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Liberati dalla gelosia – Manuale pratico per uscire dalla morsa dell’amore possessivo

COMUNICATO STAMPA

Liberati dalla gelosia – Manuale pratico per uscire dalla morsa dell’amore possessivo

Il libro di Davide Algeri

Dario Flaccovio Editore – 128 pagine – 16,00 euro

 

 

Milano, 9 ottobre 2019 – Presente ovunque, dai problemi di cronaca nera a quelli sentimentali all’interno delle coppie, la gelosia è una protagonista indiscussa dei rapporti interpersonali contemporanei.

Ma quali sono i meccanismi che la causano? E con quali corresponsabilità del geloso e di chi, la gelosia, la subisce materialmente? Ma soprattutto: è possibile liberarsene in modo definitivo?

La risposta, affermativa, è contenuta nel titolo del nuovo libro dello psicologo e psicoterapeuta Davide Algeri.

“Liberati dalla gelosia” (Dario Flaccovio Editore) è manuale improntato innanzitutto sulla praticità, e mira a fornire consigli rapidi e concreti come una vera e propria guida da consultare al bisogno, pensata sia per le coppie che desiderano costruire una relazione più sana e serena basata sulla consapevolezza, sia per chi intende avere maggiori chiarimenti su questo sentimento e le relative modalità di gestione.

Nel libro di Algeri, nato dall’esperienza clinica maturata in numerosi anni di lavoro con le coppie, sono contenute le corrette strategie per arginare la gelosia e depotenziarla, sviluppando qualità personali come la gestione della rabbia, del piacere, dell’autostima e della paura.

Proprio quest’ultimo tratto, si evince in “Liberati dalla gelosia” (Dario Flaccovio Editore), è il vero motore del sentimento e anche la connessione tra vittima e carnefice.

Entrambi i profili sono infatti complementari, perché legati da una stessa paura comune: quella di restare soli.

“Nella dinamica della gelosia – spiega l’autore Davide Algeri – il geloso ha sicuramente le sue responsabilità, ma anche la vittima, con le sue provocazioni e i messaggi ambigui, contribuisce ad alimenta questo amaro sentimento.

“All’interno di questo “gioco” disfunzionale, fino a quando il potere resta in mano alla vittima, spesso si rimane nell’equilibrio disfunzionale: da un lato c’è chi ha paura dell’abbandono e dall’altro chi si mostra sicuro e senza alcun timore. E’ quando si rompe questo “equilibrio” che esce fuori la vera natura della vittima, che da sicura che era, inizia a manifestare anche lei la paura di essere abbandonata. In questi casi la coppia può darsi da fare per rimescolare le regole del gioco.”

 

 

L’autore

Davide Algeri lavora a Milano come psicologo, psicoterapeuta e consulente in sessuologia.  Da oltre dieci anni studia le dinamiche legate alle crisi di coppia e le strategie per superarle con successo. Appassionato di nuove tecnologie, usa i social per diffondere la cultura psicologica. È co-autore dei libri Consulenza psicologica online (2018) e La coppia strategica (2019).

Il visibile e l’invisibile: la terapia sistemica oggi – Report dal Congresso EFTA 2019 di Napoli

Si è tenuto a Napoli dall’11 al 14 settembre il congresso EFTA di terapia sistemica dal titolo Il Visibile e l’Invisibile. Numerosi i contributi mostrati, impossibile seguirli tutti, circa 1500 studenti. 

 

Abbiamo bisogno
di un luogo: ci vuole 
una mano, 
una casa, un sorriso, 
qualcosa che ci faccia 
da perimetro

(Franco Arminio)

Presente tra i relatori Mony Elkaim che, attraverso una simulata con una famiglia presa dal pubblico, ha proposto i temi cari alla metodologia della psicoterapia sistemica familiare, come quello della ridefinizione del problema e l’utilizzo del paziente designato come risorsa del sistema e non come problema.

Nataly era la paziente designata in un sistema famigliare che vedeva in lei una ragazza ribelle, attraverso il riposizionamento dei ruoli familiari e attraverso l’attivazione di nuove modalità di comunicazione, diventa risorsa del sistema che offre ai suoi membri la possibilità di comprendere che le scelte vanno portate avanti con forza, che le opinioni diverse non devono spaventare, ma bisogna poterle esprimere e difendere. Elkaim a fine seduta per rafforzare quanto detto sopra afferma:

Nataly mi hai insegnato che in una famiglia è importante avere opinioni diverse, poter scegliere cose diverse, e la difficoltà di accettare le cose degli altri. La famiglia si deve porre come tappa la comprensione dell’opinione dell’altro… quando papà si avvicina a mamma, lei deve rimanere un po’ rigida … lui dirà fai questo e questo, e lei dirà no…ciascuno deve trovare il suo spazio.

Tra i diversi contributi sicuramente interessante quello del professor Paolo Bucci professore della Scuola Romana di Terapia Familiare, che ha introdotto una tematica interessante rispetto alla malattia come metafora per pensare alla vita.

Disponiamo oggi di ipotesi non deterministiche orientate verso l’esplorazione del non noto ed attente agli aspetti processuali del vivere. La prospettiva che sostiene tale ipotesi non spiega ciò che è malato e ciò che non lo è, ma considera il contesto in cui l’individuo è immerso ed il modo in cui egli si rivolge alle proprie vicissitudini. Il modo in cui la nostra mente si rapporta ai segni provenienti dal corpo incide sulle vicende che possono condurre l’individuo all’acquisizione di una conoscenza più complessa di sé e talvolta anche ad aprire percorsi di cure mediche più adeguate. In questo senso parliamo di funzione organizzatrice della malattia: non in quanto la malattia determina un’organizzazione, ma in quanto entra come parte in un processo complesso in cui il tutto si organizza includendo la presenza di quella parte.

E ancora il professor Camillo Loriedo Direttore Scientifico e Didattico dell’Istituto Italiano di Psicoterapia Relazionale di Roma e della Scuola Italiana di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana che ha presentato due relazioni unite fra loro da un filo conduttore, mostrando come guardare ad un sistema familiare o individuale a partire dalle risorse del sistema stesso.

Allenatevi a non chiedere quale sia il problema e a cercare le risorse. Con notevole interesse del pubblico ha mostrato una visione alternativa rispetto al cambiamento che può avvenire a partire dal riconoscimento delle proprie passioni dimenticate o smarrite nel tempo ma rievocabili in qualunque momento della vita.

E ancora Umberta Telfner, Psicologa Clinica, Psicoterapeuta Sistemica e Cognitivista, Didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, ha tenuto diverse relazioni: in particolare ha presentato una relazione in cui ha messo in evidenza i mutamenti nell’approccio della scuola di Milano al cambiamento. Proponendo interessanti riflessioni sul come utilizzare i maggiori esponenti del pensiero sistemico come Bateson, Von Foerster, Deleuze e Foucault cercando di allinearli alle problematiche della società contemporanea e del terapeuta di oggi, che deve collocarsi in uno spazio temporale che propone nuove sfide e nuove metodologie.

Ancora molto interessante l’intervento nella tavola rotonda della Dott.ssa Rossella Aurilio, Didatta e Direttore dell’Istituto I.T.F. di Napoli, che ha provato a interrogarsi e proporre in maniera formativa il concetto di contesto nella diagnosi e nella terapia, ipotizzando come contesti insoliti o meno ortodossi sembrino offrire maggiori possibilità di cambiamento in determinate situazioni. Ha presentato il caso di una paziente anoressica seguita in approccio multiplo, mostrando come l’utilizzo di setting alternativi possa attivare il recupero di risorse sommerse per il cambiamento di patologie cronicizzate nel tempo.

Ancora tra i relatori Carmine Saccu, direttore e didatta della Scuola Romana di Terapia Familiare, con la sua relazione sulla famiglia nella gestione di un adolescente problematico, ha fornito validi strumenti per la valigetta del terapeuta:

L’adolescenza è nel ciclo vitale della famiglia uno dei momenti più creativi. È un test non solo per la famiglia nucleare ma investe spesso una dimensione trigenerazionale toccando l’assetto emotivo affettivo, l’aspetto culturale, sociale fino a giungere a sfidare il mito stesso della famiglia. L’adolescenza scuote lo spazio e il tempo della famiglia apre a prospettive nuove e allo stesso tempo evoca i fantasmi più terribili. Il vaso di Pandora pieno di istinti e di emozioni si scoperchia, un turbinio teso a sfociare nel pensare il pensiero e ad essere individuo. Un individuo tra gli altri e per gli altri. Ognuno per entrare nel tempo esegue il suo rito, rito spesso vissuto come dissacratorio e attiva generatori di risposte dure spesso crudeli. In questo momento del ciclo vitale il rischio di soluzioni psicopatologiche e psicosociali diventa più alto quando esse appaiono come le uniche vie d’uscita in assenza di alternative.

E ancora Valeria Ugazio, psicoterapeuta sistemico-relazionale, svolge la propria attività terapeutica e formativa a Milano, dove dirige lo European Institute of Systemic-relational Therapies, didatta della scuola milanese, ha tenuto due interessanti relazioni: una sulla coppia, introducendo il tema dei due mondi diversi di significato che si incontrano e iniziano ad interagire su diversi livelli, prendendo come spunto le sue concezioni espresse in polarità semantiche in cui Ugazio valuta la coesione semantica tra i due sistemi:

La vita della coppia insieme inizia dall’incontro di due diversi mondi di significati, il risultato di precedenti posizionamenti. L’incontro apre molti possibili fraintendimenti ed episodi enigmatici perché ogni partner ha il suo modo di sentire intimità e aspettative, derivanti dalla sua semantica dominante, e spesso diversi da quelli del partner.

L’altra sull’utilizzo della scheda familiare come strumento di lavoro per le famiglie di oggi, che sono spesso famiglie allargate.

Ulteriore argomento interessante é stato trattato nella tavola rotonda tenuta dalla dott.ssa Anna La Mesa e Angela Campa in cui si è parlato di questioni di donne, mettendo in relazione diverse figure a confronto, dalla psicoterapia alla ginecologia. Di particolare interesse la trattazione del tema dell’infertilità di coppia in una visione sistemica integrata con l’ipnosi di coppia presentato da Anna La Mesa, psicoterapeuta sistemico-relazionale, docente in diverse scuole di psicoterapia e presidente dell’associazione Idee Di Salute e Carla Sorace, psicoterapeuta sistemico relazionale e Vicepresidente dell’associazione Idee di Salute, che si occupano da anni del tema infertilità con il loro gruppo di ricerca.

Nella relazione si è mostrata una visione multidisciplinare e olistica della sterilità e l’infertilità.

Nel trattamento dell’infertilità, corpo, mente e psiche non possono essere scissi, come avviene nell’approccio medico. La visione sistemica è trasversale: facilita i processi, le relazioni, la comunicazione affettiva tra i diversi attori, connette i processi emotivi e relazionali degli individui coinvolti.
(Anna La Mesa)

E ancora, nella stessa tavola rotonda, interessanti gli studi della Dott.ssa Annunziata Crispino, Psicologa clinica e Psicoterapeuta Sistemico Relazionale, che ha affrontato il trattamento sistemico del dolore pelvico cronico mostrando le diverse configurazioni familiari delle donne soggette a tale patologia.

Nello specifico, afferma la dott.ssa Crispino, tale sindrome potrebbe essere definita Il Matrimonio Riuscito tra corpo e mente, in quanto caratterizzato da una perfetta integrazione/relazione tra la parte fisica e la parte psichica: la percezione del dolore ed il viraggio del dolore da acuto a cronico avviene a causa di uno stato infiammatorio, mentre sul piano psichico la radice del comportamento da dolore si trova all’interno delle relazioni della paziente e nello stile di relazione genitoriale.

In sostanza, per comportamento da dolore, si intendono tutte le modalità di gestione dello stesso apprese nel sistema familiare d’origine, sul come il sistema affronta e gestisce il dolore fisico.

Tante altre le relazioni presentate in una maratona di argomenti e trattazioni che hanno offerto non solo spunti di riflessione, ma anche rinnovato e consolidato la consapevolezza di quanto sia importante il confronto tra approcci e idee, ribadendo l’importanza da un lato della metodologia e della formazione e dall’altro il coraggio e la necessità di proporre soggettività che siano poi replicabili e estendibili su larga scala. Obiettivo comune resta quello di avere metodi e procedure condivisibili che siano trasmissibili su un piano formativo ai futuri psicoterapeuti, ma al tempo stesso che tengano conto del recupero della soggettività intesa come originalità del terapeuta e della soggettività del paziente.

#SocialSexEra, il primo festival della sessuologia in Italia – Report dall’evento

Si è tenuto a Firenze, il 14 e 15 Settembre, il primo festival della sessuologia in Italia, #SocialSexEra, dove, tramite tavole rotonde, conferenze e laboratori, si è cercato di fare chiarezza sugli effetti che le nuove tecnologie hanno sulle relazioni e sulla sessualità.

 

I social, internet e le nuove tecnologie stanno inconfondibilmente modificando i nostri comportamenti. Al di là di inutili moralismi sulle nuove tecnologie e il loro impatto, lo psicologo e gli altri professionisti che si occupano di benessere dovrebbero indirizzarsi verso una maggiore integrazione delle nuove tecnologie nel percorso terapeutico, oltre a divenire sempre più competenti nell’ambito delle possibili disfunzioni e disagi a cui un uso inappropriato della tecnologia può portare.

Nel tentativo di guidare i professionisti e i non addetti ai lavori ad una migliore comprensione del fenomeno, il Centro Integrato di Sessuologia Il Ponte di Firenze, Giunti Pyschometrics e Psicologia Contemporanea hanno ideato il Primo Festival della Sessuologia #SocialSexEra tenutosi il 14 e 15 settembre. Tra i protagonisti delle varie tavole rotonde, conferenze e laboratori troviamo Fabrizio Quattrini, Davide Dèttore, Roberta Bruzzone, Alberto Caputo, Maura Manca, Ayzad e tanti altri relatori.

Relazioni tecno-mediate

Particolarmente illuminante l’intervento della Dott.ssa Maura Manca che sottolinea come siano l’uso improprio della tecnologia e il suo impatto ad essere nocivi, non la tecnologia stessa. Frequentemente troviamo adulti che criticano i ragazzi moderni in quanto ossessivamente affezionati al proprio smartphone. Tali critiche potrebbero essere opportune, se non per il fatto che questi adolescenti simulano i comportamenti dei propri genitori che interpongono la tecnologia nei rapporti. La relazione genitore-figlio viene quindi tecno-mediata a discapito di una sana affettività. La dott.ssa Manca chiude l’intervento lanciando una riflessione dai toni provocatori: dov’è l’affettività? Dov’è l’amore se i genitori al primo giorno di scuola filma il bambino per Instagrammarlo e non lo abbraccia, non lo vive?

Vis à vis o dating app?

In un’altra tavola rotonda i relatori si sono soffermati sull’uso massiccio delle applicazioni per incontri. Tra i presenti, Fabrizio Quattrini si chiede cosa spinge le persone ad allontanarsi dall’incontro normale e utilizzare le app. Inizia a rispondere sottolineando il fatto che non è soltanto una questione dei millennials, ma è un fenomeno sociologico da tenere sottocchio in quanto potrebbero nascere nuove forme di patologie, legate a quadri ansiosi e di dipendenza. L’uso di app potrebbe servire, secondo Quattrini, per costruire nuove fantasie, un nuovo modo di eccitare, di fare erotismo oppure per pigrizia, consentendo ai giovani adulti di sperimentare una sessualità capace di incastrarli in una sorta di dipendenza da tinder.

Litigio? Sì, ma chattando. Un intervento di Gabriela Rifelli

Un intervento particolarmente rilevante è stato condotto dalla dott.ssa Gabriella Rifelli, sul tema del litigio: Litigio? Sì, ma chattando. La dott.ssa ha illustrato i principali vantaggi e svantaggi di questo comportamento. Se da un lato troviamo la possibilità, tramite le chat, di esprimere il contenuto anche quando la persona non è presente, o se siamo timidi, dall’altra parte i litigi online portano a vari svantaggi.

La relatrice ha individuato una vera e propria anatomia della comunicazione via chat, la quale può essere sincrona, quando gli interlocutori scrivono contemporaneamente, o asincrona, quando un interlocutore scrive un messaggio e un altro interlocutore risponde dopo tempo.

Quando si parla di litigi via chat sono tre i possibili comportamenti da parte dell’interlocutore che inizia il litigio:

  • Remote invocation: il mittente aspetta che il ricevente sia pronto e solo dopo la disponibilità inizia a scrivere;
  • Risposte a raffica: le risposte si susseguono rapidamente;
  • Anticipo della risposta: si pone una domanda all’interlocutore e si risponde personalmente alla domanda appena posta (es: sei andat* al cinema? Io si, con Luca);

Ma cosa succede a livello psicologico nella mente degli interlocutori? Da parte di chi inizia il litigio vi è l’idea che l’altro debba leggere subito il messaggio inviato. Se ciò non avviene, il mittente inizia a sperimentare uno stato di disagio che aumenta arrivando anche alla manifestazione di sintomi ansiosi nel momento in cui il destinatario legge il messaggio senza rispondere (micidiali, quindi, le famose doppie spunte dei principali sistemi di messaggistica istantanea!). Questo stato di ansia fa inoltre aumentare un controllo ossessivo del partner, diventando in alcuni casi estremo: il mittente controlla il telefono ripetutamente per vedere se il messaggio è stato letto o se il destinatario si trova online.

E a livello relazionale? Questi litigi a cosa portano? Se non tutto il male vien per nuocere, il litigio non fa certo eccezione.

Permette infatti di conoscere e riconoscere l’altro, di crescere come coppia e come persona e di creare una condizione di sano ascolto all’interno della coppia. Detto ciò, però i chat-litigi con risposte a raffica non permettono di conoscere e riconoscere il partner, vi è una mancanza di ascolto e di empatia. Per comprendere e raggiungere i compromessi all’interno della coppia è di vitale importanza il linguaggio non verbale che viene meno nella comunicazione via chat. I litigi via chat non verranno quindi sanati del tutto, riempiendo la comunicazione di malintesi e fraintendimenti.

Concludendo, se si ha la possibilità di litigare a distanza si ha anche la possibilità di modificare le proprie emozioni (perlomeno quelle espresse nella comunicazione) e di spersonalizzare la persona e tutto ciò conduce ad una maggiore aggressività nella comunicazione, come spiega la dott.ssa Rifelli.

Perché continuiamo a litigare via chat nonostante tutti gli svantaggi presentati?

In una società del consumo è difficile saper aspettare, saper tollerare la sofferenza. Via chat tutto è più semplice: si ha un soddisfacimento del bisogno del tutto e subito, si evitano le emozioni dell’altro, vi è un senso illusorio di controllo sull’altro e si riduce la persona ad oggetto.

Come abbiamo visto, i litigi via chat possono esser vantaggiosi per preservare la propria autostima, ma estremamente dannosi per la relazione. La dottoressa Rifelli suggerisce quindi di imparare ad essere pazienti, ovvero, come avrebbe detto A. Ellis, imparare a tollerare.

Dulcis in fundo: le sessualità più strane del web

Infine, i dottori Roberta Bruzzone e Alberto Caputo, con Le sessualità più strane del web, illustrano i concetti di parafilia e disturbo parafilico portando il pubblico, con sapiente ironia, ad indovinare il significato del termine proposto. Un esempio fra tutti lo splooshing, ovvero il piacere di vedere persone ricoperte di sostanze come olio, fango, alimenti ecc. Un interattivo quizzone volto a stimolare il pubblico a destreggiarsi in queste sempre più folte terminologie specifiche.

Concludendo, #SocialSexEra rappresenta il primo vero tentativo in Italia di far conoscere la sessuologia come materia.

 

La psicoterapia in età evolutiva (2018) di Fabio Celi – Recensione del libro

La formula dell’ultimo manuale scritto da Fabio Celi, La psicoterapia in età evolutiva, è, come nei precedenti, accattivante; consiste in una risposta dettagliata, pratica, semplice (ma mai semplicistica) ad un elenco di domande cliniche, spesso interconnesse tra di loro o approfondite da un glossario interattivo e da contenuti video correlati.

 

Gran parte degli interrogativi sono calati nella pratica lavorativa (ad esempio cosa fare quando un genitore non accetta di venire ad un appuntamento o di fronte ad un bambino che non riesce ad aprirsi su un argomento per lui troppo doloroso) che danno la misura di quanto sia articolato e complesso il lavoro quotidiano di uno psicoterapeuta in età evolutiva.

La presa in carico dei bambini è infatti tutt’altro che semplice, occorrono competenze specifiche, sensibilità, predisposizione, interesse per il mondo infantile ma anche capacità di tenere sempre in mente il funzionamento globale del bambino all’interno della sua famiglia, del contesto scolastico e di quello extra-scolastico.

La dimensione famigliare, in particolare, costituisce un’importante sfida per i terapeuti, poiché ogni nucleo ha le proprie caratteristiche uniche, i propri ritmi, rituali, credenze, strategie individuali di soluzione dei problemi.

Difficile quindi pensare di poter ricorrere ad un catalogo di soluzioni pre-confezionate, e così l’autore ci accompagna alla scoperta di come lui stesso declini di volta in volta specifiche tecniche standard (quelle cognitivo-comportamentali, derivate dalla sua personale formazione) rispetto ad un ampio ventaglio di situazioni cliniche; dai disturbi dell’apprendimento a quelli dell’umore, dall’elaborazione del lutto alla gestione di comportamenti problematici, paure, dipendenze.

Solitamente alla base di una richiesta di aiuto per un bambino c’è il fatto che di fronte ai sintomi o al disagio di un figlio i genitori reagiscono con inquietudine e (a volte) con qualche errore educativo, rischiando talvolta di amplificare, anche inconsapevolmente, la sofferenza dei piccoli, che a loro volta risuonano dell’angoscia dei genitori.

L’intervento del terapeuta, quello descritto in questo volume, ha proprio lo scopo di interrompere questo potente circolo vizioso, promuovendo un graduale processo di riorganizzazione individuale e famigliare e di recupero delle capacità genitoriali, di cui ogni bambino ha estremamente bisogno.

E poi c’è il rapporto esclusivo del professionista con i bambini; il coinvolgimento della famiglia deve sempre conciliarsi con il diritto del minore di non vedere tradita l’intimità che si crea con il terapeuta nell’ambito dei colloqui individuali.

Questo aspetto, particolarmente delicato nella terapia con gli adolescenti, viene più volte ribadito, con un richiamo a stabilire un rapporto di cooperazione con i genitori che tuttavia non infranga mai la privacy dei pazienti, anche se minori.

Per l’autore la ricerca di un rapporto di fiducia con i piccoli è un tema prioritario, poiché anche loro, così come i pazienti adulti, possono porsi nei confronti del terapeuta con un atteggiamento restìo, sospettoso, carico di dubbi circa il fatto che ci si possa fidare o meno di qualcuno che, a tutti gli effetti, è comunque un estraneo.

L’invito è di maneggiare la diffidenza dei bambini con misura, prudenza e tatto; innanzitutto favorendo la comunicazione anche a livelli più agevoli per i più piccoli rispetto a quello prettamente verbale (il disegno, il gioco, lo spostare a tratti il dialogo dal sintomo alle tematiche più care e quotidiane di ogni piccolo paziente) ma anche, banalmente, accettando con equilibrio e senza forzature che un bambino può, a volte, non aver alcuna voglia di parlare con un professionista della propria sofferenza.

Non mancano nel manuale indicazioni preziose ai professionisti su come gestire anche questi ed altri possibili aspetti di criticità e stallo, discussi con invariato entusiasmo per questo lavoro; ciò grazie all’esperienza e umanità di Fabio Celi, un terapeuta che richiama alla mente una nota poesia di Gianni Rodari per la capacità che dimostra, nel tempo, di mantenere intatti sia un orecchio maturo, in contatto con il mondo dei grandi, ma anche uno acerbo, aperto sul meraviglioso mondo dei bambini.

 

Un giorno sul diretto Capranica-Viterbo
vidi salire un uomo con un orecchio acerbo.
Non era tanto giovane, anzi era maturato,
tutto, tranne l’orecchio, che acerbo era restato.
Cambiai subito posto per essergli vicino
e poter osservare il fenomeno per benino.
“Signore, gli dissi dunque, lei ha una certa età,
di quell’orecchio verde che cosa se ne fa?”
Rispose gentilmente: “Dica pure che son vecchio.
Di giovane mi è rimasto soltanto quest’orecchio.
È un orecchio bambino, mi serve per capire
le cose che i grandi non stanno mai a sentire:
ascolto quel che dicono gli alberi, gli uccelli,
le nuvole che passano, i sassi, i ruscelli,
capisco anche i bambini quando dicono cose
che a un orecchio maturo sembrano misteriose…”
Così disse il signore con un orecchio acerbo
quel giorno sul diretto Capranica-Viterbo

 

 

Un bel respiro e conta fino a dieci

Il primo suggerimento che diamo a qualcuno vicino a noi in preda all’ira più funesta è: “fai un bel respiro e conta fino a dieci”, sperando che la messa in atto di questo possa in qualche modo prevenire nell’irato la manifestazione di un comportamento rabbioso e aggressivo tramite la dilazione dell’intervallo di tempo tra l’inizio dell’arrabbiatura e la sua espressione più manifesta, esplicita e a volte più pratica. Ma davvero contare fino a dieci aiuta?

 

 Il nostro comportamento è governato da due sistemi differenti, un primo più raffinato e complesso che ci consente di selezionare il piano d’azione migliore sulla base di una precisa e attenta valutazione di quella opzione, tra le immediatamente disponibili al momento, che meglio si adegua e confà al raggiungimento del nostro scopo prefissato, e un secondo più superficiale e veloce che ci fa scegliere l’azione più immediata basandosi non più su una conoscenza approfondita dell’ambiente esterno e delle alternative disponibili, ma su una conoscenza pregressa frutto di apprendimenti precedenti (Daw, 2018). Semplificando, si potrebbe affermare che il primo sistema di tipo decisionale è goal-directed, ovvero specializzato nella scelta e nella computazione della presa di decisione più adatta e coerente con il nostro scopo, il secondo, contrariamente al precedente, è più “impulsivo” e date queste sue caratteristiche ci permette di reagire più rapidamente e prontamente agli stimoli ambientali che ci elicitano. Tuttavia, mentre il primo sistema richiede più tempo e risorse cognitive nell’implementazione dell’azione di risposta ad uno stimolo, il secondo, essendo più repentino, dà origine ad un’azione ratica, meno “ragionata” e quindi meno appropriata al contesto (Daw, 2018).

I modelli computazionali che sostengono l’esistenza di questi due sistemi operanti in parallelo ipotizzano che in alcune circostanze entrino in competizione per il controllo dell’azione e che di fatto uno vada a prevalere sull’altro, generando una risposta a volte più funzionale a volte più impulsiva e meno adatta alle circostanze o al raggiungimento dei nostri scopi. Una consistente mole di studi neuroscientifici si è occupata di indagare l’esatta natura di questa competizione tramite modelli sperimentali, per comprendere sia gli specifici meccanismi che consentono il passaggio da un sistema all’altro e sia la tipologia di circostanze ambientali che favoriscono l’attivarsi e il predominare dell’uno sull’altro (Dolan & Dayan, 2013).

Studi condotti su popolazioni animali hanno evidenziato come la messa in atto in modo ripetitivo e prolungato nel tempo di una stessa azione possa agevolare il passaggio dal sistema goal-directed al secondo, quello più legato ad abitudini e ad automatismi, sebbene si è rivelato sorprendentemente difficile indurre sperimentalmente delle abitudini negli individui (Wit, Kindt, Knot et al., 2018). La ragione principale per la quale si è rivelato così difficile studiare e comprendere la formazione dei  comportamenti abitudinari nei soggetti sperimentali risiede nel fatto che, sebbene questi ultimi sviluppino delle abitudini, queste vengono spesso mascherate dai processi del sistema goal-directed. Infatti, nei modelli sperimentali utilizzati si osserva come uno stimolo possa innescare la preparazione di una risposta ad esempio motoria e come questa preparazione potrebbe non essere poi direttamente espressa con un’azione automatica, ma potrebbe essere sostituita dall’altro sistema, ancor prima di essere implementata. L’azione finale osservata è quindi frutto del sistema uno o del sistema due?

La preparazione motoria di un’azione si verifica indipendentemente e sistematicamente molto prima, in termini di tempo, rispetto alla sua realizzazione concreta all’esterno (Haith, Pakpoor et al., 2016). Pertanto, in termini sperimentali di laboratorio, ci si aspetta che il sistema decisionale più automatico possa selezionare l’azione più rapidamente, mentre l’altro sistema, essendo più raffinato, richieda una quantità di tempo maggiore e che di conseguenza, una limitazione del tempo a disposizione per i soggetti richiesto per la preparazione di un’azione potrebbe prevenire l’attivazione del sistema goal-directed, svelando la presenza di abitudini latenti.

 Tale ipotesi è stata indagata da Hardwick, Forrence, Krakauer del dipartimento di neurologia dell’Università John Hopkins di Baltimora, nell’ultimo studio recentemente pubblicato su Nature Human Behaviour. Per circa quattro giorni, i ricercatori hanno istruito 22 soggetti sperimentali a rispondere più velocemente possibile all’apparire di uno stimolo visivo neutro in rapida successione – una lettera dell’alfabeto fenicio – premendo il bottone corrispondente. Lo scopo era quello di agevolare i soggetti nel compito di associazione visuomotoria e far sì che l’azione motoria (premere il bottone), al comparire dello stimolo visivo sullo schermo, diventasse automatica e di conseguenza una procedura automatica, ossia un’abitudine. Come atteso, la pratica prolungata nel tempo del compito ha portato i soggetti ad un miglioramento delle prestazioni, misurate tramite una significativa riduzione dei tempi di reazione all’apparire dello stimolo (Hardwick, Forrence, Krakauer et al., 2019).

A questo punto, gli autori hanno introdotto all’interno del compito dei trial specifici per indurre nei soggetti sperimentali una risposta “forzata”, cioè per costringerli ad implementare l’azione motoria di risposta allo stimolo visivo in un intervallo di tempo più dilazionato rispetto ai precedenti trial. Per ogni trial di risposta “forzata” i partecipanti erano stati istruiti a sincronizzare la loro risposta motoria con la comparsa di un tono, mentre gli stimoli visivi neutri venivano presentati in modo random. Tale procedura è stata inserita per evitare che i soggetti avessero una quantità di tempo sufficiente per processare lo stimolo visivo, che appariva sullo schermo per meno di 300 millisecondi prima che terminasse il suono. I soggetti sono stati quindi essenzialmente costretti ad “indovinare” il momento esatto in cui premere il bottone senza alcun tipo di riflessione (Hardwick, Forrence, Krakauer et al., 2019).

Le evidenze dello studio hanno messo in luce come per ogni trial visuomotorio in combinazione con quello di risposte “forzate”,  i partecipanti riducessero significativamente la latenza alla quale essi avrebbero potuto selezionare e preparare la risposta motoria, evidenziandone l’automaticità. I dati hanno altresì prodotto una ulteriore comprensione della natura della competizione tra i due sistemi decisionali, sottolineando come questi competano tra di loro per stabilire quale tra un’azione goal-directed e un’abitudine debba essere preparata e rapidamente implementata in ragione del cambiamento del contesto, in questo caso del task. Nonostante vi siano diversi goal, diversi scopi da perseguire in parallelo – in questo caso rappresentati dalle diverse istruzioni date ai soggetti sperimentali – soltanto una e una sola azione è stata implementata come già dimostrato in precedenza da Dekleva, Kording e colleghi (2018).

I risultati ottenuti sono risultati coerenti anche con il modello per il quale i processi di preparazione e inizio di un’azione avvengano separatamente; infatti, nonostante la risposta automatica sia in ogni caso preparata, non è necessariamente detto che questa sia poi implementata. Lo studio ha messo in luce come un breve intervallo di tempo consente la dissociazione tra la preparazione e l’inizio dell’esecuzione di un’azione e quindi il passaggio da una abituale ad una goal-directed e viceversa (Hardwick, Forrence, Krakauer et al., 2019).

Pertanto sembrerebbe che i comportamenti automatici possano essere “indotti” riducendo precocemente l’intervallo di tempo tra la preparazione dell’azione e la sua implementazione effettiva, intervallo così prolungato da compromettere al contempo l’intervento del sistema goal-directed. Il ripristino di un intervallo di tempo sufficiente tra la preparazione dell’azione e sua realizzazione permette al soggetto di “ignorare” la tendenza a compiere azioni più automatiche in quanto ha tempo sufficiente per un comportamento più “ragionato” e funzionale al contesto.

Quindi in caso di arrabbiature, prima di reagire ed evitare problemi, fate un bel respiro e contate fino a dieci.

Forum della Ricerca in Psicoterapia: il video della prima giornata – Riccione 2019

Stimolare una riflessione su come la concettualizzazione, la condivisione, la strategia e la tecnica interagiscano tra loro all’interno del processo terapeutico: il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia”

 

Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia” 10-11 maggio 2019, Riccione. Il Forum della Ricerca in Psicoterapia è un convegno biennale organizzato dalle scuole Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Scuola Cognitiva di Firenze, Psicoterapia e Scienze Cognitive in cui gli allievi delle diverse scuole hanno l’opportunità di presentare e discutere i propri lavori di ricerca e casi clinici e ricevere revisioni da parte di ricercatori e clinici di comprovata esperienza. Quest’anno il Forum della Ricerca in Psicoterapia ha avuto come obiettivo quello di stimolare una riflessione su come la concettualizzazione, la condivisione, strategia e tecnica interagiscano tra loro all’interno del processo terapeutico. Il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia” ha il fine di promuovere un confronto tra le diverse prospettive cognitive, una maggiore interazione tra clinica-formazione-ricerca, una riflessione critica sui progressi scientifici nell’ambito della psicoterapia cognitiva, la realizzazione di disegni di ricerca che possano avere rilevanza in ambito clinico e un’analisi critica della concettualizzazione e gestione dei casi clinici.

 

E che i giochi comincino! – Il video della prima giornata del Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 di Riccione:

 

 

Intervista a Giovanni Allevi: musica significa infrangere le regole consolidate

Paura e desiderio, immaginazione e mistero, individualità e futuro. La musica: un viaggio mentale complesso e articolato, chiave d’accesso verso territori nuovi ed incontaminati.

 

 Intervistatore (I): Quando è nato il Suo amore per la musica?

Giovanni Allevi (GA): Più che di amore, parlerei di paura e desiderio insieme. La scintilla è scattata da piccolo, quando i miei mi vietarono di toccare il pianoforte, chiudendolo a chiave. Andavo alle elementari e il mio pensiero fisso a scuola era di tornare a casa, trovare la chiave ed infrangere il divieto. Ancora oggi, per me la Musica significa infrangere delle regole consolidate, per trovarmi in un territorio nuovo ed incontaminato.

(I): Gli antichi Greci sono stati i primi musico-teorici ad accorgersi dell’influenza della musica sulla mente. Che effetti ha prodotto la musica su di Lei, durante l’adolescenza, interamente dedicata allo studio dell’armonia?

(GA): Ciò che chiedevo alla musica non era tanto la breve e fugace emozione. Io bramavo il viaggio mentale, il sogno, complesso e articolato. Solo la musica classica-sinfonica, con le sue architetture dilatate, appagava questo mio desiderio di appartarmi in un mondo parallelo. Taciturno, timidissimo e riservato, apparivo ai miei coetanei come un totale disadattato. Oggi credo che il germe del futuro e dell’Innovazione si conservi nel cuore delle persone incomprese ed inconsuete.

L’INTERVISTA PROSEGUE DOPO LE IMMAGINI:

Giovanni Allevi: l'amore per la musica, tra paura e desiderio - Intervista IMM.1

 

Giovanni Allevi l amore per la musica tra paura e desiderio - Intervista IMM.2

(I): Edgar Willems, musicologo belga del secolo scorso, ha scritto che la musica è per tutti: ognuno di noi può sviluppare un orecchio musicale, perché la musica è accessibile, oggi anche facilmente reperibile, se pensiamo alle infinite piattaforme di streaming. Nel caso della musica classica è davvero così? Secondo Lei, ne possono fruire tutti così come la musica pop?

(GA): Che la musica sia per tutti è una affermazione figlia della nostra società conformista, dove l’importante è che masse di persone abbiano gli stessi gusti e pensieri, meglio se non troppo fantasiosi. No, la vera musica è per l’individuo, sollecita la sua unicità ed irripetibilità, non ha nulla a che vedere con il consenso collettivo. Per questo adoro la musica classica, e assieme ad essa tutte le manifestazioni artistiche e letterarie che aprono una porta al mistero e all’incomprensibile. L’essere umano è molto più complesso di quanto si creda: la sua anima può sfiorare l’immensità.

(I): Dirigendo musicisti che provengono da ogni parte del mondo, come riesce a metterli insieme?

(GA): Esaltando le loro caratteristiche peculiari. Alcune culture sono inclini alla ritmica, altre al sincronismo nell’insieme, altre ancora all’espressività melodica. Nel corso degli anni ho sviluppato un approccio maieutico alla direzione d’orchestra: non impongo mai la mia visione delle cose, ma pongo il musicista che ho davanti a me, nelle condizioni di esprimere al massimo la propria unicità.

 (I): Quanto i sistemi extralinguistici, come il linguaggio del corpo e la mimica facciale, influenzano la musica?

(GA): Per come è strutturata oggi la fruizione della musica, sembra che essa non possa più essere svincolata dall’immagine dell’interprete, con la sua corporeità e gestualità. Eppure continuo a credere che la musica, nella sua purezza originaria, si giochi tutta sul pentagramma, in una dimensione che è precedente la sua rappresentazione visiva, o la sua espressività emotiva.

(I): Per comporre musica, La deve immaginare. Come si fa ad immaginare un suono ancora prima di sentirlo?

(GA): Così come noi possiamo immaginare una frase parlata o addirittura un colore senza vederlo, è possibile pensare un frammento sinfonico, farlo suonare nella mente e contemplarlo in ogni suo aspetto. La cosa più difficile non è tanto immaginare un suono, ma lasciarlo andare, seguire le strade che esso vuole intraprendere interferendo il meno possibile.

(I): Nel tempo libero, che musica ascolta? Sono cambiati i Suoi gusti durante la crescita?

(GA): Ascolto pochissima musica. Lo sforzo mentale e la concentrazione durante la composizione musicale sono talmente impegnativi, che quando posso preferisco immergermi nel silenzio. Sono comunque attratto dai grandi capolavori del passato, (siano essi del periodo romantico che del Rinascimento), sempre nell’ottica di coglierne lo spirito e riproporlo in forma nuova nel presente.

 

L’alimentazione emotiva. La soluzione DBT per rompere il cerchio delle abbuffate (2019) di D. L. Safer, S. Adler e P. C. Masson – Recensione del libro

L’ alimentazione emotiva è un manuale dedicato a tutte quelle persone insoddisfatte del loro rapporto con l’alimentazione e per cui il ricorso al cibo sembra un istinto poco controllabile, un automatismo irrazionale volto alla gestione del disagio emotivo.

 

L’obiettivo principale di questo programma è quello di farvi ottenere la vita che desiderate, la qual cosa comprende la fine delle abbuffate e degli altri comportamenti problematici legati a esse.

È con queste parole che Safer e collaboratori introducono il programma terapeutico di auto aiuto, da essi ideato, per far fronte ai comportamenti di alimentazione emotiva e incontrollata, presentato nel testo L’ alimentazione emotiva. La soluzione DBT per rompere il cerchio delle abbuffate.

Il manuale è dedicato a tutte quelle persone insoddisfatte del loro rapporto con l’alimentazione e per cui il ricorso al cibo sembra un istinto poco controllabile. Si parla, infatti, di abbuffata in termini generali, in modo da comprendere anche le situazioni in cui non vi sono abbuffate vere e proprie, ma comunque un ricorso al cibo poco funzionale. Attraverso tredici capitoli, gli autori accompagnano l’individuo alla comprensione della propria problematica, all’esplorazione delle dinamiche di funzionamento, al cambiamento effettivo del comportamento e, quindi, al miglioramento della qualità di vita percepita. Tutto questo attraverso uno stile colloquiale chiaro ed esplicativo, rivolto direttamente agli interessati, che crea la percezione di un clima dinamico e collaborativo. Il lettore si sente coinvolto fin dal principio nel processo terapeutico, il che influisce in modo positivo sulla motivazione personale.

La base teorica sulla quale è costruito il percorso è la Terapia Dialettico Comportamentale (Dialectical Behavior Therapy, DBT), ideata da Marsha Linehan. Efficace nel trattamento degli impulsi e della disregolazione emotiva, ne vengono qui estrapolati alcuni principi base e adattati alla sfera dell’ alimentazione emotiva.

Primo fra questi il modello di spiegazione del meccanismo della problematica, che vede il ricorso al cibo quale automatismo irrazionale volto alla gestione del disagio emotivo. L’alimentazione critica viene quindi descritta come un comportamento appreso, divenuto abitudine, che scatta inconsapevolmente nei momenti in cui si percepisca sofferenza o uno stato interno disagevole e che, nonostante dia un temporaneo sollievo, comporta successivamente conseguenze negative, sia fisiche sia emozionali, che intrappolano la persona in un circolo vizioso. A fronte di questo presupposto, altro elemento cardine è l’insegnamento di abilità comportamentali alternative di gestione del dolore, come spiegato fin dal principio:

avrete molte, molte altre abilità per far fronte alle vostre emozioni. Questo cambierà il vostro rapporto con il cibo e vi aiuterà a vivere una vita più sana e felice.

Esse sono le abilità di Mindfulness, per aumentare la consapevolezza di ciò che sta accadendo realmente nel qui e ora, la Regolazione dell’emozione, che mira a sviluppare accettazione dei vissuti interiori e ad apprendere modi per influenzare le emozioni, diventando così meno vulnerabili a esse, e la Tolleranza della sofferenza, che insegna ad affrontare il disagio in modi diversi dal seguire un impulso, che diano cioè il tempo sufficiente per riflettere e compiere scelte più utili. Oltre alla trasmissione di queste nuove capacità, l’obiettivo è anche quello di aiutare le persone a essere meno vulnerabili alle situazioni critiche e alle emozioni per loro difficili, allargando il trattamento anche alla cura del proprio stile di vita. La genesi della problematica viene infatti spiegata secondo il modello biosociale, che include fattori sia caratteriali sia ambientali. Nel momento in cui il lettore riconosce di essere particolarmente sensibile a situazioni critiche o emozioni scomode, e di rispondervi, senza accorgersene, seguendo impulsi volti a soffocare il disagio, può ricercare una svolta più ampia, che porti maggiore stabilità ed equilibrio nella propria vita. In poche parole, una minore vulnerabilità alle criticità quotidiane.

In tutto il manuale, è possibile notare la sensibilità con cui Safer e colleghi affrontano tali tematiche delicate. L’attenzione è sempre rivolta a normalizzare la problematica e a trattarla semplicemente quale abitudine comportamentale, che è quindi possibile rendere meno automatica e più controllabile e sostituire con altre abitudini più salutari. Altro aspetto degno di nota è la presenza di casi clinici. Dall’inizio del libro sono introdotti alcuni soggetti, la cui terapia è poi svelata man mano che si procede con la lettura. Mettere a disposizione esempi di situazioni reali, parole di persone che hanno affrontato il loro problema tramite le stesse metodologie proposte, rende più concreto, più comprensibile e più agevole il programma in esame.

Per incrementarne ulteriormente la praticità, il libro è strutturato proprio come un percorso terapeutico, graduale e suddiviso in passi settimanali: è necessario affrontare ogni capitolo e impegnarsi nell’acquisire le abilità nell’ordine presentato, in quanto le iniziali fungono da base per le successive. Per ogni argomento è proposta una parte teorica di spiegazione e una parte esperenziale. Nella prima, spesso vengono poste domande dirette che aiutano il lettore a identificare i concetti trattati all’interno della propria vita. Gli esercizi sono riportati in schede apposite, con tanto di esempi di risposte. Al termine di ogni capitolo, inoltre, vengono presentati un riassunto e i compiti della settimana, che generalmente sono focalizzati sull’allenamento e sul rafforzamento delle abilità. Interessante notare come siano anche inclusi dei momenti di revisione, in cui il lettore è accompagnato nell’inquadramento e nella valutazione del punto raggiunto, con conseguente prosecuzione o revisione di aspetti critici.

Gli autori non mancano di dedicare spazio anche al tema delle ricadute, sottolineando che l’incorrere nuovamente in un comportamento problema non implica il fallimento. Essi insistono sul fatto che i lettori possano in ogni momento utilizzare le loro abilità per far fronte ai momenti di maggiore difficoltà, partendo proprio dalle prime acquisite. Il suggerimento dato, al termine del libro, è quello di prevenire le situazioni critiche, individuando quei contesti che portano maggiore vulnerabilità e progettando un piano per affrontarli, con anche l’utilizzo di tecniche di visualizzazione.

Riassumendo, il testo risulta una guida di auto aiuto ben definita al trattamento di tutti quei comportamenti disfunzionali che rientrano nella sfera dell’ alimentazione emotiva e incontrollata. Il programma proposto è ben strutturato e facilmente realizzabile grazie alla dotazione di tutte le componenti necessarie. Nonostante sia rivolto ad un pubblico non professionista, può risultare anche un aiuto all’esperto del settore, in quanto fornisce interessanti spunti operativi e materiale direttamente utilizzabile.

 

Quaderno di Decompressione per persone sensibili (2019). Come preservare la nostra zona di benessere – Recensione del libro

Il Quaderno di Decompressione per persone sensibili è proprio come se fosse un quaderno di esercizi, esercizi per il cambiamento delle abitudini che ci fanno soffrire.

 

Fermati un attimo. Prova a riflettere sulla tua giornata (a cosa è successo o a quello che ancora deve accadere). Sono sicura che, per la maggior parte di noi, quella che si prospetta è una giornata fitta di impegni. Non è facile stare al passo con un mondo che oggi ci riempie di stimoli e ci richiede di stare continuamente connessi (a Instagram, Facebook o qualsiasi altro social network). Per alcune persone, quelle che Nicoletta Travaini, psicologa clinica e psicoterapeuta, definisce persone sensibili, ancora di più.

Le persone sensibili dimostrano una “sensibilità della elaborazione sensoriale” (Aron et al., 2014) dovuta ad un’elevata attivazione di alcune specifiche aree cerebrali (il claustrum destro, l’area occipitotemporale sinistra, la corteccia temporale, e le regioni parietali mediali e posteriori) e dell’emisfero destro. Le persone sensibili tendono a reagire alle esperienze in modo più intenso rispetto alla media della popolazione e sono soggette a un sovraccarico percettivo, che può portarle a vivere un senso di sopraffazione e perdita di controllo. Sono però anche capaci di un’elaborazione più profonda, sono attente ai dettagli e il loro pensiero è ramificato, divergente, hanno un’attività immaginativa e una vita onirica molto ricca. Insomma è come se “sentissero tutto un po’ di più”. Capiamo bene come questo possa essere rischioso in un mondo che ci richiede di non fermarci mai, di mostrare sempre la versione migliore di noi (ovviamente, quella senza difetti e sempre efficiente).

Zona di benessere, zona di rischio e zona di crollo

Nel suo ultimo libro, Quaderno di Decompressione per persone sensibili, Nicoletta Travaini ci ricorda dunque come sia facile cedere sotto il peso di tutte queste richieste (spesso implicite, ma comunque presenti) e ritrovarci in quella che l’autrice definisce una zona di crollo, quella zona in cui non stiamo bene, siamo sotto stress e il nostro livello di tolleranza è al limite, così che anche “la cosa più piccola potrebbe farci esplodere”.

Ma attenzione! Alla zona di crollo si arriva quando non siamo stati capaci di ascoltare i segnali di stop che il nostro corpo ci ha inviato. Sì perché tra la zona di benessere e la zona di crollo troviamo la zona di rischio, in cui siamo pericolosamente vicini al burnout, ma comunque in grado di cambiare le cose.

Come fare? Ci aiutano gli esercizi che troviamo nel Quaderno di Decompressione. Obiettivo delle pratiche suggerite dalla Dott.ssa Travaini è quello di aiutarci a raggiungere e a preservare la nostra zona di benessere, intesa come quella dimensione in cui ci troviamo in uno stato di appagamento, concentrati, coinvolti in quello che stiamo facendo, siamo creativi e sereni.

Quaderno di Decompressione per persone sensibili

Il Quaderno di Decompressione per persone sensibili è qualcosa di più di una guida pratica, si propone di essere “un vero amico immaginario” che sprona, accompagna nell’allenarsi e dà sollievo.

Poca la teoria, una rapida introduzione che ci aiuta a capire chi siamo e dove siamo, e poi via! Con poche, semplici parole vengono presentati gli esercizi che la Dott.ssa Travaini ha testato con i propri pazienti e su se stessa nel corso di questi anni. Il resto delle pagine è bianco. Sarà il lettore a scegliere come utilizzare il Quaderno di Decompressione, quali esercizi svolgere, con quale frequenza. L’invito dell’autrice è ad essere liberi, spontanei, creativi in un qualche modo ci sta già accompagnando a prendere contatto con la nostra zona di benessere.

Creatività quindi e poi gentilezza (perché cambiare non è semplice e richiede molti tentativi), continuità e consapevolezza, sono questi gli “ingredienti” che ci guidano verso il cambiamento, alla conquista di un atteggiamento di maggiore attenzione verso la nostra delicatezza e di protezione verso la nostra zona di benessere.

L’uso del Quaderno di Decompressione ci consente dunque di acquisire strategie più sane ed evolute di gestione dello stress. Solo quando avremo consolidato queste nuove abitudini (e non preoccupatevi non ci vuole troppo tempo, in media sono necessarie 10 settimane di esercizio per apprendere un nuovo comportamento) potremo sostituire le vecchie ed uscire finalmente da quegli schemi che tendiamo a ripetere in maniera automatica, ma che in realtà non ci fanno stare bene.

 

Genitori e figli: quando sono i toni ad essere sbagliati

Modalità brusche di comunicare fra genitori e figli rischiano di compromettere i benefici che si potrebbero trarre da una sana comunicazione, finendo per intaccare la qualità della relazione stessa.

 

“Sarà pur vero ciò che dice, ma sono i toni ad essere sbagliati”. Quante volte abbiamo sentito dire o ci siamo sentiti dire questa frase? Quando ci si relaziona con persone che utilizzano un tono di voce brusco ed aggressivo viene naturale la tendenza a soffermarsi sulle modalità utilizzate per comunicare, piuttosto che sul contenuto del discorso. Inoltre, questo ci porta a valutare negativamente la persona che ci sta parlando con fare direttivo. In particolare, quando queste situazioni si verificano fra genitori e figli, si rischia di compromettere i benefici che potrebbero trarsi da una sana comunicazione, finendo per intaccare la qualità della relazione stessa. A tal proposito, un recente studio ha voluto indagare come cambiano le risposte dei figli adolescenti alle richieste fatte dalle mamme, in base all’utilizzo di tono di voce diversi.

Lo studio ha coinvolto un campione di 1000 adolescenti, maschi e femmine, tra i 14 e i 15 anni. I partecipanti, in maniera random, sono stati sottoposti all’ascolto di messaggi espressi in maniera direttiva, supportiva o neutrale, da parte di adulti. Ogni partecipante ha ascoltato messaggi comunicati con uno solo dei tre toni utilizzati. La modalità direttiva era volta a trasmettere controllo, pressione e costrizione con la finalità di spingere all’azione e di mettere in atto la richiesta. La modalità supportava era volta a suscitare incoraggiamento, sostegno e opportunità di scelta. In seguito all’ascolto dei messaggi, ogni ragazzo ha compilato un sondaggio che indagava la risposta emotiva e comportamentale alla ricezione dei messaggi, immaginando come si sarebbero sentiti se i messaggi fossero stati comunicati dalle proprie mamme con quel tono di voce.

I risultati evidenziano come un diverso tono di voce produca differenti risposte a livello emotivo, comportamentale e relazionale. In particolare, un tono di voce direttivo sembrerebbe suscitare risposte emotive negative e risposte comportamentali controproducenti nei ragazzi, che non aderirebbero alle richieste fatte dai propri genitori; al contrario un tono di voce supportivo sembrerebbe produrre risposte emotive positive e risposte comportamentali maggiormente dirette all’ascolto genitoriale, anche rispetto all’utilizzo di un tono neutrale.

Dunque, sembrerebbe che il tono di voce sia uno strumento prezioso di cui siamo in possesso che, in alcuni casi, potrebbe addirittura determinare gli esiti di una comunicazione e di una relazione. Modularlo potrebbe risultare una carta vincente in ogni tipo di relazione. Difatti, dimostrarsi asseritivi e supportivi verso l’altro, permetterebbe a chi si ha di fronte, di sentirsi considerato e rispettato nei suoi bisogni. Questo, inevitabilmente, lo predisporrebbe positivamente nei nostri confronti e nell’ascolto delle nostre richieste.

 

I tratti di personalità sono in grado di modulare le nostre scelte alimentari?

Gli esseri umani nascono con una predilezione per i cibi dolci e con un’avversione per i cibi amari. Ma qual è il ruolo dei tratti della personalità nelle scelte alimentari?

 

È noto che il gradimento per il dolce è innato negli esseri umani e spazia in tutte le epoche e culture del mondo, rendendo il sapore dolce una parte fondamentale della nostra dieta. Il piacere del dolce è intenso durante l’infanzia, probabilmente a causa dell’esigenza nutrizionale di consumare cibi energetici (Mennella, 2014), e diminuisce nell’arco della vita (De Graaf & Zandstra, 1999).

Allo stesso modo, l’avversione per l’amaro è innata e ha origini lontane legate alla sopravvivenza e al fatto che la maggior parte dei veleni e delle sostanze nocive di origine vegetale hanno questo sapore. Questa attitudine ancestrale, ancora oggi, tende a farci associare gli alimenti amari a cibi potenzialmente pericolosi e quindi da evitare.

Le preferenze alimentari, invece, non sono elementi statici e universali: è stato osservato, infatti, che un individuo modifica almeno in parte le proprie preferenze alimentari nel corso della vita. È intuibile come i fattori determinanti in questo caso siano il condizionamento ambientale, come la cultura di appartenenza, le abitudini alimentari familiari e le esperienze sensoriali nel corso della vita, e le esperienze correlate agli altri sensi che stimolano l’individuo al consumo, basti pensare all’importanza del packaging nel processo di acquisto di un prodotto.

Non solo, anche i tratti di personalità influiscono su ciò che decidiamo di mettere in bocca, modulando le scelte e gli stili alimentari in tutte le fasi della nostra vita (Mõttus et al., 2013).

Numerosi studi hanno indagato la relazione tra i tratti di personalità del Big Five e le scelte alimentari. Nella ricerca condotta da Keller e Siegrist (2015) dell’Università di Zurigo è emerso che un’alta apertura mentale e una forte coscienziosità sono associate ad uno stile alimentare più sano, caratterizzato da un maggiore consumo di frutta e di verdura e da un minore consumo di carne e di bevande dolci. La coscienziosità è risultata associata anche ad una riduzione dell’alimentazione emotiva (mangiare come strategia di coping per fronteggiare emozioni negative e/o stress) e dell’alimentazione in risposta a stimoli esterni (mangiare in risposta a stimoli ambientali invece che in risposta a stimoli interni come la fame). L’amabilità è risultata correlata ad un ridotto consumo di carne, mentre il nevroticismo ad una maggiore alimentazione emotiva ed esterna con conseguente consumo di cibi dolci, saporiti e calorici. L’estroversione è risultata promuovere il consumo di cibi ricchi e saporiti, di carne e di bevande dolci sottolineando il ruolo cruciale svolto dalla tendenza a mangiare in risposta a stimoli esterni, ambientali o sociali legati agli alimenti (come la vista o l’odore del cibo) indipendentemente dalla sensazione di fame o di sazietà.

Un tratto particolarmente interessante nell’ambito delle Scienze Sensoriali è la neofobia alimentare (Pliner & Hobden, 1992), ossia la diffidenza ad assaggiare cibi mai provati prima e diversi dal solito. Questa caratteristica è in parte geneticamente determinata e in parte influenzata dalle abitudini alimentari dei genitori. Alcuni studiosi hanno sottolineato il valore adattivo di questo tratto, considerandolo un bagaglio fondamentale di precauzioni dei nostri antenati volto a garantirne la sopravvivenza, evitando il consumo di alimenti nuovi e quindi potenzialmente nocivi.

Nella realtà attuale la neofobia assume invece connotati controproducenti in quanto risulta essere associata ad una dieta poco equilibrata e bilanciata, ad una bassa preferenza e ad un minor consumo di vegetali sia nei bambini (Kral, 2018) che negli adulti (Knaapila et al., 2011; Törnwall et al., 2014). Due recenti studi italiani hanno dimostrato che le persone neofobiche (con punteggi alti di neofobia) tendono a percepire come maggiormente intense le sensazioni critiche, come l’amaro, l’astringente e il piccante, e a gradire di meno i prodotti con queste caratteristiche rispetto ai neofilici (con punteggi bassi di neofobia; Laureati et al., 2018; Spinelli et al., 2018).

 Inoltre, Raudenbush e Capiola (2012) hanno valutato le reazioni fisiologiche dei due gruppi in risposta a immagini alimentari e non. I risultati evidenziano che non ci sono differenze significative tra i due gruppi in relazione agli stimoli non alimentari. Al contrario, in presenza di stimoli alimentari, i neofobici presentano una maggiore attivazione del Sistema Nervoso Autonomo, valutata attraverso la conduttanza cutanea della pelle e la respirazione, indicando un coinvolgimento emotivo soprattutto a livello simpatico.

Anche la sensibilità alla punizione e la sensibilità alla ricompensa sembrano giocare un ruolo chiave nelle preferenze alimentari. Nella teoria della sensibilità al rinforzo (RST), Gray e McNaughton (2008) proposero l’esistenza di due sistemi cerebrali che regolano, rispettivamente, la prevenzione di stimoli avversi (il sistema comportamentale di inibizione) e l’approccio a stimoli appetitivi (il sistema comportamentale di attivazione). La sensibilità alla punizione è risultata essere negativamente associata al gradimento di cibi piccanti, mentre la sensibilità alla ricompensa è risultata essere positivamente associata al consumo di peperoncino, al gradimento e alla scelta di cibi piccanti (Byrnes & Hayes, 2013; Spinelli et al., 2018). Studi recenti hanno anche evidenziato un’associazione tra la sensibilità alla ricompensa e alcuni comportamenti alimentari non salutari, come la preferenza e il consumo di cibi dolci e grassi, il maggiore consumo di alcol e la frequenza del fumo (Davis et al., 2007; Morris, Treloar, Tsai, McCarty, & McCarthy, 2016; Tapper, Baker, Jiga-Boy, Haddock, & Maio, 2015).

L’alessitimia, un disturbo dell’elaborazione degli affetti che interferisce con i processi di auto-regolazione e riorganizzazione delle emozioni, è risultata associata ad alcuni comportamenti compulsivi quali l’abbuffarsi di cibo e l’abuso di sostanze (Parker, Bagby, Taylor, Endler, & Schmitz, 1993). Nello studio italiano di Robino e colleghi (2016) condotto su 649 soggetti è emerso che le persone con alta alessitimia hanno una maggiore preferenza per gli alcolici, i dolci, i cibi grassi e la carne, tutti prodotti connotati da alta palatabilità e piacevolezza. I soggetti con bassa alessitimia risultano preferire maggiormente le verdure e i formaggi saporiti, tutti stimoli fortemente connotati da un punto di vista sensoriale (come il peperocino, la cipolla e l’aglio).

Infine, diversi studi hanno indagato il ruolo della consapevolezza corporea (Miller, Murphy, & Buss, 1981), riportando che gli individui con alta consapevolezza sono maggiormente in grado di rilevare e identificare le differenze nelle proprietà sensoriali degli alimenti rispetto agli individui con bassa consapevolezza a causa della loro maggiore sensibilità agli stimoli sensoriali (Jaeger, Andani, Wakeling, & MacFie, 1998). Questo tratto è stato anche collegato con la sensibilità alle sensazioni causate da cibi piccanti: gli individui altamente consapevoli delle variazioni dei propri stati interni tenderebbero a giudicare la sensazione di bruciore (derivante dalla presenza di capsaicina) come più intensa rispetto agli individui con bassa consapevolezza (Ferguson & Ahles, 1998), ma non tutti gli studi supportano questi risultati (Byrnes & Hayes, 2013).

 

Autoradicalizzazione – Un racconto di Fantapsicologia

Con l’invecchiamento si assiste di frequente ad un arroccamento sempre più marcato e intransigente sulle proprie posizioni con una difficoltà crescente a mettere in discussione le proprie idee, non foss’altro perché si sono dimostrate efficaci nel garantire la sopravvivenza fino ad allora. 

 

Se i giovani con il loro idealismo tendono spesso e volentieri a diventare fanatici di idee caratterizzate, in genere, dall’essere terribili semplificazioni della complessità della realtà che vengono loro proposte da interlocutori affettivamente significativi del gruppo dei pari, così importante per l’emancipazione dalla famiglia d’origine e la sua cultura o dal partner che nel momento della primavera ormonale ha argomenti cui non si può resistere come proverbi di ogni regione ricordano in modo colorito, con l’invecchiamento si assiste di frequente ad un arroccamento sempre più marcato e intransigente sulle proprie posizioni con una difficoltà crescente a mettere in discussione le proprie idee, non foss’altro perché si sono dimostrate efficaci nel garantire la sopravvivenza fino ad allora.

Si tratta di un “intolleranza di ritorno” che contrasta con la presunta saggezza dei vecchi. In fondo “squadra che vince non si cambia” e l’unica vittoria che l’evoluzione conosce non è l’aver ragione ma essere ancora in vita. Ai vari fanatismi dell’età giovanile e adulta otto/novencenteschi (religiosi, politici, sportivi) e più recenti (alimentari, fisici, da social media) ho dedicato con un gruppetto di fanatiche colleghe un numero monografico della rivista “Cognitivismo clinico” del dicembre 2016. Queste poche righe ne costituiscono un breve “postscrittum” essendo soprattutto dedicate all’interstardimento senile, fenomeno che riguarda tutti coloro che lavorano con la mente altrui con la velleità di modificarne il funzionamento considerato il generale invecchiamento della popolazione. Sempre più vecchi, che peraltro sono i detentori di buona parte della ricchezza e vogliono migliorare la propria qualità di vita emotiva e sessuale e non si accontentano di ammazzare il tempo in attesa di esserne ricambiati e liberare l’INPS dal loro peso.

In questo ingessamento cognitivo, che può apparire simile ma non si identifica con il rincoglionimento tout court, non c’è dubbio che entrino pesantemente in gioco aspetti neurobiologici e una pietra miliare, in tal senso, è stato il lavoro del dottor J.U. Kalstroom dell’università di Trondhaim (2027) che ha pubblicato su “Nature” un articolo in cui, avvalendosi del silenzio assoluto della notte polare e di un antico ma sofisticato captatore di suoni prestatogli dal locale museo storico degli strumenti musicali, è riuscito a registrare l’inquietante cigolio che producono i dendriti che si spostano da una sinapsi a un’altra quando un vecchio cambia idea (ad esempio modifica il testamento escludendo i figli a favore della badante ucraina con cui ha scoperto affinità elettive insospettabili tra culture così diverse). Si tratta di un terribile sferragliare inframezzato da schiocchi per il saltar via di blocchetti di ruggine mielinica. Per chi ne ha memoria si tratta di un rumore simile a quello prodotto dagli addetti alla composizione dei treni quando staccano e riattaccano i vagoni con abile mossa per non restare spiaccicati tra i respingenti.

Lo stesso neuroscienziato, forse esaltato dal primo successo e inebriato dal profumo di Nobel, ha proposto una terapia a base di irrigazioni attraverso l’orecchio e, più arditamente, tramite puntura lombare di “svitol” ma i benefici sono stati piuttosto modesti a fronte dei massicci effetti collaterali soprattutto sugli aspetti morali della condotta, assimilabili ad una classica sindrome prefrontale o, più specificatamente a una “bonobo’s disease” che ha condotto tutti i comitati etici occidentali a vietare ulteriori ricerche in tal senso. Forse la delusione per il mancato Nobel e l’emarginazione nella comunità scientifica internazionale hanno spinto Kaltroom verso una senescenza precoce con quella radicalizzazione sulle sue idee che lui stesso aveva evidenziato con il precedente studio che, unita alla sfrontatezza di continuare a proporle in comizi improvvisati di fronte alle sedi universitarie norvegesi, hanno portato le autorità accademiche alla dolorosa ma inevitabile decisione di abbatterlo, sollevando l’indignazione di molte associazioni animaliste e del board del premio “Ignoble”. La tragica fine di Kalstroom ha rallentato l’approccio neuroscientifico al problema della testardaggine senile di cui si sono avvantaggiati gli approcci più psicologici che una spiegazione più o meno vera ma certamente suggestiva ce l’hanno sempre quasi per tutto (Per lo stato dell’arte si veda la dettagliatissima rassegna di K.M. Lewandosky 2025 pubblicata sull’American journal of Psychology riguardante tutti i problemi dell’esistenza su cui la psicologia ha detto la sua o meglio, le sue, essendoci, in genere almeno due o tre spiegazioni diverse e contrastanti ma comunque affascinanti).

Il contributo del cognitivismo si è focalizzato soprattutto sull’analisi del cosiddetto “dialogo interno” come motore dell’autoradicalizzazione. La tesi è che il continuo dialogo che intratteniamo con noi stessi in ogni momento di veglia e che proseguiamo per immagini oniriche durante il sonno non assomigli tanto ad un dibattimento quale potremmo assistere in un aula di tribunale o parlamentare in cui le varie posizioni sono equamente rappresentate ed hanno pari diritti, quanto piuttosto ad un processo farsa dei regimi dittatoriali dall’esito già scontato e che viene messo in scena solo per rassicurarsi della bontà e ineluttabilità della decisione già presa, oppure ad un comizio di un aspirante capopopolo con un servizio d’ordine piuttosto muscoloso. Solo gli argomenti della propria parte sono ripetuti all’infinito mentre quelli avversi non sono neppure ascoltati o usati solo come pretesto da ridicolizzare per ribadire una volta di più i propri. Viene presa in considerazione una sola ipotesi, quella propria, e ci si dilunga nell’elencazione delle prove a sostegno che vengono reperite nel presente e nel passato con l’attenzione e la memoria selettive. Al contrario le tesi contrarie sono svalutate ricercandone solo le falsificazioni o con ipotesi ad hoc oppure infine svalutandone la fonte.

In clinica sono stati ben descritti e trattati il rimuginio ansioso e la ruminazione depressiva, mentre si è sempre prestata poca attenzione, forse proprio perché non genera particolare malessere, a questo che potremmo chiamare “ideazione confirmatoria” (I.C.), un pensiero circolare e ripetitivo con cui ci si dà sempre ragione e che ha l’effetto di compattare l’identità e rafforzare l’autostima (in proposito si veda la metanalisi di P.J. Festingerball del 2034 che riporta un confronto tra le analisi del contenuto del dialogo interno che si dimostrano parzialmente dipendenti dalla cultura di appartenenza tranne proprio la I.C. equamente rappresentata in ogni contesto culturale – il Festingerball ne conclude acutamente che su temi diversi tutti vogliamo avere ragione).

Una conferma indiretta e inaspettata è giunta da una ricerca commissionata dalle grandi aziende di telefonia mobile che volevano produrre degli sfondi rumorosi da attivare durante le chiamate per far credere all’interlocutore di essere in un posto diverso da quello in cui si era realmente. La ricerca era cofinanziata dalla CEI interessata a stimare la percentuale reale dei tradimenti durante la vita coniugale essendo evidentemente tutti i dati falsati dal fatto che entrano nel calcolo solo quei tradimenti che vengono scoperti che rappresentano solo un sottoinsieme del totale. Il congiungersi di un interesse commerciale e di uno etico-pastorale hanno prodotto uno sforzo di ricerca enorme coordinato dal dipartimento di sociologia della Sorbona di Parigi.

Centinaia di giovani sono stati reclutati, addestrati e pagati (un po’ come i navigator italiani per il reddito di cittadinanza) per pedinare i soggetti che parlavano al telefono e annotare le discrepanze tra il luogo dove si trovavano e quello in cui invece dicevano di essere. Tali risultati non sono inerenti al nostro tema e dunque li tralasciamo per concentrarci su un riscontro collaterale, inaspettato e inutilizzabile per i committenti della ricerca ma utilissimo per il nostro scopo. Spesso dopo un lungo pedinamento, taccuino o registratore alla mano, gli sperimentatori si accorgevano che il soggetto spiato non aveva alcun telefono e stava, in realtà, parlando e borbottando tra sé e sé. Tale fenomeno del “parlare da soli” è stato sempre presente (ne traccia una storia il Persichetti nell’ormai introvabile monografia del secondo dopoguerra dal titolo “Me la canto e me la suono”) ed era un tempo ingiustamente considerato segno inequivocabile di follia che oggi risulta mimetizzato proprio dall’uso dei cellulari con auricolari bluetooth. Gli appunti di queste chiacchierate solitarie sono delle vere e proprie arringhe accalorate in difesa di se stessi con tanto di sovrabbondanti prove a discarico e violente inquisizioni forcaiole verso gli altri che vengono apostrofati con epiteti irripetibili e a cui si augurano piaghe bibliche e si promettono vendette agghiaccianti. Quanto tutto ciò sia accompagnato da una congrua immaginazione sanguinaria non ci è dato sapere, ma certamente nei momenti di acme furiosa il tono di voce si eleva dal consueto brontolio e lo stesso soggetto sobbalza rendendosi conto che sta parlando da solo e perciò si tace o mette in atto azioni di camuffamento come, appunto il telefonino.

Al termine di un episodio di I.C. il soggetto si sente meglio, ha aumentato la certezza nelle proprie idee, è sempre più convinto delle proprie ragioni, della stupidità e/o cattiveria del suo avversario e della necessità di punirlo come ha già iniziato a fare in immaginazione.

L’ideazione confirmativa è una delle manifestazioni dell’autoinganno, processo che sembra costantemente attivo e finalizzato a manipolare i dati percettivi perché il mondo come ci appare risulti quanto più simile possibile al mondo come vorremmo che fosse. In particolare il pezzo di mondo che più ci interessa siamo noi stessi ed è proprio sulla visione che ci viene rimandata di noi stessi che intervengono le più ardite manipolazioni talvolta sconfinanti nel delirio. A piccole dosi l’autoinganno è uno stabilizzatore del benessere e molti terapeuti ne prescrivono delle applicazioni giornaliere su temi concordati in seduta.

Dopo esserci occupati degli aspetti più neurologici con gli studi neuroscientifici del povero Kalstroom e dei meccanismi intrapsichici del dialogo interno, dell’ideazione confirmatoria e dell’autoinganno, occorre dedicare qualche riga ai meccanismi interpersonali e sociali che concorrono all’interstardimento descrivendo il fenomeno cosiddetto della “sovrastima della propria appartenenza”. La Royal society di scienze sociali di stanza a Cambridge in associazione con l’onnipresente Mark Zuckerberg ha svolto una ricerca su 500 mila soggetti di cui oltre il 95% è risultato sovrastimare la percentuale di persone che la pensavano come loro e/o che avevano gli stessi loro gusti. Lo possiamo vedere come un deficit di decentramento o come un bias narcisistico che ci fa supporre che tutti gli uomini siano identici a noi che dunque siamo il prototipo perfetto. Ma, indipendentemente da come lo spieghiamo, il fatto è che crediamo che tutti siano come noi.

Una delle cause più evidenti del fenomeno è la selezione attiva degli interlocutori e delle fonti. Detto in parole povere è ovvio che si tende a scegliere amici e conoscenti che la pensano come noi e col tempo tendiamo ad essere reciprocamente confirmatori delle rispettive identità (ce la cantiamo e ce la suoniamo in coro). Allo stesso modo i giornali e i libri che leggiamo, i programmi televisivi che ascoltiamo sono quelli che dicono ciò che ci fa piacere sentire. Questo effetto è ancora più marcato, grave e pericoloso per la comunità per i leader politici che sono circondati da un manipolo di fedelissimi che filtra la realtà in modo che sia di loro gradimento con la quale dunque perdono progressivamente il contatto.

Dopo un po’ ci sembra che la nostra non sia una parte ma il tutto. Poi ci stanno le elezioni e cadiamo giù dal pero.

 

La mente alterata. Cosa dicono di noi le anomalie del cervello (2018) di E. Kandel – Recensione del libro

Sebbene le neuroscienze, già da tempo, abbiano assunto un ruolo di primo piano nel panorama della psicologia, talvolta risulta difficile scorgere quale sia l’effettiva ricaduta applicativa degli enormi progressi conoscitivi ottenuti in questo settore.

 

Forse soltanto una personalità eclettica come Eric Kandel, premio Nobel per la medicina nel 2000, avrebbe potuto svolgere con cura il delicato ruolo di intermediario tra la ricerca di base e la clinica fino a far dialogare fluidamente neuroni e inconscio.

La mente alterata è un libro dall’ispirazione didattica e dalla forma divulgativa che mira a (in)formare basandosi sulla letteratura scientifica recente rispetto all’insorgenza di disturbi che hanno in comune l’alterazione di circuiti cerebrali, criterio che demolisce ogni barriera divisiva tra neurologia e psichiatria. Dall’autismo alla depressione, dalla schizofrenia al morbo di Huntington, Kandel esplora l’intero territorio della patologia alla luce di quello che potrebbe apparire, ad una prima lettura, come un riduzionismo che appiattisce la mente sul solo cervello. Eppure ci si propone di andare ben oltre, si accompagna il lettore nell’assumere una prospettiva multidisciplinare lontana da ogni forma di determinismo, riconoscendo il potere inesauribile dell’esperienza nel ‘giocare’ creativamente con la plasticità cerebrale. In quest’ottica la psicoterapia viene ridefinita come strumento di intervento “biologico” guardando non tanto al modo di procedere, ma agli effetti che comporta:

[…] Ma sappiamo che tutti i disturbi psichiatrici derivano da cambiamenti specifici nel funzionamento dei neuroni e delle sinapsi, e sappiamo anche che, per quanto riguarda la psicoterapia, essa funziona agendo sulle funzioni cerebrali, creando cambiamenti fisici nel cervello (p. 45)

L’imaging ha confermato che la psicoterapia è un trattamento biologico, che cambia fisicamente il cervello, proprio come fanno i farmaci (p. 131)

I disturbi parlano di noi poiché rappresentano semplicemente la versione estremizzata di un’organizzazione che ama nascondersi sotto il manto semipermeabile della “normalità”. Le neuroscienze entrano prepotentemente anche nell’ambito forense, grazie agli studi che individuano delle correlazioni tra alterazioni cerebrali e modelli di comportamento psicopatico, alimentando dilemmi etici di non facile soluzione.

La Corte suprema degli Stati Uniti, per esempio, ha recentemente stabilito che una condanna a vita in carcere senza libertà sulla parola per i giovani criminali è incostituzionale. I giudici hanno sottolineato i risultati delle neuroscienze che indicano che gli adolescenti e gli adulti usano parti differenti del cervello per controllare il comportamento […] Le persone con danni cerebrali che le rendono incapaci di esprimere giudizi morali adeguati devono essere trattate alla stessa stregua delle persone che possono esprimere giudizi morali? (p. 229)

Dopo aver percorso i sentieri della neuroestetica attraverso due testi di grande spessore, quali L’età dell’inconscio e Arte e neuroscienze, anche in La mente alterata Kandel ha lasciato spazio al tema della creatività – forse il capitolo di maggior interesse del libro – cercando il filo rosso che lega l’espressione artistica a disturbi come la schizofrenia, la demenza frontotemporale, l’autismo e l’Alzheimer senza abbandonarsi a derive “romantiche” che legano il genio alla malattia:

[…] mentre alcune forme di creatività nascono in associazione con disturbi mentali, la nostra capacità creativa non dipende da essi. […] Ciò che abbiamo finora imparato dalla biologia è che la creatività deriva in parte da un allentamento delle inibizioni e dalla creazione inconscia di nuove associazioni (p. 184)

Kandel ricalca il modello di intellettuale rinascimentale, proteiforme e poliedrico, capace di integrare con scioltezza l’arte con la scienza, la genetica con la psicoterapia, considerate tutte espressioni di una visione colta intuitivamente. L’autore riesce a preservare la chiarezza espositiva senza tradire il rispetto verso la complessità dei temi affrontati, con uno stile che richiama a tratti la maestria narrativa del compianto Oliver Sacks. Le sezioni dedicate al contributo della psicoterapia appaiono deboli rispetto alla fluidità del discorso intorno alle alterazioni genetiche sottostanti i disturbi; al momento, la cornice della neurobiologia interpersonale di Siegel sembra più fruibile dalla clinica rispetto all’umanesimo scientifico di Kandel, forse ancora troppo radicato nel laboratorio, sebbene i propositi dei due studiosi siano solo parzialmente sovrapponibili. Con La mente alterata si ha l’impressione di trovarsi davanti ad un testo d’avanguardia che suggerisce una direzione da intraprendere per l’intera comunità scientifica, un disegno appena abbozzato, ma affascinante. Fin dall’introduzione, infatti, Kandel delinea quello che appare come il manifesto di un modello interdisciplinare di scienza in costruzione:

I progressi nella biologia della mente offrono la possibilità di un nuovo umanesimo in grado di fondere le scienze che studiano il mondo naturale con le scienze umane, che si occupano del significato dell’esperienza umana. […] Questo porterà a nuove intuizioni sulla natura umana e a una comprensione e apprezzamento più profondi sia della nostra umanità condivisa sia della nostra umanità individuale (p. 17)

 

Coppie felici: come discutono?

All’interno di una relazione matrimoniale il conflitto è inevitabile, che si tratti di coppie più o meno felici, i temi che richiedono maggior attenzione e confronto fra i partner sono ricorrenti.

 

Fra questi troviamo: la gestione dei figli, la gestione della situazione economica, la risoluzione di eventuali problemi con i suoceri, la questione dell’intimità di coppia, la religione e la gelosia. A tal proposito verrebbe da chiedersi: se i temi sono comuni, cosa distingue le coppie felici da quelle infelici nelle discussioni? A questa domanda hanno cercato di rispondere alcuni ricercatori che sembrano aver trovato questa differenza nella modalità di affrontare le discussioni.

Lo studio ha coinvolto due campioni di coppie, 57 coppie sui 30 anni e 64 coppie sui 70 anni. Tutte le coppie dovevano autodichiararsi come coppie felici al momento del reclutamento e questa caratteristica doveva essere riconfermata in seguito, indicandone il livello, su una scala likert a 7 punti (0=per niente; 7= moltissimo). Inoltre, ai due campioni è stato chiesto di valutare quali fossero gli argomenti più difficili e quali quelli meno difficili da affrontare nella coppia. Sulla base di questa classificazione, le coppie sono state invitate in laboratorio a svolgere vari compiti di comunicazione coniugale, come il problem solving, che mettessero in evidenza lo stile di interazione/comunicazione e la scelta degli argomenti su cui discutere. Questo ha permesso ai ricercatori di osservare le modalità di interazione nelle coppie felici. In seguito all’osservazione delle coppie è emerso che le la maggior parte di esse sceglieva di discutere su questioni classificate come più semplici e meno salienti, mostrando un approccio orientato alla soluzione. Al contrario, venivano tralasciati quei problemi valutati come più complessi da risolvere e che richiedevano maggior sforzo e tempo.

Sulla base dei dati raccolti e di queste osservazioni, i ricercatori hanno tratto delle conclusioni: sembrerebbe che le coppie felici tendano ad affrontare primariamente quegli argomenti che presentano una soluzione più facile utilizzando un approccio orientato alla soluzione. Si pensa che questo contribuisca ad accrescere la loro felicità di coppia, in quanto la risoluzione dei problemi genererebbe una sensazione di successo nel rapporto che accrescerebbe la fiducia verso il proprio partner. Dunque, le coppie felici sembrerebbero esser consapevoli del fatto che focalizzarsi e soffermarsi su problemi difficili da risolvere, almeno nell’immediato, non porterebbe alcun beneficio per la coppia, se non lo spreco di risorse fisiche e cognitive e minerebbe il senso di fiducia e sicurezza verso il proprio partner, compromettendo la felicità della loro relazione.

Nonostante l’accuratezza dello studio, è importante sottolineare alcuni aspetti che potrebbero limitare la generalizzabilità. Ad esempio, il livello di felicità di coppia è stato valutato per mezzo di una scala self report che ha considerato solo un unico elemento, ovvero la felicità; tuttavia, per una maggiore precisione sarebbe stato opportuno utilizzare strumenti standardizzati con cut-off stabiliti. Inoltre, l’osservazione delle modalità di interazione e della scelta degli argomenti è stata valutata in laboratorio. Questo potrebbe aver influenzato la spontaneità delle dinamiche interazionali fra i coniugi e potrebbe aver inciso sulla scelta degli argomenti da affrontare a causa della brevità delle tempistiche di laboratorio. Infine, ricerche longitudinali sarebbero più indicate per controllare eventuali fattori di cambiamento nelle diverse coppie, come ad esempio la salienza (maggiore o minore) che i coniugi possono attribuire agli argomenti di discussione nel corso del tempo, sulla base delle circostanze di vita.

 

L’importanza delle meta credenze nel disturbo da uso di alcol

Nel disturbo da uso di alcol è possibile rilevare la presenza di metacredenze relative all’alcol stesso, che si distinguono in positive, quando consistono nell’aspettativa che questo permetta di ottenere effetti benefici, e negative, quando riguardano le convinzioni relative agli esiti disfunzionali legati ad esso.

 

La ricerca relativa alla psicoterapia applicata ai Disturbi da Uso di Sostanze, e specificatamente quella riguardante la dipendenza da alcol, dimostra che negli ultimi vent’anni non ci sono stati significativi miglioramenti nell’efficacia dei trattamenti suggeriti dai vari approcci (inclusa la terapia cognitivo-comportamentale): i risultati restano moderati ed instabili, con una forte presenza di sintomi residuali, tra cui rimuginiocraving e utilizzo di strategie di evitamento. Tuttavia, negli ultimi anni una serie di studi ha evidenziato una significativa relazione tra credenze metacognitive ed uso di sostanze alcoliche, suggerendo nuove prospettive terapeutiche.

Ma cosa si intende per metacognizione? E cosa sono le metacredenze (MTC) o credenze metacognitive??

La metacognizione rappresenta la conoscenza e consapevolezza del funzionamento della propria mente. Nell’ambito delle MTC, è opportuno distinguere tra MTC positive e negative: in riferimento all’alcol, le prime consistono nell’aspettativa che questo permetta di ottenere effetti benefici (automonitoraggio e regolazione del proprio stato cognitivo ed emotivo), mentre le altre riguardano le convinzioni relative agli esiti disfunzionali legati ad esso, quali l’incontrollabilità e la pericolosità.

Nella maggior parte delle culture, l’alcol è visto come il più potente sedativo. È considerato una strategia in grado di ridurre l’attivazione emotiva e cognitiva (bere mi aiuterà a pensare in modo più chiaro / ridurrà la mia ansia), ma anche per migliorare le proprie capacità mentali, la propria efficienza cognitiva (acquisire maggiore creatività o capacità di concentrazione). Entrambe rappresentano convinzioni positive che motivano l’inizio del consumo e lo mantengono. Va ricordato che l’alcol di per sé agisce a livello cerebrale, compromettendo la funzionalità esecutiva e quindi riducendo le abilità di controllo e di verifica dell’effettivo raggiungimento dei propri obiettivi, portando il soggetto in uno status di incapacità nel valutare la reale inefficacia di tale strategia di coping.

Segue l’attivazione delle metacredenze negative (non ho alcun controllo sul bere / bere danneggerà le mie capacità mentali) che innesca l’insorgenza di ulteriori emozioni negative (ansia e depressione), trigger a loro volta che inducono l’incremento della sostanza, quindi l’alimentazione ed il mantenimento di un circolo vizioso in cui prevale scarsa autoefficacia e senso di impotenza.

In uno studio del 2007 (Spada et al.) è stato osservato come nei bevitori patologici, rispetto ai soggetti di controllo, siano presenti metacredenze positive più forti, ed in particolar modo le credenze circa il bisogno di controllare i pensieri e di sfiducia nei confronti del proprio funzionamento cognitivo si sono rivelate i maggiori predittori di consumo di alcol. Anche in una serie di studi successivi (Spada 2008, 2009) è stato sempre più sottolineato il ruolo centrale delle metacredenze, e si è posto sempre più l’accento sul Modello della Funzione Autoregolatoria (Wells & Matthews, 1994), secondo cui il nucleo di tutti i disturbi psicopatologici (compreso il Disturbo da Uso di Alcol) sarebbe costituito da uno stile disfunzionale di pensiero chiamato CAS (Sindrome Cognitivo Attentiva), le cui componenti risultano essere: il pensiero ripetitivo (rimuginio o ruminazione), la fissazione attentiva (ipermonitoraggio della minaccia), i comportamenti disfunzionali (evitamento); tale modalità di pensiero sarebbe innescata e mantenuta da metacredenze positive e negative.

Uno studio più recente (Caselli 2016) ha indagato l’effetto di una diretta manipolazione terapeutica metacognitiva sulle metacredenze correlate all’alcol; i risultati mostrano che la tecnica della consapevolezza distaccata, utile per rompere il circolo vizioso del pensiero perseverante, riduce le credenze alcol correlate in misura significativamente maggiore rispetto ad una breve esposizione ad esse (tipica della terapia cbt standard).

In un ulteriore studio (Caselli 2018) è stata testata l’efficacia di un Protocollo di Trattamento Metacognitivo per il Disturbo da Abuso di Sostanze Alcoliche, e si è rilevato che questo tipo di approccio (strutturato per agire direttamente sulle credenze metacognitive) ha permesso di ridurre significativamente e rapidamente l’utilizzo settimanale di alcol ed episodi di binge drinking nei partecipanti.

Questi risultati aprono le porte all’utilizzo di terapie sempre più focalizzate sui processi di pensiero (Terapia Metacognitiva – Adrian Wells, 2000, 2013) invece che sui contenuti (cbt standard) nella cura della dipendenza da alcol: i dati raccolti fino ad ora hanno permesso di sviluppare un modello metacognitivo delle dipendenze patologiche (Spada, Caselli & Wells, 2013), ed anche specifiche tecniche di intervento utili per migliorare le proprie capacità di regolazione comportamentale e di reazione a pensieri e sensazioni disturbanti (Caselli et al., 2018).

Nello studio preliminare presentato al Forum della Ricerca in Psicopterapia (Studi Cognitivi – Riccione,  2019) sono state esaminate le credenze metacognitive positive e negative circa l’utilizzo dell’alcol, mediante il confronto tra 54 pazienti con dipendenza da alcol, e un gruppo di controllo non patologico. Inoltre, è stato indagato il ruolo delle metacredenze positive e negative come predittori del consumo problematico.

Per misurare frequenza e quantità del consumo di alcol è stato utilizzato l’Alcohol Use Disorders Identification Test, mentre per il craving è stato somministrato il Penn Alcohol Craving Scale.

Le metacredenze sono state testate attraverso due scale specifiche: Positive Alcohol Metacognitions Scale (PAM) e Negative Alcohol Metacognitions Scale (NAM). Infine, ai partecipanti è stata richiesta la compilazione dell’Hospital Anxiety And Depression Scale (HADS), questionario di misurazione dei livelli di ansia e di depressione.

Rispetto al gruppo normativo, gli alcolisti presentano, in generale, punteggi superiori nelle MTC sia positive che negative (come osservato in Spada et al., 2007) e livelli maggiori di ansia, depressione e craving.

Nello specifico, tutte le sottoscale del PAM e NAM presentano una differenza significativa nei due gruppi, fatta eccezione per quella riferita alla Dannosità (NAM): sembra quindi che entrambi i gruppi concordino nel ritenere che l’alcol determini effetti negativi sul loro funzionamento cognitivo.

Dall’analisi di regressione lineare, infine, è emerso che le MTC negative di Incontrollabilità e il craving rappresentano i fattori significativamente più predittivi del consumo problematico di alcol.

Il presente studio rimarca il ruolo chiave rivestito dal sistema di metacredenze nel determinare il livello di consumo di alcol, che nel nostro campione si è rivelato più influente anche rispetto ai livelli di ansia e depressione.

Questi risultati sembrano non solo confermare l’importanza dell’applicazione della Terapia Metacognitiva nel trattamento terapeutico dell’uso di sostanze alcoliche, come altresì dimostrato da Caselli et al. (2016), e da Spada et al., (2009), ma forniscono anche preziose indicazioni sulle specifiche meta credenze su cui focalizzare l’intervento terapeutico: se studi futuri dotati di campioni più estesi dovessero confermare quanto emerso in tale indagine pilota, la pratica clinica potrebbe arricchirsi di strumenti ulteriori al fine di ottenere risultati sempre più positivi.

 

Emozionare per ridurre il consumo di carne

Per ridurre il consumo di carne, informare i consumatori circa le conseguenze sulla salute e sull’ambiente del suo consumo eccessivo non è sufficiente. Una recente ricerca mostra come suscitare emozioni negative come il rammarico anticipato possa essere una strategia più efficace.

 

I costi nascosti della produzione e del consumo di carne

È ormai risaputo come l’eccessivo consumo di carne non costituisca solo un problema per l’ambiente, ma anche per la salute di chi ne eccede nel consumo. Questo è vero soprattutto prendendo in considerazione la carne proveniente da allevamenti intensivi, specialmente se rossa – ossia carne bovina, equina, ovina, suina e caprina – e processata – come ad esempio hamburger, bacon e salsicce.

Non è infatti un mistero che la crescente domanda di proteine di origine animale degli ultimi 60 anni abbia determinato una considerevole “intensificazione” delle pratiche di allevamento, rendendole di fatto una delle principali fonti di problemi ambientali. Oggi, l’allevamento è responsabile di circa un quinto delle emissioni globali di gas serra, nonché dell’inquinamento idrico in molte aree. Allo stesso tempo, le monoculture necessarie per far fronte alla crescente domanda di mangimi contribuiscono in maniera considerevole ai fenomeni di deforestazione, degradazione del suolo e scarsità d’acqua, mettendo a repentaglio la biodiversità di innumerevoli ecosistemi.

Sul fronte della salute dei consumatori è invece ormai chiaro come un elevato consumo di carni lavorate e di insaccati sia responsabile di un aumento del rischio di morte prematura. Sempre più studi scientifici hanno infatti confermato come l’assunzione di questa tipologia di alimenti sia legata a doppio filo all’insorgenza di malattie croniche, quali diabete di tipo 2, disturbi cardiocircolatori e alcuni tipi di tumori.

Campagne informative per cambiare le abitudini alimentari

Di fronte a queste problematiche, risulta quindi evidente la necessità di condurre i consumatori verso un cambiamento delle proprie abitudini alimentari. Le numerose campagne informative sembrano tuttavia essere parzialmente inefficaci nel generare effettive modifiche a lungo termine delle scelte alimentari. Contrariamente a quanto si è indotti a pensare, infatti, fare informazione sulle conseguenze della produzione e del consumo di carne rossa e processata non è sufficiente. Queste informazioni entrano di fatto in contrasto con il comportamento dei consumatori di carne, generando dissonanza cognitiva: se essi, da un lato, sanno che dovrebbero limitare il consumo di carne, dall’altro, continuano a mangiarla. La dissonanza genera sensi di colpa ed altre emozioni negative, che la maggior parte degli individui cerca di evitare trovando giustificazioni per il proprio comportamento. Adattare il proprio pensiero al contesto è infatti meno faticoso che cambiare le proprie abitudini. Così, i ‘carnivori’ sostengono che mangiare carne sia naturale (“Gli esseri umani sono carnivori”), necessario (“La carne fornisce nutrienti essenziali”), normale (“Sono stato cresciuto mangiando carne”) e gustoso (“La carne è deliziosa”) (Piazza et al., 2015).

Emozioni: nuove alleate per il cambiamento delle scelte alimentari

Fare leva sulle emozioni sembrerebbe invece essere una strategia più efficace. Alcune ricerche hanno infatti evidenziato come messaggi focalizzati sulle emozioni siano maggiormente capaci di indurre modifiche nelle abitudini alimentari (Carfora, Caso, & Conner, 2016) e promuovere atteggiamenti ed intenzioni comportamentali pro-ambientali (Noble, Pomering, & Johnson, 2014). Per quanto riguarda il consumo di carne, le emozioni più efficaci sembrano essere quelle “negative”, tra le quali spiccano disgusto, paura e rammarico anticipato. Quest’ultimo, in particolare, compare quando si anticipano le possibili conseguenze negative delle proprie scelte alimentari (Carfora, Caso, & Conner, 2016).

Messaggi quotidiani informativi ed emozionali per ridurre il consumo di carne rossa e processata

A partire da queste osservazioni, Carfora, Bertolotti e Catellani (2019), nella loro ricerca Informational and emotional daily messages to reduce red and processed meat consumption, hanno indagato gli effetti dell’esposizione quotidiana a messaggi focalizzati sulle emozioni (es. “Se mangi quantità eccessive di carne rossa e processata, potresti provare rammarico per non aver protetto il tuo organismo dal cancro e l’ambiente dal rilascio di nocivi gas serra”), confrontandoli con gli effetti di messaggi informativi circa le conseguenze del consumo di carne rossa e processata sull’ambiente e sulla salute (es. “Se mangi quantità eccessive di carne rossa e processata, non proteggerai il tuo organismo dal cancro al colon, e allo stesso tempo non proteggerai l’ambiente dal rilascio di nocivi gas serra”). In particolare, i ricercatori hanno osservato gli effetti a breve (<2 mesi) ed a lungo termine (>2 mesi) sulle emozioni, sugli atteggiamenti e sulle intenzioni comportamentali verso il consumo di carne rossa. Tramite la compilazione del diario alimentare, è stato inoltre monitorato il comportamento effettivo dei partecipanti.

È importante sottolineare come i messaggi utilizzati in questo studio siano stati formulati in stile pre-fattuale (“Se… allora”), in linea con precedenti ricerche che ne sottolineano la maggiore capacità persuasiva (Bertolotti, Chirichiglia, & Catellani, 2016; Bertolotti, Carfora, & Catellani, 2019). Questo tipo di formulazione, infatti, fa sì che gli scenari presentati siano ipotetici e risultino quindi meno minacciosi, generando una minore reazione di rifiuto.

Dai risultati, emerge come i messaggi focalizzati sulle emozioni, a differenza degli altri, siano in grado di elicitare rammarico anticipato per non aver protetto la propria salute e l’ambiente tramite un consumo eccessivo di carne rossa e processata. Questo porterebbe ad una maggiore intenzione di ridurre il consumo di tali alimenti e anche ad una effettiva riduzione, sia nel breve che nel lungo termine. I messaggi informativi avrebbero invece effetto solo nel breve termine. Un ruolo chiave, pertanto, sembra essere giocato dal rammarico anticipato, che, aumentando l’intenzione di ridurre il consumo, ne potenzia anche l’influenza sul comportamento successivo. Questa emozione consentirebbe quindi di ridurre il gap tra intenzione e comportamento, garantendo una modifica a più lungo termine del comportamento stesso.

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Emozioni e comunicazione quali strategie per ridurre il consumo di carne - Imm 1

 

I risultati di questa ricerca potrebbero avere importanti implicazioni non solo sulle strategie di comunicazione relative al consumo di carne, ma, più in generale, su quelle mirate alla promozione di comportamenti positivi per la salute e per l’ambiente. La forza persuasiva delle raccomandazioni in stile pre-fattuale e dell’elicitazione del rammarico anticipatorio potrebbe infatti essere utilizzata da coloro che si occupano di promuovere comportamenti sostenibili nei campi più svariati, dall’agricoltura all’industria, dalla finanza fino ai processi educativi.

 

Respiro quindi sono – Recensione del libro: Ho Mangiato Abbastanza (2017) di Giorgio Serafini Prosperi

Giorgio Serafini Prosperi non ha scritto un manuale sul binge eating e la bulimia nervosa. E nemmeno un saggio sui benefici della mindfulness. E nemmeno un libro di ricette da assaporare consapevolmente. Non si è inventato una dieta. Non ha sistematizzato verità e consigli. Giorgio ha scritto una storia: la sua. E le storie curano.

 

Conosco Giorgio Serafini Prosperi una mattina in una famosa libreria del centro di Torino. In una di quelle corsie improbabili, colme di libri che non comprerei mai: manuali di autoaiuto, compendi su diete iperproteiche e strane liaison tra astrologia e cucina molecolare. Il commesso mi ha spedita qui dalla corsia in cui mi trovavo, quella di psicologia. Mi chiedo se abbia capito cosa cerco davvero. Eppure Giorgio lo trovo lì. Unica copia. Mi sento fortunata. Leggo Giorgio d’un fiato e pochi giorni prima di Natale gli mando un messaggio che è sostanzialmente un grazie, tramite la sua pagina Facebook, a nome mio, di S. e di T. Una il suo libro lo ha mangiato tra una seduta e l’altra: “dottoressa non ci avevo mai pensato, a questa storia del gusto“. L’altra leggendo si è appena ricordata di un tempo lontano in cui per lei il cibo erano i viaggi con la famiglia, i paesi stranieri e le culture esotiche. Signficati irriducibili a numeri sulla bilancia. Non si pesa da due giorni, le brillano gli occhi come non mai.

Giorgio non ha scritto un manuale sul binge eating e la bulimia nervosa. E nemmeno un saggio sui benefici della mindfulness. E nemmeno un libro di ricette da assaporare consapevolmente. Non si è inventato una dieta. Non ha sistematizzato verità e consigli. Giorgio ha scritto una storia: la sua. E le storie curano. Perchè la morte, diceva Novecento, è non avere una buona storia da raccontare. Perchè il dolore è non poter infilare come perline nel filo del tempo ogni evento, anche il più tragico, per poterlo osservare all’interno di una meravigliosa collana di senso.

Il cibo è la punta dell’iceberg. Togli il cibo, e guarda che c’è sotto

Giorgio prende la storia che conosce meglio, e altre, che conosce meno, quella delle persone incontrate, quella del padre, ad esempio, e le mette in scena, con la maestria di sceneggiatore e drammaturgo che lo contraddistingue, muove le figure con eleganza e coraggio. Ci veste dei suoi chili e dei suoi dubbi. Ci fa danzare tra claustrofobici corridoi di speranze e vicoli sudati di rassegnazione. Digiuniamo e ci abbuffiamo insieme a lui, freneticamente, ci disgustiamo, dimagriamo, riprendiamo massa e cerchiamo di andarcene da noi, di stordirci di cibo fino a non avere più spazio dentro per altro dolore, per altre domande.

E poi arriva la meditazione. Che arriva dove non arrivano le informazioni, dove non filtra il sole pallido dei ragionamenti. Un invito timido ad ascoltare il rumore assordante che ci accompagna ogni giorno. Il mostro da nutrire fino allo sfinimento, per non lasciare che gridi ancora più forte. E con la meditazione, la pratica dell'”essere con”, quel concerto noise tanto temuto impariamo ad ascoltarlo. A temerlo sempre meno. Posso partecipare a questa festa senza assumere nessuna sostanza stupefacente. Posso “esser-ci”. Posso addirittura comprenderla. Con il corpo. Posso portare la mia attenzione alla mia pancia tanto odiata e ascoltarla modificarsi nell’incontro con il sapore, con la materia. Posso seguire un boccone giù fino all’intestino, posso appoggiarlo sulla lingua senza deglutirlo, posso sentirlo. Sentire. Sentirmi. Posso stare con il cibo in un modo nuovo, libera dal vincolo della dipendenza, accompagnata dall’amorevole sguardo della mia “mente saggia”. Madre compassionevole e inclusiva. È la qualità non giudicante proposta da Debra Safer nel suo trattamento dialettico-comportamentale della bulimia nervosa. Una qualità che è “integrazione di tutte le forme del sapere”, guida intuitiva in equilibrio costante tra obiettivi di ricatto dal craving e benevolenza verso ogni possibile ricaduta. Compassione. Accettazione del limite insito in noi.

Questo è l’unico caso in cui arrendendosi si vince

Forte della mia Mente Saggia, posso dialogare con le parti di me più ostili e sofferenti senza escludere nessuno. Invitarle a sedersi attorno a un tavolo imbandito dove il cibo torna ad essere cibo, la fame torna ad essere fame, non più disperata sedazione di istinti ed emozioni non integrati nella coscienza. Frammenti di mondo interno. Come quelli magistralmente descritti da Natalia Seijo: la bambina che non è potuta crescere, intrappolata nel tempo nella sfinente ricerca di uno sguardo, cerca nei grassi adrenalina e sedazione; la “critica patologica” sprezzante e protettiva al contempo, il “sé nascosto”; il “sé cicciottello” memoria somatica e dissociata di un corpo in sovrappeso, il “sé rifiutato”.

Giorgio Serafini Prosperi fa un viaggio che similmente al cammino dell’eroe lo mette a contatto con prove, amici e antagonisti. Sino al momento dell’Incontro che cambierà per sempre la sua vita. È forse la fata turchina a trasformare Pinocchio in bambino o non è forse l’amore di padre Geppetto, la speranza e la sua vicinanza silenziosa a instillare in lui un seme di realtà tra le pieghe del legno? La fata è l’incontro che mette Pinocchio nelle condizioni di riconoscere quel dono, quella parte sana di sé, calda e viva. Presente da sempre. Pinocchio la riconosce dentro di sé, diversa dalle promesse di libertà e appartenenza del Paese dei Balocchi e dall’ebbra euforia del Gatto e la Volpe.

E dal grigio stomaco di una balena. Dal luogo più buio di sé. Giorgio si spoglia per diventare se stesso. Uno.

L’illustrazione di copertina ne è un gustoso e romantico assaggio.

Tra un pasto e l’altro impari a vivere la vita

Oggi l’esperienza di Giorgio è diventata un protocollo di trattamento dall’emblematico nome Breaters, che desidera integrarsi agli interventi clinici e nutrizionali classici, per educare binge eaters e non a una nuova relazione con il cibo e con il proprio corpo, libera dal “regno degli spiriti affamati”, dalla compulsione, e consapevole dei significati che al nutrimento, in ogni fase di vita, attribuiamo. Una cura del legame che si articola a partire dai legami stessi: primo tra tutti quello con il nostro respiro, il presente, la scelta e quindi l’azione.

Stefano Canali afferma come nelle Dipendenze patologiche sia in gioco uno schema che affonda le sue radici nelle dimensioni della scelta e della volontà, anziché in una disfunzione dopaminergica cronicizzata. Posti i Disturbi Alimentari in un continuum che vede variare la sostanza o i comportamenti ma non gli schemi disfunzionali di assunzione, una clinica dei disturbi alimentari non può prescindere, a mio parere, dal recupero di intenzionalità e agency nel rapporto con l’oggetto, dal ripristino di un legame in cui il soggetto gode di padronanza circa i propri stati mentali, l’impulso, il desiderio.

Consapevolezza e controllo ben illustrati dalla pratica del mindful eating di Jan Chozen Bays.

Per resistere non è sufficiente dire di no. É necessario desiderare. (Boal, A. 2006)

Ammiro dell’autore la capacità di non tralasciare mai l’elemento della bellezza nella sua ricerca, dell’arte e dell’espressione che si fanno voce e pelle. Non mancano i riferimenti costanti alla musica, al cinema e al teatro (i suoi primi amori). Alla favola attraverso la quale ciascuno diventa se stesso.

In quest’ottica, la dieta, lungi dall’essere un prontuario sterile di prescrizioni e proibizioni, diviene preghiera e celebrazione. Carezza. Diviene specchio autentico e unico di una rinnovata capacità di mettersi in ascolto dei propri bisogni, a partire da quelli di base, di sopravvivenza e sostentamento. Le sue pratiche sono poesie che ciascuno di noi potrebbe dedicare al suo sé più fragile e spaventato, semplicemente ancore, nel mare in tempesta.

Bene, quello che stavo dicendo è che costa molto essere autentica, signora mia. E in questa cosa non si deve essere tirchi, perché una è più autentica, quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa.  [Agrado – Tutto su Mia Madre, 1999]

 

Le partner dei militari sarebbero più soggette a sviluppare depressione e binge drinking

In quanto istituzione rigida l’esercito richiede dedizione e impegno da parte dei militari; tuttavia, queste richieste non si limitano solo a loro, ma si estendono anche a famiglie e in particolare alle partner dei militari.

 

Le partner dei militari sono esposte a una serie di fattori di stress legati all’occupazione del coniuge, tra cui il trasferimento regolare, le separazioni e i ricongiungimenti familiari e il coinvolgimento emotivo dei militari nei dislocamenti.

Diversi studi hanno rilevato che queste esperienze possono aumentare lo stress familiare e contribuire alla cattiva salute e al benessere dei partner dei militari.

Uno studio, condotto dal King’s Centre for Military Health Research at the Institute of Psychiatry, Psychology & Neuroscience (IoPPN), è stato pubblicato su European Journal of Psychotraumatology e ha come obiettivo quello di indagare i problemi di salute mentale e il consumo di alcol nei coniugi/partner dei militari nel Regno Unito.

Per lo studio i ricercatori hanno usato due database: uno appartenente allo studio Children of Military Fathers, nel quale venivano raccolti i dati dei coniugi/partner dei militari, l’altro appartenente all’Adult Psychiatric Morbidity Survey (APMS) del 2007, utilizzato per raccogliere i dati della popolazione generale femminile.

Il campione perciò era composto da due gruppi: quello delle coniugi/partner dei militari (n=405) e quello delle donne appartenenti alla popolazione generale (n=1594).

A entrambi i gruppi erano stati somministrati diversi questionari:

  • Alcohol Use Disorders Identification Test (AUDIT) volto ad indagare il consumo di alcol
  • Patient Health Questionnaire (PHQ-9) per misurare l’umore, la concentrazione, il sonno e l’alimentazione
  • Clinical Interview Schedule-Revised (CIS-R) per indagare la gravità dei sintomi depressivi
  • PTSD Checklist Civilian Version (PCL-C) per indagare i sintomi del PTSD

Confrontando i due gruppi è emerso che il gruppo delle coniugi dei militari riportava livelli significativi di depressione e di consumo di alcol, sia settimanale che giornaliero, rispetto alla popolazione generale femminile. Tuttavia, non vi erano differenze significative per quanto riguardava i sintomi legati al PTSD.

Nello specifico, circa il 7% delle donne partner di militari presentava sintomi depressivi rispetto al 3% delle donne appartenenti alla popolazione generale femminile, mentre circa il 9.7% delle donne partner di militari presentava episodi di binge drinking sia giornalieri che settimanali rispetto al 8.9% della popolazione femminile generale.

Concludendo, questo è il primo studio che esamina la salute mentale e il consumo di alcol tra le coniugi/partner dei militari del Regno Unito. La prevalenza significativamente più alta di una probabile depressione e del consumo e abuso di alcol rispetto alle donne nella popolazione generale suggerisce che siano necessarie ulteriori ricerche, riguardanti la salute mentale e il consumo di alcol all’interno di questa specifica popolazione al fine di individuare o sviluppare campagne di prevenzione per ridurre uso di alcol e supportare il benessere.

 

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