expand_lessAPRI WIDGET

Dalla biologia alla psicologia: abbiamo dimenticato i padri?

La plasticità transgenerazionale (TGP) si verifica quando l’ambiente vissuto da un genitore influenza lo sviluppo della propria prole. Per anni ci si è concentrati solamente sulla trasmissione materna, ma con le recenti ricerche sembra che il padre sia stato incluso sui meccanismi epigenetici che facilitano gli effetti transgenerazionali.

 

Sorgeva, il padre, nell’atmosfera psicologicamente
non surrogabile dell’insopprimibile.

Introduzione

Esistono realtà che si presentano sotto forma di paradossi, metafore o magie, come accade nel mondo subatomico della ricerca quantistica in cui un momento l’elettrone c’è, un altro momento sparisce. E dove va a finire? Questo non si sa. Allo stesso modo alcuni “soggetti” di studio spariscono per un breve arco temporale per apparire successivamente.

Riferendoci alla ricerca scientifica, ma rimanendo sul piano della concettualizzazione fisica, se concepiamo il sistema-famiglia alla stregua di un atomo, possiamo quasi vedere la madre come un protone e il figlio un neutrone, accanto alla madre, sempre presente, sempre lì con lui, in una sintonia profonda e imprescindibile. E il padre?  Un elettrone gravita attorno al nucleo, respinto ma attratto allo stesso tempo, quasi a preservare la propria indispensabile distanza: ogni tanto è presente, ogni tanto scompare. Ma perché è proscritto a questo teatro passivo? Sarà l’archetipo della Grande Madre a produrre questa eclissi?

Il padre, nell’immaginario collettivo di sempre ha vissuto sotto un’atmosfera di impressioni superficiali di chi contempla da una posizione sopraelevata e distanziata dalla famiglia, anziché da quelle più profonde, di chi vive davvero all’intero ricavandone delle autentiche relazioni narrate nei secoli dei secoli: è il connubio indissolubile madre/figlio. La madre, è pensata come la perfetta sintesi di tutto il mondo del bambino.

Epigenetica e fetal programming

Il crescente e innovativo campo dell’epigenetica ha fornito negli ultimi decenni scoperte sensazionali, soprattutto in riferimento allo stato di salute degli individui. L’epigenetica è quella branca della biologia molecolare che studia specificamente le modifiche molecolari indotte dalle sollecitazioni e informazioni provenienti dall’ambiente (e in particolare dal microambiente tissutale) nel genoma delle cellule, utili/necessari per una migliore comprensione della rivoluzione epidemiologica in atto (Burgio, 2013). Secondo questa definizione, le sollecitazioni in atto dal nostro ambiente (e.g. inquinamento) metterebbero in uno stato di allarme e successivo tentativo di adattamento l’organismo inducendolo ad una – parafrasando Burgio, 2013 – “formattazione epigenetica” adattativo-predittiva di miliardi di cellule. Questo è vero soprattutto in quel periodo iniziale della vita definito dagli esperti fetal programming, ovvero durante lo sviluppo embrionale e fetale, un periodo critico in cui vengono creati tessuti e organi che possono predisporre il feto a determinate malattie post-natali (Barker, 1998).

Il fetal programming è il programma-base per la costruzione del nostro fenotipo individuale – ovvero, specifica il “nostro funzionamento” come esseri viventi – ed è valido per tutta la vita. É proprio in questa fase che l’ambiente svolge il ruolo più importante (Burgio, 2013). In tal senso è stato anche detto che il DNA è una sorta di vocabolario, ma che “a scrivere il libro è l’ambiente” (ibidem). Ma questo effetto riguarda solamente l’individuo che subisce tali sollecitazioni?

Di generazione in generazione: i padri in Biologia

La plasticità transgenerazionale (TGP) si verifica quando l’ambiente vissuto da un genitore influenza lo sviluppo della propria prole, ovvero esistono meccanismi della TGP nel contesto della comunicazione tra genitori (mittenti) e prole (riceventi) analizzando i passaggi tra un segnale ambientale ricevuto da un genitore e i suoi effetti risultanti sul fenotipo di una o più generazioni future. Orbene, mentre la maggior parte del lavoro sugli effetti intergenerazionali e transgenerazionali si è concentrato sulla trasmissione materna (Baxter, 2019), con le recenti ricerche sembra che il padre sia stato incluso sui meccanismi epigenetici che facilitano gli effetti transgenerazionali.

Ribadendo quanto scritto poc’anzi, numerosi studi sull’uomo e sui modelli animali hanno dimostrato che l’esposizione a condizioni ambientali sfavorevoli nella prima infanzia comportano cambiamenti strutturali e funzionali a lungo termine in un organismo, aumentando il rischio di disturbi cardiometabolici, neurocomportamentali e riproduttivi in ​​età avanzata. Ma la scoperta più sorprendente è che, tali effetti, si trasmettono non solo alla prole di prima generazione, ma possono essere trasmessi a una seconda o a un numero di generazioni successive, attraverso meccanismi non genomici. Mentre la trasmissione di effetti “programmati” attraverso la linea materna potrebbe avvenire come conseguenza di molteplici influenze, ad esempio l’alterata fisiologia materna, l’eredità degli effetti attraverso la linea maschile è più difficile da spiegare e c’è molto interesse in un ruolo potenziale per l’eredità epigenetica transgenerazionale (Baxter, 2019).

Un messaggio emergente è che l’esposizione dei maschi ad alcuni (ma non tutti) insulti ambientali nella prima infanzia produce effettivamente modifiche epigenetiche nello sperma e cambiamenti nei fenotipi della prole generati da questi. Tuttavia, non è stato ancora stabilito un nesso causale tra le modifiche epigenetiche degli spermatozoi e la variazione fenotipica della prole […]. Studi più recenti suggeriscono che gli RNA potrebbero essere il meccanismo epigenetico più importante che media le influenze paterne sul fenotipo della prole (Jablonka, 1999; Soubry, 2018; Kuijper, 2019; Ho, 2010).

Sfortunatamente, nell’uomo questa area è rimasta sotto esplorata. La mancanza di interesse per la ricerca nel ruolo del padre è spesso sorprendentemente evidente in quanto la maggior parte delle conferenze relative alle esposizioni precoci non ha una sezione sulle influenze paterne. Ciò nonostante i modelli animali forniscono la prova di un effetto epigenetico transgenerazionale attraverso la linea germinale paterna, ma può essere tradotto nell’uomo? Ad oggi, la letteratura sui padri è scarsa. Gli studi sull’uomo non incorporano sempre strumenti adeguati a valutare le influenze paterne o gli effetti epigenetici. Nel rivedere la letteratura, sottolineo la necessità di esplorare e riconoscere i contributi paterni alla prole (e.g. Paradigma paterno delle origini della salute e delle malattie: POHaD; Heindel, 2015). Una migliore comprensione delle origini preconcettuali della malattia, attraverso la totalità delle esposizioni paterne (‘esposoma’ paterno), potrà fornire raccomandazioni sulla salute pubblica basate sull’evidenza per i futuri padri.

I dati sugli animali già danno prove di un’alterazione epigenetica indotta dall’ambiente nei gameti (spermatozoi o ovociti), che può influenzare l’embriogenesi, la fecondità o la salute nelle generazioni successive. In alcuni casi, sono state scoperte epimutazioni negli spermatozoi e nei tessuti della prole dopo esposizioni paterne a determinate condizioni dietetiche, condizioni stressanti, contaminanti ambientali, ecc … La letteratura contiene numerosi articoli sui dati degli animali relativi alle influenze ambientali (Soubry, 2014; Hur,  et al., 2017).

Ma questa trasmissione è solo biologica? Facciamo un passo indietro.

Il genitore “naturale”

Intorno al periodo dell’industrializzazione, l’attenzione primaria si è spostata dalla leadership morale al progresso e al sostegno economico della famiglia. Quindi, forse a seguito della Grande Depressione, che rivelò molti uomini sfortunati come poveri “fornitori”, gli scienziati sociali arrivarono a ritrarre i padri come modelli di ruolo sessuale, con i commentatori sociali che esprimevano preoccupazione per i fallimenti di molti uomini nel modellare il comportamento maschile per i loro figli.

Dal momento che le donne sono state a lungo considerate i genitori “naturali”, per la loro predisposizione biologica al ruolo e per il loro presunto istinto materno, ogni deviazione dalla tradizionale divisione dei ruoli è stata considerata con sospetto, sulla base della convinzione che gli uomini avrebbero svolto il ruolo genitoriale con minore successo delle donne. In effetti si registrano profonde differenze tra le varie culture nella misura del coinvolgimento del padre nella cura del figlio, qualcosa suggerisce la differenza di sesso. A questo riguardo è una questione di convenzione sociale e non una componente fissa e mutabile dell’essere maschio o femmina. Per quanto il fatto di essere allevato da un uomo concerne conseguenze per il bambino, le scarse prove non indicano che tali bambini abbiano uno sviluppo diverso dai loro pari cresciuti in condizioni diverse. Inoltre, osservazioni dirette di uomini impegnati nel loro ruolo di caregiver (chi presta accudimento) hanno mostrato di essere persone capaci di calore e sensibilità non inferiori a quelli delle donne. In breve, il risultato dello sviluppo del bambino sembra influenzato non tanto dal sesso del genitore, ma dal tipo di relazione instaurata all’interno di ogni coppia genitore figlio (Parke, 2002).

I padri in sociologia: il “nuovo padre educatore”

Nel corso del XX secolo, i padri furono invitati a essere coinvolti (Griswold, 1993) e, a seguito delle critiche femministe e accademiche sulla mascolinità e la femminilità, alla fine degli anni ’70 emerse una preoccupazione per il “nuovo padre educatore”, che interpretava un ruolo attivo nella vita dei suoi figli. Come ha spiegato Elizabeth Pleck (2004) le discussioni popolari e accademiche sulla paternità si sono soffermate a lungo sull’importanza del coinvolgimento e sulla paura di una paternità inadeguata. Contrariamente alle precedenti concettualizzazioni dei ruoli dei padri, spesso focalizzate in modo piuttosto limitato sul “guadagno del pane”, le discussioni successive si sono concentrate strettamente sul “coinvolgimento”. I ricercatori, i teorici e i professionisti non si aggrapparono più alla convinzione semplicistica che i padri idealmente riempiono un ruolo in un universo unidimensionale e universale nelle loro famiglie e negli occhi dei loro figli; al contrario, riconoscono anche ai padri di svolgere una serie di ruoli significativi – compagni, prestatori di cure, coniugi, protettori, modelli, guide morali, insegnanti ecc. – la cui importanza relativa varia in epoche storiche e gruppi subculturali. Solo considerando la prestazione dei padri di questi vari ruoli e tenendo conto della loro relativa importanza nei contesti socioecologici interessati, è possibile valutare l’impatto dei padri sullo sviluppo del bambino.

Sfortunatamente, teorici e commentatori sociali in passato hanno enfatizzato solo un ruolo paterno alla volta, con diverse funzioni che attirano la maggior attenzione nelle diverse epoche storiche. Concentrandosi sul comportamento dei padri quando sono con i loro figli, gran parte dei dati osservativi e di indagine raccolti dagli psicologi dello sviluppo e sociologi negli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80 (ad esempio Lamb, 1977) hanno suggerito che madri e padri si impegnano in tipi di interazione piuttosto diversi con i loro bambini, specialmente nei paesi anglosassoni come gli Stati Uniti. Questi studi hanno costantemente dimostrato che i padri tendono a “specializzarsi” nel gioco, mentre le madri sono specializzate nella cura, specialmente (ma non solo) in relazione ai bambini. Sebbene tali risultati sembrino abbastanza affidabili, sono stati spesso travisati e hanno portato a ritratti eccessivamente stereotipati e unidimensionali di padri come partner di gioco. Rispetto alle madri, i padri in effetti trascorrono una parte maggiore del loro tempo con i bambini impegnati nel gioco, ma trascorrono ancora la maggior parte del tempo con i bambini impegnati in altre attività. In termini assoluti, la maggior parte degli studi suggerisce che le madri giocano con i propri figli più di quanto non facciano i padri, ma poiché il gioco (in particolare il gioco turbolento, stimolante, emotivamente eccitante) è più importante nell’interazione padre-figlio, la giocosità paterna e la relativa novità possono aiutare a rendere i padri particolarmente importanti per i loro figli (Lamb, Frodi, Hwang e Frodi, 1983).

Le funzioni indirette dei padri

Dal punto di vista economico, nella famiglia i padri costituiscono un modo indiretto, ma importante con cui contribuiscono all’allevamento e alla salute emotiva dei loro figli. Inoltre, il sostegno economico (o la mancanza di esso) è uno dei modi in cui i padri non affidatari influenzano lo sviluppo dei loro figli.

Una seconda importante fonte indiretta di influenza deriva dal ruolo del padre come fonte di supporto emotivo e strumentale alle altre persone, principalmente alle madri, coinvolte nella cura diretta dei bambini. Tale funzione tende a migliorare la qualità delle relazioni madre-figlio e quindi a facilitare l’adattamento positivo da parte dei bambini. Al contrario, quando i padri non sono di supporto e il conflitto coniugale è elevato, i bambini possono soffrire (Cummings, Goeke-Morey & Raymond, 2004) e i dati riferiti alle separazioni parlano chiaramente sulla drammaticità di tale questione, sia per le madri che per i padri che, sotto un profilo psico-sociale, possono trovarsi nella condizione di essere  “sganciati” dalla perfetta conoscenza delle abitudini dei figli non vivendoli in prima persona – e ciò non riguarda solamente la fase successiva della separazione. Si potrebbe menzionare il citato articolo scientifico di Allen e Hawkins (1999).

L’essenzialità paterna

Negli ultimi 30 anni gli studiosi hanno chiaramente compiuto notevoli progressi. Centinaia di studi hanno arricchito la letteratura empirica, mentre i teorici hanno elaborato e perfezionato le strutture concettuali progettate per chiarire la paternità, relazioni padre-figlio e ruoli paterni.

La tesi dell’essenzialità paterna sostiene che i padri danno un essenziale, unico e, più specificamente, contributo unicamente maschile allo sviluppo del bambino. Inquadrare l’ipotesi di essenzialità nel contesto del Modello di paternità-mascolinità suggerisce che l’essenzialità paterna comporta sei idee fondamentali: (a) differenze di genere nella genitorialità, (b) associazioni tra presenza del padre e risultati del figlio, (c) la mediazione di tali associazioni in particolare per coinvolgimento paterno, (d) l’attribuzione degli effetti della presenza paterna alla mascolinità del padre, (e) l’unicità degli effetti della paternità sugli esiti del bambino e (f) l’associazione dell’orientamento della mascolinità paterna al coinvolgimento paterno e gli esiti del bambino (Lamb, Michael E., 2004).

Psicologia dello sviluppo: i padri in Psicologia

La nascita di un bambino viene vissuta, in base a come viene formulata nella cultura specifica, come un’esperienza pericolosa e dolorosa, interessante e avvincente, prosaica e leggermente rischiosa, o ammantata di un enorme pericolo sovrannaturale. ( Margaret Mead, 1967)

Molte delle ricerche (anche in) psicologia sono state condotte solo con le madri, in conformità con l’opinione vigente al tempo sulla relativa insignificanza dei padri. Ora che il focus è stato ampliato negli ultimi anni, sono disponibili risultati di un certo numero di studi che ci consentono di mettere a confronto l’attaccamento al padre e l’attaccamento alla madre. Si riscontra, molto spesso, coerenza tra le categorie di appartenenza che, presumibilmente, rispecchia la coerenza di trattamento da parte dei due genitori (Schaffer, 2005). Lamb ha trovato che il bambino dirige l’attaccamento verso ambedue i genitori, ma con una preferenza verso la madre, mentre il comportamento di affiliazione è più sviluppato verso il padre (Lamb; Michael E., 2004).

Studi sulla Strange Situation Procedure (focalizzata sulla reazione del bambino al momento della separazione dalla figura di attaccamento) hanno inoltre mostrato che, quando un bambino ha un attaccamento sicuro al padre, in sua presenza mostra maggior interesse verso l’estraneo e questo potrebbe ricondursi al fatto che il tipo di interazione maggiormente fisica con il padre, centrata sul piacere del rischio (es. far roteare il bambino, lanciarlo in aria ecc.) possa rendere il bambino maggiormente interessato alle situazioni nuove (ibidem).

Conclusioni

Abbiamo visto con l’epigenetica che alcune modificazioni possono essere “ereditate”. Sappiate, e qui mi fermo in vista di uno spazio tiranno, che tale trasmissione, secondo alcuni ricercatori, può portare a feedback intergenerazionali in cui il comportamento di un individuo può somigliare a quello delle generazioni precedenti, come nel caso, ad esempio, dell’aiuto spontaneo e gratuito verso le persone che vivono in condizioni di indigenza. Questo è un campo che aprirà nuove strade alla conoscenze relative alla biologia, della sociologia della famiglia e della psicologia sociale e dello sviluppo.

 

Sindrome Premestruale e Disturbo Disforico Premestruale: sintomatologia, diagnosi differenziale e trattamento

Uno dei sintomi gravi della sindrome premestruale è l’irritabilità e aggressività. Il sintomo è tanto più grave quanto più compromette la vita quotidiana della donna rendendola incapace di gestire in modo adeguato relazioni familiari o sociali. Quando ciò avviene e la qualità di vita della donna peggiora drasticamente disturbando le sue capacità di relazione con il mondo, si parla di Disturbo Disforico Premestruale. 

 

Il disturbo disforico premestruale consiste in una costellazione di sintomi psicofisici che caratterizzano nelle donne la fase premestruale, e in particolare l’ultima settimana prima dell’inizio delle mestruazioni, e che presentano un andamento ciclico in correlazione con l’andamento del ciclo ovulatorio e mesturale.

Secondo il DSM5 per porre diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale, almeno cinque sintomi devono essere presenti nell’ultima settimana prima dell’inizio delle mestruazioni e tali sintomi dovrebbero iniziare a migliorare entro pochi giorni dopo l’inizio delle mestruazioni e diventano minimi o assenti nella settimana successiva.

In particolare, nel periodo sopra indicato e secondo la ciclicità sopra descritta devono essere presenti uno o più dei sintomi tra:

  • labilità affettiva marcata (es. sbalzi d’umore o pianto improvviso);
  • marcata irritabilità o rabbia o aumento dei conflitti interpersonali;
  • umore depresso, sentimenti di disperazione o pensieri autosvalutativi;
  • ansia eccessiva e tensione.

Oltre a questi sintomi, per la diagnosi di Disturbo Disforico Premestruale, devono aggiungersi uno o più dei successivi sintomi (in modo da raggiungere un totale di cinque sintomi combinati tra i primi e i secondi):

  • diminuzione dell’interesse nelle attività abituali;
  • difficoltà soggettive nella concentrazione, letargia, facile affaticabilità o marcata mancanza di energia;
  • variazione notevole dell’appetito (consumo eccessivo di cibo o voglie di cibo specifico);
  • ipersonnia o insonnia;
  • sintomi fisici come tensione mammaria o gonfiore, dolori articolari o muscolari, sensazione di “gonfiore” o aumento di peso.

Tuttavia nel corso della fase premestruale, la donna può esperire una serie di disagi che, a seconda delle caratteristiche, dell’intensità e della gravità, si definiscono:

  • Sindrome Premestruale (SPM) di grado lieve
  • Sindrome Premestruale di grado moderato
  • Sindrome Premestruale grave
  • Disturbo Disforico premestruale (DDPM).

Si stima che la percentuale di donne in età fertile afflitta in modo serio da questo disturbo vari dal 2% al 10%, mentre la percentuale di donne che riferisce sintomi i forme lievi e medie della sindrome premestruale oscilli, a seconda degli studi, dal 30% all’80% (Beni et al., 2000).

La sindrome premestruale colpisce con più intensità le donne tra i 30 e i 40 anni. A questa età, le donne possono esperire maggiori carichi di stress, avendo più impegni, spesso dividendosi tra famiglia e lavoro. La ripartizione dei compiti e degli impegni da affrontare secondo priorità e capacità di delegare ad altri, potrebbe aiutare a ridurre il carico di tensione, che inevitabilmente si accumula quando si cerca di fare tutto da sole senza chiedere aiuto a chi ci sta vicino.

Vi sono donne che nella loro storia hanno sofferto di disturbi d’ansia o di depressione che presentano un peggioramento dei sintomi psichici in fase premestruale. I sintomi della sindrome premestruale o del disturbo disforico premestruale possono aumentare con l’età e dopo aver avuto un figlio, in caso di assunzione o sospensione di un contraccettivo orale o in seguito a chirurgia pelvica. Non ci sono risultati dell’esame fisico o test di laboratorio specifici per la diagnosi di disturbo disforico premestruale. Una storia medica completa, l’esame obiettivo (tra cui un esame pelvico), e la valutazione psichiatrica devono essere fatti per escludere altre condizioni.

Non tutte le donne quindi soffrono di sindrome premestruale e ne soffrono nella stessa intensità. Chi soffre di Sindrome Premestruale lieve o moderata presenta sintomi soprattutto fisici, poco invalidanti; nella Sindrome Premestruale grave si riscontra una ciclica comparsa di tristezza, irritabilità associate a  sintomi somatici durante la tarda fase luteale e premestruale.

Tra i sintomi somatici si possono riscontrare: tensione mammaria e addominale, ritenzione idrica, modificazione dell’appetito, cefalea e, con minor frequenza, eruzioni cutanee acneiformi, nausea e vomito. Uno dei sintomi gravi della sindrome premestruale e del disturbo disforico premestruale è l’irritabilità e aggressività. Il sintomo è tanto più grave quanto più compromette la vita quotidiana della donna rendendola incapace di gestire in modo adeguato relazioni familiari o sociali. Quando ciò avviene e la qualità di vita della donna peggiora drasticamente disturbando le sue capacità di relazione con il mondo, si parla di Disturbo Disforico Premestruale.

Il disturbo disforico premestruale e il ciclo mestruale

Nelle prime due settimane del ciclo mestruale sono gli ormoni estrogeni ad avere il sopravvento; questi sono i giorni in cui una donna si può mostrate più tranquilla, rilassata con maggiore predisposizione alla socializzazione. E’ nelle due settimane successive, quando agli estrogeni si sostituisce un più alto picco di progesterone che possono comparire i sintomi psicofisici del disturbo disforico premestruale sopradescritti, che sovente le sole condizioni ambientali o familiari cosi come altri disturbi fisici o psicopatologici non riescono a spiegare. Gli steroidi ovarici sono implicati nell’eziopatogenesi dei sintomi dell’umore nel pre-mestruo tanto che, la sindrome premestruale o il disturbo disforico premestruale non compaiono quando è presente una soppressione ovarica come negli anni che precedono il menarca, in gravidanza, o dopo la menopausa. Nelle donne che soffrono di disturbo disforico premestruale non sono stati riscontrati livelli di estrogeni e progesterone differenti, ma una modalità di secrezione caratterizzata da sbalzi della secrezione ormonale.

Diagnosi differenziale e altre forme di disturbi dell’umore nel ciclo riproduttivo femminile nel lifespan

Il disturbo disforico premestruale è tecnicamente parte, secondo il DSM5, della categoria dei Disturbi dell’Umore. E’ quindi importante effettuare un corretto processo diagnostico al fine di identificare se e quale disturbo dell’umore è insorto nella donna, per l’appunto considerando la ciclicità in relazione al ciclo mestruale della presenza sintomatologica nel caso del disturbo disforico premestruale a differenza di altri disturbi in cui tale co-occorenza dei sintomi con le fasi del ciclo mestruale risulta assente.

Riguardo ai disturbi dell’umore e la relazione con il genere femminile è interessante evidenziare che il disturbo depressivo maggiore colpisce il genere femminile in misura doppia rispetto a quello maschile (41,9% contro il 29,3%). La prevalenza nel lifetime per il disturbo depressivo maggiore è del 10,2% nelle donne contro il 5,2% degli uomini; per la distimia del 5,4% contro il 2,6% e ancora più marcata risulta la preponderanza femminile per la depressione atipica e per i disturbi depressivi stagionali (Kessler, McGonagle, Swartz et al., 1993; World Health Organization Kobe Center, 2005; Niolu, Ambrosio, Siracusano, 2009).

Sono diverse le ipotesi fatte per spiegare la maggior prevalenza di depressione nelle donne rispetto agli uomini; attualmente la più accreditata dalla letteratura internazionale è l’ipotesi biopsicosociale, in cui sono chiamati in gioco sia fattori neuroendocrini (differenze nell’impatto sul cervello dei diversi ormoni sessuali, variazioni ormonali in determinate fasi del life span), sia chiaramente fattori psicosociali (differenze nelle strategie di coping, nella vulnerabilità personale, nella frequenza di esposizione e nella qualità degli eventi stressanti, storia famigliare di disturbi psichiatrici).

Il ciclo riproduttivo quindi sembra giocare un ruolo chiave in termini di fattori di rischio di depressione nelle donne e in particolare in alcune fasi di vulnerabilità specifica: adolescenza, gravidanza, post partum e perimenopausa. Quadri clinici diversi possono essere associati a specifici momenti del ciclo riproduttivo femminile: la sindrome premestruale e il disturbo disforico premestruale coincidono con la fase luteale del ciclo mestruale; la depressione in gravidanza nel periodo del pre-parto, la maternity blues entro le due settimane dal parto; la depressione post-partum, la psicosi post-partum a seguito del parto; la depressione perimenopausale dai 5 ai 7 anni prima della menopausa.

La menopausa è la fase del ciclo biologico femminile che corrisponde alla definitiva cessazione dei cicli mestruali conseguente alla perdita della funzione follicolare ovarica. Costituisce un momento di crisi che analogamente ad altre tappe della vita femminile come l’adolescenza e la gravidanza richiede adattamenti fisiologici, psicologici e relazionali. Secondo lo stereotipo classico la maternità e la crisi adolescenziale hanno un significato evolutivo e creativo mentre la menopausa è più un’esperienza di lutto dovuto alla perdita della fertilità.

Nonostante questo dati empirici hanno mostrato che invece spesso le donne mostrano un’attitudine positiva verso la menopausa, ritenendola non solo una transizione fisiologica ma anche un’opportunità per bilanci esistenziali, ulteriore maturazione e realizzazione di obiettivi. Studi epidemiologici hanno mostrato che i fattori di stress psicosociale sono associati ad un aumentato rischio per sviluppo di sintomi depressivi subclinici ed un esordio depressivo maggiore durante la transizione menopausale e il loro impatto è maggiore rispetto a quello dello stato menopausale di per sé (Lanza di Scalea, Niolu, Siracusano, 2010).

Il trattamento della sindrome premestruale e del disturbo disforico premestruale

La maggiore conoscenza e la consapevolezza del quadro clinico permette alle donne di affrontare il periodo che precede il ciclo con maggiore senso di tranquillità e capacità di gestione dei sintomi. Tenere un calendario o un diario dei sintomi può aiutare le donne ad individuare i sintomi più fastidiosi e i tempi in cui si verificano. Queste informazioni possono aiutare i medici e gli psicologi a diagnosticare il disturbo disforico premestruale e stabilire il trattamento appropriato.

Una volta individuati i sintomi e valutata la gravità degli stessi anche attraverso la compromissione del funzionamento lavorativo e sociale sarà possibile optare per una serie di trattamenti che andranno da presidi non farmacologici a trattamenti di tipo farmacologico a seconda della condizione clinica e della risposta agli stessi.

Alle pazienti con sintomatologia da lieve a moderata, poco invalidante e sporadica, si suggerisce una adeguata attenzione alla qualità e alla durata del sonno nella settimana che precede il  ciclo e alla qualità dell’alimentazione; in particolare evitare di rispondere con abbuffate di dolci al caratteristico aumento di appetito e favorire, al contrario, una dieta il più possibile equilibrata, riducendo al minimo l’utilizzo di sale, caffè e alcol, che aggravano i sintomi. Presidi non farmacologici utili nella gestione e riduzione dei sintomi premestruali possono essere gli integratori alimentari a base di magnesio e vitamine, l’esercizio fisico (sono sufficienti 10-20 minuti di esercizio fisico per 3-4 volte alla settimana), le tecniche di rilassamento e la psicoterapia.

L’attività fisica favorisce il rilascio di endorfine, sostanze utili per combattere il dolore, che diminuiscono proprio nei giorni che precedono le mestruazioni. L’attività fisica fa aumentare i livelli di serotonina, importante per ottenere un miglioramento dell’umore ed un sonno riposato. Inoltre le attività fisiche aerobiche aumentano il flusso di sangue diretto ai muscoli di tutto il corpo, e questo aiuta a sciogliere i crampi e a far scomparire il dolore.

Le tecniche di rilassamento aiutano a regolare l’attivazione emotiva intensa che genera sul piano fisico sintomi da attivazione (come la tachicardia) e da tensione prolungata (ipertonia muscolare che provoca mal di pancia, mal di schiena e mal di testa). Sul piano psicologico aiuta a ridurre la tensione psichica, l’irritabilità e l’insonnia, che spesso accompagnano il ciclo a causa sia dei cambiamenti ormonali, sia dell’atteggiamento con il quale la donna lo vive.

La psicoterapia è utile in presenza di una sintomatologia premestruale che con altri trattamenti non ha trovato sollievo e cura. La sintomatologia psicopatologica premestruale può avere anche cause psicologiche, soprattutto quando vi è un vissuto psicologico conflittuale verso le mestruazioni.

La terapia farmacologica per sindrome premestruale e disturbo disforico premestruale dispone di diversi interventi atti a controllare e a ridurre la sintomatologia quotidiana, soggettivamente disturbante e disfunzionale.

Nelle donne che presentano una sindrome premestruale di grado moderato/grave e nel disturbo disforico premestruale la terapia psicofarmacologica con l’utilizzo di antidepressivi è risultata la più efficace nel controllo e nella cura della sintomatologia psichica, con miglioramento dell’adattamento e del funzionamento globale. I farmaci più efficaci utilizzati sono rappresentati dagli antidepressivi della categoria degli SSRI o gli SNRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina o della serotonina/noradrenalina) che agiscono sulla cascata ormonale del progesterone ed aiutano a correggere i sintomi psichici. Non sempre risultano efficaci nella sintomatologia fisica. Evidentemente questa scelta deve essere valutata attentamente da uno specialista in modo da calcolare rischi e benefici del trattamento prima della sua applicazione.

 

E’ così carino che lo strapazzerei di baci! Le basi neurali della cute aggression

La locuzione cute aggression è definita come l’impulso, provato da alcune persone, a stringere, strapazzare o mordere esseri particolarmente carini, sebbene in assenza di un’effettiva intenzione di arrecare danno agli stessi.

 

Il primo studio sulla cute aggression è stato condotto da Aragón e colleghi (2015), i quali hanno descritto questa tendenza come un esempio di espressione dismorfica delle emozioni, in quanto la cute aggression risultava correlare con un forte senso di sopraffazione dovuto a emozioni positive. L’espressione dismorfica delle emozioni è relativa al contrasto tra l’esperienza di un’emozione e la sua espressione, come, ad esempio, quando si piange dalla felicità.

Gli autori hanno ipotizzato che la cute aggression possa essere considerata come un meccanismo di regolazione per forti emozioni positive: infatti, dal punto di vista evolutivo, tale reazione potrebbe svolgere la funzione di impedire che l’essere sopraffatti dalle emozioni positive nel vedere un essere carino possa rendere impossibile il prendersene cura, minacciando la sua sopravvivenza.

In un recente studio pubblicato su Frontiers in Behavioral Neuroscience, Stavropoulos e colleghi (2019) hanno indagato l’eventuale presenza di basi neurali sottostanti la cute aggression. Nello specifico, è stata utilizzata una tecnica elettrofisiologica volta alla misurazione dell’attività elettrica proveniente dai neuroni all’interno del cervello rilevata a livello superficiale, ovvero i potenziali evento relati (ERPs). Sono state misurate in particolare componenti neurali relative alla salienza emotiva (N200), all’anticipazione della ricompensa (SPN) e al processamento della ricompensa (RewP), in quanto è stato ipotizzato che l’attività neurale corrispondente alla cute aggression potesse essere relativa in particolare al sistema di reward e al sistema che regola il processamento delle emozioni.

Il campione dello studio era composto da 54 partecipanti con età compresa tra i 18 e i 40 anni, ognuno dei quali ha acconsentito a indossare una cuffia munita di elettrodi. Mentre indossavano le cuffie, ai partecipanti sono state mostrate su un monitor, in ordine casuale, 32 immagini divise per categorie in 4 blocchi: bambini carini (modificati per accentuare aspetti infantili, quali gli occhi grandi e le guance paffute), bambini meno carini (le stesse immagini del blocco precedente ma non modificate), cuccioli di animali carini e animali adulti.

In seguito alla presa visione di ogni blocco, ai partecipanti è stata mostrata una serie di affermazioni ed è stato chiesto loro di esprimere rispetto a esse il proprio grado di accordo su una scala da 1 a 10. Tale richiesta era strutturata per valutare quanto i partecipanti trovassero carini i soggetti rappresentati (appraisal) e con che intensità sperimentassero una risposta di cute aggression. E’ stato inoltre valutato il senso di sopraffazione rispetto alle emozioni positive provato dai partecipanti (Non posso sopportarlo!, Non posso gestirlo!) e se questi ultimi si sentissero spinti a prendersi cura dei soggetti che avevano appena visto (Voglio stringerlo!, Voglio proteggerlo!).

In generale, i partecipanti hanno riportato un maggiore livello di cute aggression e di senso di sopraffazione, oltre che un maggiore desiderio di cura e una valutazione maggiormente positiva, nei confronti dei cuccioli carini piuttosto che nei confronti degli animali adulti meno carini. Tra le due categorie di bambini – modificati in senso infantilizzante e non modificati – non sono state rilevate differenze significative. Tale incongruenza sarebbe da imputare, secondo gli autori, alla scelta di riproporre gli stessi soggetti modificati piuttosto che soggetti differenti che possedessero in origine le caratteristiche desiderate.

Tramite le cuffie è stata misurata l’attività cerebrale dei partecipanti prima, durante e in seguito alla visione dei blocchi di immagini. Tramite l’analisi dell’attività neurale rilevata nei partecipanti che avevano avuto esperienza della cute aggression, è stato confermato il coinvolgimento del sistema di reward e del sistema legato al processamento delle emozioni nel fenomeno. In particolare, è stata evidenziata una correlazione particolarmente significativa tra il livello di cute aggression esperito in risposta ai cuccioli e la risposta di ricompensa elicitata a livello cerebrale dalla visione di tali stimoli. Infine, è stato rilevato che la relazione tra la valutazione di quanto un soggetto venisse considerato carino e l’esperienza della cute aggression risultava mediata dal senso di sopraffazione esperito.

Tale risultato conferma il modello di adattamento evolutivo del fenomeno proposta da Aragón e colleghi (2015). Partendo dai risultati dello studio illustrato, Stavropoulos e colleghi vorrebbero approfondire lo studio della cute aggression, valutando un eventuale cambiamento di tale esperienza in popolazioni differenti, quali madri con depressione post-partum o partecipanti con o senza bambini o animali da compagnia.

Alunni con Funzionamento Intellettivo Limite: tra richiesta di attenzione clinica e nuovi impegni didattici

Si parla di Funzionamento Intellettivo Limite (FIL), usando anche etichette diverse come “borderline cognitivo” o “slow learner”, quando siamo in presenza di un individuo con QI globale che risponde ad una misura che va dai 70 agli 85 punti e non presenta elementi di specificità.

 

Funzionamento Intellettivo Limite: oltre la valutazione del QI

Trattasi di una condizione evolutiva caratterizzata da un funzionamento cognitivo borderline, ovvero una sorta di zona di confine tra normalità e disabilità intellettiva.

Pur senza rappresentare, quindi, un vero e proprio disturbo, in effetti questo profilo può diventare oggetto di attenzione clinica ed è una condizione in cui l’intervento educativo e psicopedagogico si rivela cruciale. Gli alunni con Funzionamento Intellettivo Limite sono citati nella D.M. del 27/12/2012 sui Bisogni Educativi Speciali, in quanto passibili di difficoltà scolastiche che ostacolano un adeguato apprendimento e che, quindi, necessitano di un intervento specifico da parte del docente. Questi alunni, non presentano elementi di specificità, pertanto risulta difficile stimarne la presenza effettiva tra la popolazione scolastica: secondo Renzo Vianello (2008), la cifra si aggirerebbe attorno al 4-7%.

Coerentemente con quanto riportato dal DSM-5 (APA, 2013), la valutazione del QI è necessaria, ma non sufficiente per definire una condizione di Funzionamento Intellettivo Limite. Essa è causa principale ma non unico elemento per un’adeguata valutazione diagnostica. È importante considerare le diverse abilità cognitive ed il funzionamento adattivo: un QI nel range borderline deve associarsi a necessità di supporto scolastico affinché l’alunno possa rispondere adeguatamente alle richieste del proprio contesto di vita. Questi alunni, infatti, presentano limiti intellettivi e problemi adattivi che, pur non precludendo un inserimento nella vita normale, potrebbero rendere difficile rispondere alle richieste della scuola e dell’ambiente in cui sono inseriti.

In effetti, secondo la letteratura scientifica, la diagnosi di Funzionamento Intellettivo Limite richiede, oltre ad un QI totale e abilità adattive comprese fra 1 e 2 DS negative, che il profilo intellettivo non presenti elementi di specificità, presentando alcune componenti deboli ma altre nella norma (Cornoldi, Giofrè, Orsini e Pezzuti, 2014). Richiede, inoltre, che le debolezze della persona non siano imputabili né ad altri fattori che giustificherebbero un’altra diagnosi né a condizioni ambientali, emotive, sociali transitorie, tali per cui la diagnosi potrebbe venire meno.

Infatti, la condizione di borderline cognitivo non presenta il carattere di selettività tipico dei disturbi specifici, né una richiesta di supporto continua tipica delle disabilità intellettive.  

C’è da dire, inoltre, che la letteratura scientifica è in fase di evoluzione al momento attuale, condizione dovuta anche alla carente attenzione clinica che la condizione di Funzionamento Intellettivo Limite ha avuto nel corso del tempo. Ad esempio, ancora discusso è il tema della comorbilità tra Funzionamento Intellettivo Limite e altri disturbi. In coerenza con quanto suggerito dal DSM-5, le situazioni di compresenza con altre problematiche sono molto frequenti: difficoltà di attenzione e iperattività; difficoltà negli apprendimenti scolastici; problemi di comportamento o della personalità, etc. Resta attualmente controverso se in questi casi talune diagnosi si autoescludano o sia legittimo il riferimento alla presenza di un doppio disturbo in presenza di particolari condizioni.

Funzionamento Intellettivo Limite: l’intervento del docente

All’interno di questo panorama clinico, come può porsi l’intervento del docente nella sua veste didattica e pedagogica?

Una diagnosi di Funzionamento Intellettivo Limite non rientra nelle tutele della legge 104/1992 e, pertanto, non implica l’intervento né la necessità dell’insegnante di sostegno per la classe in cui è iscritto l’alunno. Sono comunque opportune alcune considerazioni di stampo psicopedagogico.

In effetti, per alcuni alunni, la condizione borderline a livello cognitivo è legata a fattori neurobiologici, per altri invece (seguendo le parole della D.M. sui BES su citata), si tratta solo di “una forma lieve di difficoltà tale per cui, se adeguatamente sostenuti e indirizzati verso i percorsi scolastici più consoni alle loro caratteristiche, gli interessati potranno avere una vita normale. Gli interventi educativi e didattici hanno come sempre ed anche in questi casi un’importanza fondamentale.” (D.M. 27/12/2012- Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica).

La scuola può contribuire, quindi, a far raggiungere all’alunno con Funzionamento Intellettivo Limite il più alto livello di funzionamento grazie al potenziamento delle abilità (non solo scolastiche) del soggetto stesso sulla base di un’analisi ponderata dei punti di forza, sulla quale si andrà a costruire l’intervento pedagogico e didattico. Un comportamento competente da parte delle figure educative è alla base del benessere personale, sociale e scolastico perché mette il bambino nelle condizioni di percepire positivamente sé stesso e gli altri. Inoltre, l’intervento competente del docente svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’autostima, che in questi casi costituisce sovente uno dei punti di debolezza più radicati. Atteggiamenti di disponibilità, accettazione, empatia, incoraggiamento ed approvazione da parte delle figure che circondano il bambino, lo aiutano a sviluppare sentimenti positivi riguardo alle proprie capacità e ad aumentare il senso di auto-efficacia (Bandura, 1997).

L’intervento del docente non dovrebbe prescindere da momenti di osservazione sistematica che permettono di delineare un chiaro profilo comportamentale (soprattutto nel caso di comportamenti problema) e delle abilità cognitive e scolastiche dell’alunno (pensiamo ai tempi di attenzione, alle competenze metacognitive, punti di forza e risorse individuali).

Bisogna tenere presente che sussistono alcune manifestazioni tipiche di alunni con Funzionamento Intellettivo Limite, come ad esempio:

  • frequenti insuccessi diffusi su diverse aree disciplinari;
  • lentezza esecutiva e difficoltà nella comprensione del compito;
  • difficoltà nel comprendere i concetti astratti e svolgere esercizi che chiamano in causa competenze logiche;
  • difficoltà nel mettere in atto processi di generalizzazione o trasferimento di apprendimenti da un contesto all’altro (ad esempio individuare le relazioni logiche tra le diverse discipline e/o argomenti);
  • difficoltà nell’integrare tra di loro vecchi e nuovi concetti e riconoscerne i legami le gerarchie;
  • difficoltà nel pianificare e organizzare le proprie attività in tempi adeguati;
  • possibile senso di inadeguatezza, bassi livelli di autostima e demotivazione nei confronti di tutte quelle attività scolastiche per le quali sperimentano maggiormente difficoltà e insuccessi.

Quali, allora, le strategie didattiche opportune?

Innanzitutto è necessario precisare che la D.M. sui BES, già citata in questo articolo, estende a tutti gli studenti con difficoltà il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento anche tramite strumenti compensativi e misure dispensative previste dalla normativa precedente per gli alunni con DSA (Legge 170/2010). Pertanto, uno degli strumenti che il docente ha a disposizione è il Piano Didattico Personalizzato (nel caso in cui il Consiglio di classe decidesse di optare per la formalizzazione delle strategie didattiche). Per i BES non tutelati dalla Legge 104/92 e 107/10, la redazione del PDP è una scelta dei docenti e non un vincolo. Si consiglia, in ogni caso, di formalizzare l’intervento nel momento in cui strumenti compensativi e misure dispensative siano necessarie anche in sede di valutazione (verifiche ed interrogazioni ed Esami di Stato).

Le strategie didattiche, formalizzate o meno, devono insistere sull’autonomia dell’alunno con Funzionamento Intellettivo Limite, tramite il potenziamento dei processi di metacognizione. Gli strumenti compensativi possono costituire un aiuto a questo proposito, oltre che sopperire alla lentezza esecutiva (pensiamo alla calcolatrice, tavola pitagorica, formulari, etc). Il bambino, però, deve essere in grado di utilizzarli in maniera consapevole, e, soprattutto, opportuna, altrimenti si corre il rischio di ostacolare ulteriormente l’apprendimento e di spogliare l’alunno di responsabilità e autonomia.

Il docente può inoltre: fornire indicazioni chiare circa le attività da svolgere attraverso consegne ed istruzioni trasparenti e che ricorrano a termini quanto più possibili concreti; anticipare quello che deve essere appreso, se necessario optando anche per la divisione in sequenze o usando supporti iconici per facilitarne la comprensione e l’apprendimento in fasi; coerentemente con i tempi di attenzione, si può ipotizzare il ricorso a strumenti informatici per appunti, materiali multimediali, ricerca di informazioni, vocabolari online. Bisogna supportare l’alunno nelle attività di comprensione suddividendo gli argomenti complessi in fasi o step e mediante l’evidenziazione di concetti chiave, partendo da proposte che è in grado di gestire, in modo che il successo sia possibile e che, quest’ultimo, funga da rinforzo per l’autostima e il senso di autoefficacia.

Non bisogna ignorare che alle volte, gli alunni con Funzionamento Intellettivo Limite hanno bisogno di tempi differenti rispetto al resto della classe per le attività di analisi, comprensione e svolgimento di un compito. Soprattutto, bisogna preferire forme alternative a quella che è la lezione frontale, in quanto emerge oramai in maniera chiara che quest’ultima è una metodologia che si concilia solo con lo stile di apprendimento di pochissimi alunni e, di certo, non può dirsi foriera di didattica inclusiva.

Il bimbino, ad ogni modo, deve essere sempre il protagonista del proprio processo di apprendimento, pertanto non bisogna sottovalutare l’aspetto motivazionale, vero motore di questo processo.

 

La radicalizzazione islamica di bambini e adolescenti

Già nel 2006, le Nazioni Unite stimavano che 250 mila bambini erano stati arruolati tra le fila dei terroristi per combattere in venti conflitti sparsi nel mondo. L’allora sedicente Stato Islamico già nei primi mesi del 2015 aveva già oltre 1.500 bambini a combattere in prima linea e ne aveva addestrati oltre mille come kamikaze.

 

Lo scorso 12 luglio, un kamikaze uccideva cinque persone e ne feriva quaranta durante un matrimonio che aveva corso nella parte orientale dell’Afghanistan, nel distretto di Pacheragam, nella provincia di Nangarhar, quartiere generale dell’Isis e dove è concentrata una forte presenza di talebani. Il tentativo da parte dei terroristi è quello di riprendere il controllo dell’Afghanistan. Il kamikaze era solo un bambino di 13 anni.

La tragedia ripropone il problema della radicalizzazione islamica di bambini e adolescenti. Vengono chiamati i “leoncini dell’Isis”, per proseguire la jihād nella prossima generazione, possibilmente in Occidente, Nordafrica e Medio Oriente, dopo la sconfitta militare del sedicente Califfato.

Tale fenomeno dà conto di un duplice problema: l’utilizzo di asset “extra-sistemici” per combattere il nemico (Fiocca, Montedoro, 2006) e la diffusione della figura del kamikaze in strati sociali sempre più numerosi. Le tecniche extra-sistemiche alludono allo sfruttamento da parte dell’avversario degli asset dell’altro. Da parte del terrorismo, nel settore della comunicazione, il progressivo sfruttamento degli asset occidentali è confermato dalla diffusione di siti islamici nei paesi occidentali per esportarvi politiche di separazione e destabilizzazione. La tecnologia è uno strumento sfruttato al massimo dai terroristi islamici in conformità con il mandato dei Fratelli Musulmani di “indebolire l’Occidente anche con le loro armi”. Il terrorismo è perfettamente consapevole della rilevanza dell’evento mediatico, cioè della “spettacolarizzazione” o “democratizzazione” della guerra, con il progressivo coinvolgimento delle popolazioni civili nel conflitto, anche sotto gli aspetti psicologici ed emotivi. Ciò crea un doppio dividendo: accresce sia la percezione di vulnerabilità dalla parte occidentale, sia una sensazione di grandiosità e onnipotenza nei combattenti, attraverso cui il proselitismo si autoriproduce.

Da parte dell’Occidente, un asset extra-sistemico, che crea un forte gap nei vantaggi comparati fra gli avversari, è la “cultura della morte”. Quando per una forma di neoascetismo sacrificale, si è disposti a morire, non c’è spazio per negoziazioni, né per minacce efficaci da parte dell’Occidente. Istituzioni quali charities, moschee, madrassas, campus, bar e altri luoghi di aggregazione sociale diventano gangli dell’intera architettura da cui attingere risorse finanziarie e umane. Costituiscono fucine da cui arruolare burattini del terrore, attraverso l’imperativo categorico della “cultura della morte”.

Sul piano dell’estensione sociale del fenomeno, si osserva che il proprio sacrificio per la causa ha coinvolto donne, che vengono meno controllate poiché esistono remore a perquisirle a fondo e più mimetizzabili. Da anni, poi, il conflitto estende i suoi tentacoli raggiungendo la fascia sociale più debole e indifesa. E, perciò, quella che più si presta alla manipolazione. Già dal 2006 (Daou, 2006), le Nazioni Unite stimavano che 250 mila bambini erano stati arruolati tra le fila dei terroristi per combattere in venti conflitti sparsi nel mondo. L’allora sedicente Stato Islamico già nei primi mesi del 2015 aveva già oltre 1.500 bambini a combattere in prima linea e ne aveva addestrati oltre mille come kamikaze. Nel più recente rapporto in materia, il Combating Terrorism Center, tra il 2015 e il 2016 ha realizzato una capillare indagine per illustrare le modalità con cui le organizzazioni estremiste violente – e in particolare quelle legate all’Islam – da tempo reclutassero bambini (Bloom, Horgan, Winter, 2016).

Sulla base di talune sette occidentali, alcuni psicologi hanno tentato di ricostruire il fenomeno giungendo alla conclusione – tra le regolarità riscontrate – che, in forza della manipolazione operata sugli attentatori, il loro cervello diventa un “dischetto vuoto che richiederebbe solo di essere programmato”. Sorrentino (2004) rileva che detta manipolazione determina i presupposti biologici e comportamentali per una “anestesia della paura” somministrata ai “kamikaze da allevamento.”

Si accresce il numero dei bambini arruolati e allo stesso si riduce la loro età. Vittime sono soprattutto “piccole donne”, perché meno soggette a controlli ai posti di blocco. Sempre più spesso appaiono nei video anche i figli dei foreign fighters, molti dei quali europei. I figli dei foreign fighters vengono separati dagli altri bambini, cosicché chi non conosce la lingua araba possa impararla; dopo questa fase di apprendimento linguistico, essi si uniscono agli altri. Agli ufficiali dell’IS è consentito che i loro figli frequentino le scuole che ospitano i figli dei foreign fighters, poiché frequentemente si avvalgono di insegnanti migliori.

La testimonianza nel gennaio 2016 di un dodicenne – che gli jihādisti stavano addestrando per diventare un kamikaze ed è riuscito a fuggire da un campo di addestramento dell’ex sedicente Stato Islamico – in una intervista alla CNN ha raccontato di piccoli di cinque anni tra i reclutati. Alcuni di loro sono stati rapiti nei territori siriani e iracheni conquistati dall’Isis, altri sono i figli degli stessi jihādisti.

All’indottrinamento, al lavaggio del cervello, veniva affiancato l’addestramento militare sul campo condotto dalla c.d. “squadra del califfatto”, dal quale nessuno era esente.

Nel 2016, Khalid Nermo Zedo, un volontario del campo profughi di Esyan nel nord dell’Iraq, ha spiegato alla CNN che questi bambini hanno disperatamente bisogno di un aiuto psicologico:

Hanno sofferto tanto. Riuscite a immaginare un bambino di 12 anni o di 10 o di 8 anni, trascinato via dalla loro madre con la forza, portato nei campi di addestramento militare, costretto a imbracciare le armi, costretto a convertirsi all’Islam, convinti che sono apostati, che i loro genitori sono impuri infedeli? Alcuni bambini si spaventano anche solo se sentono la parola IS. Hanno convulsioni appena viene pronunciata quella parola. Sono tutte situazioni catastrofiche.

Per l’adescamento, ai piccoli venivano promessi soldi, armi e persino automobili. I genitori, temendo le ripercussioni di un loro rifiuto o a cambio di denaro, molto spesso hanno consentito ai loro figli di seguire i miliziani nell’indottrinamento della “cultura di morte”.

Nel 2016, Aziz Abdullah Hadur, comandante peshmerga (forze armate della regione autonoma del Kurdistan iracheno – Peshmerga: combattente-guerrigliero che intende battersi fino alla morte), ha raccontato alla CNN che i bimbi che arrivano al fronte erano in stato disperato: magri, smunti, a malapena con un aspetto umano. Ma Hadur ha illustrato anche il dramma della decisione impossibile da prendere sul campo quando i bambini kamikaze vengono lanciati contro i peshmerga. Questi stessi avevano attimi di dubbio perché “se non li uccidi saranno loro a uccidere te”.

Diversi sono i motivi da parte dei terroristi di scegliere “cuccioli-bomba”. Prima di tutto, c’è l’effetto psicologico: l’allora IS, come qualsiasi gruppo terrorista, ha inteso incutere la paura a livello globale usando tutti i sistemi a sua disposizione. Poi c’era la necessità di catturare l’attenzione dei mezzi di comunicazione. Lo spazio che i media internazionali dedicano a questo tipo di video ha permesso agli estremisti di diffondere più facilmente il loro messaggio. Inoltre, se i ragazzi avessero visto altri come loro integrati nello Stato islamico sarebbero stati più propensi a unirsi agli estremisti.

I metodi e la condotta del reclutatore in queste fasi sono finalizzati a indurre fiducia, amicizia, attaccamento, e, in ultima analisi a far sentire il bambino speciale, particolare. Si tratta di una strategia efficace, poiché le vittime sono bambini orfani, che spesso non possono andare a scuola e a volte devono lavorare per forza. Il reclutatore offre loro una rete di sostegno, attraverso regali e cibo. Una volta guadagnata la fiducia – esattamente come il processo di desensibilizzare i bambini dall’atto del toccare utilizzato dai pedofili – i reclutatori dell’Isis sono stati osservati assoggettare le reclute bambine a materiale ideologico e ad atti di violenza. Gli orfani sono i c.d. “leoncini del Bene”: si tratta di figli di disertori (locali o stranieri), bambini i cui padri sono stati uccisi in combattimento e orfani senza parenti in grado di prendersi cura di loro. Questi bambini vengono generalmente addestrati per farsi esplodere. In un campo dal nome Usama al-Mwahid, gli orfani vengono addestrati all’uso e all’installazione di diversi tipi di IEDs (Improvised Explosive Devices, ordigni esplosivi rudimentali).

Infanzie rubate e gettate via, vite in frantumi, ferite dell’anima difficili da cicatrizzarsi.

 

EMDR e Disturbi Sessuali (2019) E. Isola e B. Maccarrone – Recensione del libro

Chi lavora in ambito sessuologico sa che muoversi nella complessa dimensione della sessualità umana comporta grandi sfide. Il sintomo è spesso la manifestazione di difficoltà più ampie e nello stesso tempo richiede una preparazione e un trattamento specifico e mirato. 

 

Gli ultimi anni hanno visto il diffondersi di molti contributi che hanno portato a una rapida evoluzione nel campo della sessuologia, con la definizione di approcci sempre più orientati ad un’ottica multidisciplinare, che vedono il tentativo di illustrare la complessità della risposta sessuale e la costante e reciproca interazione tra fattori biologici e psicosociali. Corpo, emozioni, vissuti e pensieri sono, infatti, parte di un’unità psicosomatica inscindibile. E’ proprio questa l’ottica in cui si muove il volume, proponendo l’utilizzo dell’EMDR, strumento terapeutico dalla reputazione ormai consolidata, nell’ambito del trattamento delle disfunzioni sessuali come parte integrante di un più ampio sistema di intervento.

Come emerge certamente dall’esperienza clinica, e sottolinea anche la recente letteratura, le esperienze traumatiche ricoprono un ruolo importante nell’eziologia dei disturbi sessuali ed è necessario disporre di strumenti adeguati che permettano di lavorare in questo ambito garantendo sicurezza ed efficacia. Trattare disturbi sessuali di origine traumatica richiede, infatti, molta cautela poiché, come ci insegna l’ormai ricchissima letteratura in merito, le memorie traumatiche sono registrate implicitamente, a livello di schema corporeo: l’esposizione prevista dalla terapia mansionale, approccio molto diffuso ed efficace nel trattamento dei disturbi sessuali, in questi casi potrebbe essere ri-traumatizzante e riattivare memorie traumatiche.

Problemi complessi richiedono soluzioni integrate e l’esigenza di arricchire la cassetta degli attrezzi del clinico trova piena realizzazione nella proposta delle autrici, che non suggeriscono un’alternativa radicale al panorama attuale dell’intervento sessuologico, ma, proponendo un protocollo EMDR specifico da integrare nel trattamento dei disturbi sessuali, offrono uno strumento prezioso e perfettamente inserito nell’ottica multidisciplinare e articolata che vede al centro la persona nella sua individualità.

La prima parte di EMDR e Disturbi Sessuali ha come obiettivo una maggiore comprensione della sfera sessuale, illustrando brevemente la storia della sessuologia nel suo percorso storico, culturale e clinico che sempre di più ha portato verso un approccio integrato ai problemi sessuali e descrivendo abbastanza dettagliatamente, pur senza pretese di esaustività, i vari disturbi sessuali secondo la nuova categorizzazione proposta dal DSM-5. Le autrici analizzano la multifattorialità delle disfunzioni sessuali e sottolineano gli aspetti rilevanti di cui tener conto nella valutazione clinica e nell’impostazione del trattamento, riconoscendo, in linea con la novità introdotta dal DSM-5, le differenze di genere sottolineate dalla recente letteratura.

I capitoli centrali vogliono offrire una sintesi delle conoscenze attuali sul trauma e sulla terapia EMDR come trattamento di elezione per affrontare e risolvere le conseguenze a breve e lungo termine di esperienze traumatiche. Particolare attenzione è riservata all’impatto di esperienze interpersonali traumatiche occorse in età evolutiva che per la loro precocità, gravità e pervasività condizionano lo sviluppo successivo dell’individuo, rappresentando un fattore di rischio molto importante per lo sviluppo di patologie fisiche e psicologiche. Sono illustrate in modo abbastanza dettagliato le conseguenze dell’abuso sessuale infantile e ne vengono delineati i sintomi psicologici e comportamentali osservabili a seguito dell’evento e gli sviluppi traumatici successivi, anche in termini di disturbi sessuali.

In questo quadro clinico l’EMDR rappresenta certamente un grande strumento nelle mani del clinico per accedere ai ricordi traumatici, rielaborarli e portarli a una risoluzione adattiva. Nonostante i meccanismi alla base del suo funzionamento siano ancora ampiamente dibattuti e oggetto di studi in corso, l’efficacia dell’EMDR è ormai nota e dimostrata, tanto che è oggi considerato uno dei trattamenti ‘evidence-based’ inserito in molte linee guida internazionali. Anche le disfunzioni sessuali di origine traumatica possono dunque beneficiare di uno strumento così potente: il paziente impara ad entrare in connessione col proprio corpo e col sintomo sessuale che racconta, a volte più di molte parole, le esperienze traumatiche, imparando a dare spazio a questi vissuti e ad integrarli all’interno di una narrazione più organizzata e completa.

L’ultima parte di EMDR e Disturbi Sessuali è certamente la più interessante dal punto di vista clinico e offre un contributo originale e prezioso per la sessuologia. I capitoli finali, infatti, sono dedicati all’applicazione dell’EMDR al trattamento delle problematiche sessuali individuali e della coppia. Il protocollo è descritto dettagliatamente, con particolare attenzione per le fasi 1 e 2, illustrandone le specificità in questo ambito di intervento. L’obiettivo è la definizione di linee guida fondamentali per il trattamento delle disfunzioni sessuali con l’EMDR, all’interno della cornice concettuale della teoria dell’attaccamento. Le autrici accompagnano il clinico nelle fasi più delicate del lavoro, fornendo strumenti e indicazioni preziose per la raccolta delle informazioni, l’identificazione dei target e la formulazione del complesso e articolato piano terapeutico, che può prevedere, a seconda nelle necessità del singolo paziente, l’integrazione di diversi approcci e figure professionali.

Tenendo conto del fatto che questi pazienti provengono spesso da storie di sviluppo traumatiche, fortemente correlate con la presenza di aspetti dissociativi, in questa proposta si inserisce anche il lavoro sulle parti, che fa riferimento alla teoria della dissociazione strutturale della personalità di Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2011). Pur non avendo ricevuto uno spazio definito e riconosciuto all’interno della classificazione nosografica ufficiale, è infatti ampiamente condiviso dai clinici e ricercatori esperti nel trauma che la presenza di ripetute esperienze negative precoci, in particolar modo all’interno della relazione di attaccamento, esita in un quadro clinico complesso caratterizzato dalla presenza di una dissociazione interna fra parti o “stati dell’Io” che prendono alternativamente posto al centro della scena mentale della persona. Non è dunque possibile raggiungere quella sintesi che consente di sentire di essere “Io”, una persona al cui interno albergano stati mentali e vissuti diversi, a volte in contraddizione, ma comunque integrati e in reciproca connessione.

L’EMDR può essere uno strumento prezioso per favorire il dialogo interno tra le parti (Gonzales e Mosquera, 2012), aiutando a risolvere progressivamente la fobia tra di esse che mantiene la dissociazione. Anche nel protocollo per il trattamento dei disturbi sessuali di origine traumatica, dunque, trova spazio questo tipo di lavoro e offre al clinico la possibilità di intervenire con maggiore efficacia. Un aiuto prezioso proposto come parte integrante del lavoro con pazienti traumatizzati è anche la procedura “Occhi amorevoli” (Knipe , 2012) che si propone, attraverso un dialogo interno guidato dal terapeuta e accompagnato da set di stimolazioni bilaterali, di sostenere il paziente nello sviluppo di una maggiore connessione fra parti reciprocamente fobiche. Anche l’utilizzo del disegno, sempre proposto da Knipe, può essere uno strumento importante per dare forma ad aspetti traumatici legati ai disturbi sessuali e affrontare le delicate emozioni a essi correlate.

A fare da sostegno alla proposta, sono illustrati due casi clinici (uno di terapia individuale e uno di terapia di coppia) in cui si descrive dettagliatamente l’intervento di cui l’EMDR costituisce l’asse portante, ma che si articola in modo complesso, cucito sulle esigenze delle singole persone, integrando eventuali altri strumenti terapeutici in un’ottica di maggiore efficacia clinica. Anche in questo ambito, dunque, la terapia EMDR sembra confermare la propria versatilità e la propria efficacia, permettendo di lavorare in modo complesso, ma organico, seguendo un filo che dà al clinico la possibilità di avvalersi di un protocollo rigoroso, ma allo stesso tempo flessibile e perfettamente modulabile sulle specifiche necessità del singolo paziente e della singola coppia.

 

Il tempo speso sui social media è collegato allo sviluppo di problemi di internalizzazione ed esternalizzazione? 

L’uso dei social media è largamente diffuso tra gli adolescenti degli Stati Uniti, offrendo agli utenti numerosi benefici. Potrebbe però costituire un fattore di rischio per lo sviluppo di problemi di internalizzazione ed esternalizzazione.

 

L’uso dei social media è largamente diffuso tra gli adolescenti degli Stati Uniti, uno studio condotto dalla PewResearch Center poll ha rilevato che il 97% degli adolescenti è solito usare almeno 1 tra questi 7 social media (YouTube, Instagram, Snapchat, Facebook, Twitter, Tumblr e Reddit), inoltre, il 95% degli adolescenti possiede o ha accesso ad uno smartphone e più del 90% passa molto tempo al giorno online. Allo stesso modo i social media offrono numerosi benefici agli utenti tra cui l’esposizione agli eventi attuali, la connessione interpersonale e il potenziamento delle reti di sostegno sociale.

Un quarto degli adolescenti ritengono che i social network abbiano un’influenza negativa sui loro pari poiché vi sono mancanze di contatto umano, opinioni irrealistiche sulla vita di altri, pressione dei pari, problemi di salute mentale e continui pettegolezzi. In molti studi è stato riscontrato un’associazione tra l’uso dei social media e i problemi di salute mentale in adolescenza, altri suggeriscono che un utilizzo prolungato dei social media venga associato a problemi di internalizzazione, a sintomi depressivi e di ansia.

Alcuni studi evidenziano anche un’associazione tra uso dei social media e problemi di esternalizzazione, come bullismo e problemi di attenzione. La prevalenza del Disturbo Depressivo Maggiore e dei sintomi depressivi sono aumentati tra gli adolescenti negli Stati Uniti, unitamente è stato riscontrato che le morti per suicidio negli adolescenti e il tasso di tentativi di suicidio sono incrementate drasticamente negli ultimi due decenni.

Il presente studio longitudinale, condotto dalla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, è stato pubblicato su Jama Psychiatry e ha l’obiettivo di indagare l’associazione tra l’uso eccessivo dei social media e i problemi di esternalizzazione e internalizzazione tra gli adolescenti. Lo studio era composto da 3 sessioni: la prima dal 12 settembre 2013 fino al 14 Dicembre 2014, la seconda dal 23 ottobre 2014 fino al 30 Ottobre 2015 e la terza dal 18 Ottobre 2015 fino al 23 Ottobre 2016. I ricercatori hanno utilizzato i dati dello studio Population Assessment of Tobacco and Health (PATH). I partecipanti in totale erano 6595 adolescenti con un’età compresa tra i 12 e i 17 anni, di cui il 51.3% erano maschi. Ai soggetti veniva somministrato il Global Appraisal of Individual Needs–Short Screener (GAIN-SS), uno strumento di screening volto ad identificare i probabili disturbi mentali e la gravità dei sintomi. Questo strumento presenta anche delle sottoscale volte ad individuare problemi di esternalizzazione e di internalizzazione. Ogni anno ai soggetti veniva chiesto quanto tempo trascorressero sui social media: nello specifico dovevano indicare, attraverso questionari self report, il tempo speso in rete (da 0 ≤ 30 minuti, o > 30 minuti ≤ 3 ore, o > 3 ore ≤ 6 ore, o > 6 ore).

Lo studio ha rilevato che meno del 17% degli adolescenti non utilizzava i social media, il 32% trascorreva meno di 30 minuti, il 31% da 30 minuti a 3 ore, il 12% dalle 3 alle 6 ore e l’8% più di 6 ore al giorno. Dai risultati emerge che circa il 9% dei partecipanti presentavano solo problemi di internalizzazione, mentre il 14% solo problemi di esternalizzazione, il 18% sia problemi di internalizzazione che di esternalizzazione, infine circa il 59% non presentavano alcun problema o i valori riportati non erano rilevanti. È interessante sottolineare come il genere dei partecipanti non influisse sull’uso dei social media e i problemi di salute mentale. Inoltre, confrontando l’uso dei social media per più di 3 ore al giorno con il non uso dei social media è emersa un’associazione significativa sia con i problemi di internalizzazione, sia con problemi di internalizzazione ed esternalizzazione in comorbilità, ma nessuna associazione significativa solo con i problemi di esternalizzazione.

Concludendo, gli adolescenti che trascorrono più di 3 ore sui social media sono più a rischio di sviluppare problemi di salute mentale, in particolare quelli di internalizzazione. Per questo motivo le ricerche future dovrebbero determinare se stabilire limiti sull’uso quotidiano dei social media, aumentare l’alfabetizzazione mediatica e riprogettare le piattaforme dei social media affinché possano essere mezzi efficaci per ridurre l’onere dei problemi di salute mentale.

 

Erotismo e aggressività nei disturbi gravi di personalità (2019) di Otto Kernberg – Recensione del libro

Otto Kernberg è senza dubbio uno degli autori più conosciuti e citati del nostro tempo. Il suo contributo, iniziato sin dalla seconda metà del Novecento, si è concentrato in particolare sull’analisi di quell’area marginale, quella dei Disturbi di Personalità, che divenne ben presto il suo marchio di fabbrica.

 

Il volume qui presentato riprende in pieno il tema delle patologie di personalità, sia nell’accezione di disturbi che di organizzazioni, e della centralità del momento diagnostico quale indicatore principe della scelta di trattamento più idonea.

La personalità viene definita da Kernberg come un’organizzazione costituita da elementi base quali: temperamento, relazioni oggettuali, carattere, identità, sistema di valori etici e capacità cognitive (intelligenza).

Il temperamento è la struttura di base fondamentale della personalità e indica la reattività generale dell’individuo (psicomotoria, cognitiva e affettiva). Il carattere è definito come una struttura dinamica integrata che si forma a seguito dell’interiorizzazione delle precoci relazioni con gli altri significativi. L’identità è il risultato dell’integrazione tra un Senso di Sé integrato e la qualità delle relazioni abituali con gli altri significativi.

Il carattere è dunque l’espressione dei modelli interni di comportamento derivanti dalle rappresentazioni interiorizzate del Sé e dell’oggetto e dipendono in larga misura dalle predisposizioni temperamentali che influenzano le precoci esperienze affettive di gratificazione/frustrazione con gli altri significativi.

I disturbi gravi della personalità originerebbero, secondo Kernberg, proprio da una mancanza di integrazione del Sé e delle rappresentazioni degli altri dando luogo alla Sindrome di Diffusione dell’Identità. Al contrario, nei disturbi di personalità dell’area nevrotica, l’identità è integrata e si osserva piuttosto la presenza di tratti caratteriali estremamente rigidi, difensivi e patologici.

L’autore dedica la prima parte del suo volume, oltre che alla descrizione del concetto di personalità sopra esposto e agli aspetti psicodinamici connessi con lo sviluppo della personalità normale e patologica, anche alla presentazione dei correlati neurobiologici dell’organizzazione dell’esperienza psichica. In particolare, viene descritto il modo in cui gli aspetti psicodinamici e quelli neurobiologici interagiscono tra loro e il ruolo specifico che hanno nella costruzione della personalità. Viene poi esaminato il nuovo modello di classificazione dei Disturbi di Personalità proposto nel DSM-5, apprezzandone l’inserimento del modello alternativo per i Disturbi di Personalità e criticandone al contempo l’eliminazione delle quattro categorie diagnostiche meno riscontrate nella pratica clinica (paranoide, schizoide, istrionico e dipendente).

Nella seconda parte del volume vengono approfondite le tecniche psicoanalitiche più utilizzate per la cura dei Disturbi di Personalità, differenziate in base alla gravità del disturbo. Particolare attenzione viene posta alle quattro tecniche di base che accomunano tutti i modelli di trattamento psicoanalitico (interpretazione, analisi del transfert, neutralità tecnica e utilizzo del contro-transfert) e alle differenze nel loro utilizzo. Nel caso di organizzazioni nevrotiche di personalità, la tecnica psicanalitica standard sembra essere la più efficace, mentre nel caso dei disturbi gravi di personalità sembra trovare una migliore applicazione la Psicoterapia Focalizzata sul Transfert (TFP): quest’ultima si differenzia dall’approccio classico per una diversa applicazione della tecnica interpretativa e per un abbandono della neutralità tecnica in presenza di acting-in potenzialmente dannosi per il soggetto. Viene inoltre presentato un nuovo modello di terapia psicodinamica, la Psicoterapia Psicodinamica Supportiva (SPP) quale completamente dell’ampio spettro di trattamenti psicodinamici disponibili.

La terza parte del volume propone una revisione aggiornata della letteratura clinica e psicodinamica sulla patologia narcisistica grave, in particolare rispetto alla diagnosi, al trattamento e alla prognosi.  Ampio spazio è dedicato alle distorsioni nei racconti dei pazienti e ai transfert e contro-transfert tipicamente attivi in seduta. Viene inoltre chiarita la relazione esistente tra Disturbo Narcisistico e Disturbo Antisociale di Personalità: in base alla prospettiva presentata il Disturbo Antisociale rappresenta la forma più grave di narcisismo patologico; una diagnosi differenziale tra queste due condizioni psicopatologiche appare fondamentale per la prognosi e la scelta del trattamento più adeguato.

Nella quarta parte del volume viene affrontato il tema delle patologie sessuali e delle compromissioni affettive che i pazienti con gravi Disturbi della Personalità possono presentare. Anche qui Kernberg sottolinea la necessità di un’accurata analisi del funzionamento affettivo e sessuale e di una costante attenzione al transfert erotico e al controtransfert attivi in seduta.

L’ultima parte del volume è dedicata all’analisi di altre tematiche care a Kernberg quali: la negazione della realtà, la negazione del lutto e la formazione in psicoterapia. La negazione della realtà si riflette, nei pazienti con gravi Disturbi di Personalità, nelle tendenze autodistruttive che inconsapevolmente mettono in atto e che devono essere affrontate direttamente in psicoterapia con l’obiettivo di migliorare il benessere attraverso una presa di consapevolezza della disfunzionalità di tali comportamenti. Viene poi affrontato il tema del lutto, esperienza legata all’esistenza stessa e con cui tutti prima o poi dobbiamo confrontarci. Il lutto viene qui concepito come occasione di potenziale arricchimento della vita emotiva. Infine, Kernberg affronta il tema della formazione psicoanalitica, criticandone l’attuale impianto organizzativo e suggerendo modifiche nei percorsi formativi.

Un libro che nel complesso ho trovato impegnativo ed eterogeneo nella vastità e complessità dei temi trattati, illuminante e ricco di esempi e riferimenti pratici che offrono spunti clinici interessanti per chi si occupa della psicoterapia dei Disturbi di Personalità, anche utilizzando un approccio psicoterapeutico differente da quello psicanalitico.

 

Il dono: simbolo, rituale, rito e mito

L’etimologia del termine simbolo fa riferimento a ciò che unisce. Il simbolo, quindi, serve a mettere insieme, a unire, a legare, a creare un legame. Se crea legame, il simbolo è un dono o, al contrario, quest’ultimo è un atto simbolico.

 

Un altro paradigma che contraddistingue il legame tra cultura e culturale, come ho descritto negli articoli precedenti, è che la prima funge da significante per il secondo e, quindi, essendo il luogo da cui si attingono i significati, è di natura simbolica.

L’etimologia del termine simbolo, d’altronde, fa riferimento a ciò che unisce. Infatti, esso proviene dal greco syum-bàllo che significa “mettere insieme” sia nel senso di stipulare un accordo che di unire. Nella Grecia antica il simbolo era denominato “tessera di riconoscimento” o tessera hospitalis (come vedremo in seguito, l’ospitalità in Grecia era sacra) per cui due individui o due comunità rompevano in due parti una tessera, generalmente di ceramica, alla fine dell’ospitalità e ognuno dei due ne conservava una parte. Il simbolo, quindi, serve a mettere insieme, a unire, a legare, a creare un legame. Se crea legame, il simbolo è un dono o, al contrario, quest’ultimo è un atto simbolico.

Cultura e culturale, in questo senso, si donano a vicenda scambiandosi significati. Essi in un continuo processo di reciprocità assumono il ruolo di significante e significato: si rincorrono a vicenda senza riuscire a ritrovare l’originaria identità. Le considerazioni di Aristofane sulla natura simbolica del ruolo uomo – donna e del loro destino nel Simposio di Platone “dopo che l’originaria natura umana fu divisa in due, ciascuna metà, desiderando fortemente l’altra metà che era sua, tendeva a raggiungerla”, danno un significato metaforico al suddetto rapporto.

Nel Convivio Platone sosteneva che ogni uomo è simbolo giacché “tessera dell’uomo totale…tensione verso una totalità assente, ma richiamata dall’incompiutezza di senso della situazione presente“. Il simbolo in questa interpretazione è portatore di un significato profondo del quale diventa espressione.

Come sottolineato da U. Galimberti, Jung richiama Platone nel momento in cui, nella ricerca dei significati simbolici e nel tentativo di dare un senso al simbolo, sostiene che quest’ultimo va “dal senso presente ad una ulteriore partecipazione di senso a cui l’incompiutezza del senso presente rinvia“. Jung, infatti, in Spirito e vita, scrive:

Un simbolo non abbraccia e non spiega, ma accenna, al di là di se stesso, a un significato ancora trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito, che le parole del nostro attuale linguaggio non potrebbero adeguatamente esprimere.

E’ sulla concezione del simbolo uno dei maggiori contrasti tra Freud e Jung.

Per Freud i simboli sono una rappresentazione visiva e immaginaria attraverso la quale si esprime l’inconscio. Un’idea, una rappresentazione rimossa può tornare in vita attraverso il simbolo, soprattutto nei sogni. I simboli, come sostiene in Introduzione alla Psicoanalisi, precedono il linguaggio e, quindi, sono una forma di comunicazione primitiva che, seppure si esprime nell’ontogenesi, trova i suoi riscontri nella filogenesi. Infatti, egli scrive:

La relazione simbolica, mai insegnata al singolo ha i requisiti per venire considerata un’eredità filogenetica. Nelle successive fasi dello sviluppo i simboli tendono ad emergere come associati a idee rimosse, soprattutto, sul piano sessuale.

Jung, al contrario, sostiene che questi non sono simboli, ma semplici segni poiché vengono associati per l’appunto ad un vissuto di cui l’individuo ha avuto coscienza e che è stato rimosso. Il simbolo appartiene, invece, all’inconscio collettivo ovvero all’intero universo e non al singolo individuo. Non è un caso che egli concentri i suoi sforzi clinici sugli archetipi che nella sua teorizzazione rappresentano l’eredità trasmessa di immagini e forme virtuali formatisi nel corso dello sviluppo dell’umanità. In sostanza, Jung sostiene che i simboli si sono formati, sul piano filogenetico, trasferendo energia psichica dai bisogni pulsionali immediati, a forme pulsionali mediate, orientate verso fini creativi in modo da effettuare la transizione dal piano della natura a quello della cultura. Ancora una volta, torna anche sul piano dei simboli, il rapporto tra culturale e cultura. Sia Freud che Jung mettono in evidenza, al di là delle differenze sul piano clinico e teorico, che i fatti culturali sono espressioni della cultura che per il primo risiede nell’inconscio, come sede di elementi rimossi, mentre, per il secondo, nell’inconscio collettivo contenete le tracce dello sviluppo filogenetico o le tracce di un evento non conosciuto che influenza le nostre scelte quotidiane.

La croce che, in senso cristiano, rappresenta la sofferenza può essere un segno così come un simbolo archetipico. E’ un segno nel momento che la si associa con un episodio di sofferenza che è stato rimosso; è un simbolo archetipico se rappresenta il passaggio obbligato attraverso il quale ogni cristiano può raggiungere la salvezza.

Se il rapporto tra culturale e cultura, quindi, è mediato dai simboli, non possiamo non fare nostra la definizione di Kerzer quando sostiene che “non si dà rituale senza simboli” (1988) e/o, al contrario, il simbolo, per il suo esplicarsi, ha bisogno del rituale. Tra l’altro il rito è sempre di ordine simbolico in quanto evocatore di significati individuali e/o collettivi. Spesso i riti, da parte degli antropologi, sono coincisi con i riti d’iniziazione e/o con i riti religiosi. Cosi come ho sostenuto per l’antro-poiesi, il rituale si esprime giorno dopo giorno o, meglio, momento dopo momento.

In sostanza, il rapporto rito e rituale assomiglia ai processi esistenti tra cultura e culturale. I rituali occupano quasi l’intera giornata: basti pensare, ad esempio, all’organizzazione dello spazio e del tempo, all’organizzazione del lavoro, del tempo libero, etc. I rituali riguardano anche le modalità con cui svolgiamo i compiti quotidiani come pulire, pulirsi, mangiare, etc. La colazione, il pranzo, la cena nel nostro sistema sociale sono momenti rituali che acquistano valore simbolico: è il momento in cui la famiglia si riunisce. E non solo, i posti a tavola sono predeterminati ed esprimono in maniera chiara le relazioni interne al sistema familiare. I clinici che si occupano di famiglia conoscono bene i significati della prossemica all’interno dello spazio terapeutico. Il pranzo della domenica e/o delle feste raccomandate a casa dei nonni in cui le generazioni si riuniscono è un rituale a forte valenza simbolica. Invitare a pranzo e/o a cena è un modo sia per dimostrare amicizia e gradimento sia per instaurare nuove amicizie: per creare un legame. Ecco ritornare il dono come valore simbolico all’interno dei rituali sia interni sia esterni alla famiglia.

E. De Martino, nell’analizzare il concetto di presenza, introduce il senso di spaesamento attraverso il quale le persone temono di perdere i propri riferimenti domestici. Di fronte ad una crisi dovuta a morte o malattia, essi sperimentano il senso d’incertezza e non appartenenza a una storia comune che li porta all’incapacità di decidere e di agire. Per rispondere a queste sensazioni gli uomini hanno bisogno di de-storificare il negativo collegandosi ai miti, che diventano indici di senso in grado di sostituire la non presenza, attraverso i rituali. De Martino dà un esempio dello “spaesamento” negli studi sull’elaborazione del lutto, osservando e analizzando il rito del pianto in Lucania, facendo riferimento a quanto sostenuto in Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria. Di fronte alla morte di un familiare, vi è l’esigenza di rielaborare il lutto all’interno di un contesto mitico e simbolico che, vissuto in senso religioso, collega la scomparsa con la morte e la resurrezione di Cristo.

Amalia Signorelli, antropologa e collaboratrice di De Martino della spedizione nel Salento, scrive:

Il dato esistenziale che ha scatenato la crisi (morte, malattia, paura e altro ancora) viene mentalmente astratto dal contesto storico per entro il quale è stato esperito e viene ricondotto a un tempo e a una vicenda mitici.

La resurrezione comporta il passaggio da un tempo finito – la vita – all’eternità, che come sostenuto da Sant’Agostino rappresenta un continuum ovvero un presente senza fine che, quindi, come tempo non esiste. Il passaggio dalla vita alla morte comporta il trasformare il vissuto del legame all’interno di un tempo limitato come quello della vita, a uno che, invece, vivrà all’interno di un tempo senza tempo (l’eternità). In questo senso, la morte così come la vita è un dono che permette il perpetrarsi del legame tra i vivi e i morti. I clinici che si occupano di elaborazione del lutto sanno bene che spesso i lutti non superati o incistati sono il frutto di conflitti ancora aperti tra il vivente e il morto, così come sanno che l’elaborazione avviene attraverso un colloquio virtuale con la persona morta.

In Sicilia, per dare valore a questo legame, i “morti” portano regali ai bambini in occasione della festività dei defunti. Il dono serviva a rinsaldare il legame con le generazioni precedenti le quali continuano a vivere nel nostro ricordo. Tale ritualità richiama il principio del Talmud secondo il quale “ci vogliono tre generazioni per fare un figlio: quella dei nonni, dei genitori e dei figli”. Dalle generazioni precedenti arrivano i doni della vita, ma anche quello della morte. D’altronde vita e morte sono la faccia della stessa medaglia: la vita è concepita come inizio e fine e, quindi, come nascita e morte. Torniamo alla coesistenza di Eros e Thanathos di freudiana memoria.

Il culto dei morti, d’altronde, lo troviamo in qualsiasi era della storia e in qualsiasi civiltà con diversi significati simbolici, con diverse ritualità ma, sempre legato al tentativo di rispondere alla domanda sull’origine e sulla fine. Anche i materialisti ovvero quelli che non credono che esista un Dio e una vita oltre la morte, hanno dovuto confrontarsi con questo dilemma e, spesso, di fronte alla morte hanno risposto che essa non esiste. Sembrerebbe un paradosso, eppure essi partono dal concetto di Lavoisier che la materia non si crea e neppure si distrugge ma, semplicemente, si trasforma. M. Hach, nel libro Io credo, afferma:

Io non credo nel destino, le cose succedono e basta. Come gli epicurei, mi dico: finché ci sono io c’è la vita, quando c’è la morte non ci sono più io. Non credo nell’aldilà, non credo ci sia nulla dopo la morte. Credo che le mie molecole resteranno, l’atomo di idrogeno è praticamente immortale, ha una vita lunghissima, quindi le particelle che compongono il mio corpo sopravvivranno. Non sarò più io, le mie molecole si sparpaglieranno nell’atmosfera terrestre, serviranno a costruire altre persone, altri oggetti, chissà. Comunque io non ci sarò più.

Se per il culto dei morti il mito è legato all’esistenza di Dio o di dei, per l’ateismo è la scientificità e il metodo scientifico. Ciò che li accomuna sul piano simbolico è la concezione dello spazio e del tempo. In ambedue i casi c’è un prima e c’è un dopo così come non c’è vuoto né prima né dopo.

Interrogarsi sull’inizio e sulla fine, vuol dire portare i simboli e i riti all’interno del sacro. Ida Magli sostiene che per analizzare il sacro bisogna esaminare la concezione del tempo contenuta all’interno di ogni visione di tipo religioso. Ella sostiene che in quasi tutte le religioni, il tempo è considerato ciclico ovvero dà spiegazioni di ciò che sta prima della nascita e quello che viene dopo la morte. Se il tempo è ciclico, bisogna chiedersi anche: la visione materialista è sacra seppure non ancorata a nessun vissuto di tipo religioso? A una domanda siffatta non si può che rispondere positivamente poiché se per la religione all’inizio e alla fine c’è Dio o ci sono gli dei, per il materialismo all’inizio e alla fine ci sono gli atomi. Si può presupporre, quindi, che vi è il sacro, così com’è stato concepito fino ad oggi dagli antropologi e dagli studiosi di religione, e la “cultura sacra” che attiene alla cultura senza nessun riflesso di tipo religioso.

Questa distinzione seppure logica, in pratica non produce nessun tipo di risultato poiché la cultura nel suo complesso dà significazione al mito d’origine e all’interruzione del tempo seppure nelle specificità delle varie religioni o credenze. Da ciò si evince che la cultura non solo contiene il sacro, ma è sacra. E’ il culturale che crea le distinzioni tra le varie credenze sull’origine e sulla morte.

U. Galimberti, in Il sacro o la dimensione simbolica, sostiene che:

Sacro è una parola indoeuropea che noi traduciamo con “separato” e fa riferimento alla potenza che gli uomini hanno avvertito come superiore a loro e perciò collocata in uno scenario “altro” a cui hanno dato il nome di sacro, successivamente di “divino”. In questo scenario Dio è arrivato con molto, molto, molto ritardo.

Il sacro è il luogo dell’indefferenziato, dell’ambivalenza, dell’indeterminatezza, dell’artistico. E’ il luogo dell’indifferenziato poiché le definizioni sono delle convenzioni che permettono di trovare significati univoci e convenzionali agli oggetti in modo, da un lato, di “ridurre l’angoscia e rendere prevedibili i comportamenti” e, dall’altro, consentire “di nominare le cose secondo un significato universale”. Il definire, il differenziare è tipico dell’attività della ragione che si difende dal non conosciuto, dalla non prevedibilità. Noi abbiamo l’esigenza di catalogare le cose e i comportamenti per evitare l’imprevedibilità che è tipica della follia. Ciò vuol dire che nell’area sacrale le cose possono assumere mille e più significazioni.

Secondo quello che ho sostenuto fino adesso, non vi è dubbio che la dimensione della sacralità appartenga alla cultura, mentre il definire, il differenziare è un prodotto del culturale. E’ nel legame, nello scambio dinamico tra cultura e culturale che le cose assumono sempre nuovi significati e, nello stesso momento, si arricchiscono di nuovi valori. Differenziare, definire, catalogare sono processi che sono stati ampiamente studiati, in psicologia.

Per Piaget definire vuol dire equilibrare le modalità di conoscenza degli oggetti ovvero l’assimilazione e l’accomodamento. Per Festinger definire è necessario al fine di ridurre la dissonanza cognitiva ovvero l’ambivalenza creata da due rappresentazioni contrastanti e divergenti. In particolare, i processi teorizzati da Piaget concordano perfettamente con il rapporto tra culturale e cultura. La cultura assimila dentro i propri schemi simbolici il culturale nel momento in cui lo riconosce e cambia il simbolico di fronte a nuovi eventi culturali. Questo rapporto, per Galimberti, è tra ragione, inteso come differenziazione, e follia rappresentata dal sacro. Egli presume che la follia è il costitutivo dell’uomo nella sua singolarità. La ragione serve semplicemente per vivere esperienze con significati condivisi, ma essa collassa nel momento in cui ci ritroviamo a confrontarci con l’ambivalenza del nostro pensiero o nei sogni. E’ in questi momenti che viviamo l’esperienza del simbolico e del sacro. La stessa esperienza la viviamo nell’atto artistico e nella poesia attraverso le quali comunichiamo l’eccedenza di significati dal punto di vista semeiotico e trasmettiamo l’essere in comunione, attraverso i simboli, con il sacro.

La poesia è un atto linguistico che supera e travalica i segni. M. Frank sostiene che:

Gli atti linguistici di natura simbolica o rituale sono oggetti di una credenza. Essi presuppongono la funzione denotativa del linguaggio, ma prendono quel segno o quella serie di segni come spunto per un proiezione di senso che si sovrappone invisibilmente al loro significato abituale.

Il sistema di credenze è da riferirsi al mito che lo stesso autore definisce come un racconto “in cui una certa realtà naturale o umana viene riferita alla dimensione del sacro, e questo riferimento la fonda”. Fondare è utilizzato nel senso di dedurre ovvero di una spiegazione di tipo relazionale.

L. Kolakowski, in accordo con Frank, sostiene che il mito è fondamento “infondato” poiché non può essere compreso all’interno delle categorie razionali o scientifiche senza il rischio di trasformarlo in dottrina. Piuttosto, esso dà un senso alla storia individuale, comunitaria, alla logica, alla conoscenza pratica rispondendo all’assurdità del mondo che rimanda sempre al niente, al disorientamento cui ci espone l’esperienza pratica. Ancora una volta, attraverso il mito, il culturale trova spiegazione all’interno della cultura e, come sostiene lo stesso Frank, il processo è complementare e circolare. Infatti, egli, sul piano linguistico, sostiene che la distinzione tra linguaggio denotativo, formato dai segni, e linguaggio simbolico è artificiosa e astratta poiché, in effetti, essi sono complementari. I segni, infatti, non hanno un significato proprio ma solo in funzione della loro interpretazione comunitaria, in altre parole trovano significazione solo in rapporto alla condivisione con l’altro. Il rapporto, la relazione di condivisione di significazione è effetto del culturale e, perché tale, s’interfaccia con la cultura e, quindi, con il simbolico. Scrive ancora Frank:

La funzione denotativa del discorso sarebbe allora vincolata ad un sistema di atti simbolici e di decisioni assiologiche la cui origine va cercata sul piano dell’interazione sociale … che …. definirei mitica.

Allo stesso modo Kolakowski, attraverso il dare senso al mito, mette in relazione la cultura e il culturale.

Moretti sostiene che:

incontrare il mito significa abbandonarsi a un’esperienza fortemente antiumanistica nel senso che in questo incontro (destinale) l’uomo non potrà più illudersi di dominare con uno sguardo razionale l’evento.

M.Cometa, in Mitologie della ragione. Letterature e miti dal Romanticismo al Moderno mette in risalto che:

Le mitologie vengono ….. intese come quel repertorio di fabulae in cui si annidano e si conservano i sogni, le speranze e le utopie dell’umanità. Il loro senso non sta dunque in un’improponibile verità altra ma proprio nell’altro della verità, in quella regio dissimilitudinis in cui il non-razionale convive accanto alla ragione.

In quest’ottica il mito, fautore di uno scambio comunicativo tra cultura e culturale, da senso al legame poiché esso trova i suoi riferimenti simbolici all’interno della condivisione e per fare ciò dà significazione al donare come rituale per lo scambio relazionale. Forse il mana descritto da Mauss, di cui ho parlato in precedenza, trova rispondenza all’interno dell’esperienza mitica. La cultura dà senso all’esperienza dell’uomo permettendogli di trovare attraverso i miti, i simboli e i rituali (il culturale) significati condivisi che danno senso alla sua storia quotidiana. A sua volta, la cultura non è uno sfondo immutabile ma sotto la spinta del culturale si adatta alla storia ed evolve con essa. All’interno di questa grande storia, come vedremo in seguito, il soggetto può narrare la sua storia individuale e di gruppo. Senza la cultura, l’uomo sarebbe costretto a vivere nel niente, nel vuoto, nell’assenza. Senza la cultura non potrebbe riconoscersi, differenziarsi, diventare soggetto, trasformarsi da essere biologico in essere culturale. La cultura essendo uno sfondo, spesso rimane invisibile. Eppure senza lo sfondo non si emerge: non esiste disegno, opera d’arte che non si staglia dallo sfondo. E’ proprio il suo essere sfondo della storia antropologica che la pone sul piano della sacralità o, se vogliamo, la pone come mito. Se è storia antropologica, non possiamo non guardare alle civiltà che determinano le origini del nostro contesto culturale e, in particolare, quella greca, romana ebrea e cristiana. Visiteremo queste civiltà non con gli occhi degli storici, ma tenendo conto dell’analisi che stiamo portando avanti ovvero quella del dono come simbolo che permette di costituire legami. Non possiamo perdere di vista l’interesse prettamente clinico del presente lavoro e, quindi, il tentativo è di entrare dentro le narrazioni con cui il soggetto racconta la sua storia all’interno di uno sfondo di cultura che dà significazione ai suoi comportamenti. D’altronde in psicoterapia lavoriamo sulle narrazioni che devono essere comprese all’interno riferimenti culturali condivisi.

J. Bruner sostiene che la narrazione:

è uno degli strumenti più preziosi a livello culturale, in quanto attraverso i racconti è possibile negoziare significati comuni e veicolarli fin dalla più tenera età e in modo piacevole. Questo aumenterebbe la coesione del gruppo e la reiterazione del sistema di valori e credenze.

Addirittura afferma che l’essere umano ha una “attitudine o predisposizione a organizzare l’esperienza in forma narrativa” poiché sente il “bisogno di ricostruire la realtà dandogli un significato specifico a livello temporale o culturale”. La narrazione, che riprenderemo più avanti, travalica il racconto poiché ci fa entrare in contatto diretto con il mito, con i simboli, con la legenda, con la fiaba, con le novelle popolari, con l’epica, con la tragedia, con la commedia, con la pittura, etc. Ancora Bruner sostiene che:

La vita stessa è narrazione in quanto storia.

Verso una nuova definizione oggettiva del Disturbo da Stress Post-Traumatico

Un nuovo Topic, apparso di recente su Neuropsychopharmacology, di Amit Etkin, tra i massimi ricercatori ed esperti nel campo del Disturbo da Stress Post-Traumatico, precisa le nuove metodologie e tecniche che potranno consentire di ancorare la definizione clinica di tale disturbo a misure maggiormente oggettive e quantificabili, dal momento che attualmente la sua diagnosi si affida a caratteristiche o descrizioni fenotipiche e sintomatologiche ancora troppo imprecise. 

 

Caratteristiche che nella maggior parte dei casi non si ravvedono in modo uniforme ed omogeneo nell’intera popolazione clinica di pazienti affetti da questa condizione.

Gli individui che presentano un Disturbo da Stress Post Traumatico generalmente manifestano un ventaglio così vasto di sintomi psicologici e alterazioni neurobiologiche da rendere problematica una definizione univoca e oggettiva della patologia.

Per esempio, nell’ultima revisione dei suoi criteri diagnostici-nosografici avvenuta nel passaggio da DSM IV-TR a DSM 5, solo nel 50% dei casi si è riscontrata una reale sovrapposizione sintomatologica tra gli individui affetti da PTSD all’interno della popolazione clinica presa come riferimento (Stein, McLaughlin et al., 2014).

Date queste premesse, a parere di Etkin, appare necessario investigare nel modo più oggettivo e quantificabile possibile quelle che sono le componenti biologiche e cliniche dei vari sottotipi di Disturbo da Stress Post-Traumatico tramite compiti cognitivi e comportamentali, con il fine di superare quelle problematicità che si riscontano durante il procedimento diagnostico, ancorando le manifestazione fenotipiche dei pazienti a misure più oggettive e affidabili (Etkin, Maron-Katz, Fonzo et al., 2019).

Partendo dalla neuropsicologia, tra i vari domini cognitivi, già J. Scott dell’Università della Pennsylvania in una sua meta-analisi del 2015, aveva sottolineato come in particolare la memoria verbale risultasse in media estremamente deficitaria negli individui con diagnosi di PTSD e come il funzionamento neuropsicologico di questi pazienti nell’area dell’attenzione, della memoria e del processamento cognitivo fosse da considerarsi al momento dell’effettiva presa in carico e valutazione clinica di questi pazienti e come questi dati potessero avere delle importantissime ripercussioni e implicazioni per il successivo trattamento psicologico o terapeutico di questa tipologia di pazienti (Scott, Matt, Wrocklage et al., 2015).

In linea con questo pensiero, in un loro recente studio, Etkin e colleghi (2019) del dipartimento di Psichiatria e Scienze Comportamentali dell’Università di Stanford, del Wu Tsai Neurosciences Institute e del Veterans Affairs Palo Alto Healthcare System, hanno esaminato in una dimensione normativa i punteggi ottenuti dagli individui con diagnosi di PTSD in un compito di memoria verbale e i loro rispettivi dati ottenuti tramite risonanza magnetica funzionale ottenendo, sulla base delle loro prestazioni – situate all’interno o al di fuori della curva di normalità – due sottogruppi con la medesima diagnosi, ma con differenti capacità mnestiche.

Nel dettaglio, combinando i punteggi ottenuti ad un compito di apprendimento di una lista di parole con le evidenze di neuroimaging, i ricercatori hanno mostrato come il sottogruppo al di fuori della curva di normalità, ovvero che presentava una performance peggiore nel compito di apprendimento, presentasse un’alterazione a livello del circuito attentivo ventrale (VAN; Ventral Attentional Network), rispetto al sottogruppo di individui con la medesima diagnosi, ma posizionatisi all’interno della curva di normalità e ad un gruppo di controllo.

In aggiunta, in modo sorprendente, gli autori hanno trovato come la combinazione di questi dati non fosse associata a differenze nella sintomatologia o a comorbilità, ma fossero in grado di predire una scarsa o addirittura un’assenza di risposta di uno dei due sottogruppi di pazienti a interventi di esposizione prolungata, inseriti nel trattamento evidence-based per il PTSD (Etkin, Maron-Katz, Fonzo et al., 2019).

Infatti, il sottogruppo di pazienti i cui punteggi si erano posizionati al di fuori della curva di normalità e che presentavano una ridotta attività del circuito VAN, esibivano una maggiore resistenza durante le sessioni di esposizione prolungata, a differenza del gruppo di controllo e del sottogruppo PTSD con performance di memoria verbale nella norma.

Al di là della scoperta dell’alterazione nel funzionamento del circuito neurale VAN, tali evidenze prodotte da Etkin e colleghi (2019) hanno dimostrato la rilevanza clinica di dati neuropsicologici nell’ambito del trattamento psicoterapeutico, in particolare nella scelta e nel successivo adattamento dell’intervento da intraprendere a seconda delle caratteristiche neuropsicologiche del paziente e non più rispetto alla sua diagnosi.

Questo si potrebbe definire un modello multidimensionale di concezione del disturbo psicologico, che trascende la classica e tradizionale nosografia basata quasi esclusivamente sulla descrizione sintomatologica e fenotipica della popolazione clinica di riferimento. Proprio questo modello sta acquisendo progressivamente maggior rilevanza in quanto, rispetto al precedente, fonda la descrizione clinica di un disturbo su biomarkers oggettivi, che possono rivelarsi significativi non solo durante l’iter per il raggiungimento di una diagnosi, ma anche per il conseguente intervento terapeutico.

A parere di Etkin alcuni strumenti come l’elettroencefalografia, più economica e di più immediato utilizzo rispetto alla risonanza magnetica funzionale, o device di machine learning per una raccolta e analisi più robuste e strutturate di dati cerebrali, potrebbero essere ben presto richiesti per contribuire alla formulazione di una diagnosi in ambito psichiatrico assieme ai consueti strumenti diagnostici.

Il contributo dei biomarker alla diagnosi e al trattamento non sarà più un’eventualità, ma rapidamente verrà richiesta come conditio sine qua non all’interno del procedimento diagnostico. (Etkin, 2019).

A volte un sigaro è solo un sigaro: il lascito di Freud alla moderna psicoterapia

Vent’anni fa la disciplina inventata da Freud era messa all’angolo. Travolta dall’incapacità di rispondere alla domanda: “Questa roba che fate, funziona davvero?” era caduta in disgrazia agli occhi dei praticanti, le scuole di formazione si svuotavano e i pazienti la cercavano meno

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 22 Settembre 2019

 

Se di questi tempi chiedete agli psicoterapeuti di cosa discutano, vi risponderanno: “Dell’efficacia del nostro lavoro”. I colleghi aggiornati diranno senza mezzi termini: la psicoterapia funziona. Non sempre, non per tutti e non praticata da chiunque, ma uno psicoterapeuta moderno vi darà con buona probabilità un beneficio concreto. Meno depressione e ansia, relazioni interpersonali migliori. Se poi domandate: “Quale psicoterapia funziona meglio?”, inizieranno a dibattere. Si può dire per certo che le terapie cognitive hanno più studi a supporto, ma non è provato che ottengano risultati superiori e più stabili (che non sia provato che le terapie cognitive abbiano e ottengano risultati superiori e più stabili in alcuni disturbi è una opinione personale dell’autore che rispettiamo, ricordando però che non è questo l’orientamento di molte linee guida sanitarie internazionalmente ritenute autorevoli, come la National Institute for Health and Care Excellence e l’American Psychological Association – NDR).

In questo quadro, vent’anni fa la disciplina inventata da Freud era messa all’angolo. Travolta dall’incapacità di rispondere alla domanda: “Questa roba che fate, funziona davvero?” era caduta in disgrazia agli occhi dei praticanti, le scuole di formazione si svuotavano, e i pazienti la cercavano meno, indirizzati verso le terapie cognitive. Oggi, a 80 anni dalla scomparsa dell’inventore della psicoanalisi, la situazione è meno drammatica. Seguaci illuminati hanno trovato la strategia che li ha salvati da un mero sopravvivere negli stessi studi scrostati e ammuffiti nei quali si stavano rinchiudendo da soli.

Molti psicanalisti si sono aperti alla ricerca: cercano prove su cosa genera la sofferenza psichica, come la si cura e quanto è benefica la cura. Discepoli di Freud dell’ultima generazione ritrovano un territorio nell’era della psicoterapia scientifica.

Chi segue il dibattito pubblico sarà sorpreso, si era figurato un panorama diverso. Ha ascoltato nell’agorà cultori di una psicoanalisi esoterica e sapienziale reclamare il primato di una disciplina che, unica, permetterebbe all’analizzando di accedere ai misteri dell’animo e uscirne con nuova consapevolezza. Noi che abitiamo l’era scientifica non li prendiamo sul serio. Ostacolano la fruttificazione dell’eredità di Freud.

Questa è la notizia: nell’ottantennio della morte del suo inventore, la psicoanalisi è viva e, possiamo dirlo dati alla mano, in molte forme utile. Caveat emptor. Ho detto: in molte forme, spesso meglio rubricate come psicoterapie psicodinamiche. Se invece entrate nello studio di qualcuno che vi dice: “Si stenda sul lettino, sogni, associ, negli anni vedremo che verrà fuori, il nostro è un viaggio imprevedibile” ecco, come dire, buona fortuna.

Cosa resta dell’impalcatura alzata da Freud? Ne parlo con due amici psicanalisti. Francesco Gazzillo, professore associato di psicologia dinamica alla Sapienza di Roma mi suggerisce: “La centralità dei contenuti e dei processi mentali inconsci”. Vero. È un inconscio che ormai non ha niente delle proprietà che gli attribuiva Freud, non è la sede di fantasie erotiche e mortifere primordiali, che la persona non può ammettere alla coscienza. L’inconscio oggi è il luogo dove dimorano gli automatismi di pensiero e soprattutto i nostri modi di stare in relazione dei quali non abbiamo imparato a essere consapevoli. Io ribatto sempre a Gazzillo che l’inconscio di oggi è quello che ha descritto Pierre Janet, lui ribadisce che il lavoro di Freud è più importante, e non ne verremo mai a capo. Per noi cognitivisti infatti è Janet il precursore della psicoterapia moderna, per gli psicanalisti Freud resta il faro. È il bello del potersi scegliere gli antenati.

Il punto è che più di un secolo fa Freud contribuì a demolire gli autoinganni della coscienza di una società borghese, repressiva e sessuofoba. Oggi il campo dell’inammissibile si è ristretto, resta che siamo consapevoli solo di una minima parte dei nostri processi di pensiero, soprattutto di quelli che ci intossicano la vita sociale.

Ancora un elemento fondamentale: quello che accade al bambino nei primi anni di vita lo plasma per il resto dell’esistenza, psicologica e fisica. Se oggi noi psicoterapeuti siamo così attenti a raccogliere episodi della fanciullezza, lo dobbiamo a Freud. Che però nella sua opera ha cambiato spesso punto di vista. Aveva ragione agli inizi: gli eventi traumatici reali generano i sintomi di quella che una volta si chiamava isteria. Poi si corresse. Non conta il trauma reale, ma la fantasia del bambino. È rimasto poco da dibattere: è il trauma reale, violenza, abuso, trascuratezza estrema che spacca la mente. I successori hanno dovuto emendare l’errore del fondatore.

Altro lascito: l’importanza dell’angoscia e il danno che fa la protezione dall’angoscia stessa. Che il mondo ci spaventi è normale, giusto ed evolutivamente utile. In assenza di una ben dosata paura si muore molto giovani. Tra predatori, cibi velenosi e catastrofi naturali, l’homo sapiens ha dovuto passarne delle brutte. Ma la paura a volte prende forme estreme, catastrofiche, accende circuiti che si autoalimentano. Reazioni a catena come quelle che hanno portato Chernobyl a esplodere. L’unico isotopo radioattivo che rilasciano è la paura stessa. La mente umana fabbrica allora scudi per proteggersi dal dolore psicologico.

Sigmund Freud, e sua figlia Anna, li chiamano meccanismi di difesa. Hanno effetto paradosso: se da un lato riducono l’angoscia, generano più sofferenza e problemi da un’altra parte. Come tappare una piccola falla nella diga con un dito. Se ne apre un’altra. Finite le dieci dita iniziano i guai. Oggi, che siamo psicoanalisti o cognitivisti, al danno generato dai meccanismi di riduzione del dolore prestiamo attenzione. Ma, attenzione. Freud parlava della protezione da impulsi inaccettabili che la persona covava dentro. Esempio classico: la fantasia Edipica. Il bambino vuole sostituire il padre nel letto della madre. Il sintomo psichico, in questa eziologia sghemba, nasceva dallo sforzo di tenere lontana dalla coscienza tale fantasia proibita e, appunto, angosciante. Meccanismo di difesa: rimozione. Che ne ha fatto la scienza di questa idea? Fa giurisprudenza l’obiezione di Robert De Niro a Billy Crystal in Terapia e Pallottole: “Ma tu l’hai vista a mia madre?”

A parte Edipo, l’idea di meccanismi a un tempo protettivi e nocivi tiene. I cognitivisti li chiamano coping maladattivo. Mi sento imperfetto? Lavoro come un dannato fino a tarda sera. Un fastidioso senso di vuoto? Alcool e donne. Leniscono il dolore, accentuano il danno.

Giuseppe Magistrale, psicanalista intersoggettivo, mi passa un bigliettino sotto il banco: “Ci ha lasciato in eredità i concetti di transfert e controtransfert”. Vengo dritto a come li intendiamo oggi, pur in assenza di consenso sulla loro definizione. Il paziente costruisce il terapeuta secondo schemi costruiti durante lo sviluppo. Mio padre mi derideva, il terapeuta farà lo stesso. A fronte di quello che combinavo, mia madre ululava: ‘mi fai morire’, quindi la terapeuta sarà sopraffatta dai miei problemi. Controtransfert: il terapeuta reagisce quasi guidato da un riflesso. Mi attribuisce un potere di cura superiore, io ci credo. Diffida di me, io ho paura di sbagliare. In realtà il terapeuta porta in seduta anche il proprio passato, il paziente gli evoca fantasmi che risiedevano da tempo nelle periferie della mente.

Io lavoro in un mondo ispirato da Janet, ma a utilizzare me stesso come strumento risuonante nello scambio relazionale l’ho imparato dagli eredi di Freud.

L’APA contraddice se stessa? Il riesame critico delle linee guida

L’articolo target di Cheli e i commenti di Dimaggio, Gazzillo e Mancini sul riesame critico che l’APA fa sulle sue stesse linee guida, merita un commento che aggiungiamo a quelli richiesti da Cheli stesso. È interessante sottolineare come questa serie di articoli dei nostri colleghi incarnino in maniera plastica varie posizioni possibili rispetto allo sviluppo della psicoterapia. 

 

Commento all’articolo di Cheli

L’articolo inziale di Cheli oscilla tra desiderio di sorprendere e quasi di scandalizzare sostenendo che ormai il quadro sull’efficacia della psicoterapia è estremamente caotico –signora mia, ormai non si capisce più niente!- e presa d’atto che le cose in fondo sono meno deprimenti e confuse di quel che sembra. Cheli ci vuole sorprendere soprattutto quando sostiene che l’American Psychological Association (APA) – vessillifera di una serie di linee guida che hanno definito alcuni gold standard di efficacia nella psicoterapia – contraddice se stessa perché pubblica dati di efficacia che mettono in dubbio alcune delle linee guida passate. Per rispondere a Cheli forse basterebbe notare, come ha fatto giustamente Mancini nel suo commento, che riesaminare criticamente i risultati di efficacia di varie psicoterapie ridimensionando a volte alcuni risultati non è affatto un deludente segno di confusione ma di buona salute dell’APA. Non si tratta d’altro che del metodo scientifico che mette sempre in discussione i risultati acquisiti.

Intendiamoci: scrivere che l’APA contraddice se stessa è giornalisticamente efficace e bene ha fatto Cheli a utilizzare questo artificio retorico. Dopodiché, possiamo tranquillizzarci e continuare ad avere fiducia nella scienza, se non nell’APA. Forse occorrerebbe meravigliarsi di meno di certe contorsioni poco lineari che assume nel mondo reale lo sviluppo scientifico. Lo stesso Cheli confessa di aver capito solo col tempo che la scienza è affetta da distorsioni umane, troppo umane che lui, a quanto pare, aveva riduzionisticamente escluso in nome, pensa un po’, di una supposta superiore moralità degli scienziati e perfino dei popoli calvinisti. Cheli a quanto pare sta attraversando la sua linea d’ombra. Forse gli è già giunto all’orecchio il vecchio e deprimente pettegolezzo che si vocifera da secoli nei corridoi della scienza e ci è rimasto male: si dice che Newton ritardò ben poco calvinisticamente l’uscita di un articolo di Leibniz sul calcolo infinitesimale per assicurarsi il primato della pubblicazione.

Ciò che lascia un po’ perplessi è che Cheli non dice apertamente che il lavoro di riesame critico dell’APA non ridimensiona affatto i risultati di efficacia della terapia cognitivo comportamentale (da questo momento CBT, cognitive behavioral therapy).

Servirebbe ribadirlo? Certo che servirebbe. Cerchiamo di essere onesti: quando si parla di psicoterapie efficaci si pensa subito alla CBT. E quando si parla di solenni smentite all’efficacia delle psicoterapie il pensiero corre di nuovo alla CBT. Che però non sembra essere coinvolta nella caduta degli dei dall’Olimpo dell’APA. Cheli riporta che tra i caduti contiamo molte terapie: “la DBT per il disturbo borderline di personalità, la riattivazione comportamentale per la depressione e l’EMDR per il trauma mostrano evidenze ben al di sotto di quelle ipotizzate e formulate dalla Divisione 12”. La CBT? Non caduta. Il gold standard per ansia e depressione sembra rimanere saldamente nelle mani della CBT.

Troppo poco? Curare solo ansia e depressione è troppo semplice, come un medico di base che dia l’aspirina per il raffreddore? Questa è un’altra accusa spesso riservata alla CBT. Ebbene, anche questa critica risulta indebolita dal riesame critico dell’APA sull’efficacia delle terapie non CBT. Infatti prendere atto –come fa l’APA- che la DBT (dialectical behavior therapy, Linehan, 1983) mostri superiore efficacia solo sul rischio di suicidio e non sull’intera sintomatologia del disturbo di personalità (cosa peraltro già nota) finisce per rivalutare tutte le altre psicoterapie mediamente efficaci su questo disturbo, tra le quali c’è anche la CBT di Beck, in genere accusata di non essere utile per questi problemi. Non basta. Prendere atto che l’EMDR (eye movement desensitization reprocessing, citazione) non mostri superiore efficacia sul disturbo post traumatico da stress finisce per rivalutare la grande alternativa sempre più trascurata e data per scontata se non superata, che è appunto la CBT. Non è superata affatto, ma è padrona del campo (APA, 2017).

Ci si potrebbe chieder perché ci si dimentica con troppa facilità che la CBT è utilizzabile anche per i disturbi di personalità e per il PTSD. Purtroppo questo è anche il frutto del pregiudizio sempre più diffuso che la CBT sia utile solo per certi disturbi facili come l’aspirina utile per carità, ma solo per il raffreddore, mentre invece quando le cose si complicano, ovvero quando ci sono comorbilità, difficoltà relazionali o gravi traumi passati ci vuole ben altro e devono entrare in campo i duri. È la retorica del paziente difficile che in qualche modo surrettiziamente suggerisce che la CBT funzioni solo per pazienti facili. In tal modo si è finiti per sottolineare eccessivamente e incongruamente la supposta e mai dimostrata maggiore efficacia di altre terapie come la DBT oppure, semplicemente per dimenticare che l’EMDR non ha mai detronizzato a CBT per la cura del disturbo post traumatico da stress e semmai si era solo candidata per una coreggenza. Fallendo. Oggi si scopre che questa candidatura non ha avuto successo e che nella revisione dell’APA la terapia più efficace è la CBT (APA, 2017).

Ora però, senza nulla togliere all’intelligenza dell’operazione di Cheli, va notato che tutta la costruzione del suo discorso sembra tradire un tentativo di insinuare dubbi sulla CBT. Si dice che l’APA contraddice se stessa sui gold standard e si pensa subito alla CBT. Poi si scopre che la CBT non è colpita dalla revisione ma non lo si dice. Il tutto accade inavvertitamente. Insomma, Cheli espone una serie di considerazioni abbastanza condivisibili sui limiti attuali dello sviluppo scientifico della psicoterapia: la moltiplicazione degli orientamenti psicoterapeutici e la loro tendenza a presentarsi come paradigmi che si escludono a vicenda.

Inoltre Cheli conclude di superare queste difficoltà invocando, come molti fanno, la solita integrazione come assemblaggio del meglio da prendere qua e là. Tuttavia il sospetto è che Cheli, sebbene auspichi un atteggiamento più integrativo, in fondo abbia le sue idee e queste siano soprattutto di diffidenza verso il riduzionismo metodologico che si incarna nei dati di efficacia della CBT e questa diffidenza si manifesti in un modo di presentare i dati che suggerisce che questa efficacia della CBT sia da ridimensionare, salvo poi evitare di dire con chiarezza che la messa in discussione riguarda altre terapie e non la CBT. Insomma, la situazione è caotica, salviamoci facendo un minestrone che integra un po’ tutto ma dalla ricetta escludiamo l’ingrediente CBT che è troppo riduzionista per le finezze della complessità, un po’ come mettere il ketchup su un piatto della raffinata cucina italiana.

Forse Cheli esprime una storica rivalità e diffidenza interna al campo del cognitivismo clinico, quella tra costruttivismo radicale e CBT classica, rivalità ormai così accentuata, sia in Italia che all’estero, da aver generato una crescente estraneità reciproca sempre più difficile da superare, tanto da chiedersi se ha ancora senso raccogliere i due campi sotto l’ombrello comune dell’etichetta del cognitivismo clinico. Un ombrellone che ormai è talmente ampio da coprire un’intera spiaggia. La contrapposizione tra complessità sempre più ermeneutica e riduzionismo scientifico è così forte da generare atteggiamenti come quello di Cheli, che dietro il velo dell’integrazione tradiscono un movimento ben preciso di crescente avvicinamento al modello psicodinamico e distacco dal modello CBT classico, e la cui principale arma è sempre il seminare dubbi sull’efficacia e la reale applicabilità clinica del gold standard della CBT propagandato dall’APA. Di qui il temporaneo grido di gioia alla pubblicazioni di dati dell’APA che contraddicono i gold standard.

In conclusione Cheli sembra proporre una contrapposizione tra due strategie scientifiche alternative, una riduzionista che punta allo studio di poche variabili controllabili e che sarebbe a rischio di semplicismo e un’altra che mira alla complessità ma perde di efficacia nella replicabilità e generalizzabilità. Questa contrapposizione somiglia un po’ alla vecchia opposizione filosofica tra analitici e continentali proposta da Franca D’Agostini nell’ormai lontano 1997, tra una filosofia anglo-sassone che punta alla semplicità replicabile e un pensiero europeo che insegue la complessità irripetibile. Sostenere provocatoriamente che l’APA contraddice se stessa può essere la manifestazione di uno storico fastidio continentale per le semplificazioni anglo-sassoni.

Stabilita questa dicotomia, Cheli se la cava elencando pregi e difetti delle due strategie e auspicando una via mediana che combini il meglio delle due vie ed evitando i difetti. Non siamo sicuri che questa via mediana esista. La scienza non è una saggezza aristotelica e antica in cui basta imboccare il giusto mezzo per ottenere i risultati migliori ma un metodo in cui si fanno scelte strategiche in cui si privilegiano alcuni obiettivi a scapito di altri: economicità riduzionistica del numero delle variabili per ottenere controllabilità e replicabilità dei risultati o complessità per ottenere maggiore rappresentatività complessiva sono strategie diverse che rispondo a obiettivi diversi e forse perfino a culture diverse.

Storicamente la scienza moderna -da quando Newton ridusse il modello del funzionamento del mondo fisico alle poche leggi della dinamica che si limitavano a predire alcuni fenomeni e non dicevano nulla del significato dell’esistenza del Cosmo- ha preferito la prima strada. Alcune forme di filosofia continentale europea (ma queste sono semplificazioni geografiche) hanno preferito la strada della complessità. È possibile che a volte nello studio della psicologia degli individui occorra aggiungere analisi di continentali a un approccio che rimane analitico ma ci pare difficile operare una sintesi che unisca il meglio dei due mondi.

Commento all’articolo di Gazzillo

Chi se ne approfitta di questa posizione ambigua di Cheli e più in generale del costruttivismo è Gazzillo il quale presenta il consueto armamentario retorico dello scetticismo radicale sul valore dei risultati empirici. Non a caso Gazzillo cita Feyerabend, filosofo della scienza (o dell’anti-scienza) il cui massiccio lavoro di svalutazione del valore della scienza empirica rimane nascosto dietro una serie di argomentazioni che sono sottili. Chi è Feyerabend? Feyerabend è uno studioso che suggerisce che dietro ogni risultato scientifico ci siano interessi economici e politici. Si tratta di un metodo di lavoro che ha i suoi meriti finché è utilizzato nei suoi limiti, ovvero di comprendere le conseguenze sociali e storiche delle scoperte scientifiche. Meno valido se è usato come strumento di confutazione dei risultati empirici stessi. Che certe scoperte o certe psicoterapie siano particolarmente adatte a certi sistemi economici può essere utile per capirne il significato storico ma non ne inficia il valore scientifico. Purtroppo invece è proprio questo il metodo di lavoro di Feyerabend e anche –almeno in questo articolo- di Gazzillo. Feyerabend non a caso si è autodefinito metodologicamente un leninista. Ora mettiamo da parte tutto il romanticismo che ispira ad alcuni la figura di Lenin e cerchiamo di capire ben in concreto cosa significhi questa rivendicazione leninista di Feyerabend, che è raggelante.

Raggelante perché Feyerabend si riferisce al metodo di ricerca filosofica (ma non scientifica) che Lenin usò nel suo famigerato libro Materialismo ed empirio-criticismo, un libro in cui Lenin, in breve, sostenne che tutti i risultati della scienza moderna da Galileo in poi (scienza moderna definita spregiativamente “empirio-criticismo”) sarebbero da secoli al servizio del capitalismo e, quindi, tutti falsi. Mentre i risultati del materialismo dialettico marxista sono veri in quanto al servizio della classe operaia. Quella di Lenin fu un’argomentazione solo lievemente meno rozza e capziosa di quella utilizzata dai nazisti che ritenevano di confutare la scienza empirica moderna (che Lenin, ribadiamolo, chiama empirio-criticismo come se fosse una parolaccia) come scienza ebraica. Libero Gazzillo di seguire i binari di Feyerabend e di suggerire nascostamente che la CBT sia particolarmente compatibile con il capitalismo o forse al suo servizio e quindi per questo discutibile se non falsa, ma si tratta di argomentazioni capziose con le quali difficile discutere.

E qual è l’alternativa di Gazzillo? Qual è il suo personale materialismo storico e dialettico da contrapporre all’empirio – criticismo della CBT serva del capitale? Lo sappiamo già: il modello dei fattori comuni, della centralità della relazione e del verdetto di Dodo nel quale tutte le psicoterapie sono uguali e hanno la stessa efficacia. Meno però la CBT che in questa distopia rovesciata dei fattori comuni fa sempre la figura della terapia troppo semplice che sembra funzionare meglio ma solo in laboratorio mentre nella realtà funziona un po’ meno delle altre. Insomma nel verdetto di Dodo tutte le terapie sono eguali ma la CBT è peggio.

Quel che è interessante nelle argomentazioni di Gazzillo è come in esse emerga con chiarezza la natura nichilistica del verdetto di Dodo e del modello dei fattori comuni. Si tratta dell’ipotesi dell’assoluta ininfluenza dei paradigmi teorici, del modelli di cambiamento e delle tecniche specifiche a essi associati a favore di un modello comune che è emerso non da teorie ma dalla spontanea attività dei terapeuti, tutti inconsapevolmente adagiati su un processo relazionale che si attiva da solo malgrado e nonostante le intenzioni del terapista, povero illuso convinto di essere uno psicoanalista o un CBT. Quel che crede di essere poco importa. La conseguenza di questo indifferentismo e la generazione di una pratica clinica di tipo sapienziale che ritiene irrealistico ogni progresso fondato su procedure controllabili e risultati misurabili ma basato su un tale livello di personalizzazione del trattamento da sfociare nella più completa impossibilità di pianificare terapie specifiche per la diagnosi, dalle procedure trasparenti e replicabili e di cui sia possibile stimare prognosi affidabili e fondate. Il paziente è completamente nelle mani di un terapista sacerdote che non deve dare conto a nessuno se non al suo supervisore, in un’ottica gerarchica appunto sapienziale e corporativa.

Commento all’articolo di Dimaggio

Mentre Gazzillo concerta una chiara polemica anti CBT, nel commento di Dimaggio emergono i problemi del tentativo di chi cerca di assumere una posizione intermedia. Il fascino di questo commento risiede proprio nella dialettica tra volontà di integrazione e inevitabile incompatibilità tra un approccio cognitivo che privilegia il lavoro riduzionista sulle funzioni e approccio costruttivista che tende all’olismo. Il luogo in cui questa contraddizione diventa più evidente è nella critica, molto cara a Dimaggio, che l’autore fa al cosiddetto “magic bullett”. L’uso che Dimaggio fa di questo termine è naturalmente dispregiativo: magic bullett evoca un ingenuo e (ancora una volta) riduzionistico cercare quella che in italiano chiameremmo la bacchetta magica. Eppure questo termine segnala ancora una volta una differenza culturale di fondo che separa il terreno cognitivo da quello costruttivista, a quanto pare sempre radicale, a cui in fondo appartiene anche Dimaggio. Da una parte il metodo consapevolmente riduzionista della scienza empirica (o empirio criticista alla Lenin?) che cerca i colli di bottiglia strategici per agire in maniera risolutivamente efficace. Da questo punto di vista occorre perfino dare ragione per certi versi a Feyerabend. La scienza empirica moderna nasce cercando i magic bullett da sparare sui colli di bottiglia strategici in cui è possibile non solo conoscere la realtà ma anche individuare i punti significativi di controllo per cambiarla tecnologicamente. È proprio una visione della conoscenza che è capacità di controllare la realtà e che è oggettivamente rivolta a generare conseguenze pratiche. Ancora una volta si contrappone una posizione sapienziale e contemplativa a una operativa. Eppure qualche anno fa Dimaggio si era reso conto di questa dicotomia strategica in un articolo interessante pubblicato su State of Mind in cui aveva raccontato come passeggiando per Berna un collega svizzero gli avesse spiegato come le reti stese ai lati dei ponti avessero diminuito significativamente il tasso di suicidio in città. Questa spiegazione aveva lasciato freddo il troppo costruttivista Dimaggio in quanto gli era sembrato che in tal modo non si agisse sulla globalità del problema ma su un aspetto periferico. Forse ciò che disturbava Dimaggio era la pretesa di agire con su un collo di bottiglia risolutivo mediante un magic bullet: le reti appunto.

È intrigante seguire Dimaggio nel suo articolo in cui, da persona intelligente qual è, fa ammenda del suo pregiudizio anti riduzionista e comprende come cercare un magic bullett che agisca su un collo di bottiglia non significhi affatto non tenere conto del contesto globale, anzi al contrario utilizzarlo in vista del massimo risultato. Il problema sono invece proprio quei modelli globali che più che il contesto aspirano a comprendere l’inafferrabile complessità e in tal modo, non volendo mai focalizzarsi sulle giunture strategiche su cui agire, finiscono per diventare affreschi affascinanti e pittoreschi ma più descrittivi che davvero esplicativi. La scienza moderna, a differenza di quella antica, non è contemplativa ma operazionale e per questo segue il riduzionismo che non è onniesplicativo ma strategicamente esecutivo e quindi, va detto, orientato alla tecnica e alla tecnologia, per quanto queste parole possano intimorirci. I principi della dinamica di Newton non intendevano, a differenza del sistema aristotelico, dare conto del senso metafisico dell’esistenza del cosmo ma solo individuare dei nodi strategici -pochi: solo tre- su cui era possibile agire sulla realtà fisica e controllarla.

Il problema è che forse il cognivitismo clinico italiano paga un tributo alla sua radice continentale europea di cui non è facile liberarsi. Lo stesso Dimaggio in un altro articolo di alcuni anni fa confessa che “Anni fa avevo una posizione radicalmente anticomportamentista, non senza un certo livello di sdegno intellettuale. Ero di matrice costruttivista Kelliana al quale si affiancava un background di psicoanalisi interpersonale (alla Kohut e Mitchell). Nel corso degli anni ho cambiato idea radicalmente”. Questo tipo di retroterra costruttivista con un pizzico di esperienza in terapia psicodinamica è abbastanza comune nel cognitivismo clinico italiano e potrebbe spiegare una nostra persistente difficoltà a comprendere la forza scientifica del comportamentismo il cui riduzionismo è troppo spesso scambiato per semplicismo.

Torniamo alla critica, suggerita da Dimaggio quando scrive che certi studiosi d’oltremanica non sanno di cosa stanno parlando, che il funzionalismo sia poco attento alla complessità del reale. A questa critica si risponde che il funzionalismo è semmai attento al contesto e non alla complessità, come lo stesso Dimaggio aveva capito sui ponti di Berna (ma poi ha dimenticato tutto?). Nel funzionalismo l’analisi del contesto non è in contrapposizione con la ricerca del collo di bottiglia strategico su cui agire, che sia il rimuginio o l’attenzione. Al contrario è possibile che sia proprio la scarsa operatività del concetto di complessità proprio della tradizione costruttivista radicale che la rende alla lunga inadatta non solo alla costruzione di protocolli ripetibili di efficacia verificabile ma anche a una pratica clinica quotidiana poco monitorata.

A questo proposito occorre riflettere anche sulla contrapposizione che Dimaggio opera tra realtà clinica e trial clinici sperimentali. Ancora una volta si affrontano una supposta complessità e un altrettanto supposto semplicismo da laboratorio i cui risultati non sarebbero trasferibili nella realtà effettuale. Come si risolve questo dilemma? In molti casi ci sembra nella ricerca di una ineffabile esperienza emozionale correttiva, ieri relazionale oggi sensoriale e corporea (tra qualche anno vedremo, questi integrazionisti cambiano idea spesso). Esperienza emozionale perché? Perché è la vera alternativa continentale alla supposta freddezza razionalistica della CBT classica.

Contrapporre i trial alla realtà clinica come fa Dimaggio significa ancora una volta cadere in una dicotomia sterile. I trial clinici, se ben condotti secondo criteri di rigore, sono invece degli strumenti non solo di ricerca scientifica ma anche di formazione clinica. Lungi dall’essere degli ambienti artificiali, i trial clinici al contrario impongono delle condizioni cliniche estremamente impegnative per il clinico ma non per il paziente, clinico che deve intensificare al massimo grado le sue capacità di good practice per riuscire a stare dentro i binari di aderenza ai protocolli in maniera flessibile e amichevole per il paziente. Come un musicista impara a stare dentro i tempi non nella libertà ma nella costrizione del solfeggio e delle prove, così per un clinico partecipare a un trial è un’occasione irripetibile di gestione di un percorso apparentemente rigido in cui però è lui –il clinico – a dover mostrare la massima flessibilità. Sia l’esperienza personale che le comunicazioni di Riccardo Dalle Grave e di Gabriele Caselli sulla loro esperienza in trial hanno confermato che queste prove, lungi dall’essere artificiali, sono ricche di insegnamento non solo sulle tecniche stesse, ma anche su quelle abilità relazionali che spesso sono decantate in maniera teorica come proprie solo di altre terapie ma che sono altrettanto ben padroneggiate in ambito funzionalista ma denominate con termini più umili e operativi e meno reboanti, come good practice.

Commento all’articolo di Mancini

Infine il commento di Mancini. Per molti versi è quello che ci sembra il più coerente con lo sviluppo del cognitivismo clinico internazionale. Il punto in cui si discosta è la valutazione del processualismo. La scelta anti-processualista di Mancini è consapevole e coerente e quindi più che rispettabile. Per Mancini sembra che occorra muoversi nell’ambito delle cognizioni di seconda onda ma alzandole di livello, passando dalle credenze cognitive agli scopi esistenziali. Naturalmente Mancini privilegia le credenze e gli scopi del sé sulla colpa, tema su cui lui ha realizzato ricerche rigorose che hanno ampliato e reso più sofisticato il concetto di responsabilità alla Salkovskis. Tuttavia, ci pare che nel momento in cui Mancini definisce “ingenuo” il tentativo di sviluppare un modello processuale e funzionalista della sofferenza emotiva scelga un percorso strutturalista (ma non sapienziale; Mancini rimane sempre nell’abito scientifico, va detto) che è coerente con la sua storia perché sviluppa e prosegue l’impostazione di Castelfranchi. Notiamo però che anche Mancini ha avuto i suoi periodi di attenzione al funzionalismo quando ha tentato di integrare il modello di Tversky e Kanheman nel suo modello del disturbo ossessivo; peccato non abbia proseguito quella strada che sembrava essere una via manciniana al funzionalismo. Mancini poi ha avuto anche il suo periodo neo-romantico quando ha collaborato con Jonson Laird e la sua teoria iperemozionale della sofferenza emotiva. Infine l’approdo finale a un modello esistenzialista degli scopi sembra promettente ma, a nostro parere, andrebbe integrato in un modello definitivamente funzionalista. Gli scopi, se non inseriti in un modello psicopatologico di tipo funzionalista della sofferenza emotiva che tenga conto dei processi psicopatologici (non troppo differenti dagli antichi circoli viziosi studiati in Italia a suo tempo da Sassaroli e Lorenzini) da soli rischiano di essere incapaci di distinguere tra stati mentali non disfunzionali e stati psicopatologici. I contenuti degli scopi di un paziente, ad esempio lo scopo di sicurezza di un ansioso, sono altrettanto presenti ma in maniera più ragionevole nei non pazienti. Ciò che li rende psicopatologici è l’irrigidimento funzionale e processuale e non il loro contenuto. Detto questo, Mancini ha poi ragione nel sostenere che per una buona formulazione del caso è necessario anche descrivere i contenuti degli scopi.

Rimane il problema che in tal modo si rischia di rimanere al bivio tra processualismo e costruttivismo. Ma va bene così: meglio rimanere al bivio e rimanere comunque davvero cognitivisti, come fa Mancini, piuttosto che imboccare un ramo costruttivista e integrativo che col cognitivismo funzionalista non ha più nulla a che fare.

 

Altri articoli sull’argomento:

 

Stress da rientro: che cos’è e come fronteggiarlo

Definita anche post-vacation blues, la sindrome da rientro è una condizione di malessere psicologico e fisico che si sperimenta a fine estate e deriva dal rientro nel contesto e nella routine: un susseguirsi di impegni e di scadenze da rispettare che si sostituisce a ritmi, luoghi ed attività gratificanti dei periodi di vacanza.

 

Non una patologia, dunque, ma una risposta psicofisiologica alla reimmersione nello stress, che può riguardare, trasversalmente, soggetti di differenti età.

I benefici di un periodo di vacanza sono, solitamente, notevoli. Tuttavia, come recentemente confermato dall’American Pyschological Association (2018), gli effetti positivi delle ferie sono decisamente fugaci. Circa 2 persone su 3 affermano che, rientrando al lavoro, i benefici scompaiono immediatamente (24%) o dopo pochi giorni (40%). Quasi la metà degli intervistati ha dichiarato di dover affrontare, rientrando dalle vacanze, non solo il carico di lavoro accumulatosi, ma anche i problemi che si sono verificati nel frattempo.

Dati Istat rilevano che lo stress da rientro riguarderebbe un italiano su 10. Secondo lo psichiatra Claudio Mencacci, past president della Società Italiana di Psichiatria, in Italia la sindrome da rientro colpisce “circa il 35% della popolazione, con maggior incidenza tra i 25 e i 45 anni” – più di un italiano su 3, insomma, rischierebbe di soffrire il rientro, a tal punto da somatizzarlo:

Un meccanismo scaturito dal sistema ipotalamo-ipofisi-surrene, che si manifesta con vari sintomi e che è comunque passeggero: dura circa una settimana. Ma, in alcuni casi, può scatenare problemi latenti più seri e duraturi legati ad ansia e depressione.

I sintomi sperimentati al rientro dalle vacanze possono comprendere: sensazione di spossatezza e affaticamento, difficoltà di concentrazione, mal di testa, dolori muscolari, disturbi della digestione e del sonno. Ma anche irritabilità, ansia, tensione, sbalzi d’umore, malinconia e tristezza, senso di vuoto.

Se vi capita di sperimentare questo tipo di malessere, sappiate di essere in nutrita compagnia: è una condizione molto comune che, solitamente, regredisce spontaneamente in breve tempo.

Quali accorgimenti suggeriscono gli esperti per fronteggiare lo stress da rientro?

  • Riprendere con gradualità le attività lavorative, concedendosi un periodo di “assestamento” prima di rientrare pienamente nella routine quotidiana (anche un paio di giorni possono essere sufficienti) ed iniziando ad affrontare gli impegni a partire dai meno complessi;
  • Introdurre abitudini salutari: ad esempio resettare il ritmo sonno-veglia, che solitamente in vacanza è meno regolare, aumentando le ore di sonno; prendersi cura dell’alimentazione, bere molta acqua e ridurre il consumo di caffeina e di alcolici, se in vacanza è stato più abbondante del solito; praticare regolarmente la mindfulness;
  • Dedicare del tempo alla cura di sé: ritagliare uno spazio per le piccole attività gratificanti (ad es. fare un bagno rilassante, una passeggiata con amici, prendere appuntamento dal parrucchiere)
  • Praticare attività fisica: lo sport, anche una semplice camminata a passo sostenuto, facilita il rilascio di endorfine a favore del buonumore;
  • Ricordare la vacanza attraverso fotografie o oggetti: tornare ai momenti felici trascorsi può essere utile a fronteggiare i momenti nei quali ci si sente particolarmente sotto pressione;
  • Porsi un obiettivo: ad esempio cimentarsi in nuove attività che si rinviano da tempo, come iscriversi ad un corso di ballo o di formazione, oppure seguire un seminario;
  • Coltivare il pensiero positivo, perché no, anche pianificando le prossime vacanze… o una breve gita fuori porta, realizzabile in breve tempo.

Using REBT in Single-Session, one-at-a-time Therapy: il workshop con il Prof. Windy Dryden – Report dal 4th International Congress of REBT

La domanda che ha guidato l’intero workshop Using REBT in Single-SessionOne-at-a-time Therapy ha un sapore estremamente pratico: cosa si può fare in terapia se si ha a disposizione poco tempo, a volte una singola seduta, per risolvere un problema portato dal paziente? Si passa, o si accetta la sfida, sforzandosi di usare al meglio il tempo a disposizione?

 

Colpisce un dato presentato da Dryden sulla percentuale di persone che abbandonano la terapia dopo una sola seduta. La sua stima è che ciò avvenga nel 70-80% dei casi. Drop out pensiamo noi clinici! Secondo Dryden la situazione è diversa: le persone sono soddisfatte di quella seduta.

Ed in effetti uno studio di Simon e colleghi del 2012 rivela che l’abbandono della terapia dopo una prima visita a volte può riflettere un trattamento soddisfacente e un buon risultato clinico. Circa un terzo dei partecipanti allo studio che non tornavano per una seconda visita si riteneva soddisfatto della seduta, oltre il 60% dava alte valutazioni all’alleanza terapeutica e oltre il 40% riferiva un miglioramento nei sintomi o nei problemi pratici rispetto all’inizio del trattamento. Il 15% di coloro che non tornavano in terapia ha dato il punteggio più alto possibile su tutte e tre le misure. Tale dato può trovare riscontro nell’atteggiamento che assumeva lo stesso Albert Ellis, il quale non dava mai un appuntamento al paziente dopo la seduta, ma aspettava che fosse lui stesso a decidere se tornare o meno, ipotizzando che poteva risultare risolutivo anche un singolo incontro.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

REBT report del workshop Using REBT in Single-Session Prof. Dryden (imm1)

Imm. 1 – Immagine dal workshop “Using REBT in Single-Session”

Nella Single-Session Therapy si offre comunque al paziente la possibilità di tornare, ma si dà importanza alla riflessione dopo la seduta, per poterne ‘digerire’ i contenuti e mettere in pratica le soluzioni trovate insieme al terapeuta. Proprio come accade durante l’allenamento fisico: dopo l’allenamento la fase di riposo è fondamentale. Dopo aver digerito i fatti emersi, agito per il cambiamento e dopo essersi concessi una fase di riposo, i pazienti possono decidere in autonomia di tornare.

Ma scusate, e la concettualizzazione? E i test? Il principale obiettivo della Single-Session Therapy è offrire un aiuto concreto immediato, piuttosto che aspettare di poter offrire il migliore aiuto possibile. “Sooner is better!” per dirla con le parole di Dryden. Anche se questo significa rinunciare ad elementi sicuramente importanti.

Un altro punto fondamentale è naturalmente la gestione del tempo. La Single-Session Therapy spinge terapeuta e paziente ad utilizzare al meglio il tempo della seduta e il tempo che intercorre tra la richiesta di aiuto e la prima seduta. In questo tempo si può somministrare un questionario al paziente, allo scopo di capire se lo stesso è un buon candidato per la Single-Session Therapy, e per fare in modo che si prepari al meglio alla seduta, selezionando un problema pratico da risolvere.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

REBT Report del workshop Using REBT in single-session Prof. Dryen Imm.1

Imm. 2 – Immagine dal workshop “Using REBT in Single-Session”

Il lavoro in seduta il più delle volte è incentrato in un’operazione di “sblocco” che permetta al paziente di muoversi verso il suo obiettivo utilizzando al meglio le proprie risorse interne ed esterne. In sostanza quindi si tratta di sedute particolarmente goal-oriented, caratterizzate dalla condivisione di obiettivi precisi e ben definiti, da chiarezza comunicativa, di forte impatto emotivo, e che spingano alla ricerca di una soluzione pratica già durante la seduta.

Insomma, la Single-Session Therapy non è un approccio ma un’impostazione mentale. E sicuramente costituisce una sfida, soprattutto per i terapeuti meno allenati, a stare in sessioni ben strutturate e focalizzate sul raggiungimento di obiettivi pratici, cosa a cui i terapeuti CBT e REBT sono invece abituati.

 

Fingere l’orgasmo: un nuovo studio indaga le motivazioni che spingono le donne a fingere (o a smettere di farlo)

Herberik e colleghi (2019) hanno condotto uno studio in cui hanno riscontrato come la pratica di finzione dell’orgasmo femminile sia molto diffusa, assuma significati diversi al modificarsi del contesto e delle fasi di vita delle partecipanti e sia inoltre legata allo stile comunicativo tra i membri della diade, determinando da ultimo differenti traiettorie di soddisfazione sessuale.

 

Forse non tutti sanno che l’arte della finzione non è appannaggio esclusivamente femminile, come invece l’aneddotica ci ha fatto credere: le stime nella popolazione femminile sono estremamente alte, il 67% riporta infatti di aver simulato l’orgasmo almeno una volta nella vita, ma non è da sottovalutare l’incidenza nella popolazione maschile, che riporta una percentuale ugualmente elevata (il 28%, per quanto riguarda i rapporti vaginali, secondo Muehlenhard & Shippee, 2009).

Ma quali sono le motivazioni che lo rendono necessario? Se uno degli scopi principali dell’incontro sessuale è proprio provare piacere, perché le persone fingono che ciò sia avvenuto?

È necessario tenere a mente che la sessualità, così come ogni aspetto della vita dell’essere umano, è permeata di aspettative, norme, convenzioni socialmente determinate riguardo a come questo atto debba consumarsi e a come gli individui coinvolti si debbano comportare in tale situazione; il prezzo della non aderenza a questi script (o copioni) sessuali potrebbe essere quello di venire rifiutati dal partner, essere ridicolizzati o addirittura socialmente emarginati. In ambito erotico, gli script convogliano concetti provenienti dai costrutti di ruoli di genere sessuali, circa all’atteggiamento che “un uomo” o “una donna” dovrebbero assumere in intimità, è facile però immaginare come le regole del gioco cambino in funzione della società di riferimento o del momento storico preso in esame: ad esempio la libertà sessuale di una donna agli inizi del ‘900 differisce grandemente da quella esperita da una donna contemporanea, nella cosiddetta epoca post-femminista seguita alla rivoluzione sessuale degli anni 70.

Eppure, sebbene formalmente la liberazione sessuale abbia rovesciato i rigidi codici di comportamento basati su ruoli precostruiti, gli studi sulla sessualità riportano come tale liberazione non sia stata in realtà seguita da una reale emancipazione dagli script del passato, che permangono nelle credenze implicite così come negli schemi di pensiero interiorizzati dai singoli individui. Un recente studio di Harris e colleghi (2018) ha per esempio messo in luce una correlazione tra l’aderenza ad uno stile di pensiero incline al sessismo ostile nelle donne e la più alta probabilità di fingere l’orgasmo; una percentuale inferiore di donne, che comunque riportavano la simulazione del piacere, aderivano invece ad un pensiero sessista benevolo. La convinzione che un mancato orgasmo determini non solo un rapporto “incompleto”, ma che vada inoltre a invalidare la performance sessuale e quindi l’autostima del proprio compagno sono risultati associati ad una probabilità più alta di simulazione. È facile intuire come gli uomini possano risentire allo stesso modo dell’aderenza agli script sessuali, dovendo quindi fingere di aver raggiunto l’apice del piacere anche quando ciò non è avvenuto.

Per dipanare questa questione è necessaria una doverosa premessa, facendo riferimento all’aspetto performativo dell’atto sessuale. Sebbene infatti la nostra specie assuma un atteggiamento pudico, sottraendosi agli sguardi indiscreti nel momento di consumare il rapporto, sembra che la sola presenza del partner sia sufficiente per modificare sostanzialmente le modalità espressive messe in atto durante l’incontro sessuale: un esempio può essere quello dell’autoerotismo, momento generalmente non accompagnato da vocalizzazioni di piacere, cosa che invece avviene durante un rapporto a due (Brewer & Hendrie, 2011). Allo stesso modo, durante l’autoerotismo non viene finto l’orgasmo, mentre questo accade esclusivamente durante un rapporto consumato con un partner.

Nel tentativo di esplorare le motivazioni sottese all’inclinazione a fingere da parte delle donne, che tra tutti sembrano ricorrere maggiormente a questo espediente, Herberik e colleghi (2019) hanno condotto uno studio su di un campione di 1008 donne, di età compresa tra i 18 e i 94 anni, riscontrando come questa pratica, sebbene molto diffusa, assuma significati diversi al modificarsi del contesto e delle fasi di vita delle partecipanti e sia inoltre legata allo stile comunicativo tra i membri della diade, determinando da ultimo differenti traiettorie di soddisfazione sessuale.

Come già riscontrato in ricerche precedenti, le giovani donne incontrano spesso difficoltà nell’esprimere la propria assertività in ambito sessuale, non riuscendo a comunicare al partner i propri desideri o necessità, addirittura non riuscendo ad opporsi ad uno stile sessuale “rough” (n.d.t.: brusco) quando non lo desiderano (Rickert, Sanghvi, & Wiemann, 2002). Lo studio di Herberik et al. (2019) sembra allinearsi con i risultati presenti in letteratura, nel rispondere infatti alla domanda “a che età ti sei sentita a tuo agio e sicura di te abbastanza da comunicare al tuo partner come desiderassi essere toccata o fare sesso”, la mediana si attestava attorno ai 25 anni di età, circa una decade dopo l’esordio medio della prima esperienza sessuale nella popolazione di riferimento, mentre ben 194 donne, ovvero il 21% del campione considerato, ha dichiarato di non essersi mai sentita così.

Similarmente, alla domanda “a che età hai percepito che il suo piacere sessuale fosse importante per il tuo partner”, la mediana delle risposte è stata 23 anni, mentre 102 partecipanti hanno dichiarato di non aver mai avuto questa sensazione. Delle 571 donne (58,8% del campione) che avevano ammesso di aver simulato un orgasmo almeno una volta nella vita, solo un terzo asserivano di aver continuato a farlo, mentre i rimanenti due terzi hanno riportato come vi fossero stati dei cambiamenti che avessero favorito una maggiore trasparenza rispetto al piacere provato: il 46,6% delle donne ha dichiarato come fosse stato determinante il provare maggiore sicurezza di sé in ambito sessuale, a prescindere dal raggiungimento dell’orgasmo; il 35,3% attribuiva il cambiamento ad una percezione di maggiore sicurezza in sé stesse come donne. Da ultima, la terza opzione maggiormente scelta dalle partecipanti (34%) è stata quella di sentirsi apprezzate dal proprio compagno anche se non avessero raggiunto l’orgasmo.

Le motivazioni che le avevano spinte a mentire in primo luogo sono risultate in linea con quelle già precedentemente identificate dalle altre ricerche sulla simulazione orgasmica: il 57,1% lo ha fatto con l’intenzione di tenere alta l’autostima del partner circa la sessualità, il 44,6% voleva solamente che il rapporto sessuale finisse ed infine il 37,7% ha dichiarato di non voler ferire i sentimenti dell’altra persona, provando interesse per loro.

Circa alla possibilità di comunicare con il partner al fine di migliorare l’intesa sessuale, ben il 55% delle donne ha dichiarato di aver avuto il desiderio di parlare con il compagno, ma di aver poi desistito, adducendo come motivazioni principali la volontà di non ferire i suoi sentimenti (42% dei casi), di sentirsi a disagio nello scendere in particolari (40%) e infine di provare imbarazzo (38%). La fascia di età 18-24 anni è stata quella che statisticamente ha riportato maggiormente motivazioni come la paura di venire rifiutate e la difficoltà di non sapere esattamente come chiedere quello che desideravano.

Nell’esaminare l’impatto di queste variabili sulla soddisfazione sessuale riferita, gli autori hanno riscontrato come la difficoltà di affrontare discorsi di natura sessuale, così come la percezione che il proprio piacere non fosse importante per il partner, fossero associati ad una minor soddisfazione. Mentre la preoccupazione circa la possibilità di essere etichettata come “pervertita” risultava associata con il perpetrare delle menzogne riguardo al proprio piacere fino al momento presente.

La natura della comunicazione con il partner si è dimostrata un fattore importante nel mediare la soddisfazione sessuale percepita: in particolare i punteggi più alti in questo ambito erano maggiormente associati alle partecipanti che si dicevano estremamente d’accordo o d’accordo nell’asserire di avere la capacità di confrontarsi col proprio partner su cosa renda più piacevole il sesso per loro. Allo stesso modo, le donne che dichiaravano con maggiore sicurezza di essere in grado di usare la parola “clitoride” nel parlare del proprio piacere, riportavano livelli di soddisfazione maggiori rispetto a coloro che si dicevano in disaccordo con tale affermazione. L’incapacità di parlare in maniera esplicita in termini sessuali con il proprio partner era associata in maniera consistente con livelli inferiori appagamento sessuale.

Nel cercare di determinare quali correlazioni vi fossero tra i diversi stili comunicativi e la possibilità che una donna fingesse l’orgasmo, si è riscontrato come tale eventualità fosse associata in maniera minore a quelle donne che dichiaravano di avere una comunicazione aperta con il proprio partner su cosa rendesse piacevole il sesso tra di loro. Al contrario, sia le donne che si dicevano fortemente in disaccordo circa la possibilità di utilizzare la parola “clitoride”, sia quelle che esprimevano disaccordo nell’assumere uno stile comunicativo esplicito riguardo ai dettagli sessuali, avevano probabilità maggiori di aver finto l’orgasmo in passato e di continuare a farlo al momento dell’intervista.

Le conclusioni tratte dagli autori alla luce dei risultati appena descritti tratteggiano una parabola di conquista di sicurezza in se stesse e di progressiva esplorazione sessuale con il progredire nell’età adulta, di pari passo con l’acquisizione di maggiore esperienza in ambito erotico.

A dispetto quindi degli script sessuali che sembrano disincentivare una maggiore assertività e agentività delle donne nella ricerca del proprio piacere, avvallando quindi il ricorrere alla simulazione laddove non si volesse incorrere in difficoltà di coppia o per paura del rifiuto da parte del partner, una maggiore apertura sessuale, così come l’acquisizione di una maggiore autostima in campo erotico, sembrano determinare per le donne più mature una maggiore legittimazione nel chiedere ciò che possa rendere maggiormente piacevole l’esperienza sessuale.

Queste conclusioni però assumono particolare rilevanza per l’educazione all’affettività, alla sessualità e nei contesti di psicoeducazione: è infatti chiaro come il genere femminile si senta solitamente meno legittimato alla ricerca del proprio piacere rispetto alla controparte maschile, rischiando di usare troppa deferenza nel cercare di non scontentare il partner, talvolta finendo per tollerare situazioni che sfiorano la coercizione. Un’educazione più paritaria ed esplicita nei riguardi delle differenze individuali e di genere potrebbe in tal senso migliorare le esperienze sessuali delle donne, specie di quelle in giovane età che risultano essere più esposte ad esperienze negative che potrebbero condizionare la loro vita sessuale sul lungo termine.

Cognitivismo e psicoanalisi: distinguere o integrare?

Gazzillo, Dimaggio e Curtis nel loro lavoro mescolano, nelle parole che usano, mille destini che plasticamente mostrano cosa rischia di diventare quella integrazione di cui tutti parlano e che molti desiderano forse troppo: un grande caos, un maledetto casino.

 

Francesco Gazzillo dell’Università Sapienza di Roma, Giancarlo Dimaggio del Center for Metacognitive Interpersonal Therapy, e John T. Curtis della University of California, San Francisco hanno scritto un articolo sulla formulazione del caso e sulla pianificazione del trattamento che è giusto discutere attentamente, soprattutto nella terminologia utilizzata. Le parole rivelano a quali principi ci riferiamo e in quali direzioni ci incamminiamo. Gazzillo, Dimaggio e Curtis nel loro lavoro mescolano nelle parole che usano mille destini che plasticamente mostrano cosa rischia di diventare quella integrazione di cui tutti parlano e che molti desiderano forse troppo: un grande caos, un maledetto casino.

Il titolo dell’articolo parla di “Case Formulation” e suggerisce che leggeremo un lavoro dedicato al ruolo di questo strumento nel processo terapeutico. Come terapeuti cognitivo comportamentali dovremmo sentirci a casa nostra, dato che le terapie comportamentali hanno storicamente utilizzato per prime questo termine, come ammesso, documentato e confermato da vari studiosi appassionati di storia della psicoterapia, non tutti di formazione comportamentale: Bruch (1998, 2015), Eells (2007, 2009) e Sturmey (2008, 2009). Di questi tre è soprattutto Bruch a raccontare la storia dal punto di vista comportamentale, mentre Eells e Sturmey accanto a questa tradizione hanno voluto delineare una storia successiva più ateoretica sebbene con una certa influenza psicodinamica. E tuttavia sia la Eells che Sturmey non ignorano il contributo cognitivo comportamentale. Ad esempio, la Eells nel suo manuale affida a Persons e Tomkins (2007) il racconto dello sviluppo della formulazione del caso secondo la campana cognitivo comportamentale.

Leggendo questi lavori dal taglio storico apprendiamo che il termine Case Formulation è stato coniato dal cognitivista Turkat (1985, 1986) negli anni ’80 che a sua volta lo accreditò a una precedente serie di clinici e studiosi tutti di matrice comportamentale capeggiati da Victor Meyer, il padre spirituale della Case Formulation fin da una pubblicazione del 1960. Oltre lui vanno poi citati Monte Shapiro (1955, 1957), Lazarus (1960, 1976), Wolpe (1960), Yates (1960), Kanfer e Saslow (1969), ancora lo stesso Meyer in compagnia di Chesser (1975), e, in Italia, Ezio Sanavio (1991). Infine nel campo cognitivo l’uso terapeutico della Case Formulation è stato ulteriormente sviluppato da Judith Beck nei suoi classici manuali della forma cosiddetta standard della terapia cognitivo comportamentale (Beck J., 1995, 2011).

Invece la tradizione ateoretica di Eels e Sturmey a cui appartengono anche Gazzillo, Dimaggio e Curtis è ben più recente come appare chiaro se leggiamo ad esempio Sturmey e se facciamo caso agli anni di pubblicazione dei testi da lui citati: si comincia con Weerasekera che pubblica nel 1996 (dieci anni dopo Turkat e quasi quaranta dopo Meyer, il padre spirituale della Case Formulation), si prosegue con McWilliams (1999) e si finisce poi con gli stessi Eells (2007) e Sturmey (2008, 2009). Tutti testi cronologicamente molto successivi rispetto alla linea che nasce con Meyer. C’è da dire che Eells e Sturmey non lo nascondono nei loro testi.

Spiace scrivere che nulla di tutto questo si trova nell’articolo di Gazzillo, Dimaggio e Curtis. In un lavoro dedicato alla Case Formulation non si trova una sola benedetta parola su Meyer, Shapiro, Lazarus, Wolpe, Yates, Kanfer, Saslow, Sanavio e Judith Beck. Non basta. A leggere bene il testo risulta che la linea a cui si attengono i tre autori sembra ancora più recente: con l’unica eccezione della citazione di un testo della Eells del 1997, gli altri testi citati sono tutti del 2019, ovvero del corrente anno. Ovvero la Plan Analysis di Caspar (2019), il Mode Model in Schema Therapy di Fassbinder, Brand-de Wilde e Arntz (2019), il Formulation of Maladaptive Patterns in Interpersonal Reconstructive Therapy di Critchfield, Panizo e Benjamin (2019) e il Dynamic Formulation Focused on Motives, Defenses, and Conflicts di Perry, Knoll, e Tran (2019). Vero è che questi metodi hanno una storia alle spalle, ad esempio la Plan Analysis di Caspar risale al 1995, ma a quanto pare gli autori non si sono sforzati di risalire troppo all’indietro nemmeno per gli autori da loro favoriti. La conseguenza è che la Case Formulation sembra una scoperta recentissima ed estranea al campo cognitivo comportamentale.

Sbrigata la pratica della Case Formulation i tre autori si dedicano al loro modello, il Plan Formulation Method (Weiss, 1993; Weiss, Sampson, & the Mount Zion Psychotherapy Research Group, 1986), metodo basato su un paradigma teorico, la Control Mastery Theory (CMT), un interessante modello che, pur di provenienza psicodinamica, si è più o meno felicemente appropriato di concetti cognitivi come gli scopi (“goal”), i “test” e le credenze patogene (chiamate ora “pathogenic beliefs” ora “obstructions”). Certo, sarebbe bello se questi goal e test fossero accompagnati da citazioni degli studiosi cognitivi che ne hanno parlato, almeno ad esempio Miller, Galanter e Pribram, così come quando si parla di Case Formulation sarebbe stato bello citare Meyer e Turkat, ma ci accontentiamo dell’adesione alla terminologia.

Tutto bene? Siamo di fronte a un felice caso di integrazione teorica con qualche negligenza in bibliografia? Forse si, sebbene desti sorpresa osservare come questi concetti vengano citati senza nessun cenno agli studiosi che ne hanno fatto la storia. È un po’ strano. Così come sarebbe strano se un cognitivista, volendo integrare nel suo modello concetti relazionali di rivalità del paziente col padre, piazzasse nel titolo il termine “Complesso di Edipo” e poi ne parlasse a iosa senza citare mai Freud, e alcuni cognitivisti lo hanno fatto. Ma non innervosiamoci. La storia dei reciproci prestiti maldestri tra psicoanalisi e psicoterapia cognitivo comportamentale è lunga è non è questo il luogo per rivisitarla.

Tuttavia c’è qualcosa che ci confonde ancor di più. C’è che gli autori fin dalle prime righe mostrano di avere ben chiare le differenze tra una Case Formulation di tipo cognitivo comportamentale che presuppone una visione funzionalista dell’attività mentale che privilegia l’intervento sulle funzioni esecutive accessibili alla coscienza e un’altra impostazione, che poi finisce per essere il Plan Formulation Method, che invece punta su fattori interpersonali ed esperienziali il cui meccanismo è innescato da interazioni relazionali i cui meccanismi d’azione non sono considerati operativamente rappresentabili nella coscienza ma solo emotivamente percepiti. E gli autori inoltre hanno ben chiare le differenze cliniche che questa differente impostazione implica, dato che nella loro visione la condivisione della Case Formulation è l’esito finale di complessi processi terapeutici interpersonali che non sono immediatamente accessibili alla coscienza esecutiva se non dopo un doloroso processo interattivo non privo di equivoci e conflitti, come ad esempio i test della Control Mastery Theory.

Invece rimane una specificità della terapia cognitivo comportamentale cosiddetta standard che la condivisione della Case Formulation sia possibile fin dall’inizio, condivisione beninteso mai definitiva ma incessantemente negoziata e riformulata e tuttavia espressa esplicitamente appena possibile fin dai primissimi incontri di terapia e intesa come principale strumento operativo di gestione del processo terapeutico anche nei suoi aspetti aspecifici come la gestione dell’alleanza e della relazione terapeutica. Questo rende la Case Formulation talmente incorporata nel paradigma cognitivo comportamentale standard da forse scoraggiare Gazzillo, Dimaggio e Curtis dall’usare quel termine nel resto dell’articolo dopo averlo piazzato nel titolo, o almeno a usarlo in maniera molto parsimoniosa se non rarefatta, ben attenti come sono a tenersi lontano da una tradizione cognitivo comportamentale standard a loro profondamente estranea e che non si può improvvisare, malgrado tutte le integrazioni.

Ci si chiede allora, perché usare nel titolo di un loro lavoro un termine così lontano dalla loro concezione del processo psicoterapeutico? Forse perché Eells lo ha reso recentemente più ecumenico e meno specialistico? Quindi si è trattato di un segnale a suo modo conciliatorio, un cortese suggerimento che i tre autori stanno seguendo una strada ecumenica o come si suol dire integrativa? Può essere vero, ma la Eels al tempo stesso nella sua operazione integrativa non ha avuto timore di citarne le radici cognitivo comportamentali del concetto. Invece i tre autori hanno taciuto.

Se questo ecumenismo deve essere fonte di simili imbarazzi forse meglio sarebbe stato seguire una strada più onestamente concorrenziale e ben chiara nelle sue ipotesi, distinta da quella seguita dalle altre teorie con le quali concorre. Purtroppo non è così, qui si vuole l’accordo, il compromesso che fa tutti contenti, l’integrazione che evita i conflitti ed elimina le Chiese per riconciliarci tutti di fronte all’Altare integrato.

Peccato che poi il conflitto scacciato dalla porta rientri da ogni fessura. Ad esempio, la descrizione nemmeno tanto inavvertitamente sprezzante che i tre autori fanno del paradigma cognitivo comportamentale suona livorosa in maniera disorientante. Particolarmente aggressiva suona l’osservazione contro quei protocolli che vogliono curare il paziente in 4 o 5 sedute: qui il nervosismo ha preso la mano ai tre autori; le terapie cognitivo comportamentali effettivamente cercano di cavarsela in 12 – 30 sedute, il che potrebbe essere già sufficiente materia di derisione per dei cultori del trattamento prolungato e paziente ma forse buttarla sulle 4 o 5 sedute fa più effetto. Il tutto si conclude con la solita indimostrata affermazione che la psicoterapia cognitivo comportamentale è troppo superficiale per i disturbi più o meno complessi, salvo poi finire per citare quel verdetto di Dodo che, a ben vedere, facendo vincere tutti non lo dimostra per nulla. Chissà perché però quel verdetto implica sempre un corollario che è: se nessuno vince allora chi pretendeva di aver vinto, ovvero la psicoterapia cognitivo comportamentale, in realtà ha perso.

Vale la pena incartarsi in simili penosi screzi per inseguire una integrazione che comunque sfocia in una rivalità? Non sarebbe meglio giocare a carte scoperte? Lo chiediamo ai tre colleghi, soprattutto ai due di provenienza psicodinamica, ovvero Gazzillo e Curtis, che hanno giustamente scritto un articolo bello e interessante nella parte in cui hanno esposto le procedure della Plan Formulation Method e il modello della Control Mastery Theory, un modello che rimane psicodinamico perché in esso la formulazione del caso rimane il frutto di un doloroso e difficile percorso conflittuale tra paziente e terapeuta e in cui c’è poca fiducia in una formulazione iniziale come faremmo noi cognitivisti. E dunque, perché non limitarsi a un articolo sul Plan Formulation Method senza fare confusione con una Case Formulation gettata lì a inizio articolo senza citarne i padri spirituali?

Se l’operazione di Gazzillo e Curtis non è facile da capire, ancor meno facile è comprendere gli scopi del contributo di Dimaggio. In teoria nell’articolo lui dovrebbe essere il rappresentante della tradizione cognitivo comportamentale. È da lui che le anime trapassate oppure viventi di Miller, Galanter, Pribram, Shapiro, Lazarus, Meyer, Wolpe, Yates, Kanfer, Saslow, Sanavio e Judith Beck si aspettavano di essere citate in un articolo sui goal, sui test e sulla Case Formulation zeppo di citazioni non cognitive. Invece niente. Anzi, nell’articolo c’è un attacco iniziale al paradigma cognitivo comportamentale di particolare durezza e sprezzo che purtroppo compare anche sotto la firma di un collega cognitivista. È proprio così: ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia!

Se è così, almeno speriamo che ci sia del metodo in questa follia. Siamo qui intorno al camino in una vecchia torre a raccontare vecchie storie e purtroppo ce n’è una particolarmente lunga, confusa e dolorosa. È la storia di un certo cognitivismo cresciuto nelle nostre terre di mezzo, un cognitivismo che in realtà è un rispettabile costruttivismo che però in quanto tale, fin dai tempi antichi e ormai avvolti nella leggenda di Vittorio Guidano e di Michael Mahoney, si è posto in forte contrapposizione con il cognitivismo standard. Per una serie di confuse ragioni ci si è ritrovati da estranei sotto lo stesso tetto di questa vecchia torre da troppo tempo e ci si raccontano storie tristi in due lingue sempre più mutualmente incomprensibili in cui i termini comuni significano cose diverse e ormai creano solo baccano. Ad esempio, per il costruttivista la formulazione del caso è una narrazione e quindi il suo contenuto è un esito lungo e laborioso e non uno strumento condiviso dall’inizio. Così il costruttivista finisce per capirsi di più con lo psicodinamico che col cognitivista standard. Forse più che integrazione occorre fare chiarezza e distinzione. E distinzione viene da distinguere, che è il contrario di integrare.

Evitare di evitare: il senso di non appartenenza nel disturbo evitante

La caratteristica peculiare dei soggetti con Disturbo Evitante di Personalità è l’estrema sensibilità al rifiuto. Queste persone evitano ogni tipo di contatto sociale non perché lo desiderino, ma perché temono di essere respinti. Il comportamento di evitamento nasce infatti come strategia di padroneggiamento dell’esperienza di impaccio al contatto con gli altri.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

 Ognuno di noi è inserito in un contesto sociale e fa parte di diversi gruppi di riferimento da quando nasce a quando diventa anziano. L’appartenenza è un concetto sociologico che implica una relazione tra l’individuo e le persone che lo circondano. L’uomo, in quanto animale sociale, da quando nasce entra a far parte della prima comunità sociale: la famiglia;  essa rappresenta il primo palcoscenico nel quale sperimentare e sperimentarsi, instaurare relazioni e in cui coltivare le abilità sociali, rappresentazioni di sé e dell’altro.

G. Gaber scriveva:

L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme. Non è il conforto di un normale voler bene. L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé.

Il Disturbo Evitante di Personalità

Il Disturbo Evitante di Personalità è caratterizzato da un pattern pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo. Tale disturbo è anche caratterizzato da un comportamento stabile di evitamento verso le relazioni e le situazioni in cui la persona può essere sottoposta a valutazione da parte degli altri. Il comportamento evitante spesso inizia nella prima infanzia con timidezza, isolamento, timore degli estranei e delle situazioni nuove. Anche se la timidezza è un precursore comune del disturbo, nella maggior parte degli individui tende a scomparire gradualmente con la crescita. Al contrario, gli individui che sviluppano il disturbo evitante di personalità possono diventare progressivamente più timidi con l’adolescenza e l’età adulta, quando le relazioni sociali assumono via via importanza maggiore.

Criteri clinici (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition [DSM-5])

Per una diagnosi di Disturbo di Personalità Evitante, i pazienti devono presentare un pattern persistente di evitamento del contatto sociale, sentimenti di inadeguatezza e un’ipersensibilità alle critiche e al rifiuto, come mostrato da 4 o più dei seguenti modi:

  • Evitamento delle attività legate al lavoro che implicano il contatto interpersonale perché temono di essere criticati o rifiutati o che la gente possa disapprovarli.
  • Mancanza di volontà di essere coinvolti con le persone a meno che non siano sicuri di essere graditi.
  • Riserva nelle relazioni strette perché temono la derisione o l’umiliazione.
  • Preoccupazione di essere criticati o rifiutati nelle situazioni sociali.
  • Inibizione in nuove situazioni sociali, perché si sentono inadeguati.
  • Una visione di sé come socialmente incapace, poco attraente, o inferiore agli altri.
  • Riluttanza nel correre rischi personali o nel partecipare a qualsiasi nuova attività perché possono essere umiliati.

Inoltre, i sintomi devono avere inizio nella prima età adulta.

Il primo ad utilizzare la definizione “personalità evitante” è stato Theodore Millon (1969). Millon differenzia il Disturbo Evitante dal Disturbo Schizoide di personalità, in quanto sostiene che – nonostante entrambi siano caratterizzati dalla mancanza o scarsezza di relazioni – mentre nel primo vi è un forte desiderio di rapporti intimi, nel secondo la mancanza di intimità è vissuta come egosintonica. Secondo Millon, dunque, mentre lo schizoide non ha relazioni significative in quanto non è interessato agli altri, il ritiro dell’evitante è dovuto alla contrapposizione tra desiderio di relazioni sociali e timore del rifiuto e del giudizio negativo. Dunque, egli concettualizza la problematica dello schizoide come “deficit” e quella dell’evitante come “conflitto”.

La caratteristica peculiare dei soggetti con questo disturbo è, quindi, l’estrema sensibilità al rifiuto. Queste persone evitano ogni tipo di contatto sociale non perché lo desiderino, ma perché temono di essere respinti. Il rapporto sociale viene intrapreso solo quando questi soggetti sono certi e sicuri di ricevere un’accettazione totale da parte dell’altro. Essi hanno difficoltà a confidarsi, a parlare in pubblico o intraprendere conversazioni o esperienze che li condurrebbero al centro dell’attenzione. L’ansia e la paura fanno da sfondo alle attività quotidiane di queste persone. Ogni occasione sociale è fonte di angoscia, viene vissuta con forte ansia perché potrebbe essere causa di umiliazione, rifiuto. Tali soggetti si sentono inadeguati e vivono in maniera amplificata qualunque situazione esca dalla routine quotidiana. Si potrebbe dire che il motto intrinseco di questo disturbo sia “se mi ritiro, nulla mi farà del male”.

Il comportamento di evitamento nasce come strategia di padroneggiamento dell’esperienza di impaccio al contatto con gli altri.  La distanza che il paziente frappone tra sé e gli altri è solo un ingranaggio di un più sottile circolo vizioso che il paziente stesso crea: “se mi estraneo, non annoierò gli altri, non mi sentirò inadeguato” e ciò diventa una sorta di profezia che si autoavvera che genera nell’altro una risposta di allontanamento. L’evitante appare come avvolto nella nebbia, inaccessibile, diverso. Sebbene visto dall’esterno possa sembrare il contrario, i soggetti con questo disturbo nutrono un grande desiderio di vicinanza: il desiderio che nutrono viene vissuto davvero come un conflitto che causa ben presto sofferenza.

Nel Disturbo Evitante di Personalità è centrale la sensazione di non appartenere all’altro e di non riuscire a condividere. La mente dell’evitante è opaca e fa fatica a percepire i propri stati mentali e le emozioni. Nella concettualizzazione di Beck e collaboratori (1990) l’evitante ha un’idea di sé come inetto, indesiderabile, inadeguato, privo di alcun valore, e mette in atto una costante autocritica. Inoltre, sviluppa un problema secondario, in quanto critica il proprio comportamento evitante, accusandosi di essere pigro e passivo. Gli altri, al contrario, sono generalmente percepiti come superiori e giustamente rifiutanti e critici. Infatti, il soggetto evitante crede di meritare il rifiuto a causa della scarsa fiducia e stima in sé stesso. Partendo da tali concezioni di sé e degli altri, i soggetti con Disturbo Evitante tendono a distorcere l’interpretazione del comportamento altrui, leggendo anche le reazioni neutrali come negative e interpretando qualunque azione dell’altro come messa in atto in funzione propria. La solitudine causata dal prolungato evitamento, assieme alla costante autocritica, conducono ad uno stato emotivo fondamentalmente depresso, interrotto soltanto da fugaci fantasie riguardanti il futuro, caratterizzate dalla risoluzione completa e senza alcuno sforzo personale dei propri problemi (Beck et al., 1990).

Appartenenza e condivisione

Il senso di condivisione/appartenenza si basa sulla percezione di avere dei contenuti mentali (come interessi, credenze, valori o affetti) in comune con un’altra persona (condivisione) o con un gruppo di persone (appartenenza) ed è il frutto di molteplici operazioni metacognitive (Dimaggio, Procacci & Semerari, 1999). Infatti, il soggetto deve, in primo luogo, essere in grado di rappresentarsi sia il proprio che l’altrui scenario mentale ed in secondo luogo avere la capacità di porli a confronto, in modo tale da poter riconoscere ciò che vi è in comune. Una disfunzione metacognitiva in un solo punto del processo è sufficiente a compromettere l’esito finale, portando il soggetto a sperimentare un senso di diversità, estraneità e distacco nei confronti degli altri. Nel Disturbo Evitante, chiaramente deficitarie sono le abilità di decentramento, ovvero di comprensione della mente altrui. Gli altri sono quindi rappresentati unicamente come giudicanti e rifiutanti, in quanto il soggetto trasforma automaticamente i propri timori nei contenuti mentali altrui.

Il Disturbo Evitante non è il solo a sperimentare questa diversità: anche il Disturbo di Personalità Narcisista condivide la medesima situazione. Le emozioni associate al senso di non appartenenza sono differenti nei due disturbi considerati: mentre il narcisista vive prevalentemente con soddisfazione la sua diversità, intesa come superiorità (o alternativamente con distacco, quando si trova in uno stato mentale di vuoto ed anestesia emotiva), l’evitante prova disagio e vergogna per la sua diversità, letta come inferiorità. Dunque, per il narcisista si potrà parlare di “orgoglio” del non appartenere, mentre per l’evitante di “dolore” del non appartenere. Tuttavia, anche il narcisista, quando si trova nello stato depresso/terrifico, può sentirsi diverso in quanto rifiutato ed espulso dal gruppo; in tal caso, il senso della propria diversità e non appartenenza si accompagna ad emozioni intensamente negative. Differente è anche l’influenza dello stato di non appartenenza sul comportamento: l’evitante reagirà mettendo in atto strategie di evitamento delle situazioni sociali, mentre il narcisista manifesterà distacco e superiorità.

Il Disturbo Evitante ha quindi carenze a livello metacognitivo, fatica a decentrarsi rimanendo schiavo del suo stesso circolo vizioso. Affinché vi sia condivisione, però, le capacità metacognitive rappresentano un fattore necessario ma non sufficiente. Oltre ai deficit metacognitivi, infatti, contribuiscono alla strutturazione del sentimento di non appartenenza la presenza di credenze specifiche su di sé e sugli altri (generalmente sviluppatesi nei primi anni di vita dell’individuo) e la carenza di abilità sociali. Un esempio di tali credenze, tipica dei soggetti evitanti, è l’aspettativa di essere rifiutato dagli altri, aspettativa che, inibendo le relazioni sociali, ostacola anche lo sviluppo delle abilità metacognitive e sociali, innescando un pericoloso circolo vizioso.

Oltre al senso di diversità, la non appartenenza comporta anche la sensazione di essere particolarmente visibili e osservati (e dunque giudicabili), sensazione anch’essa tipica del disturbo evitante, che intensifica l’ansia sociale dell’individuo. Inoltre, il senso di non appartenenza è fortemente legato all’autostima in una relazione bidirezionale. Infatti, chi si ritiene inadeguato ed inferiore difficilmente sviluppa un forte senso di condivisione e appartenenza e viceversa la sensazione di non appartenenza è una grave minaccia per l’autostima. Nelle relazioni sociali la difficoltà ad abbandonare una posizione egocentrica porta il soggetto a vivere le relazioni a metà, ovvero ad essere diffidente e a temerle. Il soggetto evitante non vive le relazioni come qualcosa di minaccioso o pericoloso in quanto potrebbero esservi intenzioni nascoste, ma sperimenta un vuoto. La sensazione di vuoto è comune ad altri disturbi di personalità, è presente ad esempio nel Disturbo Borderline, ma in questo caso il soggetto sperimenta un vuoto relazionale e profondo che non riesce a descrivere, ma che traduce con un senso di estraneità, con pensieri “non mi capisci” . Il sentirsi diverso, nutre la convinzione di essere solo. Il soggetto è come se costruisse un muro, tra sé e gli altri, che lo porta ad essere solo in mezzo agli altri. L’altra faccia della medaglia della solitudine per un evitante è il sollievo, perché “se non mi espongo sono al sicuro”, sono salvo; sensazione questa momentanea perché sebbene protegge in maniera illusoria il soggetto dall’altro lo porta ad esporsi alla solitudine, all’autoavveramento delle sue credenze e alla possibilità di scenari depressivi.

Il senso di non appartenenza è solo uno degli stati mentali in cui il soggetto evitante transita. Le emozioni che accompagnano questi soggetti sono anch’esse molteplici. Sebbene il soggetto possa apparire fermo, “statico”, in realtà essi sono dei grandi osservatori,  ma non interpreti della loro vita.

 

The Young Pope, tra desiderio e immaginazione – Perché rivedere la serie culto di Sorrentino in attesa del sequel The New Pope

Cosa cerchiamo davvero in The Young Pope? L’eccesso? Lo scandalo? Qualche segreto verosimile che appaghi le fantasie più lascive che non riusciamo a partorire? E se non ci fosse nessuno scandalo? Nessuna bomba ad orologeria pronta ad esplodere, ma solo..letteratura.

 

Tutto inizia con un sogno. Una montagna di neonati nudi da cui esce il Papa. Un sogno innocente. Un sogno d’innocenza. Un sogno che fa penetrare i nostri sguardi senza mediazioni nell’intimo, nella profonda vulnerabilità di sua Santità. E dove è più libero di manifestarsi se non nel sogno, il desiderio? Fin dalla prima scena, a cui segue l’onirico primo disinibito discorso del pontefice sui maggiori tabù della Chiesa davanti ad una folla di fedeli incredula, ci troviamo ad assistere ad uno spettacolo critico: fino a che punto può spingersi il nostro desiderio? Il profondo e umano desiderio di rivelare i segreti del sacro, il desiderio di profanare il sacro.  Eppure il sacro, come ci ricorda il teologo Julien Ries ne Il simbolo, ha delle costanti, che non si possono scalfire così facilmente. Il primo di tali elementi è il simbolo appunto che, multiforme, passa attraverso la storia, forandola, come a danneggiarla per un occhio ingenuo, inetto a vedere la rilegatura che quei fori sono predisposti a metter in atto. Cos’ha a che fare allora il sacro e il suo mistero con questo Papa giovane? Di cosa è simbolo? “Blasfemo o geniale?” Questa domanda si leggeva nelle pagine di cultura di Repubblica dopo la prima messa in onda in tv. Chi è, dunque, Pio XIII?

È Lenny Belardo, per cominciare, il Papa americano della postmodernità. Un Papa che sta al limite delle convenzioni sociali. Come al limite della legge si muove il desiderio. Un Papa che per i suoi traumi infantili sembra far gola più agli psicoanalisti che ai fedeli. È infatti un Papa orfano. Un Papa che cerca disperatamente i suoi genitori. Un Papa che ricorda l’odore di una madre che non ha mai conosciuto. Perché la memoria olfattiva è la più profonda, la più radicata, come, ancor prima che la scienza ne desse le sue ragioni, aveva già provato con evidenza letteraria Proust ne La Recherche. Ma, a differenza di un’infanzia rappresentata, l’odore che Pio XIII ricorda non si materializza in nessuna rappresentazione. Resta materia prima, suggerirebbe Jung, un processo grezzo, primitivo, a cui non segue una serie di ricordi, di elaborazioni cognitive. Un processo che non conosce la serialità del senso. Un processo che si dispiega in parallelo nella complessità psichica, direbbero gli psicanalisti sperimentali di ultima generazione, come Wilma Bucci, che questi processi provano a misurarli. Provano a tradurre in numero quell’attività di referenza verbale della materia sub-simbolica, o pre-simbolica, che ci scorre dentro e con la quale non riusciamo a sincronizzarci mai del tutto. Come un orologio che si blocca ripetutamente, facendoci perdere la cognizione del tempo, che scorre ugualmente, lasciandoci un’angosciante sensazione di perdita.

The Young Pope: tra desiderio e immaginazione - Recensione (imm.1)

Immagine 1. Tratta dalla serie “The Young Pope” di Sorrentino.

Attaccamento e perdita, quindi. I temi più inflazionati di tutta la psicoanalisi, nelle sue differenti correnti. Traumi. Rimosso. Un sorriso schizofrenico. Un rebus di banale semplicità. Se non fosse che, con lo scorrere delle puntate, il terreno della psicoanalisi più ortodossa vacilli all’aprirsi di faglie, da cui sgorga bruciante luminosità. Quel sorriso psicopatico d’apertura sul viso d’un Papa bello come Gesù Cristo si cancella, muta, gradualmente in un sorriso di misericordia, che porta, attoniti, a domandarci: cosa cerchiamo davvero in questo sceneggiato? L’eccesso? Lo scandalo? Qualche segreto verosimile che appaghi le fantasie più lascive che non riusciamo a partorire? E se non ci fosse nessuno scandalo? Nessuna bomba ad orologeria pronta ad esplodere, come vorrebbe il pedofilo Kurtwell ma solo.. letteratura.. Splendida letteratura su una finitezza, quale quella umana, che si può solo narrare e che non scandalizza poi così tanto.. Lettere d’un amore lasciato prima che potesse sbocciare, un amore che ha lasciato molte domande, che spingono a scavare dentro, a struggersi l’anima, lettere d’un amore grande ma mai rimpianto, perché quell’amore non ha lasciato un vuoto cieco, ma ha aperto la porta ad un amore maggiore, l’amore di Dio.

Recalcati ha osato, quasi retoricamente, chiedersi in un articolo su Repubblica prima che la fine della serie fosse trasmessa se l’apparente marmoreo contraddittorio conservatorismo di Pio XIII non finisse per trasformarsi in poesia. Ora la metamorfosi è compiuta. Una magnifica poesia, dai versi multiformi e politematici, che esprimono la reciproca commistione di temi secolari e confessionali, come il conflittuale rapporto tra potere temporale e spirituale e la battaglia per le unioni civili. Nel suo riflesso cattolico si vede, difatti, un Papa che inasprisce esponenzialmente la distanza dagli omosessuali, o almeno così sembra. Perché Pio XIII è un Papa che prima di tutto mette alla prova, senza aspettarsi virtù. È certo delle virtù. L’opera difficile sta nel farle crescere.

Penso, inoltre, che l’immagine di Lenny che Sorrentino ci dona non sia così irremovibilmente disegnata secondo una rigida estetica predefinita, ma sia un’immagine costitutivamente aperta all’immaginazione dello spettatore. Immaginazione che prosegue al di là dello schermo e si fa immaginazione attiva, come direbbe sempre Jung, ovvero si tesse in una trama personale, che proietta l’inconscio dello spettatore in una dimensione terza, un terzo analitico-estetico potremmo dire, uno spazio di creazione. Dove la religiosità, il bene e il bello danzano insieme in un complesso armonico che fa vibrare le corde dell’anima di chi s’inserisce in questa misteriosa costellazione. Perché Pio XIII, provando a rispondere alla domanda in apertura, è sì un simbolo del sacro.

Egli incarna, riprendendo Ries, quell’Homo symbolicus, che precede strutturalmente l’Homo religiosus e che l’antropologo vede come “dotato di una facoltà che lo rende capace di afferrare l’invisibile partendo dal visibile e così, grazie alla sua immaginazione, diviene creatore della cultura e delle culture.”

Così Sorrentino non mette in scena solo un cardine dell’umanità, il cardine che sostiene la religione cattolica, bensì ci mostra una porta tra culture, come dice in punto di morte il cardinal Spencer, padre spirituale di Pio XIII “Tu non sei il cardine, sei la porta”.

Sorrentino non vuole, infatti, essere né blasfemo, né tanto meno incarnare la santità. Vuole farci immaginare. Attivare un processo creativo tra sacro e divino, che non ha nulla a che fare con la fantasia, se non la parvenza di finzione. Non si definisce la fede, sebbene ci sia chi la possa proiettare. Non si definisce l’amore, sebbene ci sia chi lo possa sentire. Solo con l’immaginazione l’esperienza simbolica, come descritta da Ries, “diviene un’esperienza biologica, diviene luce e forza di creazione.” Questo fanno le opere d’arte, questo è riuscito a fare Sorrentino con il suo film, fatto a serie. Parafrasando e rivoltando come un calzino il noto saggio di Roland Barthes sulla fotografia La camera chiara, che ruota attorno ad una fotografia della madre persa in tenera età, che in modo disarmante “non sa dire ciò che dà a vedere”, Sorrentino ha provato invece a far vedere ciò che non si riesce a dire: Dio, l’uomo, l’amore.

The Young Pope: tra desiderio e immaginazione - Recensione (imm.2)Immagine 2. Tratta dal sequel “The New Pope” di Sorrentino

Non c’è nulla di pop in “The Young Pope”, se non il degrado della società che cerca di redimere. Domande dimenticate. Animi assopiti, dall’immediatezza delle immagini, dalla brama di spettacolo.

Questo è senza dubbio un film sulla crescita personale e collettiva, sul divenire se stessi attraverso il disvelamento del mistero, sull’individuazione. Eppure si ferma alla giovinezza. Dopo Jep de La Grande Bellezza, o gli stimabili Harvey Keitel e Michael Caine di Youth, infatti la vecchiaia non è più protagonista reale a discapito di una giovinezza perduta. Essa viene ritratta sullo sfondo: è il terreno di coltura, o cultura, di cui il fiore della giovinezza si nutre. Crescita che ad un certo punto si ferma inaspettatamente, forse nel codice di Sorrentino, per enfatizzare il simbolo metapoietico del Sé, non di sintesi riduttiva, bensì trasformativa della condizione umana a partire dai maggiori temi a lui cari, giovinezza e “grande bellezza”, sommati e raddoppiati a partire dal tempo della messa in scena. O forse solo perché questa è arte. E l’arte non conosce i limiti della realtà. Non conosce i limiti di Dio, dell’uomo, del mondo. Eppure riesce a metterli in mostra come un’indescrivibile, a tratti onirica, meraviglia.

 

cancel