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Elettrosensibilità: vera patologia o effetto nocebo? La psicoterapia cognitivo-comportamentale potrebbe rivelarsi utile

L’ elettrosensibilità (ES), anche detta elettroipersensibilità (EHS), è definita da chi ne soffre come quell’insieme di sintomi fisici e psicologici correlati alla vicinanza di campi magnetici, elettrici ed elettromagnetici, ad un livello di esposizione che le persone normalmente tollerano senza percepire effetti negativi.

Rachele Recanatini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Nella serie televisiva Better Call Saul, famoso spin-off del telefilm Breaking Bad, il fratello del protagonista si dichiara affetto da elettrosensibilità: l’uomo riferisce di sperimentare emicrania, vertigini e sintomi panicosi se esposto a campi elettromagnetici. Ciò provoca gravose conseguenze nel suo stile di vita: affronta un’esistenza emarginata, isolata; vive in una abitazione priva di elettricità, di conseguenza, senza ausilio di elettrodomestici; è impossibilitato ad uscire, teme le frequenze magnetiche; le persone che lo frequentano sono costrette a togliersi l’orologio, privarsi del telefono cellulare e di qualunque dispositivo elettronico portatile, prima di avvicinarsi a lui. Il personaggio di Charles McGill esprime con chiarezza la difficoltosa esistenza di chi si sente costretto ad evitare ogni contatto con apparecchi di comune utilizzo quotidiano.

Storie simili si ascoltano non soltanto nei film, ma numerosi sono i casi reali documentati da programmi televisivi giornalistici. Sono allergica al mondo, pronuncia una donna intervistata in una edizione di telegiornale. Famose trasmissioni tv narrano le vicende di persone dichiarate affette da elettrosensibilità: volti coperti da mascherine, sofferenti; persone costrette a dover interrompere la propria professione, dormire a contatto con cartoni o in automobile, cambiare abitazione. In Italia tale condizione non è riconosciuta, nonostante il rapido aumento causato dalla progressiva invasione di nuove tecnologie e radiofrequenze: attualmente sembra affliggere circa il 4% della popolazione europea in maniera grave. L’ elettrosensibilità (ES), anche detta elettroipersensibilità (EHS), è definita da chi ne soffre come quell’insieme di sintomi fisici e psicologici correlati alla vicinanza di campi magnetici, elettrici ed elettromagnetici, ad un livello di esposizione che le persone normalmente tollerano senza percepire effetti negativi. L’ elettrosensibilità, all’attualità, non è ritenuta una vera e propria malattia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dalla comunità scientifica: non si rilevano ad oggi evidenze scientifiche che forniscano parametri definiti in grado di dimostrare la relazione causa-effetto tra sintomatologia sofferta ed esposizione al campo.

Le persone che si definiscono affette da elettrosensibilità affermano di presentare livelli di risposta all’esposizione differenti tra loro; alcuni si percepiscono notevolmente colpiti, in maniera invalidante, da tale condizione: il 5% risulta in posizione di malattia lavorativa, in pensione anticipata o percepisce reddito di invalidità (Hilert et al., 2002); l’impatto dell’ elettrosensibilità, di conseguenza, è altamente significativo, causando un disagio di tipo fisico, psicologico e sociale. La sintomatologia somatica e psichica più frequentemente raccontata è relativa a cefalee, disturbi del sonno, debolezza fisica, deficit mnemonici ed attentivi, dolori diffusi, eruzioni cutanee, difficoltà uditive e visive, problematiche di equilibrio e sbalzi pressori; coloro che si descrivono colpiti da ES lamentano altresì alterazione del tono umorale, depressione, aggressività, apatia e stati di ansia, angoscia, inquietudine: disturbi psicologici invalidanti.

L’ elettrosensibilità è un argomento particolarmente controverso: nonostante la gravità della sintomatologia descritta da chi ne è colpito,  ancora non esistono sperimentazioni scientifiche che dimostrino in maniera univoca ed accertata il legame tra la presenza di un campo elettromagnetico e l’ES. Alcuni studiosi ritengono che sia una patologia di natura psicosomatica, come affermato dall’OMS: nello specifico, una review del 2005 rileva l’assenza di prove scientifiche atte a stabilire che il malessere fisico e il disagio psichico siano causati dai campi magnetici o elettromagnetici (Rubin et al., 2005); numerosi studi indicano inoltre come le persone che si dichiarano affette da ES non riescano a distinguere tra la presenza di un campo elettromagnetico da quello che credono tale (Rubin et al., 2006). Non esisterebbero differenze significative tra soggetti definiti elettrosensibili e popolazioni di controllo: l’esposizione alle frequenze non provoca effetti sui parametri del Sistema Nervoso Autonomo (Adrianome et al., 2017).

Per tale motivo si ritiene che le indagini disponibili all’attualità non possano permettere l’individuazione di una differenza tra gli effetti biofisici derivati dall’ elettrosensibilità ed un effetto nocebo (Roosli, 2008).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rilevato che i sintomi riferiti non sono correlati ai campi elettromagnetici, ma ad alcune condizioni psichiatriche e psicologiche preesistenti, a stress o alla paura stessa del campo (WHO, 2004). La posizione ufficiale dell’OMS è stata contestata dalle numerose associazioni di coloro che si ritengono malati di ES, diffuse in tutto il mondo (ad esempio: Associazione Italiana Elettrosensibili, Associazione svedese degli Elettroipersensibili, Collectif des Electrosensibles de France). Tali gruppi sostengono l’origine organica dell’elettrosensibilità, definendone protocolli diagnostici e terapeutici (Belpomme, 2010).

Numerosi gruppi di scienziati ritengono necessario un immediato riconoscimento dell’ES come patologia da includere nel codice ICD (International Classification of Diseases), attraverso l’utilizzo dei criteri diagnostici austriaci, attualmente considerati validi (Linea guida dell’Associazione Medica Austriaca per la diagnosi e il trattamento dei problemi di salute e malattie correlate ai campi elettromagnetici). Recentemente, è stata indagata l’insorgenza di sintomi fisici aspecifici in correlazione con l’esposizione a radiofrequenze, attraverso esposimetri e diari elettronici. Si rilevano correlazioni statisticamente significative tra esposizione a Wi-Fi e stazioni per telecomunicazioni mobili, in alcune delle persone dichiarate elettrosensibili (Bogers et al., 2018).

In numerosi Tribunali d’Europa vengono emesse ad oggi sentenze che riconoscono i diritti degli elettrosensibili, validando gli effetti biologici dannosi dei campi elettromagnetici; in Spagna, ad esempio, viene riconosciuta ad un lavoratore iberico malattia professionale per incapacità lavorativa temporanea, una sentenza storica emessa il 5 dicembre 2018. In Italia, l’Associazione Obiettivo Sensibile del Trentino nasce a tutela di coloro che si dichiarano affetti da elettrosensibilità.

L’esistenza della condizione di ES non è ancora stata accertata scientificamente; ne consegue che ad oggi non esiste un trattamento efficace per coloro che affermano di esserne colpiti. La cura risulta esclusivamente associata all’evitamento: non esporsi a campi elettromagnetici. Tale strategia, nella società moderna, si ritiene particolarmente difficile da applicare. Alcuni soggetti utilizzano delle schermature, ad esempio delle reti metalliche sul suolo, e procedono con la cura delle patologie ad essa correlate. Le terapie farmacologiche risultano inefficaci, in quanto i meccanismi patogenetici alla base del disturbo non sono stati chiariti e definiti; similmente a quanto avviene per sintomi allergici, trattandosi di una condizione di ipersensibilità – comunemente tollerata dalla popolazione generale – regredisce tramite allontanamento dalle zone inquinate, ai limiti di legge. In alcuni casi sono state accertate altresì delle truffe: la cosiddetta Terapia Mora, ad esempio, supportata da numerosi naturopati ed omeopati, si basa sul captare le onde elettromagnetiche, filtrarle, invertirle di fase e rimandarle prive di disturbi patogeni, ingannando numerosi pazienti.

L’origine dell’ elettrosensibilità secondo alcuni autori è legata al cosiddetto effetto nocebo: nelle situazioni in cui il soggetto crede di essere esposto ad un campo elettromagnetico, inizia a manifestare sintomatologia, nonostante in realtà non si rilevino apparecchiature in funzione nelle vicinanze; qualora, al contrario, sia esposto alle invisibili onde elettromagnetiche senza che possa dedurlo dal contesto ambientale, non sperimenta sintomi. Tale effetto non equivale ad una simulazione: le persone che si autodiagnosticano elettrosensibilità percepiscono realmente conseguenze invalidanti. Il termine nocebo indica un processo psichico in cui le previsioni negative rispetto ad un evento conducono allo sviluppo di un disturbo. Nel caso dell’ elettrosensibilità, l’effetto nocebo si presenta quando la persona sviluppa sintomatologia in risposta a delle informazioni esterne: a causa di una attenzione selettiva verso la presenza di onde elettromagnetiche e i propri segnali corporei, convincendosi che il disagio sia legato alla causa presunta, si producono reazioni fisiche che vengono lette quale conferma degli effetti nocivi della fonte.

L’effetto nocebo è stato confermato da ricerche scientifiche: esiste un legame tra la convinzione di essere esposti a campi magnetici e problematiche di salute.

All’attualità numerosi individui riferiscono di vivere uno stato di profondo malessere psicofisico al ripetersi di esposizioni a campi elettromagnetici; tale disagio compromette notevolmente la qualità della vita, provocando effetti invalidanti a livello personale, familiare e sociale. Coloro che si dichiarano affetti da ES, infatti, si definiscono costretti a dover cambiare abitazione, lavoro, interrompere le comuni abitudini della quotidianità. Sono stati tentati numerosi trial clinici, utilizzando trattamenti diversificati allo scopo di indagare quali siano le possibili soluzioni per fronteggiare l’elettrosensibilità: filtri visivi per gli schermi, dispositivi che emettono campi elettromagnetici schermanti, agopuntura, assunzione giornaliera di vitamine e selenio.

In conclusione, ad oggi non esistono trattamenti clinici dichiarati definitivi. L’orientamento attuale sembra essere la classificazione tra le malattie da causa ambientale. Assente un piano di intervento coordinato all’interno del Servizio Sanitario pubblico, specifico per chi soffre di elettrosensibilità. Coloro che se ne dichiarano affetti, non si percepiscono compresi ed accettati dalla società: un paziente su cinque tra quelli che si rivolgono a un medico generico o a uno specialista continua a soffrire sintomi che non possono essere spiegati organicamente.

Le linee guida accreditate per il trattamento dell’elettrosensibilità raccomandano la Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC), come unico tentativo efficace per coloro che riferiscono ipersensibilità a campi elettromagnetici di debole entità. In particolare, si raccomanda un lavoro psicologico rivolto alla soluzione di problematiche quotidiane, evitando di focalizzarsi sulla loro origine. La TCC, infatti, si concentra sulla soluzione di una condizione problematica attraverso la modificazione di credenze erronee e disfunzionali su di sé; lo scopo è quello di rendere il paziente che si ritiene affetto da ES un agente attivo nel processo di costruzione del suo personale benessere, in un contesto esterno particolarmente gravoso e disagevole.

La tecnica del pomodoro: gestire in modo efficace il proprio tempo, vincendo la procrastinazione e aumentando la produttività

La tecnica del pomodoro insegna essenzialmente alle persone a focalizzarsi maggiormente sul compito, limitando il periodo di tempo delle interruzioni (e di fatto l’impegno nel mantenere a lungo la concentrazione), e garantendo interruzioni riparative allo sforzo.

 

Quante volte ci siamo detti o abbiamo sentito l’espressione “è una lotta contro il tempo”? Perché sì, il tempo è spesso visto come un nemico, un tiranno da cui difendersi, fonte di ansia a cui reagiamo con comportamenti inefficaci e procrastinazione.

Francesco Cirillo, offre una soluzione semplice e immediata per imparare a gestire efficacemente il tempo senza lasciarsi inghiottire dal suo inafferrabile divenire.

Nasce così la tecnica del pomodoro, descritta nell’omonimo libro (Cirillo, 2006).

La tecnica del pomodoro: origini e sviluppi

La tecnica del pomodoro nasce, agli inizi degli anni ‘90, dall’esigenza personale di Cirillo di migliorare l’organizzazione e la concentrazione nello studio, ai tempi dell’università.

Il nome deriva dal fatto che, per assumere a questa funzione, egli abbia utilizzato un tradizionale timer da cucina a forma di pomodoro.

Quella del pomodoro altro non è che un metodo di time management, consistente nel suddividere il lavoro in intervalli di 25 minuti, alternati da 5 minuti di pausa.

Ogni intervallo è chiamato “pomodoro”.

Tale tecnica insegna essenzialmente alle persone a focalizzarsi maggiormente sul compito, limitando il periodo di tempo (e di fatto l’impegno nel mantenere a lungo la concentrazione), e garantendo interruzioni riparative allo sforzo.

In seguito al successo riscontrato a livello personale, Cirillo ha perseguito nell’attuazione e perfezionamento della tecnica, rendendola pubblica.

Tale tecnica è infatti insegnata dal 1998 a singoli e dal 1999 a team.

Questo metodo, che si ispira alle idee del time boxing, si prefigge di contrastare due tendenze: la procrastinazione e il multitasking, in quanto, a dispetto di quanto spesso si creda, anche quest’ultimo può compromettere la produttività.

Una gestione efficace del tempo permette alle persone di fare di più e in meno tempo, promuovendo al contempo un senso di realizzazione e riducendo i rischi di un potenziale burnout.

L’obiettivo principale della tecnica del pomodoro è aiutare a sviluppare abitudini di lavoro efficienti, garantendo un miglioramento continuo.

Processo e metodo

Il processo alla base della tecnica del pomodoro è costituito da 6 fasi:

  • Definire le attività da svolgere durante la giornata
  • Eliminare le potenziali fonti di distrazione (email, chat, social media e qualsiasi cosa non pertinente al compito da eseguire)
  • Impostare il timer per 25 minuti no-stop di puro lavoro
  • Concentrarsi sul compito da eseguire finché il timer non squilli (completando il record di un pomodoro)
  • Fare una pausa di 3-5 minuti
  • Al termine di 4 pomodori completati, fare una pausa dai 15 ai 30 minuti

Tecnica del pomodoro come gestire in modo efficace il proprio tempo imm2

 

È importante sapere che l’unità atomica di tempo è un pomodoro. Esso infatti non è nè divisibile nè interrompibile, pertanto in caso di interruzione, l’intero intervallo sarà da considerarsi non valido.

In merito alle pause, è fondamentale staccarsi dal compito a tutti gli effetti; ne consegue che attività come leggere le email, discutere con un collega di lavoro o continuare a pensare a quello che si è fatto o non si è fatto nel precedente pomodoro, durante i 5 minuti di break, sono assolutamente sconsigliate.

Cirillo suggerisce piuttosto attività semplici e salutari come fare stretching, bere un bicchiere d’acqua, pensare alla meta del prossimo viaggio o all’imminente cena della sera, fare una chiacchierata con i colleghi etc.

Gestire “l’ansia da squillo” e invertire la dipendenza dal tempo

Il Pomodoro rappresenta una astrazione di tempo, una scatola capace di contenere e limitare il divenire e da cui il tempo finisce per dipendere. [..] Proprio rompendo e invertendo la dipendenza con il divenire che emerge una diversa visione del tempo.

Un effetto collaterale che può verificarsi, soprattutto nei primi tentativi di utilizzo della tecnica, è l’ansia dovuta al sentirsi sotto controllo da quel ticchettio che scandisce il tempo restante.

Tale vissuto si verifica più di frequente con le persone fortemente orientate ai risultati, dove la paura sottostante è quella di non mostrarsi efficaci come si vorrebbe, a sé stessi e agli altri, e per cui ogni ticchettio sembra svelare la propria incapacità. Eppure percepire quel “tic-tac” come un suono tranquillizzante è possibile.

Il primo passo è assumere che, con la tecnica del pomodoro, non è importante “sembrare veloci” ma “arrivare a essere veloci”, misurando sé stessi e il proprio modo di lavorare.

Per tale ragione, il primo obiettivo della tecnica è quello di segnare il numero di pomodori spesi per compiere un’attività. Raccogliere il dato e riportarlo, senza aspettative di risultato, senza giudizio. Il processo diventa: lavorare, misurare, osservarsi ed eventualmente migliorarsi, e così via.

È stimolando il valore della continuità, che si giunge alla produttività. Il ticchettio assume un suono diverso nel momento in cui si inverte la dipendenza dal tempo, il tic tac non è più una impellente esortazione a muoversi, bensì un invito a restare concentrati, a continuare. Ogni pomodoro è un’opportunità di miglioramento.

Il concetto di time-box abbinato a quello di tempo che scorre “al contrario” (da 25 minuti a 0), tipiche del pomodoro, generano una tensione positiva (eustress) che facilita il processo di decision-making e in generale lo slancio vitale necessario al contempo ad affermare sé stessi ed a realizzare attività.

Più il tempo passa e più la sensazione di ansia si reduce a favore di una maggiore consapevolezza e focalizzazione sul qui ed ora, con conseguente aumento di produttività.

Considerazioni finali

Trasversalità e semplicità della tecnica

La tecnica del pomodoro è stata applicata con successo in vari ambiti: pianificare il lavoro, scrivere libri, preparare rapporti tecnici, gestire incontri di lavoro, eventi di formazione etc.
Le uniche attività in cui la tecnica è sconsigliata riguardano quelle del tempo libero, in quanto l’applicazione renderebbe tali attività finalizzate e programmate.

Non resta che scegliere il giusto timer, meccanico o elettronico che sia, e iniziare!

Apprendimento

L’apprendimento della tecnica è immediato, con tempi che vanno dai 7 ai 20 giorni di applicazione costante per l’acquisizione completa.

I tempi di apprendimento si dilatano, invece, quando la tecnica viene applicata in team (per cui si rimanda al testo “Applicare la Tecnica del Pomodoro in Team”).

Il valore del distacco

Le numerose pause sono l’aspetto cruciale della tecnica del pomodoro, le quali favoriscono il funzionamento efficace e consapevole della propria mente, con relativo aumento della produttività.

Il distacco al termine dei 25 minuti, consente di vedere le cose in modo diverso, apportando soluzioni diverse e incrementando la creatività.

Tuttavia in molte realtà, le pause vengono spesso disincentivate, considerate fonte di distrazione o indice di debolezza, a favore di comportamenti “da duri” che non lasciano neanche per un secondo la loro postazione. In realtà questa modalità di accanimento non fa che generare frustrazione, poca lucidità e inefficienza sul lavoro.

Fermarsi, invece, permette di osservarsi dall’esterno, aumentando la consapevolezza di sé e di ciò che si sta facendo.

Il fermarsi diventa un punto di forza e non di debolezza, nella misura in cui il distacco sviluppa il valore della continuità. In un gioco di parole si potrebbe concludere che, per restare connessi, è fondamentale disconnettersi.

 

Assertività: come liberarsi dall’approvazione altrui e cominciare a vivere (2019) – Recensione del libro

Assertività: un argomento che affascina tanto i professionisti quanto i meno esperti del settore. Saper essere assertivi è infatti un passe-partout che ci aiuta nella vita di tutti i giorni, dal mondo del lavoro alle questioni di famiglia.

 

Ma è sempre così semplice riuscire ad essere assertivi? L’assertività è un atteggiamento mentale tipico di chi riconosce i propri diritti e i propri bisogni e li manifesta apertamente, senza bisogno di minimizzarli, pretenderli o manipolare gli altri per ottenerli.

Potremmo dire che alla base dell’assertività c’è il rispetto per gli altri ma soprattutto per se stessi.

Raggiungere tale atteggiamento mentale non è sempre impresa facile, spesso si tende a trincerarsi dietro ad altri atteggiamenti di sicuro meno funzionali e più problematici: la passività e l’aggressività.

La persona passiva si caratterizza per un eccessivo compiacimento degli altri che di frequente sfocia in sottomissione. Questo continuo compiacere porta la persona passiva a sacrificare se stessa, ad annullarsi in favore dei bisogni altrui. L’assetto cognitivo della persona passiva è costellato da credenze disfunzionali quali Non valgo nulla, Devo essere sempre rispettoso, Se farò di testa mia, non piacerò agli altri e nessuno mi vorrà bene.

Al contrario la persona aggressiva si mostra profondamente convinta che, per ottenere i propri bisogni, sia necessario utilizzare coercizione, aggressività e manipolazione. Le convinzioni disfunzionali tipiche delle persone aggressive sono Gli altri mi ostacolano, Nessuno ha il diritto di criticarmi o Ciò che voglio io è più importante di quel che vogliono gli altri.

Come liberarsi dunque da questi due tipi di atteggiamenti mentali disfunzionali e diventare più assertivi? La risposta ci viene data in Assertività: come liberarsi dell’approvazione altrui e cominciare a vivere un libricino di poche pagine, tutte da divorare in qualche ora, appartenente alla collana Libri in tasca della EPC Editore. Autrice del libro è la Dottoressa Teresa Montesarchio, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale.

Nelle 92 pagine del libro, l’autrice riesce a dare spazio a nozioni teoriche indispensabili per comprendere al meglio l’argomento. Leggiamo allora cos’è l’assertività, qual è il suo vero nemico e come la piramide di Maslow possa rivelarsi utile nel comprendere perché non riusciamo ad essere assertivi. Si passa poi a una disamina veloce ma dettagliata di assertività, passività e aggressività.

E non è tutto: il libro contiene anche una parte più pratica, che coinvolge il lettore con test ed esercizi per imparare ad essere più assertivi. Uno spazio in cui mettersi in gioco, in modo del tutto graduale: il lettore è invitato dapprima a riflettere su alcuni episodi in cui i protagonisti si sono mostrati poco assertivi, per essere poi guidato a riflettere su episodi personali. E così, tramite schemi e tabelle di facile compilazione, chi legge ha la possibilità di comprendere i motivi sottostanti al proprio atteggiamento poco assertivo e finalmente liberarsene. Non a caso Teresa Montesarchio intitola questo capitolo Sii artefice della tua rivoluzione personale.

Un manuale minuto, ben fatto e di piacevole lettura, utile a tutti, professionisti e non solo, indispensabile per coloro i quali, stanchi di accontentare gli altri, vogliono scoprire quanto sia gratificante dare voce ai propri bisogni.

Che dire? Un paio di miei amici hanno provato a soffiarmi il libro dalla scrivania, ho capito che dovevo custodirlo gelosamente e ho detto loro di acquistarne subito una copia…invito fatto, ovviamente, nel modo più assertivo possibile!

L’autoregolazione emotiva favorisce l’azione della sertralina

Oggigiorno, la depressione maggiore è probabilmente la condizione che accomuna molti individui sebbene in misura e frequenza diverse, sia che sopraggiunga in differenti periodi della nostra vita sia che si sviluppi per le più svariate ragioni o motivazioni.

 

 Cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia: l’antidepressivo è diventato un abitante diffuso di comodini o cassetti dei medicinali.

Nonostante questa comune presenza nelle nostre abitazioni, una recente meta-analisi di Cipriani e colleghi (2018), pubblicata sulla prestigiosa rivista Lancet, ha sottolineato come il vantaggio nell’utilizzo di tale tipologia di psicofarmaci, rispetto ad un placebo, sia risultato clinicamente significativo nella riduzione della sintomatologia solo per un ristretto numero di individui affetti da depressione maggiore severa, suggerendo come in alcune circostanze gli antidepressivi non siano vantaggiosi per il trattamento di questo disturbo (Cipriani, Furukawa, Atkinson et al., 2018).

La spiegazione di tale esito nella risposta individuale al farmaco potrebbe risiedere in due ragioni alternative: la prima più legata alle differenze interindividuali, in particolare all’eterogeneità neurobiologica inerente alla diagnosi di depressione, per cui la molecola antidepressiva funzionerebbe per alcuni ma non per tutti, oppure, ponendoci da un’altra prospettiva, questa risulterebbe particolarmente efficace rispetto ad un placebo in individui con uno specifico fenotipo neurobiologico (Kraemer, 2016).

Se ciò risultasse confermato, diventerebbe necessario identificare delle misure oggettive-biologiche che possano costituire una guida affidabile per la ricerca di specifici moderatori che possano indicare sotto quali condizioni l’antidepressivo si possa dimostrare clinicamente superiore al placebo, come primo passo verso una personalizzazione del trattamento farmacologico nell’ambito della psicopatologia e verso una comunione tra intervento clinico e approccio neuroscientifico.

Partendo da questi assunti, Fonzo, Etkin, Zhang, e Wu del dipartimento di Psichiatria e Scienze Comportamentali dell’Università di Stanford, in associazione con il dipartimento di Psichiatria del Massachussetts General Hospital di Boston, hanno tentato di comprendere se la reazione, o meglio la regolazione di conflitti emotivi a livello neurale – funzione risultata cruciale per il disturbo depressivo – potesse elicitare altri meccanismi cerebrali che, in modo differenziato, potessero predire l’outcome di un trattamento farmacologico in un gruppo ricevente un antidepressivo, confrontato con un placebo.

Può una buona capacità cerebrale di reazione e di regolazione di stimoli che sollecitano un conflitto emotivo costituire un moderatore clinico nel discriminare la probabilità di un’efficacia maggiore dell’antidepressivo sul placebo?

E di conseguenza, può uno specifico pattern di attivazione cerebrale legato a queste funzioni fungere da biomarker predittivo?

Con il fine di rispondere a queste domande, gli autori, in un recente studio pubblicato su Nature Human Behaviour, hanno condotto un trial clinico controllato e randomizzato confrontando dati di risonanza magnetica funzionale di 309 individui affetti da depressione maggiore, non trattata farmacologicamente, assegnandoli sia alla condizione di somministrazione di sertralina che alla condizione placebo per 8 settimane (Fonzo, Etkin, Zhang, Wu et al., 2019).

Uno studio precedente di Etkin e Kandel (2006), pubblicato su Neuron, aveva mostrato come l’attivazione di uno specifico circuito cerebrale situato a livello del cingolo anteriore nella porzione rostrale, della corteccia prefrontale dorso laterale e ventrolaterale e dell’insula anteriore, fosse apparso determinante nella regolazione a livello cerebrale dei conflitti emotivi e nella manifestazione di comportamenti associati ad essa.

Infatti, un’alterazione a livello di questo circuito è risultata essere un fattore di mantenimento rilevante sia per la depressione maggiore che per altri disturbi psicologici caratterizzati da una ridotta capacità di regolazione a fronte di stimoli emotivamente salienti, quali l’ansia generalizzata, il disturbo bipolare e il disturbo di panico (Etkin, Egner, Kandel et al., 2006).

Oltre a ciò, Widge e colleghi (2017) avevano ipotizzato che questo stesso circuito potesse avere una diretta rilevanza per l’efficacia di alcune tipologie di antidepressivi.

Tenendo presente questi dati, l’intento di Fonzo, Etkin, Zhang, Wu e colleghi è stato quello di investigare se una variazione nelle risposte a seguito della somministrazione di sertralina rispetto al placebo in un gruppo di pazienti con depressione, potesse essere associata ai pattern di attivazione del circuito sopra descritto, producendo così una mancata regolazione e gestione di una situazione di conflitto emotivo. Il tutto per investigare l’ipotesi per la quale il grado di funzionamento o non funzionamento di questo circuito possa rappresentare un biomarker o un fattore moderatore del successo o dell’insuccesso dell’antidepressivo sulla patologia.

 Per la valutazione della capacità di regolazione e gestione del conflitto emotivo è stato utilizzato un compito nel quale per ogni trial ai soggetti veniva presentato come stimolo un volto emotigeno con un’espressione di gioia o paura, associato ad una parola (PAURA o GIOIA).

Nel compito gli stimoli presentati potevano essere congruenti, ovvero il volto emotigeno di felicità poteva essere associato alla parola che ne rappresentava l’emozione GIOIA oppure poteva legarsi alla parola opposta costituendo un’incongruenza, un conflitto tra volto e parola (espressione felice-PAURA).

I partecipanti erano stati istruiti ad identificare accuratamente e nel minor tempo possibile l’emozione incarnata dall’espressione del volto emotigeno premendo un pulsante, tentando di ignorare di volta in volta l’aggettivo che ne descriveva l’emozione.

Per poter essere portato a termine, il compito, svolto mentre i soggetti erano nello scanner della risonanza magnetica, avrebbe richiesto la risoluzione del conflitto tra volto emotigeno e parola associata incongruente.

Attraverso la rilevazione e misurazione dei tempi di reazione dei soggetti agli stimoli in associazione alle immagini di fMRI, i ricercatori hanno potuto osservare il processo per il quale il circuito sopra descritto si attivava incrementando la risposta di fronte al conflitto emotivo presentato favorendo la risoluzione del compito trial dopo trial.

Nonostante il conflitto emotivo si manifestasse in un aumento dei tempi di reazione per i trial incongruenti rispetto a quelli congruenti, progressivamente quest’effetto avrebbe dovuto essere mitigato trial dopo trial a seguito dell’attivazione del circuito.

Dopo aver sottoposto i soggetti con depressione al compito, i risultati ottenuti hanno evidenziato una robusta attività del circuito durante la risoluzione e regolazione del conflitto emotivo, coerentemente con quanto già descritto da Etkin e Kandel (2006), dimostrando la capacità del compito di elicitare l’attivazione di quello specifico network allo stesso modo in un gruppo clinico.

Successivamente, i ricercatori hanno analizzato relative attivazioni del circuito nei trial congruenti vs incongruenti confrontando le immagini dei soggetti a cui era stata somministrata sertralina con quelli che avevano ricevuto il placebo per investigare come questa relazione tra risoluzione del conflitto emotivo, evidenziata dall’attivazione del circuito, si potesse manifestare differentemente nei due sottogruppi (sertralina vs placebo).

In modo interessante, nel gruppo sertralina si è osservata una riduzione dell’attivazione cerebrale a livello dell’insula anteriore e del cingolo dorsale, diversamente da quanto mostrato dalla letteratura precedente in merito, associata ad una corrispondete riduzione della sintomatologia depressiva e a performance migliori nel compito di conflitto emotivo rispetto al gruppo placebo.

Nonostante si sia evidenziata una riduzione nell’attivazione del circuito, tale dato suggerisce che il suo coinvolgimento durante la risoluzione del compito di regolazione adattiva del conflitto sia risultata significativa nella condizione “sertralina” versus “placebo”, a supporto dell’ipotesi per la quale esso potesse rappresentare un moderatore, un meccanismo facilitatore per l’efficacia dell’antidepressivo rispetto al placebo nella riduzione sintomatologica (Fonzo, Etkin, Zhang, Wu et al., 2019).

I risultati ottenuti delineano un panorama leggermente diverso da quello prospettato in precedenza. Innanzitutto l’aspetto rilevante per la mediazione della regolazione del conflitto emotivo e per la discriminazione delle risposte tra gruppo “sertralina” versus “placebo” non risiederebbe nell’attivazione del circuito – che rimane preservato negli individui con depressione – bensì nella riduzione della sua attività diversamente dalle evidenze precedenti e in secondo luogo è stata sfatata l’idea per la quale gli antidepressivi in realtà risultano globalmente inefficaci.

Infatti, le evidenze fornite da questo studio sottolineano come l’eterogeneità riscontrata negli esiti di successo dei farmaci antidepressivi in realtà fosse il riflesso di una difficoltà sottostante nella comprensione degli esatti meccanismi neurobiologici della depressione maggiore e non una problematica del farmaco in sé.

I risultati ottenuti hanno un forte impatto all’interno dell’ambito del trattamento clinico della depressione in quando è apparso evidente come il successo dell’efficacia della sertralina sia significativamente influenzato dalle differenze neurobiologiche interindividuali, risultate predittive di un miglior esito nel compito di regolazione e nella riduzione sintomatologica.

Se ne delinea di conseguenza uno stimolante scenario in cui potrebbe essere possibile convertire un individuo depresso non rispondente alla sertralina in uno rispondente agendo sulla capacità cerebrale di regolazione del conflitto emotivo tramite nuovi trattamenti di stimolazione cerebrale o di tipo psicoterapici sfruttando la straordinaria potenzialità del network coinvolto di adattarsi e modificarsi in modo plastico.

 

Le nuove linee guida diagnostiche OMS non definiscono più la non-conformità di genere come un disturbo mentale. Aspetti psicologici e normativi

Dall’ultimo aggiornamento dell’International Classification of Diseases (ICD-11) l’incongruenza di genere è stata rimossa dalla categoria dei disordini mentali per essere inserita in un nuovo capitolo, quello delle condizioni di salute sessuale.

Stefano Giudici, Ilaria Bagnulo, Alessandro Toccafondi, Marco Tanini

 

Nell’ultima Assemblea Generale a Ginevra, la World Health Assembly, l’organo direttivo dell’OMS l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che rappresenta i 194 stati membri, ha aggiornato l’International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (la cui sigla è ICD-11) decidendo che la transessualità non è più classificata dall’OMS come malattia mentale. L’incongruenza di genere è stata rimossa dalla categoria dei ‘disordini mentali’ dell’International Classification of Diseases per essere inserita in un nuovo capitolo delle ‘condizioni di salute sessuale’.

La scelta dell’OMS di lasciare comunque una descrizione della condizione di transessualità all’interno dell’ICD-11 è dovuta al considerevole bisogno di salute che le persone transgender possono avere, con questa modifica si è voluto far risaltare che la condizione di transessualità non può considerarsi una malattia mentale.

Il genere: tra pregiudizi e false credenze

Si intende identità di genere la proiezione del proprio essere che l’individuo ha verso il genere maschile piuttosto che verso quello femminile, si definisce genere sessuale il sesso fenotipico presente alla nascita, si definisce sesso genetico il sesso espresso a livello cromosomico, si definisce infine orientamento sessuale la pulsione verso un genere o entrambi i generi che il soggetto avverte. Il Disturbo da Identità di Genere è qualcosa di ampiamente studiato, costituisce un vero e proprio malessere psichico del soggetto. Non deve essere considerato una perversione o un’espressione di patologie genetiche o ormonali.

I motivi della scelta dell’OMS

Lo spostamento della Disforia di Genere dall’elenco dei disordini mentali alla tematica della salute sessuale ha lo scopo di eliminare lo stigma che grava su queste persone e di agevolare la possibilità di autodeterminazione ad esempio sulla scelta del nome da usare, situazione che, ad oggi, in molti stati, è ancora legata alla necessità di ottenere certificazioni di tipo sanitario. Contemporaneamente il mantenimento della Disforia di Genere nell’ICD-11 è teso ad assicurare le cure, psicologiche, ormonali e chirurgiche che possono essere indicate per gli individui con disforia di genere.

Il DSM curato dall’APA (American Psychiatric Association), aveva rimosso dalle malattie mentali il Disturbo dell’Identità di Genere già nel 2012 per includere invece proprio la Disforia di Genere, definita però come il disagio provato da una persona rispetto al sentimento di mancata corrispondenza tra il proprio genere percepito e quello assegnato.

La norma in Italia

La legge del 14 aprile 1982, n. 164, recante la disciplina per la rettificazione dell’attribuzione di sesso, ha costituito, per il diritto italiano, un esempio positivo di integrazione e di rispetto per la salute psicofisica. Già nel 1985 tale legge fu oggetto di ricorso alla Corte Costituzionale presunta incostituzionalità di questa norma. Con la sentenza del 6 maggio 1985, n. 161, la Corte costituzionale giudicò infondata la presunta incostituzionalità stabilendo che tale norma “si colloca nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale”. Il principio sancito dalla Corte Costituzione è quello, in base all’ articolo 32 della Costituzione, di dichiarare legittimi gli interventi  di riattribuzione  dei caratteri sessuali secondo i principi di autodeterminazione e di tutela universale della salute.

Per quanto attiene alla rettificazione dei dati anagrafici (nome), la norma stabilisce che questa possa essere attuata attraverso sentenza del tribunale passata in giudicato. Con questo atto è possibile attribuire, ad una persona, un nome diverso da quello trascritto nell’atto di nascita. Tale sentenza non ha effetti retroattivi (il nome resta tale fino alla pronuncia della sentenza) e provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso.

La legge sulle unioni civili (c.d. legge Cirinnà, n. 76/2016), al comma 27 dell’art. 1, ha stabilito che “alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.

L’iter di cambiamento

Quello che è conosciuto come “transizione” è un percorso molto lungo e costoso per l’individuo che decide di intraprendere questo “viaggio”. In Italia la legge 164/82 regolamenta i vari passaggi di questo cambiamento. Sono identificati una serie di punti fondamentali che la persona deve toccare per poter raggiungere lo status definitivo dell’altro sesso.

Il primo passo è sicuramente la consapevolizzazione del disagio che viene provato verso il proprio corpo e con il ruolo che viene ricoperto nella società.

In secondo luogo, dopo che l’individuo ha concretato l’idea sul proprio sesso e conseguenti dubbi a riguardo, si ha l’approccio della persona con professionisti. L’invio agli specialisti, che possono essere di stampo medico o psicologico, può avvenire direttamente o tramite associazioni che accompagnano l’individuo in questo percorso.

Il terzo step riguarda i colloqui psicologici volti in primis alla diagnosi di Disforia di Genere e quindi alla formalizzazione della condizione dell’individuo. Successivamente hanno un ruolo di supporto alla terapia durante tutto il percorso di transizione. Questa serie d’incontri psicologici è molto importante per il benessere dell’individuo, sia per quanto riguarda l’accettazione della propria condizione sia per la comprensione della sua situazione da parte delle persone a lui/lei vicine; o anche solo più semplicemente per sostenere la persona durante aspetti difficili della transizione.

La terapia ormonale è indubbiamente uno dei passaggi più conosciuti quando si parla di transizione, può essere intrapresa solo dopo aver iniziato un percorso psicologico e consiste nell’immettere nella circolazione sanguigna degli ormoni che hanno la caratteristica di provocare un’involuzione delle caratteristiche del sesso biologico di appartenenza e un’evoluzione delle strutture coerenti con l’identità psichica. Quindi femminilizzare o mascolinizzare quelle parti del corpo caratteristiche di un sesso specifico. Inoltre, ha la funzione di inibire le funzioni del sesso d’origine come erezione nell’uomo o ciclo mestruale nella donna. La terapia ormonale è una componente che accompagnerà per tutta la vita l’individuo, questo perché è necessario, anche dopo la conversione chirurgica, un livello di ormoni, estrogeni o androgeni, che solo la terapia farmacologica ha la capacità di sostenere.

Quasi parallelamente alla terapia ormonale, e sempre affiancato da un terapeuta, l’individuo può cominciare a sperimentarsi nel quotidiano, iniziando a vivere situazioni sociali, immedesimandosi nel sesso opposto. Questa sperimentazione iniziale è anche detta RLT Real Life Test, ovvero test di vita reale dove appunto la persona può approcciarsi e interfacciarsi al mondo con il sesso a cui si sente di appartenere. Un aspetto di questo tipo è molto saliente per l’individuo perché è utile per comprendere appieno la scelta che sta intraprendendo.

L’aspetto interessante è che la modificazione del sesso di una persona ne va a toccare tutti gli aspetti: sociali, psicologici, medici e anche legali. Gli aspetti legali riguardano e regolamentano aspetti più tecnici legati alla ri-attribuzione chirurgica del sesso (RCS) o Sex Reassignment Surgery (SRS), la quale deve essere autorizzata esclusivamente attraverso una sentenza da parte del giudice, poiché comporta l’asportazione degli organi riproduttivi che, in assenza di patologie organiche che la giustifichino, il medico non può in nessun modo svolgere poiché lesiva dell’integrità della persona. Quindi la sentenza verrà stilata dal giudice a seguito di perizie e relazioni da parte di consulenti tecnici d’ufficio CTU nominati dal giudice e/o da consulenti tecnici di parte CTP nominati dalla persona interessata. È interessante notare gli sviluppi anche dal punto di vista legale avvenuti in questi ultimi anni laddove per ottenere la rettificazione dell’attribuzione di sesso nei registri dello stato civile non sia più obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari. Quindi la rettifica dei dati anagrafici e la correzione di tutti i documenti che ne conseguono quali: patente, licenze, titoli di studio, depositi bancari, bollette, atti di proprietà… non è più legata alla modificazione chirurgica (Sentenza n.180 del 2017).

Tuttavia alcune persone desiderano intraprendere anche il percorso di RCS (Riconversione Chirurgica di Sesso) quindi dopo aver ottenuto l’autorizzazione all’intervento, il soggetto può affidarsi ai centri chirurgici specializzati per queste tipologie di operazioni. L’operazione di vaginoplastica o di falloplastica possono essere svolte sia privatamente sia nel pubblico poiché l’intera operazione di RCS è coperta dal SSN (Sistema Sanitario Nazionale). Sono invece escluse le operazioni che riguardano migliorie estetiche che esulano i caratteri sessuali secondari extragenitali.

A questo punto il percorso sembrerebbe finito tuttavia la persona si trova a dover affrontare il mondo con un aspetto ed una consapevolezza nuova e non sempre è una condizione priva di problematiche, per questo è importante considerare il delicato aspetto del reinserimento sociale, relazionale, lavorativo o scolastico. L’individuo va accompagnato nella creazione di una nuova routine quotidiana, nella creazione di nuovi progetti e nella sua autoaffermazione come persona.

L’ultimo aspetto da considerare è il follow up, una serie d’incontri a lungo termine mirati al monitoraggio delle condizioni sociali e personali del soggetto. Questi momenti sono utili sia per la persona stessa che potrebbe affrontare momenti di disagio nell’arco della vita e quindi potrebbe necessitare di un supporto, sia come raccolta di dati ed esperienze finalizzati al miglioramento del percorso per le persone che affronteranno questo iter negli anni avvenire. Ovviamente oltre ad un follow up più psicologico è importante anche un follow up di tipo medico/endocrinologico finalizzato alla valutazione della componente ormonale somministrata che andrebbe controllata costantemente per tutto l’arco di vita.

 

L’amore ai tempi di Sh.rek (2019): il coraggio di riscoprire la nostra vera identità – Recensione del film

L’amore ai tempi di Sh.Rek – Può accadere così, all’improvviso, in un giorno qualunque, di ritrovarsi nelle tasche il coraggio di uscire dalla zona confort e fare delle scelte. Anzi, il coraggio di fare LA scelta. Quale? (Ri) scoprire la nostra vera identità.

 

E può accadere a tutti, sia chiaro, nessuno escluso. Ma non sarà un viaggio facile perché ci costringerà a spogliarci delle nostre armature, a specchiarci l’anima in un lago trasparente e chiederci: chi siamo veramente? La nostra vita è davvero nostra o è una specie di copione che recitiamo per non deludere nessuno, noi compresi? Beh, conoscere la risposta non sarà sempre piacevole. Si, perché potremmo imbatterci in aspetti del nostro io che non siamo pronti ad accettare né a cambiare. Ma, arrivati a quel punto, saremo già oltre il confine del ritorno. Saremo già consapevoli di non poter riavvolgere il nastro e riprendere, come se nulla fosse, quella quotidianità che ci proteggeva. E allora, non resterà che liberarci della coperta di Linus e imparare a danzare all’inaspettato ritmo della verità. Un ritmo folle che potrà farci perdere affetti e certezze ma che, in cambio, ci restituirà la nostra dimensione. È questo il senso di un film che – con ironia ben condita dalla giusta dose di introspezione e magistrali colpi di scena – punta a far riflettere sulle dinamiche psichiche che, troppo spesso, ci sequestrano in una cosciente prigione di sensi. Paura di affrontare il futuro? Non solo. Paura della libertà. Del resto, apre la voce narrante leggendo Fromm:

l’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano rischi.

Si tratta di L’amore ai tempi di Sh.Rek, scritto da Andrea Cacciavillani e Tonino di Ciocco (coautori di Oltre la linea gialla, lungometraggio che ha incassato riconoscimenti in festival di tutto il mondo) con Alessandro Derviso, regista dell’opera. Prodotto da Moscacieca produzioni srls. Nel cast, anche Carola Stagnaro.

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L'amore ai tempi di Sh.rek - recensione del film immagine 1

ALESSANDRO DERVISIO – REGISTA

L'amore ai tempi di Sh.rek - recensione del film immagine 2

ANDREA CACCIAVILLANI – SCENEGGIATORE

L'amore ai tempi di Sh.rek - recensione del film immagine 3

TONINO DI CIOCCO – SCENEGGIATORE

Il film, commedia brillante che ha raccolto l’entusiasmo del pubblico e della critica di settore e che è stato ospitato da Gigi Marzullo a Cinematografo, si snoda sul percorso che tre coppie – seguite da un noto psicoterapeuta – decidono di intraprendere per salvarsi dalla routine che le sta lentamente uccidendo: la terapia Sh.Rek.

Un innovativo esperimento a più step: Consapevolezza / Sofferenza / Identità. I segnali del corpo, spiega lo psicoterapeuta interpretato da Adolfo Margiotta, possono essere campanelli di allarme, sintomi di una sofferenza che ci aiuta a capire i pericoli che stiamo soffrendo. E allora, prosegue, cosa manca per arrivare alla nostra identità? La risposta è: reazione. Conoscere cosa ci fa soffrire ci può permettere di evitarlo solo se riusciremo a reagire. Così, disegneremo la nostra identità. La Sh.Rek – che non ha come obiettivo quello di evitare le discussioni, ma di favorire il confronto – coinvolgerà e sconvolgerà ciascun partner fino a condurlo, appunto, sul ciglio della sua vera identità. E non è scontato che questa nuova (o meglio svelata) identità sarà ancora il tassello perfetto per proseguire la vita di coppia messa, inevitabilmente, in discussione. Dividersi? Ritrovare l’equilibrio? Fuggire? Chissà quale sarà l’effetto dell’esperimento sulle coppie in gioco?

Una cosa è certa: il film va visto per la capacità di far riflettere sulle apparenze ingannevoli (non a caso si ispira a Shrek, creatura orribile ma estremamente buona) non tanto dell’essere umano ma della nostra identità, tanto intima quanto estranea e sconosciuta persino a noi stessi. Ma L’amore ai tempi di Sh.Rek ci insegna anche che siamo ancora in tempo, tutti, per esplorarci, guardare negli occhi e sconfiggere i mostri che ci hanno impedito di crescere, decidere, vivere, amarci. I mostri che ci hanno impedito di salvarci. Perché, così chiude il film:

chi salva se stesso, salva il mondo intero.

 

L’AMORE AI TEMPI DI SH.REK – GUARDA IL TRAILER

 

Maggiore senso di benessere negli anziani che si mantengono sessualmente attivi

L’attività sessuale è una componente centrale delle relazioni intime, ma tende a essere meno praticata con l’avanzare dell’età. Tuttavia, i benefici di questa attività potrebbero risultare particolarmente importanti per questa fascia della popolazione.

 

 L’attività sessuale è una componente centrale delle relazioni intime, ma tende a essere meno praticata con l’avanzare dell’età. Uno studio inglese ha evidenziato come si assista a un decremento significativo dell’attività sessuale tra i 50-59 anni e gli 80 anni e oltre, sia negli uomini (dal 94.1% al 31.1%) che nelle donne (dal 53.7% al 14.2%; Lee et al.). La pratica frequente di rapporti sessuali, ovvero superiore alle due volte al mese, è risultata associata a diversi benefici per il benessere fisiologico e psicologico e una vita sessuale positiva (da intendersi come frequente per gli uomini e soddisfacente per le donne) è risultata associata a un tasso minore di mortalità prematura.

Nella popolazione anziana, nonostante la presenza di un calo rispetto alla frequenza, l’interesse per l’attività sessuale è ancora presente. Inoltre, i benefici dell’attività sessuale potrebbero risultare di particolare importanza per questa fascia della popolazione, in quanto più soggetta a complicazioni di salute fisica e mentale dovute all’avanzare dell’età che hanno un impatto negativo sul suo benessere.

In uno studio recentemente pubblicato su Sexual Medicine, Smith e colleghi (2019) hanno esaminato la possibile associazione tra attività sessuale e esperienza di benessere, intesa come benessere psicologico, felicità e ottimismo, in un ampio campione di anziani in Inghilterra. I dati dello studio sono stati estratti dall’English Longitudinal Study of Ageing (ELSA), uno studio longitudinale condotto su uomini e donne di età superiore ai 50 anni, volto alla comprensione del processo di invecchiamento. I partecipanti hanno compilato una serie di questionari tramite computer riguardanti tematiche differenti, tra cui lo SRA-Q (Sexual Relationships and Activities Questionnaire), utilizzato per la valutazione di molteplici aspetti della sessualità, tra cui frequenza dell’attività sessuale (rapporti sessuali, masturbazione, petting, baci e carezze), problematiche rispetto al funzionamento sessuale, preoccupazione e soddisfazione sessuale, e il CAPS-19 (Control, Autonomy, Self-Realization and Pleasure), utilizzato per valutare, tra le altre cose, l’esperienza di benessere. Infine, sono stati presi in esame fattori potenzialmente confondenti, quali la presenza di malattie croniche, lo stato di fumatore e la frequenza di assunzione di alcolici. Sono stati inclusi nello studio un totale di 3045 uomini e di 3834 donne con un’età compresa tra i 50 e gli 89 anni, la maggior parte dei quali risultava sposata o convivente (74% degli uomini e 60% delle donne).

Al termine dello studio è stato evidenziato che gli uomini e le donne che erano stati sessualmente attivi nel corso dell’ultimo anno riportavano un maggiore senso di benessere e di piacere per la vita rispetto a coloro che non lo erano stati. E’ stato inoltre messo in luce che, tra coloro che erano stati sessualmente attivi, una maggiore frequenza di petting, baci e carezze risultava associata a un maggiore benessere in entrambi i generi, mentre una maggiore frequenza nei rapporti sessuali risultava associata a maggiore benessere solo negli uomini. La sensazione di vicinanza emotiva al partner durante l’amplesso è risultata associata ad un maggiore piacere per la vita in entrambi i generi, mentre coloro che hanno riportato preoccupazioni o problemi rispetto al proprio funzionamento sessuale hanno riportato anche una minore esperienza di benessere. Infine, è stato messo in luce che gli uomini soddisfatti della propria vita sessuale hanno riportato una maggiore esperienza di benessere, ma tale associazione non ha trovato conferma per le donne.

I risultati emersi dallo studio di Smith e colleghi (2019) supportano l’ipotesi secondo cui un’attività sessuale positiva risulta associata a una maggiore esperienza di benessere. Tale associazione può essere spiegata da processi differenti: è stato infatti evidenziato che la pratica di attività sessuale risulta associata a un migliore stato di salute e, quindi, a un maggiore benessere. In secondo luogo, l’attività sessuale porta a un rilascio di endorfine, il quale porta a sua volta a un senso di euforia e beatitudine in seguito all’amplesso. Inoltre, coloro che hanno rapporti sessuali con il proprio partner sviluppano una maggiore vicinanza emotiva, fattore di per sé associato a un’esperienza di benessere. Infine, l’attività sessuale può essere vista anche come una forma di esercizio fisico, il quale ha notoriamente effetti benefici sul benessere fisico e psicologico.

Nonostante la presenza di un’associazione tra attività sessuale positiva e esperienza di benessere sia presente in entrambi i sessi, molti aspetti della sessualità sono risultati più fortemente associati a benessere negli uomini piuttosto che nelle donne. Questo può essere imputato alla presenza di differenze nell’ambito della sessualità tra uomini e donne: infatti se per i primi la frequenza dei rapporti sessuali ricopre maggiore importanza, per le seconde le componenti della sessualità legate a intimità e tenerezza risultano più determinanti per il senso di benessere percepito.

L’influenza negativa sul benessere esercitata dalla presenza di preoccupazioni o problemi rispetto al funzionamento sessuale in questa popolazione dovrebbe portare coloro che si occupano della salute fisica e mentale degli anziani a superare il preconcetto secondo il quale in questa fase della vita l’interesse per l’attività sessuale risulti assente. Incoraggiare una discussione sui benefici dell’attività sessuale anche durante l’invecchiamento può aiutare questa popolazione a superare norme preconcette e aspettative rispetto alla natura della sessualità in età avanzata, portandoli, tramite la sperimentazione di tipologie differenti di attività sessuale, a un maggiore senso di benessere.

 

Quando è la dipendenza a farci sentire vivi: disturbo dipendente di personalità tra stati mentali e strategie di coping 

Il nucleo del disturbo dipendente di personalità (DDP) non è tanto la dipendenza e la rinuncia, né la continua richiesta di aiuto o di rassicurazione verso un altro percepito come competente e protettivo, quanto la paura dell’abbandono e della solitudine, la sofferenza che si cela dietro il percepirsi incapaci ed inetti, che si esprime attraverso strategie di coping comportamentali come la sottomissione e la dipendenza.  

 

Incontro R., 34 anni, chiede una terapia perché soffre terribilmente nella relazione con un compagno che non riesce a lasciare.

Mi porta rapidamente su delle scene e ripenso a M., che seguo già da qualche mese. In prima seduta mi riportò un dolore simile che l’aveva letteralmente allontanata da una vita libera ed autonoma. Poi penso a L., anche lui non riusciva a dare una direzione alla sua vita, oscillando sempre tra il desiderio di sentirsi autonomo ed il dolore legato alla sottomissione. Allora riprendo lo schema di concettualizzazione di questi pazienti e di un altro paio con la stessa diagnosi e noto delle cose in comune. Risaltano immagini del sé e strategie di coping simili. Rivedo, scritte più volte, le parole inadeguato e accondiscendenza, rinuncia. Tra le emozioni ritorna tristezza, senso di colparabbia. Wish: autonomia. Diagnosi: disturbo dipendente di personalità. Poi ripenso a tutte le volte che mentre faccio shopping trovo donne che chiedono ai fidanzati o alle amiche pareri sull’altezza del tacco, sulla tonalità dell’abito, sulla lunghezza della gonna. Verde tiffany corto o rosa corallo lungo? Le vedo essere molto attente alle parole ma, ancor prima, a tutto quello che di non verbale possa esserci in quel momento: mini espressioni di disappunto, disprezzo, dissenso che anticipano la rinuncia. Nessuna scarpa né abito. Immagino che nella mente di turno ci sia qualcosa del tipo a me piace il verde ma se lui non la pensa come me io non posso comprarlo. Potrei ferirlo, mi sentirei in colpa. Allora meglio che mi adeguo o che rinuncio. Sarebbe intollerante la disapprovazione. Ma davvero non riesco a scegliere da sola? Sono proprio una incapace!!. Credo che sia capitato a tutti noi, almeno una volta, di cercare un parere ed un confronto e, certamente, qualche volta abbiamo direzionato le nostre scelte, facendoci influenzare. Niente di male, è un meccanismo comune, ma diventa disfunzionale quando è ipertrofico e si accompagna a dinamiche interpersonali problematiche.

Un sabato al mare scopro che il P., un ragazzino di 12 anni, rinuncia a mangiare il gelato perché la frutta è più sana, fai contenta la mamma. Con un’espressione di tristezza sul volto, si allontana dal tabellone con i must dell’estate 2019 inforchettando la pesca amorevolmente tagliata a cubetti. Mi chiedo se, allora, alcune rinunce o alcuni processi di scelta non vengano letteralmente preparati durante la nostra storia di vita a partire da interazioni con adulti di riferimento in cui la libertà di azione viene limitata di fronte a frasi del tipo …fallo per me, …se fai così noi soffriamo, …ascolta me che è meglio….

A questo punto faccio mente locale. In Disturbi di personalità. Modelli e trattamento (Semerari e Dimaggio, 2006) vi è una parte dedicata al disturbo dipendente di personalità molto dettagliata che spiega la dinamica del disturbo e come esso si esplica chiaramente nella rinuncia ai propri desideri, interessi, svaghi in nome dell’altro. Ricordo che avevo evidenziato più e più volte la frase …è la dipendenza che fa sentire il soggetto vivo (Dimaggio e Semerari, 2006; pag. 278) ed avevo fin da subito intuito che anche questa volta bisognava ragionare in termini di stati mentali. Infatti il nucleo del DDP non è tanto la dipendenza e la rinuncia né la continua richiesta di aiuto o di rassicurazione verso un altro che è percepito come competente e protettivo (aspetti relazionali) quanto nella paura dell’abbandono, della solitudine, nella sofferenza che si cela dietro il percepirsi incapaci ed inetti (aspetti intrapsichici) che si esprime attraverso un comportamento o, meglio ancora, attraverso strategie di coping comportamentali come la sottomissione e la dipendenza che svolgono, paradossalmente ed egregiamente, il loro compito adattivo (Dimaggio et al., 2019): tenere a bada il senso di incapacità ed incompetenza e le emozioni negative che seguono.

Uno stato mentale problematico vicino a quello dell’autoefficacia legato alla dipendenza è quello dell’overwhelming. Il principio è che per non deludere nessuno, per garantirsi la vicinanza, bisogna inseguire diversi scopi in base all’altro, senza poter stabilire priorità. Bisogna accontentare tutti, magari anche in cose diverse, con la conseguenza di sentirsi sovraccaricati e confusi se questi scopi sono molto diversi tra loro. Da questo sovraccarico si ottiene una rappresentazione di sé ugualmente negativa. Ecco che allora emerge la rabbia: è l’emozione che indica lo stato di coercizione e di ribellione, di ingiustizia subita. Se il paziente sente di dover dare sempre la priorità agli scopi ed ai desideri altrui non accederà mai ai propri. Questo non vuol dire che non ci sono più, ma che sono inaccessibili. Raramente si accede allo stato di autoefficacia perché contemporaneamente ogni azione porta con sé senso di colpa, paura di deludere l’altro, timore dell’abbandono e necessità di riparare in qualche modo.

La terapia metacognitiva interpersonale (Dimaggio et al., 2019), quindi, ha come obiettivo quello di fare agire il paziente in direzione dell’autonomia, perseguendo il wish di esplorazione e favorendo la percezione di se stessi come entità autonome, pensanti, capaci, autodeterminanti, svincolandosi dai cicli interpersonali da cui il soggetto dipendente ne esce in ogni caso sconfitto. Infatti il sé oscilla tra il rappresentarsi competente e fragile, incapace e forte. Insomma, immagine positiva e negativa danzano disarmonicamente assieme portando con sé emozioni contrastanti e stati mentali di abbandono, solitudine, vuoto e, raramente, di possibilità di azione autonoma. La sensazione di sé stessi come forti e competenti è debole e soccombe di fronte ad un altro percepito come potente e forte. Essere presenti nella mente altrui fa sentire il proprio valore e, per garantirsi questo, aderire all’altro in ogni cosa è la strategia più semplice e veloce. Il paziente dipendente annulla la propria autonomia e le proprie scelte per garantirsi quel posticino mentale. La dipendenza è il mezzo ed entra, di diritto, nella categoria delle strategie egosintoniche.

Notiamo, quindi, che il nucleo del disturbo dipendente di personalità è l’incapacità di accedere ai propri desideri e scopi ed ovviamente ai piani per raggiungerli privi di un contesto interpersonale equilibrato. Solo attraverso l’altro si riesce a dare una organizzazione alla propria mente (in questo è evidente la disfunzione metacognitiva). La TMI accompagna il paziente nella lettura della sua dinamica interna, del cammino verso l’autonomia e nella regolazione efficace degli stati mentali problematici, dando luce alla disfunzionalità dietro le strategie di coping e raggirando la messa in atto di cicli interpersonali. Anche se può sembrare difficile, è possibile: L. alla fine si trasferì a Roma per lavoro ed M. riuscì a dire alla propria ragazza che non aveva intenzione di condividere con lei il suo appartamento.

Gazzillo e io: sovranismo vs leninismo

La risposta di Francesco Gazzillo ai recenti articoli di Giovanni Maria Ruggiero e di Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli, si inserisce all’interno di una discussione pubblicata da State of Mind sulla psicoterapia empiricamente supportata.

 

Quello che ho provato nel leggere i recenti interventi del dottor Ruggiero, e poi di Ruggiero, Caselli e Sassaroli su State of Mind è stata una sensazione di spaesamento. Criticavano mie posizioni che però non corrispondevano alle mie posizioni, e lo facevano da un vertice identitario e ideologico rispetto al quale non credo di poter dire nulla. È come discutere di calcio con un tifoso di una squadra, o di politica con un attivista di un partito, nello specifico di un partito sovranista. Una perdita di tempo.

Mi limito a chiarire un paio di punti, giusto perché mi possano attaccare per ciò che penso, non per la loro traduzione idiosincratica di ciò che penso.

Nel lavoro scritto con gli amici e colleghi Curtis e Dimaggio proponevamo un metodo di formulazione del caso, il Plan Formulation Method, radicato nella Control-Mastery Theory, che ha dati di affidabilità piuttosto solidi, segue una procedura standard rigorosa, e sembra, dati empirici alla mano, che dia indicazioni utili al clinico per favorire il miglioramento dei pazienti in terapia. Vero è che, rispetto alle procedure amate dal dottor Ruggiero, dà meno importanza alle funzione esecutive coscienti e più importanza a credenze e schemi e processi relazionali (i test) spesso inconsci, e che parte dall’assunto che i pazienti vengano in terapia con obiettivi specifici propri, a volte consapevoli e altre no. La CMT ha sempre riconosciuto il debito con Miller, Galanter e Pribram rispetto ai termini test e piano, ma non credo sia necessario citarli ogni volta. E, come il dottor. Ruggiero di certo sa, Pribram era un tale purista del cognitivo che scrisse un libro con l’analista Merton Gill su Freud. Ma forse dopo andò a confessare il peccato di slealtà. Il piano che noi clinici formuliamo è il piano del paziente – noi cerchiamo di esplicitarlo. E cerchiamo di capire se, quando e quanto dobbiamo condividere con il paziente stesso la nostra esplicitazione del suo piano. Sempre per inciso, anche noi lo formuliamo a inizio terapia – dopo tre o quattro sedute – e non sempre la sua formulazione passa per drammi e tormenti relazionali, come sembra pensare il dott. Ruggiero.

Il secondo punto in cui il Gazzillo che qui scrive non si riconosce nel Gazzillo narrato da Ruggiero & c. riguarda il metodo scientifico. Il Gazzillo che scrive è convinto che non vi sia miglior metodo di conoscenza, non lo baratterebbe con nessun altro metodo, e quando la ricerca ha dato torto alla teoria che amava, ha cambiato idea. Come molti sanno, tanto da essere accusato di essere “diventato cognitivista”. Cosa non vera, ma che non ha mai preso come offesa. Sottolineare che la ricerca scientifica possa subire influenze economiche, sociali e politiche è realismo, ma il bello del metodo scientifico è che non dà vicoli sul cosa bisogna trovare – a differenza delle ideologie – ma sul come mettere alla prova le proprie ipotesi. Ad esempio, che tutte le terapie empiricamente supportate per disturbi specifici siano, dati alla mano, sostanzialmente equivalenti in quanto a efficacia è un dato (invito a leggere il libro del 2015 di Wampold e Imel – e Wampold è un matematico prima e poi un terapeuta CBT approdato agli approcci umanistici – o la Declaration dell’American Psychological Association del 2012).

La conseguenza che i più ne traggono è che, dunque, a essere efficaci non sono tanto tecniche approccio-specifiche ma fattori comuni: alleanza terapeutica, aspettative positive, confronto con la realtà, esperienze emotive correttive, accettazione incondizionata, empatia percepita ecc. Altri ritengono che invece il verdetto di Dodo è dovuto al fatto che trattamenti diversi sono efficaci per pazienti diversi – ad es., i pazienti più introiettivi beneficerebbero maggiormente di terapie insight-oriented e quelli più anaclitici di terapie in cui il peso della relazione è maggiore. Io, invece, penso che sia sbagliato costruire terapie specifiche per disturbo, e sarebbe più utile costruire terapie specifiche per paziente. Anziché tradurre i problemi di una persona in una o più categorie diagnostiche e poi somministrare trattamenti pre-costituiti per quelle categorie diagnostiche, si tratta di elaborare formulazioni del caso specifiche per paziente, con procedure precise la cui affidabilità è stata dimostrata, come il Plan Formulation Method, e poi costruire una terapia specifica per quella persona, perché senso e funzione dei problemi e dei sintomi di una persona variano in funzione della persona stessa e della sua storia. Così come variano i suoi obiettivi, i suoi schemi patogeni e come li mette alla prova. Non c’è nulla di sapienziale. È solo un frame diverso, ugualmente passibile di ricerca empirica, e che già presenta ricerche empiriche a suo sostegno.

Chiudo, in tono semi-serio, dicendo che se la scelta è tra il sovranismo di Ruggiero e il leninismo del Gazzillo narrato da Ruggiero, Caselli e Sassaroli, io scelgo Lenin. Anzi, Marx e Engels: psicoterapeuti di tutto il mondo, unitevi, occupatevi di clinica e ricerca, e meno delle vostre identità! E mi scuso con i lettori, e soprattutto con Ruggiero, se il poco tempo a mia disposizione mi ha impedito di citare tutti gli autori che hanno detto cose simili alle mie prima di me, come Goldfried, solo per fare un esempio. E se non ho corretto alcune delle imprecisioni del suo discorso sul testo di Lenin Materialismo ed empiriocritismo. Ma ringrazio Borges che ha ispirato la prima parte del mio titolo.

 

 

Altri articoli sull’argomento:

Sexting tra adolescenti: rischi e pericoli. Il parere degli esperti Anna Oliverio Ferraris e Fabrizio Quattrini

Foto, immagini, sesso, internet e social rischiano di divenire sempre più un mix pericoloso tra giovani e giovanissimi. Due grandi professionisti, Anna Oliverio Ferraris e Fabrizio Quattrini, da prospettive differenti, ci aiuteranno a capire di più circa i rischi e i pericoli legati al fenomeno

 

Nel presente articolo verrà affrontato il tema del sexting tra adolescenti grazie al contributo di due grandi professionisti che, da prospettive differenti, ci aiuteranno a capire di più circa i rischi e i pericoli legati al fenomeno.

In tal senso ho intervistato Anna Oliverio Ferraris e Fabrizio Quattrini a cui va tutta la mia gratitudine per professionalità e disponibilità.

Sexting: che cos’è?

Il termine Sexting nasce dall’unione di due parole inglesi e letteralmente Sex (sesso) e Texting (pubblicare il testo) e consiste nell’inviare o ricevere testo scritto, video e/o immagini dal contenuto sessuale più o meno esplicito, una pratica sempre più diffusa non soltanto tra adulti ma ultimamente anche tra giovani e giovanissimi. Telefonia cellulare, social e vari canali virtuali rendono più veloce e rapida tale pratica.

Su il blog di La Stampa del 16 marzo 2018, vengono riportati i dati della ricerca dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza insieme a Skuola.net dove i dati parlano di 1 adolescente su 10 che pratica sexting. Già dagli 11 anni di età, infatti, in tanti ragazzi sono tentati dalla moda di scattare selfie intimi, senza vestiti o a sfondo sessuale e di inviare le immagine o i video al proprio fidanzatino, agli amici, nelle chat di gruppo. Si chiama sexting e parliamo di una pratica messa in atto abitualmente dal 6% dei preadolescenti dagli 11 ai 13 anni, di cui il 70% è costituito da ragazze. I numeri salgono al crescere dell’età: infatti, tra i 14 e i 19 anni, la proporzione è di circa 1 adolescente su 10.

Immagini e video a sfondo sessuale  spesso vengono inviati ad amici o fidanzati in maniera spontanea ed ingenua, talvolta sotto richiesta, peggio ancora sotto minaccia o rubati in modo inconsapevole, altre volte come prova d’amore, ma ciò che si sottovaluta risulta essere la consapevolezza che il materiale, una volta in rete, potrebbe essere diffuso e creare gravi danni da un punto di vista psicologico alla vittima ed avere come risvolto azioni drammatiche come quelle documentate dalle cronache degli ultimi anni (suicidi o tentativi di suicidio), in quanto spesso al sexting tra adolescenti si può ricollegare un altro fenomeno altamente pericoloso come quello del cyberbullismo e pedopornografia.

Ma per capire di più sui meccanismi in gioco in tale fenomeno circa il mondo adolescenziale che si affaccia a questa realtà, che sul reale carattere sessuale insito in tale pratica e relativi “consigli per l’uso” per evitare rischi e pericoli, ho intervistato Anna Oliverio Ferraris, docente universitario, psicoterapeuta, scrittrice di articoli per riviste di psicologia e autrice di numerosi libri sul mondo adolescenziale, e Fabrizio Quattrini, scrittore, psicologo e psicoterapeuta, socio fondatore presidente dell’Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica (IISS) di Roma, docente dell’insegnamento di Clinica delle Parafilie della Devianza presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi dell’Aquila.

Sexting fra gli adolescenti: il parere degli esperti

 

Anna Oliverio Ferraris

Immagine 1: Anna Oliverio Ferraris

Intervistatore (I): Quali meccanismi entrano in gioco rendendo sempre più appetibile tale pratica fra giovani e giovanissimi?

Anna Oliverio Ferraris (AOF): Penso che la pornografia in rete abbia sdoganato le immagini erotiche e le pose sexy rendendole una consuetudine, per cui molti ragazzini e ragazzine possono considerare “normale” scambiarsi immagini osé sia di altri che di se stessi. Anche tra gli adulti c’è chi invia il giorno di S. Valentino al proprio innamorato o alla propria innamorata delle immagini di sé sexy. Negli adolescenti, in particolare nelle ragazze, oltre all’esibizionismo ci possono essere motivazioni profonde legate all’età, un periodo della vita in cui si verificano trasformazioni fisiche importanti, in cui si va alla ricerca di conferme e apprezzamenti: non si è sicuri di piacere e si vuole verificare la propria capacità di seduzione. La ragazzina che si mette in scena in una tenuta leggera o nuda, ha bisogno di essere rassicurata sulla normalità del suo corpo, sul fatto di piacere, di essere desiderabile, di non essere da meno delle bellezze che popolano gli schermi, non sempre però si rende conto della trappola: se vengono diffuse, quelle immagini, invece di aumentare la fiducia in se stessa possono rovinarle la reputazione.

I: Quali rischi e pericoli da un punto di vista psicologico?

AOF: Le possibilità sono diverse: a volte è la stessa vittima che incautamente spedisce una foto osé o un video a un amico o a un’amica ritenendola una comunicazione privata, che invece verrà resa pubblica dal ricevente per motivi non previsti, per esempio per vendicarsi, mesi dopo, per essere stato lasciato. In altri casi la scena di sesso viene ripresa da “amici” col benestare della vittima e poi diffusa in rete senza il suo consenso. In entrambi i casi la forza propulsiva è il tradimento di una fiducia mal riposta. C’è poi una terza possibilità, particolarmente odiosa, la vittima viene ripresa nel corso di una violenza sessuale e le immagini messe in rete. In questo caso i violentatori intendono umiliare la vittima, prendersi gioco di lei, oppure esibire e comunicare ai propri amici quella che considerano una loro prodezza sessuale, una dimostrazione della loro virilità.

 I: Cosa consiglierebbe ai giovani?

AOF: I ragazzi devono sapere che ciò che viene postato in rete può circolare rapidamente al di là delle loro previsioni e quindi bisogna essere molto cauti sia nell’inviare immagini di sé che di altri. Bisogna anche sapere che su immagini del tutto innocenti possono essere realizzati dei fotomontaggi. Ci sono già stati parecchi suicidi per quello che all’inizio era considerato uno scherzo tra amici e che invece alla fine si è trasformato in un tormento per tutti: per la vittima, ma anche per i bulli, per i loro familiari, nonché per tutti coloro che hanno contribuito alla diffusione di immagini e messaggi lesivi, ossia “amici” che senza pensare alla conseguenze condividono i messaggi “forti” che ricevono.

I: Cosa consiglierebbe ai genitori?

AOF: Quando un genitore regala lo smartphone o il computer ai figli deve sapere che mette nelle loro mani una tecnologia molto potente, utile per certi aspetti e potenzialmente dannosa per altri. L’adulto non deve minimizzare e deresponsabilizzarsi, ma conoscere a fondo tutti i risvolti di questi strumenti, attraenti e molto assorbenti. Devono seguire i figli e metterli al corrente dei danni che possono provocare con certi loro “scherzi” o con la loro ingenuità e incompetenza. C’è un effetto percettivo importante da tenere presente: il fatto che la persona bulleggiata non è presente in quel momento, ma lontana fisicamente e impossibilitata a reagire nell’immediato, porta il bullo a minimizzarne la portata lesiva del messaggio che sta inviando.

 

Fabrizio Quattrini

Immagine 2: Fabrizio Quattrini

I: Quando/quanto c’entra la sessualità in tale comportamento?

Fabrizio Quattrini (FQ): Tendenzialmente il sexting è un comportamento dove la sessualità in età evolutiva, e per l’appunto  in adolescenza, c’entra “il giusto”, come evidenziato da ultime ricerche i cui dati verranno trattati in occasione della 1^ edizione del Festival della Sessuologia che si terrà a Firenze sabato 14 e domenica 15 settembre 2019, organizzato dalla Giunti, dove per l’appunto verrano condivisi i dati di una ricerca promossa dal Centro il Ponte di Firenze, che ha fatto emergere come la sessualità in tali condotte non sia presente o comunque in minima parte. Tra i giovani infatti, il sexting sembrerebbe più collegato al mettersi in mostra, controllare paure e comportamenti legati a timidezze ed imbarazzi e dove il “semplice” invio di messaggi, foto o video, fornisce al giovane la possibilità di percepirsi più libero, forte e meno in pericolo, non rendendosi conto del reale pericolo invece celato dietro l’invio di quell’immagine o materiale. Anche l’aspetto eccitatorio sembrerebbe di scarso rilievo. Foto, video e materiale con un contenuto esplicitamente sessuale sembrano essere usati dall’adolescente per dare un segnale, un’informazione di sé all’altro, dell’essere grandi. In realtà in adolescenza il sexting viene vissuto semplicemente come scambio di immagini, messaggi e video in riferimento al proprio corpo e alla ricerca di conferma dell’immagine di sé, trascurando i pericoli che possono derivare da tale comportamento. Uno dei pericoli più grande ad esempio è quello di vedere incanalate le proprie immagini in spazi altamente pericolosi o comunque vedere quel materiale ritorcersi contro. In riferimento a ciò è stata approvata di recente la legge su revenge porn (vendetta pornografica) che riguarderebbe proprio questo rischio, ossia di essere ricattati proprio su quel qualcosa che in maniera anche ingenua o non mirata intenzionalmente, potrebbe essere usato contro il/la protagonista in questione.

I: Quali secondo lei le fonti di piacere in tale pratica e i pericoli, trattandosi di adolescenti?

FQ: Come sottolineato prima, l’aspetto eccitatorio ha ben poco a che fare con il sexting praticato tra giovani e giovanissimi. Sembrerebbe invece più spiccato il fascino di sperimentare qualcosa che non si conosce ancora e non si conosce bene e che attraverso la tecnologia si può entrare facilmente in contatto. Non è raro che giovani facciano ricerche su Google di parole o termini di carattere sessuale o che facciano esperienza con la pornografia spinti dalla curiosità o che inviino immagini, video e foto con contenuto sessuale più o meno esplicito con molta superficialità. Ricordiamo che in Italia l’educazione affettiva e sessuale in età evolutiva non viene fatta o contemplata in maniera così funzionale e costruttiva. Nel nostro paese, infatti, non disponiamo di una chiara regolamentazione che possa consentire ad esempio anche in ambito scolastico la possibilità di creare degli spazi di formazione e informazione che insegni ed aiuti i giovani ad un sano approccio con la sessualità e con la tecnologia. Per quanto riguarda i pericoli legati a tale pratica ci sarebbe la poca consapevolezza da parte del ragazzo o della ragazza circa il fatto che quel materiale potrebbe creare una situazione di imbarazzo, di vergogna e divenire una reale offesa fatta da terze persone. Per non parlare poi del rischio di ritrovare, ad esempio, l’immagine caricata all’interno di siti pornografici o come dicevamo prima, essere ricattati a causa di tale materiale (video/foto/testo scritto).

I: Quali consigli si sentirebbe di dare i giovani?

FQ: Personalmente sono dell’idea che i giovani dovrebbero essere realmente istruiti ed educati a un utilizzo sano e funzionale della tecnologia così come della propria sessualità, in modo da poterli preparare anche a riconoscere trappole e pericoli celati dietro a Internet. Internet e la tecnologia possono essere una grande risorsa così come una reale minaccia. In tal senso il consiglio mi verrebbe da rivolgerlo più alle istituzioni scolastiche, ad esempio, che in questo caso potrebbero valutare l’idea della realizzazione dei corsi, laboratori o sportelli di ascolto, gestiti da personale qualificato come psicologi e sessuologi, che potrebbero educare i giovani ad un approccio più sano e funzionale sia alla propria sessualità che all’utilizzo di internet, social e cellulari. Il suggerimento che invece rivolgerei direttamente ai ragazzi e ragazze è di evitare di immaginare che tutto ciò che può essere inviato, mandato in termini di contenuti video, foto e testi, anche all’interno di un gruppo, non possa ritornare contro. Ingenuità e superficialità sembrano oggi inquinare sia la nostra sfera relazionale che comunicativa. Credo dunque che il mio suggerimento si possa sintetizzare in una “parola magica” ossia educazione al rispetto. Inviterei quindi i ragazzi a riprendere in mano la parola “rispetto” non solo nei confronti degli altri, ma anche nei confronti di se stessi.

I: Quali consigli si sentirebbe di dare ai genitori?

FQ: Il suggerimento invece che mi sento di dare ai genitori ed adulti di riferimento è quello di evitare di “cadere dalle nuvole” solo quando ormai le cose sono realmente accadute, ma riuscire ad essere presenti con ruoli chiari e definiti nella vita dei propri figli. Una tendenza che si riscontra negli ultimi dieci anni circa all’interno delle famiglie è quella che vede il genitore impegnato all’inverosimile e che lascia al figlio e/o alla figlia sempre più autonomia poco monitorata, accompagnata da una modalità relazionale di tipo amicale e sempre meno di tipo genitoriale. Su questi ultimi aspetti mi trovo in disaccordo, in quanto il genitore deve rimanere un punto di riferimento e non un amico e quindi il consiglio più grande che mi viene da dare ai genitori è quello di riprendere in mano la propria genitorialità, riconoscendosi il diritto ed il dovere di controllare, monitorare, verificare e dunque educare e non proibire, l’utilizzo di cellulari, internet, social ed app consentendo ai ragazzi di maturare una consapevolezza di ciò che potrebbe accadere e dunque scegliere di rispettare se stessi e gli altri. In tal senso potrebbe essere anche di aiuto lasciare sperimentare ai ragazzi una sana paura, in questo caso non distruttiva, ma funzionale alla loro crescita e scelta circa le proprie condotte. In questa società dove tutto è molto veloce, tutto è molto semplice e alla “portata di mouse e clic”  bisogna ristabilire, ristrutturare realmente dimensioni importanti nell’essere umano quali la dimensione relazionale e la dimensione comunicativa, aiutando i giovani a crescere in maniera sana, rispettosa, responsabile e consapevole, rendendoli capaci di riconoscere i rischi che si possono incontrare lungo il loro percorso di vita, come in questo caso potrebbe essere per loro il sexting ed allo stesso tempo, anche di fronte uno sbaglio, imparare a rialzarsi dopo una caduta.

Conclusioni

Sessualità, internet, social, tecnologia, giovani ed adolescenti, attraverso le parole degli esperti viene messo in risalto come nei confronti di questi ultimi, due grandi agenzie di socializzazione come la famiglia e la scuola abbiano un grande potere ed una grande responsabilità nel crescere, guidare, seguire ed educare questi ragazzi. I nostri “nativi digitali” possono essere continuamente esposti a rischi e pericoli che per giovane età, immaturità ed impulsività non vengono contemplati dagli stessi. È interessante notare come entrambi i professionisti coinvolti su tale argomento sottolineino il bisogno di fornire loro una bussola che li orienti e li guidi nella vita. Educazione sessuale, educazione al rispetto, educazione all’utilizzo delle nuove tecnologie ed internet, forse questi i giusti vaccini che l’adulto più che il giovane deve contemplare.

Se i figli non sono stati curati e seguiti nel modo giusto diventeranno degli handicappati psichici. Questo vuol dire che non sentiranno più la differenza tra bene e male, tra giusto e l’ingiusto, tra ciò che è grave e ciò che non lo è. (Umberto Galimberti)

 

Antivaccinismo, quanto ci facciamo influenzare dalle fake news – Psicologia Digitale

Complice una linea non chiara delle istituzioni, è sempre più alto il numero di chi sostiene che i vaccini siano inutili o addirittura dannosi. A dispetto di consolidate prove scientifiche di quanto, invece, essi siano uno strumento essenziale nella lotta a diverse malattie.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 2) Antivaccinismo, quanto ci facciamo influenzare dalle fake news

 

L’influenza delle fake news ha portato ad un interesse crescente sia in ambito accademico che divulgativo perché è ormai chiaro quanto possano influenzare e dirottare le scelte di un numero non indifferente di persone, portando a concentrarsi più che su fatti e numeri oggettivi, su ‘scelte di pancia’ e viscerali. Anche in ambito sanitario il proliferare di ‘tuttologi’ e la flessibilità delle istituzioni vanno a indebolire la linea di demarcazione tra un’opinione e un obbligo dettato dalla consapevolezza scientifica. La psicologia come spiega tutto questo? Apparentemente, trattandosi di prove empiriche e di un tema delicato come la salute ci si aspetterebbe che l’uomo agisca come agente cognitivo e in maniera analitica. Eppure non è così.

Sicurezza, medicina alternativa, diritti e teorie complottistiche: di cosa parlano i siti antivaccinisti e quali sono le loro 4 tattiche

Nel suo lavoro del 2010 Kata, studiosa che si occupa da diverso tempo di antivaccinismo e fake news, ha analizzato quali sono le tematiche ricorrenti nei siti anti-vaccinisti. Da una scrematura delle decine di siti analizzati, i temi emersi sono sicurezza, medicina alternativa, diritti dei genitori e teorie complottistiche.

I vaccini vengono ritenuti una pratica dannosa che causa altre malattie (come AIDS, autismo, cancro, diabete ecc.), pratica che andrebbe sostituita da medicina alternativa come naturopatia o agopuntura, rimedi visti come più efficaci e non pericolosi. Tra chi si oppone all’obbligo di vaccinazione c’è anche chi ritiene che nessuno può sostituirsi al genitore nella gestione dei propri figli: si entra quindi nella sfera dei diritti. Viene rivendicata l’autonomia e la responsabilità del genitore che non si sente più ricettore passivo di obblighi dettati dall’alto e di cui non conosce la reale motivazione. Si collega a quest’ultimo punto il sostenere la concretezza di teorie complottistiche circa l’insabbiamento di prove che dimostrerebbero l’inefficacia e la dolosità dei vaccini: la vaccinazione sarebbe un business promosso da case farmaceutiche e classe sanitaria.

Sempre Kata nel suo lavoro del 2012 propone un’analisi che individua 4 tattiche utilizzate nei siti antivaccinisti per sostenere le proprie tesi e screditare gli oppositori.

La prima è alterare, travisare e distorcere i fatti scientifici. Vengono criticati studi considerati viziati da conflitti di interesse per finanziamenti da case farmaceutiche, nonostante questi stessi siti siano nebulosi quando si tratta di definire cosa rende uno studio attendibile. Dare credito a diverse spiegazioni a prescindere dalle evidenze mantenendo il messaggio di fondo: i vaccini fanno male e le autorità nascondono la cosa; è questa la seconda strategia. La terza tattica consiste nella censura: i contenuti a supporto della vaccinazione vengono rimossi e ogni critica eliminata, apparentemente per mantenere un contesto di confronto sicuro, con l’effetto di mostrare e rafforzare un unico punto di vista. Infine, la quarta strategia è attaccare chi si oppone e controbatte, tanto che a volte l’intimidazione può sfociare nell’attacco personale.

Se apertamente la critica non è sulla scelta o meno di vaccinare i propri figli quanto di essere liberi di scegliere a seguito di un’informazione completa (cioè che dia luce ad entrambe le posizioni) questi siti offrono solo ed esclusivamente informazioni e teorie contro la vaccinazione. Infatti, i dati riportati sono esposti in maniera selettiva in favore delle tesi anti vacciniste e non vengono citate ricerche o fonti con studi che dimostrano il contrario. Molti siti inoltre riportano anche informazioni pratiche, ad esempio su come ottenere l’esenzione, link a organizzazioni che offrono anche supporto legale in difesa del proprio diritto di dire no ai vaccini.

Alle radici dell’antivaccinismo: tra bias, sfiducia e il modello dello jiu jitsu

Quali sono i fattori che incidono sull’atteggiamento nei confronti della vaccinazione? Secondo Browne e collaboratori (2015) lo scetticismo nei confronti dei vaccini è la risultanza di un mix di elementi culturali e psicologici. Il rifiuto è legato ad alcuni fattori: una preferenza generale per la medicina complementare e alternativa (CAM) rispetto alla medicina convenzionale sia da parte di genitori che di operatori come omeopati e naturopati; la valutazione di alternative diverse e non convenzionali e un interesse alla formazione di orientamento spirituale, mentre lo stile cognitivo e livello di istruzione non sembrano essere determinanti. La vaccinazione viene vista come un’esperienza inutile ed innaturale, associata a disagio e contaminazione con materiali estranei e patogeni. Chi è scettico lo è anche nei confronti delle autorità e del controllo che esercitano, che siano scienziati, aziende governative o farmaceutiche.

Nel processo decisionale intercorrono anche dei bias, degli errori sistematici di valutazione. Ad esempio, viene sovrastimata l’incidenza dei rischi rari e delle reazioni di disagio o stress alla vaccinazione; ancora, dato che nei paesi sviluppati molte malattie sono state debellate, viene sottostimato l’impatto che può avere il non vaccinarsi. Abbiamo poi bias riguardo le conseguenze: ritenere che una conseguenza negativa causata da una nostra azione (vaccinarsi) abbia un peso maggiore rispetto a una conseguenza negativa di una non azione (il non vaccinarsi); ancora, ritenere più accettabili rischi naturali (cioè le malattie) rispetto ai rischi prodotti dall’uomo (ad esempio, le reazioni alle vaccinazioni).

Ci sono poi degli Autori che propongono delle spiegazioni trasversali che spiegherebbero come mai sia così difficile estirpare false credenze non derivate da evidenze.

Lo studio di Hornsey e colleghi (2018) ha coinvolto 24 nazioni (Italia non inclusa) per una analisi empirica sulla base del modello elaborato con Fielding (2017), il cosiddetto modello delle ”attitude roots”, delle radici degli atteggiamenti di ostilità e negazionismo verso evidenze provate scientificamente.

Secondo Hornsey e colleghi il modello del deficit può spiegare solo in parte la resistenza ad assimilare e comprendere un messaggio che sia basato sull’evidenza. Seguendo la spiegazione del modello del deficit, basterebbe ripetere e rinforzare il messaggio affinché questo diventi acquisito e compreso. Gli Autori invece introducono il concetto di ‘radici dell’atteggiamento’ che sono le paure, le ideologie, le visioni del mondo e i bisogni identitari che sostengono e motivano specifici atteggiamenti di “superficie” come l’antivaccinismo (ma come anche lo scetticismo climatico, l’antievoluzionismo e in generale tutte le teorie cospirazionistiche non basate su evidenze). Al fine di sviluppare interventi che possano essere davvero efficaci, gli Autori utilizzano la metafora dello jiu jitsu: così come in quest’arte marziale si insegna a usare la forza dell’avversario come punto a favore, trasformando il potere dell’avversario in una risorsa, così la persuasione avviene identificando la motivazione sottostante e quindi personalizzando il messaggio in modo che si allinei con essa.

Oltre le fake news, una comunicazione più efficace

Nonostante ci sia fermento nel mondo scientifico nello smentire le informazioni false, ragionare secondo il modello del deficit non basta. Tanto sono diffuse le fake news tanto c’è chi vi si contrappone: i cosiddetti debunker (termine col quale ci si riferisce nel mondo anglosassone – un corrispettivo italiano al momento non esiste – a chi smentisce le notizie antiscientifiche attraverso prove scientifiche). Piuttosto che una mancanza di informazioni corrette e della capacità di elaborarle in modo appropriato, c’è una vera e propria una resistenza.

Gli sforzi per contrastare l’ antivaccinismo dovrebbero tener conto dei bias sistematici descritti da Browne e Hornsey. L’ antivaccinismo viene visto come una scelta antiautoritaria e non convenzionale, come affermazione di sé e della propria autonomia intellettuale. Si tratta di atteggiamenti legati a spiritualità, apertura e aderenza alle CAM.

Una strategia efficace può essere quella proposta da Hornsey e Fielding col modello dello jiu jitsu: creare messaggi persuasivi che non vadano a contrastare in modo diretto un atteggiamento basato su valori e ideologie, ma che si allineano a quelle motivazioni e le utilizzano per catturare l’attenzione e portare al cambiamento.

Al momento non vi è una linea unica su come impedire che si diffondano informazioni false e fake news. Le istituzioni non devono ignorare il fenomeno ma lavorare di più online: avvicinarsi ai pazienti, ai loro interrogativi e ai loro dubbi, in modo da aumentare la fiducia nella scienza e nel metodo scientifico.

 


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EMDR e Disturbi Sessuali (2019) – Recensione del libro

EMDR e Disturbi Sessuali, scritto da Elena Isola e Bruna Maccarone, conduce il lettore nella approfondita conoscenza di due costrutti: la sessualità come elemento fondamentale dell’esperienza soggettiva e l’E.M.D.R. (Eye Movement Desensitizazion and Reprocessing), quale metodo per la cura di alcune patologie oggigiorno ampiamente diffuse.

 

La sessualità è un aspetto centrale dell’essere umano lungo tutto l’arco della vita […]” sostiene l’Organizzazione Mondiale della Sanità, definendone gli aspetti del sesso, identità, ruolo di genere, orientamento sessuale, erotismo, piacere, intimità e riproduzione, allargando il concetto ad aspetti del nostro essere importanti e trasversali.

La sessualità non è dovere, è piacere condiviso, non è performance, ma ricerca intima di contatto, non è ansia, ma luogo sicuro dove incontrare la persona amata. Questa è parte del messaggio del libro. Parte scandita dalla presenza dell’evento traumatico e dell’insorgenza del trauma, freno feroce dell’intimità e libertà di darsi all’altro per accedere allo sviluppo, costruzione e libero godimento del diritto alla soddisfazione sessuale; ecco allora il ruolo del sessuologo, archeologo delle memorie implicite, incorporate nei tessuti della nostra vita, che insieme al paziente scava e propone una soluzione, l’EMDR viene in aiuto come strumento aggiuntivo nella cassetta degli attrezzi del professionista.

EMDR e Disturbi Sessuali, scritto da Elena Isola e Bruna Maccarone, conduce il lettore nella approfondita conoscenza di due costrutti; la sessualità come elemento fondamentale dell’esperienza soggettiva e l’E.M.D.R. (Eye Movement Desensitizazion and Reprocessing) quale metodo per la cura di alcune patologie oggigiorno ampiamente diffuse.

Con le sue parole, Isabel Fernandez spiega che l’EMDR nacque quale metodo innovativo nel trattamento del disturbo da stress post-traumatico, diventando poi il punto di riferimento per le cure di molte psicopatologie, fino a rivelarsi un intervento efficace e mirato nel contesto della sessuologia.

L’obiettivo di questo libro è proprio condividere una buona prassi in quest’ambito di intervento.

La sessualità, depurata da elementi quali tabù e stigma, viene raccontata lungo l’asse storico alla luce delle evoluzioni cliniche e scientifiche, dove l’atteggiamento di ricerca ha prevalso sui pregiudizi sociali, culturali e religiosi, prendendo in prestito dal modello BioPsicoSociale (BPS) il concetto di cura. Qui prende origine l’idea di utilizzare l’EMDR nel trattamento dei disturbi sessuali, ponendo il professionista della salute in condizioni di lavorare sui livelli cognitivo, emotivo e corporeo. La malattia vista nella prospettiva più ampia, così come la patologia sessuale come espressione specifica, di fatto non è inquadrata nella cornice puramente biologica, ma definita con la visione multidisciplinare; pertanto la relazione tra soggetto e ambiente pone in secondo piano l’interesse esclusivo per il sintomo/patologia (relazione causa-effetto indotta da un fattore eziologico biologico).

Il cambiamento di approccio è palesemente osservabile nel DSM 5, dove dall’analisi del testo emerge e si “sottolinea l’importanza del criterio del distress, del disagio soggettivo che il paziente avverte. [..] L’importanza data alla valutazione del distress nella diagnosi di una disfunzione sessuale evidenzia la pregnanza dell’aspetto soggettivo e relazionale in tale ambito.” Successivamente il manuale usa un linguaggio e concetti più di competenza del professionista. Il modello teorico, suddiviso e spiegato con una buona penna, conduce il lettore nel campo della pratica clinica, fertile di strumenti utili ma, probabilmente, poco pratici per i profani.

Un capitolo dedicato alla suddivisione nosografica dei disturbi sessuali segue quello, ben sviluppato e conciso, sulla storia della sessuologia. Quest’ultimo argomento, che potrebbe essere interessante per il non competente, indubbiamente formativo per il professionista, partendo dalla spiegazione psicopatologica dataci da Freud, conduce il lettore a confrontarsi con le ultime letture multidimensionali. Gli autori introducono la disfunzione sessuale definendola come un’anomalia del processo generante il ciclo della risposta sessuale o dolore associato al rapporto sessuale.

Ed ecco che il ruolo della qualità della relazione interpersonale che si ritrova nella lettura del paragrafo che classifica le disfunzioni sessuali femminili, non ci abbandona. Elemento codesto ormai caratterizzante la visione presentata dagli autori. Questi ultimi sottolineano come:

oggi si è concordi nel definire il desiderio sessuale come un complesso costrutto che deve essere inserito in un’ottica multidimensionale. In particolare il desiderio femminile sarebbe più sfumato e genitale rispetto a quello maschile, articolandosi prevalentemente intorno alla qualità della relazione.

Nella pratica clinica, i professionisti rintracciano la descrizione dei disturbi sessuali nel DSM5, riferimento condiviso dalla comunità scientifica e clinica; nell’opera di comprensione il lettore non è lasciato solo nel rigore nosografico. Gli autori, per rendere maggiormente fruibile l’attuale significato nosografico delle patologie, propongono il confronto tra le definizioni proposte nelle versioni precedenti del DSM e l’odierna.

Nell’approfondimento, il nuovo modo di pensare, di approcciarsi al mondo attraverso il nostro essere globale, uomini e donne assaporano il gusto del cambiamento attraverso il quale avviene la comprensione e remissione del disturbo sessuale. Detto in altre parole, condurre uno stile di vita maggiormente sano; aspetto che è in linea con i risultati di studi recenti in ambito eziopatologico su cui l’attenzione non era ancora stata posta dai ricercatori (es. infiammazione cronica). Proposta rafforzata dagli autori quando sostengono che

la sessualità del nuovo millennio sia rivolta verso quello che sembriamo o che vogliamo essere, e che ci allontani dalle relazioni interpersonali e sociali che sono alla base di un percorso comune tra un uomo o una donna.

Con uno stile linguistico pregevole, gli autori spiegano in modo comprensibile, ma non superficiale, il processo che conduce alla genesi della traumatizzazione e, soprattutto, quali sono gli effetti nel soggetto vittima di esperienze traumatiche. Quando i disturbi sessuali sono da imputare a origine traumatiche, “l’utilizzo del metodo EMDR si rivela essere un trattamento efficace e risolutivo”. Si favoriscono così l’elaborazione e l’integrazione delle esperienze stressanti.

In ultima analisi, i disturbi sessuali emergono come risposta a diversi aspetti del vissuto della persona. Quando l’origine si rintraccia nella condizione traumatica, il lavoro psicoterapeutico può essere integrato con l’EMDR. Per concludere, la teoria dell’attaccamento è lo sfondo dal quale emerge la cornice concettuale che delinea il protocollo EMDR per il trattamento delle disfunzioni sessuali, nel capitolo dedicato sono elencate al professionista le fasi specifiche del trattamento.

Dopo l’attenta analisi delle fasi e suggerimenti teorici organizzati in paragrafi strutturati come strumenti, un esempio di caso clinico aiuta il lettore nella lettura pratica del lavoro clinico. Non viene preso in considerazione solo il trattamento dell’individuo, bensì anche della coppia. Si completa in tal modo il ventaglio di possibilità di trattamenti che il professionista può attuare.

 

Trattare il Disturbo Borderline di Personalità con la Terapia Metacognitiva: un possibile punto di svolta

I successi ottenuti dalla Terapia Metacognitiva (MCT) nel trattamento dei disturbi dello spettro ansioso (Nordahl et al., 2018; Normann & Morina, 2018) e dei disturbi depressivi (Wells, 2009), hanno spinto gli autori del recente studio pubblicato su Frontiers in Psychology (Nordhal e Wells, 2019) a indagare le potenzialità della MCT nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità (BPD).

 

L’articolo descrive uno studio preliminare, tecnicamente un trial clinico di fase II, con un campione relativamente ristretto, che si pone lo scopo di testare la fattibilità e l’eventuale efficacia della Terapia Metacognitiva su una tipologia di pazienti per la quale non è ancora validata.

A oggi le terapie più conosciute e sostenute da dati empirici per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità, sono la Dialectical Behavioural Therapy (DBT; Linehan, 1993), la Transference Focused Psychotherapy (Kernberg, Clarkin, & Yeomans, 2002) e la Schema Therapy (Young, Klosko & Weishaar, 2003). Esse, hanno in comune il focus sulla relazione terapeutica, sull’analisi delle difficoltà interpersonali e della disregolazione emotiva e sul riconoscimento e la prevenzione delle condotte a rischio e dei comportamenti autolesivi o suicidari (Brazier et al., 2006). Tenendo in considerazione i princìpi terapeutici sopracitati e le attuali applicazioni della Terapia Metacognitiva sui disturbi d’ansia e depressivi (Wells, 2009), è stato istituito un protocollo d’intervento che potesse essere adatto a pazienti borderline.

Nella ricerca condotta da Nordhal e Wells (2019) sono stati presi in considerazione 12 pazienti ospedalizzati affetti da BPD con grave compromissione del funzionamento psicosociale. I pazienti coinvolti avevano una storia di trattamento di oltre sette anni e presentavano una media di quattro disturbi in comorbilità secondo i criteri del DSM-5, principalmente disturbi d’ansia, depressivi e disturbo da stress post-traumatico cronico.

A tutti i pazienti sono stati somministrati i strumenti di valutazione psicologica in 4 momenti differenti: la prima misurazione è stata effettuata prima del trattamento, la seconda subito dopo e le ultime due rispettivamente a un anno e a due anni di distanza, come follow-up.

Con l’inventory of interpersonal problems (IIP-64) è stata indagata l’area della disfunzionalità interpersonale (Horowitz et al., 1988), con la post-traumatic stress dignostic scale (PDS), i sintomi ricollegabili allo stress post-traumatico derivante da esperienze traumatiche (Foa et al., 1997), con l’emotional and relationship instability scale (ERIS) i sintomi e le credenze tipiche del BPD (Nordhal e Wells, 2009) e con il WHO-5 well being index (Topp et al., 2015), lo stato di benessere generale.

Una volta ottenute, in una fase preliminare, tutte le misure necessarie, gli autori hanno seguito un programma a sei fasi ispirato ai principi e alle tecniche della Terapia Metacognitiva e adattato al trattamento di soggetti borderline. La prima fase si concentrava sulla formulazione del caso e sulla sua condivisione per aiutare il paziente a comprendere la propria sofferenza entro una cornice teorica metacognitiva.

La seconda fase si concentrava sull’eliminazione delle credenze metacognitive autodistruttive, un elemento cardine della Terapia Metacognitiva. Queste includono credenze metacognitive di incontrollabilità (es. non posso controllare la mia mente), credenze metacognitive sul cambiamento (es. il problema è nei miei geni), credenze sul valore dell’autocritica (es. ho bisogno di criticarmi per sentirmi al sicuro, devo punirmi per sentirmi ok). Questo sistema di convinzioni assume un rilievo centrale nella Terapia Metacognitiva per il Disturbo Borderline di Personalità, ostacolando direttamente la possibilità di essere attivamente ingaggiati in un percorso di trattamento. In questa iniziale fase terapeutica il paziente viene aiutato a sviluppare un senso di responsabilità rispetto alle proprie azioni, in cui certe strategie problematiche rappresentano qualcosa che la persona cerca di fare per gestire la sofferenza e i pensieri negativi.

La terza fase si focalizza sulla diminuzione delle strategie di coping maladattive come il rimuginio ansioso (preoccupazione per il rifiuto, l’abbandono, la perdita di credibilità nelle relazioni interpersonali), la ruminazione depressiva (nella forma dell’autocritica e autocommiserazione rispetto ai fallimenti passati) o la ruminazione rabbiosa (nella forma di recriminazioni rispetto le ingiustizie subite dagli altri e dal mondo). L’intervento in questa fase ricalca in buona parte le modalità tipiche della Terapia Metacognitiva per com’è conosciuta.

Nella quarta fase il centro dell’intervento è l’incremento della flessibilità cognitiva che in termini MCT è operazionalizzata come la capacità di selezionare autonomamente il fuoco della propria attenzione e di muoverla liberamente lontano da esperienze interne minacciose. Questa fase ha come scopo ultimo sviluppare una maggiore consapevolezza delle proprie capacità di scelta.

La quinta fase della terapia si concentra sull’aiutare il paziente a sviluppare nuovi scopi personali, diversi dalla gestione o soppressione degli stati interni, che possono rappresentare una guida per come muoversi nel mondo verso obiettivi concreti, una volta liberi dalla prigione generata dalle credenze metacognitive e dai processi di rimuginio.

Queste cinque fasi hanno avuto una durata stabilita di un anno al termine del quale il paziente era trasferito al sistema di cura psichiatrica della comunità di appartenenza. Questo monitoraggio costante dell’andamento rappresenta l’ultima fase dell’intervento. Una volta terminato, i pazienti venivano visitati una volta al mese presso il servizio psichiatrico di comunità, per monitorare gli eventuali cambiamenti sintomatologici durante i due anni successivi.

Tutti i 12 partecipanti hanno completato le 40 sedute previste di terapia nell’arco di un anno e il primo follow-up senza che si verificassero drop-out. Durante il secondo follow-up, a distanza di due anni, un solo partecipante è risultato non più rintracciabile.

Il trattamento è stato considerato utile e ben strutturato dai pazienti, così come da loro riportato durante un’intervista.

I risultati ottenuti hanno sottolineato una diminuzione significativa dei sintomi e delle credenze tipiche del Disturbo Borderline di Personalità, delle disfunzionalità interpersonali e dei sintomi ricollegabili allo stress post-traumatico al termine del trattamento e nei follow-up successivi. Anche i comportamenti autolesivi, seppur non presenti per tutta la durata dello studio in nessuno dei partecipanti, e i pensieri suicidari si sono dimostrati significativamente ridotti rispetto al periodo pre-ricovero.

La Terapia Metacognitiva, come si può dedurre dai risultati ottenuti nello studio riportato (Nordhal e Wells, 2019), si è dimostrata una possibile alternativa alle terapie attualmente utilizzate e validate per trattare i sintomi correlati al Disturbo Borderline di Personalità con risultati preliminari simili in termini di effetto e stabilità nel tempo. Ciò la rende meritevole di essere più approfonditamente indagata in studi futuri. Infatti, nonostante gli out-come positivi della ricerca, la scarsa numerosità del campione e l’assenza di un gruppo di controllo rappresentano un limite rilevante, in quanto non permettono la generalizzazione dei risultati.

In conclusione, gli autori sottolineano che la Terapia Metacognitiva, insieme con la presenza di un monitoraggio costante da parte di un servizio psichiatrico di comunità, ha dato esiti promettenti; nel futuro sarebbe quindi auspicabile ripetere la ricerca tramite un trial clinico randomizzato su campione più vasto e con la presenza di un gruppo di controllo.

 

La gestione di una psicoterapia: prospettive etiche, cliniche e di ricerca

Gestire un caso clinico considerando aspetti deontologici e indicazioni di ricerca su concettualizzazione e monitoraggio della terapia. A Genova, il 17 ottobre 2019, un convegno sull’argomento.

 

C’è sempre qualcosa da integrare;
c’è sempre qualcosa da imparare e c’è sempre
la possibilità di una maturazione più ricca…
di assumersi la responsabilità
sempre maggiore  di sé e della propria vita…
(Perls, 1980)

 

La psicoterapia è un trattamento psicologico che utilizza il colloquio tra terapeuta e paziente e tecniche specifiche per apportare cambiamenti nella vita di quest’ultimo, alleviando in modo stabile alcune forme di sofferenza emotiva e aiutando la persona a vivere meglio.

Lo scopo della psicoterapia è il cambiamento, che passa attraverso una maggiore consapevolezza di sé, dei propri pensieri, delle proprie emozioni, dei propri comportamenti, dei propri bisogni, del proprio modo di vedere se stessi, gli altri e il mondo, e del proprio modo di relazionarsi con gli altri. Durante un percorso psicoterapico si apprendono modi nuovi di stare al mondo, scoprendo risorse personali e strategie che aiutino a fronteggiare il proprio disagio in modo più efficace, sperimentando un maggiore benessere e riducendo la sofferenza che ha spinto la persona a chiedere aiuto.

Il compito del terapeuta è quello di aiutare il paziente a comprendere, a partire dalla sua storia di vita (relazioni significative avute durante l’infanzia o l’adolescenza, il rapporto con i genitori, eventuali traumi subiti), come certe dinamiche di funzionamento si sono sviluppate e poi mantenute nel tempo, e come mai ad un certo punto non si sono più rilevate funzionali. Si apprende un nuovo modo di approcciarsi ai pensieri, e un nuovo repertorio di comportamenti più flessibili e funzionali.

Lo psicoterapeuta propone modelli alternativi di relazionarsi con se stessi, con gli altri e col mondo circostante, aiutando la persona a implementare la capacità di compiere scelte orientate al miglioramento del proprio benessere, e di affrontare con adeguate strategie e risorse le varie fatiche del vivere quotidiano che continueranno a presentarsi.

In tutto questo processo, è importante che il terapeuta informi il paziente su come funzioni una psicoterapia, sulle diverse fasi del trattamento, rendendolo partecipe e concordando assieme gli obiettivi che si desiderano raggiungere, in ogni fase del processo il paziente deve sapere dove si trova, cosa sta accadendo e dove si sta andando. Avvalersi di una prospettiva scientifica non significa solo saper formulare una diagnosi accurata ma stabilire anche delle procedure di monitoraggio dell’andamento del percorso e saper usare queste informazioni per modulare con flessibilità il percorso terapeutico. Inoltre è proprio sulla base della ricerca che si possono proporre interventi evidence-based, si delinea così il percorso tra clinica e ricerca, come un percorso intrecciato e integrato.

Ai due precedenti aspetti si aggiunge un comportamento etico conforme alla deontologia professionale. Tale comportamento è parte integrante dell’intervento psicoterapeutico stesso, in quanto nelle professioni d’aiuto, il problema dell’eticità è intrinseco allo stesso intervento di trasformazione che il professionista avvia e persegue. Studiare il rapporto tra etica e deontologia appare fondamentale per rintracciare se e in quali casi, nell’esperienza dello psicoterapeuta, viene a configurarsi una situazione di conflitto tra scelte di azione individuali e ottemperanza alle regole prescritte dalla deontologia e dal metodo clinico.

L’emergere di un tale conflitto viene considerato come indicatore della problematicità di alcuni aspetti della pratica psicoterapeutica che, più che mettere in discussione la validità di una normativa, indicano la necessità di individuare strumenti, ulteriori alla regolamentazione della condotta professionale, in grado di orientare e fondare il giudizio e le decisioni individuali.

Crediamo che il nostro compito di psicologi, basato sul codice deontologico, debba essere di occuparci, sia a livello privato, come singoli, sia a livello di comunità professionale, dei vari risvolti del rapporto tra la persona in quanto agente etico e l’insieme di regole e obblighi che delimitano i confini di un’azione corretta. In altri termini, si tratta di tendere verso un equilibrio che metta in contatto il sentire etico del soggetto con il sentire deontologico della comunità nel suo insieme.

Durante il convegno verranno trattati gli aspetti etici e deontologici legati alla pratica clinica e di ricerca.

Verrà messo in evidenza come la norma può essere una per tutti, ma le motivazioni, i presupposti, le finalità individuali in base a cui questa norma viene applicata determinano differenze sostanziali negli effetti.

 

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La gestione di una psicoterapia: prospettive etiche, cliniche e di ricerca – Genova, 17 Ottobre 2019

 

La diversità che ci unisce: il legame fraterno come fonte di sostegno

Quando si affronta il tema “fratelli”, sia in discorsi scientifici che non, ci si imbatte in argomenti aventi come tematica la gelosia, la rivalità e la conflittualità. Quando in una famiglia nasce un legame fraterno, nasce spesso, secondo il senso comune, anche un rapporto conflittuale. Provando ad approfondire ulteriormente la tematica è curioso e interessante analizzare anche l’altra faccia della medaglia.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Un legame, quando nasce, può spesso portare con sé delle conflittualità, dei disagi, ma ciò è dovuto alla diversità dei caratteri e delle esperienze dei due protagonisti del rapporto. I fratelli non si sottraggono a questa “normalità” di conflitti ed è interessante sottolineare come proprio questa diversità nel corso degli anni possa trasformarsi in una risorsa.

Il bambino nel ruolo di fratello

Quando nella famiglia nasce un secondo figlio, si ha inevitabilmente la ridistribuzione dei ruoli per la mamma e il papà, con conseguente riassetto familiare. E l’altro figlio? Quando il “primogenito” si trova nella condizione di dover accettare l’arrivo del nuovo membro della famiglia, può di conseguenza manifestare alcuni comportamenti che sono il risultato di ciò che vede e pensa. A seconda dell’età, infatti, il bambino nei suoi ambienti quotidiani quali nido, scuola, casa, assumerà diversi comportamenti volti a manifestare il disagio per la “nuova condivisione” delle attenzioni e degli spazi. Spesso, nei bambini più piccoli, capita di vedere comportamenti quali morsi, capricci, ricerca di attenzioni, che potrebbero essere interpretati come la manifestazione di un malessere interiore, difficile da spiegare e vivere in altri modi.

Il primogenito e inevitabilmente il secondogenito cercano un nuovo posto all’interno della famiglia. Entrambi si trovano nella condizione di accettarsi e condividersi. Infatti, è proprio dalla «condizione di possedere i medesimi genitori» che deriva la possibilità, per il bambino, di scorgere nel fratello, ora un complice, un alleato magnifico contro il mondo dei grandi, l’unico in grado di comprenderlo, ora un contendente verso l’amore degli stessi, qualcuno che sottrae spazi, oggetti, cure e attenzioni (Scalisi, 1995 p. 21).

Un primo elemento che pesa sulla costituzione sana o disfunzionale del rapporto è la capacità della famiglia, e quindi dei genitori, di costruire un rapporto unico e originale con ciascun singolo figlio rispettandone l’età, gli interessi, il temperamento e altre variabili. Il rapporto che il genitore crea permette così a ciascun figlio di sentirsi amato e accettato per quello che è, di conoscersi meglio ed entrare in relazione con se stesso con gli altri e col mondo. Un secondo elemento potrebbe essere il ruolo e l’identità che ciascun figlio acquisisce all’interno della famiglia. Spesso capita nelle famiglie rigide e patologiche che si strutturino alcuni ruoli, quali ad esempio “il figlio capro espiatorio” ovvero il paziente designato (Selvini Palazzoli, 1988). Ciò porterà i figli a conoscersi poco, a sperimentarsi e “sentirsi” meno e, paradossalmente, ad identificarsi unicamente in quel ruolo assegnatogli. Di conseguenza, il legame fraterno ne risentirà, ogni figlio si vedrà prigioniero di quel ruolo, un po’ come una profezia che si autoavvera, e ciò non permetterà di creare un sano e aperto legame fraterno.

La nozione di tempo, però, è fondamentale nella relazione tra fratelli e sorelle. E’ il tempo condiviso che permette la formazione dei gruppi, stabilisce i rapporti di forza, accentua o sopisce i conflitti, le discussioni e i rapporti improntati all’aggressività. Se si potesse fare la foto della veduta aerea della relazione fraterna, avremmo zone e territori con una notevole varietà di paesaggi e diversi tipi di natura. Nel corso della vita, nel rapporto tra fratelli e sorelle, intervengono diverse variabili:

  • la presenza dei genitori,
  • il tipo di legame che i fratelli stabiliscono,
  • il comportamento dei genitori nei confronti dei figli,
  • fratelli dello stesso sesso nei confronti dei fratelli di sesso opposto,
  • le differenze di età tra i fratelli
  • particolari condizioni (disabilità, malattia fisica o mentale, tossicomania oppure un talento eccezionale) di uno dei fratelli.

Tutti questi e altri temi evidenziano la particolarità del legame fraterno e le vicissitudini che questa relazione ha nella fantasia, nei sentimenti, nelle emozioni e, più di tutto, nella vita vissuta di ogni fratello.

Volgendo lo sguardo alla relazione fra fratelli è evidente che rivalità e potere, invidia e gelosia, rappresentano soltanto un aspetto, parziale, di questo rapporto, un lato della medaglia che ha la sua controparte nei sentimenti di fiducia, affetto, stima e comprensione. Eppure, per una sorta di fascino che essi esercitano, molto spesso, i sentimenti “negativi” costituiscono il focus privilegiato di attenzione nel panorama scientifico, soprattutto in quello psicoanalitico (Petri, 1994). infatti, è dal complesso di Edipo che sorgono la gelosia, la rivalità, nonché il “desiderio di sparizione” rivolto tanto al genitore dello stesso sesso, quanto ai fratelli.

Indubbiamente, come sostenuto in precedenza, le rivalità e conflitti possono crearsi all’interno del rapporto, ma la presenza di un fratello può essere anche una fonte di risorse ed è importante sottolinearne anche gli aspetti positivi. Spesso sottovalutato, è il ruolo, nella vita del “nuovo arrivato”, del fratello come rispecchiamento.

Il bebè non si rispecchia soltanto “nello sguardo della madre”, ma anche nel sorriso del fratello, nel suo abbraccio, nella sua tenerezza e nelle sue premure (Petri, 1994).

Il fratello è il primo palcoscenico sociale: rappresenta il primo scenario sociale dove il bambino inizia a capire cosa significa condividere, gestire delle emozioni tanto intense, quanto la rabbia o l’invidia, e cosa vuol dire indossare i panni di un altro per sviluppare l’empatia. Il timore di essere diversi, vissuto durante l’infanzia o nell’adolescenza, si affievolisce con il passare degli anni e, quando l’unico collegamento con la famiglia di origine rimane un fratello o una sorella e si è liberi dall’influenza esercitata dalla devozione ai genitori, si può cercare di soprassedere alle differenze.

La diversità che ci unisce

Non sempre il legame fraterno “può dividere”, anzi si potrebbe modificare quest’ultima affermazione in “la diversità che ci unisce”. L’originalità di questo rapporto nasce dalla condivisione di circa la metà del patrimonio genetico, da un comune background sociofamiliare e dall’intensità delle interazioni vissute dai protagonisti di questa relazione (Capodieci, 2003).

Il rapporto con i fratelli può risultare fondamentale nelle situazioni in cui si rende necessario un sostegno o un aiuto (Cicirelli, 1982; Troll, 1975). In età senile, ad esempio, secondo Cicirelli (1995) soltanto sapere che i fratelli sono ancora vivi può essere una potenziale fonte di sicurezza nella vecchiaia. Anche durante l’infanzia e l’adolescenza, l’importanza della fratria, è stata riconosciuta da numerosi studiosi. E’ stata, invece, sottovalutata l’influenza che questo particolare legame può esercitare sul piano affettivo, cognitivo e personologico di un individuo lungo il corso di tutta la sua esistenza.

Nell’ambito del benessere relazionale di un individuo è auspicabile che, oltre ad un buon rapporto coniugale e ad una serena relazione con i genitori e i figli, esista un affettuoso legame fraterno anche in età non più giovanile. I fratelli sarebbero i testimoni del legame familiare, nel corso degli anni diventano i portatori del bagaglio familiare, utile ai fini terapeutici. Infatti, in ambito psicologico i fratelli potrebbero portare importanti informazioni circa il vissuto dell’infanzia del paziente ad esempio. Spesso accade in terapia, che il sistema genitoriale non esista o che non sia disponibile a collaborare con i terapeuti. A questo punto il terapeuta usa altre risorse a disposizione, presenti sia dentro che fuori la famiglia (De Bernart,1992). E’ importante, alla luce di ciò, il ruolo del fratello ai fini terapeutici, poiché permette di avere una panoramica più ampia e chiara sull’assetto familiare, sui disagi vissuti e su altre variabili che hanno portato il paziente a strutturarsi secondo quella modalità.

Indubbiamente all’interno della fratria agiscono numerosi variabili: la singolarità di ogni individuo, l’ambiente esterno, l’ambiente familiare ed altre che potrebbero creare fratture nell’equilibrio delicato di questo rapporto. Ad esempio, l’assenza dei genitori potrebbe permettere ai fratelli di instaurare un rapporto molto profondo, oppure, al contrario, la rigidità genitoriale, o la triangolazione di un genitore su un fratello, potrebbe portare i fratelli ad allontanarsi e a non essere un sostegno l’uno per l’altro.

All’interno del setting terapeutico il loro ruolo però potrebbe essere prezioso. I fratelli potrebbero essere d’aiuto provando ad esempio a dare una lettura diversa dell’assetto familiare riesaminandone i ruoli, le funzioni o ancora le dinamiche familiari instauratesi nel corso degli anni. All’interno del setting, quale luogo protetto e “sicuro”, il legame ne potrebbe uscire rinforzato, rinnovato e ridisegnato, perché svincolato dai “ruoli” familiari. Inoltre, non essendoci più la necessità di passare attraverso i genitori, i quali di solito mediavano le loro relazioni, lo scambio che ne risulta avrebbe un carattere emotivo molto più intenso e profondo.

Quando i fratelli crescono, non sono più obbligati a ricoprire “quel ruolo”. Esaminando i rapporti di fratelli adulti si rivela che tali rapporti concedono più spazio per le scelte e le decisioni personali e che i rapporti fra i fratelli sono meno “obbligatori” di quelli con i genitori, gli sposi ed i bambini (rossi & rossi, 1990; scabini & cigoli, 1998). Ne risulta, quindi, che i fratelli adulti sono liberi di legare tra loro se vogliono. Stare insieme, infatti, è la grande conquista, ovvero il poter scegliere di condividere insieme il proprio presente e futuro. Questo significa incontrare il fratello oltre il ruolo di fratello.

 

La scelta di Edith (2017). Se sopravvivi oggi, domani sarai libera – Recensione del libro

La scelta di Edith è un testo che sfugge ad ogni etichetta. E’ una autobiografia, è il racconto di una paurosa avventura, è una raccolta di riflessioni di una terapeuta sulle storie dei suoi pazienti sopravvissuti a storie difficili, è un album di famiglia e delle persone hanno popolato la sua vita

 

Edith Eva Eger, psicologa, ballerina, ebrea ungherese, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti decide a 90 anni di dire la sua sul trauma e sarà meglio darle ascolto.

Io custodivo il mio segreto e il mio segreto custodiva me.” Con poche semplici parole l’autrice avvicina il lettore alla sua esperienza e agli obiettivi del suo racconto: non solo l’irrinunciabile urgenza di testimoniare l’orrore, ma anche e forse soprattutto l’incontenibile invito a vivere pienamente il presente, a guardare alla propria storia con coraggio per trovare nel passato la via verso il futuro. Per liberare la propria mente dalla prigionia del trauma è necessario lasciar andare la paura sì, ma più di tutti l’odio verso quello che ci è successo e verso chi l’ha provocato.

La scelta di Edith edito in Italia nel 2017 da Corbaccio, con la traduzione di L. Caspani Corradini, è un testo che sfugge ad ogni etichetta. E’ una autobiografia, è il racconto di una paurosa avventura, è una raccolta di riflessioni di una terapeuta sulle storie dei suoi pazienti sopravvissuti a storie difficili, è un album di famiglia e delle persone hanno popolato la sua vita, è la storia di tanti amori che hanno guidato le sue scelte e la sua sopravvivenza: i suoi genitori, le sorelle Magda e Klara, il marito e compagno di vita Bèla, i suoi figli, la danza.

Edith ha 16 anni quando la sua vita viene spezzata. E’ il 1944 e al termine di lunghi anni vissuti nella paura, anche in Ungheria arrivano i colpi di coda della furia nazista e la sua famiglia viene deportata ad Auschwitz, all’improvviso, in una notte. Edith, Madga e i genitori affrontano il viaggio verso Auschwitz uniti, sperando ancora di poter raggiungere un luogo di lavoro, e non di tortura, e di riuscire a resistere fino alla fine della guerra che ormai si sa, sembra a tutti vicina. Quella sarà l’ultima sera in cui la famiglia cenerà unita e l’irruzione dei soldati la prima crepa nella storia che Edith decide di raccontare.

L’arrivo ad Auschwitz segna in qualche modo la sua esistenza, ma anche l’inizio della sua inesauribile sorgente di resilienza: Edie ha appena salutato la madre, non sa che sarà l’ultima volta che vedrà il suo volto, e in un clima di totale terrore e imprevedibilità, riesce a conservare nella mente le sue ultime parole “Ricordati, nessuno potrà mai portarti via quello che hai messo nella tua mente.” Edith riuscirà a conservarle bene e ricordarle, anche quando il Dott. Mengele, spietato medico di Auschwitz famoso per aver utilizzato gli ebrei come cavie umane, le chiederà di ballare per lui. Proprio lì Edie attraverso il ricordo di queste parole, riuscirà a mantenere il contatto con se stessa, con chi lei è al di là di quello che le sta succedendo. Quando Mengele le chiede di ballare nella sua mente affiora allora la musica di Romeo e Giulietta di Cajkovskij, il pavimento della baracca diventa il palcoscenico del Teatro dell’Opera di Budapest e nel suo corpo rivivono le sensazioni di libertà che da sempre il ballo è riuscito a trasmetterle. Danza per la sopravvivenza delle sue compagne, di sua sorella e di se stessa. In quel momento Edie affronta per la prima volta la paura di morire e scopre invece il desiderio irrefrenabile di vivere, insieme alla conferma della sua forza, che mai avrebbe pensato di avere. Ma non basta, oltre la paura vede con improvvisa chiarezza quello che in futuro la aiuterà più di ogni altra cosa: realizza di non essere lei la prigioniera. Realizza di essere già libera, mentre il Dott. Mengele dovrà per sempre convivere con quello che ha fatto.

La “ballerina di Auschwitz” diranno di lei, “l’Angelo della morte” diranno di lui.

La sua compagna di sopravvivenza è la sorella Magda, rimasta al suo fianco per tutta la vita e sempre presente nel racconto di ogni giorno di prigionia. La protezione offerta l’un l’altra è stata più volte questione di vita o di morte, solo le circostanze hanno permesso loro di proseguire il cammino insieme. Le circostanze e la resilienza di cui sono state capaci. Solo poche parole ma chiare per restare nel presente e coglierne le opportunità: “Se sopravvivi oggi, domani sarai libera”.

Come la challah, il pane che mia madre preparava sempre per la cena del venerdì, questo libro contiene tre ingredienti: la storia della mia sopravvivenza, la storia della mia auto-guarigione e le storie delle persone preziose che ho avuto il privilegio di guidare verso la libertà

In un unico e incredibile racconto, l’autrice Edith Eva Eger riesce a mettere insieme i pezzi della sua vita, senza lasciare nulla indietro: non risparmia le emozioni e le immagini terribili dei campi di concentramento, ma non rinuncia mai a celebrare il trionfo della vita in tutte le sue forme possibili e sempre in ogni parola trasmessa lascia trapelare uno sguardo attento, pacificato e saggio sugli eventi che via via ha il coraggio di ripercorrere e di portare fino a noi.

Di particolare impatto nel racconto sono gli appunti delle sedute con i suoi pazienti, in cui descrive con generosità le sue emozioni di sopravvissuta elicitate dalle loro storie, paura, voglia di fuggire, rabbia, colpa e di come proprio ascoltando quelle emozioni difficili sia riuscita nel tempo a connettersi in modo autentico all’esperienza traumatica che le veniva raccontata, imparando di volta in volta a conoscere se stessa grazie alle storie degli altri e a guidare se stessa e i suoi pazienti verso una soluzione nuova e inaspettata.

Curiosità, sintonia, stare insieme nel presente così com’è, accoglierlo senza paura e insieme lasciarlo andare. Così racconta la storia di Emma, giovane adolescente anoressica tormentata dal criticismo dei genitori, che non riesce a uscire dal suo ruolo di malata, né ad ottenere dai genitori l’attenzione e l’incoraggiamento di cui avrebbe bisogno. Attraverso la terapia con Emma, Edith ha la possibilità di riesplorare il ruolo avuto all’interno della sua famiglia e guardare ad una se stessa più completa e più integrata, in cui dovere e piacere potevano convivere anziché rimanere separati per soddisfare le necessità o i conflitti tra i suoi genitori.

Jason invece è un militare, silenzioso, catatonico, a sua volta spaventato ma incapace di comunicare alcunché all’esterno; qui Edith racconta la sua paura, la sua impotenza e il senso del pericolo di fronte a qualcuno che mostrava una rabbia silenziosa e imprevedibile, la stessa che proprio lei aveva vissuto per 2 anni negli sguardi dei soldati delle SS. Qui comprende l’importanza per i sopravvissuti di avere il controllo, di poter scegliere per se stessi e l’assoluta necessità di sentirsi al sicuro prima di affrontare ogni altro problema. Ascoltando la sua stessa paura, Edith racconta di aver trovato e rispettato il bisogno di Jason di poter scegliere cosa dire e creato un’alleanza terapeutica che ha aiutato entrambi a capire come dare e offrire fiducia, quando questa era stata così profondamente tradita.

E poi c’è Agnes, una giovane paziente oncologica che Edith riesce ad accompagnare nella malattia e da cui racconta di aver imparato più chiaramente che in ogni altro momento della sua vita, l’importanza di vivere il presente e di essere con il presente in una relazione positiva, costruttiva, autentica. Solo un buon contatto con il presente può aiutare ad affrontare ogni ostacolo con la forza e le energie necessarie per trasformare il dolore in un’esperienza capace di restituire ricchezza a se stessi e a chi ci è vicino.

Insomma tanti volti e tante storie si alternano nella scrittura, come fili che si intrecciano nella vita di Edith e creano una rete fitta di esperienze in cui la propria non è più isolata, ma resta legata a tutte le altre, simile ma unica per come la si è vissuta, e permette ad ognuno di ripercorrere quel filo e dare il suo contributo, per la sopravvivenza emotiva di tutti.

Uno splendido essere umano emerso dalle macerie di Auschwitz, senza la sua storia non avremmo un’altra fondamentale testimonianza di quanto la natura umana possa spingersi oltre i limiti dell’immaginazione, nel male e nel bene. Grazie Edith!

Soddisfazione corporea: il ruolo dell’orientamento sessuale nel mediare le differenze di genere nella percezione del proprio corpo

Un recente studio eseguito da Basaba e colleghi (2019) su di un vasto campione della popolazione Neozelandese, si è proposto di indagare il ruolo dell’orientamento sessuale nel mediare le differenze di genere circa la propria soddisfazione corporea.

 

L’immagine corporea è stata definita come “l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alle singole parti del nostro corpo” (Slade, 1988). È possibile pensarla come l’esperienza in terza persona del proprio corpo come oggetto, o il corpo-oggetto Hussleriano, il Korper; a questo si contrappone invece il Leib, il corpo vissuto dal suo interno, una percezione incarnata, anche detta propriocezione, determinata dagli input sensomotori che danno vita invece allo schema corporeo di un individuo.

Per quanto sia vissuta in terza persona, l’immagine corporea non riesce a godere di piena oggettività, risultando influenzata dalle attitudini personali, da varie componenti affettive e comportamentali che da ultimo modificano l’esperienza individuale impattando in particolare sull’autostima del soggetto (Posavac & Posavac, 2002). Sono così le valutazioni e le emozioni connesse all’esperienza del proprio corpo, a determinare infine la soddisfazione corporea di un individuo (Dittmar, 2009; Stice & Shaw, 2002).

In ambito clinico una scarsa soddisfazione corporea è risultata connessa all’insorgenza e al mantenimento di disturbi alimentari o dismorfofobici, depressione, ansia e uso di sostanze (Griffiths et al., 2018a; Griffiths, Murray, Dunn & Blasshill, 2017), è stato inoltre riscontrato da diversi studi indipendenti come le donne riportino generalmente livelli di soddisfazione corporea significativamente più bassi (Furnham, Badmin, & Sneade, 2002; McGuinness & Taylor, 2016; Peplau et al., 2009), risultando dunque più vulnerabili a tali problematiche.

Studi recenti sulla soddisfazione corporea rivolti a popolazioni specifiche, ad esempio analizzando i tassi riscontrati nella popolazione degli uomini omosessuali, hanno suggerito come l’orientamento sessuale possa essere un moderatore: essi infatti hanno riportato livelli di insoddisfazione statisticamente superiore rispetto alla media degli uomini eterosessuali, ottenendo punteggi equiparabili a quelli delle donne eterosessuali (Beren et al., 1996; Peplau et al., 2009); inoltre, la casistica circa l’incidenza di disordini alimentari o l’aderenza a regimi ortoressici nella popolazione omosessuale sembra dare ulteriore conferma di tale aspirazione ad un ideale di magrezza ed un corpo muscoloso (Yean et. Al., 2013). È stato ipotizzato che la maggior attenzione riservata dagli uomini verso l’aspetto estetico del proprio partner, sia il motivo per cui gli uomini che aspirino ad avere partner sessuali maschili incorrano, così come le donne eterosessuali, nella tendenza a monitorare costantemente il proprio aspetto e a percepirsi come oggetti-sessuali, anche detta auto-oggettificazione, a causa dei rigidi standard estetici culturalmente imposti (Fredrickson and Roberts’, 1997).

Le donne omosessuali, contrariamente a quanto si potrebbe semplicisticamente pensare, non presentano dei pattern speculari: sembrerebbe infatti che nonostante vi sia tra queste donne un atteggiamento generalmente più accettante e accogliente delle diverse fisicità, che rigetta l’aderenza a canoni estetici propri della narrativa dominante sull’aspetto che il corpo di una donna dovrebbe avere, questa modalità di pensiero potrebbe essere frutto dell’ingresso nella sottocultura lesbica in età adulta. Ciò tuttavia non è sufficiente a proteggere le donne dall’interiorizzazione già in età precoce degli imperativi perpetrati dalla cultura di riferimento; queste donne presentano, secondo alcune ricerche, dei profili di insoddisfazione corporea equiparabili a quelle delle donne eterosessuali (Koff, Lucas, Migliorini, & Grossmith, 2010; Peplau et al., 2009; Yean et al., 2013).

Inoltre, ricerche precedenti hanno messo in luce come gli uomini bisessuali riportassero livelli di soddisfazione corporea maggiori rispetto agli uomini omosessuali, e di come invece nelle donne bisessuali non si riscontrassero differenze significative rispetto alle donne eterosessuali o omosessuali (Yean et al., 2013; Polimeni et al., 2009), fenomeno ancora una volta attribuibile all’internalizzazione degli ideali estetici della cultura dominante.

Un recente studio eseguito da Basaba e colleghi (2019) su di un vasto campione della popolazione Neozelandese pari a 21.937 individui, si è proposto di indagare il ruolo dell’orientamento sessuale nel mediare le differenze di genere circa la propria soddisfazione corporea.

Il campione preso in considerazione comprendeva uomini e donne cisgender, che si identificassero quindi con il sesso biologico di appartenenza, i quali hanno definito liberamente il proprio orientamento sessuale per poi venire assegnati alle categorie eterosessuale, omosessuale/lesbica o plurisessuale (categoria comprensiva dell’orientamento bisessuale e pansessuale). I partecipanti hanno inoltre fornito un indice della propria soddisfazione corporea esprimendo un punteggio da 1 a 7.

L’analisi della covarianza tra il genere e l’orientamento sessuale ha messo in luce dei risultati non sempre in linea con le aspettative degli autori: come già rilevato nelle precedenti ricerche si è riscontrata anche in questo caso una maggiore soddisfazione corporea esperita dai maschi eterosessuali rispetto ad ogni altra categoria considerata; le donne lesbiche riportavano livelli di soddisfazione corporea superiori ai maschi omosessuali, i quali in assoluto riferivano i livelli di soddisfazione più bassa tra tutte le categorie. Per le donne plurisessuali e le donne eterosessuali la differenza di soddisfazione rispetto agli uomini gay è risultata statisticamente non rilevante. Contrariamente all’ipotesi degli autori si è inoltre rilevato come uomini plurisessuali abbiano espresso punteggi di soddisfazione corporea equiparabili a quelli degli uomini gay.

Il presente studio sembra quindi supportare l’idea che il desiderio di divenire attraenti allo sguardo maschile, possa essere il fattore determinante nello spiegare le differenze di genere riscontrate in letteratura. Ricerche future potrebbero ad esempio prendere in considerazione il sesso del partner attuale nel modulare le attitudini verso il proprio corpo, dal momento che è facile immaginare come essere impegnati in una relazione con un partner dell’uno o dell’altro sesso possa in qualche modo influenzare la pressione percepita verso l’aderenza a dei canoni proposti dall’immaginario maschile; allo stesso modo è necessario comprendere come anche identità di genere non conformi (ad esempio individui intersessuali o transessuali) possano acquisire ed eventualmente interiorizzare tali canoni estetici, con conseguenze rilevanti per la percezione dell’immagine corporea, spesso riportata come particolarmente problematica in questi casi (Jones, Haycraft, Murjan, & Arcelus, 2016).

L’Influenza della famiglia sulla salute mentale. Resoconto di uno studio sull’approccio psicoterapeutico del Disturbo Borderline di Personalità nella prospettiva sistemica

Il DBP (Disturbo Borderline di Personalità) è, tra i disturbi di personalità, il più frequentemente diagnosticato e oggetto di invio ai terapeuti famigliari.

 

Il Disturbo Borderline di Personalità è molto comune sia tra gli adulti che tra gli adolescenti e i giovani, con i più alti tassi di incidenza nella fascia di età compresa tra 18 e 35 anni. L’incidenza è significativamente maggiore nelle donne rispetto agli uomini (1:3); questo è forse anche dovuto al fatto che gli uomini con problematiche simili (o con questo tipo di stili interattivi e comportamentali, sono classificati più spesso come affetti da disturbo antisociale di personalità o da disturbo narcisistico di personalità. Il Disturbo borderline di personalità presenta una consistente prevalenza nel 2% della popolazione generale e del 10% di quella ambulatoriale.

A tal proposito, si riporta un articolo in cui si illustra l’approccio psicoterapico realizzato secondo la prospettiva sistemica con un gruppo di pazienti, tutti con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità, messo in atto presso l’Unità di Psicoterapia del Servizio di Psichiatria dell’Ospedale Santa Creu i Sant Pau di Barcellona. Il modello proposto combina interventi di tipo individuale con il paziente con interventi di tipo famigliare fin dall’inizio del trattamento, lavorando a seguire con i differenti sottosistemi a seconda delle difficoltà o esigenze emerse. Si parte dalla convinzione che procedere nel trattamento sia con il sistema famigliare che con il paziente permetta di promuovere più facilmente un cambiamento: co-costruire uno scambio interattivo favorevole rende permeabile il cambiamento positivo conseguito in seduta individuale e si rafforza nel sistema famigliare di riferimento. Sono stati presi in carico 27 pazienti, tutti con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità, suddivisi in tre sottogruppi, osservati e valutati tenendo conto di alcuni indicatori. In tutti i casi è stato possibile ottenere le videoregistrazioni e le trascrizioni delle sedute ed è stato fatto un follow-up di almeno due anni dopo la conclusione del trattamento.

Formulazione diagnosi

Nel lavoro con i pazienti con Disturbo Borderline di Personalità si è tenuto conto dei sistemi di riferimento: famiglia di origine, partner (B), ambiente di lavoro (adulti), scuola e gruppo dei pari (adolescenti e giovani adulti); delle caratteristiche individuali. Sono state messe in luce le sequenze interattive e i pattern ridondanti che caratterizzano il contesto relazionale di ogni famiglia, osservando in una prospettiva diacronica: eventi del passato e significato attribuito per i vari membri; sincronica: situazione attuale e attribuzione di significato. La diagnosi relazionale della famiglia di origine è stata formulata basandosi sulle due categorie dimensionali relazionali fondamentali, illustrate da Linares: coniugalità e genitorialità.

Analisi relazionale del campione

Da un’analisi attenta e accurata, è emerso che prima della comparsa del comportamento sintomatico si erano attivati meccanismi disfunzionali rispetto alle due categorie dimensionali prese in considerazione. Per quanto riguarda il legame affettivo, si è potuta mettere in luce: la grande vicinanza emozionale con una figura (generalmente la madre) e una distanza emozionale e/ o fisica col padre per il quale il figlio si aspettava riconoscimento e valorizzazione; la vicinanza risultava essere molto stretta, quasi fusionale, descritta in termini che sottintendevano una forte complicità; inoltre il figlio era l’interlocutore ritenuto valido per le confidenze. La vicinanza fisica veniva descritta come molto piacevole, e risultava esserci un eccessivo coinvolgimento rispetto al profitto scolastico e al successo in ambito sportivo (in molti casi rappresentativa per la madre di una fonte di soddisfazione e una implicita manifestazione di realizzazione personale).

Per quanto riguarda la socializzazione, nello specifico l’apprendimento delle norme, si sono potute evidenziare: una polarizzazione delle posizioni (alto livello di richiesta e permissività da parte di ognuno dei genitori); in molti casi, esigenze eccessive da parte del genitore con cui si è instaurato un legame più stretto e permissività dell’altro genitore con cui si è instaurato un legame di scarso interesse; spesso i metodi utilizzati per l’educazione del figlio erano stati motivo di conflitto; adozione del castigo anziché della ricompensa come metodo privilegiato; in alcuni casi, una differenza di atteggiamento con figlio da parte dei genitori in una prospettiva diacronica: ottimo rispetto delle norme durante l’infanzia, problematico durante la fase adolescenziale; in altri casi, il comportamento del figlio veniva descritto come esageratamente problematico sin dall’infanzia. Nei casi in cui è stato possibile avviare una ricostruzione delle esperienze relazionali che precedevano la comparsa dei sintomi, si è osservato che la condotta che i genitori ritenevano inappropriata e rifiutavano era strettamente correlata all’esigenza di acquisire maggiore autonomia e spazio decisionale da parte del figlio. Il processo di individuazione è stato reso difficile dalla massiva presenza e vicinanza emozionale da parte di un genitore e dalla distanza emotiva dell’altro genitore che non ha favorito né regolato il lento processo dell’autonomia.

Procedimento

Nel trattamento dei pazienti si può fare riferimento a due fasi:

  • la prima, mirante alla costruzione del contesto terapeutico, alla formulazione di una diagnosi relazionale e a rendere manifesto un contratto terapeutico. L’obiettivo principale è stato quello di raccogliere tutte le informazioni utili per la formulazione della diagnosi, partendo dall’esplorazione delle motivazioni che hanno indotto a richiedere una consultazione, del problema e di ciò che preoccupa la famiglia nel momento della richiesta della terapia e della valutazione delle esperienze pregresse maturate nei trattamenti precedenti. E’ stato dato ampio spazio e respiro a ciascun componente della famiglia in modo da ricostruire la storia personale in un’ottica sistemico – relazionale e capire qual è l’idea che la famiglia e il paziente hanno del disturbo. Si è lavorato nel tentativo di creare e stringere un’alleanza solida sia con il paziente sia con i suoi famigliari;
  • la seconda, sulla quale si fonda il processo terapeutico, nel rispetto degli obiettivi condivisi e concordati con la famiglia. Si è proceduto per costruire un contesto relazionale favorevole in grado di permettere l’accoglimento e la presa in carico dei bisogni affettivi del paziente. Nelle sedute con la famiglia, dopo un primo momento di ascolto, la si è stimolata a ricercare gli aspetti positivi nel paziente, annotando gesti che si riusciva a cogliere in un quaderno, il quale ha rappresentato il materiale di lavoro della seduta successiva.

Si è tenuto conto delle conoscenze sulle modalità di interazione del paziente con le altre figure di riferimento nell’ottica di una attribuzione reale del significato relazionale posseduto e di una verifica dei cambiamenti nel tempo. Sono state intervallate, alle sedute di coppia, sedute individuali all’interno delle quali si è tentato di comprendere l’origine e le dinamiche delle relazioni conflittuali, nella direzione di un progressivo miglioramento e di una auspicata risoluzione. Durante le sedute, l’attenzione è stata focalizzata sull’estirpazione nell’uso dei comportamenti sintomatici come meccanismo disfunzionale di risoluzione dei conflitti unitamente all’acquisizione di maggiore contenimento della rabbia. L’obiettivo terapeutico è stato quello di riparare e ricucire le relazioni significative del paziente con la famiglia.

Risultati

Gli esiti attesi sono stati soddisfacenti.

In tutti i casi del campione di giovani adulti alla fine del trattamento erano scomparsi i sintomi ed erano stati raggiunti gli obiettivi proposti rispetto all’aumento dell’autonomia e la gestione adeguata delle relazioni interpersonali.
(Campo, C., D’ascenzo, I., Il disturbo borderline della personalità: diagnosi e intervento nella prospettiva sistemica)

Nella maggior parte dei casi, i pazienti erano usciti dal circuito assistenziale e una parte di loro aveva instaurato un legame di coppia stabile. Nel campione degli adulti con una relazione di coppia stabile si sono ottenuti risultati ottimali in 6 dei 10 casi. Si è potuta confermare la remissione dei sintomi, l’uscita dal circuito assistenziale ed una buona integrazione nel tessuto sociale di appartenenza. In tutti i casi del campione degli adolescenti si è riscontrato un netto miglioramento della sintomatologia, tenendo conto dell’importanza che ha rivestito il coinvolgimento della figura paterna nella terapia. A conclusione dello studio, è stato possibile riscontrare la presenza e l’articolazione nelle famiglie di due tipologie di pattern disfunzionali, l’ipercoinvolgimento e la negligenza, generando confusione nel figlio che vive la sensazione di poter essere amato solo a condizione di rispondere a determinate aspettative da parte dei genitori. Pertanto si è sottolineata l’importanza di ricostruire la storia famigliare, attribuendo valore e significato a ciascun evento, condotta o emozione, per arrivare a ricucire le relazioni. Proponendo un intervento simultaneo e integrato a livello individuale e famigliare, ci si è proposti di far compiere uno sforzo per cambiare e per assemblare la visione di se stessi cambiando anche la visione di chi ci sta vicino, arrivando a superare la difficoltà di integrare il mondo esterno e il mondo interno.

In conclusione, nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità è quanto mai necessario coinvolgere la famiglia in modo che collabori e partecipi con motivazione e responsabilità. Sebbene, come afferma Gabbard:

La modifica terapeutica del mondo oggettuale interno del paziente con DBP richiede solitamente un processo psicoterapico individuale intensivo […] lavorare con la famiglia è spesso un complemento essenziale nell’ambito del piano di trattamento generale.
(Gabbard, G.O., Psichiatria psicodinamica, Raffaello Cortina, Milano, 2015, pag. 466)

 

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