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La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Parte II: le basi neurali della cognizione sociale nella depressione

Il funzionamento sociale dei pazienti con disturbo depressivo maggiore è da sempre considerato un aspetto clinico fondamentale e recentemente molti studi di neuroscienze hanno cercato di individuare i correlati neurobiologici coinvolti.

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Le basi neurali della cognizione sociale nella depressione (Nr. 2)

 

Il disturbo depressivo maggiore (MDD) è caratterizzato da episodi di flessione significativa del tono dell’umore, della durata di almeno due settimane, con perdita di interesse o piacere, maggiore intensità e labilità affettiva, alterazioni a livello psicomotorio e neurovegetativo, nonché da un’importante compromissione del funzionamento a livello sociale ed interpersonale. E’ il disturbo mentale maggiormente diffuso (prevalenza lifetime di circa il 7%) e costituisce un’ ”emergenza globale” secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Il funzionamento sociale dei pazienti con MDD è da sempre considerato un aspetto clinico fondamentale e recentemente molti studi di neuroscienze si sono concentrati su uno dei principali domini della social cognition (Couture et al, 2006), la comprensione emotiva, cercando di individuare i correlati neurobiologici coinvolti. Nei soggetti sani la ricerca ha già evidenziato come gli stimoli cognitivo-affettivi vengano processati da un complesso network neurale che sottenderebbe le competenze di social cognition (Adolphs, 2001; 2009; Altshuler, Ventura, Van Gorp et al. 2004; Olson, Plotzker & Ezzyat, 2007).

La letteratura evidenzia come la Depressione Maggiore sia associata a compromissioni nella dimensione della social cognition e di conseguenza ad un peggior funzionamento socio-cognitivo, in particolare nella comprensione ed elaborazione delle emozioni, soprattutto facciali.  Maggiormente in discussione è la questione che riguarda la persistenza e l’eventuale gravità di tali compromissioni socio-cognitive anche nelle fasi di remissione dalla sintomatologia depressiva.

Complessivamente infatti gli studi che hanno utilizzato la fMRI evidenziano nei pazienti depressi una compromissione nelle capacità di identificazione ed elaborare delle emozioni facciali, che correlerebbero con talune alterazioni strutturali e funzionali, tipiche della fase di umore deflesso, la quale tende però a mantenersi anche durante le fasi eutimiche (vds. review Turchi et al., 2017). Stesse evidenze scientifiche riguardano gli studi che hanno utilizzato altri paradigmi rispetto all’elaborazione delle emozioni facciali o che hanno analizzato dal punto di vista neurale pazienti con MDD in resting state, i quali mostrano anomalie fronto-limbiche persistenti anche nei periodi liberi da sintomi depressivi (vds. review Turchi et al., 2017).

Nello specifico gli studi evidenziano una serie di alterazioni sia a livello corticale che sottocorticale, che nella connettività funzionale fra queste regioni. Tali alterazioni rappresentano complessivamente una diminuita capacità regolatoria di tipo top down, ad opera delle strutture corticali su quelle limbiche deputate al riconoscimento ed alla rielaborazione delle emozioni, sia negative che positive, durante i task di elaborazione delle emozioni espresse dai volti. Su questa linea anche le sopra riportate alterazioni a livello di connettività funzionale, che mostrano una compromissione nel funzionamento della stessa in soggetti con vulnerabilità alla depressione. Anche gli studi che hanno utilizzato paradigmi diversi sottolineano la presenza, in pazienti con MDD in fase depressiva, di bias cognitivi negativi durante l’elaborazione emotiva anche in campioni di bambini e adolescenti.

La ricerca evidenzia inoltre una difficoltà di regolazione anche bottom up, la quale si manifesta in particolare nell’iperattivazione dell’amigdala durante il riconoscimento dell’emozione di tristezza (mood congruity effect) oppure, in pazienti con MDD grave o moderato, nel valutare l’espressione emotiva di volti neutri come tristi, ed in associazione ad un bias della funzione attentiva che riguarda un’estensione selettiva dell’attenzione nei confronti delle emozioni di tristezza e rabbia. Sembra inoltre che vi siano delle dificoltà di regolazione riguardo all’emozione della colpa, che unitamente all’autosvalutazione, tende a persistere anche in fase eutimica. In linea con questi risultati alcuni studi evidenziano un’ipoattività nell’amigdala durante l’elaborazione di emozioni facciali a valenza positiva, il che potrebbe indicare una difficoltà nel processare le emozioni positive piuttosto che quelle negative (vds. review Turchi et al., 2017).  Si pensa che tali meccanismi, mood congruity effect, svolgano un ruolo di amplificazione e mantenimento dell’episodio depressivo. Infatti, una persona depressa tenderà ad identificare l’emozione con maggiori capacità ed entrerà maggiormente in risonanza emotiva quando incontrerà nell’altro l’emozione della tristezza e questo potrebbe concorrere sia allo slatentizzarsi di episodi depressivi che all’aumentare della loro durata ed intensità amplificando di fatto il vissuto di tristezza, tanto che qualche autore l’ha proposta quale possibile “marcatore di tratto” per la vulnerabilità al MDD, in accordo con il modello cognitivo della depressione (Abramson, Seligman & Teasdale, 1978).

Questa particolare sensibilità responsiva nei confronti della tristezza non potrà inoltre essere opportunamente regolata dai controlli cognitivi discendenti a causa della diminuita attivazione corticale e di connettività funzionale di cui abbiamo già parlato (vds. review Turchi et al., 2017). E’ possibile che una lunga storia clinica, con conseguente compromissione interpersonale e sociale, possa sottendere una generale compromissione delle funzioni metacognitive, ma si è altresì ipotizzato che sia proprio questa compromissione a contribuire all’aumentato rischio di incorrere in episodi depressivi più gravi svolgendo in definitiva un ruolo di variabile inter-dipendente.

E’ interessante sottolineare come, nonostante in molti casi tali anomalie possano essere adeguatamente regolate da meccanismi corticali discendenti di ipercompenso, i quali diventano sempre più efficienti tanto più il soggetto si allontana dall’episodio depressivo, la letteratura più recente tende ad evidenziare, anche dopo la remissione sintomatologica, la persistenza di anomalie residuali a carico delle regioni neurali deputate al processamento degli stimoli carichi emotivamente in un’importante quota di soggetti (vds. review Cusi et al., 2012 e Turchi et al., 2017). Tale funzionamento regolatorio non pare infatti ugualmente efficace fra i soggetti affetti da MDD e ci potremmo ragionevolemente attendere che i soggetti con episodi depressivi ricorrenti non riescano a ripristinare in modo stabile livelli di efficacia buoni. Inoltre è probabile che la tendenza ad interpretare attraverso una lente negativa eventi ed emozioni esterne, fin dalla prima infanzia, possa rappresentare un ulteriore elemento di vulnerabilità in grado di concorrere negativamente al decorso della patologia, nonché di favorire nuovi episodi depressivi in età adulta, così come proposto da T. A. Beck (2008) a proposito del concetto di cognitive vulnerability.

E’ quindi ipotizzabile che possano esistere alterazioni neurofunzionali le quali potrebbero costituire una base di vulnerabilità piuttosto che rappresentare la conseguenza degli episodi depressivi, in linea con quanto evidenziato da Liu et al. (2013), i quali hanno mostrato iperattivazione del giro mediale frontale sinistro non solo nel campione clinico costituito da pazienti con MDD, ma anche nei loro fratelli sani, concludendo che questo possa essere considerato un tratto endofenotipico di vulnerabilità per la depressione maggiore.

In ottica futura riteniamo importante approfondire ulteriormente il collegamento fra alterazioni comportamentali ed il livello neurobiologico riguardanti la social cognition nel MDD, anche e soprattutto dal momento che non solo i trattamenti di farmacoterapia, ma anche la CBT, sono in grado di svolgere un’azione di normalizzazione e reversibilità dei substrati neurali deputati all’elaborazione emotiva. Sembra infatti che la CBT possa svolgere un’azione attivante delle regioni associate alla regolazione delle emozioni ed all’elaborazione cognitiva di livello superiore, mentre il trattamento farmacologico possa svolgere un’azione attivante delle regioni sottocorticali e prefrontali (Cusi et al., 2012; Turchi et al., 2017).

Altri interessanti aspetti da approfondire potrebbero riguardare lo studio del ruolo rappresentato da altre variabili che fanno parte della social cognition, tra cui l’empatia (Preston e de Waal; 2001; Gallese; 2003), la Teoria della Mente (Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985) ed il sistema dei neuroni specchio (Gallese et al.; 1996; Rizzolatti et al.; 1996).

Ragionare tutti insieme su questi aspetti ed approfondirli in maniera scientifica risulterebbe molto utile anche per poter ipotizzare delle integrazioni, dal punto di vista della psicoterapia, che permettano o favoriscano l’abilitare o la riabilitazione del funzionamento sociale dei nostri pazienti con MDD, con relative rispercussioni sulla loro qualità di vita e sul loro livello di funzionamento globale nel real world, a loro volta fattori prognostici protettivi.

 

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore:

 

Joker: il manifesto del narcisismo in chiave Kohutiana – Recensione

Joker offre una critica all’opulenta società odierna, raffigurata in una allegoria tragi-comica, in cui gli ultimi vengono abbandonati a loro stessi per poi essere giudicati per il male commesso.

 

Attenzione! L’articolo contiene spoiler

Sin dai primi istanti, il nuovo film di Phillips su uno degli antieroi per eccellenza dell’universo DC comics trascina lo spettatore in un vortice di emozioni quasi fisiche per la potenza evocata: vergogna e umiliazione, tristezza e disagio, nichilismo che diventa rabbia, fino all’apoteosi della rivincita del sé grandioso attraverso il riconoscimento della nuova vita, creativa e criminale, appena iniziata.

C’è una battuta, in particolare, che separa la pellicola in due parti.

Abbiamo accompagnato Arthur Fleck per più di metà film nei toni scuri e sfuggenti, tra le umiliazioni, la tristezza e il fallimento, fino a che il protagonista non reagisce a un sopruso con la violenza, nei confronti di giovani ricchi borghesi, scatenando l’ammirazione degli ultimi e dei derelitti. In tv non si parla d’altro. A quel punto, la rivelazione, davanti a una psicologa/assistente sociale monocorde e inespressiva che non lo sta ascoltando.

Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto, e le persone iniziano a notarlo! (Arthur Fleck)

Cresciuto con una madre che non ha mai riconosciuto i suoi reali stati emotivi, credendolo sempre felice nonostante gli abusi a causa della risata compulsiva che caratterizza storicamente il personaggio, è il rispecchiamento della società nella crudeltà e nell’efferatezza che rende Arthur Fleck il Joker che tutti conosciamo, trasformando, parole sue, la tragedia che sino a quel punto era la sua vita, in una commedia.

Da quel momento, tra rabbia e delirio, il carico per lo spettatore si fa più leggero, i toni diventano più chiari, colorati, delineati: ecco a voi, signori e signore, la folle crudele creatività del Joker, rappresentata nella macabra danza sugli scaloni di Gotham City, rinato dalla cenere e destinato a fare cose grandi, anche se malvagie. Da reietto di una società improntata al successo, di cui Wayne è il portavoce, il Joker distrugge il proprio ideale dell’io, rappresentato dal comico televisivo Murray che lo ha tradito e deluso, fino a diventare egli stesso l’idolo di una folla grottesca che mette a ferro e fuoco la città, lo acclama e lo imita indossando la maschera e il trucco da clown. Egli stesso ora è diventato, per dirla con Kohut, il leader carismatico in cui la gente si riconosce, circondato da gregari che non ha cercato, ma che spontaneamente si porgono al suo servizio.

Uno di questi, alienato nel pensiero distruttivo, uccide il simbolo della società del benessere in cui la maggior parte stenta a riconoscersi. In un vicolo buio, perdono la vita il signore e la signora Wayne, davanti a un piccolo Bruce inerme. Senza volerlo, è il Joker e la concatenazione di eventi da lui messa in moto a creare la sua nemesi: la privazione dall’affetto dei genitori, il senso di colpa per essere sopravvissuto, la rabbia e il bisogno di riscatto, porteranno il narcisismo del giovane Wayne a forgiare il futuro giustiziere della notte, Batman.

Un perfetto caso clinico, quindi, in cui le numerose ferite narcisistiche definiscono la scissione verticale tra la grandiosità infantile apertamente manifesta e la parte debole, improntata alla vergogna e all’impotenza, che sembrano quasi impossibili da coesistere nella stessa persona, tanto da sfociare in questo caso nella psicosi. La mancanza d’ascolto e di riconoscimento, in particolare, sono il lasciapassare verso l’odio e la rabbia distruttiva che abbiamo visto compiersi nell’entrata in scena ad effetto del Joker televisivo.

Lungi dall’essere un’apologia del male, il film di Phillips interpretato da un magistrale Joaquin Phoenix in odore di Oscar, è una critica all’opulenta società odierna raffigurata in una allegoria tragi-comica, in cui gli ultimi vengono abbandonati a loro stessi per poi essere giudicati per il male commesso, il modo purtroppo naturale e catartico che alcuni trovano per far fronte a ciò che hanno vissuto, in cui si chiede, come scritto nel diario di Arthur, “a chi ha una malattia mentale di comportarsi come se non ce l’avesse”.

Neuroscienze del bilinguismo (2018) di E. Cargnelutti e F. Fabbro – Recensione del libro

Come si può definire il linguaggio? Quali aree cerebrali coinvolge? Che cos’è il bilinguismo? Esistono differenze tra chi parla una sola lingua e chi più di una? Il libro Neuroscienze del bilinguismo ci porta alla scoperta del linguaggio all’interno del cervello bilingue.

 

Da definizione, il termine bilingue indica coloro che utilizzano alternativamente e senza difficoltà due diverse lingue. Ma chi può definire con certezza scientifica concetti come lingua e dialetto? In effetti una definizione univoca non esiste, vengono classificati come bilingui chi conosce, comprende e parla due o più lingue e/o dialetti. Secondo gli studi, inoltre, esistono diversi tipi di bilinguismo, i soggetti bilingui hanno mostrato di possedere un’aumentata capacità delle funzioni esecutive e un minor decadimento cognitivo.

Quindi esistono differenze cerebrali nei soggetti bilingui rispetto a chi parla una sola lingua?

Neuroscienze del bilinguismo presenta una panoramica dei principali argomenti che riguardano il bilinguismo. Con una struttura simile al libro Cervello bilingue edito nel 1996, il testo, pur essendo dedicato, come sottolineano gli autori, a un vasto pubblico anche non specializzato, appare in alcuni punti arduo anche se l’intento di non utilizzare eccessivamente un linguaggio tecnico, se non dove necessario, è stato mantenuto.

Il libro è ben organizzato e diviso in due parti: nella prima un’introduzione generale al tema del linguaggio, mentre la seconda è dedicata specificatamente agli aspetti neuroscientifici del bilinguismo. Più precisamente, i capitoli iniziali argomentano sulla definizione scientifica del linguaggio, cercando di rispondere alla domanda posta in apertura di questa recensione. Si passa poi a definire che cos’è e chi sono le persone bilingui, fino a addentrarsi nella localizzazione a livello cerebrale e delle diverse strutture coinvolte nella produzione e comprensione del linguaggio.

Domanda: così come per il linguaggio esiste anche per l’acquisizione di una seconda lingua un periodo critico? La risposta la trovate nel testo, nel frattempo una cosa altrettanto interessante riguarda il fatto che diversi studi hanno evidenziato come l’età di acquisizione della nuova lingua (chiamata L2 per distinguerla dalla L1 cioè la lingua madre) influenzi il livello di competenza, grammaticale e di pronuncia, della lingua stessa.

La seconda parte del libro appare per certi versi più impegnativa, riguarda infatti l’aspetto dei disturbi del linguaggio nei soggetti bilingui. Appare chiaro che la situazione nei bilingui risulta leggermente diversa e più complicata rispetto a monolinguismo, perché bisogna valutare la capacità alterata e residua in entrambi i sistemi linguistici.

I disturbi del linguaggio in particolare le afasie, presentate ampiamente nel testo, ricoprono una grande importanza, perché permettono di ottenere informazioni aggiuntive circa l’organizzazione dei sistemi linguistici all’interno del cervello. L’afasia è un disturbo che inficia la capacità di esprimersi e comprendere ed è causata da un danno alle aree cerebrali deputate al linguaggio. Le afasie nei soggetti bilingui possono mostrare diversi sintomi e caratterizzarsi in maniera diversa a seconda che influenzino una sola oppure tutte le lingue conosciute, questo aspetto è presente tanto nei soggetti adulti quanto nei bambini.

Il testo affronta anche altri argomenti legati ai disturbi del bilinguismo: come si manifesta il decadimento nei soggetti bilingui e in caso di disturbi psichiatrici? In questi casi L1 e L2 subiscono delle modificazioni particolari per ragioni differenti ascrivibili in un caso al ruolo della memoria e nell’altro all’aspetto emotivo.

I capitoli finali sono dedicati agli studi neuroscientifici del cervello bilingue. Ricerche effettuate con neuroimaging o tecniche elettrofisiologiche permettono di capire che cosa avviene all’interno del cervello quando un soggetto utilizza una lingua piuttosto che l’altra.

Che rilevanza può avere questo testo e in generale studiare il bilinguismo? Oggi più che mai stiamo assistendo a una contaminazione tra culture diverse e modificazioni geo-sociali, tutto ciò porta al fatto che l’acquisizione di una seconda lingua sarà all’ordine del giorno. Conoscere approfonditamente i meccanismi implicati nel bilinguismo ci permette di acquisire nozioni utili sia in campo educativo che clinico, ricordando sempre che ogni individuo rappresenta un caso a sé.

In conclusione Neuroscienze del bilinguismo è un libro ben organizzato, ogni capitolo infatti presenta come incipit un breve riassunto che guida il lettore alla conoscenza dell’argomento che si affronterà, inoltre il testo presenta anche esempi di casi clinici. Libro impegnativo, ricco di molte nozioni soprattutto per chi approccia per la prima volta al bilinguismo. Nonostante l’intento espresso in apertura del testo, complessivamente appare un libro di settore, per così dire, ma non per questo fuori dalla portata anche dei non addetti ai lavori.

Buona lettura, enjoy the reading, buena lectura, gute Lektüre, bonne lecture, lexim i mirë.

 

Spectatoring: mediatore nell’associazione tra la preoccupazione circa l’aspetto del pene e la funzionalità sessuale maschile

Diversi studi hanno riscontrato come negli uomini la soddisfazione circa l’aspetto del proprio pene sia seguito non soltanto da una visione più positiva della propria sessualità, ma anche da un miglioramento dell’esperienza erotica stessa, arrivando anche ad amplificare la percezione di competenza sessuale.

 

Nei momenti di intimità sessuale la dimensione corporea assume sicuramente un ruolo centrale: in particolare, le cognizioni e valutazioni egoriferite circa l’aspetto del corpo. La preoccupazione specifica per l’aspetto dei genitali è stata riscontrata in letteratura come associata a sintomi depressivi e bassa autostima, da ultimo risultando nell’evitamento delle situazioni che esporrebbero l’individuo a mostrare il proprio corpo nudo, con prevedibili conseguenze sul piano relazionale e sessuale nella coppia, oltre che per un senso più generale di valutazione personale (Tiggemann, Martins & Churchett, 2018; Veale et al., 2015).

Diversi studi hanno riscontrato come negli uomini la soddisfazione circa l’aspetto del proprio pene sia seguito non soltanto da una visione più positiva della propria sessualità, ma anche da un miglioramento dell’esperienza erotica stessa, da ultimo amplificando nell’individuo la percezione di competenza sessuale. Tuttavia, è facile realizzare come normalizzare degli standard irrealistici o distorti circa l’aspetto che i genitali “dovrebbero” avere possa portare gli uomini, in particolare quelli che nutrono delle preoccupazioni circa l’estetica dei propri genitali, a provare sentimenti di inadeguatezza, così come testimoniato dall’aumento vertiginoso delle richieste di interventi per migliorare l’estetica dei genitali o la prestazione sessuale (Veale et al.; 2016).

Da diversi studi è emerso che gli uomini che percepiscono il proprio corpo o genitali come inadeguati hanno più probabilità di sperimentare difficoltà erettili così come maggiori difficoltà nel raggiungere l’orgasmo (Johnson et al., 2014; Veale et al., 2016; Veale et al., 2014). E’ stato teorizzato da Janssen e colleghi (2000) come alla base delle difficoltà sperimentate durante il sesso vi possa essere un’interferenza cognitiva che disturba il focus attentivo degli uomini insicuri del proprio aspetto; il risultato sarebbe quindi quello di distogliere l’attenzione dai cue erotici coadiuvanti l’eccitazione dell’individuo, come ad esempio stimoli contestuali erotici o gli indizi di attivazione fisica, finendo per amplificare le ansie circa la prestazione sessuale. Al pari di ogni altro processo di elaborazione dell’informazione infatti, l’attenzione appare fondamentale per un adeguato funzionamento sessuale, portando all’esperienza cosciente dell’individuo gli indizi fisiologici rilevati in risposa agli stimoli eccitanti e attivando un feedback positivo sull’arousal (Janssen et al., 2000).

Nella clinica delle difficoltà sessuali è stato dimostrato come gli uomini disfunzionali tendano a focalizzarsi sulle emozioni negative e sulle proprie paure proprio durante l’attività erotica, talvolta interferendo con l’erezione stessa e conseguentemente alimentando il circolo ansioso circa la prestazione sessuale (Barlow, 2002). Alla luce di tale modello è possibile immaginare che gli uomini che si preoccupano per l’aspetto dei genitali possano sperimentare una simile distrazione quando si trovano in intimità, esposti al giudizio proprio e del partner.

Lo spectatoring è stato concettualizzato come una forma di fissazione cognitiva sulle percezioni di sé negative durante l’attività sessuale, focalizzazione su stimoli esterni irrilevanti rispetto alla situazione che comporta difficoltà nell’eccitazione così come nel raggiungimento dell’orgasmo. Il risultato è quello della sensazione di assumere una prospettiva in terza persona, giudicante, che osserva da fuori l’atto sessuale. Il fenomeno si declina in due accezioni differenti, quella di imbarazzo sessuale, ovvero un’autovalutazione circa la percezione che l’altro potrebbe avere, oppure il self-focus sessuale, ovvero un aumento dell’attenzione sul comportamento, la performance o l’attivazione fisica che finisce per deviare l’attenzione dagli stimoli erotici che elicitano la risposta sessuale (Janssen et al 2000) Wiegel et al., 2007).

Un recente studio condotto da Wyatt, de Jong & Holden, che ha coinvolto 549 uomini impegnati in una relazione stabile e sessualmente attiva, si è proposto di indagare se il fenomeno dello spectatoring, risultante delle preoccupazioni riguardo all’aspetto dei genitali maschili, potesse agire come interferenza cognitiva influenzando la funzionalità sessuale in termini di mantenimento dell’eccitazione e raggiungimento dell’orgasmo. Ai partecipanti sono stati somministrati dei questionari self-report volti ad ottenere una misura della preoccupazione circa l’estetica dei genitali, sulle due diverse sottoscale dello spectatoring, l’imbarazzo sessuale e il self-focus sessuale, riportando inoltre una misura delle difficoltà sessuali riscontrate nel mese precedente rispondendo alle due sottoscale relative alla funzionalità erettile e alla funzione orgasmica estratti dall’International Index of Erectile Functioni (Rosen et al., 1997).

In accordo con le aspettative degli autori, dall’analisi statistica è emerso che coloro i quali sperimentavano una preoccupazione maggiore circa l’aspetto o le dimensioni del proprio pene avevano probabilità maggiori di sperimentare imbarazzo sessuale e self-focus negativo durante l’attività sessuale.

A loro volta questi due aspetti dello spectatoring si sono dimostrati predittori di maggiori difficoltà nel mantenere l’erezione e nel raggiungere l’orgasmo, sebbene maggiori studi siano necessari per confermare la natura causale di questa relazione.

 

Quando i dati dei figli vanno on line. Lo sharenting visto dagli adolescenti

L’avanzamento tecnologico ha prodotto numerosi cambiamenti nella quotidianità delle famiglie, creando nuovi fenomeni e nuove abitudini. Una tra le più consolidate è sicuramente quella di condividere le informazioni e foto personali o di gruppo sui social network come Facebook, Twitter o Instagram.

 

Questa tendenza si è naturalmente generalizzata anche ai genitori che, oltre a postare sui social le proprie informazioni e foto, tendono a pubblicare, sempre più frequentemente, anche quelle dei propri figli.

Questo fenomeno è stato definito “sharenting” dalla fusione delle parole share (condividere) e parenting (fare i genitori). Molti genitori tendono a fornire aggiornamenti dei propri figli fin dalla nascita o addirittura prima, se si considera la propensione a postare le foto della prima ecografia. Una ricerca condotta dall’organizzazione inglese Nominet (2016a, 2016b) ha messo in evidenza che i genitori tendono a postare in media 300 foto dei propri figli ogni anno con una media di 1500 entro il compimento del quinto anno di età. Sebbene la ricerca condotta da Nominet avesse l’obiettivo di mettere in risalto i rischi per la sicurezza dei dati personali ed il rispetto della privacy, fornisce un quadro decisamente chiaro dell’ampiezza del fenomeno. La maggior parte degli studi su questa tematica, infatti, hanno approfondito prettamente il punto di vista legale e giuridico. Diversi studi (Maxim, Orlando, Skinner, & Broadhurst, 2016; Steinberg, 2017), per esempio, hanno riportato come le immagini condivise in rete dai genitori siano spesso trovate in siti pedopornografici, e che la condivisione di informazioni e foto possa facilitare i malintenzionati a ricavare indirizzi, luoghi ed abitudini quotidiane dei figli.

In generale, i genitori sembrano non conoscere adeguatamente i rischi del proprio comportamento online. Per questo motivo diversi enti ed organizzazioni come l’Australian Children’s e Safety Commissioner (2019) e l’ American Academy of Pediatrics (McCarthy, 2017) hanno sottolineato nelle loro linee guida la necessità di favorire nei genitori una maggiore consapevolezza del web ed un uso adeguato delle impostazioni e delle configurazioni dei social network. Dal punto di vista della ricerca in psicologia, invece, i pochi studi a disposizione hanno cercato di indagare il punto di vista dei figli. Infatti, sebbene i bambini piccoli non abbiano ancora percezione della propria identità digitale, dalla preadolescenza, invece, iniziano ad avere consapevolezza del comportamento dei propri genitori sui social network e cominciano a prendere coscienza della presenza dei propri dati sul web.

In questo senso, Gaëlle Ouvrein e Karen Verswijvel (2019) dell’Università di Antwerp in Belgio, attraverso l’uso di focus group con adolescenti tra i 12 ed i 14 anni, hanno mostrato che, sebbene diversi adolescenti intervistati affermino di comprendere le ragioni del comportamento dei propri genitori e di credere nelle loro buone intenzioni, sono in molti ad esprimere preoccupazione per tale modo di fare. Circa la metà degli intervistati ha espresso paura per i contenuti condivisi dai propri genitori. A suscitare maggiore imbarazzo sono specialmente le foto buffe o quelle che mostrano nudità. Gli adolescenti condividono il pensiero che preferirebbero controllare i “posts” dei genitori che li riguardano, perché ritengono che lo sharenting possa portare a “brutte sorprese”. Nel descrivere le conseguenze dello sharenting, gli adolescenti fanno riferimento ad aspetti legati all’accettazione dei pari, come la paura di essere valutati negativamente, ricevere commenti negativi fino ad essere vittima di bullismo o cyberbullismo. Qualche adolescente intervistato riporta anche il rischio di conseguenze a lungo termine della presenza di foto personali imbarazzanti sul web, come quando prima di un colloquio di lavoro i recruiter andranno alla ricerca di informazioni sui social per comprendere le abitudini dei candidati.

In un secondo studio di Karen Verswijvel insieme ad altri colleghi dell’Università di Antwerp, si è cercato di capire maggiormente la valutazione che gli adolescenti fanno del fenomeno dello sharenting. Da questo studio basato sulla somministrazione di questionari su 817 adolescenti è emersa la tendenza degli adolescenti a disapprovare largamente lo sharenting, considerandolo imbarazzante ed inutile. Inoltre, la ricerca ha messo in evidenza che gli adolescenti che valutano in modo maggiormente positivo lo sharenting sono quelli che tendono loro stessi a condividere numerose informazioni personali o che prestano meno attenzione ed hanno meno preoccupazioni nei riguardi della loro privacy.

Sebbene lo sharenting possa sembrare la semplice estensione social della classica abitudine dei genitori di mostrare album di foto, di parlare dei successi dei propri figli o di raccontare buffi aneddoti a parenti ed amici, ci sono una serie di sfaccettature legate al pubblico dominio delle informazioni sui social che rendono lo sharenting un fenomeno che necessita di particolare attenzione. Lo sharenting non può essere considerato di per sé un problema, ma una verità incontrovertibile è che una volta in rete le informazioni, i video e le foto diventano a disposizione di tutti, ed è principalmente per questo motivo che un uso disfunzionale dei social può rilevarsi deleterio.

Gli autori delle ricerche descritte sottolineano con forza la necessità di sensibilizzare maggiormente i genitori sulla tematica e creare un clima di dialogo con i figli in adolescenza per dare la giusta rilevanza alla loro opinione e discutere dei contenuti e delle modalità di condivisione. Tenendo in considerazione il punto di vista dei figli, acquisendo maggiore consapevolezza del funzionamento della privacy online, dei rischi dello sharenting, ed imparando  l’uso consapevole della nuova tecnologia, i genitori potrebbero trovare il giusto compromesso per raccontarsi sui social in completa sicurezza.

 

Avrò chiuso il rubinetto del gas? Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC). Comprendere ed intervenire – Report dalla Conferenza

Francesco Mancini offre ai partecipanti della Conferenza di Padova tante nozioni, informazioni e spiegazioni utili sia per gli addetti ai lavori, che per persone che soffrono del disturbo ossessivo compulsivo e loro familiari.

 

Si è appena concluso un interessante evento aperto all’intera comunità, tenutosi lo scorso 19 ottobre 2019 a Padova e promosso dal Centro di Terapia Cognitivo Comportamentale di Padova, in collaborazione con le scuole di Psicoterapia SPC e APC, dal titolo “Avrò chiuso il rubinetto del gas?” Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Comprendere ed intervenire che ha visto come relatore il Prof. Francesco Mancini, massimo esperto in tema di DOC.

Al di là del titolo, nella mattinata si è magistralmente spaziato ed approfondito il tema del disturbo ossessivo compulsivo in maniera più ampia, le caratteristiche salienti di una mente ossessiva, forme di manifestazioni, fattori di rischio, età di esordio, prognosi, prospettive di guarigione e ulteriori curiosità e domande mosse dai partecipanti.

La conferenza si è aperta con la visione di un estratto video tratto dal celebre film Qualcosa è cambiato, in cui Jack Nicholson recita i panni di una persona con un severo disturbo ossessivo-compulsivo. Da lì in poi, si sono andati ad analizzare alcuni importanti elementi nella genesi e responsabili anche del mantenimento del disturbo come il dubbio, un dubbio che, come spiega il Prof. Francesco Mancini, avvia in una mente ossessiva un film catastrofico che genera inevitabilmente un senso di colpa. Anche su questo ultimo aspetto, un interessante contributo del Professore riguarda proprio la distinzione e la specificazione del tipo di colpa. Secondo lo stesso infanti, è importante distinguere una colpa di tipo deontologica, da una colpa di tipo altruistica. Il senso di colpa avrebbe che fare con la sensazione di essere responsabili di possibili danni dove non necessariamente è presente una vittima. Il senso di colpa dentologico deriverebbe dall’assunzione d’aver violato una propria regola morale, comportando una sensazione di essere indegni, una sensazione di sporco e disgusto. Nel senso di colpa altruistico invece si assisterebbe alla compromissione di scopi altruistici. Nelle persone che soffrono di disturbo ossessivo-compulsivo, la colpa sperimentata ed esasperata, sarebbe di tipo deontologico dove l’iper-responsabilità accompagnata ad una sovrastima del pericolo, renderebbe impossibile tollerare il dubbio di potere in qualche modo sentirsi responsabile di un danno e non aver fatto nulla per poterlo prevenire.

 

Congresso Padova 19 ottobre 2019 DOC Mancini Report (Imm1)

Immagine 1 –  Immagine dalla Conferenza di Padova “Avrò chiuso il rubinetto del gas?” Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC). 

Altri elementi importanti diventano il disgusto, distinguendo il disgusto fisico, attivato ad esempio da sostanze contaminate/contaminanti, da un disgusto morale legato ai comportamenti. Questi aspetti si ritroverebbero indistintamente nelle varie forme di disturbo ossessivo compulsivo, sia che si tratta del tipo controllo, pulizia, ordine e simmetria o riferiti a pensieri proibiti. Un ulteriore variabile interessa sarebbe la sensazione che qualcosa non è per come dovrebbe essere (nothing just the right experience- NJRE).

Dopo un’ampia trattazione, il Prof. Mancini ha sottolineato dunque, l’elemento sul quale lavorare in terapia, ossia l’ accettazione dell’incertezza e attraverso una serie di esempi anche di casi trattati personalmente in studio dallo stesso, i partecipanti hanno avuto la possibilità di riconoscere l’esasperazione di quegli aspetti sopra descritti accompagnati a processi mentali che potrebbero riguardare ognuno di noi, ma l’aspetto quantitativo e la ricorsività ne determinano la differenza. Come faccio ad essere certo che ciò che temo non si realizzerà? Ed ecco che le compulsioni, siano esse comportamentali, che mentali, attraverso un’attività di tipo ruminante, avrebbero come scopo quello di neutralizzare l’angoscia del dubbio di sentirsi responsabili in qualche modo.

Per entrare sempre di più su meccanismi e scopi di un pensiero di tipo ossessivo, il Prof. Mancini ha citato la scommessa di B. Pascal, dove in riferimento al dubbio sull’esistenza di Dio e relativo tentativo di volerne dimostrare l’esistenza attraverso leggi matematiche, lo stesso alla fine conviene che la scommessa sarebbe stata troppo rischiosa pertanto conveniva accettare la sua assistenza al di là delle prove, pena la dannazione eterna. Nel paziente ossessivo avverrebbe un meccanismo analogo in cui, visto il senso di iper-responsabilità del soggetto e la sovrastima del pericolo di cui parlavamo prima, non si può correre il rischio.

Agli interventi del Professore si sono alternate diverse curiosità e domande da parte dei partecipanti, come ad esempio età di esordio, prognosi, terapie farmacologiche. Ciò che oggi ricerche scientifiche dimostrano è che l’età di esordio del disturbo nella maggioranza dei casi sarebbe in adolescenza e che la tempestività dell’intervento può giocare a favore sulla prognosi del disturbo stesso. Rispetto alla terapia farmacologica il Professor Mancini ha ricordato quali farmaci vengono principalmente utilizzati per il trattamento di disturbi ossessivi compulsivi (come ad esempio gli SSRI), ma ricordando i dati delle ricerche in merito ai pro e contro di un trattamento farmacologico e, soprattutto, come questo da solo non risulta essere risolutivo del problema, essendo anche associato ad un maggior rischio di cronicizzazione e ricadute. Con la psicoterapia, e soprattutto la terapia cognitivo comportamentale, di cui anche le Linee Guida Internazionali ne riconoscono validità scientifica ed efficacia nel trattamento del disturbo, le percentuali di riduzione della sintomatologia e guarigione aumentano notevolmente, soprattutto grazie all’intervento di Esposizione e Prevenzione della Risposta (EPR). L’associazione psicoterapia e farmaco, invece, sarebbe consigliabile utilizzarla per i casi cui il farmaco diventa un ausilio alla psicoterapia stessa.

Anche se solo mezza mattinata, il Professore ha offerto ai partecipanti tante nozioni, informazioni e spiegazioni utili sia per gli addetti ai lavori, che per persone che soffrono di tale disturbo e loro familiari. Spero di essere riuscita, all’interno di questo report, a sintetizzare quanto detto e mettere in luce gli elementi più importanti per avvicinarsi ad una mente ossessiva, per conoscerla, comprenderla, accettarla e per noi professionisti, aiutarla.

 

Aspetti psicologici del ghosting e dell’orbiting nella vita fuori e dentro i social networks

Ghosting e orbiting: fenomeni che coinvolgono internet, contesto che facilita l’interruzione di un rapporto venendo meno le componenti principali della comunicazione non verbale, come guardarsi negli occhi, vedere le reazioni corporee dell’altro.

 

Ho spesso pensato a Facebook, o a Instagram, come una sorta di locale ampio in cui si riuniscono i conoscenti, i famigliari e gli sconosciuti, da cui ci si può congedare quando si desidera, nel quale ci si ritrova senza appuntamento ma la comunicazione, come è già stato ampiamente dibattuto, è ridotta a parole scritte, video e fotografie. Mi viene in mente una situazione surreale in cui le persone in carne ed ossa formulano un invito scarno a partecipare, comunicano tra di loro, si escludono, osservano o non perdono occasione per farsi notare e rincorrere chi non ha assolutamente desiderio di interagire con loro. Alcuni si annoiano subito, altri continuano a restare ad aspettare o entrano per promuovere l’attività, magari sperare che qualcuno si faccia avanti. Surreale perché effettivamente nella vita fuori dagli schermi non si interagisce con tutti i 200 o 2000 amici e in certi casi si stabilisce un legame con chi non rientra neanche nella lista.

Nel mondo virtuale si inseriscono due fenomeni ormai celebri, ghosting e orbiting, rispettivamente interrompere un legame all’improvviso senza dare spiegazioni e ritornare quando si desidera, visualizzando le storie, commentando o assegnando mi piace e cuori senza però frequentarsi, manifestando l’intenzione di tenere un rapporto non definito. Nella metafora del locale che ho descritto, il ghosting, per esempio, mi evoca varie persone e situazioni, appunto perché non esiste un prototipo di ghoster e i bisogni che muovono quella sparizione improvvisa possono essere svariati, così come “gravitare” attorno ad una o più persone per non perdere i contatti. Posso immaginare chi desidera fare due chiacchiere per poi andarsene quando ha finito, chi è convinto di avere di fronte un amico o il vero amore, troncando la conversazione indesiderata quando si accorge che non è scattato niente, che l’altro non rispecchia i suoi valori o gli interessi, chi attacca strategicamente bottone per tastare il terreno su eventuali progetti di interesse e fuggire quando comprende di non poter cogliere opportunità.

In sostanza mi sovvengono vari tipi di persone, e quindi di motivazioni, per recidere una relazione nel silenzio, forse perché nelle ultime conversazioni si è detto qualcosa che ha urtato la sensibilità morale o personale a tal punto da ravvisare una perdita, da sperimentare il disprezzo per le idee e le opinioni e decretare la fine di un rapporto che non può avere un seguito; oppure perché la magia dei primi contatti svanisce e non si tollera la delusione. In altri casi si sparisce perché si avverte la costrizione di un rapporto in evoluzione o la pretesa di essere protetti e accuditi da chi pensa anche o solo a sé. E così il silenzio può diventare un mezzo per attirare o allontanare le attenzioni; per chi le subisce, le sparizioni sono attese o inaspettate e questo dice molto del funzionamento relazionale, dei segnali che uno ha accuratamente celato e l’altro accantonato o di quelli palesi e minatori. Ghosting e orbiting, quindi, non sono necessariamente congiunti; il primo si verifica spesso isolatamente nei soggetti dai pattern di attaccamento evitante, per prevenire l’intimità relazionale, mentre nei pattern coercitivi si assiste sovente ad un’alternanza tra sparire e riapparire, per esercitare un controllo sulla relazione sentimentale, amicale o professionale.

Tali fenomeni coinvolgono internet poiché diventa più facile interrompere un rapporto davanti ad uno schermo che, in quanto tale, spezza le componenti principali della comunicazione non verbale, come guardarsi negli occhi, vedere le reazioni corporee dell’altro, e così via; per la stessa ragione è più semplice gravitare con like e visualizzazioni, restando comodamente di fronte ad una tastiera. L’orbiting, azione prevalentemente coercitiva, in certi frangenti assume lo scopo di mantenere uno stato relazionale seppur annacquato e traballante; quell’implicito “ci sono ancora” può nascondere la vergogna di essere spariti senza ragione che trattiene dall’esporsi completamente o delineare un tentativo di tenere allacciato quel legame potenzialmente utile per regolare alcune emozioni intollerabili, come la paura di essere soli o incapaci di fronte ad un problema.

Leggendo vari articoli sull’argomento, noto un proliferare di ricette pre-confezionate su come difendersi da ghosting e orbiting, interpretazioni univoche, un’assidua demonizzazione che impedisce di riflettere sulle motivazioni per cui accadono; predomina spesso l’immagine del mascalzone narcisista, manipolatore che miete vittime insicure e deboli, da correggere con lo schiaffo della verità: non è interessato, scordatelo. Ecco, questo porta ad alimentare l’errore comune, quello di porsi in una posizione vittimistica e rabbiosa, crogiolandosi nella sofferenza e nella ragione assoluta e attribuendo acriticamente all’altro superficialità e incapacità di comunicare. Prima di tutto invito a valutare il contesto: è ben diverso un ghosting improvviso o minacciato, dopo anni di relazione, da uno conseguente ad una frequentazione breve, reale o virtuale, e un orbiting in una fase di riavvicinamento in seguito ad un periodo burrascoso, da una tendenza abituale quando il rapporto è ormai sepolto. Di conseguenza non va dimenticato il ghoster, i segnali che potrebbe aver lanciato e che non sono stati considerati, il perché torna e come ci si potrebbe comportare per recuperare o accettare che la storia è finita.

Da tali considerazioni non trovo necessariamente dannosi e allarmanti tali fenomeni a prescindere dal contesto; sparire dopo qualche appuntamento o una chiacchiera online può essere vissuto con dolore da alcuni e indifferenza da altri, pertanto è cruciale soffermarsi sulle aspettative, sull’effetto suscitato e sul perché tale evento ha urtato, cogliendolo come spunto per imparare qualcosa su come si funziona, senza incolparsi o incolpare. Oltre a ciò, non mi sembra una soluzione vincente bloccare i contatti nel caso di orbiting costante, come spesso si consiglia, proprio perché sembra una strategia rapida ed esteriorizzata per polverizzare la sofferenza e allontanare la tentazione di ricascarci, senza lavorare sulla paura di rifiutare ed essere rifiutati, di comunicare esplicitamente i vissuti o di accettare che quel tipo di rapporto non può evolvere secondo i nostri desideri. Aggiungerei che le soluzioni rapide e preconfezionate non incentivano la curiosità a conoscersi ma ad arrovellarsi in un giro di pensieri ed emozioni di colpa verso di sé o verso l’altro, di delusione e di rabbia che impediscono una crescita costruttiva basata sulla comprensione del proprio e l’altrui funzionamento in relazione agli eventi che si verificano.

 

Il possibile ruolo delle neuroimmagini nell’identificazione dei pazienti con disturbi dell’umore a rischio suicidario

Ad oggi il suicidio rappresenta un’importante causa di morte soprattutto tra i giovani ed in particolare tra quelli con disturbi dell’umore; l’utilizzo delle neuroimmagini può costituire uno strumento efficace per indagare i fattori di rischio in modo da agire in direzione preventiva e per poter mettere a punto trattamenti mirati.

 

A livello mondiale il suicidio risulta la seconda causa di morte nella fascia d’età 15-29 anni (World Health Organization, 2019). Il tasso di suicidio presenta un continuo incremento in questa popolazione, soprattutto in coloro che hanno disturbi dell’umore, quali il Disturbo Depressivo Maggiore e il Disturbo Bipolare. Nonostante la gravità di tale problematica, al momento esistono pochi strumenti che permettano di individuare quali persone possano essere maggiormente a rischio di comportamenti suicidari.

Risulta quindi necessario giungere a una migliore comprensione dei fattori di rischio che predispongono alla messa in atto di comportamenti suicidari, inclusi quelli di tipo neurobiologico, in modo da sviluppare migliori modelli predittivi e trattamenti mirati che vadano a diminuire l’entità di tale problematica. In uno studio recentemente pubblicato su Psychological Medicine, Stange e colleghi (2019) hanno individuato differenze rispetto alla connettività in alcuni circuiti cerebrali che potrebbero essere associate alla messa in atto di comportamenti suicidari in pazienti con disturbi dell’umore.

In una prima fase dello studio sono stati selezionati 212 giovani adulti, di fascia d’età compresa tra i 18 e i 29 anni, provenienti dalla University of Michigan e dalla University of Illinois at Chicago, parte dei quali aveva un disturbo dell’umore in remissione (130), mentre la restante parte non aveva mai avuto problematiche di tipo psicopatologico (82). Dei partecipanti con un disturbo dell’umore in remissione, 18 avevano tentato il suicidio in passato, 60 avevano avuto solo pensieri relativi al suicidio mentre 52 non avevano avuto né pensieri né comportamenti legati al togliersi la vita.

Durante lo studio, sono state eseguite delle scansioni cerebrali tramite l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI) sui partecipanti in stato di riposo, al fine di indagare se, nei pazienti con pregressi tentativi di suicidio, potessero essere riscontrate delle differenze rispetto al funzionamento cerebrale. In particolare, sono state prese in considerazione aree che erano risultate associate ai disturbi dell’umore in studi precedenti, quali il cognitive control network (CCN), un sistema che coinvolge aree fronto-parietali e dorsali associate alle funzioni esecutive e al problem-solving, il salience and emotional network (SEN), il quale comprende aree limbiche e ventrali e si attiva in risposta a stimoli, anche emotivi, che risultano rilevanti rispetto agli obiettivi attuali, e il default mode network (DMN), il quale si attiva in corrispondenza della formulazione di pensieri riferiti a sé e in assenza di stimoli esterni.

In seguito all’analisi dei dati, Stange e colleghi hanno rilevato che, rispetto agli altri partecipanti allo studio – compresi coloro che avevano avuto pensieri inerenti al suicidio – i partecipanti che avevano tentato il suicidio mostravano un’attenuazione rispetto alla connettività sia all’interno del cognitive control network sia tra quest’ultimo e il default mode network. Tali risultati suggeriscono che gli individui con disturbo dell’umore in remissione che hanno tentato il suicidio in passato potrebbero avere un pattern connettivo tratto-specifico in network coinvolti nel controllo cognitivo e nel pensiero rivolto a sé. Viene inoltre messo in luce che la risonanza magnetica funzionale eseguita su individui in stato di riposo potrebbe risultare uno strumento promettente per l’identificazione delle basi neurali del rischio suicidario in pazienti con disturbi dell’umore.

Gli autori hanno ipotizzato che, dato che il DMN risulta attivo durante il riposo e durante forme di autoriflessione, quali ad esempio la ruminazione, e che il CCN facilita le funzioni di controllo cognitivo, gli individui che hanno difficoltà a smettere di ruminare mentre sono in uno stato di riposo potrebbero presentare una minore sincronizzazione tra questi due network. Dato che la ruminazione risulta un fattore di rischio rispetto all’ideazione e al comportamento suicidario (Rogers & Joiner, 2017), ricerche future potrebbero approfondire se la presenza di difficoltà di connessione tra queste due regioni possa predisporre alla messa in atto di comportamenti suicidari, analizzando il ruolo della ruminazione come possibile manifestazione comportamentale di tale difficoltà.

L’eredità del Trauma e della Dissociazione: corpo e mente in una nuova prospettiva – Report dal 7° Congresso Biennale della Società Europea per il Trauma e la Dissociazione (ESTD)

Si è tenuto a Roma, dal 24 al 26 Ottobre 2019, il 7° Congresso Biennale della Società Europea per il Trauma e la Dissociazione (ESTD), dal titolo “L’eredità del Trauma e della Dissociazione: corpo e mente in una nuova prospettiva”

 

Dopo una prima giornata dedicata ai workshop precongressuali e all’apertura ufficiale dei lavori con la lettura magistrale di Michela Marzano “Dal ‘Cogito Ergo Sum’ alla fragilità della condizione umana: le contraddizioni dell’esistenza”, prende il via il 7° Congresso ESTD.

Esperti da tutto il mondo si sono riuniti nella Città Eterna per confrontare e condividere le proprie conoscenze ed intuizioni sul trauma e la dissociazione e poterne migliorare il trattamento. Il filo conduttore del congresso è stata l’esplorazione dei nuovi e stimolanti risultati inerenti la relazione corpo mente nella dissociazione, con un focus particolare sulla connessione tra trauma, dissociazione e corpo.

Il Congresso si apre con l’intervento magistrale di Kathy Steele sulle sofferenze intrecciate e il Sé incarnato di paziente e terapeuta, una lezione per il terapeuta che si occupa di Trauma e che, oltre a prendersi cura del paziente, deve prendersi cura di sé. In linea con quanto affermato da Michela Marzano, è fondamentale ricordarsi che il terapeuta, così come il paziente traumatizzato, è una incarnazione di corpo e mente, un’unità delle parti in continua costruzione “quello che sono qui oggi è diverso da quello che sarò tra 5 minuti o tra 5 anni”. Importante quindi che il terapeuta sia radicato nel suo corpo e capace di integrare le proprie sofferenze con il proprio vissuto e accettare il paradosso del dolore “più cerchiamo di evitare il dolore più soffriamo, più cerchiamo di accoglierlo meno sofferenza avremo”. Un accento posto quindi sulla accettazione della vulnerabilità, fallibilità, umanità del terapeuta come fulcro per un ingaggio incarnato con il paziente e requisito fondamentale per lavorare con il trauma e la dissociazione. Un terapeuta incarnato come ci insegna Steele è un terapeuta compassionevole, connesso, vulnerabile e resiliente, è un terapeuta che abbraccia le proprie negatività e che nel lavoro con il trauma è focalizzato sul processo piuttosto che sul contenuto.

Ci si addentra poi nella complessa relazione tra Trauma e Dissociazione con l’intervento di A.Laddis, E Nijenhuis, J. Rydberg e A. Schimmenti che propongono una relazione causale tra lo stress derivante dal trauma e la dissociazione, concludendo che i due fenomeni co-occorrono. Condividono con la platea la consapevolezza che per arrivare ad una evidenza scientifica si ha bisogno di avere una definizione più chiara, più “ristretta” e condivisa di trauma e di dissociazione. Ciò richiede di distinguere cosa differenzia lo stress legato al trauma dagli altri tipi di stress e cosa differenzia la dissociazione correlata al trauma da altri fenomeni simili. In particolare Schimmenti propone una digressione della relazione tra trauma e dissociazione da un punto di vista teorico ed empirico, evidenziando come spesso i terapeuti tendono a considerare la dissociazione solo correlata al trauma mentre di fatto troviamo sintomi dissociativi anche in disturbi del sonno o in presenza di deficit metacognitivi e di difficoltà di autoregolazione. Vengono quindi riportati vari studi che mostrano come la correlazione tra trauma e dissociazione sia “dose-effetto” per cui si evidenzia la necessità di indagare in modo approfondito il ruolo dell’attaccamento nel trauma e nella dissociazione. E, aggiunge Rydberg, è necessario crearsi una propria definizione di trauma e dissociazione comprendendo ciò che significa quella esperienza per quello specifico paziente, sottolineando come la dissociazione può intervenire per evitare, in una situazione traumatica, la decomposizione della personalità.

Da qui si delinea in modo sempre più chiaro la difficoltà diagnostica cui il clinico si trova di fronte a causa di questa elevata comorbilità e per il fatto che molto spesso il paziente presenta una seri di sintomi dissociativi che però non rappresentano il problema per cui arriva in terapia. S. Boom e I. Michalopoulos cercano, nella prima parte del loro intervento, di far chiarezza nella diagnosi di disturbo dissociativo e disturbo psicotico proponendo anche le diverse implicazioni per il trattamento. Attraverso la condivisione di video di sedute di terapia discutono somiglianze e differenze tra pazienti con disturbo dissociativo (DID) e pazienti con disturbo psicotico e mostrano come i due disturbi possono essere differenziati da un cluster di sintomi dissociativi e dalla qualità di questi sintomi, includendo anche i sintomi di Schneider. Ovviamente possono essere presenti anche diagnosi combinate. Nella seconda parte del workshop si focalizzano sugli interventi per il trattamento dei sintomi “psicotici” nei pazienti con DID che sono molto frequenti in base alla loro esperienza clinica in soggetti che hanno subito abusi organizzati e che sono stati vittima di estreme coercizioni. Fondamentale quindi una corretta diagnosi per individuare il trattamento più adeguato al caso specifico, nonché l’utilizzo di un linguaggio condiviso con il paziente stesso.

Ci si addentra quindi nella comprensione del DID con la lezione magistrale di Martin Dorahy che propone una esplorazione della vergogna, dell’amnesia inter-identitaria e l’ascolto di voci, tre aspetti strettamente connessi tra loro e con un importante impatto nella terapia. Spesso infatti la presenza di un DID non è esplicita, ma coperta da molti sintomi che riflettono lo sforzo dei pazienti di nascondere la vera natura delle loro sottostanti difficoltà. Doray sottolinea come una ragione di questo mascheramento sia la vergogna legata ai fenomeni specifici del DID, ossia le identità dissociate, la mancanza di consapevolezza di queste differenti identità e del loro contenuto, l’udire voci che fanno sembrare questi pazienti degli alieni. Dorahy approfondisce accuratamente la vergogna, l’amnesia intra-identitaria e l’ascolto di voci e mostra come vari studi hanno rilevato che la vergogna nel DID ha caratteristiche simili a quella presente in altri disturbi correlati al trauma come il PTSD, ma i pazienti con DID nonostante la propensione al ritiro e all’evitamento della vergogna riconoscono l’importanza di un trattamento terapeutico focalizzato proprio su questa emozione. Rispetto all’amnesia intra-identitaria Dorahy mostra numerosi studi che hanno evidenziato come le memorie semantiche autobiografiche possano richiamare le identità, nonostante la persona non ne sia consapevole. Una persona con DID, infatti, riferisce amnesie per delle parti del Sé ma può comunque avere una rappresentazione globale del Sé. Trova quindi supporto l’idea che mentre la persona può non essere consapevole di alcune parti di Sé, queste possono essere comunque recuperate. Relativamente all’udire voci, Dorahy mostra studi di comparazione tra le voci nel DID e quelle nella Schizofrenia da cui è emerso come nel DID ci sia un più elevato livello di allucinazioni uditive e soprattutto di voci bambine. Per Dorahy quindi il DID è un disturbo incline alla vergogna, con soggettive difficoltà di recupero dell’esperienza dolorosa e, nei casi in cui c’è una massiccia esperienza allucinatoria ciò sembra apparentemente dovuto dalla natura dissociativa delle loro difficoltà.

Si chiude quindi una prima intensa giornata, ricca di spunti ma anche carica di riflessioni e dubbi legati alla condivisa mancanza di una definizione chiara e univoca del concetto di trauma e di quello di dissociazione, che rende difficoltosa l’individuazione stessa del trattamento più adeguato.

Perplessità che ci accompagnano anche nella giornata successiva che si apre con la lezione magistrale di Benedetto Farina che, in ottica neuroscientifica, cerca di rispondere all’interrogativo rispetto al considerare Dissociazione e Dis-integrazione due processi patogenici correlati al trauma. Sono quindi Dissociazione e Dis-integrazione lo stesso processo etichettato con nomi differenti? L’osservazione clinica e i risultati scientifici, esplicitamente e pienamente debitori all’opera di Gianni Liotti, portano ad ipotizzare che si tratti di due processi differenti, ma altamente correlati. La mancanza di integrazione può essere quindi considerata l’effetto, travolgenti emozioni ed arcaici sistemi di difesa attivati dagli eventi traumatici o dai loro ricordi.

Differentemente, la dissociazione può essere considerata la successiva ricomposizione degli elementi del sistema in più parti separate. La distinzione di questi due processi risulta fondamentale per il trattamento terapeutico.

I lavori proseguono addentrandosi nella comprensione di un altro concetto con cui spesso i terapeuti del trauma si trovano di fronte: il Daydreaming Maladattivo (MD), un’attività fantastica, estensiva, elaborata ed intenzionale, accompagnata da movimenti ripetitivi, che viene messa in atto come una sorta di fuga dalla realtà e assorbe moltissimo tempo interferendo con la vita quotidiana del soggetto. L’MD è un assorbimento dissociativo che sembra basato su un tratto che queste persone si riconoscono fin dall’infanzia, ovvero la capacità di sognare ad occhi aperti come una forma internalizzata di gioco molto gratificante. Un gruppo di terapeuti provenienti da Israele, Polonia, Italia, Ungheria e Stati Uniti affronta il tema condividendo le proprie esperienze cliniche, riflettendo sui criteri diagnostici e ponendosi l’interrogativo se questo sia una delle varie espressioni del trauma e della dissociazione o una dimensione a sé. Si discutono quindi i criteri diagnostici per l’MD, la sua fenomenologia, la comorbilità e le caratteristiche associate, ponendo attenzione anche alla diagnosi differenziale con disturbi da dipendenza, disturbo ossessivo, disturbi dissociativi e disturbi da movimenti stereotipati. Lo stato della ricerca lascia ancora molte domande aperte ed il costrutto è ancora in fase di studio, ma dai primi risultati sembra avere una propria identità distinta, misurata e diagnosticata in maniera affidabile attraverso specifici strumenti. Emerge inoltre un’alta comorbilità con diversi disturbi psichiatrici e una certa correlazione con esperienze traumatiche infantili. Il trauma e la dissociazione sono prominenti nell’MD ma non si presentano in tutti i casi. Tuttavia, anche se la struttura dissociativa non risulta presente, tutti gli individui con MD descrivono una dissociazione tra il loro sé esterno, la loro vita “infelice e bastonata” e il loro mondo interiore fantastico, ricco e colorato. L. Somer ci mostra come questo emerga chiaramente dai disegni di questi pazienti e li compara con i disegni dei pazienti DID: la differenza più evidente è che mentre nei disegni dei pazienti DID tutto appare sfumato e poco definito, nei pazienti con MD c’è una netta differenziazione tra la realtà esterna “grigia” e il mondo interno fantastico “colorato”.

Il congresso si chiude infine con l’illuminante l’intervento di E. Nijenhuis sull’ Enactive Trauma Therapy: un ponte tra mente, cervello, corpo e mondo. Un approccio che considera le persone traumatizzate come incarnate e incorporate nel loro ambiente, orientate nei loro scopi dal sistema organismo-ambiente fondamentale per preservare la loro esistenza, qualcosa di dinamico in cui tutto fa parte di quello stesso organismo, sia la mente che il corpo. Il trauma è quindi considerato in questo approccio come una ferita all’intero sistema organismo umano-ambiente. Nei disturbi dissociativi ciò si traduce nella presenza di due o più consapevoli sottosistemi (parti) che portano avanti il loro proprio sé mentale e fenomenico. Muovendosi tra Spinoza e Kafka, Nijenhuis definisce l’Enactive Trauma Therapy come il tentativo di riparare il deficit integrativo: il paziente e il terapeuta costituiscono un sistema a sé, si muovono in un mondo comune e condividono dei risultati, insieme producono nuove azioni e nuovi risultati “L’ Enactive Trauma Therapy può essere paragonata a una danza in cui paziente e terapeuta mettono insieme la musica, insieme definiscono il ritmo, si sintonizzano e sincronizzano, bilanciano la loro sensibilità, movimenti e ritmo”.

Al termine dei lavori viene consegnato a Ellert Nijenhuis un riconoscimento dall’ESTD per il suo costante e fondamentale contributo allo studio del trauma e della dissociazione, un contributo che come il famoso pittore italiano Giorgio Morandi “sempre uguale a se stesso ma sempre diverso, attento ad approfondire i piccoli oggetti senza cercare temi nuovi” anche Nijenhuis si è focalizzato sulla comprensione dell’essenza delle esperienze traumatiche e dei fenomeni dissociativi con rigore e metodo, approfondendone ogni sfaccettatura.

Le traiettorie di peso nell’infanzia e nella prima adolescenza come fattori di rischio per lo sviluppo dei disturbi dell’alimentazione 

Diversi studi hanno valutato l’associazione tra l’indice di massa corporea (IMC) premorboso e la presenza di disturbi dell’alimentazione e hanno trovato risultati, non sempre confermati, che vanno nella direzione di un IMC premorboso più basso per l’anoressia nervosa e un IMC premorboso più alto per la bulimia nervosa e il disturbo da binge-eating.

 

Lo studio dei fattori di rischio nello sviluppo dei disturbi dell’alimentazione attrae la ricerca scientifica e negli ultimi anni sempre più fondi e più ricercatori si orientano verso questo ambito. Studi con strumentazioni sempre più all’avanguardia, con numeri molto ampi di soggetti, hanno, per esempio, portato alla scoperta di loci genetici che potrebbero, se confermati in campioni ancora più ampi, associarsi alla presenza della patologia. Lo studio dei fattori di rischio si rivolge anche alla ricerca di elementi presenti nell’infanzia o addirittura nella fase della gestazione, che potrebbero indirizzarci verso la futura presenza di un disturbo dell’alimentazione. Questo fa illuminare le menti dei clinici e aprirebbe la possibilità di capire fin dai primi anni di vita quali sono i soggetti più a rischio di sviluppare un disturbo dell’alimentazione e trovare, chissà, nuovi interventi, farmacologici e non, atti a far cambiare il corso degli eventi.

Nell’ambito di questa ricerca, il peso e il suo andamento nel tempo sono considerati un elemento chiave su cui convogliare le energie della ricerca. Diversi studi hanno valutato l’associazione tra l’indice di massa corporea (IMC) premorboso e la presenza di un disturbo dell’alimentazione e hanno trovato risultati, non sempre confermati, che vanno nella direzione di un IMC premorboso più basso per l’anoressia nervosa e un IMC premorboso più alto per la bulimia nervosa e il disturbo da binge-eating. Uno studio recente si è spinto oltre andando a valutare la presenza di un fattore di rischio non soltanto nel peso (basso o alto), ma soprattutto nell’andamento del peso nel tempo, sia nei maschi che nelle femmine, nell’età che va dalla nascita fino ai 12,5 anni. La presenza di un disturbo dell’alimentazione era poi valutata all’età di 14, 16 e 18 anni. L’analisi accurata delle traiettorie ha mostrato che, nel campione maschile, data anche la bassa numerosità di questi soggetti con disturbo dell’alimentazione, l’unica differenza che si riscontra è nei soggetti con anoressia nervosa che hanno un peso che si assesta, dai 4 anni in poi, ad un livello significativamente più basso, rispetto ai controlli sani. Nel campione femminile, risultati simili si osservano nel sottogruppo con anoressia nervosa, invece, nei soggetti con bulimia nervosa, con disturbo da binge-eating e con disturbo purgativo, sembra succedere il contrario, cioè il loro peso, soprattutto dai sette anni in poi, cresce di più rispetto al campione di controllo.

Questi dati sembrano aprire scenari sul coinvolgimento metabolico nell’eziologia dell’anoressia nervosa e sul ruolo giocato dai geni dell’obesità in relazione alla presenza di abbuffate. Rimanendo sulle implicazioni cliniche, lo studio può portare a riflessioni sull’obiettivo di peso che dovrebbe essere raggiunto in soggetti con anoressia nervosa che fanno un trattamento. Sulla base dei dati di questo studio sembra che i clinici dovrebbero puntare ad una traiettoria di peso simile a quella di soggetti senza disturbo dell’alimentazione piuttosto che stabilire un obiettivo di peso coerente con l’IMC premorboso.

Nonostante lo studio si proietti verso l’allettante possibilità di intervenire prima dell’esordio del problema, i dati della letteratura necessitano di cautela nella loro lettura e interpretazione. Primo tra tutti, i 1502 individui coinvolti nella ricerca potevano aver riportato anche una sola misurazione del peso tra gli zero e i 12,5 anni, il che obbliga il ricercatore a sostituire i numerosi dati mancanti con una loro stima. Inoltre, la diagnosi di disturbo dell’alimentazione è stata fatta usando un questionario self-report piuttosto che un’intervista strutturata. Sebbene questo sia comprensibile dal punto di vista pratico (fare oltre 1500 interviste sembra poco realistico), dal punto di vista metodologico la dobbiamo considerare un limite che ci fa inevitabilmente dubitare dell’accuratezza della diagnosi. Inoltre, gli autori non spiegano perché intorno ai 12 anni i soggetti di sesso femminile rientrano in traiettorie comparabili a quelle dei controlli sani né perché non hanno utilizzato anche un campione di soggetti con una differente patologia psichiatrica da confrontare con i controlli sani o con quelli con disturbo dell’alimentazione. Infine, facendo uno sforzo statistico di comprensione, il fatto che i dati delle curve di crescita si adattino meglio ad un modello lineare che quadratico o cubico (cioè con curvature delle traiettorie) ci dovrebbe far porre cautela nel leggere le traiettorie come curve che cambiano direzione nel tempo.

Risulta molto affascinante e promettente lo studio dei fattori di rischio nello sviluppo dei disturbi dell’alimentazione e potrà aprire future aree di lavoro e di intervento; rimaniamo in attesa che la ricerca faccia luce sulle molte ombre che ancora esistono.


 

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Le ragioni del minore nei contesti giudiziari – Report dal XXI Congresso Nazionale di Psicologia Giuridica

Nelle giornate del 25 e del 26 ottobre 2019 si è tenuto presso l’Aula Magna di Psicologia dell’Università G. d’Annunzio di Chieti, il XXI Congresso Nazionale di Psicologia Giuridica, organizzato dall’Associazione Italiana Psicologia Giuridica in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio.

 

Il tema cardine delle due giornate ha riguardato le ragioni del minore nei contesti giudiziari, prendendo in considerazioni i casi in cui il minore è messo al centro di processi civili, solitamente nei processi separativi, in cui il minore è vittima di reato e, inoltre, anche i casi in cui è il minore ad aver commesso un reato. Le due giornate sono state cariche di importanti spunti di riflessione e di elevate considerazioni, portate avanti da relatori di alto prestigio sia del mondo accademico che del mondo giudiziario.

Il Congresso si è aperto con i saluti del direttore del Dipartimento Luca Tommasi e del Presidente AIPG Paolo Capri, il quale ha ricordato l’illustre figura di Tommaso Sebastiano Sciascia, magistrato e membro del Consiglio Direttivo dell’AIPG, scomparso lo scorso 6 giugno, e da sempre sostenitore dell’incontro tra psicologia e giustizia. Il presidente Capri ha, inoltre, sottolineato l’importanza del concetto di salute, non intesa solo come assenza di malattia ma come benessere psicologico, fisico e sociale a cui ognuno ha diritto, e tale diritto si esplica anche con il diritto alla psicoterapia.

Per quanto riguarda la prima fase del Congresso, la Prof.ssa Paola Di Blasio, docente di psicologia dello sviluppo dell’ Università Cattolica di Milano ed autrice di numerosi testi, ha trattato della trumatizzazione del minore, partendo dal fondamentale concetto di trauma, inteso come stimolo esterno eccessivo, a cui non si riesce a reagire e che è capace di sopraffare l’individuo, denudandolo delle sue difese. Inoltre, la docente ha sottolineato l’effetto salutogenico della narrazione dell’evento traumatico, in quanto permette l’integrazione delle emozioni nella memoria autobiografica, l’elaborazione e la rielaborazione di esperienze, e la possibilità di riflessione e meta-riflessione. E’ interessante sottolineare anche come le situazioni stressanti possano facilitare il ricordo mentre se eccessivamente stressanti, possono impoverirla.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO LE IMMAGINI DAL CONGRESSO

Psicologia Giuridica le ragioni del minore nei contesti giudiziari - Report IMM 1

IMM. 1 – Immagine dal XXI Congresso di Psicologia Giuridica

Psicologia Giuridica le ragioni del minore nei contesti giudiziari - Report IMM 2

IMM. 2 – Immagine dal XXI Congresso di Psicologia Giuridica

Illuminante è stato anche l’intervento del Prof. Pietro Ferrara, Pediatra dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, sulle conseguenze fisiche sul minore vittima di abusi, anche in età adulta, quali: obesità, diabete, cancro, problemi cardiaci, depressione, cefalee e deficit immunologici. Inoltre, a livello celebrale, anomalie anatomiche conseguenti al trauma ripetuto sono la riduzione ippocampale e l’attivazione anomale di aree cortico-frontali.

Nella seconda parte della giornata, il focus si è spostato sulle ragioni del minore vittima di reato, ed in particolare, il Magistrato di Cassazione Sandra Recchione si è occupata dell’importanza dell’ascolto del minore vittima di abusi e del ruolo determinante dello psicologo nei contesti giudiziari per diminuire gli effetti di traumatizzazione secondaria sul minore e per accertare le capacità testimoniale dello stesso, che è fondamentale ai fini processuali. Inoltre, lo psicologo dovrebbe divenire un mezzo di tramite tra l’autorità intervistatrice e il piccolo testimone, spesso vittima di abusi.

La seconda giornata è iniziata con uno spostamento dell’attenzione sul minore autore del reato, su cui il Magistrato e Capo Dipartimento per la Giustizia minorile Gemma Tuccillo ha egregiamente riflettuto, sulla scorta della sua esperienza trentennale nell’ambito. In particolare, ha sottolineato come nei territori intrinsechi di criminalità organizzata, è fondamentale il problema del recupero del minore, che se pur desideroso di cambiare, è frenato dalla paura di percepirsi ed essere percepito come traditore. Pertanto, sarebbe spesso necessario includere anche le famiglie in questo percorso di reinserimento, affinchè il giovane si sganci dalla paura del tradimento. Inoltre, la Dott.ssa Tuccillo ha sottolineato la fondamentalità del diritto alla speranza e che questo sia supportato dalle istituzioni: le istituzioni devono credere nella capacità del minore di cambiare e di redimersi, e la comunità dovrebbe essere aperta all’accoglienza. Questo principio è alla base della “messa alla prova”, un provvedimento capace di testare il senso di responsabilità del minore in relazione ad un percorso di reinserimento, che se ha esito positivo, porterebbe all’uscita del minore dal circuito penale.

Fondamentale al Congresso è stata la figura del Dott. Fulvio Giardina, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, che ha sottolineato la straordinaria importanza dello psicologo in ambito giudiziario e in ogni ambito della salute, in quanto portatore di una cura primaria.

L’intero Congresso è stato animato da tre importanti tavole rotonde, a cui hanno preso parte altre autorevoli figure:

  • Nella prima tavola rotonda, condotta da Paolo Capri, si è discussi della relazione del minore con i genitori nei processi separativi, a cui hanno preso parte il Magistrato Cecilia Angrisano, la Prof.ssa Maria Cristina Verrocchio, professore associato di Psicologia Clinica dell’Università d’Annunzio e organizzatrice dell’evento, il Dott. Rocco Emanuele Cenci, Psicologo e psicoterapeuta, la Dott.ssa Anita Lanotte, psicologa e psicoterapeuta e l’ Avvocato Anna Berghella. Le tematiche toccate sono state varie, quali: le modalità di influenza del minore figlio di genitori aventi una relazione patologica, la triangolazione in questi casi o l’assenza di considerazione del bambino nei contesti di separazione.
  • La seconda tavola è stata condotta dalla Dott.ssa Lanotte sulla testimonianza e sul testimone in ambito minorile. Ne hanno preso parte il Presidente Capri, il Magistrato Paola Braggion, la Prof.ssa Cristiana Valentini, docente di diritto processuale penale all’Università d’Annunzio e la Dott.ssa Marilena Mazzolini, psicologa e psicoterapeuta. I temi emersi sono stati: l’importanza della relazione temporanea empatica per la testimonianza del minore, la suggestionabilità del minore, il ruolo dell’ausiliario.
  • Infine, nella terza tavola, presieduta dalla Dott.ssa Lucia Chiappinelli, dirigente psicologa, si è discusso di senso di responsabilità e discernimento nel minore. Ne hanno preso parte la Dott.ssa Carmela De Giorgio, dirigente psicologa, l’avv. Anna Di Loreto, la Dott.ssa Maria Perna, sostituto procuratore della Repubblica e la dott.ssa Maria Rupil, psicologa. Le tematiche emerse hanno riguardato il concetto di imputabilità, la valutazione di responsabilità del minore, l’individualizzazione del provvedimento minorile, il ruolo del contesto di riferimento del giovane, i reati del web, cyberbullismo e sexiting.

Il Congresso è stato, quindi, una immersione preziosa e precisa nel mondo della psicologia giuridica, ricordando la relazione fondamentale tra le due discipline e l’importanza della tutela e del benessere del minore, che dovrebbe essere la finalità in ogni contesto giudiziario. Inoltre, la prevenzione del reato è sicuramente un aspetto sottolineato e da non dimenticare.

La relazione tra ansia sociale e strategie di regolazione emotiva negli adolescenti

L’ansia sociale è definita come una paura eccessiva ed irrazionale delle situazioni sociali. Recenti studi si sono soffermati sulla strategia di regolazione delle emozioni e hanno evidenziato come un alto livello di disregolazione emotiva sia associato a maggiori sintomi di ansia sociale.

 

Secondo il DSM-5, l’ansia sociale è definita come una paura eccessiva ed irrazionale delle situazioni sociali. Nello specifico, la caratteristica principale della fobia sociale è la paura di agire, di fronte agli altri, in modo imbarazzante o umiliante, e di ricevere giudizi negativi. Per questo motivo, coloro che ne soffrono, tendono ad evitare la maggior parte delle situazioni sociali e delle prestazioni in pubblico.

In genere, questo disturbo inizia durante l’infanzia o nell’adolescenza (Burstein, He, Kattan, Albano, Avenevoli, Merikangas; 2011). Gli individui affetti hanno mostrato un’intensità più elevata di emozioni negative (Carthy, Horesh, Apter, Edge, Gross; 2010), meno conoscenza delle emozioni (O’Toole, Hougaard, Mennin; 2013) e compromissione del riconoscimento di esse (Melfsen, Florin; 2002). Inoltre, nei soggetti con ansia sociale sono stati segnalati deficit di attenzione, di interpretazione e di giudizio o aspettativa. Di conseguenza, questi individui soffrono spesso di gravi disabilità nella vita sociale (Beidel, Turner, Morris; 1999) e scolastica (Van Ameringen, Mancini, Farvolden; 2003): hanno pochi amici, frequentano la scuola in modo irregolare, possono sviluppare precocemente dipendenze da alcol e droghe (Buckner, Schmidt, Lang, Small, Schlauch, Lewinsohn; 2008), oppure si verifica un’elevata comorbilità con altri disturbi affettivi, come la depressione. Non sempre questo disturbo viene trattato, in quanto solo una piccola percentuale delle persone interessate cerca aiuto professionale e spesso questo disturbo passa inosservato ed è quindi sotto diagnosticato, anche da professionisti. La CBT (Terapia Cognitivo Comportamentale) mostra la più forte evidenza per il trattamento dell’ansia sociale infantile (Mohatt, Bennett, Walkup; 2014) ed ha un tasso di successo del 70% (Hannesdottir, Ollendick; 2007).

Recenti studi si sono soffermati sulla strategia di regolazione delle emozioni per il controllo dell’ansia sociale. Essa è definita come gli sforzi di una persona per influenzare la qualità, l’intensità, i tempi, l’espressione e le caratteristiche delle loro emozioni, sia positive che negative (Gross; 1998, 2007). I dati delle analisi auto-riportate identificano in modo coerente l’associazione tra capacità di regolare le emozioni e sintomi di ansia e depressione negli adolescenti; cioè, un alto livello di disregolazione emotiva è associato a maggiori sintomi di ansia sociale.

In questo studio, la regolazione delle emozioni degli adolescenti con diagnosi di ansia sociale (30 soggetti) di età compresa tra gli 11 e i 16 anni, è stata approfondita e confrontata con un gruppo di controllo sano (36 soggetti). Gli strumenti utilizzati sono stati: un questionario standardizzato self-report per la misura dell’ansia sociale e uno per le diverse strategie di regolazione delle emozioni. Sulla base dei dati esistenti, si presumeva che gli adolescenti con ansia sociale avrebbero usato le strategie di regolazione delle emozioni adattive meno spesso e le strategie di disregolazione emotiva più spesso del gruppo di controllo. Le emozioni che sono state prese in considerazione per le analisi iniziali sono paura, tristezza e rabbia.

La principale scoperta di questo studio è stata una correlazione positiva e significativa tra le strategie di regolazione emotiva disadattive e il disturbo d’ansia sociale negli adolescenti (in accordo con le ipotesi dello studio); ma non un’associazione significativa tra strategie adattive e ansia sociale (Jose, Wilkins, Spendelow; 2012). Nello specifico, il gruppo clinico ha mostrato punteggi più bassi nell’uso di strategie adattive, in particolare nel contesto di paura e tristezza; mentre nessuna differenza significativa è stata trovata nell’uso delle strategie adattive nel contesto della rabbia. Pertanto, il maggiore uso di strategie di regolazione emotiva disadattive sembra più importante del ridotto uso di strategie adattive. Nel valutare le singole strategie di regolazione emotiva, lo studio attuale ha rilevato che il gruppo clinico riporta un uso inferiore della strategia della rivalutazione dell’emozione e della risoluzione dei problemi, rispetto al gruppo di controllo.

Sulla base dei risultati del presente studio, l’adeguata gestione degli stati emotivi negativi dovrebbe essere utilizzata come elemento centrale del processo terapeutico e gli adolescenti con ansia sociale dovrebbero conoscere l’uso di strategie adattative di regolazione delle emozioni idealmente già all’inizio del processo terapeutico; poiché la graduale acquisizione di strategie di regolazione delle emozioni positive migliora significativamente l’autostima degli adolescenti e aumenta la loro motivazione per ulteriori interventi terapeutici.

Lo studio presenta alcune limitazioni. In primo luogo, le comorbilità non sono state valutate e quindi non controllate. Studi epidemiologici dimostrano che i pazienti affetti da ansia sociale spesso soffrono di ulteriori disturbi di interiorizzazione, che potrebbero aver influenzato i risultati. In secondo luogo, l’investigazione sull’uso della strategia di regolazione emotiva si basa sulle segnalazioni di sé degli adolescenti partecipanti. Inoltre, la dimensione del campione è piuttosto ridotta e non è stata effettuata alcuna corrispondenza di genere che potrebbe influire sulla generalizzabilità.

Uno dei punti di forza di questo studio è stato l’inclusione di un gruppo clinico con una diagnosi primaria di disturbo di ansia sociale confermata da un professionista della salute mentale. Ci sono stati solo pochi studi che includevano gruppi clinici, in particolare con bambini e adolescenti.

Sono necessari studi futuri per analizzare le associazioni causali tra l’uso di strategie di regolazione emotiva disadattive e sviluppo del disturbo di ansia sociale negli adolescenti, in quanto c’è poca conoscenza di questa relazione; nonché specifici interventi psicoterapici in combinazione con strategie di regolazione delle emozioni. Pertanto, ulteriori studi dovrebbero mirare a comprendere il ruolo delle strategie di regolazione delle emozioni nel trattamento dell’ansia sociale nell’adolescenza. Infine, incorporare più componenti di regolazione emotiva nel trattamento psicoterapico potrebbe aumentare l’efficacia del trattamento (Golombek, Lidle, Tuschen‑Caffier, Schmitz, Vierrath; 2019).

Forum della Ricerca in Psicoterapia: il video della Lectio Magistralis di Giovanni M. Ruggiero – Riccione 2019

Stimolare una riflessione su come la concettualizzazione, la condivisione, la strategia e la tecnica interagiscano tra loro all’interno del processo terapeutico: il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia”

 

Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia” 10-11 maggio 2019, Riccione. Il Forum della Ricerca in Psicoterapia è un convegno biennale organizzato dalle scuole Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Scuola Cognitiva di Firenze, Psicoterapia e Scienze Cognitive in cui gli allievi delle diverse scuole hanno l’opportunità di presentare e discutere i propri lavori di ricerca e casi clinici e ricevere revisioni da parte di ricercatori e clinici di comprovata esperienza. Quest’anno il Forum della Ricerca in Psicoterapia ha avuto come obiettivo quello di stimolare una riflessione su come la concettualizzazione, la condivisione, strategia e tecnica interagiscano tra loro all’interno del processo terapeutico. Il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia” ha il fine di promuovere un confronto tra le diverse prospettive cognitive, una maggiore interazione tra clinica-formazione-ricerca, una riflessione critica sui progressi scientifici nell’ambito della psicoterapia cognitiva, la realizzazione di disegni di ricerca che possano avere rilevanza in ambito clinico e un’analisi critica della concettualizzazione e gestione dei casi clinici.

 

Processi e relazioni in terapia cognitiva: sviluppo storico e scenari futuri
Il video della Lectio Magistralis di G. M. Ruggiero
Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 di Riccione:

 

 

La storia di Arthur Fleck: dalla ricerca di un’identità alla nascita di Joker

Il Joker di Joaquin Phoenix è una persona comune, con le sue debolezze e i cui disagi fisico-psicologici diventano il riflesso di una società malata, ipocrita e violenta, sempre più preda del degrado e della disuguaglianza sociale. Nodo centrale di tutto il film è la metamorfosi del protagonista, da reietto a killer spietato, innescata dal dolore e dal rifiuto. 

ATTENZIONE! L’ ARTICOLO CONTIENE SPOILER!

 

La storia è ambientata negli anni ’80 e racconta la vita di Arthur Fleck, un clown di scarso successo il cui sogno è quello di diventare un comico come il suo idolo, il presentatore televisivo Murray Franklin.

Arthur vive in un appartamento dei bassifondi di Gotham City insieme all’anziana madre Penny (affetta da disturbi psicologici), accudendola amorevolmente; è un individuo profondamente alienato e depresso che sembra soffrire di un raro disturbo neurologico, caratterizzato da improvvisi e incontrollabili attacchi di risate isteriche e sofferte, che si manifesta soprattutto in situazioni inappropriate contraddistinte da momenti di forte tensione e disagio. Arthur si ritrova così a scoppiare a ridere in modo incontrollato su un autobus, durante una conversazione seria, o dopo aver ricevuto una notizia negativa, suscitando le reazioni indignate e talvolta violente delle persone attorno a lui, nonostante l’uomo sia abituato a mostrare prontamente un biglietto in cui spiega la sua patologia..

Arthur: (Un)Happy life

Arthur, fin da piccolo, viene chiamato paradossalmente Happy dalla madre che gli ripete costantemente di essere felice e sorridere, ricordandogli che il suo scopo è quello di portare sorrisi e risate nel mondo.

Mia madre mi diceva sempre di sorridere e mettere una faccia felice. Mi diceva che ho uno scopo: portare risate e gioia nel mondo.

La maschera con il sorriso fittizio che Arthur indossa nella vita assume un duplice significato: da una parte gli permette di definirsi come persona, andando incontro anche alle aspettative della madre, dall’altra è un vero e proprio protettore che gli permette di non sentire il dolore che lo tormenta. Per tutta la vita Arthur cerca di combattere contro il suo malessere, ma nessuno è realmente intenzionato ad aiutarlo; la società e tutte le persone vicine lo abbandonano alle sue sofferenze, non vogliono vederle né accettarle né tantomeno comprenderle. Tutti lo tengono a distanza e Arthur diventa sempre più solo, umiliato e deriso.

La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti come se non l’avessi.

Persino l’assistente sociale da cui si reca settimanalmente sembra non essere interessata alla sua sofferenza tant’è che durante il loro ultimo incontro, sancito dalla chiusura del servizio di assistenza sociale a causa dei grossi tagli alla spesa pubblica, Arthur esprime rabbiosamente la sua frustrazione nel non essere compreso.

Lei non mi ascolta. Mi fa sempre le stesse domande ogni settimana: come va il lavoro, hai avuto dei pensieri negativi… Sono soltanto negativi i miei pensieri.

La sua malinconica routine è risollevata solo dalle fugaci visioni di Sophie, la vicina di casa di cui Arthur si è invaghito dopo che lei, rivolgendogli una parola gentile in ascensore, lo fa sentire per la prima volta visto. Tra i due sembra nascere una vera e propria relazione sentimentale che si configura per Arthur come unica fonte di affetto, comprensione e supporto e come via di fuga dalla sua triste esistenza. Più tardi, si scoprirà che in realtà, a causa del peggioramento del suo disturbo psicotico, Arthur ha immaginato ogni suo momento insieme a Sophie, per la quale è un completo estraneo.

La metamorfosi di Arthur in Joker

La discesa di Arthur nel vortice della follia inizia quando una notte, mentre sta tornando a casa in metropolitana ancora truccato da pagliaccio, uccide un gruppo di giovani benestanti che lo aveva preso di mira. Questo gesto viene apparentemente investito dai cittadini di Gotham di un significato politico e sociale di rivalsa delle classi più disagiate, che si identificano nel misterioso giustiziere scatenando una forte protesta per le vie della città. In questo contesto di sommossa Arthur sviluppa per la prima volta un senso di rivalsa e comincia a trovare una definizione della sua identità.

Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto. E le persone iniziano a notarlo 

Il punto di rottura si materializza quando Arthur entra in possesso di un referto dell’ospedale psichiatrico di Arkham: non solo scopre di non essere il figlio mai riconosciuto del ricco imprenditore Thomas Wayne, come sua madre Penny gli aveva fatto credere, ma viene anche a conoscenza di essere stato adottato dalla donna e in infanzia abusato più volte dal compagno di questa. Quando Arthur scopre che la madre gli ha mentito per tutta la vita, reagisce uccidendola mentre lei si trova ricoverata all’ospedale di Arkham in seguito ad un ictus. È per lui un momento scioccante che mette in dubbio la sua identità, tutto ciò che ha sempre pensato di essere e sapere.

Da questo momento in poi è un’escalation di violenza incontrollabile: dall’uccisione della madre, all’omicidio dell’ex-collega Randall che aveva seminato maldicenze su di lui presso il suo ex datore di lavoro, fino al gesto estremo e conclusivo al talk show di Murray Franklin che lo aveva deriso pubblicamente.

La svolta violenta di Arthur Fleck, dunque, è determinata da diverse cause che trovano fondamento nella sua infanzia turbolenta, costellata da abusi fisici, malnutrizione e abbandono. Inoltre, Arthur è un uomo abituato da sempre ad essere attaccato e bullizzato per la sua condizione psichica in una sorta di paradosso in cui viene punito perché ritenuto responsabile di qualcosa che in realtà subisce ogni giorno sulla propria pelle, a causa di una società superficiale e vuota che non riesce a vedere al di là dell’apparenza, opponendosi a tutto ciò che è diverso.

Joker: il Clown Principe del Crimine

Due elementi chiave caratterizzano la nascita di Joker:

  • la risata, elemento quasi assordante nella parte iniziale del film, si tramuta da patologia incontrollabile e causa di vergogna a strumento cardine di accettazione di se stessi. Un impulso che, non potendo essere nascosto, esplode in tutta la sua forza distruttrice e sadica;
  • la danza, elemento che si pone come incoronamento delle imprese personali, come un rituale di festa (distorto) al culmine di ogni atto di violenza. Una dimostrazione plateale e pubblica delle atrocità compiute; e lì dove il trucco potrebbe apparire come maschera, va invece configurandosi come espressione della vita in una tragica, sanguinosa commedia.

A questo punto il piccolo Arthur solo, spaventato e maltrattato non esiste più, ha trovato la sua identità tanto ricercata e finalmente riconosciuta dagli altri in Joker, un clown sanguinoso che rappresenta tutti gli oppressi e i soli della società.

Ah, Murray…un piccolo favore. Quando mi farai entrare mi annunceresti come Joker? 

Realtà o immaginazione?

Cos’è reale e cos’è presente soltanto nella testa di Arthur Fleck? È tutto vero o è soltanto frutto delle allucinazioni di Arthur? Un’ipotesi potrebbe essere che tutto è nella testa di Arthur: una fantasia di vendetta contro tutti coloro che lo hanno offeso e brutalizzato. Oppure i fatti accaduti potrebbero essere reali, ma raccontati attraverso la lente deformata di un uomo tormentato, e quindi non per come sono esattamente accaduti. Arthur potrebbe aver narrato gli eventi che hanno avuto luogo, ma cambiandone le parti che non gli piacciono. Una macchinazione dei ricordi: la storia di Arthur Fleck, come lui avrebbe voluto che fosse successa.

Se non la smetti ti lascio qui! – L’influenza delle bugie raccontate dai genitori sull’adattamento psicosociale dei figli in età adulta

In un articolo recentemente pubblicato sul Journal of Experimental Child Psychology, Setoh e colleghi (2019) sono andati ad approfondire quale possa essere l’influenza dell’utilizzo di bugie da parte dei genitori sulla tendenza dei figli a raccontare bugie a loro volta e a sviluppare problematiche psicologiche e relazionali in età adulta.

 

Fin dalla prima infanzia ci viene insegnato che agire in modo onesto è ciò che rende il nostro comportamento moralmente retto. Ciò nonostante, gli atteggiamenti e i comportamenti dei genitori nei confronti dei figli possono essere in contraddizione con questo assunto.

Se da una parte i genitori enfatizzano l’importanza dell’onestà, possono essere propensi a mentire ai propri figli per farli comportare in modo corretto, specie se le motivazioni sottostanti a tale desiderio possono risultare difficili da spiegare a un bambino.

Nonostante questa pratica risulti diffusa in diverse culture, a oggi il ruolo giocato da tale prassi educativa rispetto allo sviluppo sociomorale dei bambini non è ancora stato del tutto chiarito. In un articolo recentemente pubblicato sul Journal of Experimental Child Psychology, Setoh e colleghi (2019) sono andati ad approfondire quale possa essere l’influenza dell’utilizzo di bugie da parte dei genitori sulla tendenza dei figli a raccontare bugie a loro volta e a sviluppare problematiche psicologiche e relazionali in età adulta.

Per lo studio, 379 giovani adulti di Singapore hanno compilato quattro questionari online. Nel primo questionario (Parenting by Lying Questionnaire) è stato richiesto ai partecipanti di ricordarsi se i loro genitori gli raccontassero bugie durante l’infanzia relative a diverse tematiche, quali l’assunzione di pietanze, la possibilità di lasciarli soli o restare (“Se non vieni con me, ti lascio qui da solo!”), le conseguenze del cattivo comportamento tenuto dai bambini e lo spendere denaro (“Oggi purtroppo non ho portato soldi con me, ma possiamo tornare un altro giorno”).

Il secondo questionario (Lying to Parents Questionnaire) è stato strutturato per rilevare con che frequenza i partecipanti mentissero attualmente ai loro genitori rispetto a loro attività o azioni, enfatizzando eventi accorsi o a fin di bene (bugie prosociali).

Il terzo questionario (Adult Self-Report Questionnaire) è andato a valutare il funzionamento generale in età adulta e la presenza di specifiche disfunzioni psicosociali, quali problematiche esternalizzanti (aggressività, scarso rispetto per le regole e comportamenti intrusivi) e internalizzanti (ansia, depressione e comportamenti di ritiro sociale). Infine, i partecipanti hanno compilato il Levenson Self-Report Psychopathy Scale, strutturato per rilevare elementi della sintomatologia primaria (quali la tendenza a comportarsi in modo egoista o manipolativo nelle relazioni interpersonali) e secondaria (quali la presenza di comportamenti impulsivi) della psicopatia.

A seguito dell’analisi dei dati, Setoh e colleghi (2019) hanno evidenziato che coloro che ricordavano maggiormente di essere stati esposti a bugie da parte dei genitori erano anche coloro che mentivano di più ai propri genitori in età adulta. Mentendo a un bambino o in sua presenza, i genitori possono insegnare implicitamente che la disonestà è permessa e che può essere un mezzo accettabile per raggiungere un fine. Inoltre, la disonestà rilevata nei genitori può spingere i figli a non sentirsi in dovere di dire la verità.

Nello studio è stato anche messo in luce che la tendenza a mentire maggiormente ai propri genitori sarebbe associata a un peggiore livello di adattamento psicosociale in età adulta, con una maggiore presenza di problematiche esternalizzanti, internalizzanti e di sintomatologia psicopatica.

In terzo luogo, è stato evidenziato che la relazione tra l’esposizione alle bugie dei genitori e le attuali difficoltà di adattamento psicosociale risultava mediata dalla tendenza a raccontare bugie in prima persona. Ciò nonostante, la relazione tra una maggiore esposizione alle bugie genitoriali durante l’infanzia e la presenza di problematiche esternalizzanti risultava significativa anche a prescindere dalla tendenza a mentire in prima persona ai propri genitori. Tale associazione evidenzia come gli effetti nocivi dell’utilizzo delle bugie come pratica educativa vadano al di là del semplice apprendimento per modellamento di tale comportamento, ponendo i figli a maggior rischio di sviluppare problematiche esternalizzanti in età adulta.

La ricerca di Setoh e colleghi (2019) ha messo in luce l’importanza per i genitori di utilizzare tecniche alternative alla menzogna per far comportare bene i propri figli, quali, ad esempio, riconoscere i loro stati emotivi nei momenti di difficoltà, dargli informazioni preventive rispetto a un evento così che sappiano già cosa aspettarsi, offrirgli la possibilità di scegliere tra più alternative e cercare di risolvere insieme eventuali problemi emergenti.

Il contributo della Terapia Metacognitiva Interpersonale al trattamento delle disfunzioni sessuali

Nel 1966, dopo aver osservato con la loro equipe oltre 10.000 atti sessuali realizzati da un numero che si aggira intorno ai 700 volontari, William Masters e Virginia Johnson pubblicavano il volume L’atto sessuale nell’uomo e nella donna. Rompendo le convenzioni dei benpensanti americani, che sino ad allora avevano tenuto i loro problemi sessuali confinati nel silenzioso riserbo delle camere da letto, Masters e Johnson per la prima volta attiravano l’attenzione del mondo su un aspetto della nostra esistenza che oggi sappiamo benessere centrale per la qualità della nostra vita.

 

Per i curiosi, nella serie TV Masters of Sex è possibile seguire una ricostruzione delle vicissitudini di un ginecologo e ricercatore alessitimico che, dopo aver scelto come compagna di studi una psicologa che, per l’epoca, viveva decisamente al di fuori delle pesanti convenzioni sociali americane, elabora una ricerca in grado di fornire un resoconto comportamentale senza precedenti della sessualità umana.

Da questo lavoro pionieristico nasce la terapia mansionale. È solo l’inizio di un nuovo modo di guardare alla sessualità, un ambito della nostra vita che, se portato fuori dalla camera da letto, analizzato, studiato e soprattutto messo in discussione, può essere sensibile a gratificanti margini di miglioramento, o più semplicemente può essere vissuto nel suo potenziale originario.

Il punto di partenza è assolutamente organicistico e fisiologico, ma non sarà certo la prima volta che un aspetto del benessere psicologico inizia a essere approfondito partendo da questa prospettiva.

Per tale motivo, quando penso che Helen Singer, nata nel 1929, come Freud aveva origini viennesi e solo in seguito si era trasferita in America assieme alla sua famiglia, per gli stessi motivi che al tempo costrinsero il padre della psicoanalisi a trasferirsi a Londra, non mi stupisco del fatto che a volte l’evoluzione della psicoterapia ci pone di fronte a coincidenze interessanti e ricorsi storici.

Helen Singer aveva preso dal suo primo marito il cognome Kaplan, con il quale oggi è ricordata, e anche l’interesse per la psicologia, che le aveva fatto abbandonare la sua passione per l’arte. Il lavoro scientifico di questa psicanalista si sviluppa partendo da una critica assolutamente sensata della terapia mansionale, sottolineando l’importanza di considerare come fattori psicologici la maggioranza di quei fenomeni che sino ad allora venivano etichettati semplicemente come resistenze al trattamento. La Kaplan, quindi, associa il trattamento psicoanalitico all’iniziale approccio di Masters e Johnson sviluppando una terapia psicosessuale oggi nota come Terapia Mansionale Integrata.

Si apre un ulteriore fondamentale capitolo, un intervento di stampo organicistico subisce una progressiva evoluzione assimilando teorie e procedure che andranno via via evolvendosi nei decenni a seguire.

Nel corso del tempo anche la psicoterapia cognitiva ha dato il suo contributo all’evoluzione della Terapia Mansionale Integrata (Fenelli, Lorenzini, 1991; Dèttore 2001). La mia formazione originaria in tale approccio mi ha insegnato a individuare e favorire la ristrutturazione cognitiva dei pensieri disfunzionali alla base delle difficoltà sessuali. L’intervento strutturato in quest’ambito ha un’impronta molto strategica, ovvero mira ad ottenere un possibile cambiamento in aspetti della sessualità della persona come comportamenti, emozioni, pensieri e credenze che non gli consentono di vivere bene la propria sessualità. Quello che i manuali definiscono il minimo cambiamento più stabile possibile nel tempo.

La procedura consiste in un percorso abbastanza breve: 6 – 12 mesi dove al soggetto (o la coppia) vengono assegnati una serie di compiti che hanno lo scopo di guidarlo attraverso un’esplorazione alternativa di quello che è il suo modo di vivere la sessualità. Il percorso si struttura attraverso quattro tappe fondamentali: la conoscenza di sé, la conoscenza dell’altro, del sé tramite l’altro e infine del sé con l’altro. In pratica, guidando il paziente attraverso questo percorso graduale, la Terapia Mansionale Integrata mira a ristrutturare le idee disfunzionali che il paziente ha rispetto alla propria sessualità e quella dell’altro, al fine di sviluppare conoscenze più reali e risorse più funzionali utili a vivere una sessualità più appagante.

Qualche anno fa – avevo da poco terminato la mia formazione in Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Popolo, Montano, Salvatore, 2013) – ricevevo in studio Carlo, un paziente che aveva richiesto il mio intervento per un disturbo secondario di disfunzione erettile. Nell’anamnesi emergeva la presenza di una serie di difficoltà crescenti nel raggiungere e mantenere un’erezione tale da permettere un rapporto sessuale completo. Il sintomo era comparso da qualche mese in concomitanza all’inizio di un percorso di procreazione medica assistita (PMA). L’invio era a cura del medico che aveva in trattamento la coppia per la PMA. La compagna di Carlo effettuava una cura ormonale, mentre lui era reduce da trattamenti medici, alcuni anche di tipo invasivo, che non avevano risolto il suo sintomo. Il primo colloquio iniziava nella solita modalità, chiedendo al paziente di raccontare un episodio in cui si era verificato il problema che lo aveva portato da me in studio. Lo scopo era ottenerne una ricostruzione narrativa il più minuziosa possibile, senza tralasciare nessun particolare ed evitando di dare alcunché per scontato, una procedura ispirata alla tecnica della moviola (Guidano, 1988a, 1992). Il clinico deve raccogliere il racconto del paziente avendo come riferimento la curva dell’eccitazione sessuale descritta da Masters e Johnson (1966). Questa curva ha lo scopo di definire con esattezza il normale andamento temporale dell’eccitazione sessuale dell’uomo e della donna durante l’atto sessuale e descrive quattro fasi fondamentalieccitazione, plateau, orgasmo e risoluzione.

Attraverso le domande, si tenta di comprendere in quale di queste fasi il paziente vive una difficoltà e, cosa ancora più importante, il suo vissuto interiore prima, durante e dopo quel momento.

Dopo aver raggiunto una buona erezione, Carlo non riusciva a mantenerla; nel corso della terapia emergeranno episodi di perdita di erezione a volte ante portam altre volte poco dopo la penetrazione.

E’ stato possibile quindi ipotizzare che, proprio in quel momento, stesse accadendo qualcosa nella mente del paziente che lo distaccava dall’eccitazione. A quel punto ho indagato sul vissuto psicologico di quel preciso istante.

In ottica CBT standard, come da prassi, avrei dovuto domandare l’emozione vissuta e ricostruire il tutto con la classica tecnica dell’ABC (Ellis 1957; Beck 1975) andando ad individuare evento, pensiero e conseguenza (es. A: Sto per fare l’amore, B: Potrei non mantenere l’erezione, C: Ansia e perdita di erezione). Alla domanda Come si è sentito in quel momento? il paziente riferiva di aver provato ansia, tuttavia ciò che affiorava nel colloquio era la presenza di qualcosa di più complesso: uno stato mentale problematico. Da diversi mesi approfondivo l’approccio basato sulla TMI. Tutto in quel momento indicava che il paziente era entrato in contatto con qualcosa di significativo: la postura, lo sguardo, il tono di voce. La modalità con cui affrontai allora la conversazione è possibile sintetizzarla per semplicità in questo modo:

T: Mi aiuti a capire meglio. Quindi mi sta dicendo che dopo aver raggiunto una sufficiente erezione, a un certo punto, quando qualche istante prima di iniziare il coito, ha sentito un’emozione, che lei indica come ansia, in quel momento ha perso l’erezione provando uno stato di sconforto e tristezza. È corretto?  

P: Sì è corretto  

T: Posso domandarle se in quel momento, in concomitanza alla sensazione che ha provato prima di perdere l’erezione, riusciva ad avere una percezione di se stesso? 

P: Beh sì, mi sono sentito inadeguato  

T: Posso chiederle anche se ricorda di avere avuto una percezione di sua moglie? 

P: Come da proteggere, insomma fragile  

T: Che cosa ha provato a fare allora in quel momento?  

P: Mi sono concentrato su di lei cercando di darle piacere, sento che devo fare del mio meglio, ma più facevo questo e più peggiorava la situazione  

T: Mi dica se ho capito bene: nell’episodio che prendiamo come esempio per comprendere il suo problema avviene che a un certo punto, pur avendo raggiunto una soddisfacente erezione seguendo il suo desiderio, che coincide con il momento di poco precedente alla penetrazione, accade che entra in contatto con una percezione di sé come inadeguato e dell’altro, ovvero di sua moglie, come fragile e bisognosa, e di conseguenza sente il dovere di fare il possibile per farla stare meglio, ma prova una forte ansia e più prova ad impegnarsi e più sente di non riuscire a vivere la situazione. 

Lo scopo di una restituzione di questo tipo è quello di rimandare al paziente un’immagine unitaria di ciò che gli accade. Spesso il problema rischia di essere vissuto come qualcosa di svincolato dal suo contesto, privando il paziente della possibilità di riflettere sugli elementi che attivano e alimentano la situazione problematica.

Se il terapeuta ha colto tutti gli elementi dell’episodio raccontato, formulandone una ricostruzione veritiera dove il paziente riconosce l’immagine del Sé, dell’altro, il bisogno reale che lo anima e la strategia (coping) che sta cercando di mettere in atto a tale scopo, è probabile che la percezione che il paziente aveva avuto fino a quel momento di quella situazione, dentro di lui, diventi diversa e più complessa, ma allo stesso tempo più chiara. Spesso sono cambiamenti di espressioni, di postura, insomma è il corpo a riferire di questo cambiamento: prima delle parole, è stato lo sguardo di Carlo a diventare più rilassato e le sue spalle meno contratte.

P: Sì è proprio cosi. 

Quello che ormai iniziava a delinearsi nel colloquio aveva sempre più le sembianze di uno schema interpersonale, e la domanda successiva me ne diede la conferma: Per caso, oltre all’episodio di cui stiamo parlando nello specifico, questa dinamica che Le ho appena descritto si verifica anche in altri momenti?

La risposta di Carlo fu: In pratica quasi sempre – lo sguardo era di stupore e sorrideva.

In quel preciso istante il problema era come se fosse uscito un po’ dalla camera da letto e si era trasformato in una conoscenza più competa di se stesso, qualcosa che andava bene oltre la difficoltà sessuale. Quell’imbarazzante senso di inadeguatezza legato a una situazione di intimità da raccontare a un estraneo stava diventando una porta di accesso verso la conoscenza del mondo interiore di Carlo, una consapevolezza maggiore di se stesso, e di ciò che gli stava accadendo in quel periodo complesso della sua vita e della sua relazione.

Al fine di favorire questa consapevolezza la domanda chiave della TMI è sempre una:

T: Mi fa un esempio? gli domandai.

Carlo mi raccontò di essere un atleta amatoriale e che quello che avevamo appena descritto era praticamente sovrapponibile al suo stato mentale di pre-gara, ma non solo. Anche sul lavoro questo schema interpersonale era presente. Il lavoro proseguì associando le memorie di diversi momenti della sua vita. Era la prima volta che effettuavo un primo colloquio di TMI partendo da un disturbo sintomatico di origine sessuale. L’accesso agli schemi interpersonali era sembrato quasi spontaneo e ci aveva permesso di formulare un quadro della situazione condiviso con il paziente fin dalla prima seduta.

Nel corso della terapia, naturalmente, la richiesta di affrontare la difficolta sessuale è rimasta centrale nel contratto, ma  Carlo comprese quanto il suo bisogno di accudire il prossimo fosse legato al suo bisogno di riconoscimento e validazione personale, e soprattutto quanto questo processo agito potesse essere faticoso.

Il lavoro sul sintomo attraverso gli esercizi di terapia mansionale si è andato via via integrando con una rivisitazione degli schemi interpersonali, permettendo a Carlo di migliorare la qualità di altri aspetti della sua vita. Uno dei vantaggi di questa impostazione è stato quello di avere più aree operative in terapia. A volte, quindi, l’intervento volto al cambiamento era possibile lavorando sugli homework sessuali, altre invece sono state organizzate delle esposizioni esperienziali in contesti diversi, come le gare di atletica a cui Carlo partecipava; altre vote ancora si è potuto lavorare sul suo modo di funzionare all’interno della relazione con la moglie. Risalendo nel corso della terapia ai ricordi nucleari, ci imbattiamo in memorie che descrivono come Carlo, rispetto ai suoi risultati scolastici, percepiva il padre preoccupato e affranto, e come, di conseguenza, avesse sviluppato un coping perfezionistico che mirava a risultati di alto standard personale per far sentire meglio il genitore. Questo ci ha permesso di comprendere come mai, a un certo punto della sua vita, una strategia di coping di accudimento con standard elevati si sia accentuata riproponendo tale schema con lo scopo di tutelare la partner in un momento in cui, sottoposta a trattamenti medici, era preoccupata e fragile. A quel punto fu più semplice comprendere come, lo schema interpersonale di Carlo, che gli imponeva di essere performante in diversi ambiti della sua vita, si fosse infiltrato anche nella sua sessualità, ostacolando in lui il necessario ancoraggio al proprio desiderio e al proprio piacere.

In seguito a questa terapia, l’utilizzo della TMI nel trattamento delle disfunzioni sessuali mi ha permesso di sviluppare una serie di considerazioni che si sono rivelate un prezioso arricchimento al mio modo di lavorare precedente.

Affermare ad esempio che dietro a un sintomo di disfunzione sessuale ci sia un pensiero disfunzionale non è affatto sbagliato, è solo incompleto. Ciò che crea, alimenta e regge la struttura di una disfunzione sessuale, magari bloccando quella che dovrebbe essere una sana esplorazione piena di curiosità e alimentata da un piacere connesso a uno dei nostri sistemi motivazionali di base, è anche la presenza di una serie di disfunzioni metacognitive. Queste magari non sono sempre evidenti e conclamate come potrebbero essere all’interno di un disturbo di personalità, ma sono assolutamente presenti e hanno capacità di influenzare molte delle nostre esperienze legandole a stati mentali problematici.

L’attivazione di una sensazione corporea o la percezione di un atteggiamento, un’espressione o uno stato del partner, insieme ad altri vissuti, possono essere in grado di attivare uno schema interpersonale che è ben diverso da quello che dovrebbe guidare il sistema sessuale. Questo è ciò che accadeva a Roberto che inizia una terapia poiché incapace di raggiungere l’orgasmo. Da diverso tempo non riesce a terminare alcun rapporto sessuale traendone godimento, siamo nella terza zona della curva di Maters e Johonson. Il sintomo è secondario e si è accentuato sempre di più nella sua attuale relazione. Nella ricostruzione di uno degli episodi in cui si è manifestato il sintomo, emerge che, in fase di plateau, durante il coito, tende a mantenere un controllo costante del proprio corpo; le sensazioni costitutive del piacere sessuale sono distanti. Il paziente è giovane, e sembra non sapere ciò che potrebbe costituire il suo piacere, mentre è tutto orientato a fare del proprio meglio per non creare disagio alla sua compagna, che è percepita come critica e sprezzante. La ricostruzione narrativa dell’episodio sessuale ci permette di individuare il momento preciso in cui lo schema interpersonale di Roberto si attiva. E’ sufficiente l’espressione indagatrice di lei per attivare uno stato mentale di preoccupazione e senso di inadeguatezza al quale Roberto risponde inconsapevolmente con una strategia del tutto incorporata e spontanea: un coping di perfezionismo e controllo. E’ interessante per me parlare di questo caso perché mi permette di portare l’attenzione su un altro aspetto fondamentale. Spesso, nel corso della vita, i pazienti affrontano situazioni stressanti a cui cercano di adattarsi nel modo migliore. Le strategie e le risposte che sviluppano diventano poi automatiche e vengono applicate via via in modo inconsapevole. L’attivazione di uno stato mentale problematico simile riattiverà quindi questo schema interpersonale. Roberto era un militare abituato ad addestramenti impegnativi che spingevano spesso il corpo ai limiti della resistenza. Controllare le sensazioni fisiche di sofferenza e prenderne distanza con la mente era la risposta sviluppata. La compagna prendeva il posto del suo addestratore, pronto a criticarlo e fargli pesare ogni accenno di cedimento; l’arousal emotivo saliva alle stelle e il bisogno di dimostrare il proprio valore sostituiva la ricerca del piacere e la possibilità di trasformare le sensazioni fisiche in stati mentali di piacere era in quel momento del tutto compromessa.

Lavorare sul pensiero in presenza di schemi disfunzionali maladattivi e ridotti livelli di metacognizione può essere improduttivo, ragion per cui è importante agire sui processi sottostanti andando ad integrare tecniche diverse all’interno di una visione più completa del funzionamento del paziente. Nel caso di Roberto, ad esempio, il pensiero sottostante al momento di attivazione è del tipo Non sento nulla, adesso mi criticherà, e la conseguenza è l’ansia. Secondo l’approccio della terapia metacognitiva interpersonale, lavorare su una possibile ristrutturazione cognitiva di tale pensiero escluderebbe la possibilità di andare a ridefinire e migliorare una serie di difficoltà metacognitive che invece sono del tutto fondamentali.

Secondo tale approccio per preparare il paziente al cambiamento è necessario potenziarne le capacità metacognitive. L’analisi in seduta degli episodi narrativi, sia di quelli associati all’emergere del sintomo di disfunzione sessuale sia quelli associati agli homework assegnati e svolti, ha lo scopo di aiutare il paziente a riconoscere e differenziare i diversi stati mentali attivi in quell’esperienza: pensieri, giudizi, immagini, intenzioni, desideri, aspettative, emozioni, comportamenti. L’esecuzione degli homework, che veniva esplorata come episodio narrativo in seduta, ha permesso a Roberto di imparare a focalizzarsi sulle proprie sensazioni, riconoscerle e imparare a gestirle abbandonando la tendenza a sovraregolare. Il risultato è stato quello di scoprire ed esplorare aspetti del proprio piacere e desiderio che poi ha potuto portare nella sua situazione di coppia.

Il compito del terapeuta è quello di guidare il paziente a esplorare il proprio mondo interiore.

È importante aiutare il paziente a identificare e riconoscere tutto ciò che avviene durante l’atto sessuale, nei diversi punti della curva della risposta sessuale. Spesso può avvenire che il paziente faccia fatica a focalizzarsi sugli aspetti sani dell’esperienza sessuale. Vive dentro di sé qualcosa che non gli permette di restare sulla giusta linea, ma che dirige la sua attenzione su elementi che poco hanno a che fare con il giusto funzionamento del sistema motivazionale della sessualità.

La modalità con cui è possibile aiutare il paziente a sviluppare un’attenzione più consapevole sono principalmente due: in seduta e attraverso l’assegnazione di compiti a casa.

A questo punto però è importante sottolineare che la TMI non ha come obiettivo principale il modificare i meccanismi di coping disfunzionali, ma parte dell’intervento consiste nell’aiutare il paziente a sviluppare un’esplorazione altrimenti bloccata, verso qualcosa che, in certe situazioni, è del tutto fuori dal campo percettivo-mentale del paziente.

A volte, una domanda semplice alla fine di un episodio narrato può dare vita a questo processo: Mi perdoni, abbiamo visto che durante i vari tentativi di vivere un atto sessuale con soddisfazione avvengono diverse cose, ma mi sfugge ancora un particolare: che cosa le piace del sesso? 

Il sistema sessuale, nel corso del nostro sviluppo, è tra quelli di cui si tende a parlare di meno. Quando inizia ad attivarsi in risposta agli stimoli dell’ambiente, il sistema sessuale non sempre riceve quelle risposte ambientali che invece gli altri sistemi motivazionali possono ottenere dalle figure di riferimento. Spesso, quindi, le strategie, le idee, le sensazioni attivate per affrontare questa dimensione fondamentale della nostra esistenza ricevono risposte che finiscono per interferire con il normale processo di esplorazione di cui si avrebbe avuto bisogno e varie strategie possibili derivate da altri contesti della vita del paziente sono state cooptate al fine di garantire un qualche tipo di adattamento.

Il repertorio degli homerwork provenienti dalla Terapia Mansionale offre un importante strumento di approfondimento per tutto questo.

Se il primo colloquio è stato proficuo e paziente e terapeuta sono riusciti a condividere, un inizio di formulazione del caso è possibile.

Sulla base dei contenuti e della qualità della formulazione condivisa del caso che inizia a definirsi dalle prime sedute è possibile impostare le mansioni da assegnare a casa al paziente. L’impostazione di partenza rimane la stessa, ovvero gli esercizi hanno lo scopo di guidare il paziente ad un’esplorazione di sé in rapporto alla sessualità. La differenza è che il terapeuta deve cercare di avere in mente gli elementi dello schema interpersonale che ancora non sono ben chiari nella formulazione del caso e cercare di completarli attraverso i compiti a casa del paziente.

In fase iniziale della terapia gli homework assumono pertanto un importante ruolo esplorativo. In TMI si lavora sugli episodi, sui vissuti del paziente, e l’esperienza dell’homework diviene un’occasione per isolare l’evento dalla relazione col partner ed elicitare l’attivazione dello schema interpersonale. Per il terapeuta diviene utile analizzare il resoconto dell’homework svolto a casa, che viene trattato come un vero e proprio episodio narrativo all’interno del quale è possibile rinvenire eventuali componenti di uno schema disfunzionale che potrebbe essere responsabile di un’alterazione del sistema sessuale (e non solo).

Il repertorio di homework è vario e può essere costantemente arricchito, esso consente di poter individuare elementi preziosi per il processo terapeutico:

  • il funzionamento metacognitivo del paziente: autoriflessività, comprensione della mente altrui e mastery;
  • il trigger che attiva lo schema;
  • il monitoraggio delle proprie sensazioni corporee e degli aspetti emotivi a esse legati;
  • gli elementi dello schema interpersonale, gli aspetti non funzionali che allontanano dal piacere e dall’eccitazione;
  • i modi in cui gli elementi sopra citati sono in relazione tra loro;
  • gli stati mentali problematici che si attivano;
  • ultimo ma non ultimo il senso di corporeità che il paziente riesce ad avere (non dimentichiamoci che stiamo lavorando su un possibile disagio che si esprime in modo preminente attraverso il corpo ed il suo funzionamento).

La restituzione che il terapeuta effettua degli homework in fase iniziale ha una funzione molto importante. Il terapeuta aiuta il paziente a riformulare ciò che accade favorendo il collegamento causa-effetto tra gli elementi presenti nel suo mondo interno che vengono man mano individuati e ciò che accade nel provare a eseguire il compito. Domande del tipo Come si è sentito in quel momento? hanno lo scopo di aiutare il paziente a migliorare il proprio monitoraggio. Questo è essenziale al fine di sviluppare la costruzione di una formulazione condivisa del caso. Uno dei vantaggi più diretti di questo è quello di poter impostare la terapia sulla base di un contratto terapeutico solido ed efficace.

Tramite questa modalità di lavoro, ad esempio, un paziente, attraverso la restituzione del terapeuta, può rendersi conto di quanto sia difficile per lui ancorare l’attenzione alle proprie sensazioni fisiche, senza che entrino in funzione stati di coping disfunzionali che lo guidano verso un’evoluzione della curva sessuale scorretta.

Se è presente una difficoltà nel monitoraggio, ad esempio, può avvenire che il paziente abbia difficoltà a comprendere quali siano le sensazioni fisiche che precedono l’arrivo di un orgasmo, e quindi diviene per lui impossibile gestire questo stimolo per prolungare il rapporto per un tempo abbastanza ragionevole che gli permetta di entrare in sintonia con il/la partner.

Nella rivisitazione dell’homework fatto a casa il terapeuta domanderà al paziente come si è sentito nell’esatto momento in cui è avvenuto qualcosa che lo ha distanziato dallo scopo del compito da svolgere. La risposta o la difficoltà a rispondere del paziente guideranno il terapeuta in una riformulazione del compito al fine di rendere più minuziosa la ricerca del problema. Tale operazione agli inizi del percorso è facile che possa ripetersi diverse volte.

Lo start-stop (Masters & Johnson, 1970) ha originariamente lo scopo di desensibilizzare la risposta dell’uomo allo stimolo sessuale; questa tecnica è spesso combinata con la tecnica dello squeeze che è in grado di abbassare il livello di arousal sensoriale e fermare l’eiaculazione. Viene utilizzata principalmente per il trattamento dell’eiaculazione precoce, ma è molto utile anche per altre disfunzioni sessuali. In pratica, viene chiesto al paziente di effettuare un’autostimolazione fino a giungere in prossimità dell’eiaculazione; in quel momento è richiesto di fermarsi prima del punto di non ritorno, ovvero quel momento in cui non è più possibile non eiaculare. Lo squeeze, a volte abbinato nell’homework, consiste nell’esercitare una pressione alla base del glande. Vediamo come questa tecnica, applicata in chiave TMI è stata in grado di favorire il lavoro sugli aspetti metacognitivi del paziente.

Michael chiede una terapia per un problema di eiaculazione precoce primaria. La ricostruzione in prima seduta è resa più difficile dalla presenza di diverse difficoltà metacognitive. La tecnica della moviola è complicata a causa della difficoltà a individuare le sensazioni e le emozioni che vengono costantemente sostituite da teorizzazioni su di sé. I primi homework sono di auto osservazione. Un passo necessario per indagare la conoscenza e il rapporto che il paziente ha con il proprio corpo e i genitali. Salterò questo aspetto perché non rilevante nel caso in questione. La prescrizione dello start stop ha uno scopo specifico, quello di inserire il paziente all’interno di una scena con un copione definito che altrimenti non riuscirebbe a ricordare e riportare con precisione in seduta. Tornato in seduta, Michael racconta di non esserci riuscito. La ricostruzione risulta più semplice, tanto da individuare cosa accade nel momento in cui ha iniziato a percepire lo stimolo (che individua ancora a fatica). Michael entra in contatto con uno stato mentale problematico che a quel punto non riesce a gestire. A questo punto riusciamo a concentrare l’esplorazione su ciò che gli accade. Un Sé inadeguato, una rabbia profonda con una tendenza alla ruminazione. Il sintomo è collegato ad uno stato mentale preciso, schema dipendente, che si attiva partendo da una semplice sensazione fisica.

Il paziente con la problematica sessuale sposta l’attenzione da ciò che sta vivendo, da sé, ovvero smette di vivere lo stato mentale proprio del sistema sessuale, mentre attiva una serie di risposte schema dipendenti. Nel Caso di Michael vedremo come la tendenza ad attivare un coping di agonismo nei confronti del partner (addirittura assente nel momento dell’homework), gli impediva di restare in contatto con sensazioni con cui è del tutto normale entrare in contatto e imparare a gestire durante un atto sessuale.

Nell’esempio, Michael si sposta totalmente sulla relazione con l’altro pensando alle conseguenze di quello che sta accadendo, a ciò che provoca nell’altro e a quello che accadrà nella relazione.

Risolvere esclusivamente il sintomo significherebbe assecondare un coping disfunzionale, in questo caso di tipo agonistico, che attiva una risposta corporea appartenente senza dubbio a un altro sistema motivazionale. Utilizzare gli esercizi mansionali al fine di favorire l’aumento della metacognizione, formulare in modo condiviso lo schema esercitato e guidare verso una diversa esplorazione del vissuto sessuale il paziente, così che possa sviluppare strategie alternative al coping disfunzionale è invece l’obiettivo che si prefigge la TMI. Questo è un esempio di come l’analisi iniziale degli homework ha permesso di orientare il piano di intervento della terapia evitando di cadere in possibili errori che avrebbero portato ad assecondare il malfunzionamento di aspetti interpersonali del paziente con conseguenze sicuramente non positive sia sulla terapia che sulla qualità di vita del paziente e della coppia.

L’applicazione delle tecniche ha quindi anche lo scopo di portare il paziente a stare sul qui e ora e sulle sue sensazioni sulle quali potrà sviluppare una capacità di agency.

Nel corso degli anni la procedura della TMI si è dimostrata clinicamente sempre più utile e determinante anche in termini di efficacia della terapia stessa. Rispetto alla sua applicazione a problematiche sessuali, il campo è ancora in esplorazione ma i risultati clinici lasciano sperare in un contributo significativo. Eventuali trial clinici ci aiuteranno a sviluppare una migliore comprensione di come possa essere possibile integrare questi trattamenti.

Dalle prime esperienze si è potuto notare come sia stato importante, ai fini della terapia, partire dalla richiesta del paziente attraverso la ricostruzione di tutto ciò che è collegato al disagio percepito, formulando una definizione condivisa del caso. Andando a evidenziare le strutture sottostanti il disagio, al fine di produrre un piano terapeutico mirato e condiviso tra il terapeuta ed il paziente, è stato possibile lavorare in un clima di buona compliance terapeutica. Alcuni dei pazienti trattati hanno avuto modo di comprendere che la loro problematica ha basi interpersonali, spostando l’intervento su aspetti più complessi affrontati con le modalità proprie della TMI.

Nel caso questa azione non venga eseguita correttamente e ripresa più e più volte nel corso della terapia, è abbastanza frequente che la terapia non produca i risultati sperati.

L’approccio della TMI, attraverso la riformulazione del caso, è in grado di aiutare il paziente a ridefinire assieme al terapeuta il problema percepito in origine e consente di sviluppare una maggiore compliance terapeutica favorendo la giusta evoluzione di problematiche che altrimenti sarebbero state percepite come semplici resistenze al cambiamento.

Buonanotte, dormi bene! – L’importanza del sonno per gli adolescenti

È importante notare che un ritardo nel bedtime (l’orario nel quale si va a dormire) durante la seconda decade di vita è stato osservato in oltre 16 Paesi nei 6 continenti, in culture che vanno dal preindustriale al moderno. Non è tuttavia chiaro quante ore di sonno necessiti un adolescente.

Elena Tonazzoli e Marta Venturini – OPEN SCHOOL Psicoterapia cognitiva e Ricerca, Bolzano

 

Sleep is not simply rest. Sleep is an active process wherein some brain regions show the same (or increased) activity as during wakefulness (Dahl & Lewin, 2002).

 

Introduzione

Malgrado il sonno sia un argomento largamente rappresentato in letteratura, ancora non si conosce quale sia la sua particolare funzione. Il sonno ristoratore sembra essere particolarmente importante durante il periodo dello sviluppo cerebrale, ovvero durante l’adolescenza. In questo momento di vita i ritmi circadiani individuali possono subire modifiche a causa dell’abitudine di dormire a lungo durante il fine settimana per compensare la carenza di sonno accumulata nei giorni scolastici. I sintomi che possono emergere sono simili a quelli da jet-lag: affaticamento, difficoltà di addormentamento la sera e difficoltà di risveglio al mattino. La società attuale deve inoltre fare i conti con il fatto che, a differenza di epoche precedenti, gli adolescenti hanno oggi a disposizione moltissime attività stimolanti anche dopo il tramonto: possono utilizzare smartphones, tablet, computer, televisione, impegnarsi in attività di socializzazione fino a tardi, accedere a sostanze fisiologicamente stimolanti quali caffeina e nicotina.

Queste variabili vengono ulteriormente accompagnate dalle componenti emotive, di stress sociale e processuale (ruminazione e rimuginio) tipiche dell’adolescenza (Dahl & Lewin, 2002).

È importante notare che un ritardo nel bedtime (l’orario nel quale si va a dormire) durante la seconda decade di vita è stato osservato in oltre 16 Paesi nei 6 continenti, in culture che vanno dal preindustriale al moderno. Sebbene la maggior parte degli studi siano stati trasversali, le misure longitudinali retrospettive confermano che il bedtime è ritardato durante l’adolescenza (Hagenauer, Perryman, Lee & Carskadon, 2009). Non è tuttavia chiaro quante ore di sonno necessiti un adolescente, ed i suggerimenti in merito si possono riassumere in: le ore necessarie a permettere un funzionamento ottimale durante il giorno. Tale indicazione può essere dovuta al fatto che il sonno necessario può variare individualmente e che il ciclo sonno-veglia è particolarmente complesso. A tal proposito è importante considerare il modo in cui la maturazione durante la pubertà, che include cambiamenti fisici e mentali in preparazione dell’età adulta, implichi cambiamenti anche nel sistema di vigilanza. Questi cambiamenti sembrano includere una maggior probabilità di interruzione del sonno da parte degli stressor sociali, tra cui paure, ansie ed arousal emotivo: sembra infatti che il sistema di sonno degli adolescenti diventi più vulnerabile allo stress in un momento in cui turbolenze e difficoltà sociali sono spesso in aumento. La qualità del sonno in età adolescenziale può essere messa in relazione allo stress scolastico: in termini fisiologici, gli stressor acuti e cronici hanno un effetto pronunciato sull’architettura del sonno e sui ritmi circadiani, e sia lo stress che il sonno sono strettamente collegati all’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Tale sistema svolge un ruolo fondamentale nella normale regolazione del ritmo sonno-veglia e nel suo riadattamento dovuto all’esposizione a fattori di stress acuti o cronici (Van Reeth, Weibel, Spiegel, Leproult, Dugovic & Maccari, 2000).

Ma quali sono gli effetti della carenza di sonno? Dalla lettura di una review sull’argomento, in particolare sulla correlazione tra deprivazione di sonno e regolazione emotiva, ne emergono i principali (Dahl, 1999).

Il primo ad essere definito è la sonnolenza, ovvero la difficoltà a svegliarsi il mattino, con conseguente ritardo per andare a scuola e tendenza ad avere micro-sonni diurni. La sonnolenza è più problematica durante i momenti di bassa stimolazione come nel caso di una lezione, di una lettura, della guida di un veicolo, o mentre si svolgono compiti ripetitivi. Attività altamente stimolanti – in particolare quelle che implicano attività fisica o arousal emotivo – possono spesso mascherare livelli moderati di sonnolenza. Così, molti adolescenti con deprivazione di sonno riferiscono di riuscire a fare tardi la sera senza sentirsi stanchi, mentre se dovessero stare in silenzio a leggere si addormenterebbero in pochi minuti.

Un altro effetto è la stanchezza, che determina un cambiamento nella motivazione all’esecuzione delle attività quotidiane. Gli effetti della stanchezza sono meno evidenti quando si eseguono attività che sono naturalmente coinvolgenti, eccitanti o minacciose, forse perché è più facile reclutare ulteriore sforzo per compensare la fatica. Viceversa, gli effetti della stanchezza sono più pronunciati per i compiti che richiedono che la motivazione sia derivata da obiettivi o conseguenze astratte (ad esempio, leggere o studiare materiale non interessante al fine di aumentare le possibilità di raggiungere ricompense future).

Viene inoltre sensibilmente alterato l’umore e possono esserci manifestazioni di irritabilità, instabilità emotiva e bassa tolleranza della frustrazione. I principali cambiamenti emotivi successivi alla perdita del sonno suggeriscono una diminuzione della capacità di controllare, inibire o modificare le risposte emotive per allinearle agli obiettivi a lungo termine, alle regole sociali o ad altri principi appresi. Il controllo efficace sull’emotività coinvolge regioni della corteccia prefrontale del cervello che sono simili a quelle discusse in precedenza riguardo agli obiettivi astratti. Cambiamenti nella regolazione emotiva conseguenti ad un controllo ridotto in seguito alla carenza di sonno potrebbero avere gravi conseguenze in molti comportamenti ad alto rischio tra gli adolescenti. L’incapacità di controllare le risposte emotive potrebbe influenzare l’aggressività, il comportamento sessuale, l’uso di alcol e droghe e la guida rischiosa.

Per quanto riguarda gli effetti della carenza di sonno su attenzione e comportamento, si definiscono tre elementi principali. Il primo è che la perdita di sonno è associata a brevi momenti di mancanza di attenzione durante compiti semplici, che possono essere parzialmente compensati da un maggiore sforzo o motivazione. Il secondo è che la carenza di sonno può talvolta simulare o esacerbare i sintomi dell’ADHD (deficit di attenzione/iperattività) tra i quali distraibilità, impulsività e difficoltà nel mantenere il controllo dell’attenzione. Infine, ci sono prove evidenti che la carenza di sonno influisca sulla capacità di eseguire compiti complessi che richiedono attenzione in due o più aree contemporaneamente. Se da un lato le prestazioni e le capacità cognitive possono essere mantenute per un breve intervallo di tempo, dall’altro tutto risulta più difficile da eseguire. Come sottolinea l’autore, questa sembra essere la caratteristica più importante della carenza di sonno: occorre uno sforzo maggiore per eseguire le stesse attività cognitive, emotive o fisiche (Dahl, 1999).

Da uno studio emerge che gli studenti, dopo una notte con poche ore di sonno, non mostrano significativi cambiamenti di performance in un difficile compito al computer e non mostrano alcun cambiamento nell’equilibrio posturale. Tuttavia, quest’ultimo sembra essere influenzato negativamente dalla deprivazione di sonno quando gli studenti si impegnano in entrambi i compiti contemporaneamente. In recenti studi pilota si è trovato lo stesso modello di risultati in adolescenti che svolgono compiti cognitivi ed emotivi. Questi ultimi risultati hanno due importanti implicazioni: la prima è che l’abbassamento delle prestazioni di doppio compito (come controllare pensieri ed emozioni al medesimo tempo) sembra essere un effetto sottile della deprivazione da sonno, la seconda è che la fluidità in questo duplice compito è la base della competenza sociale, ovvero la sfida presente nella quotidianità di ogni adolescente. Le competenze sociali richiedono infatti lo sviluppo di diverse capacità, tra cui pensare e risolvere problemi mentre si gestiscono le reazioni emotive delle situazioni sociali complesse, usare l’autocontrollo emotivo e degli impulsi mentre si perseguono i propri obiettivi, sperimentare la rabbia e soppesare le conseguenze a lungo termine delle proprie azioni. Questi risultati sottolineano l’importante ruolo del pattern di sonno nel normale sviluppo delle competenze sociali di una persona (Dahl, 1999).

Molti studi hanno evidenziato che alcuni tipi di compiti complessi possono essere particolarmente sensibili alla carenza di sonno. James Horne ha dimostrato come i compiti duali e i compiti che richiedono creatività o flessibilità di pensiero, che richiedono un’elaborazione astratta nell’area della corteccia prefrontale, vengano influenzati negativamente dalla deprivazione di sonno (Horne, 1993).

Tali effetti emotivi e comportamentali, da non sottovalutare, sembrano avere un impatto importante nella quotidianità ed aumentare il rischio di avere incidenti (Dahl, 1999). Sicuramente è bene tenere presente il contesto in cui questi studi sono stati fatti, ovvero negli Stati Uniti, dove già a 16 anni i ragazzi possono ottenere la patente di guida e quindi trovarsi in potenziali situazioni a rischio in caso di deprivazione da sonno. Anche nel nostro Paese questi dati e le loro implicazioni indicano la necessità di porre attenzione ai potenziali rischi conseguenti alla deprivazione di sonno nella quotidianità degli adolescenti, investendo su programmi di educazione alla salute volti a migliorare la qualità del sonno e a spiegarne l’importanza.

Ci sembra interessante riportare inoltre alcuni risultati di studi che indagano le caratteristiche comuni tra gli effetti della deprivazione di sonno e l’ADHD. Per quanto riguarda il controllo di comportamenti, attenzione ed impulsi, da una review emerge che vi è un aumento del tasso di disturbi del sonno in bambini con diagnosi di ADHD. Inoltre, vi sono studi che riportano che in bambini curati con trattamento per disturbi del sonno sono migliorati i sintomi di ADHD. Riguardo alle cure inoltre, sembra che sia i sintomi legati alla deprivazione del sonno sia quelli legati all’ADHD rispondano all’utilizzo di farmaci stimolanti (Dahl, 1999).

E’ necessario indagare questa connessione con nuovi studi, ma alla luce di questi dati si possono trovare dei validi suggerimenti da applicare alla pratica clinica: per ogni bambino o adolescente che mostra sintomi di ADHD è importante favorire un buon sonno notturno ed un normale ciclo sonno-veglia, per evitare che le conseguenze della perdita di sonno possano esacerbare i sintomi dell’ADHD.

Sonno, umore e regolazione emotiva: sono in relazione tra loro?

Un aspetto particolarmente rilevante trattato negli studi che abbiamo considerato è l’analisi della relazione tra deprivazione di sonno e regolazione emotiva.

In una ricerca è stata analizzata la relazione tra lo stress accademico e la qualità del sonno degli adolescenti, indagando quale fosse l’effetto di mediazione del burnout scolastico e della depressione su questa relazione. I risultati hanno mostrato che lo stress accademico era negativamente correlato con qualità del sonno misurata dal PSQI (Chinese version of the Pittsburgh Sleep Quality Index). Il burnout scolastico e la depressione sembrano inoltre avere entrambi una funzione di mediazione tra lo stress accademico e la qualità del sonno. È stato riscontrato che livelli più elevati di stress accademico sono associati a molti disturbi del sonno adolescenziale, tra cui difficoltà a dormire, insufficienza della durata del sonno e disfunzioni diurne (Yan, Lin, Su, & Liu, 2018). Gli autori portano l’attenzione sul fatto che la depressione sembra essere non solo una delle principali conseguenze di un alto livello di stress accademico, ma anche uno dei fattori emotivi negativi che influisce in modo più significativo sulla qualità del sonno. Quando gli adolescenti sperimentano alti livelli di stress accademico o difficoltà accademiche, ricevono spesso feedback negativi riguardo al rendimento scolastico e, di conseguenza, sviluppano sentimenti depressivi. La depressione può inibire determinate aree della corteccia cerebrale e indurre eccitabilità incontrollabile in altre aree, riducendo così la qualità del sonno degli adolescenti. Studi precedenti hanno suggerito che questa sintomatologia della sindrome del burnout sia correlata positivamente con scarsa qualità del sonno (Yan et al., 2018).

Studi e interventi scolastici: quali implicazioni

La letteratura riporta diversi studi di efficacia di interventi scolastici sull’igiene del sonno. I fattori che contribuiscono alla perdita di sonno includono l’orario di inizio delle lezioni scolastiche e le varie influenze biologiche e sociali, pertanto ci sembra interessante l’approccio di alcune realtà dove gli orari di inizio delle scuole medie e superiori sono stati ritardati (Dahl, 1999). Hagenauer e colleghi (2009) sostengono questo approccio riportando che, oltre ad offrire la possibilità di dormire per un numero maggiore di ore, può portare al risultato di una diminuzione dell’assenteismo e dei tassi di abbandono scolastico. Oltre a sperimentare un orario diverso, le scuole possono aiutare gli adolescenti a modificare i propri schemi di sonno attraverso programmi di educazione e prevenzione. Solitamente i programmi consigliano buone prassi quali, ad esempio, la riduzione dell’esposizione alla luce durante la notte e dell’uso di computer o TV immediatamente prima di coricarsi, e l’introduzione di attività all’aperto durante la mattinata scolastica. Queste abitudini andrebbero infatti ad agire sul ritmo circadiano degli adolescenti, riducendone i problemi di addormentamento (Hagenauer et al., 2009). La scuola si può impegnare inoltre nel guidare e supportare gli adolescenti, aiutandoli a gestire stress ed emozioni spiacevoli e prevenire il burnout scolastico associato anche a situazioni di carenza di sonno (Yan et al., 2018).

Uno studio ha mostrato che un graduale aumento delle ore di sonno, in combinazione con incontri informativi sull’igiene del sonno, può risultare in un effetto positivo sull’umore degli adolescenti (Dewald-Kaufmann, Oort & Meijer, 2014). Questa ricerca, effettuata su un gruppo di 55 adolescenti che cronicamente dormivano poco, indica la presenza di una correlazione positiva tra il numero di ore di sonno ed il tono dell’umore: chi dorme meno, infatti, soffrirebbe maggiormente di sintomi depressivi. Nello specifico, il gruppo sperimentale doveva estendere in modo graduale il proprio sonno e riceveva informazioni di carattere psicoeducativo, legate all’uso dei social media, al consumo di caffeina, all’abitudine di dormire durante il giorno e alle caratteristiche dell’ambiente nel quale dormivano. Gli autori hanno istruito i partecipanti del gruppo sperimentale a mantenere lo stesso programma del dormire non solo durante i giorni settimanali, ma anche durante il fine settimana. In questo studio il gruppo di controllo non riceveva alcuna istruzione. Coerentemente con la domanda di ricerca, il gruppo sperimentale si è addormentato prima nella seconda e terza settimana, rispetto alla settimana baseline. Inoltre, il gruppo sperimentale ha riportato meno sonnolenza durante il giorno, meno sintomi di insonnia e depressivi, rispetto al gruppo di controllo. L’estensione del sonno sembra non aver comportato effetti negativi su altri aspetti. Gli autori dello studio concludono che gli adolescenti con riduzione di sonno cronica riescono ad avere un sonno di qualità, quando hanno la possibilità di farlo. Inoltre, l’estensione graduale del sonno in combinazione alle informazioni sull’igiene del sonno sembra dare benefici sulla qualità del sonno e sui sintomi depressivi del campione incluso nello studio. In particolare, gli autori concludono che sia molto importante tenere in considerazione la variabile sonno nel momento in cui si trattino clinicamente sintomi depressivi.

Altri autori sottolineano la funzione positiva, in quanto fattori protettivi, di attività fisica e delle informazioni sull’igiene del sonno (Wolfson, Harkins, Johnson & Marco, 2015). Questo recente studio propone di valutare l’efficacia del programma Sleep Smart. Questo consiste in un programma educativo basato sull’apprendimento sociale ed ha l’obiettivo di migliorare la salute e le abitudini del sonno degli adolescenti (Bandura, 1997). Si propone inoltre di migliorare la performance scolastica ed il benessere comportamentale. Gli autori ipotizzano che il gruppo sperimentale dorma più tempo, sviluppi abitudini migliori e riporti un maggiore senso di efficacia a proposito delle abitudini del sonno, abbia un migliore rendimento scolastico e minori problemi comportamentali rispetto al gruppo di controllo.

Lo studio prevedeva che il gruppo sperimentale partecipasse in piccoli gruppi da circa 10 studenti ad un programma di 8 incontri (da 40 minuti ciascuno) di educazione alla salute del sonno, tenuto da professionisti. Il programma Sleep Smart prevedeva inoltre che la motivazione dei partecipanti venisse mantenuta anche attraverso piccoli riconoscimenti materiali quali, ad esempio, biglietti plastificati riassuntivi delle buone pratiche del sonno, bottigliette d’acqua e penne personalizzate per la trascrizione del diario del sonno. Anche i genitori dei partecipanti venivano informati riguardo il contenuto delle sessioni attraverso newsletter settimanali. Per questo studio gli autori si sono concentrati sulle domande relative agli aspetti fisiologici, cognitivi, emotivi, ambientali e della routine del bedtime. Era richiesta anche la compilazione di un diario del sonno e della veglia, sul quale i partecipanti annotavano informazioni riguardanti anche il consumo di caffeina e l’uso di dispositivi dotati di schermo durante l’ora precedente l’addormentamento. Sembra infatti che l’uso di dispositivi elettronici dotati di schermo si associ ad una riduzione della durata del sonno e ad un aumento dei problemi di sonno sia nei bambini che negli adolescenti. Una variabile esaminata è stata anche la performance scolastica.

Dai risultati emerge che il programma Sleep Smart sembra aver aiutato i partecipanti in termini di competenza e senso di efficacia riguardo alle abitudini legate al sonno. Rispetto al gruppo di controllo, il gruppo sperimentale ha infatti migliorato in modo duraturo l’igiene del sonno, aumentato il tempo trascorso a letto durante tutti i giorni della settimana e diminuito il consumo di caffeina. Malgrado non si possa trarre alcun nesso causale, poiché le analisi statistiche effettuate non lo permettono, nel gruppo sperimentale si rileva anche una stabilità dei risultati scolastici, che rimangono più elevati rispetto al gruppo di controllo (Wolfson et al., 2015).

Conclusione

Dal punto di vista clinico, i risultati dello studio di Van Reeth e collaboratori (2000) sottolineano la necessità di considerazioni diagnostiche differenziali nel trattamento del sonno e dei disturbi circadiani negli adolescenti. Ciò appare particolarmente importante per la diagnosi dei disturbi della fase circadiana, come i disturbi ritardati o avanzati della fase di sonno, nonché per l’insonnia e la narcolessia (Hagenauer et al., 2009). In conclusione, sembra emergere la necessità di dare maggior importanza e spazio ad interventi preventivi scolastici sull’igiene del sonno, attraverso la formazione di insegnanti ed educatori o la collaborazione con personale specializzato. Questo tipo di interventi potrebbe aumentare la consapevolezza dei primi segnali di disagio nei ragazzi, del forte rischio di burnout scolastico e della depressione correlati alla deprivazione di sonno e dunque prevenire questi fenomeni attraverso la promozione di buone prassi educative sull’igiene del sonno.

Musicoterapia Umanistica

La musica è espressione delle emozioni, di tutte le emozioni. Cosa accade in musicoterapia? Lungi dal fare spettacolo, o dall’utilizzare gli strumenti musicali in modo virtuosistico, si suona per portare gioia, vita, festa, laddove c’è sofferenza, dolore, chiusura, negazione.

 

 “Qual è il punto di forza e il punto fragile della tua musica?” mi ha chiesto recentemente Simone (nome inventato), un ragazzo di 12 anni con tetraparesi spastica. Non ero pronta alla domanda, ma la risposta è uscita immediata, istintiva e sincera. “La musica mi dà gioia. Suonare per tanti bambini e ragazzi mi rende felice. Questo è il mio punto di forza. La fragilità sta nella paura che talvolta ho nel suonare davanti a tante persone. Ma qui con te non ho paura”.

Da trent’anni suono quotidianamente per un pubblico davvero speciale. Sperimento ogni giorno la potenza della musica improvvisata in modo comunicativo per portare gioia, speranza, condivisione. Per far questo mi sono dovuta liberare dei condizionamenti e dei retaggi culturali acquisiti durante gli anni di studio in Conservatorio.

Dopo il diploma di arpa e di musicoterapia ho proseguito la mia formazione con la prof.ssa Giulia Cremaschi di Bergamo e ho avuto la fortuna (o la grazia, come dico io) di essere testimone e protagonista del farsi della Musicoterapia Umanistica in Italia. Ne ho seguito le fasi salienti, la costituzione della Associazione Pedagogia Musicale e Musicoterapia (APMM) che porta il nome della caposcuola e la nascita della Federazione Italiana Musicoterapeuti (FIM), di cui sono socio fondatore. Sto ultimando gli studi in arpa terapia presso l’International Harp Therapy Program (IHTP), con sede a Bologna.

Ho imparato sul campo a fare musica dal vivo, come, d’altra parte, è sempre avvenuto a partire dalla notte dei tempi. Nel corso della storia dell’uomo, infatti, la musica è sempre stata improvvisata e creata al momento.

La musica è espressione delle emozioni, di tutte le emozioni. Cosa accade in musicoterapia? Lungi dal fare spettacolo, o dall’utilizzare gli strumenti musicali in modo virtuosistico, si suona per portare gioia, vita, festa, laddove c’è sofferenza, dolore, chiusura, negazione. Si suona improvvisando per destare l’ascolto in un’altra persona.

Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo e di unico. Ogni singolo uomo è una cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo. (M. Buber in Cremaschi Trovesi, 2014)

Questo è vero anche per la persona che nasce con una disabilità, o che per motivi diversi incontra la malattia e l’handicap nel corso della sua vita?

Siamo abituati a chiudere le persone in categorie: cerebroleso, sordo, cieco, autistico, down… e la riabilitazione usa programmi diversi a seconda della patologia. Bisogna rispettare il protocollo. La visione umanistica allarga lo sguardo alla persona, alla sua unicità. Musicoterapeuta e paziente sono risorsa l’uno per l’altro e insieme si mettono in gioco. È “l’esserci” fenomenologico (Cremaschi Trovesi, 2014). Dalle risposte della persona, la musicoterapeuta comprende quanto lei stessa riponga o meno fiducia nella persona che gli è affidata. Nella pratica musicale creativa è messa alla prova la stima per la persona al di là di ciò che essa lascia trapelare di sé o che la diagnosi ha sentenziato.

Tutto comincia con l’ascolto. Quale ascolto?

Operare in musicoterapia significa portare l’ascolto a livello di arte di ascoltare. Sì, perché ascoltare è un’arte, ma anche farsi ascoltare è un’arte. Non è scontato accorgersi di ricevere le vibrazioni di uno strumento musicale. Non è scontato che un bambino senta con tutto il corpo le vibrazioni di una pelle di tamburo, o quelle della cassa armonica del pianoforte a coda (Balestracci Beltrami, 2009a).

L’aria trasmette le onde sonore. In assenza dell’aria non può esserci trasmissione delle onde sonore, perché un corpo in vibrazione non può generare onde sonore. Le onde sonore coinvolgono tutto quello che incontrano: gas, liquidi e solidi. Il convibrare delle onde sonore è risuonare. La riflessione del suono è eco (Righini, 1994). Ad ogni respiro l’aria entra ed esce dal nostro corpo. Ad ogni respiro rinnoviamo il nostro convibrare con il mondo.

La nostra voce è aria inspirata che, premuta verso l’esterno, si trasforma in onde sonore. Quindi anche le parole sono onde sonore, aria in movimento. La parola è suono (Cremaschi Trovesi, 2014). Il suono ha una duplice definizione (Righini, 1994):

  1. sensazione uditiva determinata da vibrazione acustica,
  2. vibrazione acustica determinata da sensazione uditiva.

Il suono è quindi relazione tra un corpo elastico in grado di produrre vibrazioni (fonte del suono) e un corpo elastico in grado di riceverle.

Il suono è un fenomeno complesso. Quando pensiamo di percepire un suono, in realtà riceviamo la risultanza, nella simultaneità, di una frequenza fondamentale e dei suoi armonici. Una cosa è sapere cosa sono gli armonici, una cosa è ascoltare e scoprirne la presenza nel nostro corpo vibrante.

Le onde sonore raggiungono il nostro corpo in base alla relazione frequenza – volume. A volumi grandi corrispondono frequenze gravi, a volumi sempre più piccoli corrispondono frequenze sempre più acute. Pensiamo alla famiglia degli strumenti ad arco: contrabbasso, violoncello, viola, violino, o alla cordiera di un’arpa, dalle corde lunghe e grosse dei suoni gravi a quelle sottili e corte dei suoni più acuti, o, infine, a quanto la natura ci mostra attraverso il muggito possente di una mucca e il cinguettio melodioso di un uccellino. Lo stesso avviene nel nostro corpo, costituito da una serie di cavità risonanti (anche se cave non sono!) sovrapposte.

Tutto il corpo è impegnato nel produrre suoni con la voce, tutto il corpo è impegnato nella ricezione. Non si ascolta solo con le orecchie. Il protagonista dell’ascolto e del farsi della voce, del canto, della parola è quindi il corpo, il corpo vibrante. L’orecchio è specializzato nel ricevere e distinguere le frequenze armoniche. Le frequenze fondamentali passano attraverso il corpo. L’orecchio è dentro il corpo. L’aria è in movimento intorno a noi, dentro a noi (respiro) consentendoci l’ascolto e la produzione dei suoni (voce).

L’essere umano è un corpo vibrante come qualunque altro essere vivente sulla terra. La ricezione delle onde sonore è regolata dalle leggi fisiche della risonanza: un corpo atto a vibrare mette in vibrazione un altro corpo atto a vibrare con le medesime frequenze. In altre parole si ha risonanza quando una forza esterna agisce su un sistema fisico con una frequenza capace di amplificare il moto del sistema stesso. La risonanza è una realtà come la forza di gravità, alla quale non possiamo sottrarci. È così reale da essere stata dimenticata. La risonanza corporea caratterizza la vita di ogni uomo a partire dal grembo materno, la prima orchestra.

Il suono è all’origine delle nostre esperienze, delle nostre emozioni, della nostra memoria. La vita prima della nascita è relazione per eccellenza. Ogni essere umano, nuovo e unico, è stato accolto e si è formato nella relazione. Il grembo materno è la prima orchestra.

Il corpo è il luogo, il tempo e la memoria delle emozioni. L’ordine ritmico del battito cardiaco, del respiro e dei passi della madre vissuti nel grembo materno (la prima orchestra) sono il fondamento della memoria, dell’ordine originario. Il pulsare cardiaco procede con ordine di ritmo e di tempo. Con la nascita il bambino sperimenta il passaggio dal galleggiamento alla gravità, dalla trasmissione liquida del suono a quella per via aerea, dal suono/ritmo/movimento ininterrotto al silenzio (inteso come quiete). Il bambino respira, si emoziona, si relaziona. Egli esprime tutto sé stesso attraverso il suo corpo vibrante.

La parola nasce nel e dal canto. La voce è espressione delle emozioni. La voce è ricca di risonanze armoniche, è suono per eccellenza. Vocali e consonanti hanno una natura diversa. Le prime hanno formanti armoniche specifiche e dipendono dalla posizione della bocca e delle labbra. A parità di intonazione, la U è la vocale con formanti armoniche più gravi, la I è quella con le formanti armoniche più acute. Le consonanti sono timbri sonori, articolazione di bocca, labbra e lingua che nella maggior parte dei casi necessita della vocale per “suonare”: non a caso si chiamano con-sonanti.

Parola e suono hanno caratteristiche in comune. Ogni parola pronunciata è la sintesi di timbro, altezza, intensità, durata che sono anche gli attributi del suono:

  • timbro (vocali e consonanti)
  • altezza (intonazione della voce, melodia della parola e della frase)
  • intensità (non solo il volume della parola, ma anche il susseguirsi degli accenti)
  • durata (ritmo della parola e della frase che ne favorisce la comprensione e l’espressione emotiva)

Cosa accade quando un bambino è seduto o sdraiato sulla cassa armonica del pianoforte a coda? Come agiscono le onde sonore dentro di lui? Come suonare per favorire il cambiamento? Andiamo con ordine.

Gli strumenti acustici, nati come prolungamento del corpo umano, producono onde vibratorie attraverso l’amplificazione delle casse di risonanza (riproduzione del Corpo Vibrante). Il pianoforte a coda presenta il vantaggio di una grande cassa di risonanza e una vasta gamma di frequenze (da Hz 27,50 per il tasto più grave, a Hz 4184 per quello più acuto). Per buona parte della seduta di musicoterapia, il bambino o ragazzo è seduto o sdraiato sul coperchio del pianoforte a coda, in modo da essere avvolto, immerso e cullato nelle onde sonore che lo raggiungono per risonanza.

La musicoterapeuta suona osservando ed osserva suonando, cosciente del ruolo comunicativo che realizza nel gioco creativo dei suoni.

Improvvisare è creare la musica per rispecchiare, favorire accompagnare una persona a non sentirsi sola, per andare verso processi naturali di cambiamento e trasformazione.

Sulla tastiera, in ogni momento, genera sonorità, ritmi, melodie, armonie con i quali “parla”, guida, asseconda, accompagna, approva, reagisce ecc. secondo ciò che caratterizza il “noi” del dialogo. L’empatia prende corpo, prende suono attraverso l’improvvisazione comunicativa al pianoforte (Balestracci Beltrami, 2018b)

Ogni esperienza, positiva o negativa si imprime nel corpo. Le emozioni si manifestano all’esterno attraverso il movimento, i gesti, le posture, gli sguardi, il farsi della voce. Le emozioni non sono buone o cattive, sono emozioni. Entrare nel cuore del dolore, della sofferenza, della rabbia attraverso la musica: questo è la musicoterapia.

Il bello dell’arte insito nel dialogo creato dall’improvvisazione comunicativa al pianoforte, favorisce il sorgere di qualcosa di imprevedibile. Le emozioni sono apprezzate e valorizzate. Si apre la via verso qualcosa di nuovo. Il nuovo e il bello possono anche fare paura. Riconoscere, ammettere la paura e attraversarla, porta verso la gioia di vivere.

L’improvvisazione musicale è formata da ritmi, melodie, accordi creati al momento per far sorgere l’ascolto dell’altra persona.
Il valore dell’improvvisazione musicale emerge solo se è dialogo. Il dialogo attraverso l’improvvisazione comunicativa al pianoforte, traduce in musica le emozioni del bambino.  La musicoterapeuta improvvisa con la consapevolezza delle emozioni proprie e altrui. Suo compito è accogliere, rispettare, valorizzare il dolore attraverso il bello dell’arte.

Possiamo fingere di non comprendere le parole, possiamo chiudere gli occhi (e anche le orecchie), ma non possiamo sottrarci al suono. Le onde sonore sono onde di energia, ci raggiungono anche se non ce ne accorgiamo. Fanno vibrare il corpo attraverso la risonanza.

La musicoterapeuta legge la Partitura Vivente, termine coniato da Edith Stein (Di Pinto, 2002), che sta davanti a lei. Si tratta di lettura, non di interpretazione, perché il corpo vibrante di emozioni è lo strumento originario. Il bambino si sente accolto, ascoltato, valorizzato perciò che è prima ancora che per quello che sa fare. Alcuni modelli di musicoterapia distinguono quella attiva (il paziente suona o canta) da quella passiva (che comprende solo l’ascolto).

La Musicoterapia Umanistica, “Arte della Comunicazione” (termine coniato da Giulia Cremaschi Trovesi, caposcuola della Musicoterapia Umanistica), non pone questa separazione. Il bambino o ragazzo (partitura vivente) è protagonista della sua crescita e del suo cambiamento, perché attraverso l’improvvisazione comunicativa al pianoforte si crea  uno spazio di ascolto e stimolo all’interno del quale ogni individuo, nell’emozione dei suoni, può conoscere sé stesso ed accedere alle proprie personali risorse. Il pianoforte a coda è utilizzato per la vasta gamma di frequenze a disposizione (da 27,50 Hz a 4186 Hz) e l’ampiezza della cassa armonica. Gli altri strumenti acustici a corda, a fiato, a membrana e a percussione, sono usati in base alle esigenze che si creano nel contesto della terapia.

Le onde sonore, cullano, avvolgono, penetrano in profondità, favorendo la percezione del proprio corpo e il riconoscimento delle proprie emozioni. I genitori presenti condividono le emozioni in gioco, lentamente lasciano andare anche le loro resistenze. Arrivano spesso esausti, affaticati, in ansia o depressi per le fatiche che la situazione comporta e vanno via rilassati, rianimati, oserei dire ringiovaniti, perché la musica fa bene anche a loro.

La nascita spontanea del linguaggio verbale dipende in gran parte dalla relazione adulto bambino. Genitori che cantano e giocano con i loro figli favoriscono istintivamente il processo di crescita psicomotoria e di apprendimento naturale del linguaggio. Il gioco musicale con tanti strumenti messi a disposizione, il dialogo sonoro, l’improvvisazione comunicativa al pianoforte creano un contesto di opportunità costruttivo. Non c’è nulla da interpretare, l’importante è vivere, condividere le emozioni generate nell’esperienza. La musica così concepita fa bene, oserei dire, a chi la fa e a chi la riceve perché nel dialogo che si crea tutti sono protagonisti.

La Musicoterapia Umanistica non è una teoria (Balestracci Beltrami, 2018c). Essa è nata dall’esperienza con bambini audiolesi fatta dalla prof.ssa  Giulia Cremaschi Trovesi presso l’Istituto sordomuti di Torre Boldone (BG) più di quarant’anni fa. Quello è stato l’inizio. Poi gli studi e l’incontro con centinai a di bambini affetti dalle patologie più disparate le ha fatto maturare un approccio che ha trovato doppia conferma, oserei dire professionale e istituzionale.

Da una parte le equipe medico/riabilitative che hanno in carico i piccoli pazienti seguiti in musicoterapia in molte città italiane hanno riconosciuto i benefici che derivano da questo intervento (confermati e “misurati” da appositi test e riguardanti sfera della relazione, comunicazione, sviluppo psicomotorio, del linguaggio verbale e cognitivo), tanto da richiederlo come parte integrante del percorso terapeutico dei bambini. Tali esiti, un tempo esclusiva della Cremaschi e dei primi professionisti che l’hanno seguita, tanto da far pensare che ci fosse qualcosa di “magico” nel suo modo di agire, sono oggi competenza di molti. E questo conferma la validità e la scientificità dell’approccio umanistico della musicoterapia.

D’altra parte l’adesione volontaria della FIM alla legge 4/13 (HERE) sulle nuove professioni e la partecipazione alla stesura della norma tecnica UNI conseguente alla legge stessa, hanno portato la Musicoterapia Umanistica della Cremaschi ad essere un’apripista nel complesso mondo della musicoterapia italiana. A partire dall’ottobre 2015, la FIM è regolamentata in base alla norma UNI 11592 sulle Arti terapie e i suoi professionisti sono certificati all’interno di questi parametri legislativi.

Nel 2016 è iniziato il primo Corso quadriennale di Musicoterapia Umanistica “Giulia Cremaschi Trovesi” patrocinato da FIM, APMM (fondata nel 1991) e Conservatorio “G. Donizetti” di Bergamo, impostato secondo le linee guida di abilità, conoscenze e competenze della norma tecnica UNI 11592. Nel luglio 2020, inizierà un nuovo quadriennio di studi aperto a musicisti con formazione formale o informale che corrisponda al quadro europeo delle qualifiche EQF 6 (laura o diploma di primo livello).

Dopo anni di sterili disquisizioni tra il mondo accademico musicale e quello medico sulla formazione del musicoterapeuta, la legge 4/13, la norma UNI 11592 e la successiva certificazione hanno dato ragione ad una musicoterapia fatta di suoni e di musica che diventano dialogo, vita e speranza per le persone che ci sono affidate.

 

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