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L’importanza di una corretta informazione per tutelare l’auto-immagine corporea nelle donne sottoposte a chirurgia della mammella

Si stima che in Italia, ogni anno, vengano impiantate più di 10.000 protesi mammarie, tuttavia esiste una certa diffidenza verso questo dispositivo. Tali sentimenti negativi sono legali al primo caso delle protesi difettose scoppiato in Francia nel 2011. A far precipitare nel panico centinaia di migliaia di donne in tutto il mondo è stata la decisione di richiamare 30mila donne portatrici di protesi per rimuovere, in via cautelativa, gli impianti.

Stefano Giudici, Ilaria Bagnulo, Alessandro Toccafondi, Marco Tanini

 

Il 16 ottobre si è celebrato il ‘Bra Day 2019’ (Breast reconstruction awareness Day), la giornata internazionale per la consapevolezza sulla ricostruzione mammaria, a cura di Beautiful After Breast Cancer Italia Onlus e della Società Italiana di chirurgia plastica, ricostruttiva-rigenerativa ed estetica (Sicpre). Scopo dell’iniziativa è stato quello di informare adeguatamente le donne che si devono sottoporre a chirurgia della mammella contro l’allarmismo diffuso sulla possibilità che le protesi mammarie possano far insorgere un raro tipo di neoplasia.

L’ immagine corporea

La percezione del proprio corpo è una fonte essenziale di autocoscienza e identità personale e contribuisce alla regolazione del comportamento ed al mantenimento della salute fisica e mentale (Adriano Mauro E 2019).

Dall’inizio di questo secolo il corpo come rappresentazione, cosiddetto “corpo virtuale”, ha cominciato ad essere sempre più oggetto di studio da parte di discipline molto diverse fra loro. Dagli svariati studi effettuati: psichiatrici (Kolb L 1953, Schoenfeld W.A 1966), psicosociali, (Garner D. 1980), psicodinamici (Federn P. 1952), neurologici, (Casper RC. 1979), sociologici (Galimberti U 1983), sono emersi teorie e concetti in parte sovrapponibili, come ad esempio l’idea di corpo percepito, corpo rappresentato, corpo situato, corpo vissuto, corpo identificato, percezione corporea, corpo erogeno, corpo fantasmatico, confini corporei, immagine corporea, immagine posturale, idea di corpo e schema corporeo.

È Schilder a coniare, nel 1935, l’espressione immagine corporea, definendola come: l’immagine del nostro corpo che ci formiamo nella mente, e cioè il modo in cui il corpo appare a noi stessi (Schilder, 1935). Si tratta del primo tentativo di integrare l’aspetto fisiologico e neurologico relativo allo schema corporeo con l’aspetto più psicologico: la rappresentazione del corpo non è più quella descritta dall’anatomia, bensì risulta dall’esperienza dell’individuo nella sua interazione con l’ambiente. Nel 1988, Slade definisce l’immagine corporea come l’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alle singole parti del nostro corpo, vale a dire la rappresentazione soggettiva che ogni persona ha del proprio corpo.

In questo senso l’immagine corporea, quale fonte fortemente connotante del concetto di sé, della propria connotazione sessuale e del concetto di bellezza può essere alterata a causa di malattie, traumi o interventi chirurgici che generano un’improvvisa e significativa modifica al proprio corpo (Giambra V. 2016).

Il sostegno alla corretta informazione

Il 16 ottobre si celebra il BRA Day, la Giornata internazionale per la consapevolezza della ricostruzione mammaria (Breast Reconstruction Awareness Day), in questo contesto è stato presentato il manifesto ‘Donna x donna’, un’iniziativa per informare correttamente le donne sullo stato dell’arte della ricostruzione mammaria e diffondere notizie corrette a fronte di allarmismi circa le protesi al silicone.

La dimensione del fenomeno

Si stima che in Italia, ogni anno, vengano impiantate più di 10.000 protesi mammarie, tuttavia esiste una certa diffidenza verso questo dispositivo. Tali sentimenti negativi sono legali al primo caso delle protesi difettose scoppiato in Francia nel 2011. A far precipitare nel panico centinaia di migliaia di donne in tutto il mondo è stata la decisione transalpina di richiamare 30mila donne portatrici di protesi per rimuovere, in via cautelativa, gli impianti.

Il linfoma anaplastico a grandi cellule

Il motivo di allarme è dovuto ad una rarissima forma neoplastica, il linfoma anaplastico a grandi cellule (Alcl) legato, appunto, all’impianto delle protesi mammarie.

Si tratta di una rara forma di neoplasia a prognosi favorevole, se diagnosticata precocemente.

In base a quanto raccolto dal database del Ministero della Salute Italiano, negli ultimi 8 anni sono stati registrati 41 casi di Alcl su 411.000 protesi impiantate. Questo vuol dire che il rischio di ammalarsi di Alcl è dello 0,001%.

Sono circa 35.000 le donne che, ogni anno, in Italia si sottopongono a un impianto di protesi mammaria: il 63% con finalità estetiche, il 37% ricostruttive. Tale fenomeno è monitorato dal Ministero della Salute che ha attivato un Registro nazionale di questi dispositivi impiantabili, e a breve diverrà obbligatorio segnalare a questo ogni impianto di protesi mammaria. (Ministero Salute).

Il linfoma anaplastico a grandi cellule, oltre ad essere una forma estremamente rara è anche risolvibile se affrontato in tempo. Di solito è sufficiente rimuovere la protesi e la capsula fibrosa che si forma intorno ad essa. La sola terapia chirurgica di solito è risolutiva.

Le protesi che maggiormente si associano all’insorgenza di questa patologia sono quelle “testurizzate”, ovvero con la superficie ruvida anziché liscia, tuttavia questo dato non è certo perché in alcuni casi di insorgenza della neoplasia si è provveduto alla rimozione della protesi senza segnalare di quale tipo si trattasse.

Il fenomeno è comunque estremamente raro, tanto che la FDA americana non ha ritenuto di dover ritirare le protesi “ruvide” come invece è avvenuto in Francia.

L’ allarmismo che si è diffuso a causa di queste notizie ha spinto Beautiful After Breast Cancer Italia Onlus insieme alla Società Italiana di chirurgia plastica, ricostruttiva-rigenerativa ed estetica (Sicpre) ad elaborare un manifesto informativo per informare correttamente le donne che devono essere sottoposte a chirurgia della mammella.

Conclusioni

Le emozioni che si scatenano a seguito di una diagnosi che ancora oggi fa molta paura, come quella del cancro al seno, sono molteplici e spesso molto intense. La chirurgia della mammella, sebbene negli anni sia divenuta molto meno demolitiva, può ledere in maniera profonda l’autoimmagine femminile della donna. Oltre ad una diminuzione di invasività della chirurgia, si è ottenuto un netto miglioramento delle tecniche ricostruttive sul piano dell’outcome estetico.

È importante informare adeguatamente le donne candidate alla chirurgia in modo da poterle tranquillizzare e consentirgli di fare una scelta consapevole sul sottoporsi o meno a tecniche di chirurgia ricostruttiva

Anoressia Nervosa e Neuroscienze – Introduzione alla Psicologia

L’Anoressia Nervosa fa parte dei Disturbi dell’Alimentazione e della nutrizione ed è caratterizzato, secondo il DSM-5, da una restrizione dell’apporto energetico relativo al fabbisogno quotidiano che induce una evidente perdita di peso, in relazione a sesso ed età. Queste persone mostrano, inoltre, una evidente paura di aumentare di peso e un comportamento persistente che interferisce con l’aumento di peso, nonostante una significativa magrezza.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Alla forma e al peso sono attribuiti dei significati importanti che agiscono direttamente sull’autostima e sul proprio valore personale. Quindi per ottenere i propri obiettivi in termini di peso è necessario si eserciti una forma costante di controllo sul cibo ingerito e di conseguenza sul peso.

Il controllo del peso restituisce una sensazione di autonomia e indipendenza e questo implica la messa in atto di comportamenti ritualizzati, preferenza per cibi e bevande dal basso apporto calorico, una tendenza ad alimentarsi molto lentamente, e, talvolta a sputarli.

Il corpo è vissuto da queste persone come il nemico contro cui combattere, i cui bisogni non sono né avvertiti né, tantomeno, soddisfatti.

In più, le persone con anoressia nervosa svolgono un’eccessiva attività fisica, una tendenza ad esporsi al freddo, oltreché la propensione a cucinare per gli altri e incoraggiarli a mangiare.

Evitano inoltre le situazioni sociali e mostrano un evidente calo dell’umore.

Neuroimaging e anoressia

In studi di Neuroimaging relativi all’Anoressia Nervosa è stata evidenziata la presenza di anomalie strutturali e funzionali in aree del cervello coinvolte nell’elaborazione della ricompensa (Kaye et al., 2013). In particolare, sono state evidenziate anomalie relative al cingolato anteriore, coinvolto nella valutazione emotiva e nella selezione della risposta, alla corteccia orbitofrontale, un’area centrale rispetto al legame tra cibo o altri tipi di ricompensa e risposta edonica, e lo striato ventrale, il quale include il nucleus accumbens. Lo striato ventrale è un’area centrale rispetto alla codifica del piacere di una ricompensa e alla sua salienza motivazionale, definita come il processo attraverso il quale uno stimolo è convertito da una rappresentazione neurale a un incentivo desiderato e attraente per il cui ottenimento una persona è predisposta a impegnarsi. I circuiti neurali che includono tali aree risultano coinvolti anche nella compulsività, e rivestono quindi una possibile significatività transdiagnostica.

Il Default Mode Network, rete neurale distribuita in diverse regioni, corticali e sottocorticali, si attiva generalmente durante le ore di riposo e di attività passive. Essa comprende regioni cerebrali quali il cingolato posteriore, il precuneo e parti della corteccia prefrontale. Tale network risulta maggiormente attivo a riposo piuttosto che durante compiti che implicano un coinvolgimento attentivo, e per questo si reputa che sia associato al pensiero indipendente da stimoli e alla riflessione esercitata su di sé (Raichle et al., 2001). In uno studio relativo allo stato di riposo/non attività (resting state) in pazienti guarite da Anoressia Nervosa è stata evidenziata una maggiore funzionalità connettiva tra il Default Mode Network, il precuneo e la corteccia prefrontale dorsolaterale (Cowdrey, Filippini, Park, Smith, &McCabe, 2012), evidenza che supporta l’ipotesi rispetto alla quale i network relativi allo stato di riposo/non attività che coinvolgono il processamento di informazioni autoreferenziali e il controllo cognitivo possano essere disfunzionali nell’Anoressia Nervosa (Lee et al., 2014). I risultati di studi relativi allo stato di riposo/non attività in pazienti con Anoressia Nervosa o in remissione supportano l’ipotesi che un maggiore controllo sul processamento della ricompensa, mediato da neurocircuiti modulatori top down, quali la corteccia prefrontale dorsolaterale (Kaye et al., 2009), potrebbe essere un fattore chiave nel mantenimento dell’Anoressia Nervosa (Cowdrey et al., 2012). La presenza di maggiore attività in regioni deputate al processamento di informazioni autoreferenziali risulta coerente con la presenza di ruminazione rispetto al controllo dell’alimentazione, del peso e della forma corporea, fattore che viene considerato coinvolto nel mantenimento dell’Anoressia Nervosa (Kaye et al., 2009).

E’ stato suggerito che le patologie legate ai processi di ricompensa emergano quando due distinte componenti, il Wanting motivazionale e il Liking edonico, diventano funzionalmente separate (Berridge et al., 2010). Ad esempio, nell’abuso di sostanze stupefacenti, è stata evidenziata la presenza di un maggiore desiderio dello stimolo associato a ricompensa, che può avvenire anche in presenza di una diminuzione del piacere tratto dallo stesso stimolo. Questo può portare ad un desiderio compulsivo di cercare e di assumere la sostanza, in assenza di qualsiasi piacere derivante dalla stessa  (Everitt& Robbins, 2005). Nell’Anoressia Nervosa, una simile dissociazione tra Wanting e Liking rispetto alla ricompensa costituita dal cibo potrebbe contribuire alla persistenza delle compulsioni legate al controllo estremo dell’alimentazione, del peso e della forma fisica (Robbins et al., 2012).

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

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RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

 

 

Ansia per la matematica

L’ansia per la matematica è molto diffusa e può contribuire all’insuccesso dello studente, soprattutto quando le competenze sono già abbastanza deboli; è fondamentale che venga gestita nel migliore dei modi perché potrebbe essere svantaggiosa per tanti bambini.

 

Il ruolo del sentimento nella vita mentale è stato a lungo trascurato dalla ricerca; trascorso quasi un secolo di disinteresse scientifico, oggi le emozioni hanno conosciuto una sorta di rinascita, dopo che il cognitivismo le aveva dichiarate escluse dal suo ambito di indagine (Ledoux, 2014). Ma un modello della mente che esclude le emozioni è un ‘ben povero modello’ (Goleman, 1996).

Come ci insegnano le neuroscienze, il nostro cervello è un intreccio di pensieri ed emozioni e studiare i primi senza le seconde non darà mai una visione esatta della mente, che è più della semplice cognizione (Mingazzini, 2006).

L’emozione dell’ansia, in ambito scolastico, è stata spesso indagata in relazione alla disciplina matematica: la letteratura riporta infatti come questa materia eliciti vissuti emotivi negativi negli studenti (Lucangeli et. al., 2003).

L’innovazione concettuale portata dal modello metacognitivo ha consentito di mettere in luce come il successo in matematica non dipenda solo dall’effettiva abilità, ma anche dall’atteggiamento nei confronti della disciplina e che questo riguardi non solo l’alunno, ma anche il sistema scuola-famiglia con cui interagisce.

Daniela Lucangeli (2015) nell’intervento tenuto al XVI convegno nazionale dell’Istituto di Ortofonologia, sottolinea l’importanza delle emozioni che sottendono l’apprendimento:

Se un bambino mentre apprende fa fatica e sperimenta un’emozione di paura, tutte le volte che rimetterà in memoria quell’apprendimento metterà in memoria sia quella fatica che quell’emozione. Stabilizzerà quindi nel circuito di riorganizzazione che le neurofunzioni attivano sia l’apprendimento che il mantenimento dell’emozione disfunzionale.

Il disagio emotivo nell’apprendimento della matematica interessa un’ampia parte della popolazione scolastica: molti bambini e adulti manifestano agitazione o sintomi di malessere fisico durante lo svolgimento di un compito di matematica; questo può essere dovuto ad alcuni aspetti caratteristici della materia. La paura di sbagliare può essere attribuita al fatto che in matematica l’errore è generalmente indiscutibile, dato che esiste una sola risposta corretta, il timore di non sapere come procedere viene aggravato dall’impossibilità di ricorrere a strategie che di solito vengono usate per migliorare la propria prestazione in altri ambiti: diligenza, ordine, maggior impegno (Cornoldi, Zaccaria, 2015).

L’ansia per la matematica è molto diffusa e può contribuire all’insuccesso, soprattutto quando le competenze sono già di per se stesse abbastanza deboli; è fondamentale che venga gestita nel migliore dei modi perché può essere devastante per tanti bambini. Il ripetersi di emozioni negative come tristezza, ansia e paura associate all’apprendimento di questa materia portano all’evitamento del compito e alla rinuncia (Marsale, et al., 2013).

Nel nostro sistema educativo, quindi, ci sono forti emozioni sulle quali si basa l’apprendimento: il senso di colpa e la paura che nascono come sentimenti di autoregolazione, possono limitare fortemente l’azione se vengono vissute con impotenza e scarso livello di autostima.

Gli obiettivi (Cornoldi, Zaccaria, 2015) per un programma per la gestione dell’ansia sono:

  • riconoscere che l’ansia per la matematica è comune: analizzare meglio la propria ansia e scoprire che gli altri non ne sono esenti;
  • superare alcune idee stereotipate sulle difficoltà in matematica: riflessione di gruppo, ruolo dell’impegno;
  • individuare valide motivazioni per lo studio della matematica: sentire che è alla portata di tutti;
  • individuare situazioni che provocano uno stato di ansia;
  • individuare strategie utili per gestire situazioni d’ansia: provare con strategie immaginative. Individuare la propria strategia e metterla in pratica.

Resta indubbio che un lavoro metacognitivo efficace sulla matematica dovrebbe coinvolgere credenze e comportamenti non solo dei bambini, ma anche di insegnati e genitori.

Cercando di adottare didattiche efficaci nel potenziamento delle abilità cognitive alla base del calcolo, gli alunni in difficoltà possono acquisire le giuste competenze e sperimentare successo e nuova motivazione ad apprendere.

Davide Marsale, con Daniela Lucangeli e altri ricercatori (2013), hanno trovato nei giochi di prestigio interessanti spunti, hanno cercato di creare una condizione che interroghi il sistema cognitivo, susciti meraviglia e curiosità verso il mondo dei numeri e della logica e soprattutto stimoli la voglia di capire e di provare.

Queste strategie sono efficaci sia dal punto di vista scientifico che didattico.

Imparare a modulare le propria attività cerebrale? Oggi è possibile grazie al neurofeedback

Roland Zhann e Jorge Moll hanno ideato uno studio sperimentale atto a valutare l’efficacia del neurofeedback nell’insegnare la modulazione della connettività tra due particolari aree cerebrali a soggetti con disturbo depressivo maggiore in remissione, e verificare di conseguenza eventuali effetti benefici dati dall’auto-modulazione.

 

Il neurofeedback è una procedura clinica nata dal biofeedback atta ad insegnare al soggetto che la utilizza l’automodulazione dei propri processi fisiologici o neurocognitivi.

Inizialmente si compievano solo misurazioni fisiologiche tramite il biofeedback: vengono applicati degli elettrodi sulla cute della persona, che ha di fronte a sé uno schermo raffigurante gli indici fisiologici, come temperatura corporea e tensione muscolare.

Grazie all’osservazione diretta dei propri livelli fisiologici, il soggetto ha la possibilità di trovare strategie atte ad agire sulla funzione presa in esame in quel momento, imparando così a modularla.

Con l’avvento del neurofeedback è possibile fare lo stesso osservando tuttavia le onde cerebrali tramite l’utilizzo di un elettroencefalogramma (EEG) e l’attivazione cerebrale tramite l’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI) (Sato et al., 2008).

Il neurofeedback è quindi una tecnica che consente di insegnare al soggetto come modulare la propria attività cognitiva, osservando la rappresentazione di quest’ultima in tempo reale.

In letteratura sono presenti molteplici studi che sottolineano gli effetti positivi su patologie mediche e psichiatriche date dall’utilizzo di queste tecniche; in particolare il biofeedback sembra essere efficace in patologie come emicrania, ipertensione essenziale, asma e ansia. L’efficacia di questo trattamento sta nella capacità dell’individuo di apprendere come agire su quegli indici fisiologici che favoriscono l’insorgere della patologia (Zhan et al., 2019).

Il corpo umano mette costantemente in atto meccanismi di autoregolazione in maniera automatica, senza che noi ce ne accorgiamo; questo processo è regolato dal nostro sistema neurovegetativo ed endocrino. Tuttavia non sempre la consapevolezza sulle nostre alterazioni fisiologiche è assente. Ad esempio, dopo uno sforzo fisico prolungato, si potrebbe percepire un aumento della propria frequenza cardiaca; una volta percepita siamo in grado di agire su di essa con varie strategie, per esempio concentrandoci sulla respirazione. Analogamente, tramite il biofeedback, è possibile imparare a modulare i livelli fisiologici di cui solitamente non percepiamo l’alterazione (Rao, 2008).

Il neurofeedback è stato sperimentato anche in capo psicopatologico: è noto in letteratura che quando i soggetti con una storia di disturbo depressivo maggiore (DDM) iniziano a fare esperienza di sentimenti come il senso di colpa, mostrano una connettività minore tra due particolari zone cerebrali, quali il lobo temporale destro anteriore (ATL) e l’area cingolata subgenuale anteriore (SCC); inoltre, stando alla teoria dell’impotenza appresa, la vulnerabilità al disturbo depressivo maggiore è data dalla tendenza a incolpare se stessi per un fallimento, con conseguente riduzione dei livelli di autostima (Abramson et al., 1978).

Partendo da questi presupposti teorici, Roland Zhann e Jorge Moll hanno ideato uno studio sperimentale atto a valutare l’efficacia del neurofeedback nell’insegnare ai partecipanti la modulazione della connettività tra la ATL e la SCC, e verificare di conseguenza eventuali effetti benefici dati dall’auto-modulazione.

Con il fine di verificare questa ipotesi, i due ricercatori hanno condotto uno studio sperimentale su un gruppo di 28 soggetti con un disturbo depressivo maggiore in remissione. Per condurre la sperimentazione, si sono avvalsi del neurofeedback tramite risonanza magnetica: questa tecnica consente di vedere la propria attività cerebrale in tempo reale. In particolare è stata mostrata ai soggetti la connessione tra le aree ATL e SCC; accanto all’immagine del proprio encefalo, veniva mostrato un termostato, rappresentante il livello di attivazione della connessione tra le due zone cerebrali prese in esame.

Prima di sottoporsi al neurofeedback, i soggetti dovevano pensare a un evento che evocasse loro senso di colpa, e associarlo a una parola; in seguito quest’ultima veniva mostrata in fase di sperimentazione mentre erano sottoposti al neurofeedback (Zhan et al., 2019).

Inizialmente, quando veniva elicitato il senso di colpa tramite lo stimolo visivo (la parola precedentemente associata all’emozione in questione), si osservava un calo della connettività tra la ATL e la SCC. A quel punto si chiedeva ai partecipanti di trovare delle strategie per aumentare la connettività tra queste due aree: il loro compito era quindi quello di cercare di aumentare la temperatura del termostato rappresentante la connettività tra le due zone cerebrali (più aumentava, più c’era connettività tra la ATL e la SCC, e di conseguenza meno senso di colpa). Per influenzarne i livelli i soggetti dovevano trovare delle strategie mentali che andassero ad agire su di esso, (pensando ad un immagine in particolare o concentrandosi su cosa provavano in quel momento ecc), ogni partecipante aveva carta bianca per quel che riguarda le strategie da adottare per aumentare la temperatura del termometro.

I risultati dello studio perso in esame mostrano che, tramite il neurofeedback, i soggetti possono imparare a modulare la connettività tra le zone cerebrali deputate al senso di colpa. Così facendo, imparano a gestire questa emozione e a evitare un calo della propria autostima, traendo così dei benefici per prevenire eventuali ricadute.

Le implicazioni di questo studio sono principalmente di tipo clinico, tuttavia i ricercatori sottolineano la necessità di ulteriori studi sperimentali prima di introdurre il neurofeedback come possibile terapia per il disturbo depressivo maggiore (Zhan et al., 2019)

 

L’astrologia non funziona, ma ci crediamo. Un’analisi dei processi psicologici

Nella quotidianità si è spesso interrogati da amici, parenti o semplici conoscenti sul proprio segno zodiacale, ed allo stesso modo è molto comune trovare oroscopi su quotidiani, giornali, tv e internet. Tutto questo rientra nelle pratiche tipiche dell’Astrologia, una pseudoscienza particolarmente antica, che ancora oggi ha numerosi seguaci.

 

L’astrologia si basa sulla credenza che la posizione e i movimenti dei pianeti influenzino la personalità, i comportamenti e le azioni delle persone e che attraverso la ricognizione e l’interpretazione della posizione degli astri sia possibile prevedere il futuro individuale e collettivo (Zarka, 2009). Allo stesso modo, l’astrologia ritiene che in base alla posizione delle stelle e dei pianeti al momento della nascita sia possibile identificare un tema astrale (o tema natale) che permette di leggere e individuare le caratteristiche, attitudini e tendenze personali (Zarka, 2009).

Innumerevoli ricerche hanno dimostrato che l’Astrologia è una pseudoscienza basata su credenze e convinzioni prive di alcuna validità scientifica (Ben-Shakhar, & Barr, 2018; Smith, 2011; Zarka, 2009). Nonostante questo, dati della European Commission (2005) hanno evidenziato come il 13% dei cittadini europei considerino l’oroscopo una disciplina scientifica, mentre un’indagine della Doxa (1998) indica che circa il 30% degli italiani afferma di credere nell’astrologia, mentre il 40% circa afferma di credere che gli astri influenzino il carattere delle persone. Ad oggi le stime sul numero di persone che si affidano agli astrologi sono limitate, ma i rapporti Eurispes (2002; 2010) valutano tra i 10 e gli 11 milioni il numero di Italiani (intorno al 18%) che si rivolgono a consulti pseudoscientifici, con una media di 33.000 persone al giorno che chiedono consulti magici. Eurispes (2010) ha anche quantificato il numero di maghi e astrologi intorno alle 155.000 unità nel territorio italiano, inoltre “l’economia dell’occulto” è stata quantificata su cifre superiori ai cinque milioni di euro l’anno con tassi di evasione molto alti (Alibrandi, & Centorrino, 2014; Eurispes, 2002; 2010).

La psicologia si è occupata in diverse occasioni dell’astrologia, dimostrando da un lato l’infondatezza delle previsioni e dei profili caratteriali definiti attraverso l’oroscopo, dall’altro occupandosi della comprensione dei processi che portano le persone a crederci (Allum, 2011; Dean, & Kelly, 2003; Hamilton, 2001). In due larghi studi su un campione totale di oltre 15000 partecipanti, Hartmann, Reuter, e Nyborg (2006) hanno, infatti, verificato l’assenza di relazioni sia della data di nascita che del segno zodiacale con differenze nella personalità, e nei punteggi ai test di intelligenza, concludendo l’assenza di correlazioni fra caratteristiche psicologiche e le configurazioni zodiacali. In una grossa revisione di studi, Dean e Kelly (2003) hanno verificato il funzionamento delle pratiche astrologiche in situazioni controllate. Nello specifico, attraverso il confronto di quaranta studi che hanno testato l’affidabilità di circa 700 astrologi nell’associare i temi astrali di circa 1150 partecipanti ai corrispettivi profili personali e storie di vita, è emerso che gli astrologi tendono ad indovinare un numero di associazioni simile a quello che darebbe a caso un non astrologo. Altri test raccolti da Dean e Kelly (2003) hanno mostrato che chiedendo a dei partecipanti di scegliere l’interpretazione del proprio tema astrale tra un gruppo di profili resi anonimi, la percentuale di risposte corrette era assolutamente casuale, portando alla conclusione che non ci sono prove che la descrizione dell’oroscopo sia discriminante di una persona piuttosto che un’altra e che le descrizioni specifiche dei temi astrali possano in realtà adattarsi a tutti. Un’altra meta-analisi, riportata da Dean e Kelly (2003) su 25 studi che hanno coinvolto un totale di circa 5000 astrologi, ha approfondito il grado di accordo tra astrologi diversi nell’interpretare lo stesso tema astrale, con risultati di accordo simili a zero che enfatizzano l’arbitrarietà dell’oroscopo.

Risulta quindi paradossale come ci possa essere tutto questo interesse per l’astrologia nonostante non ci sia alcun fondamento scientifico a supporto di questa pratica. La psicologia ha quindi cercato di approfondire anche i meccanismi che portano le persone a crederci, notando come spesso chi utilizza l’oroscopo abbia la percezione che il profilo descritto si adatti perfettamente alla propria persona. Questo processo può essere facilmente spiegato attraverso l’effetto Barnum (Glick, Gottesman, & Jolton, 1989) o Effetto Forer (chiamato anche effetto di convalida soggettiva), che consiste in un fenomeno psicologico per cui le persone tendono a riconoscersi in affermazioni ed interpretazioni di personalità generali, molto comuni e vaghe, se sono convinti che siano state preparate appositamente per loro (Dickson, & Kelly, 1985). Uno studio classico su questa tematica è quello di Forer (1949) che ha condotto un esperimento con alcuni studenti del suo corso, chiedendo loro di compilare un test di personalità e di valutare quanto ritenessero che il profilo fornito individualmente dopo qualche giorno, fosse in linea con la loro personalità. Gli studenti fornirono punteggi molti alti di concordanza, nonostante, a loro insaputa, il professor Forer avesse fornito a tutti lo stesso profilo di personalità, creato con affermazioni generiche ed approssimative prese da un libretto di oroscopi acquistato in edicola (per maggiori dettagli sull’esperimento di Forer consulta l’articolo di State of Mind). Studi successivi (Dickson, & Kelly, 1985) hanno dimostrato che questo effetto è più forte se la persona che riceve la descrizione ritiene che l’analisi sia personalizzata ed esclusiva di sé e se chi effettua la descrizione viene percepito come “autorevole”. Allo stesso modo, le descrizioni ed interpretazioni costituite principalmente da tratti e caratteristiche positive tendono anche ad essere considerate maggiormente veritiere rispetto a quelle caratterizzate da aspetti negativi (Dickson, & Kelly, 1985), per questo motivo generalmente le previsioni astrologiche sono favorevoli e forniscono speranze che le rendono particolarmente attrattive riuscendo ad incuriosire anche alcuni scettici (Glick, et al., 1989).

Oltre l’uso di affermazioni generiche nelle quali è semplice riconoscersi, l’astrologia si fa forza della tendenza a verificare la vaga previsione astrologica a posteriori da parte degli utenti. Una frase generica come: “l’incontro con una persona cambierà la tua giornata”, potrebbe essere applicata a tantissimi contesti, persone e situazioni, ed è così vaga che è altamente probabile che si avveri, ma indipendentemente se l’incontro sia con un amico, parente, conoscente o collega si potrebbe poi giungere a confermare che quello che era stato predetto si è effettivamente avverato. Questo significa che chi va dall’astrologo o legge l’oroscopo potrebbe applicare inconsapevolmente un “bias di conferma” alle numerose dichiarazioni ambigue che riceve, trovando agganci a eventi accaduti nella propria vita che possano confermare previsioni astrologiche (Lindeman, 1998). Il bias di conferma, infatti, è un errore cognitivo che porta inconsapevolmente a ricercare, interpretare e attribuire maggiore credibilità alle informazioni che confermano le proprie idee, aspettative, ipotesi e credenze (Nickerson, 1998; Oswald, & Grosjean, 2004). Applicando questa forma di pensiero selettivo, è molto probabile che il cliente/lettore cercherà inconsapevolmente di adattare alla propria condizione le vaghe informazioni plausibili fornite dall’astrologo, ma dimenticando o trascurando quelle incompatibili. Allo stesso modo, in linea con gli studi sulla profezia che si auto-avvera (Jussim, 1986), chi crede all’astrologia e all’oroscopo, inconsapevolmente si comporterà in modo da far avverare le previsioni ricevute (Snyder, & Glick, 1986). Continuando con l’esempio precedente, se un ragazzo legge nel suo oroscopo che “l’incontro con una persona cambierà la tua giornata”, probabilmente in modo inconsapevole farà più attenzione alle relazioni con gli altri, cercherà di essere più socievole ed estroverso, aumentando le probabilità che l’oroscopo abbia ragione (per maggiori dettagli sulla profezia che si auto-avvera consulta l’articolo di State of Mind)!

L’astrologia condivide con le altre pseudoscienze la tendenza a fornire soluzioni facili alle difficoltà della vita, alimentando false speranze con ricette affascinanti e semplici da mettere in pratica (Ben-Shakhar, & Barr, 2018). Anche la promessa di sapere in anticipo il futuro riduce la paura e l’incertezza per quello che potrà accadere, e l’astrologia fornisce una serie di affermazioni piacevoli e lusinghiere in grado di offuscare la realtà dei fatti, specialmente in situazioni di particolare stress o difficoltà. Risulta quindi chiaro come l’astrologia basi il suo successo sullo sfruttamento a proprio favore di un insieme meccanismi psicologici che involontariamente fanno credere all’esistenza di qualcosa che non esiste (Lillqvist, & Lindeman, 1998). Alla luce di queste considerazioni, risulta fondamentale promuovere una cultura scientifica che permetta di discriminare le pratiche scientifiche da quelle pseudoscientifiche come l’astrologia, nonostante la popolarità ed il fascino illusorio che possano avere.

Ipnosi e terapia del dolore – Intervista al Professor Giuseppe De Benedittis

Le applicazioni dell’ipnosi, come trattamento in sé o come intervento complementare finalizzato alla gestione del dolore, coprono una nutrita varietà di ambiti per cui le ritroviamo nel dolore acuto e nel dolore cronico.

 

La terapia e la gestione del dolore, inteso e valorizzato come quinto segno vitale del paziente, hanno una storia relativamente recente.

Definendo il dolore come un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di tale danno (IASP, 1986) viene spontaneo chiedersi quale strumento o approccio possa comprendere ed integrare il più ampio numero di questi aspetti nel processo di cura.

I tentativi per arginare quest’esperienza spiacevole, di cui, solo nel tempo, è stata riconosciuta la complessità, hanno accompagnato la storia dell’uomo fin dalle origini con i metodi più particolari, arrivando all’attuale approccio multidisciplinare.

Per questo e altri quesiti siamo andati ad intervistare il Professor Giuseppe De Benedittis, psichiatra e psicoterapeuta, anestesiologo e neurochirurgo. Giuseppe De Benedittis è Professore Associato di Neurochirurgia presso l’Università degli Studi di Milano (1986), Direttore del Centro per lo Studio e la Terapia del Dolore dell’Università di Milano (1988-), Responsabile dell’U.O. “Terapia del Dolore” dell’Ospedale Maggiore Policlinico IRCCS di Milano (2000-), Docente nella Scuola di Specializzazione in Neurochirurgia (1981-), in Medicina Fisica e Riabilitazione (1981-) e in Malattie del Sistema Nervoso dell’Università di Milano (1995).

Le applicazioni dell’ipnosi, come trattamento in sé o come intervento complementare finalizzato alla gestione del dolore, coprono una nutrita varietà di ambiti per cui le ritroviamo: nel dolore acuto (in chirurgia, ostetricia, odontoiatria, nel trattamento dei grandi ustionati…) e nel dolore cronico (cefalee croniche primarie, algie orofacciali, algie muscolo-scheletriche, mal di schiena aspecifico, dolore neuropatico, dolore oncologico, dolori viscerali e urogenitali, dolore psicogeno).

Nel Blue Book, di cui il Professor De Benedittis è stato uno degli autori, oltre a una sistematizzazione della letteratura scientifica evidence based essenziale e relativa alle principali applicazioni dell’ipnosi in medicina/chirurgia, in psichiatria/psicoterapia, in medicina psicosomatica e in popolazioni speciali, ritroviamo anche utili riferimenti per orientare il pubblico interessato all’ipnosi, tramite parti psico-educazionali e riferimenti di centri e professionisti presenti sul territorio nazionale, divisi per regione e per competenza.

Questo libro sembra anticipare uno degli attuali propositi del board dell’International Society of Hypnosis di portare l’ipnosi ad essere riconosciuta a pieno titolo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità fra i trattamenti efficaci in primis nella gestione del dolore.

Ipnosi e terapia del dolore: indice dell’intervista 

0:39 Ipnosi e gestione del dolore hanno avuto uno stretto legame fin dalle origini dell’ipnosi stessa. Quali sono state le prime applicazioni e come si declina questo legame oggi?

1:52 Ha curato assieme al dott. Claudio Mammini e al dott. Nicolino Rago Blue Book – Una guida all’ipnosi evidence based, che sistematizza la letteratura scientifica dell’ipnosi in base al grado di efficacia. Che sviluppo vede per l’ipnosi clinica e l’ipnoterapia ericksoniana in tal senso?

4:11 L’attenzione pubblica si sta mostrando sempre più sensibile verso la fibromialgia. Quali trattamenti possono giovare a chi soffre di questa sindrome? E l’ipnosi che ruolo può avere?

6:23 Nel Blue Book viene spesso citata l’ipnoanalisi. Ci può spiegare meglio in cosa consiste, quali sono i vantaggi che la rendono efficace e come la utilizza nella sua pratica clinica?

9:20 Una delle sfide in cui è attualmente impegnato è far riconoscere all’Organizzazione Mondiale della Sanità le applicazioni cliniche dell’ipnosi nel campo della terapia dolore. Ce ne può parlare?

 

GUARDA L’INTERVISTA IN VERSIONE INTEGRALE:

 

Adolescenti senza tempo (2018) di M. Ammaniti – Recensione del libro

Adolescenti senza tempo offre un interessante contributo all’analisi del cambiamento negli anni del concetto di adolescenza, proponendo un viaggio che coniuga teorie del passato e nuove ricerche.

 

Nel libro Adolescenti senza tempo, Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore onorario dell’Università la Sapienza di Roma, offre un ricco contributo nell’esaminare il cambiamento negli anni del concetto di adolescenza, a partire dagli studi dei primi anni del ‘900 ai giorni nostri.

Sarebbe infatti anacronistico, per chi si relaziona con gli adolescenti di oggi, cercare chiavi di lettura nei libri di psicologia degli ultimi 50 anni, che fanno riferimento ad adolescenti contestualizzati in una società che non ha più nulla a che fare con la nostra società attuale. Per supportare questo punto di vista, Ammaniti accompagna il lettore in un viaggio interessante nelle teorie del passato, che parte dalla pubblicazione di Stanley Hall nel 1904 del suo manuale, che sancisce la nascita concettuale dell’adolescenza, per passare agli scritti di Sigmund Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, dell’anno successivo, dove ha dedicato una parte alle trasformazioni della pubertà. In particolare si sofferma sulle teorie di Hall, confrontandole con le ricerche recenti sulla biologia e sullo sviluppo neurocerebrale che contraddistinguono questa fase della vita. L’aspetto contestualista viene proposto riprendendo il famoso studio di Margaret Mead sugli adolescenti dell’isola di Samoa e più recentemente l’idea di un cervello “culturalizzato” dell’antropologa Suparna Choudhury.

Il terzo capitolo è dedicato al famoso caso di Dora di Freud, che si legge sempre con grande piacere, per passare al quarto capitolo con gli scenari del dopoguerra, caratterizzati dall’irrompere di una gioventù ribelle e sovversiva, rappresentata nel mondo del cinema, con film che hanno segnato la storia come Gioventù Bruciata e Il seme della violenza, e nella letteratura degli anni ’50, con il famoso Il giovane Holden di J.D. Salinger. Da qui avviene una profonda linea di demarcazione nel modo giovanile, che inizia un movimento di separazione dal nido genitoriale, per avvicinarsi a un senso di identità gruppale, dove il ragazzo può sperimentare un nuovo senso di appartenenza, come viene raccontato nel quarto capitolo del libro insieme a storie di adolescenti, come il caso di Adriano.

Oggi sembra difficile, se non impossibile, inquadrare gli adolescenti nell’ottica delle generazioni precedenti. L’era digitale dei social network, a partire dalla generazione dei millennials, ha cambiato le carte in tavola nella costruzione del senso di identità di gruppo, lasciando spesso gli adolescenti di oggi smarriti e soli, con una grande difficoltà a costruire relazioni con i pari autentiche e nelle quali crescere attraverso un confronto costruttivo. Anche su questo tema vengono proposti diversi esempi clinici, con una chiave di lettura psicoanalitica e rivolta al bisogno narcisistico dei nuovi adolescenti di trovare un equilibrio tra il bisogno di identificazione e crisi di identità. Un’adolescenza che in alcuni casi sembra non avere mai fine. Il nono capitolo è dedicato alle caratteristiche ormonali e cerebrali tipiche di questa fase della vita, che possono portare in modo transitorio a un “disallineamento dello sviluppo” e che si può manifestare attraverso la messa in atto di comportamenti a rischio. Prendendo spunto da ricerche recenti, Ammaniti propone una disamina del comportamento digitale e dell’uso dei social network come canale per la ricerca di una nuova immagine di sé, mettendo in luce i rischi che ciò può comportare. L’ultimo capitolo è dedicato ai genitori, con i loro vissuti di smarrimento e senso di impotenza dai quali spesso vengono travolti, incapaci di trovare risposte di fronte a questi nuovi scenari.

Un libro molto interessante e ricco di spunti sui quali riflettere, su un argomento che appartiene a tutti noi, pur facendo parte di una generazione ormai démodé.

Riattivare i neuroni ‘’spenti’’ delle persone in stato di alterazione di coscienza? Potrebbe essere possibile grazie alle stimolazioni trans-craniche

Un recente studio mostra come alcuni tipi di stimolazione transcranica possano migliorare le funzioni uditive, visive, motorie e comunicative, ma non le capacità verbali di pazienti in stato di minima coscienza.

 

Quando parliamo di coscienza facciamo implicitamente riferimento alla vigilanza e alla consapevolezza: la prima riguarda la capacità della persona di rimanere deliberatamente sveglia, mentre la seconda si riferisce alla consapevolezza che l’individuo ha di se stesso e dell’ambiente circostante.

Può capitare che, dopo un trauma a livello cerebrale, si verifichi un’alterazione dello stato di coscienza. Le alterazioni di coscienza possono quindi riguardare la vigilanza, rappresentata da un continuum che va dalla veglia al coma, e la consapevolezza, nella quale abbiamo da una parte la piena consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante e all’opposto troviamo la totale assenza di queste facoltà cognitive.

Una delle alterazioni di coscienza maggiormente studiate in letteratura è lo stato di coma. Ippocrate lo definì come ‘’Il cadavere in sonno letargico”. La persona che si trova in questa condizione ha perso totalmente la consapevolezza di sé e dell’ambiente; anche la vigilanza risulta completamente assente, infatti il soggetto non può essere svegliato né con stimoli verbali né tramite stimoli dolorosi. È tuttavia diverso dalla morte cerebrale, dato che alcune funzioni cerebrali nello stato di coma rimangono attive (ad esempio, in alcuni casi il soggetto è in grado di respirare da solo) (Baruss, 2003).

Si parla di stato di minima coscienza (MCS) quando il soggetto mostra consapevolezza di sé e/o dell’ambiente minime, come ad esempio l’apertura degli occhi se stimolato, oppure seguire con lo sguardo uno stimolo visivo (Giacino et al., 2002). L’ MCS è una condizione clinica che si può verificare a seguito di danni cerebrali, o come evoluzione di stadi come il coma o lo stato vegetativo (presenza di vigilanza ma assenza di coscienza). Questa condizione è oggetto di molteplici studi sperimentali atti a trovare terapie efficaci: le due metodologie più indagate al momento sono la stimolazione transcranica a corrente diretta continua (tDCS) e la ripetuta stimolazione magnetica transcranica (rTMS).

Entrambe sono metodologie non invasive, più nello specifico:

  • tDCS: tecnica di neuro-modulazione, che consiste nell’applicare due elettrodi sullo scalpo della persona che genereranno una corrente elettrica continua di 1-2mA; la stimolazione può essere anodica, nel caso si volesse provocare un’eccitazione delle zone stimolate, e catodica, per inibire le zone stimolate (Sadleir et al., 2010).
  • rTMS: tecnica di neuro-modulazione, basata su una bobina che genera un campo magnetico che va a interferire con l’attività elettrica neuronale; anche in questo caso è possibile applicare una stimolazione ad alta frequenza per eccitare, oppure a bassa frequenza per inibire, determinate zone cerebrali (Paulus,2005).

I ricercatori Yicong Lin e Yuping Wang hanno condotto uno studio sperimentale atto a verificare l’effetto di una stimolazione anodica tramite la tDCS e di una stimolazione ad alta frequenza tramite la rTMS su pazienti in stato di minima coscienza. Si tratta di uno studio pilota, infatti il campione era composto da due soggetti con condizioni cliniche simili, quindi entrambi in stato di MCS.

I due partecipanti sono stati suddivisi uno nella condizione sperimentale (veniva quindi stimolato tramite tDCS e rTMS) e uno nella condizione di controllo (nessuna stimolazione). Al fine di valutare l’efficacia del trattamento, i ricercatori hanno misurato il grado di severità del coma tramite degli appositi strumenti, come la Glasgow Coma Scale (GCS) prima, durante e dopo il trattamento.

I risultati mostrano un miglioramento significativo, che perdura nel tempo nel soggetto che è stato sottoposto alla stimolazione: in particolare si registra un miglioramento nelle funzioni uditive, visive, motorie e comunicative; rimangono tuttavia invariate le capacità verbali (Lin et al., 2019).

In conclusione, la stimolazione tramite la tDCS e la rTMS risulta essere efficace e in grado di apportare dei benefici ai soggetti in stato di minima coscienza; tuttavia i ricercatori suggeriscono il bisogno di ulteriori studi, per perfezionare e comprendere al meglio come utilizzare le suddette procedure cliniche, per massimizzarne gli effetti terapeutici (Lin et al., 2019).

 

Modulare la coscienza stimolando l’epitelio olfattivo? È possibile!

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa ha indagato il legame tra respiro e coscienza, due mondi apparentemente lontani, ma incredibilmente vicini, come già testimoniato dalle tecniche del respiro lento meditativo che possono arrivare a provocare veri e propri stati alterati di coscienza.

 

Negli ultimi anni la meditazione si sta diramando sempre di più anche in occidente, i suoi potenti effetti sulla mente e sul corpo sono stati riconosciuti dalla comunità scientifica e gli studi a riguardo hanno subito un notevole incremento. C’è un elemento di grande interesse che caratterizza le pratiche meditative: il controllo volontario del respiro. Le tecniche di respirazione lenta vengono impiegate in maniera versatile, nel caso della meditazione queste tecniche provocano dei veri e propri stati alterati di coscienza (Goleman, 1997). Lo stato modificato di coscienza si caratterizza per una percezione sempre più fine di sé, un distacco da tutti gli altri eventi e una concentrazione al momento presente. Il connubio intrigante tra respiro e coscienza ha spinto un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa a indagare questo legame apparentemente lontano, ma incredibilmente vicino.

Quali sono gli effetti delle tecniche di respirazione lenta sul nostro cervello?

Una considerevole mole di studi ha messo in evidenza come la meditazione abbia la capacità di modificare l’attività cerebrale, grazie all’EEG sappiamo che porta ad un incremento dell’attività theta (4-8 Hz) in molte regioni cerebrali (Aftanas et al., 2001). La respirazione lenta, direttamente collegata alla meditazione, è anch’essa in grado di elicitare notevoli modificazioni: quando su modelli animali hanno stimolato l’epitelio olfattivo con ritmi lenti è stata ritrovata la stessa frequenza a livello corticale. Negli animali il ritmo della respirazione riesce a sintonizzare l’attività di scarica di neuroni lontani dalla corteccia olfattiva. Questi pattern straordinari non sono osservabili nel caso di respirazione con la bocca e nel caso della tracheotomia. Una visione fin troppo semplicistica ha portato all’errore di considerare i neuroni olfattivi semplicemente come rilevatori di odori, oggi possiamo affermare che le loro capacità vanno ben oltre, questi neuroni se stimolati riescono addirittura a rispondere a stimoli di natura meccanica (Grosmaitre et al., 2007). Come correliamo quello che la ricerca ha individuato tramite l’elettrofisiologia con quello che la persona percepisce durante la meditazione? Le oscillazioni lente dovute alla respirazione individuate a livello corticale si associano a ciò che la persona esperisce: aumento dell’attenzione verso l’interno, miglior focalizzazione su quanto accade al momento presente, abbassamento dei livelli d’ansia e di stress (Goleman, 1997).

È possibile ricreare quello che accade durante la meditazione?

Assolutamente sì! Un gruppo di ricerca dell’Università di Pisa, partendo dagli studi sulla meditazione, si sono focalizzati non tanto sulle tecniche meditative che hanno la respirazione lenta solo come effetto secondario, ma sono andati a indagare i correlati della respirazione lenta. Il loro lavoro nasce dall’ipotesi che l’accoppiamento respirazione-attività neurale sia in grado di modulare il comportamento e lo stato di coscienza nell’uomo. Quello che hanno fatto è stato ricreare una condizione simil-meditativa: per simulare la respirazione lenta della meditazione, hanno utilizzato un’apposita cannula nasale per stimolare periodicamente (8 secondi di stimolazione e 12 secondi senza stimolazione) l’epitelio olfattivo attraverso aria compressa inodore ad una frequenza di 0,05 Hz per 15 minuti. Questa frequenza specifica non è frutto del caso, ma è stata scelta in quanto replica le frequenze lente della respirazione nelle pratiche meditative (Arambula et al., 2001; Jerath et al., 2006). Per l’indagine sperimentale sono stati scelti 12 soggetti sani, ognuno ha preso parte a due sessioni diverse: una sperimentale che prevedeva la stimolazione nasale (detta “nasal stimulation”, NS) e una di controllo in cui la stimolazione era assente (detta “controllo session”, CS). Le due sessioni si sono svolte ad una settimana l’una dall’altra e in entrambi i casi i soggetti sono stati monitorati con l’EEG, successivamente i ricercatori hanno confrontato i dati raccolti ottenuti nelle due diverse fasi dell’esperimento.

Quello che emerge assume un’importanza enorme: unicamente nella fase post NS è stato registrato un aumento delle frequenze theta e delta nella corteccia orbitofrontale, prefrontale mediale (bilaterale per theta, destra per delta), giro paraippocampale, corteccia entorinale, corteccia cingolata destra e nel precuneo (Piarulli et al., 2018). Un altro aspetto importante che emerge dallo studio riguarda la direzione del flusso delle informazioni: nella condizione post stimolazione il flusso ha subito un’inversione rispetto alla condizione pre-stimolazione per la frequenza theta. Nella veglia la direzione del flusso delle informazioni è postero-anteriore, invece sia nel sonno REM che nel sonno NREM la direzione è antero-posteriore.

I soggetti hanno percepito qualcosa di diverso con la stimolazione nasale?

Le due sessioni a livello elettrofisiologico sono diverse tra di loro, i dati EEG indicano che accade sicuramente qualcosa nei soggetti, ma cosa hanno percepito veramente? Si sono accorti della differenza tra le due sessioni? I ricercatori sono riusciti a ricreare uno stato simil-meditativo?

Per indagare a fondo l’esperienza soggettiva vissuta da ogni singolo partecipante è stato utilizzato il Phenomenology of Consciousness Inventory (PCI). Questo strumento ha permesso di associare ai dati EEG il vissuto esperienziale dei partecipanti durante la stimolazione: queste persone hanno riportato di sentirsi come in uno stato modificato di coscienza, hanno percepito il tempo in maniera diversa e hanno notato un aumento dell’attenzione rivolta all’interno. Le sensazioni che emergono sono le stesse che provano coloro che praticano la meditazione, chi pratica determinate tecniche riesce a vivere uno stato modificato di coscienza e riesce anche focalizzarsi maggiormente su ciò che accade all’interno e non all’esterno. L’esperienza vissuta dai partecipanti allo studio si associa perfettamente con quanto registrato dall’EEG.

Ad oggi il tema della coscienza è tanto intrigante quanto complicato, la respirazione potrebbe essere un varco per far luce su questo mondo così difficile da comprendere. Questo lavoro è sorprendente perché permette di andare oltre il ruolo classico a cui siamo abituati della respirazione, inoltre, ci consente di capire quanto la sola respirazione sia in grado di aiutarci nell’arduo compito di comprendere la coscienza.

Change: sulla formazione e la soluzione dei problemi. (1974) di P. Watzlawick, J.H. Weakland, R. Fisch – Recensione del libro

Change è un testo ricco di contenuti teorici ed aspetti pratici e operativi, nel quale Paul Watzlawick, John H. Weaklend e Richard Fisch hanno messo in luce la loro capacità di scrivere in maniera coinvolgente, cominciando a formulare sul panorama della psicologia aspetti di un approccio terapeutico innovativo e originale.

 

Di teoria del cambiamento ce n’è a bizzeffe, ma è la prima volta che in una teoria del cambiamento viene assunto seriamente ad oggetto di analisi il cambiamento stesso per accertare sia come si verifica spontaneamente sia come si può provocarlo

Così recita la prefazione del testo Change scritta direttamente da Milton Erickson, un testo edito nel 1974, ma fortemente innovativo e attuale per contenuti e stile.

Paul Watzlawick, John H. Weaklend e Richard Fisch, in questa opera hanno messo in luce la loro capacità di scrivere in maniera coinvolgente cominciando a formulare sul panorama della psicologia aspetti di un approccio terapeutico innovativo e del tutto originale, come conoscere problemi attraverso le loro soluzioni, il concetto di tentate soluzioni, la distinzione tra cambiamento di tipo 1 e cambiamento di tipo 2, l’utilizzo dei paradossi; un testo contenente contributi teorici uniti ad aspetti pratici ed operativi.

Cambiamento1 e Cambiamento 2

Come ben si deduce dal titolo, il tema centrale del testo è il cambiamento unito all’approfondimento di ciò che lo può favorire così come ciò che lo può ostacolare.

Interessante nota descritta dagli autori diventa la presentazione di come il terapeuta, riuscendo a conoscere come si è formato e come si mantiene il problema del paziente, possa strategicamente utilizzare lo stesso comportamento come prescrizione paradossale per favorirne il cambiamento.

Il testo parte con la distinzione tra cambiamento1 e cambiamento 2. Il primo rimanderebbe al concetto di omeostasi, ossia la tendenza di ogni organismo vivente, compreso l’uomo, a mantenere una sorta di stabilità interna al sistema, aspetto che spiegherebbe anche la resistenza al cambiamento stesso, e cambiamento 2 invece quando il cambiamento sarebbe introdotto nel sistema dall’esterno risultando non familiare e anche “poco logico”, ma l’originalità, la deviazione dalle comuni norme e regole ordinarie della logica, sono ciò che contraddistingue lo stile di pensiero degli autori e che, secondo gli stessi, faciliterebbe il cambiamento.

Nei vari capitoli si susseguono diversi modelli originali come “più di prima” dove spesso sono proprio le tentate soluzioni (altro concetto coniato dalla Scuola di Palo Alto) messe in atto dalla persona nel tentativo di provocare un cambiamento ad aumentare e generare il problema, individuando anche le tre modalità più frequenti come: negare il problema, tentare di cambiare una situazione immutabile, agire un cambiamento ad un livello sbagliato. Ognuno di questi concetti viene sempre accompagnato da spiegazioni ed esempi che ne facilitano la comprensione da parte del lettore.

Dal terribile semplificateur all’utipista

Altra distinzione interessante che viene proposta in termini di genesi e/o mantenimento dei problemi, è quella del terribile semplificatore e dal suo lato opposto l’utopista dove, se da una parte il primo tende a non voler vedere i problemi e negarli come si diceva precedentemente, dall’altra parte l’utopista è colui che vede soluzioni dove non ce ne sono. Sia in un senso che nel suo opposto, l’abilità del terapeuta deve risiedere nel riuscire a contemplare, guardando attraverso gli occhi del paziente, anche strategie a volte bizzarre, apparentemente magiche o illogiche, che possano servire a sbloccare lo stallo del paziente.

I paradossi

Altro tema centrale all’interno del testo e strumento terapeutico poi all’interno dell’approccio strategico è il ricorso ai paradossi, come quello del Sii spontaneo, che come ben fanno notare gli autori, come potrebbe  una richiesta di un comportamento che per sua natura dovrebbe avvenire spontaneamente, realizzarsi su richiesta? E in merito a tale paradosso gli esempi variano dall’ambito delle problematiche di coppia, all’ambito delle problematiche tra genitori e figli, ritrovabile anche nelle dinamiche dei disturbi del sonno, nei disturbi della sfera sessuale o anche in ambito sociale.

Gli autori sottolineano poi come aspetti essenziali per favorire un cambiamento2 diventerebbe agire nel qui ed ora, provando ad interrogarsi più su che cosa mantiene il problema oppure su che cosa una persona ha messo in atto fino a quel momento per favorire il cambiamento (tentate soluzioni), piuttosto che sul perché, che rimanderebbe al passato, tempo in cui non si può più agire in alcun modo, se non con un altro strumento descritto all’interno del testo ossia la ristrutturazione. Tale tecnica, riportando la descrizione che gli autori forniscono all’interno del testo, consiste nel

dare una nuova struttura alla visione del mondo concettuale e/o emozionale del soggetto e porlo in condizione di considerare i “fatti” che esperisce da un punto di vista tale da permettergli di affrontare meglio la situazione anziché eluderla, perché il modo nuovo di guardare la realtà ne ha mutato completamente il senso.

Ed ancora

la ristrutturazione non cambia i fatti concreti ma il significato che il soggetto attribuisce alla situazione

perché come affermava già Epitteto:

non sono le cose in se stesse a preoccuparci ma le opinioni che ci facciamo di esse.

La pratica del cambiamento

Nel capitolo nono gli autori, dalla loro esperienza clinica e di ricerca, giungono a formulare un processo a quattro gradini attraverso il quale affrontare problemi:

  • Una definizione chiara del problema in termini concreti;
  • Un’analisi della soluzione  finora tentata;
  • Una chiara definizione del cambiamento concreto da effettuare;
  • La formulazione e la messa in atto di un piano per provocare tale cambiamento.

Una messa a punto dunque di una strategia di problem solving, altamente funzionale ed efficace.

L’ultima parte del testo si arricchisce di esempi, offrendo anche spunti di tecniche e strategie paradossali applicate ad estratti di casi clinici per favorire il cambiamento e dove i titoli non possono non incuriosire o rimanere impressi nella mente del lettore; ne sono esempi il disoccultare l’occulto, pubblicizzare anziché nascondere, utilizzare la resistenza per abbattere la stessa, sabotaggio benevole ed il patto con il diavolo.

Un testo non recente, ma fortemente attuale, che con eleganza e maestria riesce a creare connessioni tra psicologa, filosofia, storia e discipline orientali, con aspetti innovativi senz’altro rispetto alle tradizioni psicoanalitiche che per molto tempo hanno dominato il mondo della psicologia e con contributi condivisi da altri orientamenti teorici come ad esempio, con la terapia cognitivo comportamentale con la quale condividono l’attenzione al presente, l’agire nel qui ed ora, il fornire un ruolo attivo al paziente e lavorare in termini di ristrutturazione, ognuno poi mantenendo le proprie specificità ed unicità. Un testo dunque che a mio avviso non può mancare nel bagaglio del professionista che opera per favorire il cambiamento.

 

Il dono nella cultura greca: dal dono al dono funesto

La pratica del dono, nelle culture arcaiche, come abbiamo visto, rientra nei comportamenti improntati alla reciprocità, ovvero all’obbligo di compiere, a fronte di un’azione, un’altra azione uguale in direzione contraria. Il dono è lo strumento con cui si creano i vincoli ospitali, che si passano in eredità all’interno del gruppo familiare. Questa pratica nell’antica Grecia veniva definita xenia, appunto ospitalità.

 

La pratica della Xenia veniva tutelata da Zeus xenios (protettore degli ospiti) il quale si fa anche garante della reciprocità ovvero che l’ospitante possa in futuro ricevere una eguale forma di assistenza.

La xenia si reggeva su un sistema di prescrizioni e consuetudini non scritte che si possono riassumere in tre regole di base:

  • il rispetto del padrone di casa verso l’ospite
  • il rispetto dell’ospite verso il padrone di casa
  • la consegna di un regalo d’addio all’ospite da parte del padrone di casa.

La strutturazione dello xenia creava un vincolo indissolubile tra ospitante e ospitato, tant’è che nell’Iliade, Glauco e Diomede, due guerrieri che militano su fronte opposti, sul campo di battaglia scoprono di essere legati dal vincolo dell’ospitalità. Infatti, Diomede, all’inizio del duello, indaga sulle origini di Glauco scoprendo che Oineo, padre di Diomede, aveva ospitato un tempo Bellerofonte, antenato di Glauco e si erano scambiati doni ospitali. A quel punto Diomede così si rivolge Glauco “io sono per te in Argo ospite caro, tu in Licia, se mai io giunga tra quel popolo”. A quel punto cessano le ostilità e si scambiano le armi.

Sempre nell’Iliade, vi è un caso di alterazione delle regole e del rituale dello xenia. Paride, che era ospite di Menelao, rapisce Elena non comportandosi da soggetto ospitato scatenando una guerra che durò parecchi anni delle città greche contro Troia, patria di Paride. Nell’Odissea, vi è un caso altrettanto significativo di ospitalità negata che contravviene alle norme comportamentali riconosciute. Ulisse da straniero bisognoso cerca di stabilire un vincolo relazionale chiedendo un dono ospitale a Polifemo. Quest’ultimo, negando ogni forma di ospitalità, risponde che lo avrebbe divorato per ultimo. Tra l’altro, al contrario di quanto avviene nelle regole dell’ospitalità in cui è il padrone di casa che offre doni agli ospiti, sono Ulisse e i suoi compagni che offrono in dono il vino a Polifemo. Il vino offerto risulta un dono avvelenato poiché serve per ubriacare Polifemo per poi poterlo accecare. Ulisse, nelle opere di Omero, è il creatore e fautore dei doni avvelenati. Nell’Iliade, infatti, crea e favorisce la costruzione del cavallo che serve a sconfiggere definitivamente i troiani.

Più tardi, Virgilio nell’Eneide fa dire a Laocoonte “timeo Danaos et dona ferentis” (Temo i greci anche quando/se portano doni) nel tentativo di dissuadere i troiani dall’accogliere il dono del cavallo e dal trasportarlo dentro le mura. Il dono senza un ricambio, ovvero quello a senso unico, è un dono ingannevole. Nella cultura Greca, vi sono tanti esempi di doni avvelenati. Sofocle nelle Trachinie racconta che Nesso, in punto di morte, aveva donato a Deianira un poco del suo sangue spacciandolo come un filtro amoroso. Quest’ultima, in preda alla gelosia, per riconquistare Eracle gli manda in dono una veste intrisa di questo sangue. Eracle muore in mezzo a dolori strazianti indossando la veste. La stessa sorte tocca alla futura sposa di Giansone, nella Medea di Euripide, che muore insieme al padre a seguito del dono ricevuto da Medea (una veste e una ghirlanda di fiori). In quest’opera c’è di più nel dono ingannevole. Medea, infatti, non solo attraverso un regalo malefico uccide la rivale in amore, ma per vendetta elimina i figli non dando all’ex marito la possibilità di una continuità generazionale. Euripide sembra voler dire che i doni ingannevoli e/o malefici servono a rompere i legami. Anche il dono di Zeus a Pandora contiene un regalo malefico onde potersi vendicare di Prometeo e degli uomini che avendo ricevuto il fuoco da quest’ultimo si mostravano gioiosi, baldanzosi ed alteri. Pandora, che in greco significa tutti i doni poiché ogni dio le fece un dono nel momento in cui stava per lasciare l’Olimpo, venne sulla Terra con un vaso donato da Zeus che, con una richiesta paradossale, le chiese di non aprirlo mai. Zeus sapeva benissimo che la sua richiesta avrebbe stimolato la curiosità di Pandora la quale, dopo essersi sposata, aprì il vaso e da lì uscirono tutti i mali. Alla fine, dal vaso uscì anche la speranza, che permise agli uomini di sopravvivere. La speranza, come vedremo in appresso, costituisce una delle caratteristiche e dimensioni fondamentali del dono in ambito generazionale.

Dal dono avvelenato, invece, nasce la patologia nelle relazioni. Scabini e Greco, individuano nel dono come forma di coercizione e controllo uno dei fattori scatenanti la suddetta patologia. Essi spiegano:

nelle relazioni familiari positive, le persone sentono di dovere molto agli altri, ma tale obbligazione è più dell’ordine della gratitudine che della coercizione. La patologia invece si annida là dove l’obbligatorietà è coatta, e dove il rapporto costi/benefici regge la relazione strutturalmente e non episodicamente. Infatti quando la coppia, o la famiglia, è ossessivamente centrata sul calcolo dare/avere, cioè sugli aspetti di controllo e reciprocità a breve termine, produce relazioni disturbate (1999).

Se il dono avvelenato o ingannevole comporta distruzione personale e sociale, il dono serve a legare, a creare legami. Nella cultura greca spesso gli dei donavano agli uomini e agli altri dei. Dionisio dona agli uomini l’ebbrezza e il vino; Demetra i cerali e il grano; Artemide gli animali selvatici e la caccia e così via. Gli dei donano per legarsi agli uomini o, al contrario, per legare gli uomini a loro. Zeus si adira con Prometeo perché aveva donato il fuoco agli uomini che erano diventati alteri nei confronti degli dei e, quindi, manda i mali con Pandora. Vi è anche uno scambio di doni tra gli stessi dei per fare legame. Hermes regala ad Apollo la lira per placare l’ira di quest’ultimo a cui aveva sottratto 50 vacche.

Il dono non serve semplicemente a riparare, ma, soprattutto, a difendere e ripristinare i legami. Un esempio, si trova nell’Iliade nella quale Achille offre la propria vita per vendicare l’amico Patroclo. Egli sapeva benissimo che affrontare Ettore significava o morire durante il duello o l’avverarsi della profezia di sua madre che la vittoria si sarebbe trasformata in una sconfitta poiché avrebbe comportato la sua futura morte.

Il dono come modalità di legame è presente anche all’interno degli insegnamenti della filosofia. Eschine, un allievo povero di Socrate, si trovò in difficoltà poiché il maestro riceveva molti regali e lui non era in grado di fargliene e gli disse:

Non trovo nulla da offrirti che sia degno di te e per questo solo m’accorgo di esser povero. Perciò ti dono l’unica cosa che possiedo, me stesso. Ti prego di gradire questo dono, qualunque sia, e pensa che gli altri, pur offrendoti molto, hanno tenuto per se stessi molto di più.

Socrate rispose:

e perché il dono che mi hai fatto non dovrebbe essere prezioso, a meno che tu non abbia poca stima di te? Avrò, dunque, cura di restituirti te stesso migliore di come ti ho ricevuto.

Per Socrate il dono è la filosofia. Questa affermazione, come riportata nell’Apologia, la fa davanti ai giudici nel processo in cui viene accusato di non venerare gli dei della città e di corrompere l’educazione dei giovani. Alla fine del suo discorso afferma di essere il dono di dio per la città. Egli sostiene che il filosofo ha l’obbligo, attraverso le sue analisi ed elaborazioni, di dire la verità e donarla alla città. Socrate, nell’Alcibiade minore, affronta il legame tra gli uomini e gli dei attraverso l’atto del donare. Nel dialogo, egli convince Alcibiade che è pericoloso accettare doni dagli dei così come chiederli poiché, spesso, portano con sé sia il trionfo che la caduta come la morte. Achille, l’eroe dell’Iliade, riceve dagli dei sia il trionfo – le vittorie in battaglia –  sia la morte. Neanche il contro dono inteso come restituzione è utile a questa causa. I sacrifici di Priamo agli dei non evitarono a Troia di capitolare. Il dialogo si chiude con Alcibiade che incorona Socrate con la corona sacrificale. Quest’ultima rappresenta il controdono di Alcibiate che tende a sottolineare la grandezza del maestro che lo aveva convinto attraverso la maieutica (A. Tagliapietra, 1994). Socrate, ancora una volta, sottolinea una tendenza della cultura greca arcaica a guardare al dono con molto sospetto poiché esso può essere avvelenato.

La concezione del dono in Platone la possiamo rilevare nel Protagora, in cui attraverso il mito di Prometeo e Epitemeo mostra come Zeus dona agli uomini la giustizia e il rispetto per una convivenza felice. Gli uomini erano stati messi sulla terra ed Epitemeo si era incaricato di provvedere, come ordinato da Zeus, a distribuire tutte le risorse naturali affinché potessero sopravvivere. La distribuzione non fu equa e ad un certo punto si accorse che aveva distribuito le risorse agli altri esseri viventi, lasciando indifeso il genere umano. A quel punto intervenne Promoteo il quale rubò ad Efesto il fuoco e ad Atena la perizia tecnica e li diede agli uomini. Quest’ultimi crebbero, si moltiplicarono, iniziarono a costruire i loro utensili e le loro dimore, ma combattevano e guerreggiavano tra di loro. Zeus, accortosi della confusione e la barbarie che regnava nel mondo degli uomini, ordinò a Hermes di distribuire le virtù politiche sotto forma di giustizia e rispetto. Platone indica una via, il dono ha origine e si esplica attraverso la trascendenza e porta con sé esigenze di giustizia. Vedremo più avanti come le esigenze etiche costituiscono uno dei poli su cui si costruiscono i legami intra e intergenerazionali.

Anche Aristotele, nel libro IV Etica a Nicomaco, inserisce il dono all’interno delle virtù etiche dell’uomo. Nel definire la liberalità, la magnificenza, la magnanimità, il giusto amore per gli onori, la bonarietà, l’affabilità, la sincerità, il garbo e il pudore mette al centro l’atto del donare e del ricevere come modalità di giustizia. La liberalità è il punto d’origine che in sostanza definisce le successive virtù. Essa

è la medietà relativa al donare e al prendere beni materiali, l’uomo liberale donerà e spenderà per ciò che si deve e quanto si deve, allo stesso modo nelle piccole che nelle grandi cose, e questo farà con piacere; e prenderà di dove si deve e quanto si deve. Poiché, infatti, la sua virtù è la medietà relativa al donare e al prendere, il liberale farà entrambe le cose come si deve: al donare in modo conveniente consegue anche un prendere convenientemente, mentre un prendere diversamente è il suo contrario.

La magnificenza discende dalla liberalità ed è riservata solo a chi possiede grandi patrimoni poiché possono permettersi di donare in grande. Discende dalla magnificenza la magnanimità ovvero essa è riservata a colui che si stima degno di grandi cose e lo è veramente. La magnanimità è rivolta all’onore, ovvero all’accattivarsi la stima degli altri senza, comunque, eccedere. Aristotele, infatti, teorizza che l’uomo è teso alla ricerca dell’onore (amore per gli onori) e il donare e il ricevere sia un mezzo con cui poter raggiungere lo scopo. A partire da questa categoria, egli analizza una serie di qualità psicologiche (la bonarietà, l’affabilità, la sincerità, il garbo e il pudore), alle quali è difficile dare spiegazioni sul piano razionale poiché come egli stesso più volte afferma il mezzo non ha un proprio nome. Non essendo collegati a nessun dato di tipo oggettivo, emerge la soggettività come metro di giudizio inserita all’interno della contestualità e, quindi, possono essere definiti rispetto agli opposti. La bonarietà, ad esempio, è da collegare all’ira ed agli eccessi d’ira (irascibilità) e risulta piuttosto complicato stabilire quando essi sono giustificati dalle situazioni o meno. L’affabilità è il frutto dell’essere adulatore o scorbutico e litigioso; la sincerità della millanteria e dell’ironia; il garbo dell’essere buffoni o rozzi; il pudore della virtù o del vizio. La lettura e l’analisi di Aristotele delle virtù come medietà tra l’eccesso e il difetto ha avuto grandi riscontri nei secoli successivi tant’è che ancora oggi si è soliti dire in medio stat virtus. A mio parere, l’aver legato le virtù al donare indica che esse siano frutto del legame sia intersoggettivo (la liberalità, la magnificenza, la magnanimità) che intrasoggettivo (la bonarietà, l’affabilità, la sincerità, il garbo e il pudore). In sostanza, sia le esigenze individuali sia quelle sociali trovano riscontro all’interno della contestualizzazione del legame. Inoltre, ciò che appare come un limite, ovvero il descrivere le esigenze intrasoggettive che Aristotele rimanda alle passioni, pone l’esigenza di indagare e analizzare contemporaneamente sia le esigenze etiche che quelle pulsionali. Più avanti vedremo che il legame è costituito da esigenze etiche definite dalla lealtà e dalla giustizia e da esigenze pulsionali come la speranza e la fiducia.

“Che cosa ci troveranno in lui?” Il fascino di alcuni tratti tipici della psicopatia

Un recente studio (Brazil &Forth, 2019) cerca di mettere in luce i motivi per i quali il genere femminile è spesso affascinato da alcuni tratti tipici della psicopatia.

 

Fedeltà, sincerità, ambizione, gentilezza, bell’aspetto, posizione sociale e disposizione di risorse sono solo alcune delle numerose caratteristiche che le persone ricercano in un potenziale partner e dalle quali sono attratte nelle prime fasi di una relazione romantica; questo avviene perché coloro che, almeno in parte, possiedono le qualità sopracitate sono spesso considerati compagni di vita meritevoli, in grado assicurare un rapporto affettivo stabile e soddisfacente (Moor, 2010).

Che cosa accade però nel momento in cui una persona si limita a fingere di essere così? Siamo davvero in grado di riconoscere la differenza tra ciò che realmente è e ciò che mostra?

Individui particolarmente abili a fingere, a ingannare e a giocare con le “regole del corteggiamento” sono quelli che nel linguaggio comune vengono definiti psicopatici.

Ma chi è realmente uno psicopatico? Il four-facet model, illustrato per la prima volta da Hare (2003), individua in quattro dimensioni psicologiche le peculiarità di questo disturbo: a livello interpersonale, lo psicopatico mostra un’elevata tendenza alla manipolazione, alla menzogna e a costruire rapporti superficiali; a livello affettivo, è comune la mancanza di rimorso e di preoccupazione per gli altri; a livello di stile di vita, si mostra disinibito, impulsivo e alla costante ricerca di sensazioni forti; infine, i tratti antisociali, lo rendono noncurante delle regole e dell’autorità e dotato di una scarsa capacità (e volontà) di controllare la rabbia.

Brazil e Forth (2019), in uno studio pubblicato su Evolutionary Psychological Science, si sono concentrati sul quadro scientifico evolutivo per individuare le caratteristiche che rendono uno psicopatico attraente agli occhi dell’altro sesso, indagando la loro capacità di fingere qualità positive e di mostrarsi accattivante manipolando il punto di vista altrui.

Alcune ricerche hanno sottolineato come, a livello evolutivo, molti tratti tipici della psicopatia possano essere stati utili per ottenere benefici dal prossimo, in particolare nell’ambito sessuale: i comportamenti di aggressività sessuale, di coercizione, di prevaricazione dell’altro e la capacità di esagerare le proprie doti positive, hanno permesso agli individui di trovare partner sessuali e di riprodursi con più facilità rispetto ad altri uomini che non adottavano questi comportamenti (Book et al., 2018).

La sexual exploitation hypothesis of psychopathy (letteralmente “l’ipotesi dello sfruttamento sessuale della psicopatia”) postulata dagli autori dello studio afferma che i tratti tipici della psicopatia si siano mantenuti nel tempo poiché utili a livello evoluzionistico: la capacità di imitare ingannevolmente il “modello di uomo ideale” avrebbe infatti facilitato la conquista dell’altro sesso permettendo a individui psicopatici di essere considerati la scelta migliore in ambito sessuale/relazionale (Brazil &Forth, 2019).

Per indagare quest’ipotesi, sono state utilizzate due ricerche sperimentali: la prima, che prevedeva un campione di 46 uomini con un’età compresa tra i 17 e i 25 anni, analizzava alcuni correlati della psicopatia (come tratti antisociali, intelligenza sociale e orientamento sessuale); la seconda, con un campione composto da 108 donne, si prefiggeva lo scopo di indagare la sexual exploitation hypothesis of psychopathy in un disegno sperimentale che prevedeva l’osservazione durante appuntamenti con eventuali partner romantici (sono state quindi prese in considerazione l’abilità di mostrarsi ingannevolmente migliore, di rientrare nelle preferenze attese delle donne, ecc.).

I risultati hanno mostrato che l’ipotesi testata nei due studi, sia supportata a livello preliminare e suggeriscono una valutazione più accurata dell’abilità di manipolare dello psicopatico e della tendenza alla donna di trovare affascinante alcune sue caratteristiche peculiari sia necessaria e auspicabile. Nel mondo delle relazioni romantiche, quindi, sembra vi siano particolari gesti, toni della voce, mimica facciale ed espressioni che gli psicopatici sono in grado di falsificare e che rendono le donne più vulnerabili al loro sottile quanto deleterio fascino.

 

Metti una sera a cena … in 3D

Il settore delle biotecnologie alimentari si sta rinnovando molto rapidamente con il cibo finto, che sta coinvolgendo e appassionando scienziati, chef, studiosi, esperti di cambiamento climatico, imprenditori di tutto il mondo. La food experience del domani sicuramente cambierà il modo con cui le persone interagiscono con il cibo.

 

In passato la scuola francese era punto di riferimento per la formazione del gusto e dell’etichetta, successivamente il mondo ha preferito mangiare à l’italienne. La sua cucina si ispira alla Dieta Mediterranea, riconosciuta dall’UNESCO come bene protetto e inserito nella lista dei patrimoni immateriali dell’umanità nel 2010: oltre a essere salutare e dai sapori squisiti, la Dieta mediterranea è identità culturale, tradizione, radici di appartenenza, stile di vita, senso di comunità e ospitalità, paesaggio, competenze, pratiche, territorio.

Il cibo è sempre stato un mezzo incredibilmente potente per riunire le persone, celebrare, condividere, avviare una conversazione, stimolare idee. Grazie a tutte queste sfaccettature, il cibo, più di altri prodotti, per vocazione si presta allo storytelling come strategia di marketing di un brand (Fiocca, 2018). Oggi il processo di coltivazione, lavorazione e produzione del cibo diventa una storia da raccontare e che i consumatori desiderano conoscere. Il consumatore “etico” ha ulteriormente accentuato l’importanza dei valori positivi che un brand deve incarnare e che devono entrare nel racconto.

Il settore delle biotecnologie alimentari si sta rinnovando molto rapidamente con il cibo finto e, in particolare, con la carne artificiale, chiamata anche clean meat. Sta coinvolgendo e appassionando scienziati, chef, studiosi, esperti di cambiamento climatico, imprenditori di tutto il mondo. La food experience del domani sicuramente cambierà il modo con cui le persone interagiscono con il cibo. Un fattore di non poco momento sotto tanti profili, visto il crescente protagonismo del cibo oggi. Ci saranno impatti economici, tecnologici, etici, psicologici. Addio identità culturale, tradizione, radici di appartenenza, stile di vita, senso di comunità e ospitalità, paesaggio, competenze, pratiche, territorio… Ma, si sa, la vita è un trade-off: mentre si perdono alcune evocazioni e pezzi di storia, dall’altro si creano nuove e importanti opportunità.

Comunque, è necessaria ancora molta attività di ricerca per trasformare il battage e il dialogo scientifico in realtà. Molte sono le questioni aperte e, in primo luogo, quali tutele per il consumatore? Il cibo sintetico richiede norme per la sua produzione e trasformazione e gli studi in corso serviranno anche a definire le norme legislative, come le caratteristiche dei substrati, gli additivi chimici, le norme di sicurezza degli impianti. Quali industrie del comparto alimentare saranno influenzate dalle nuove tecnologie del cibo finto? Quali componenti di cibo potranno essere stampati in un futuro prossimo tramite la stampante tridimensionale? E quali aspetti dovranno essere presi in considerazione per garantire la sicurezza e il mantenimento del cibo ad esempio stampato in 3D? Queste sono molte delle questioni che verranno affrontate in occasione della “3D Food Printing Conference, 5th edition”, che si terrà nei Paesi Bassi (23-24 giugno 2020, Brightlands Campus Greenport, Venlo).

Sebbene ancora agli albori, il settore della carne sintetica ha fatto passi da gigante. La prima degustazione televisiva di un hamburger nato in laboratorio è avvenuta nel 2013. La carne di manzo cucinata era stata fatta crescere partendo da un campione di tessuto muscolare prelevato da una mucca. Le cellule staminali sono state poi coltivate e tagliate in modo tale da diventare filamenti successivamente stratificati per formare un tessuto che avesse la consistenza della carne bovina. Ha guidato la ricerca Mark Post, professore di fisiologia presso l’Università di Maastricht.

La carne sintetica parte quindi da cellule staminali muscolari (di maiale, pollo, manzo, anatra, ecc.) che vengono poste in un particolare contenitore (bioreattore) insieme a un substrato liquido di coltura, che generalmente è siero di sangue fetale, o a una soluzione sintetica di sostanze chimiche per ottenere una composizione simile al siero. In tali condizioni le cellule vengono alimentate in modo che possano svilupparsi e moltiplicarsi fino a formare uno strato di fibre.

La carne artificiale allevata in laboratorio, oltre a richiedere un processo lungo e costoso, non ancora è in grado di imitare né il gusto della carne né la sua consistenza fibrosa. La carne in vitro presenta, di conseguenza, problemi di tempistiche di realizzazione e di scalabilità economica significative, viene fatta crescere con un “mangime” a base di siero bovino fetale. Insomma, sempre con altre risorse animali. E’ un settore ancora lontanissimo dalla produzione industriale.

Alcune start-up – soprattutto statunitensi – vendono già carne artificiale, come la “carne impossibile”, di origine vegetale, ma dal gusto molto simile alla carne originale. Impossible Foods e Beyond Meat sono le maggiori imprese. La differenza rispetto ai normali hamburger vegetali, in vendita già da parecchio tempo, è che gli hamburger di Impossible Foods e Beyond Meat sono destinati a chi mangia abitualmente carne – e al cui gusto non rinuncerebbe mai -, anziché ai consumatori vegetariani, abituali fruitori degli hamburger di soia e quinoa.

Gli “hamburger impossibili” sono prodotti unendo tra loro ingredienti di origine vegetale, ma scelti e assemblati in modo da riprodurre il più possibile la consistenza, le sembianze e il sapore della carne, anche durante la fase di cottura. Per farlo, le imprese su cui sono impegnate hanno investito anni a studiare campioni di carne in laboratorio, scandagliando tutti i mutamenti chimici alle varie temperature, provando centinaia di ingredienti diversi per riprodurre perfino il sangue tipico degli hamburger poco cotti (che poi non è davvero sangue ma mioglobina, una proteina simile).

L’“Impossible Burger”, il più famoso prodotto di questo tipo, attualmente viene venduto anche negli oltre 7.000 ristoranti della catena Burger King degli Stati Uniti. Secondo Impossible Foods, per essere prodotto l’“Impossible Burger” richiede circa l’87 per cento di acqua in meno, il 97 per cento di terra in meno e l’89 per cento di emissioni in meno rispetto agli hamburger di manzo. Le sue proprietà nutritive, afferma l’azienda, sono uguali o superiori al corrispettivo animale.

A differenza di Impossible Foods, Beyond Meat – che oggi vende i suoi prodotti in moltissimi supermercati in tutto il mondo ed è quotata in Borsa – si è servita di un approccio diverso: usa ingredienti vegetali senza modificarli in laboratorio. L’hamburger è composto da piselli, riso, fagioli indiani verdi, amidi vegetali, olio di cocco e barbabietola rossa, che serve a dare l’impressione del tipico colore rosso della carne di manzo.

Il The New Yorker ha dedicato un ampio articolo sull’argomento, fornendone lo stato dell’arte.

In Italia non esistono ancora gli hamburger di Impossible Foods, mentre sono disponibili gli hamburger di Beyond Meat nelle catene Well Done e The Good Burger, e le polpette nella catena The Meatball Family.

Un salto in avanti – iperbolico – è avvenuto con Giuseppe Scionti, ingegnere biomedico italiano, passato dai laboratori nel campo dei biomateriali e dell’ingegneria tissutale del Politecnico della Catalogna fino a fondare una sua startup, Novameat, brevettando una tecnologia innovativa per l’industria alimentare. Il brevetto di Scionti è il risultato dei suoi studi scientifici sulla rigenerazione dei tessuti. La sua biostampante tridimensionale è in grado di generare tessuti artificiali che assomigliano a quelli umani e animali, imitando la loro struttura originale a livello sia macroscopico sia microscopico. Si tratta quindi di carne a base vegetale in tre dimensioni con la consistenza fibrosa associata alla bistecca e alle altre pietanze di carne. Tuttavia, pollo, manzo, maiale hanno consistenza differente. Di conseguenza, ciascun prodotto richiede uno studio istologico della carne di partenza. Le proprietà meccaniche vengono esaminate altrettanto attentamente e quindi riprodotte nella carne sintetica.

I prototipi finora sviluppati dalla Novameat sono due: il petto di pollo e la bistecca di manzo. Attraverso una biostampante 3D, egli ottiene un succedaneo della carne di manzo e di pollo senza carne sebbene con i suoi medesimi sapori e, comunque, evitando i significativi effetti collaterali degli allevamenti intensivi.

La ricerca più recente infatti punta il dito sull’industria del bestiame e sugli allevamenti intensivi. L’impatto ambientale della filiera della carne è appunto elevatissimo, sia in termini di emissioni di gas serra sia di consumo delle risorse (quelle idriche e i terreni coltivabili). L’agricoltura consuma più acqua di qualsiasi altra attività umana, e di questa circa tre quarti sono destinati agli allevamenti. Circa un terzo delle terre coltivabili del mondo è usato per produrre mangimi per l’allevamento. In particolare, tra i vari tipi di allevamento, è quello dei bovini il più dannoso per l’ambiente a livello mondiale, perché causa una liberazione di metano nell’atmosfera che moltiplica l’effetto serra.

Gli scienziati ritengono che entro il 2050, quando la popolazione mondiale si sarà avvicinata ai dieci miliardi di persone, la domanda di carne raddoppierà. Entro quella data, si legge nel Rapporto della Banca Mondiale e dell’ONU – “Creating a Sustainable Food Future” -, sfamare la Terra si tradurrà nella distruzione della maggior parte delle foreste, nell’eliminare migliaia di nuove specie e nel rilascio di quantità di gas serra da superare la soglia di sicurezza. In più, contribuirà ad aumentare i migranti climatici, cioè le persone che saranno costrette a lasciare la propria casa e la propria terra di origine per circostanze ambientali. Quindi, viene offerto… su un piatto d’argento un succedaneo “eco-friendly” e “cruelty-free”.

Tuttavia, per quanto riguarda le emissioni gassose, c’è da considerare che nel mondo la maggiore la concentrazione di bovini (ritenuti i maggiori responsabili della emissione di gas serra) si trova in India dove, essendo considerati sacri, non sono utilizzati ai fini alimentari e non sono macellati.

La carne ottenuta con la tecnica della biostampante 3D non è un organismo geneticamente modificato, poiché il brevetto usa solo biomateriali come le proteine vegetali, i carboidrati, le vitamine, i grassi vegetali che permettono di produrre la carne. Essendo le proteine utilizzate già presenti in natura, il brevetto non richiede lo stravolgimento dell’ecosistema. In particolare, l’inventore argomenta in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera:

Grazie a una particolare tecnica mista ereditata dalla biomedicina, le proteine vegetali possono essere organizzare a livello nanometrico come se fossero fibre muscolari. Si può così ottenere una bistecca stampata in 3D con la consistenza fibrosa tipica della carne animale. Del tutto priva di OGM.

I materiali di origine vegetale possono derivare sia da piante sia da alghe. Anche il problema della sicurezza alimentare sembra essere superato poiché i materiali utilizzati sono quelli già approvati dalle autorità europee e dalla Food and Drug Administration americana.

Sebbene il futuro della carne sintetica rimanga tutto da decifrare, l’avvento delle biostampanti tridimensionali e la costante riduzione del loro prezzo potrebbero rivoluzionare la nostra concezione di cibo. Gli alimenti prodotti attraverso questa tecnologia possono essere pastorizzati e confezionati per essere trasportati nelle zone più remote.

Una prospettiva intrigante, tanto da attirare le attenzioni della FAO, commenta l’autore di un articolo su la Repubblica. Ad esempio, la carne sintetica di origine vegetale può contribuire a contrastare la carenza di specifici nutrienti nei paesi più poveri. La sua distribuzione sarebbe più pratica ed efficace rispetto a quella degli attuali “beveroni”, peraltro difficili da far accettare alla popolazione. Sotto questo aspetto, tale modo di nutrirsi diventa fattore che contribuisce a ridurre i gap delle disuguaglianze e a ridurre la fame nel mondo. La bistecca è un pezzo di muscolo, possiede elementi, come le terminazioni nervose, che ai fini alimentari non servono a nulla. Una carne vegetale contiene invece esclusivamente gli ingredienti necessari al nutrimento.

Quindi: sarà una bistecca vegan che costerà di meno, che concorrerà a evitare gli sprechi alimentari, che sarà “ecocompatibile”, di aiuto ai paesi più poveri, che eviterà la crudeltà verso gli animali di allevamento intensivo e la loro morte. Sicché, una bistecca con un’“etica multidimensionale”. Per gli umani, per gli animali, per l’ambiente. Insomma la carne stampata a tre dimensioni costituisce l’ottimizzazione di un prodotto.

Quando arriverà sulle nostre tavole? Non presto, sebbene la rivoluzione alimentare sia ormai avviata. Afferma l’inventore che il vantaggio della carne “stampata” è che cerca di indurre un cambiamento nelle abitudini alimentari della popolazione, senza rappresentare un sacrificio, … ma circa il sacrificio sarà tutto da vedere!

Succede a volte di assaggiare dei piatti che ci lasciano sensazioni positive. Non è questione di “magia del cibo” e nemmeno di vedere un impulso primario soddisfatto. La risposta sta nel nostro cervello. Il termine coniato negli Stati Uniti è “comfort food”, cioè quel cibo che fornisce felicità a livello psicologico. Sono per lo più cibi collegati al passato e alle nostre memorie, ma anche alla cultura, valori, religione in cui si è cresciuti. In Italia classici esempi, sono la torta della nonna o il ragù della mamma. Sono piatti che ci ricordano tempi felici oppure una specifica persona della nostra vita. Quando assaggiamo un cibo che ha fatto parte della nostra infanzia, è molto probabile che il ricordo di quei momenti riaffiori velocemente, lasciandoci una sensazione di buon umore, felicità o nostalgia. Gli elementi in questo tipo di memoria (autobiografica) sono immagazzinati in modo inconscio, ma possono produrre effetti sul comportamento. Ad esempio, la sazietà sensoriale specifica è quel fenomeno che fa sì che alla fine di un’abbondante cena, quando non si ha più appetito, rimane sempre un po’ di spazio per il dolce. Inoltre, le immagini, il profumo, l’idea, il parlare di cibo producono, tra i tanti altri effetti, la salivazione (la famosa “acquolina in bocca”).

Probabilmente, il cibo sintetico ci farà perdere questo patrimonio interiore, sebbene la carne finta, nelle alternative vegetali, rifletta le preferenze etiche di molti consumatori. Chissà se questa futuristica food experience avrà veramente un futuro e la nuova cultura alimentare attecchirà.

Il paniere del consumatore è destinato a diventare un paniere di “novel food” contenente stampe tridimensionali, cibo riprodotto in vitro, altro cibo sintetico, nonché insetti. E sì, la FAO da anni promuove gli insetti come “proteina del domani”, una risposta efficace e a basso impatto ambientale al crescente bisogno di cibo conseguente all’aumento della popolazione terrestre.

Il consumatore ne guadagnerebbe senz’altro in efficienza, ma allo stesso tempo perderebbe pezzi di sé – attraverso una rimodellizzazione delle sue preferenze. Inoltre, il cibo sintetico sarà ugualmente buono? Come reagirà il consumatore al trade-off efficienza vs. gusto, tradizioni tramandate, evocazioni, antichi profumi del cibo che fu? La strategia del food storytelling diventerà particolarmente impegnativa, ma anche affascinante! Dovrà suscitare empatia, galvanizzare sentimenti, coinvolgere, far immedesimare il consumatore in un portatore dei valori etici che connotano questa nuova fase dell’alimentazione.

Certo, il pianeta ringrazia… il romanticismo un po’ meno.

Guardando il menù del ristorante: “Amore, preferisci la bistecca di manzo di rape o di cavolfiore? Se vuoi, il piatto del giorno è il petto di pollo di alghe”. Lei si rivolge al cameriere: “Mi andrebbe una braciola di maiale di carciofi”. Interviene, allora, il cuoco – un ologramma: “Mi dispiace, non la stampano ancora!”

 

Forum della Ricerca in Psicoterapia: il video della Poster Session – Riccione 2019

Stimolare una riflessione su come la concettualizzazione, la condivisione, la strategia e la tecnica interagiscano tra loro all’interno del processo terapeutico: il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia”

 

Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia” 10-11 maggio 2019, Riccione. Il Forum della Ricerca in Psicoterapia è un convegno biennale organizzato dalle scuole Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Scuola Cognitiva di Firenze, Psicoterapia e Scienze Cognitive in cui gli allievi delle diverse scuole hanno l’opportunità di presentare e discutere i propri lavori di ricerca e casi clinici e ricevere revisioni da parte di ricercatori e clinici di comprovata esperienza. Quest’anno il Forum della Ricerca in Psicoterapia ha avuto come obiettivo quello di stimolare una riflessione su come la concettualizzazione, la condivisione, strategia e tecnica interagiscano tra loro all’interno del processo terapeutico. Il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia” ha il fine di promuovere un confronto tra le diverse prospettive cognitive, una maggiore interazione tra clinica-formazione-ricerca, una riflessione critica sui progressi scientifici nell’ambito della psicoterapia cognitiva, la realizzazione di disegni di ricerca che possano avere rilevanza in ambito clinico e un’analisi critica della concettualizzazione e gestione dei casi clinici.

 

Allievi e Ricerca – Il video dalla Poster Session
del Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 di Riccione:

 

Smart cities, le città del futuro tra innovazione e sostenibilità – Psicologia Digitale

Città in cui le persone sono al centro del progetto di sviluppo, dell’economia sostenibile, delle tecnologie integrate, in cui le risorse naturali vengono gestite consapevolmente da tutti attraverso l’azione partecipativa. Dove efficienza fa rima con produttività, funzionalità e alto valore sociale. Le smart cities sono le città di domani.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 3) Smart cities, le città del futuro tra innovazione e sostenibilità

 

Ci sono delle parole nuove, inglesismi che, nonostante diventino di uso comune, hanno confini sfocati e definizioni incerte. Smart city è fra queste. Argomento popolare tra studiosi come tra addetti ai lavori (urbanisti, tech company), ad oggi ha raccolto più di 100 diverse definizioni, che ora si focalizzano sull’aspetto prettamente tecnologico, ora sulle implicazioni politiche o ancora sull’aspetto della sostenibilità ambientale. Ma una smart city è questo e molto altro ancora.

Smart cities: che cosa sono e come funzionano

Secondo Prado Lara e collaboratori (2016) una smart city viene definita in base ad alcuni elementi che, insieme, concorrono a precisare cosa è e come funziona. 
Sicuramente un primo elemento fondante è l’integrazione delle tecnologie digitali più avanzate, con l’adozione di strategie economiche e sociali fondate su infrastrutture moderne. In secondo luogo, è necessario puntare sulla diffusione delle conoscenze, delle competenze distintive e del know-how (sulla cosiddetta knowledge economy), sull’innovazione e sulla competitività in modo da creare ambienti creativi e favorevoli all’imprenditorialità. Ancora, si tratta di una città che promuove la green economy e uno stile di vita sostenibile, nel rispetto della qualità della vita e delle risorse naturali del luogo. Infine, altro elemento importante è la partecipazione attiva dei cittadini che devono sentirsi parte ed essere coinvolti nei progetti di sviluppo.

Dalla smart city agli smart citizens: il cittadino al centro del progetto

La maggior parte degli studi e delle riflessioni fatte finora si è focalizzata su quali sono gli elementi chiave della smart city. Come ci ricordano Jing e colleghi (2018), la letteratura raramente tiene in conto l’elemento più importante di una città: le persone. Se è l’ambiente-città ad essere ripensato non si può non considerare che al centro di tutto ci sono i cittadini, coloro che co-creano e vivono la città. Sempre secondo Jing e colleghi (2018) la questione è più complessa di come possa apparire: non si tratta solo di innovazione, tecnologie e sostenibilità, ma anche e soprattutto di rendere tutte queste facilmente gestibili ed attuabili dalle persone. Gli smart citizens hanno a disposizione una mole ingente di informazioni da diversi canali contemporaneamente, dall’automonitoraggio grazie agli wearable devices (ad esempio, il fit bit) alle notizie disponibili in qualsiasi momento on line.

Come e quali informazioni è possibile gestire efficacemente? Ancora, grazie a Internet e alla potenza delle nuove reti 4.5g (a breve in arrivo la 5g) possiamo interagire in tempo reale con chiunque senza bisogno di un incontro faccia a faccia, ma quanto queste interazioni sono realmente qualitative? Infine, le smart cities si fondano sulla partecipazione attiva dei cittadini. Ma quante volte, ad esempio, quei click che dispensiamo tanto facilmente quando siamo online si trasformano in azioni concrete? Per esempio, basti pensare al fenomeno dello slacktivism: in italiano viene tradotto come attivismo da tastiera o attivismo da poltrona, un modo per descrivere la pratica di sostenere una causa politica o sociale mediante petizioni o adesioni a pagine online, che poi si traducono in un impegno concreto molto limitato se non, nella maggior parte dei casi, nullo.

Cosa ci aspetta

Nel 2017 è stata annunciata la costruzione di Neom, la prima città totalmente smart finanziata dal principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman. Dopo diversi progetti pilota come quello di Rio de Janeiro che hanno visto le prime implementazioni di tecnologie nel contesto cittadino già nel 2010, ora l’Europa promuove il progetto EU Smart City con il quale punta ad incentivare le principali città europee a diventare sempre più smart.

La ricerca futura si indirizzerà ad analizzare come il comportamento delle persone, sia individuale che gruppale, ne sarà influenzato.

L’aspirazione è creare spazi urbani totalmente ridisegnati: città creative perché re-immaginate, re-inventate collettivamente, ecosostenibili e tecnologicamente avanzate. Le persone al centro di tutto, la qualità di vita, l’espressione del massimo potenziale, l’incentivo alla conoscenza condivisa, lo sviluppo che nasce proprio dai singoli e dalla loro partecipazione, tutto questo è smart city.

 


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

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Diventare un Trauma Therapist secondo Kathy Steele – Report dal 7° Congresso Biennale della Società Europea per il Trauma e la Dissociazione (ESTD)

Al 7’ Congresso Biennale della Società Europea per il Trauma e la Dissociazione (ESTD), tenutosi a Roma dal 24 al 26 ottobre 2019, Kathy Steele, una delle massime esperte mondiali di trauma, ha ipnotizzato la platea con il suo intervento su come diventare, o meglio, crescere come trauma therapist.

 

Kathy Steele, riprendendo le parole di Milton Erickson relativamente a come la voce del terapeuta sia interiorizzata dal paziente, sottolinea come in realtà avvenga anche il contrario, anche il paziente entra nel terapeuta patients go with us in mind, but also in body, non solo nella mente ma anche nel corpo. Un trauma therapist deve fare quindi i conti con il proprio corpo, essere consapevole delle proprie reazioni e del proprio vissuto, con le risposte difensive che si attivano in noi di fronte ai nostri pazienti.

Un terapeuta incarnato, una incarnazione di corpo e mente, un’unità delle parti in continua costruzione quello che sono qui oggi è diverso da quello che sarò tra 5 minuti o tra 5 anni.

Un terapeuta radicato nel suo corpo è capace di integrare le proprie sofferenze con il proprio vissuto e accettare il paradosso del dolore più cerchiamo di evitare il dolore più soffriamo, più cerchiamo di accoglierlo meno sofferenza avremo. Questo è quello che il trauma therapist deve far suo e trasmettere ai propri pazienti, pazienti che sentono un dolore di cui tentano di sbarazzarsi non capendo che invece in tal modo lo bloccano, lo trattengono fino ad arrivare alla disperazione.

Ciò accade anche al terapeuta che spesso sperimenta emozioni ‘fastidiose’ come la frustrazione del non riuscire ad aiutare il suo paziente: anche questo va accettato, accolto, rimanendo stabile nella variabilità emotiva cui le situazioni di vita lo espongono.

Un concetto questo strettamente correlato a quello di attaccamento e di accudimento, per cui a volte il terapeuta nel suo ruolo ‘salvifico’ cerca il ‘miracolo’ e continua a stare con il paziente nella stessa modalità anche in assenza di miglioramenti, convinto che il legame si crei se si è presenti a sufficienza. Ciò può bloccare in realtà terapeuta e paziente in una relazione disfunzionale, simile a un attaccamento insicuro. Il terapeuta timoroso del compito da affrontare con il paziente o spaventato da ciò che il paziente potrebbe fare se viene superato il limite, rimane incastrato in un legame disfunzionale, in una modalità di soccorso che lo porta a dimenticarsi di sé. Questo è il costo del caring.

Il trauma therapist deve invece radicarsi nella propria esperienza per contrastare la pressione creata dal paziente traumatizzato e pensare coerentemente se e come portare avanti la terapia, come andare oltre definendo limiti e priorità, eventualmente decidere di non vedere più il paziente inviandolo altrove.

Un accento posto quindi sulla accettazione della vulnerabilità, fallibilità, umanità del terapeuta come fulcro per un ingaggio incarnato con il paziente e requisito fondamentale per lavorare con il trauma e la dissociazione.

Un terapeuta incarnato, come ci insegna Steele è un terapeuta compassionevole, connesso, vulnerabile e resiliente, è un terapeuta che è innanzitutto una ‘Persona’, che si prende cura di sé e della propria vita al di fuori della professione, che abbraccia le proprie negatività e che nel lavoro con il trauma è focalizzato sul processo piuttosto che sul contenuto.
 

La terapia focalizzata sulla compassione. Caratteristiche distintive (2018) di P. Gilbert – Recensione del libro

La terapia focalizzata sulla compassione. Caratteristiche distintive, un chiaro e utile testo che offre al professionista la possibilità di confrontarsi con aspetti essenziali per il benessere, come quello di sviluppare una mente compassionevole. Ma cosa intendiamo per compassione? E come possiamo svilupparla?

 

Una sensibilità verso la sofferenza di noi stessi e degli altri, unita ad un profondo impegno nel tentare di alleviarla (Dalai Lama)

Il testo di Paul Gilbert, di cui l’edizione italiana curata da Nicola Petrocchi, rappresenta un testo che offre al professionista la possibilità di confrontarsi con aspetti essenziali per il benessere, come quello di sviluppare una mente compassionevole, descrivendo le abilità che la stessa comprende, offrendo un ampio ventaglio di tecniche ed esercizi.

Sviluppata nel 2005 ad opera di Paul Gilbert, la Compassion Focus Therapy  (CFT), si presenta come terapia multimodale che unisce diversi contributi di differenti approcci della terapia cognitivo comportamentale, uniti a filosofie orientali e insegnamenti buddisti integrati da teorie evoluzionisti, psicologia sociale e contributi delle neuroscienze relativi alle scoperte sulla regolazione affettiva ed il modo in cui sistemi cerebrali antichi e moderni interagiscono fra loro. Dialogo socratico, la scoperta guidata, esperimenti comportamentali, l’esposizione, esercizi di immaginazione, esercizi di respirazione, la scrittura espressiva, la mindfulness e tanti altri, ampiamente descritti, diventano le tecniche utilizzate nel lavoro con il paziente.

Il testo sembrerebbe sottolineare come la finalità della CFT diviene quella di lavorare su un cambiamento che non ha a che fare solo con il cambiare pensieri, ma l’esigenza, come sottolinea P. Gilbert, di lavorare sulle emozioni al fine di non spiegare il cambiamento al paziente, ma di fare sentire il cambiamento, attraverso un atteggiamento compassionevole, gentile, non giudicante e accudente. Vergogna, autocritica e senso di colpa diventano emozioni secondarie sulla quale si lavora principalmente cercando di accoglierle e bilanciandole attraverso lo sviluppo del sé compassionevole.

Per comprendere il perché ed in che modo opera la CFT, nel capitolo 6 vengono presentati e descritti tre sistemi di regolazione affettiva, ossia:

  • Sistema di protezione dalla minaccia, che opera attraverso l’attivazione di particolari strutture cerebrali, come l’amigdala e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, responsabile del sistema attacco-fuga, volto a garantirci la sopravvivenza, mobilitandoci di fronte a una possibile minaccia, al fine di mantenere o ripristinare una condizione di sicurezza. Responsabile di emozioni come rabbia, ansia, disgusto, tristezza, gelosia, invidia, vergogna.
  • Sistema di ricerca di stimoli e risorse modulato dall’eccitamento, legato ad emozioni positive ed energizzanti connesse al circuito dopaminergico che ci consente di sperimentare sensazione di benessere e piacere; il soggetto è più propenso a credere che la sensazione di benessere sia legata al fare. Un sistema attivante che spinge alla realizzazione di scopi.
  • Sistema calmante, appagamento e sicurezza, un sistema che genera in noi sollievo, quiete e serenità. Caratterizzato da stati emotivi come la calma, la tranquillità, l’appagamento ed il rallentamento che sperimentiamo quando non ci sentiamo in pericolo, ci sentiamo apprezzati, accuditi; sembrerebbe strettamente connesso all’aspetto relazionale e sociale del sentirsi connessi agli altri, ed inoltre connesso anche a un maggior rilascio nell’organismo dell’ossitocina, una sostanza in grado di produrre sensazioni appaganti e calmanti.

L’autore sottolinea come, aspetti come quelli descritti sopra, diventano importanti da spiegare ai nostri pazienti al fine di favorire la comprensione del funzionamento del nostro cervello, della nostra mente e facilitare il passaggio dal senso di colpa, all’assunzione della responsabilità per il proprio benessere. La CFT lavorerà al fine di bilanciare i tre sistemi di regolazione affettiva e non soltanto di stimolare il sistema calmante connesso alla compassione.

Nella seconda parte del testo si entra nel vivo della pratica della compassione. Esercizi di focalizzazione e di immaginazione sono i principali strumenti utilizzati, insieme al training sulla respirazione calmante, per allenare qualità compassionevoli come la saggezza, la forza, il calore, la gentilezza e l’assenza di giudizio/condanna. Luogo sicuro, sviluppare il sé compassionevole, esercizio della sedia compassionevole, mettere in scena le proprie emozioni, tra le tecniche svolte in immaginazione che vengono descritte nel testo volte a fare sperimentare le diverse sensazioni che si accompagnano ad un immagine piuttosto che un’altra e riuscire a sviluppare dentro di sé un sistema calmante.

Attraverso la CFT i pazienti potranno imparare dunque a:

  • accettare le emozioni per quello che sono;
  • essere compassionevoli e comprensivi verso se stessi, riducendo l’attitudine alla personalizzazione alla vergogna, spostando il focus verso la compassione;
  • riconosce l’autocritica disfunzionale e riqualificarsi sulla compassione di sé;
  • sviluppare la compassione che scaturisce da noi stessi ed è rivolta verso gli altri, la compassione rivolta verso noi stessi e la compassione che arriva dagli altri e che è a noi rivolta.

Un testo che in modo chiaro ci consente di affacciarci sul panorama della Terapia Cognitivo Comportamentale di terza generazione, dove nulla viene superato o sostituito, ma arricchito, integrato e personalizzato e che ci consente di cogliere, da angolature diverse, la complessità della mente e del cambiamento, dove si evidenzia come per poter cambiare sia necessario creare un rapporto armonico tra cervello antico e moderno, che passi dalla consapevolezza, dall’accettazione e dalla compassione, aspetti innati nell’uomo, ma che vanno coltivati con impegno e costanza.

Mi piace concludere con un augurio trovato all’interno del testo e che ognuno di noi potrebbe rivolgere a se stesso:

Che tu possa stare bene. Che tu possa essere felice. Che tu possa essere libero dalla sofferenza.

 

Come nasce uno stereotipo?

Come nasce uno stereotipo? O meglio, quando nasce? Riusciamo, fin dalla più tenera età, a riconoscere a colpo d’occhio una persona brillante? Se ci dicessero di immaginarci una persona molto intelligente, quali caratteristiche dovrebbe avere?

 

Uno studio recentemente pubblicato su Journal of Social Issue, cerca di dare una risposta a questi delicati quesiti, partendo da un campione formato da 203 bambini di diversa etnia, con un’età compresa tra i 5 e i 6 anni.

I bambini iniziano a identificarsi e ad adottare le caratteristiche del proprio genere addirittura dall’età di 2 o 3 anni (Gelman, Taylor, & Nguyen, 2004). Come mai questo avviene così presto nella vita? Perché i bambini sono particolarmente sensibili agli stimoli che ricevono dalle figure di riferimento: in poche parole, impariamo facilmente ciò che è più comune per i maschi e ciò che lo è per le femmine e tendiamo a identificarci con le persone del nostro genere. Così iniziano a formarsi nella mente i primi stereotipi, che concernono la dimensione più concreta della vita, per esempio, quali giochi sono adatti ai maschi e quali colori alle femmine (Serbin, Poulin-Dubois, Colburne, Sen, & Eichstedt, 2001).

Due o tre anni dopo (intorno ai 5-6 anni d’età), gli stereotipi di genere passano dalla dimensione concreta a quella più astratta: così i maschi iniziano a essere, nell’immaginario comune, più bravi delle femmine nella matematica, nelle scienze e, in generale, in tutte quelle materie in cui è richiesta una mente brillante e intuitiva (Cvencek et al., 2011). Questa tipologia di preconcetti rimane pressoché invariata anche durante età adulta, andando a intaccare la vita lavorativa e le prospettive di carriera delle donne impegnate in campi professionali dove le abilità intellettive hanno un grande peso (es. Bian, Leslie, & Cimpian, 2018).

Nonostante le numerose ricerche svolte su questo argomento, sono ancora pochi i dati in nostro possesso sull’associazione tra stereotipo di genere e gruppo etnico, in quanto l’analisi è stata portata avanti soprattutto con osservatori e osservati della medesima etnia: un dato interessante in questo ambito, ricavato dallo studio di Livingston e colleghi (2012), ha mostrato che solo gli uomini caucasici sono considerati più brillanti delle donne della medesima etnia, mentre, nel caso delle popolazioni nordafricane accade l’esatto opposto.

Nello studio qui riportato, Jaxon e colleghi (2019), si sono posti l’obiettivo di indagare gli stereotipi di genere tenendo in considerazione il gruppo etnico dei bambini sia nel caso in cui il partecipante dovesse giudicare una persona della stessa etnia, sia nel caso in cui dovesse farlo su una persona di etnia differente.

I 203 bambini che hanno partecipato allo studio, dei quali il 37,7% era bianco, il 4,9% di colore, il 29,9% ispanico e il 6,1% asiatico, sono stati sottoposti a due prove differenti: la prima prova, il training task, consisteva nella spiegazione dei bambini di quello che per loro significava brillante e con l’eventuale correzione da parte degli esaminatori nel caso la risposta non fosse del tutto corretta; la seconda prova (stereotype task) mirava a comprendere gli stereotipi di genere nei partecipanti.

I risultati hanno mostrato che i bambini, a prescindere dalla loro stessa etnia, tendevano ad associare il termine molto brillante più agli uomini caucasici che alle donne della stessa etnia e alle donne di colore piuttosto che agli uomini del medesimo gruppo etnico. Questi risultati, in linea con la precedente letteratura, dimostrano come, nonostante il gruppo etnico dell’osservatore, gli uomini caucasici vengano considerati fin dalla giovanissima età più intelligenti e brillanti di tutti gli altri, seguiti dalle donne di colore.

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