevedere come funzionino le persone, ad iniziare da noi stessi, il livello di descrizione più utile è quello personale. Se fossimo mitocondri ci sarebbero utili teorie sul funzionamento dei nostri colleghi e altri organelli vicini nel citoplasma cellulare e se fossimo molecole di carbonio saremmo interessati alle attitudini dell’ossigeno e dell’idrogeno. Un romanzo può essere descritto e valutato per il suo contenuto ed altrettanto correttamente analizzando l’inchiostro o i pixel con cui è scritto ma quale è il livello che ci interessa? Se voglio raggiungere Milano in treno non è interessante conoscere la struttura delle vetture, delle rotaie e il tipo di propulsione, ma gli orari, le fermate e i costi. Allo stesso modo, un essere umano può essere descritto a livello del suo funzionamento globale oppure del funzionamento dei suoi singoli apparati vitali, o, scendendo ancora, degli organi che li compongono, delle cellule di cui questi sono costituiti e infine delle singole molecole.

Ancora, non è forse vero che la cultura e l’arte, in tutte le loro manifestazioni, altro non sono che biochimica che funziona secondo le leggi immutabili della chimica stessa e della fisica quantistica come qualsiasi entità esistente. Ma è quello il livello euristico quando parliamo di arte e cultura? Certo tutto quello che avviene nel mondo fisico è secondo le sue leggi, ma vederlo da questo micro punto di vista non ci aiuta a fare previsioni, che è ciò che ci interessa per indirizzare gli eventi secondo i nostri scopi. Ognuna di queste descrizioni può essere vera, ma quale è euristica per noi essere umani? Discuterò le conseguenze di queste considerazioni nella seconda parte.

In attesa del delirio – II parte

Insomma, il rischio di un’interpretazione banale di neuroscienze priva di un modello psicologico è di trovare i siti, i loci, i recettori, i mediatori e di perdere l’uomo che solo nell’incontro con un altro essere umano si rivela pienamente. Ogni riduzionismo a un livello sub personale può essere utile solo se serve a sostenere o a falsificare una spiegazione a livello personale. Rivendicare questa centralità è compito precipuo delle scienze umane e in primis della psicologia che non deve sentirsi in soggezione rispetto ad altre scienze “dure” ma, al contrario, rivendicare orgogliosamente il suo primato. Il modello mentalistico cognitivista attuale che utilizza i concetti di “scopi, credenze ed emozioni” permette finora previsioni facili e chiare sul funzionamento sano e patologico degli esseri umani e sono tali modelli a dover guidare la ricerca delle neuroscienze.

Un ulteriore equivoco spesso frequente nelle neuroscienze è che una diversità morfologica o funzionale nel cervello di un malato viene considerata la causa della malattia stessa. Il cervello di un panicoso con la sua amigdala extra large (non so se sia vero, è solo un esempio che mi veniva bene) è diverso dal cervello di chi non lo è; anche i cervelli di un pianista, di un tennista, di un wrestler, di un monaco zen sono diversi da quelli degli altri, ma ciò non significa assolutamente nulla. Potremmo più correttamente affermare che le menti sono ciascuna diversa dall’altra esattamente come i cervelli che le ospitano e, di più, che ogni mente modella il suo cervello e ogni cervello modella la sua mente. Certo, un processo psicopatologico, come ogni processo psicologico, è un processo cerebrale (per tali ovvietà si è usi ringraziare “le tre Grazie” in un modo conciso e poco elegante) e possiamo dire che l’esperienza plasma continuamente il cervello, per cui le parole (psicoterapia) e ogni esperienza (riabilitazione) ristrutturano morfologia e funzionamento del cervello. A sua volta il cervello modifica la mente e determina così le esperienze che lo modificheranno retroattivamente. Addirittura si può ipotizzare come fa Daniel Dennet che il meccanismo di funzionamento scopi/credenze, valido per il livello psicologico personale, lo si ritrovi sebbene senza la coscienza a tutti i livelli sub-personali fino alle molecole, per cui tutti hanno un target da raggiungere e una mappa più o meno grossolana dell’ambiente circostante e, dunque, l’intenzionalità e la conoscenza ambientale riguardano ogni elemento vivente, senza bisogno di scomodare coscienza e consapevolezza che spesso fanno più casino che altro inceppando la fluidità degli automatismi istintuali.

Oddio stavo per perdere il filo e il tono minaccioso della predica per cui serro le mani sul pulpito e riprendo savonarolamente.

Un altro pericolo verso cui mettere in guardia i giovani colleghi è quello della diagnosi. Le diagnosi categoriali si moltiplicano a ogni nuova edizione del DSM con molteplici rischi: in primo luogo una diagnosi, soprattutto se grave, rischia di diventare una profezia che si autoavvera, un destino; in secondo luogo rende ciechi a tutto ciò che non la invalida e iperattenti alle conferme come ci ha drammaticamente insegnato l’esperimento agghiacciante noto come “la beffa di Rosenhan”?; in terzo luogo mortifica l’originalità e unicità nel bene e nel male di ogni essere umano; in quarto luogo ci dà l’illusione di spiegare un funzionamento mentre lo etichetta soltanto; in quinto luogo ormai l’incontinenza diagnostica del DSM finisce per “patologizzare” e ovviamente “farmacologizzare” (non state subito a pensar male o vi prenderete, appunto, la diagnosi di “paranoici complottisti” e sarete spediti nel girone dei terrapiattisti, striatori chimici, ecc.) territori sempre più vasti dell’esperienza umana deresponsabilizzando gli individui: non esistono più i cattivi, i depravati, i delinquenti e i viziosi ma solo “indisposti” o al massimo “disturbati” per cui trovare la pasticchetta giusta. Utilizziamo pure le diagnosi dunque per parlarci ai congressi e scrivere articoli ma senza crederci veramente perché altrimenti oggettivando le persone ostacoliamo quella comprensione empatica profonda degli esseri umani possibile perché nulla di ciò che è umano ci è estraneo come scriveva già Terenzio l’altro ieri: ”Homo sum, humani nihil a me alienum puto”.

Il funzionamento o disfunzionamento di un individuo è un concetto relazionale e riguarda il suo adattamento a un determinato ambiente che per la specie umana è sempre un ambiente sociale e culturale, per cui “sano” è interpretabile come “adattato” e ciò crea non pochi problemi quando a non essere sano è il contesto: vedi tutta l’originale opera di Ronald Laing, un tempo vangelo dei giovani psichiatri ed oggi pressoché ignorata dai più. Molto può insegnarci in tal senso la psichiatria transculturale, oggi sempre più attuale grazie ai flussi migratori. I nostri comportamenti e le nostre emozioni possono apparire del tutto folli ad altre culture e viceversa. Infine (i luoghi usati come ordinali per le argomentazioni contro le diagnosi sono finiti col quinto) la diagnosi ci induce a credere che le malattie esistano veramente, che nella realtà oggettiva esista qualcosa come la schizofrenia o il disturbo ossessivo compulsivo: non è vero!

Mi piace pensare invece che ogni tipo di disturbo rappresenti in forma estrema un certo modo di stare al mondo -sto pensando in particolare ai disturbi di personalità- che in qualche fase dell’ontogenesi (storia individuale) e della filogenesi (evoluzione della specie) sia stato utile e adattivo e dunque costituisca una potenzialità che, paradossalmente andrebbe protetta come la biodiversità.

Dal pericolo del diagnosticismo militante si genera l’altrettanto dannoso mito delle tecniche che vanno enormemente proliferando e che, secondo un modello medico deteriore vedono il terapeuta applicarle, come se si trattasse di farmaci o manovre chirurgiche su un paziente passivo che le accetta possibilmente senza tante storie o, per dirlo più elegantemente, resistenze.

In attesa del delirio – III parte

L’ultima favola da cui voglio mettere in guardia i giovani colleghi è quella della guarigione, proponendo un’attenta riflessione sul ruolo sociale della psichiatria e della psicoterapia. Una scienza, infatti, non può smettere mai di interrogarsi, oltre che sulle sue procedure, per migliorarle continuamente, sul suo scopo o, come si dice oggi, sulla sua “mission”. Qual è l’uomo sano e quello da curare? Da questo problema se ne esce solo accettando l’autoreferenzialità per cui non è sano e da curare solo chi soggettivamente si ritiene tale, il che significa che solo i vissuti egodistonici meritino un’attenzione terapeutica. Ciò, tuttavia, non esaurisce il campo tradizionale della psichiatria che, da sempre, oltre ad una vocazione realmente terapeutica che pone al centro l’individuo e vuole renderlo libero e autenticamente se stesso, ha anche un’implicita missione normalizzatrice e custodialistica che protegge la società e i suoi valori, arrivando agli eccessi dei manicomi dove i regimi totalitari rinchiudono i dissidenti ma che è sempre stata presente sin dai tempi del grande internamento che relegava in un unico recinto tutti i devianti fisici, mentali, morali e culturali (mio nonno chiamava chi faceva il mio lavoro “castigamatti”, sempre meglio dell’odioso “strizzacervelli” newyorchese).

Se la mano che la psichiatria mostra più volentieri è quella compassionevole che sostiene l’individuo in difficoltà e cerca di promuoverlo, ne ha anche un’altra nascosta dietro la schiena che vuole normalizzare e omologare. Dovremmo ripensare la malattia, dal disturbo d’ansia al delirio più franco, come il modo migliore che l’individuo ha trovato per sopravvivere in un certo ambiente, quanto di meglio è riuscito a fare per cavarsela. È un po’ come per gli stili di attaccamento (sicuro, evitante, ambivalente, disorganizzato): ciascuno di essi è il più efficace per mantenere la maggiore vicinanza possibile con la figura di attaccamento che si è avuta in sorte, quindi possiamo dire che ogni pattern è il migliore possibile per cavarsela in un certo contesto. Occorre, dunque, chiedersi quale sia il modello verso il quale siamo inconsapevolmente indotti ad adeguare i nostri pazienti e quanto tale modello dipenda dalla nostra cultura dominante e la patologia dall’originalità con cui il soggetto cerca di adattarvisi senza riuscirvi, pur senza cedere alla mistica del folle come rivoluzionario o artista.

Insomma, i modi di stare al mondo sono tantissimi, forse tanti quanti gli uomini, e questa variabilità andrebbe perlomeno rispettata. Quanto ci perderebbe l’umanità (e non solo i nostri bilanci professionali) se scomparissero completamente gli ossessivi, i fobici sociali, gli istrionici o i brillanti narcisisti, per non parlare del danno irreparabile se i diversi temperamenti e caratteri di Cloninger fossero sostituiti da un unico modello base, buono per tutte le stagioni, le latitudini, le culture. Prima di porci il classico proposito ippocratico “Primum non nocere”, dobbiamo chiederci proprio se curare, analizzando attentamente la richiesta e la sua provenienza (la cosiddetta committenza). Un terapeuta deve dunque essere consapevole del contesto culturale in cui opera e che gli conferisce il mandato ed un potere enorme (si pensi al trattamento sanitario obbligatorio e dunque alla possibilità di privare della libertà). La cultura, pur influenzando ogni nostra espressione, lo fa senza che ce ne rendiamo conto. È potente proprio perché la diamo per scontata. Non è l’oggetto del discorso ma la sua premessa, la luce che illumina la scena non gli oggetti o l’azione che vi si svolge. Anche la psicoterapia ne è da un lato un prodotto diretto e recente -appena 150 anni dalle prime sedute, o meglio sdraiate, viennesi di Freud, nume protettore di tutti noi e di questa università in particolare- e dall’altro un onesto servo idiota con l’aggravante di ritenersi intelligente. Escludendo alcuni santoni che dichiaratamente vogliono insegnare come vivere ai propri pazienti trasformandoli in adepti, che sia secondo i dettami del pensiero positivo, del razionalismo, dello scientismo o dell’etica evangelica della chiesa avventizia del penultimo giorno/tardo pomeriggio, poco conta. Gli altri, diciamo gli psicoterapeuti seri, tentano di evitare questo pericolo con una serie di attenzioni che, tuttavia, non eliminano il rischio di proporre inconsapevolmente modelli normativi. Per evitarlo, sono principalmente due le strategie che si usano. La prima è il cosiddetto “atteggiamento non giudicante”. La seconda è partire sempre da “un’egodistonia” del paziente, fissando insieme a lui gli obiettivi.

Soffermiamoci allora sulle premesse culturali implicite che tali strategie presuppongono. L’atteggiamento “non giudicante” tanto sbandierato non afferma in fondo con forza, per usare un ossimoro, un relativismo assoluto per cui tutto va bene e tutto è ammissibile? Attenzione, non che questo sia necessariamente sbagliato, solo che bisogna essere consapevoli che anch’esso è una premessa ideologica, non meno assoluta di tante altre, e che non è l’unico modo di stare al mondo. L’egodistonia, a sua volta, e l’autodeterminazione degli obiettivi mettono al centro di tutto l’individuo, il suo benessere e il conseguente diritto a fare di tutto per ottenerlo. Atteggiamento che dal XV secolo con l’umanesimo ha messo l’uomo e non più Dio al centro dell’universo e che potremmo definire “egocentrismo edonico”. Il messaggio che passa più o meno esplicitamente è “Pensa a te, ai tuoi bisogni e desideri” (ricentramento su di sé) e “Fai di tutto per realizzare il tuo benessere” (assertività), con l’unica attenzione a non essere guidato solo dal principio del piacere immediato ma di tenere conto anche del principio di realtà, per perseguire un piacere che non sia solo a breve ma anche a medio e lungo termine”. Questo è un modello di uomo sano tipico della attuale cultura occidentale di matrice statunitense in cui ognuno deve darsi da fare al massimo per costruire il proprio personale benessere, la propria autorealizzazione, ma non è certo l’unico modo possibile di attraversare l’esistenza. Si pensi ai modelli orientali dove “l’Io” è stemperato nel “Noi” ed il fare in secondo piano rispetto all’essere.

Voglio chiudere queste sgangherate righe con un breve accenno al delirio di cui volevano essere premessa e cornice e che sarà il tema affidatomi all’inaugurazione senza però entrare nel merito della patogenesi, del mantenimento e della terapia il che ridurrebbe l’appeal dell’incontro ottobrino.

Secondo la classica prospettiva cognitivo/costruttivista il mondo in cui viviamo non è fatto di cose ma di opinioni sulle stesse, di significati che ci fanno stare bene o male a seconda dei nostri scopi. La nostra realtà è costituita da rappresentazioni mentali, pallido e soggettivamente deformato simulacro della “cosa in sé” kantiana. Dunque si può dire che ciascuno viva in un proprio mondo privato, in una sorta di delirio benigno. E non sono forse tali le cosiddette illusioni narcisistiche di Sullivan circa il nostro valore, importanza ed immortalità che fanno parte di quel narcisismo “sano” che abbiamo individualmente e come specie umana per controbilanciare la disperazione che scaturirebbe dall’essere gli unici viventi consapevoli della inevitabilità della loro fine e di quella di tutti i propri cari, cui è dedicato l’ultimo lavoro di Gianni Liotti cui ho avuto per caso la straordinaria fortuna di partecipare.

Affermata l’assoluta omogeneità del pensiero delirante con quello normale e che dunque non di una categoria nosografica si tratta ma semmai di una dimensione che va dal confermazionismo della vita quotidiana, all’autoinganno, per arrivare fino al capolinea del delirio paranoico passando per la rigidità (testardaggine) nevrotica, mi sembra che due siano le sottodimensioni di cui tener conto: la perduta consensualità con gli altri che riporta ad una dimensione relazionale la genesi, il mantenimento ma anche la cura dell’isolamento delirante. La fissità versus il cambiamento che è il modo di essere funzionale della conoscenza al punto da poter affermare che tutte le psicopatologie siano connotabili come modalità diverse di malfunzionamento del processo naturale di cambiamento e progresso della conoscenza: tutta la psicopatologia è, a mio avviso, “Patognoseologia”, ma questa è un’altra lunga e noiosissima storia.

 


Processi e relazioni in terapia cognitiva: scenari futuri

Abstract dell’intervento di Giovanni M. Ruggiero per l’inaugurazione dell’anno accademico 2019-2020 della Sigmund Freud University

L’evoluzione scientifica della psicoterapia è davanti a un bivio decisivo. Due sono i possibili esiti. Il primo è la lenta confluenza dei troppi modelli teorici di sofferenza emotiva e di funzionamento della psicoterapia nel paradigma post-teorico dei fattori comuni e della centralità della relazione terapeutica -scenario in cui chiamarsi cognitivisti, sistemici, psicanalisti o altro avrà solo un significato teneramente folcloristico e saremo tutti in fondo dei relazionalisti umanistico-esperienziali rogersiani- oppure avrà successo l’ultimo tentativo residuale di costruzione empiricamente verificabile di un paradigma specifico, distinto dagli altri modelli e con essi in competizione scientifica a viso aperto, quello del cognitivismo clinico, prima standard e poi processualista. Tentativo disperato o lungimirante? Lo scopriremo solo vivendo. La presentazione esplora gli aspetti scientifici ma anche sociali e culturali dei due scenari.

 

Esiste una relazione tra perfezionismo patologico e criticismo genitoriale?

Sembrerebbe verosimile che i bambini di genitori autoritari sviluppino caratteristiche perfezioniste dovute alla natura iper-controllante dei loro genitori: è come se questi bambini internalizzassero il criticismo genitoriale per poi sviluppare un criticismo auto-riferito che li porta a sviluppare perfezionismo come strategia che li preservi dal danno e dall’errore, di cui temono le conseguenze negative..

Greta Lorini
 – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Perfezionismo: un costrutto multidimensionale

Sebbene non vi sia una definizione precisa ed univoca di questo costrutto, alcuni autori hanno ipotizzato che il perfezionismo possa essere un costrutto multidimensionale (Frost, Marten, Lahart & Rosenblate, 1990), costituito da sei dimensioni: la tendenza a reagire negativamente agli errori e ad interpretarli come fallimenti (timore degli errori), la tendenza a porsi standard molto elevati e a ritenerli fondamentali per definire il valore di sé (standard personali), la tendenza a percepire da parte dei genitori standard elevati (aspettative genitoriali), la tendenza a percepire un forte criticismo da parte dei genitori (criticismo genitoriale), la tendenza a dubitare sulla qualità delle proprie azioni (dubbi sulle azioni) e la tendenza ad enfatizzare l’importanza dell’ordine e dell’organizzazione (organizzazione).

La multidimensionalità del costrutto ha portato Frost e colleghi (1990) alla costruzione di uno strumento di valutazione del perfezionismo, la Multidimensional Perfectionism Scale, che tenesse conto delle sue diverse dimensioni e di cui esiste anche una versione italiana (Lombardo, 2008).

Sembra però che il perfezionismo non sia da considerare in toto un fenomeno negativo e che si possa pertanto distinguere un Perfezionismo Adattivo che ha a che fare soprattutto con gli Standard Personali, dimensione riscontrata sia in soggetti clinici che non clinici, ed un Perfezionismo Maladattivo che ha a che fare con le altre cinque dimensioni, ed in particolar modo con il timore dell’errore (Sassaroli & Ruggiero, 2006). La letteratura suggerisce in un’ampia varietà di studi come sia il Perfezionismo Maladattivo ad associarsi con malessere psicologico, problemi interpersonali e un’ampia gamma di tratti di personalità patologici (Dimaggio et al., 2015).

Come si sviluppo il perfezionismo? Il ruolo del criticismo genitoriale

Una delle ipotesi principali sullo sviluppo del perfezionismo è che possa essere il risultato di genitori anch’essi perfezionisti e molto esigenti (Frost, Lahart and Rosenblate, 1991). Gli studi condotti suggeriscono che sia più che altro la percezione della severità genitoriale, più che quella riferita dai genitori stessi, ad essere associata al perfezionismo nei figli.

Maloney, Egan, Kane e Rees (2014) hanno suggerito come due aspetti della genitorialità possano contribuire in modo più consistente allo sviluppo di perfezionismo nei figli: le aspettative ed il criticismo genitoriale. Per “criticismo genitoriale” si intende uno stile relazionale in cui il genitore persegue lo scopo di modificare e/o controllare il comportamento, gli atteggiamenti e le convinzioni del figlio attraverso rimproveri, spesso pervasivi e prolungati. Sembra verosimile, quindi, che i bambini di genitori autoritari sviluppino caratteristiche perfezioniste dovute alla natura iper-controllante dei loro genitori; in altre parole, è come se questi bambini internalizzassero il criticismo dei genitori per poi sviluppare un criticismo auto-riferito che li porta a sviluppare perfezionismo come strategia che li preservi dal danno e dall’errore, di cui temono le conseguenze negative. Quest’ipotesi necessita tuttavia di opportune ed ulteriori verifiche.

Perfezionismo e disturbi psicopatologici

Il perfezionismo patologico è stato collegato inoltre ad un’ampia varietà di sintomi o disturbi psicopatologici (Frost et al., 1990), in particolar modo disturbi d’ansia, disturbi alimentari e depressione (Egan, Wade e Shafran, 2011) e ad alcuni tratti di personalità disfunzionali (Dimaggio et al., 2015). Di seguito verrano presenti alcuni di questi disturbi.

  • Perfezionismo, Criticismo Percepito e Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Il Disturbo Ossessivo-compulsivo è un disturbo clinico caratterizzato dalla presenza di ossessioni e/o di compulsioni. Le ossessioni sono pensieri ricorrenti e persistenti o immagini che vengono vissuti come intrusivi e indesiderati e che nella maggior parte dei casi causano ansia o disagio. Le compulsioni sono comportamenti osservabili (overt) o azioni mentali (covert) ripetitivi e finalizzati a fronteggiare la minaccia posta al paziente dalle ossessioni o a contenere il distress (DSM-5, APA, 2013).

In uno studio del 1997 di Frost e Steketee, i pazienti affetti da Disturbo Ossessivo Compulsivo, confrontati con popolazione non clinica, mostravano punteggi significativamente più elevati di Perfezionismo. Halvaiepour e Nosratabadi (2015) hanno suggerito l’esistenza di una relazione significativa tra criticismo genitoriale e pensieri ossessivi. Sperimentare criticismo da parte dei genitori in modo sistematico sembra avere un ruolo significativo nel creare un senso di responsabilità eccessivo. Salkovskis (1996) nella sua teoria afferma che il criticismo genitoriale come fattore d’influenza nel bambino di un senso di responsabilità accresciuto, può aumentare i sintomi del disturbo ossessivo-compulsivo. Questo modello enfatizza il ruolo del criticismo e delle aspettative genitoriali come fattori incentivanti per lo sviluppo di comportamenti e credenze ossessive.

I racconti dei pazienti ossessivi descrivono spesso un clima familiare rigido e caratterizzato da forte attenzione alla moralità (Tenore, 2016), un’atmosfera tale in cui prevalgono criticismo genitoriale, aspettative elevate, richiesta di standard perfezionistici, può contribuire a creare credenze perfezionistiche anche nei figli (Van Noppen e Steketee, 2009).

  • Perfezionismo, Criticismo Percepito e Fobia Sociale


La Fobia Sociale (o Disturbo da Ansia Sociale) è un disturbo caratterizzato da marcata paura o preoccupazione in una o più situazioni sociali in cui il soggetto è esposto al possibile giudizio degli altri. Esempi di situazioni sociali includono: interagire con altre persone, essere osservati mentre si compiono azioni e sostenere una performance davanti ad altre persone. La paura o l’ansia sperimentate dalla persona traspaiono dal modo in cui la persona si comporta o appare, modalità fortemente criticate dalla persona stessa. La paura o l’ansia sono così forti da portare perfino la persona ad evitare le situazioni temute (DSM-5, APA, 2013).

In uno studio del 1996 di Juster e colleghi, un gruppo di pazienti affetti da Fobia Sociale è stato confrontato con un gruppo di soggetti senza disturbi d’ansia. I pazienti con Fobia Sociale hanno mostrato punteggi più elevati di Perfezionismo Patologico nella Multidimensional Perfectionism Scale per quanto riguarda il timore degli errori, il dubitare sulle azioni e il criticismo genitoriale.

  • Perfezionismo, Criticismo Percepito e Disturbi Alimentari

Il perfezionismo è considerato un elemento fondamentale dei Disturbi Alimentari e un fattore principale di rischio; di nuovo è necessario precisare che qui si intende quel perfezionismo patologico che nulla ha a che vedere con il raggiungimento di obiettivi ambiziosi o di successo, ma si configura come una strategia protettiva volta all’evitamento del danno (timore dell’errore) (Sassaroli, 2006). In uno studio, La Mela e colleghi (2015) hanno sottolineato l’importanza di due dimensioni costituenti il perfezionismo: criticismo percepito e aspettative genitoriali in pazienti affetti da bulimia nervosa, confermando quanto emerso in studi precedenti. Sebbene resti ancora da chiarire il processo che porta dal perfezionismo allo sviluppo di un disturbo alimentare, le pazienti DCA potrebbero essere pazienti che, perfezioniste per personalità o genetica ed ipercriticate anche inconsapevolmente, reagiscono inizialmente alle aspettative altrui in modo accondiscendente, ma in un secondo momento, quando si rendono conto che lo standard di controllo è irrealistico, ma irrinunciabile, lo spostano sull’alimentazione, la magrezza e la quantità di cibo assunta (Sassaroli, 2006).

 

Dick pics o esibizionismo fotografico, la linea (non troppo) sottile tra corteggiamento e molestia   

Il simbolismo fallico è presente nella storia di ogni civiltà umana fin dai suoi albori e la sua immagine si è mantenuta nel tempo fino al giorno d’oggi, evolvendosi al passo con la tecnologia a disposizione dell’uomo. Il caso delle dick pics.

 

Il simbolismo fallico è presente nella storia di ogni civiltà umana fin dai suoi albori, basti pensare che il manufatto più antico ad oggi rinvenuto è databile a circa 28.000 anni fa. In origine il significato del fallo era strettamente legato alla forza generativa, come sinonimo di potenza e fertilità, non è quindi infrequente imbattersi in statue votive o raffigurazioni di divinità dotate di membri smisuratamente grossi e in erezione. L’iconografia peniena è tuttavia cambiata drasticamente nel corso della storia: se in epoche più remote la nudità era onnipresente nei manufatti artistici e nelle raffigurazioni pittoriche, fu con l’avvento del Cattolicesimo che il fallo venne demonizzato come strumento di corruzione e latore di pulsioni peccaminose per uomini altrimenti devoti, culminando, a seguito del Concilio di Trento, con la censura sistematica di tutte le opere raffiguranti nudi mediante la celebre foglia di fico o, come nel caso della Cappella Sistina, con l’applicazione di braghe su santi e dannati (l’artista che si occupò di questo crimine contro l’arte fu soprannominato “il Braghettone”).

Ma l’immagine del fallo si è mantenuta nel tempo: sebbene ora relegato al dominio privato dell’eros e della pornografia, la sua rappresentazione si è evoluta al passo con la tecnologia a disposizione dell’uomo. Infatti, dall’avvento della stampa, alla fotografia, dai primi pacchetti dati scambiati in rete, all’avvento dei moderni smartphones, ogni mezzo è stato impiegato per onorare e riprodurre l’immagine del pene, potendo però godere adesso di un maggior anonimato. Nell’ambito delle nuove tecnologie, internet, i personal computer ed i telefoni cellulari hanno costituito una vera e propria rivoluzione, modificando a tal punto le nostre vite da invadere anche la sfera intima dell’interazione sessuale: ad esempio, fenomeni come il sexting, ovvero scambio di messaggi di natura erotica al fine di ottenere mutua eccitazione e, talvolta, fare da sfondo all’autoerotismo, sono diventati pratiche largamente diffuse tra gli utenti più giovani e non solo. In questo caso, gli studi sul fenomeno rilevano che in entrambi i sessi venivano riportati sentimenti di miglioramento dell’intimità di coppia, dell’autostima, della soddisfazione sessuale e intrattenimento (Champion&Pedersen, 2015; Parker, Blackburn, Perry, &Hawks, 2013; Woolard, 2011).

Tuttavia, l’anonimato apre le porte a comportamenti agìti senza paura delle ripercussioni, dove chi li mette in atto può sottrarsi alla reciprocità che in generale l’atto sessuale dovrebbe richiedere. È questo il caso delle cosiddette dickpics, che potremmo vedere come una rivisitazione in chiave tecnologica del fenomeno dell’esibizionismo sessuale: immagini di genitali maschili in stato di erezione inviate a donne sconosciute o conosciute, ma comunque al di fuori dal contesto di una interazione messaggistica di natura erotica, le quali vengono spesso accolte con orrore o, nel migliore dei casi, basita perplessità dalle povere malcapitate.

Un sondaggio ha rivelato che il 27% dei Millennials americani ha inviato almeno una dickpic una volta nella vita (YouGov, 2017) e sembra che il fenomeno sia esclusivamente maschile, non è infatti nota una pratica analoga messa in atto dalle donne, anche se potrebbe essere impossibile circoscrivere il fenomeno in quanto questa casistica incontrerebbe reazioni ben diverse: è infatti noto dalla letteratura, che gli uomini tendono ad essere sessualmente più reattivi a stimoli di natura visiva rispetto alle donne (per una review rimandiamo a Rupp&Wallen, 2008), le quali invece riportano sentimenti di disgusto, senso di oggettificazione, rabbia, vergogna e sensazione di star subendo una molestia nel ricevere le dickpics (Wailin&Pym, 2017). Diversamente, pare che questa modalità incontri minori resistenze nelle comunità di maschi omosessuali che fanno uso di applicazioni di incontri come ad esempio Grindr, i quali riportano sentimenti più positivi nel riceverle (Tziallas, 2015). È interessante come, nell’indagare il fenomeno includendo anche identità non-binarie, sia emerso che esso non sia legato all’identità di genere maschile, bensì al fatto di possedere un pene come dotazione di nascita, includendo quindi individui dall’identità di genere fluida o Transessuali.

Di recente, Oswald e colleghi (2019) hanno condotto uno studio volto a indagare quale fosse il profilo dell’uomo che invia le dickpics, delineandone caratteristiche di personalità e le motivazioni alla base dell’invio di tali immagini senza consenso della controparte e indagando quali fossero le reazioni che speravano di elicitare nelle riceventi. Per fare ciò hanno analizzato un campione di 1087 uomini con identità di genere cisgender e con orientamento esclusivamente eterosessuale: il 48% dei partecipanti allo studio ha dichiarato di aver inviato almeno una dickpic (523 uomini tra i 16 e i 75 anni), la restante parte ha negato di averlo mai fatto (564 uomini tra i 16 e i 92 anni).

La letteratura riporta come il narcisismo sia caratterizzato da senso di grandiosità, bisogno di ammirazione, un senso esagerato del Sé ed una sovrastima della propria avvenenza estetica (Oltmanns, Emery& Taylor, 2006), così come è stato correlato a tendenze di devianza sessuale negli uomini, tra cui coercizione ed esibizionismo sessuale (Figueredo, Gladden, Sisco, Patch & Jones, 2015; Lang, Langevin, Checkley, &Pugh, 1987; Widman&McNulty, 2011), componenti che è plausibile ipotizzare come alla base del comportamento esibizionistico sotteso alla diffusione delle dickpics. Per questo motivo, ai partecipanti è stato chiesto di compilare il Narcissism Personality Inventory Scale (Ames, Rose, & Anderson, 2006), un questionario a 16 items per indagare la presenza di narcisismo sub-clinico.

Secondariamente, ai soggetti è stato proposto il Sexual Opinion Survey (Fisher, Byrne, White &Kelley, 1988), questionario composto da 21 items, nel quale un punteggio più basso corrisponde ad una tendenza all’erotofilia (qui definita come atteggiamenti positivi verso il sesso), di contro un punteggio più alto indica erotofobia, ovvero atteggiamenti negativi verso alcuni aspetti della sessualità. È stato poi somministrato anche l’Ambivalent Sexism Inventory – short form (Glick&Fiske, 1996) per indagare l’eventuale presenza di sessismo nei partecipanti, fosse esso malevolo, ovvero denigratorio nei confronti della donna, o benevolo, che per quanto discriminatorio non comporti cioè un danno reale alla controparte (e.g. “Le donne dovrebbero essere adorate e protette dagli uomini”).

Per indagare le intenzioni sottese all’invio di immagini falliche senza consenso, sono state presentate 20 possibili motivazioni, afferenti a sei diverse categorie: mentalità transazionale (e.g. “ho inviato una foto sperando di riceverne in cambio una altrettanto esplicita”), ricerca del partner (e.g. “è un modo normale di flirtare”), potere e controllo (e.g. “mi eccita sapere che qualcun altro è stato costretto a vedere il mio pene contro la propria volontà”), misoginia (e.g. “provo disprezzo verso le donne ed inviare loro dickpics è soddisfacente”), conflitti infantili irrisolti (e.g. “ricordo che i miei genitori mi hanno fatto provare vergogna rimproverandomi quando sono cresciuto troppo per mostrare la nudità davanti a loro e agli altri, mostrare le dickpics mi fa stare meglio”), oppure soddisfazione sessuale o personale (e.g. “spero di ricevere feedback positivi sul mio pene”). I partecipanti hanno selezionato tutte le motivazioni che potessero essere intervenute nel loro caso, valutandole su di una scala a tre punti a seconda di una maggiore o minore influenza.

Sono state poi elencate una serie di possibili reazioni che i soggetti potessero voler elicitare, tra cui eccitazione sessuale, paura, disgusto, rabbia, vergogna, shock, apprezzamento, attrattività, svalutazione e, anche in questo caso, i partecipanti selezionavano tutte le risposte pertinenti e assegnando un punteggio da 1 a 3. Da ultimo si è indagata la presenza di comportamenti esibizionistici pregressi, non mediati dalla tecnologia.

I risultati ottenuti hanno confermato come sia il narcisismo che il sessismo, sia benevolo che malevolo, correlino con il fenomeno delle dickpics; nella fattispecie, sulla base dei punteggi in queste tre caratteristiche, era possibile stimare correttamente nel 63% dei casi se un individuo avrebbe fatto parte del gruppo degli esibizionisti fotografici o di quelli che non lo avevano mai fatto. Curiosamente è emerso some l’esibizionismo correlasse positivamente con l’erotofobia, suggerendo quindi che alla base del comportamento impulsivo di esibizione dei genitali possano in realtà essere sottesi dei sentimenti negativi verso aspetti della sessualità, una maggiore insicurezza sessuale o timore nei riguardi dell’atto sessuale.

Circa le motivazioni che spingessero gli uomini ad indulgere in questo comportamento, il 43,6% del campione ha confermato di agire secondo una previsione transazionale, sperando quindi di ricevere in cambio un’immagine parimenti provocatoria, mentre il 32,5% dei partecipanti lo considera una maniera come un’altra per avvicinare un potenziale futuro partner, sperando di provocare nel ricevente una risposta di eccitazione o quantomeno di comunicare interesse sessuale.

Le analisi circa le reazioni che si sperava di ottenere riportano come la speranza maggiore fosse quella di eccitare l’altra persona (82%), il 50% ha riportato la speranza che ricevere la propria dickpic potesse far sentire l’altro desiderato, seguita da un 22% la cui speranza era che l’immagine ricevuta facesse sentire la persona apprezzata. Come abbiamo già accennato, una possibile spiegazione potrebbe essere un bias cognitivo che porti gli uomini a supporre che chiunque reagirebbe nello stesso modo in cui reagirebbero loro, ovvero provando eccitazione alla vista dei genitali di qualcuno, a prescindere dall’aver o meno espresso il consenso a ricevere tali immagini (Ley, 2016; Waling&Pym, 2017).

È interessante sottolineare che un numero significativo di partecipanti ha dichiarato di sperare in una reazione negativa, fosse essa di shock (17%), di paura (15%) o di disgusto (11%). Questo assume particolarmente rilevanza se si considerano le critiche avanzate da alcuni autori ad alcune teorizzazioni di stampo femminista, i quali sostengono vi sia una percezione ingiusta della mascolinità come predatoria e problematica (Beasly, 2015; Waling&Pym, 2017). I risultati ottenuti sembrano supportare invece l’idea che, in alcuni casi, le reazioni negative ottenute non siano sempre non intenzionali e che un tale comportamento possa essere davvero considerato come una forma di molestia sessuale o comunque una modalità di arrogarsi un diritto senza incorrere in gravose conseguenze (Powell & Henry, 2017; Ringrose& Lawrence, 2018; Thompson, 2018; Vitis&Gilmour, 2017).

Per quanto la maggioranza del campione riportasse delle motivazioni positive nel compiere quest’atto, è importante non dimenticare che a causa della natura unilaterale dell’invio delle dickpics, viene completamente a mancare una qualsivoglia considerazione circa il consenso dell’altra persona, finendo per costituire un abuso vero e proprio. Sebbene quindi tali comportamenti possano non essere guidati da sentimenti manifesti di sessismo o di ostilità, l’invio di materiale esplicito senza consenso, sta in qualche modo rinforzando tali disposizioni, che sono sì interne all’individuo, ma in una certa misura vengono anche accettate e normalizzate dalla società contemporanea.

 

Dodo e il mezzo panino

Non è di certo una novità che nel campo della psicoterapia sia difficile dimostrare la superiorità di un trattamento rispetto a un altro. Del resto tutti sappiamo che la ricerca sull’efficacia della psicoterapia, per tantissimi motivi, è particolarmente complessa, soprattutto è difficile organizzare ricerche che soddisfino tutti i criteri più robusti.

 

Simone Cheli mi ha gentilmente suggerito di scrivere un commento a un articolo in press sul Journal of Abnormal Psychology, dal titolo Evaluating the Evidential Value of Empirically Supported Psychological Treatments (ESTs): A Meta-Scientific Review firmato da Sakaluk, Williams, Kilshaw & Rhyner. Dopo la sua richiesta mi sono messo al lavoro ma nel frattempo ho ricevuto i commenti di Cheli stesso e anche di Gazzillo e Dimaggio. Poiché il mio scritto rischiava di essere ridondante, in particolare rispetto a quello di Dimaggio, l’ho messo da parte e mi sono dedicato a una nuova versione che tenesse conto dei commenti dei tre colleghi.

A titolo di premessa, è comunque necessario riportare la conclusione degli autori:

This review suggests that although the underlying evidence for a small number of empirically supported therapies is consistently strong across a range of metrics, the evidence is mixed or consistently weak for many, including some classified by Division 12 of the APA as “Strong.”

Diversamente dagli altri commentatori, ritengo che i risultati di questa meta-scientific review, non siano per nulla sconvolgenti. Semplicemente, usando criteri più severi, alcune terapie per alcuni disturbi sono state declassate o sono uscite perdenti dal confronto con altre. Semmai la sorpresa è in alcuni specifici declassamenti. Ad es., mentre si era tutti convinti che il trattamento di elezione per il PTSD fosse la EMDR, dalla accurata meta-scientific review risulta essere decisamente meno efficace della Cognitive Processing Therapy. Altre terapie, al contrario, hanno mantenuto la loro validità. Ad es., la CBT e le terapie espositive per il DOC e disturbi d’ansia in generale. Dunque, nessuna rivoluzione.

Non è di certo una novità che nel campo della psicoterapia sia difficile dimostrare la superiorità di un trattamento rispetto a un altro. Del resto tutti sappiamo che la ricerca sull’efficacia della psicoterapia, per tantissimi motivi, è particolarmente complessa, soprattutto è difficile organizzare ricerche che soddisfino tutti i criteri più robusti. Per buona parte le ragioni non riguardano il merito della psicoterapia ma variabili organizzative ed economiche. Chi ha le risorse per implementare un studio RCT, pluri centrico, con terapeuti indipendenti di capacità pareggiata, magari in doppio cieco, con decine di pazienti per braccio, tutti con lo stesso identico problema e simili per ogni altra variabile rilevante, tipo disturbo di personalità, QI, condizione socio economica, sub cultura di appartenenza, etc etc?

Tuttavia, facile o difficile, risultati forti, modesti o controversi che siano, questo è quanto abbiamo a disposizione per decidere quale trattamento dia più probabilità di successo per un determinato paziente. Nell’insieme possiamo dire che è l’equivalente di un mezzo panino, non certo di uno intero.

Siamo quindi di fronte a un bivio: buttiamo via il mezzo panino, condividiamo quindi il verdetto del Dodo e ci facciamo andar bene tutte le psicoterapie per qualunque disturbo, purché siano bona fide? Oppure il mezzo panino lo mangiamo, anche se sappiamo che non è intero?

A mio avviso, se si sceglie Dodo o si è fatto un errore di ragionamento o non si ha fame. L’errore di ragionamento è duplice. Il primo è inferire dalla difficoltà a stabilire quale trattamento sia più efficace di altri, che, allora, tutti i trattamenti siano uguali (dalla affermazione “se tutti i trattamenti sono uguali, allora non si riesce a misurare una differenza”, non è corretto inferire che “se non si riesce a misurare una differenza fra trattamenti, allora non c’è differenza fra i trattamenti”. Similmente, nessuno pensa che dalla affermazione “se uno è sceicco del petrolio, allora è ricco” , si possa inferire che “se uno è ricco, allora è uno sceicco del petrolio”). Il secondo è che comunque esistono, anche considerando gli standard più severi, delle differenze fra trattamenti per specifici disturbi. Sappiamo, infatti, che alcuni sono migliori di altri.

La seconda possibilità per la quale si sceglie il Dodo, è che non si ha fame. Che non ci sia in giro tanta fame di dare ai pazienti quello che, alla prova dei fatti, appare il trattamento migliore per il loro disturbo, è suggerito dalla quantità di psicoterapie che sono proposte, anche in miriadi di corsi di formazione. Nel 2006, Johnson Laird et al. scrivevano:

Herink (1980) listed 250 varieties of psychotherapy from “Active analytical therapy” to “Zaraleya psychoenergetic technique,” and this number has grown apace over the past 25 years.

Negli ultimi tredici anni se ne sono aggiunte alcune dai nomi suggestivi: Terapia di coppia focalizzata sulle emozioni, Metodo Gottman per la terapia di coppia, Accelerated Experiential Dynamic Psychotherapy. Poco tempo fa sono comparsi corsi di formazione sulla Mindful Interbeing Mirror Therapy, le cui prove di efficacia pubblicate sono … semplicemente, nessuna. Queste le conseguenze della scelta di Dodo, di buttar via il mezzo panino solo perché non è intero.

Ora, si potrebbe obiettare, riprendendo una conclusione di Sakaluk et al., nell’articolo citato, che

Without evidence for EST superiority, the mental health fields may need psychotherapy reversals if the monetary and opportunity costs of EST training, dissemination, and use exceed those associated with other bona fide psychotherapies.

L’obiezione ha un senso ma a due condizioni. La prima è di essere “Without evidence for EST superiority”. Non dimentichiamo che, invece, per molti disturbi abbiamo “evidence for EST superiority”. La seconda di impegnarsi subito a valutarne l’efficacia. In molti casi non v’è traccia di tale impegno e la raccolta di prove di efficacia è rimandata ai posteri.

E chi si mangia il mezzo panino, ha qualche possibilità di sfamarsi?

Gazzillo suggerisce di cambiare il frame. Forse ha ragione, ma di certo si troverà con le stesse attuali difficoltà a controllare l’efficacia dei trattamenti, anche cambiando il frame. Per il momento non mi pare che gli studi sulla relazione terapeutica abbiano dato grandi risultati che aiutino a decidere quale terapia/terapeuta per quale paziente.

A mio avviso per arrivare a sfamarsi con mezzo panino, i punti critici sono tre.

Il primo e più importante è che per molti problemi clinici non abbiamo conoscenze adeguate sui determinanti psicologici prossimi del problema e nemmeno sui processi del suo mantenimento e aggravamento. Nonostante l’enorme quantità di ricerche nella Experimental Psychopathology, solo di alcuni disturbi conosciamo davvero bene il funzionamento e dunque siamo in grado di definire con esattezza l’obiettivo di un intervento. Ad esempio, il bersaglio nel caso dei disturbi di attacchi di panico è ben definito, ed è l’anxiety sensitivity. Nel DOC il cuore del problema potrebbe essere un timore catastrofico di colpa, appreso in particolari esperienze avverse, e, in effetti, sembra proprio che interventi ben mirati su questo punto possano essere efficaci. Ma si può dire lo stesso di altri disturbi, ad esempio, nella anoressia? Esiste un punto critico o sono più d’uno? E una volta che il processo anoressico si è avviato, che cosa lo alimenta? L’hybris di controllare anche la fame e per questo di essere moralmente superiori agli altri? Forse.

Certamente pensare che il bersaglio possa essere la “disregolazione emotiva, evitamenti comportamentali, mancanza di abilità sociali, mentalizzazione, rimuginio, bias cognitivi, pensieri intrusivi” (vedi il commento di Dimaggio) appare a dir poco ingenuo. In questo concordo con Dimaggio, nel senso che quelli che lui cita non credo possano essere dei bersagli centrali, perché sono disfunzioni derivate e non primarie. Penso, tuttavia, che possano esserlo particolari schemi, scopi o assunzioni, quelli che ritroviamo, purtroppo descritti in modo troppo generico nella Cognitive Therapy, o quelli che Gazzillo, in accordo con la Control Mastery Theory, direbbe essere gli ostacoli al piano del paziente.

Il secondo problema è che in molti casi non sappiamo su che cosa agisce un trattamento psicoterapico. Nonostante tanti difetti, se non altro, la CBT o la REBT, definivano esattamente l’obiettivo del loro intervento, alcune convinzioni e su queste concentravano la loro azione. Ma, ad esempio, non c’è un accordo sul meccanismo d’azione della Esposizione e Prevenzione della Risposta, che, pure, stando a Sakaluk et al. appare un intervento degno di rispetto.

In breve, mancano idee sufficientemente chiare su cosa agire e perché.

Il terzo problema è che, forse, è inadeguato pretendere di utilizzare gli RCT con tutti i crismi, pluricentrici, terapeuti randomizzati, pazienti del tutto sovrapponibili etc, per controllare l’efficacia di una psicoterapia. Di certo non è pratico. Quindi o piano piano ci si mette in condizione di fare ciò o si trovano sostituti agli RCT canonici. Forse, azzardo una possibilità, in un dominio clinico come il nostro, caratterizzato da grandi differenze fra pazienti, anche fra quelli che meritano la stessa diagnosi, potrebbe essere un buon compromesso la metodologia dei single case, in cui ogni caso è il confronto di se stesso, e non è la semplice descrizione dei cambiamenti in un paziente prima e dopo la terapia.

In conclusione, avendo fame, io mi mangio il mezzo panino e poi, speriamo che arrivi anche l’altro mezzo, magari con una fettina di Dodo.

 

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