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Cannabis: un nuovo studio indaga quali aspetti dell’esperienza sessuale vengano alterati dalla sostanza. 

La legalizzazione della cannabis per le sue qualità terapeutiche ha permesso alla ricerca moderna di accedere ad un campione di consumatori molto più vasto e quindi di ampliare le conoscenze sull’impatto che questa sostanza possa avere su vari aspetti della quotidianità, come le esperienze sessuali.

 

Nel nostro paese il consumo e il possesso di cannabis sono strettamente regolamentati e vincolati alla prescrizione medica in caso di gravi patologie croniche, così come avviene in alcuni paesi d’Europa e in 33 degli Stati Uniti Americani; molto più rari sono i Paesi che hanno decriminalizzato la sostanza per tutti gli scopi, incluso quello ricreativo (solo Canada e Uruguay), nella maggioranza dei casi le sorti della pianta e dei suoi consumatori sono governate da leggi nebulose e spesso contraddittorie.

Sicuramente, l’introduzione dell’utilizzo legale della pianta per i suoi effetti fitoterapici ha permesso alla ricerca moderna di accedere ad un campione di consumatori molto più vasto disposto a parlare della propria esperienza, consentendo di ampliare le nostre conoscenze sull’impatto che questa sostanza possa avere su vari aspetti cognitivi, percettivi, sociali, comportamentali dell’esperienza umana stessa.

Diversi studi condotti negli anni ’70 negli stati Uniti, hanno riportato come sia gli uomini che le donne intervistate riferissero che la cannabis intensificasse la loro esperienza sessuale e in particolare le donne riferivano un maggior aumento del desiderio e della soddisfazione rispetto agli uomini (Dawley et al. 1979; Tart, 1970; Koff, 1974). Una spiegazione potrebbe essere che l’effetto psicotropo rilassante, disinibente e di alterazione della percezione possano avere avuto un effetto facilitante sull’esperienza di un incontro sessuale.

Sebbene nel nostro corpo siano presenti innumerevoli recettori per i cannabinoidi, a cui si legano sia i cannabinoidi endogeni, ovvero prodotti dall’organismo stesso, sia i tetraidrocannabinoidi (THC) presenti nel principio attivo della pianta, non è chiaro quali siano gli effetti sull’esperienza sessuale. Di sicuro la presenza di innumerevoli recettori per i cannabinoidi nei tessuti ovarici, dell’endometrio e del miometrio suggerisce che tali implicazioni possano avere rilevanza in ambito del benessere sessuale. Tuttavia, studi recenti hanno riportato un’associazione significativa tra la diminuzione della concentrazione degli endocannabinoidi ed un aumento negli indici di eccitazione sessuale sia riferita che fisiologica (Klein et al., 2012) e ancora studi sui roditori hanno confermato come alla somministrazione di cannabinoidi seguisse una diminuzione della motivazione sessuale e conversamente, come questa venisse ripristinata da antagonisti dei recettori dei cannabinoidi (López, Webb, Nash, 2009; López et al. 2010).

Rimane quindi poco chiaro come le narrazioni riferite da parte dei soggetti si concilino con questi risultati, apparentemente in contraddizione: un recente studio di Wiebe e Just (2019) si è proposto di indagare quali aspetti dell’esperienza erotica risultassero migliorati e quali invece risultassero deteriorati dal consumo di cannabis, ipotizzando come vi possa essere una relazione più complessa di quanto si fosse fino ad ora supposto. Nel questionario proposto ai partecipanti, si è indagata la frequenza di utilizzo della sostanza, la motivazione con la quale se ne faceva uso, se i partecipanti intraprendessero attività sessuali sotto l’effetto della cannabis e se la sostanza in qualche modo aumentasse, interferisse o lasciasse inalterata la loro esperienza sessuale.

La quasi totalità (98,6%) dei consumatori di cannabis intervistati (350 soggetti di età compresa tra i 17 e i 75 anni) ha dichiarato di aver avuto un’esperienza sessuale sotto l’effetto della sostanza e il 52,3% riporta di aver assunto la sostanza per quello specifico scopo. Riguardo all’esperienza stessa, sembra vi sia maggiore variabilità: il 16% dei partecipanti ha riferito un effetto positivo sull’incontro sessuale, la stessa percentuale ha riportato come il sesso fosse risultato migliore sotto certi aspetti e peggiore sotto altri, la maggioranza, il 24,5% ha riportato come a volte il sesso risultasse migliore sotto certi aspetti e peggiore in altri, una netta minoranza del 4,7% ha riportato un’esperienza negativa.

Sono stati poi indagati gli aspetti specifici dell’esperienza erotica che risultassero alterati dall’effetto della sostanza: 199 soggetti hanno riferito un desiderio sessuale aumentato, 149 individui hanno riportato una maggior soddisfazione sessuale, alcune donne riferiscono una lubrificazione maggiore, mentre una percentuale di uomini (49 su 133 soggetti) riportano una migliorata funzionalità erettile, spesso viene esperita una maggiore sensibilità al contatto e in un buon numero di casi un’intensità percepita maggiore nell’orgasmo (132 soggetti) talvolta accompagnata da una sensazione di maggior facilità nel raggiungere lo stesso. Sembra che gli effetti della sostanza possano avere in alcuni casi degli effetti trasversali su altre aree di funzionamento del soggetto: alcuni individui riescono a raggiungere stati di rilassamento superiore durante l’incontro erotico (139 soggetti), talvolta riuscendo a sperimentare una maggiore confidenza sessuale (107 soggetti) e una sensazione di maggior vicinanza emotiva con il proprio partner (117 individui).

Le uniche differenze legate al genere riscontrate nel corso delle analisi statistiche sono legate alla facilità nel raggiungere l’orgasmo ed alla capacità di mantenere la concentrazione durante il sesso: ben il 50,8% delle donne ha dichiarato infatti che la cannabis consentiva loro di raggiungere l’orgasmo più facilmente, ma la stessa cosa era vera per un numero inferiore di uomini (31,4%); inoltre, il 29,4% delle donne riportava come le risultasse più difficile rimanere concentrata durante il rapporto, mentre solo l’11,4% degli uomini ha riportato lo stesso problema. Da ultimo si è indagato un possibile effetto sulla disfunzione sessuale riferita dai partecipanti (7 donne ed un uomo), rilevando come tutti i soggetti riportassero come motivazione primaria alla scelta di fare uso di cannabis per alleggerire la tensione e migliorare lo stato di rilassamento.

Lo studio sottolinea come gli effetti generali positivi riscontrati dai soggetti siano principalmente legati ad un’esperienza percettiva intensificata, dove cresce la percezione di vicinanza al partner e la capacità di rimanere più concentrati sul proprio piacere, alcuni soggetti hanno tuttavia offerto testimonianza di come potesse per loro risultare più difficile mantenere la concentrazione e vivere immersivamente l’esperienza erotica. Gli stessi partecipanti al sondaggio hanno riferito come l’assunzione della sostanza potesse potenzialmente avere effetti nocivi sul benessere sessuale, specialmente se associato ad un uso continuativo o ad un quantitativo di sostanza maggiore, talvolta associata a sonnolenza e paranoia.

Formike e Kamikaze

Cosa spinge un giovane ad aderire alla causa jihādista, abbandonando famiglia e affetti, affollando le fila di organizzazioni religiose estremiste, preparandosi a compiere sacrifici come quello di “farsi esplodere”? Cosa suggeriscono l’economia, la psicologia e gli approcci evoluzionistici sul fenomeno dei kamikaze?

 

A metà settembre, l’Amministrazione del Presidente americano, Donald Trump, ha annunciato la volontà di svelare l’identità di un funzionario saudita, legato al governo di Riad, che assolse un ruolo organizzativo durante gli attentati dell’11 settembre 2001 contro il World Trade Center. A dare la notizia è stato il The Wall Street Journal (Gurman, Viswanatha, 2019), spiegando che il Dipartimento della Giustizia USA ha stabilito di riferire il nome dell’individuo, pur rischiando una rottura diplomatica con l’Arabia Saudita, paese loro alleato. L’FBI ha annunciato che l’identità della persona, che compare in un documento di indagine del 2012, sarà comunicata ai legali delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle che ne avevano fatto richiesta. In base alle prime ricostruzioni, sembra si tratti di un funzionario del sud della California, che aveva fornito ai kamikaze istruzioni pratiche su come modificare la rotta di un aereo passeggeri. Il governo saudita ha ripetutamente negato alcun suo coinvolgimento, sebbene 15 dei 19 terroristi che effettuarono l’attentato fossero sauditi, come Osama bin Laden.

Da questa notizia di attualità sorgono gli spunti di riflessione del presente contributo, che ha natura interdisciplinare. Cosa spinge un giovane ad aderire alla causa jihādista abbandonando famiglia e affetti, affollando le fila di organizzazioni religiose estremiste, preparandosi a compiere sacrifici come quello di “farsi esplodere”? Cosa suggeriscono l’economia, la psicologia e gli approcci evoluzionistici sul fenomeno dei kamikaze?

Negli ultimi anni si sono avvicendate molte teorie sulla genesi del terrorismo suicida. Ci limitiamo a sintetizzarne alcuni aspetti.

Sotto il profilo dell’economia dell’informazione e in un contesto di informazione asimmetrica, il terrorismo suicida può essere utilizzato contro il nemico come un meccanismo di segnalazione di dedizione e di fede sentita. Essendo un segnale costoso (si mette in gioco la propria vita), si tratta di una minaccia credibile e non di un mero “cheap talk”. Il kamikaze è invincibile, perché prima ancora di morire è già morto, è un morto vivente. La “decisione anticipatrice della morte” lo proietta nell’eternità di chi, morto come individuo, vive come icona sacrificale del gruppo. Si tratta di un “esplosione sacra”. Infatti, i kamikaze sono ispirati a “valori sacri” in alcun modo negoziabili. Proprio la portata messianica rende il terrorismo religioso molto più pericoloso della militanza militare. Sul terreno attecchisce la “cultura della morte”: quando per una forma di neoascetismo sacrificale si è disposti a morire, non c’è spazio per negoziazioni né per minacce efficaci da parte dell’avversario. Tale passaggio porta ad affrontare taluni aspetti psicologi del fenomeno.

Sotto tale profilo, il meccanismo psicologico jihādista è il medesimo che ha funzionato con i kamikaze giapponesi: costituire comunità chiuse con una marcata connotazione mistico-militare, dove tutti i partecipanti si sentano affratellati nella realizzazione di un progetto segreto e considerato di vitale importanza. Il meccanismo psicologico jihādista ha pure natura e motivazioni apocalittiche, secondo cui il mondo esistente sarebbe sull’orlo di una profonda trasformazione che richiede l’uso sistematico della violenza. Dunque, una violenza purificante come strumento di rinascita. Tale visione esprime anche tratti comuni al movimento giapponese Aum Shinriko, i cui affiliati – tra cui ingegneri e scienziati specializzati in farmacologia genetica – avevano rilasciato nella metro di Tokyo (20 marzo 1995) il letale gas nervino Sarin.

Inoltre, il valore del proprio martirio diventa inestimabile per coloro che hanno bisogno di certezze: lo jihādismo si legittima attraverso la religione, ma le cause profonde della sua forza sono psicologiche. Fa leva sulla scarsa autostima del soggetto, dando al potenziale kamikaze una sua forte e nobile identità – con un’aura di eroismo – e un proprio grande progetto da perseguire; si fonda sulla frustrazione di persone colte e istruite che non trovano sbocchi professionali; così pure, fa breccia sulla disperazione di chi abita in territori degradati; offre opportunità fondate sul sogno di rivalsa; crea un proprio welfare volto alla soddisfazione del qui e adesso: costruisce infrastrutture (porta l’elettricità nei villaggi e costruisce strade); apre mense; vaccina bambini; paga le famiglie dei kamikaze; sfrutta i social network a fini propagandistici, postando in rete immagini virali che suscitano eccitazione e indignazione; ricorre alla musica per creare identità e rafforzamento nell’immaginario collettivo; affina la manipolazione psicologica per reclutare foreign fighters da tutto il mondo; tocca le corde di sentimenti d’ingiustizia, umiliazione e riscatto; sollecita il bisogno di appartenenza; traduce il profano nel sacro.

Molta letteratura scientifica è concorde nel ritenere che i terroristi non siano pazzi. Anzi, l’arruolamento predilige gente affidabile, scartando chi dà segni di squilibrio. Il processo di selezione dura a lungo: una bomba obbediente e carica d’odio non si improvvisa. E non si sceglie a caso. La carriera di una bomba umana si dipana così dalle prime classi all’ombra di una guida spirituale, attenta a cogliere gli elementi più promettenti. Solo alcuni, infine, vengono selezionati come aspiranti martiri. Fino al grande giorno della chiamata. Il kamikaze esaspera pensieri che non sono esclusivi di un malato, ad esempio la capacità di visualizzare il Paradiso. Annulla la sua vita: è certo che quello sia il sistema più nobile per raggiungere l’aldilà; fede e nazione sono l’unica strada di salvezza e si immola in loro nome perché li considera valori più alti della vita stessa. Per prepararsi al proprio martirio, il futuro kamikaze si concentra sugli aspetti operativi in modo da evitare quelli emotivi; inibisce i sentimenti negativi con la dissimulazione.

Sotto il profilo evoluzionistico, la vocazione a sacrificarsi facendosi esplodere è trasversale, in quanto non è prerogativa dell’uomo, ma anche di alcune specie animali. Un fatto stilizzato, questo, riscontrato fra varie specie di formiche combattenti in diverse parti del mondo (Moffett, 2010). Animali “altruisti”, pronti a sacrificarsi per la propria “tribù”.

Un gruppo di ricercatori, guidati da Alice Laciny, del Museo di Storia Naturale di Vienna, insieme a esperti del Borneo, hanno effettuato uno studio sistematico (Lacinery, A. et al., 2018) in occasione del ritrovamento di nuova specie di formica sviluppatasi nelle foreste dell’Isola del Borneo – ricca di biodiversità – con vocazione di kamikaze, che i ricercatori hanno appunto chiamato “Colobopsis explodens”. Infatti, esse possono suicidarsi, in caso di attacco nemico, contraendo i muscoli addominali.

Aumentando la pressione della parete dell’addome, essa si squarcia, lacerando i tessuti e causando la morte dell’animale. Con l’esplosione, le formiche liberano una sostanza giallastra – appiccicosa, urticante e carica di tossine – attraverso alcune ghiandole prossime alla mandibola. Quest’ultima infatti ha dimensioni maggiori di quella delle altre specie a loro simili: in questo modo l’animale contiene più sostanza tossica da usare in fase di esplosione, causando la morte immediata dell’avversario.

In effetti, non si tratta di un ritrovamento del tutto nuovo poiché già nel 1916, fino al 1935, si erano individuate specie di formiche-kamikaze – allora appellate “giallo goo” per il colore della sostanza emanata una volta esplose – poi però sembrate scomparse. Tuttavia, dai recenti studi della Lacinery e dal suo team sono emersi aspetti particolarmente interessanti, quali l’“efficienza” della “Colobopsis explodens”: riesce a farsi esplodere velocemente e con molta facilità. La gerarchia del formicaio della “Colobopsis explodens” costituisce un ecosistema molto strutturato: le formiche operaie – sterili – escono presto la mattina per procurare il cibo per la comunità. Fra loro, una ristretta squadra rimane invece all’ingresso del formicaio in qualità di sentinelle. La peculiarità comportamentale di queste ultime è quella di sfiorare, toccando con le zampe, ciascuna formica che entra ed esce per riconoscere se appartiene alla stessa comunità. Nei loro esperimenti, volti a verificare la reale efficacia della “Colobopsis explodens”, i ricercatori hanno introdotto all’ingresso del formicaio una loro acerrima nemica, la formica tessitrice. Ebbene, è bastato appena lo sfioramento da parte delle formiche operaie addette alla sorveglianza per osservare come le stesse detonassero uccidendo all’istante lo straniero.

La colonia, dunque, appare un unico superorganismo: in caso di pericolo è disposta a sacrificare una parte di sé per salvare una parte più grande. Sebbene molto rari, esistono in natura altri animali “altruisti” organizzati in grandi colonie e strutture sociali complesse, pronti a sacrificarsi per la propria “tribù” (le api sono un altro importante esempio). Attività di cooperazione e di solidarietà, comportamenti altruistici fino al punto che un animale mette a repentaglio la propria vita a favore di altri esseri della sua specie, hanno portato alcuni a ritenere che, almeno in certi casi, l’evoluzione operi per il bene della specie, e non delle singole unità che la compongono.

L’esempio di una struttura gerarchica a colonia, dove alcune formiche si sacrificano per salvare la loro comunità, si attaglia a una delle motivazioni usate per spiegare perché alcuni soggetti scelgono di diventare kamikaze (Fiocca, Montedoro, 2006). Una delle spiegazioni fornite nel volume Fiocca-Montedoro è di tipo evoluzionistico à la Dawkins, noto biologo evoluzionista.

Secondo il darwinismo “ortodosso”, il perno su cui agisce la selezione naturale è il singolo essere vivente; questi presenta alcuni caratteri o ereditati dai propri ascendenti o che appaiono per la prima volta proprio in lui, per via di una mutazione casuale. L’evoluzione di una specie avviene quando un soggetto, che ha sperimentato tale mutazione casuale, ne trae da essa un vantaggio competitivo rispetto ai suoi simili nella lotta per la sopravvivenza. Infatti, tale vantaggio garantisce all’essere in questione un maggior successo riproduttivo e, pertanto, aumenta le probabilità che il nuovo carattere si trasmetta e si ripresenti nelle generazioni successive, fino a modificare l’intera specie.

Dawkins (1989) sposta la prospettiva dal soggetto nella sua interezza al gene, l’unità biologica elementare, che rende possibile la trasmissione dei caratteri ereditari. La competizione riproduttiva – primo imperativo in natura – sicché è svolta non a livello di singolo individuo /animale, bensì dai suoi geni. Questi ultimi difatti vivono all’interno di in contesto in continua evoluzione – la natura produce sempre nuovi geni – e di forte competizione – tipologie diverse di geni si combattono l’un l’altro per assicurarsi le risorse per la sopravvivenza.

E’ il “gene egoista” a lottare per la sopravvivenza, garantendosi il maggior numero di replicazioni possibile, e quindi la sua sopravvivenza di lungo periodo. L’altruismo di un animale che sacrifica la propria vita suggerisce che l’evoluzione operi per il bene della specie (il formicaio interpretato come superorganismo), e non dei singoli esseri che la costituiscono. Il comportamento suicida si verifica in quanto il gene vocato a tale comportamento ha maggiore probabilità di propagarsi nelle generazioni rispetto a un eventuale gene che eviti l’atto suicida. In tal modo, per la formica sentinella-kamikaze, appartenendo all’interno della specie alle formiche operaie – per loro natura sterili – farsi esplodere per annientare il nemico è l’unico modo per trasmettere i propri geni, preservando la vita della prole della formica regina, prole che nei propri cromosomi ha per la più gran parte i geni della formica-kamikaze.

L’altruismo non è che una forma egoistica di far sopravvivere i propri geni nel tempo (da qui la terminologia di “gene egoista”): aiutando un soggetto della propria specie si aiuta in realtà se stessi. E’ il gene-kamikaze che in realtà vuole sopravvivere nel tempo diffondendosi in altri corpi appartenenti alle generazioni future. Non vuole altro che perpetuare se stesso nel lungo periodo. Il kamikaze, attraverso la solidarietà verso il “branco”, interpretabile in chiave evolutiva facendo riferimento al “gene egoista”, adotta una strategia cooperativa tramite il proprio sacrificio se questo serve a salvare altri organismi portatori dello stesso gene, cioè di “se stesso”. Al gene non importa quale portatore specifico sopravvivrà, ossia il veicolo; ciò per lui rileva è che sopravvivano le sue copie – il prototipo.

Il “ponte” che collega l’economia, la biologia, la psicologia (tra i primi contributi Hirshleifer, 1977, 1978, 1982, 1985; Tullock, 1977) conduce quindi a enfatizzare le basi genetiche delle interazioni socio-economiche e la vera forza dell’altruismo strategico fra soggetti perfettamente egoisti (Fiocca, 1988). Può anche spiegare perché – in ambienti di enorme competizione e conflitto per la sopraffazione reciproca fra gruppi tribali diversi – alcuni individui sono pronti a “farsi saltare” per la sopravvivenza della propria gente. E solo un gruppo straordinariamente potente può modellare la psicologia delle preferenze di un individuo al punto di farlo rinunciare alla propria vita per il gruppo stesso. Specularmente, un membro di un gruppo che rinuncia alla propria vita per un obiettivo stabilito dal gruppo, è la verifica della compattezza e potenza del gruppo stesso. Ogni kamikaze rende visibile al suo gruppo la propria totalità sociale perfetta.

 

Forum della Ricerca in Psicoterapia: il video della seconda giornata – Riccione 2019

Stimolare una riflessione su come la concettualizzazione, la condivisione, la strategia e la tecnica interagiscano tra loro all’interno del processo terapeutico: il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia”

 

Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia” 10-11 maggio 2019, Riccione. Il Forum della Ricerca in Psicoterapia è un convegno biennale organizzato dalle scuole Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Scuola Cognitiva di Firenze, Psicoterapia e Scienze Cognitive in cui gli allievi delle diverse scuole hanno l’opportunità di presentare e discutere i propri lavori di ricerca e casi clinici e ricevere revisioni da parte di ricercatori e clinici di comprovata esperienza. Quest’anno il Forum della Ricerca in Psicoterapia ha avuto come obiettivo quello di stimolare una riflessione su come la concettualizzazione, la condivisione, strategia e tecnica interagiscano tra loro all’interno del processo terapeutico. Il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia” ha il fine di promuovere un confronto tra le diverse prospettive cognitive, una maggiore interazione tra clinica-formazione-ricerca, una riflessione critica sui progressi scientifici nell’ambito della psicoterapia cognitiva, la realizzazione di disegni di ricerca che possano avere rilevanza in ambito clinico e un’analisi critica della concettualizzazione e gestione dei casi clinici.

 

L’interazione tra ricerca e clinica –  Il video della seconda giornata del
Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 di Riccione:

 

Becoming Joker – Basta una brutta giornata per ridurre alla follia l’uomo più assennato del pianeta

Joker è Uscito il 3 ottobre 2019 Ispirandosi all’introspettivo fumetto e con protagonista un sorprendente Joaquin Phoenix. Todd Phillips, il regista di “Una Notte da Leoni” prova a narrare, attraverso il grande schermo, la nascita di Joker e contemporaneamente la morte dell’uomo Arthur Fleck, solo, abusato e malato.

Attenzione! L’articolo contiene spoiler

 

Basta una brutta giornata per ridurre alla follia l’uomo più assennato del pianeta. Ecco tutta la distanza che passa fra me e il mondo. Una brutta giornata”. Erano gli anni 80 e Alan Moore descriveva attraverso questa frase nel suo fumetto “The Killin Joke” quello che un uomo, dopo una lunga serie di tragedie e delusioni, poteva diventare assecondando la scintilla della follia.

Uscito il 3 ottobre 2019 Ispirandosi all’introspettivo fumetto e con protagonista un sorprendente Joaquin Phoenixe, Todd Phillips, il regista di “Una Notte da Leoni” prova a narrare, attraverso il grande schermo, la nascita di Joker e contemporaneamente la morte dell’uomo Arthur Fleck, solo, abusato e malato.

Film d’autore camuffato da cinecomic, la storia è un crescendo di emozioni, commuove e svuota l’anima.

In questo film, le uniche carte che compaiono informano le persone della disabilità di Arthur, queste carte si scusano per questa incontrollabile risata completamente disallineata e in controtempo sulla vita, un tic che arreca dolore al protagonista che si perde nella sua fantasia schizofrenica, depresso e in terapia. La società ad un certo punto però lo colpirà in pieno volto, tra soprusi, problemi a lavoro e la perdita dell’assistenza sanitaria perdendo dottoressa, farmaci e tutta la sua routine, la sottile linea che separa il morale e il giusto dall’immorale e lo sbagliato è visibile e nel momento in cui prende coscienza di essere completamente solo, viene varcata timidamente e verso l’inevitabile…nasce cosi Joker, suo malgrado…sì perché Arthur per tutta la prima parte del film cerca aiuto, è una vittima non un carnefice ma semplicemente non lo trova e spogliato di ogni difesa si abbandona a se stesso, Becoming Joker.

Il lato peggiore della malattia mentale è che la gente vorrebbe che tu ti comportassi come se non la avessi” la lacrima non può non scendere. Colpisce in pieno. Quanto è difficile comprendere la mente, il limite e le patologie ad essa legate, quanto sforzo cercare di immedesimarsi senza riuscire a comprendere realmente.

Perché non accettiamo l’esistenza delle malattie mentali? Perchè è cosi difficile comprendere la sofferenza invisibile? Perché non ce ne curiamo e lasciamo che si ingigantiscano prendendo le forme più svariate e temibili?

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il termine Salute connota “Uno stato di benessere completo, sia sul piano fisico, che mentale e sociale”.

“Salute fisica” e “salute mentale” non possono essere considerate come separate l’una dall’altra eppure ancora oggi la malattia mentale è estremamente sottovalutata, estremizzata e soprattutto ghettizzata in un turbinio di pregiudizi.

Ho notato inoltre che quando si parla di malattia mentale, questa, in automatico, si associa, spessissimo direttamente a persone adulte, ma l’origine di una disabilità mentale o emotiva che sia, non risiede come tutto se vogliamo, nell’infanzia?

Ogni malattia psichiatrica si manifesta per l’interazione di fattori biologici predisponenti e fattori ambientali favorenti. Ci sono persone che nascono geneticamente programmate per sviluppare la malattia mentale.

Quanto si parla quindi di neuropsichiatria infantile?

In Italia si stimano un milione e cinquecentomila minori che soffrono di una patologia mentale. Ma solo al 20 per cento di loro è stata diagnosticata una malattia. Le ricerche scientifiche raccontano un rosario di patologie: schizofrenia, disturbi bipolari, depressione, epilessia, autismo per poi continuare l’elenco che arriva fino alle psicosi precocissime, diagnosticate anche sotto i 12 anni.

 Il principale problema è che l’accesso gratuito alle cure – quelle scientificamente sperimentate e adatte ai bambini e agli adolescenti – nel nostro Paese è possibile solo in pochissimi centri. Il più delle volte la malattia psichiatrica nei bambini e negli adolescenti non viene neppure diagnosticata. Nessuno si accorge che hanno bisogno di cure. Troppo spesso i bambini crescono tenendosi queste patologie e la via della guarigione, una volta adulti, è più difficile da perseguire.

La Neuropsichiatria Infantile è rivolta a bambini, adolescenti e genitori con lo scopo di effettuare una diagnosi tempestiva, clinica e funzionale secondo la classificazione ICD 10, e impostare e attuare l’intervento riabilitativo. Le principali aree di intervento riguardano:

  • disturbi del comportamento in età evolutiva;
  • disturbi dell’umore nell’infanzia e nell’adolescenza;
  • disturbi d’ansia in età evolutiva

quindi si affrontano disturbi come:

  • autismo
  • disturbi d’ansia e depressione in età evolutiva;
  • enuresi ed encopresi;
  • disturbi della nutrizione;
  • disturbi neuromotori;
  • disturbi del comportamento;
  • deficit d’attenzione e iperattività ADHD;
  • cefalea infantile;
  • disturbi generalizzati dello sviluppo;
  • disfonia;
  • deglutizione atipica.

La neuropsichiatria infantile prevede una particolare attenzione al bambino e ai suoi vissuti emotivi, ma anche un’attenzione particolare a tutta la famiglia e ai diversi ambiti che il bambino frequenta. Utile al bambino e non solo, in parallelo dovrebbe essere attuato anche il Parent Training, con lo scopo non solo di sostenere ma di potenziare e valorizzare le capacità educative dei genitori, aiutandoli a comunicare meglio all’interno della coppia e con i figli, sì, perché riuscire a trovare una lingua comune è fondamentale, permette di comprendere meglio ciò che a noi tutti sfugge.

In Joker c’è un’esplicitazione di un disagio vissuto da molti ai nostri giorni, la tragedia di chi si trova ad avere un animo sensibile, ferito, in un mondo spietato.

La bellezza di questo film nasce però soprattutto dalla doppia lettura dettata dalla presenza della sua nemesi. Arthur è portato a scrollarsi di dosso tutto e a reagire assecondando la sua natura, da tutti questi eventi però se per lui la strada prende una certa direzione, contemporaneamente anche quella del suo acerrimo nemico si apre. Nel film il giovane Bruce Wayne vede uccidere nella rivolta i propri genitori, l’ingiustizia è fatta, il dolore si è insinuato anche in questo altro giovane personaggio che lo incanalerà però su tutt’altro percorso. Nasce Joker e lui stesso fa nascere Batman, due facce della stessa medaglia, due modi di rispondere alla vita e al dolore.

Se, come abbiamo detto, qualcuno nasce geneticamente predisposto per sviluppare una malattia mentale, attuando una prevenzione, un percorso di assistenza infantile, si forniranno gli strumenti per eludere la possibilità di trasformarci in Joker.

 

Trauma cranico: deficit cognitivi e comportamentali

Le lesioni cerebrali traumatiche (TBI – Traumatic Brain Injury) sono un problema sanitario rilevante nei Paesi industrializzati, dal momento che rappresentano la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e tumorali. La distribuzione dell’età del Trauma Cranico presenta il picco massimo nei giovani adulti tra i 15 e i 25 anni, soprattutto a causa di incidenti stradali, e un altro negli anziani al di sopra dei 75 anni in cui dominano le cadute accidentali.

Serena Pierantoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

La tipica vittima di politrauma con trauma cranico grave è un giovane adulto, coinvolto in incidente stradale, spesso in associazione ad abuso o intossicazione da farmaci, alcolici e stupefacenti.

Gli studi epidemiologici indicano che da 100 a 300 persone ogni 100.000 ogni anno muoiono o sono ricoverate per un TBI. Il 5-7% di questi traumi è grave, con un alto tasso di mortalità, pari al 40-50% (Rutland-Brown et al., 2006).

I sopravvissuti possono riportare deficit neurologici e neuropsicologici. La fisiopatologia dei TBI è una complessa combinazione di effetti immediati e ritardati e di lesioni focali e diffuse.

Sintomatologia neuropsicologica e valutazione

Nel trauma cranico non esiste un rapporto costante tra i gradi della lesione cranica e quelli della lesione encefalica. Si possono osservare lesioni encefaliche gravi in assenza di fratture craniche o fratture craniche con minime lesioni dell’encefalo.

Un indice fondamentale, da considerare è invece l’eventuale perdita di coscienza in seguito al trauma. La perdita di coscienza rappresenta un indice prognostico negativo: tanto più è prolungata, tanto più la prognosi può essere negativa.

La valutazione iniziale del traumatizzato cranico, pertanto, si avvale della Scala di Glasgow che fornisce indicazioni sullo stato di coscienza del paziente ed elementi utili ai fini della prognosi.

La Scala di Glasgow si basa sul rilievo di tre parametri fondamentali: apertura degli occhi, risposta verbale e risposta motoria. Un GCS (Glasgow Coma Scale) tra 15 e 14 (t.c. lieve) corrisponde a un paziente sveglio o risvegliabile, per il quale comunque non è possibile escludere un deterioramento. Un GCS tra 13 e 9 (t.c. moderato) corrisponde a un paziente confuso, che localizza o allontana lo stimolo doloroso. Un GCS tra 8 e 3 (t.c. grave) corrisponde a un paziente in coma che non risponde agli stimoli dolorosi.

I pazienti traumatizzati che emergono da un coma di solito attraversano una fase di disturbo cognitivo globale definito amnesia post-traumatica (APT). Riacquistano la coscienza, ma restano confusi, disorientati, incapaci di immagazzinare e richiamare informazioni mnesiche. In questo stadio sono frequenti anche disturbi comportamentali come apatia, mancanza di iniziativa, irrequietezza, agitazione, aggressività. Il recupero, in fase acuta, è di solito graduale, si inizia con l’orientamento personale, seguito dall’orientamento nello spazio e quindi nel tempo. Russell e Nathan (1946) hanno dimostrato che la durata dell’APT, che include anche la durata del coma, è uno dei migliori fattori predittivi dell’esito dopo un TBI.

Il paziente con trauma cranico può anche manifestare complicazioni mediche ritardate quali epilessie post-traumatiche o idrocefalo, che vanno prevenute farmacologicamente.

In fase subacuta, quando le condizioni cliniche lo permettono, lo psicologo con formazione neuropsicologica effettua una fase di assessment neuropsicologico. Tramite colloquio clinico e valutazione testistica delle funzioni cognitive, lo psicologo indaga i seguenti aspetti: consapevolezza di malattia; orientamento personale, spaziale e temporale; presenza di deficit attentivi e/o mnesici; presenza di deficit delle capacità logiche; presenza di eventuali deficit sensoriali (visivi, uditivi, etc); stato emotivo e aspetti comportamentali; presenza di confabulazioni o deliri strutturati; presenza di supporto familiare. Va posta attenzione su tutti gli aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali connessi alla sindrome frontale, frequente nei pazienti con TBI.

Al termine della valutazione testistica lo psicologo fornisce al paziente alcuni feedback circa l’esito delle prove neuropsicologiche.

Trauma cranico lieve

A causa della variabilità dei meccanismi patogenetici e dell’entità della lesione cranica, risulta difficile una classificazione sindromica.

Tuttavia è possibile individuare un continuum sindromico che va, in progressione di gravità, da sindromi lievi, caratterizzate da disturbi soggettivamente accusati dai pazienti ma prive di lesioni apparenti, ad una serie di quadri progressivamente più severi con una base lesionale ben definita.

A tal proposito la prima sindrome da considerare è la cosiddetta sindrome soggettiva del trauma cranico lieve. La caratteristica principale della sindrome soggettiva è la discordanza tra i sintomi che il paziente riferisce e la negatività dei reperti obiettivi. I pazienti presentano sintomi lievi e aspecifici di tipo somatico (cefalea, vertigini, nausea, disturbi di vista e udito, insonnia), emotivo-comportamentale (ansia, irritabilità, depressione) e cognitivo (difficoltà di concentrazione e smemoratezza). Questi disturbi possono configurarsi come un vero e proprio cambiamento di personalità e diventare causa di difficoltà relazionali e psico-sociali. Frequentemente i rapporti familiari si deteriorano e il rendimento scolastico o lavorativo diminuisce (Rimel et al., 1981). Per questo tipo di sindrome potrebbe essere utile una terapia psicologica mirata a rassicurare il paziente sulle possibilità di recupero.

In ottica di continuità con il quadro sopra descritto, si devono poi considerare le sindromi la cui natura organica appare, invece, evidente nelle indagini cliniche e nei test neuropsicologici.

In base alla recente definizione del Head Injury Interdisciplinary Special Interest Group of the American Congress of Rehabilitation Medicine (1993) un trauma cranico si può definire lieve quando si manifesta almeno con uno dei sintomi seguenti: perdita di coscienza, deficit mnesico per eventi immediatamente precedenti o successivi al trauma, alterazione dello stato mentale al momento del trauma, deficit neurologici focali. Per essere considerato lieve, il paziente deve aver avuto una perdita di coscienza minore di 30 minuti, un’amnesia post-traumatica minore di 24 ore e un punteggio alla Glasgow Coma Scale minore di 13-15.

I deficit cognitivi e comportamentali rappresentano la principale causa di disabilità nei pazienti con TBI e, anche se sono molto variabili da un paziente all’altro, se ne possono riconoscere alcune tipologie comuni.

Nel trauma cranico lieve emerge non tanto la compromissione di funzioni isolate, quanto un coinvolgimento più diffuso delle funzioni basiche, in particolare delle funzioni di supervisione attentiva, connesse ai lobi frontali, e delle funzioni esecutive più in generale (Kay et al. 1993).

I pazienti con esiti di TBI lieve lamentano affaticamento, difficoltà di concentrazione, minore efficienza nelle attività di vita quotidiana, maggiore lentezza, necessità di notevoli sforzi attentivi e di concentrazione per raggiungere gli stessi obiettivi ottenibili prima del trauma.

A livello di esami testologici emergono solitamente disturbi attentivi, di working memory e delle funzioni esecutive e in particolare: difficoltà a concentrarsi su un compito per un tempo prolungato, difficoltà a compiere più attività contemporaneamente, minore autocontrollo, lievi difficoltà nel giudizio e nell’astrazione, sfumate difficoltà nell’organizzazione del discorso (Schapiro et al. 1993).

Pertanto oltre alle prove neuropsicologiche standard, che consentono di ottenere un profilo cognitivo globale, ne vengono proposte altre che indagano nello specifico alcune componenti. Ad esempio, lo Stroop Color Word Test, il PASAT e il Trial Making Test per l’attenzione divisa e l’information processing, Test di Comprensione non letterale del linguaggio per le capacità pragmatiche e di astrazione, e il Test di Memoria di Prosa per indagare la rievocazione mnestica e di organizzazione gerarchica dei contenuti rievocati.

Frequentemente si rilevano sintomi di ordine emotivo ed affettivo come tendenza all’isolamento, irritabilità, faticabilità, turbe del sonno, diminuzione della libido, astenia generalizzata, labilità emotiva.

Differentemente dal paziente con trauma cranico grave, il traumatizzato lieve mantiene maggiore consapevolezza di malattia e capacità di autocritica. Ciò è, da un lato positivo, perché il paziente sarà più motivato a lavorare sulle sue difficoltà, dall’altro può essere causa di maggiori problemi e del mantenimento degli stessi.

Trauma cranico grave

Per considerare un trauma cranico grave il paziente deve aver perso coscienza per più di 30 minuti, aver manifestato un’amnesia post-traumatica maggiore di 24 ore e aver ottenuto un punteggio alla Glasgow Coma Scale maggiore di 13-15.

I pazienti traumatizzati gravi mostrano frequentemente un quadro neuropsicologico con prevalenza di sintomi frontali nelle diverse componenti: disturbi dell’emotività, disturbi motivazionali, disturbi comportamentali, deficit delle funzioni cognitive.

I disturbi dell’emotività più frequenti sono: l’ottundimento affettivo (il paziente sembra insensibile anche di fronte ad avvenimenti fortemente emotigeni); euforia; diminuzione della competenza sociale (ridotta abilità di mediare e soddisfare le aspettative ambientali e diminuzione dell’impulso a fare).

I disturbi motivazionali riflettono una carenza delle capacità di avviare o mantenere una sequenza comportamentale. I più frequentemente osservabili sono: apatia, inerzia, impulsività, iperattività, faticabilità, estrema distraibilità.

Nella maggior parte dei casi il paziente con TBI presenta disturbi comportamentali frontali quali: perseverazione, aggressività, incapacità di inibire le risposte, atteggiamenti regressivi, dissociazione, richieste inadeguate o inaccettabili, inosservanza delle regole sociali, turbe della sfera sessuale.

Da un TBI possono derivare disturbi sensorimotori minori. Le alterazioni più frequenti comprendono emiparesi, disartria, disfunzione di nervi cranici, disfunzioni olfattive, difficoltà visive, disturbi della deglutizione (Ponsford et al., 2012).

Dal punto di vista cognitivo, i cinque problemi più frequenti riferiti dai pazienti due anni dopo un grave trauma cranico sono: disturbi di memoria, irritabilità, rallentamento psicomotorio, scarsa concentrazione, stanchezza (Van Zomeren, 1985).

Memoria

La natura e la gravità delle difficoltà di memoria possono variare a seconda della sede e dell’estensione del trauma. Il caso più tipico è il paziente che dopo la fase di coma si trova nello stato di Amnesia Post-Traumatica caratterizzato da disorientamento spaziale e temporale e dall’impossibilità di rievocare in modo temporalmente corretto gli eventi delle ultime 24 ore. Superata la fase acuta, il paziente con TBI può presentare amnesia retrograda, quindi un disturbo nella rievocazione di informazioni acquisite prima dell’evento, di durata molto variabile, ma ben limitato nel tempo, precedentemente al quale gli eventi son ben rievocati.

Più frequentemente il paziente con TBI mostra un’amnesia anterograda, cioè una difficoltà ad acquisire nuovi ricordi. La loro prestazione risulta solitamente deficitaria nella rievocazione libera, mentre migliora nelle prove di riconoscimento. Questa sproporzione è stata interpretata come una difficoltà di pianificazione dell’apprendimento e dell’utilizzo di strategie appropriate di memorizzazione. Dunque, sotto molti aspetti, i deficit di memoria sembrano strettamente connessi ai deficit attentivi ed esecutivi. La memoria semantica sembra relativamente preservata, mentre i dati sulla memoria implicita risultano controversi.

Attenzione

La valutazione dei deficit di attenzione non è semplice perché non si tratta di una funzione unitaria. In ogni caso, attenzione e concentrazione scarse e rallentamento mentale sono sintomi frequenti dopo TBI e correlano significativamente alla gravità del trauma.

Solitamente il paziente con TBI presenta un aumento del tempo di reazione, ancora significativo 2 anni dopo il trauma; distraibilità e difficoltà di concentrazione con elevata sensibilità all’interferenza; difficoltà ad eseguire due compiti contemporaneamente.

Sembrerebbe che la vigilanza fasica (capacità di rispondere prontamente ad uno stimolo anticipato da un avvertimento) e l’attenzione sostenuta siano solitamente conservate dopo un TBI.

Indubbiamente il rallentamento è la conseguenza più importante di un TBI ed è probabilmente correlato al danno assonale diffuso. Esso compromette la prestazione in tutti i test cognitivi e attentivi, in cui i pazienti sembrano adottare la strategia che sacrifica la velocità per mantenere l’accuratezza della prestazione.

Funzioni Esecutive

Le funzioni esecutive sono le capacità cognitive coinvolte nella programmazione, regolazione e verifica dei comportamenti finalizzati (Shallice, 1988). La loro principale funzione è coordinare e controllare l’elaborazione delle informazioni in particolare nelle situazioni nuove e complesse. I deficit esecutivi possono essere molto variabili da un individuo all’altro e la loro valutazione neuropsicologica risulta molto complessa. Per natura, le funzioni esecutive sono soprattutto coinvolte in situazioni nuove, non strutturate, diverse dai test neuropsicologici strutturati. Frequentemente i pazienti che sembrano comportarsi in modo adeguato in un ambiente stabile possono mostrare difficoltà nell’adattarsi a situazioni più complesse; pertanto, alcuni pazienti con TBI eseguono i test standard delle funzioni esecutive entro i limiti della normalità, mentre mostrano difficoltà clinicamente significative nella vita quotidiana. I test di uso comune nella pratica clinica per valutare le funzioni esecutive sono i test di fluidità verbale o di disegno. Ampiamente utilizzati sono i test di selezione, per valutare la concettualizzazione, tutti richiedono al soggetto di classificare gli oggetti secondo vari criteri di scelta o di adattare le risposte sulla base dei suggerimenti dati dall’esaminatore (come nel Wisconsin Card Sorting Test).

Modificazioni comportamentali

È difficile distinguere tra ciò che è correlato alle funzioni cognitive e ciò che riguarda i deficit comportamentali. I sintomi più comuni sono irritabilità, stanchezza e mancanza di iniziativa e motivazione. L’origine di questi comportamenti e delle alterazioni di personalità non è ancora chiara. Tali disturbi potrebbero rappresentare l’aspetto comportamentale della sindrome disesecutiva, ma possono anche essere reazioni psicologiche reattive alla comparsa improvvisa di deficit fisici e cognitivi.

Anosognosia

Si è osservato che i pazienti con grave trauma cranico sottovalutano le proprie difficoltà rispetto a quanto riferito da terapisti e familiari (Prigatano e Altman, 1990). Questa mancanza di consapevolezza riguarda problemi cognitivi e comportamentali, mentre i disturbi fisici e sensitivi di solito vengono riconosciuti. La mancanza di consapevolezza è una delle cause principali di fallimento della riabilitazione, tuttavia sembra che l’introspezione migliori nel tempo mentre le reazioni emotive possono peggiorare. La relazione tra deficit cognitivo e mancanza di consapevolezza non è ancora stata chiarita.

Riabilitazione

I programmi di riabilitazione pertanto, vengono effettuati agendo innanzitutto sull’orientamento personale, temporale e spaziale, sulla consapevolezza di malattia e le confabulazioni, perché la loro correzione è fondamentale per il lavoro riabilitativo successivo. Per facilitare la riacquisizione della consapevolezza è indispensabile fornire al paziente feedback o informazioni sullo svolgimento e sui risultati delle attività svolte, sia da parte degli operatori in seduta individuale, sia da parte di altri pazienti osservatori durante le terapie di gruppo.

Non appena il paziente appare in possesso di una comprensione del contesto clinico, si inizia a rieducare le funzioni cognitive: attenzione e concentrazione, memoria, ragionamento, linguaggio.

I trattamenti solitamente prevedono sedute quotidiane della durata di 45 minuti.

Per trattare i sintomi comportamentali solitamente si utilizzano le tecniche comportamentali, che si basano sul rinforzo positivo e/o negativo. Sono stati segnalati risultati positivi in pazienti con comportamento disinibito o aggressivo.

Anche nei pazienti con TBI lieve, che hanno un buon recupero, è comune una riduzione delle attività sociali e di svago rispetto a prima dell’incidente e questa riduzione nella maggior parte dei casi correla con una mancanza di motivazione piuttosto che con limitazioni fisiche. Spesso i pazienti o i loro familiari, a seguito di TBI, lamentano isolamento sociale e abuso di sostanze che possono esacerbare i problemi cognitivi e comportamentali già esistenti, alterare le relazioni familiari e compromettere la reintegrazione lavorativa. A proposito di ritorno al lavoro, questo viene considerato uno dei maggiori indicatori di buon recupero.

Tuttavia, spesso i pazienti non riescono a tornare a lavoro oppure tornano a un livello di responsabilità inferiore rispetto a prima del trauma, che può determinare disappunto e frustrazione.

Per il trattamento del trauma cranico lieve son state identificate alcune linee guida da seguire: informazione, educazione, supporto, terapia cognitiva, incontri con i familiari, monitoraggio.

Il primo passo è fornire al paziente spiegazioni circa i suoi sintomi rassicurandolo sul fatto che sono una normale conseguenza del trauma. Una volta istruito circa le caratteristiche del trauma subito, va educato richiamando il fatto che le capacità che aveva prima dell’incidente nel saper gestire le varie situazioni e i problemi della vita quotidiana, la sua efficienza e la capacità di concentrazione possono diminuire a causa del trauma. Per questo è necessario riprendere le attività in maniera graduale.

Risultano estremamente utili i colloqui di sostegno il cui obiettivo è risolvere il conflitto tra le aspettative del paziente e le capacità attuali con le eventuali limitazioni dovute al trauma. Per i pazienti che mostrano sequele neuropsicologiche è necessario un trattamento riabilitativo costruito ad hoc sulle problematiche emerse, cercando, quando possibile, di ricreare i contesti in cui il soggetto si trova comunemente ad operare.

Oltre a fornire informazioni esplicative al paziente stesso è utile coinvolgere anche i parenti ai quali vanno anche consigliati gli atteggiamenti più opportuni da tenere.

È utile infine un monitoraggio a lungo termine del paziente a frequenza progressivamente ridotta.

Le metacredenze disadattive e l’alta sensibilità alla ricompensa rappresentano fattori di rischio per lo sviluppo di problemi legati all’alcol

Uno studio condotto presso la University of South Dakota negli Stati Uniti, ha evidenziato quali fattori rendano più o meno probabile l’abuso di alcolici e le condotte a rischio a esso correlate in giovani adulti di età compresa tra i 18 e i 25 anni, individuando nelle metacredenze disadattive e nell’alta sensibilità alla ricompensa dei fattori di rischio (Sistad, Simons&Simons, 2019).

 

L’abuso di alcolici rappresenta una problematica sensibile tra giovani adulti di età compresa tra i 18 e i 25 anni: negli Stati Uniti, il 16% dei giovani è un bevitore occasionale, il 40% è un bingedrinker e l’11% è alcolista (Substance Abuse and Mental Health Services Administration; SAMHSA, 2015). Anche le condotte a rischio legate all’abuso di alcolici sono più frequenti durante questo periodo della vita, compromettendo non solo la salute fisica e mentale dei giovani, ma anche le sfere di vita sociali e scolastiche. Negli ultimi vent’anni, la prevalenza degli studenti universitari che abusano di alcolici è rimasta pressoché invariata, suggerendo la necessità di nuovi interventi mirati alla diminuzione del problema (Champion, 2012).

Il presente studio, recentemente  pubblicato sulla rivista Addicted Behaviors Reports, si è posto l’obiettivo di esaminare il rapporto tra i fattori che facilitano e quelli che inibiscono l’abuso di alcolici e i problemi da esso derivano: tra i primi troviamo l’alta sensibilità alla punizione (sensivity to punishment – SP) e le metacredenze adattive, tra i secondi l’alta sensibilità alla ricompensa (sensivity to reward – SR)e le metacredenze disadattive (Sistad, Simons&Simons, 2019).

Gli autori si sono ispirati agli aspetti teorici della recise Reinforce Sensitivity Theory (rRST) di Gray e McNaughton (2000) per avere un quadro generale dell’eziologia dei problemi legati all’abuso di alcolici. Secondo questa teoria, esistono tre sistemi comportamentali ed emozionali che moderano le possibili risposte dell’individuo alla SP e alla SR: essi sono il Fight-Flight-Freeze System (FFFS), il Behavioral Activation System (BAS) e il Behavioral Inhibition System (BIS).Alcuni studi condotti sui sistemi della rRST, hanno dimostrato che un’elevata SR, se unita a una bassa SP, aumenta significativamente la probabilità di un individuo di abusare di alcolici e di intraprendere comportamenti a rischio legati all’uso di alcol e individui particolarmente sensibili alla punizione sono inclini all’utilizzo di alcolici solo nel caso in cui sia elevata anche la sensibilità alla ricompensa (Wardell, O’Connor, Read, &Colder, 2011).

Un altro fattore tenuto in considerazione dagli autori dello studio qui riportato, è l’impatto delle metacredenze, ovvero delle credenze che gli individui hanno sui loro stati mentali e sull’abilità di controllarli, sui comportamenti di abuso di alcolici (Sistad, Simons&Simons, 2019). Le metacredenze adattive riguardano la fiducia nella capacità di controllare e calmare la propria preoccupazione, la capacità di scindere tra gli stati interni e i fattori esterni (“provare ansia non significa che io sia realmente in pericolo”), l’autoriflessione e la flessibilità nel problem-solving, mentre le metacredenze disadattive comprendono le credenze metacognitive positive (“focalizzarmi sulla minaccia mi aiuta a fronteggiarla”) e negative (“non sono in grado di controllare i miei pensieri”; Wells & Cartwright-Hatton, 2004). Queste ultime sono legate a una maggior probabilità di abusare di alcolici, sia nel caso in cui questo venga utilizzato per placare sensazioni negative, sia nel caso in cui le credenze positive e negative riguardino direttamente gli effetti degli alcolici (“bere mi aiuta a controllare i miei pensieri”, “anche se ci provo, non riesco a controllare la mia voglia di bere”; Clark et al., 2012).

L’ipotesi dello studio di Sistad e colleghi (2019) è che l’effetto della SR e della SP cambi a seconda della natura e della forza delle metacredenze adattive e maladattive sull’abuso di alcolici. Sono stati reclutati 355 soggetti di età compresa tra i 18 e i 25 anni per indagare le possibili associazioni tra SR, SP e metacredenze: i partecipanti hanno completato il Metacognition Qustionnaire-30 e il Positive Metacognitions and Positive Meta-emotions Questionnaire per indagare la natura delle metacredenze, il Modified Daily Drinking Questionnaire e il Young Adult Alcohol Consequences Questionnaire per analizzare la frequenza dell’utilizzo di alcolici e dei comportamenti rischiosi a esso correlati e, per ottenere una misura della SR e della SP, hanno infine compilato il Reinforcement Sensitivity Theory of Personality Questionnaire.

L’ipotesi di ricerca è stata solo parzialmente confermata: i risultati dei test confermano che il rapporto tra la SP e la SR può predire il consumo e l’abuso di alcolici (nel caso in cui la prima sia inferiore e la seconda superiore) e che l’interazione tra l’incontrollabilità/pericolosità del pensiero (metacredenze negative) e un’elevata SR aumenta la probabilità di mettere in atto condotte a rischio legate all’uso di alcol. Al contrario, i dati non hanno mostrato una capacità significativa di predire i comportamenti d’abuso nel caso in cui tutte e tre le variabili (SR, SP e metacredenze adattive e maladattive) siano messe a confronto (Sistad, Simons&Simons, 2019). In conclusione, il presente studio conferma che l’elevata sensibilità alla risposta sia un ottimo predittore del rapporto con gli alcolici durante la prima età adulta, sia quando associato a una bassa sensibilità alla punizione, sia quando associato a metacredenze negative riguardanti la pericolosità e l’incontrollabilità del pensiero.

Il ruolo del linguaggio nello sviluppo della teoria della mente nel bambino

Per comprendere credenze proprie e altrui è richiesta la consapevolezza del fatto che ogni persona possiede una visione del mondo soggettiva. Negli ultimi anni numerosi studi hanno sottolineato l’importanza del linguaggio nella comprensione delle credenze e alcuni ricercatori hanno cercato di fornire delle prove dell’associazione tra linguaggio e teoria della mente.

Roberta Carugati e Federica Ferrari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Teoria della mente e linguaggio

Diversi studi hanno identificato una forte correlazione tra linguaggio e lo sviluppo della teoria della mente. Gli esseri umani prima di acquisire il linguaggio possiedono già alcune competenze che riguardano il mondo circostante e anche abilità riguardanti la cognizione sociale, per esempio sono in grado di condividere l’attenzione con altre persone, ed indirizzarla su eventi esterni mediante il gesto di indicazione (Carpenter, Nagell, Tomasello, 1998) e discriminare azioni intenzionali da quelle non intenzionali. Tuttavia l’abilità dei bambini di comprendere stati mentali più astratti e profondi è una questione più complicata (Lohmann, Tomasello, 2003).

Negli ultimi anni numerosi studi hanno sottolineato l’importanza del linguaggio nella comprensione di compiti di credenza. Per comprendere le credenze proprie e di altri è richiesta la consapevolezza del fatto che ogni persona possiede una visione del mondo che è soggettiva, poiché dipende dalla propria esperienza personale, che può essere o non essere condivisa da altre persone. I principali filoni di ricerca che hanno cercato di fornire delle prove dell’associazione tra linguaggio e teoria della mente sono due, quello correlazionale e quello con i training.

Tra gli studi correlazionali ce ne sono numerosi che hanno dimostrato la relazione tra sviluppo linguistico e comprensione degli stati mentali, anche quando la misura del linguaggio veniva rilevata molti mesi prima rispetto ai compiti di falsa credenza (questi compiti indagano la presenza nel bambino della capacità di pensare a un’altra persona come soggetto che possiede una credenza che è falsa rispetto alla realtà; Dunn et al., 1991; Astington, Jenkins, 1999; Gale, de Villiers, de Villiers, Pyers, 1996; Farrar, Maag, 2002; de Villiers, de Villiers, 2000; Watson, Painter, Bornstein, 2002). Gli studi che utilizzano il training invece, hanno il vantaggio di dimostrare specifiche relazioni causali tra il training a cui sono sottoposti i bambini e le misure di abilità che emergono in seguito. Appleton e Reddy (1996), ma anche altri ricercatori (Slaughter, 1998; McGregor, Whiten, Blackburn, 1998), si sono occupati di misurare dapprima le iniziali competenze di alcuni bambini in compiti di falsa credenza, successivamente di sottoporli ad un training in cui era implicato l’uso del linguaggio e, infine, rimisurare le loro competenze in una fase di post test per verificare gli eventuali miglioramenti. Il tipo di training era ovviamente diverso all’interno di ogni ricerca tuttavia mancava un gruppo di controllo necessario a dimostrare che i miglioramenti che si verificano in una condizione sperimentale dipendono solo ed esclusivamente dal training sul linguaggio e non da altri fattori che concorrono (Lohmann, Tomasello, 2003).

Sebbene sia noto che il linguaggio giochi un ruolo importante nella successiva comprensione della falsa credenza, poche ricerche hanno cercato di indagare più nel profondo la specificità di questo ruolo. Da tutti gli studi sono emerse 4 ipotesi.

1. La prima ipotesi deriva dall’approccio theory-theory e sostiene che il linguaggio non ha un preciso ruolo nella comprensione della falsa credenza, poiché i bambini formano costantemente teorie sulle altre persone e le loro menti, per cui i dati linguistici vengono utilizzati di certo, ma non in modo così rilevante (Gopnik e Wellman, 1992).

2. La seconda ipotesi sostiene che imparare termini come credere, sapere, pensare, il cosiddetto lessico psicologico, sia fondamentale per riuscire a risolvere questi compiti di credenza, poiché vengono usati per riferirsi a stati interni (Olson, 1988). Numerose ricerche hanno mostrato evidenze della relazione tra la comparsa di  questo particolare lessico e lo sviluppo di una teoria della mente (Baumgartner, Devescovi, D’Amico, 2000; Ruffman, Slade, Crowe, 2002; Ornaghi, Grazzani Gavazzi, 2009, Lecce, Pagnin, 2007a, 2007b). Nello specifico, questo particolare lessico, che viene chiamato anche mentalistico, è costituito da parole che si riferiscono a stati psicologici interiori e contiene termini percettivi, emotivi e volitivi e anche morali che è possibile osservare in contesti naturalistici di interazione quotidiana (Dunn, Brophy, 2005; Nelson, 1996). Il lessico psicologico fa la sua comparsa nel vocabolario del bambino a circa due anni e cresce per complessità, poiché i primi a comparire sono i termini psicologici che si riferiscono a se stessi come “non mi piace”, poi vengono usati per riferirsi agli altri “lui pensa”; anche i termini che si riferiscono a volontà e desideri, i cosiddetti volitivi e quelli di tipo percettivo, possono trovarsi nei dialoghi di bambini di due anni (Ornaghi, Grazzani Gavazzi, Zanetti, 2010) che li usano anche per trovare spiegazioni al comportamento degli altri. Abbastanza precocemente si possono ritrovare anche termini ti tipo emotivo, che si riferiscono sia a stati positivi, come essere felice, contento, sia con valenza negativa, come essere arrabbiati o tristi; si ritrovano anche termini che fanno riferimento prima alle emozioni di base (Ornaghi, Grazzani Gavazzi, Zanetti, 2010), in seguito a emozioni più complesse quali odio, amore, sorpresa (Grazzani Gavazzi, 2011). Per quanto riguarda i termini di tipo cognitivo, ovvero parole che si riferiscono a pensieri, immaginazioni e credenze, essi compaiono a partire dai tre anni di età (Ornaghi, Grazzani Gavazzi, Zanetti, 2010). Quindi è solo con l’aumentare dell’età e con il conseguente sviluppo che i bambini arricchiscono il loro vocabolario divenendo capaci di discriminare le varie emozioni e di utilizzarle in modo appropriato nelle interazioni.

Autori come Lecce e Pagnin (2007) hanno sostenuto l’idea che non sempre la comprensione del lessico emotivo coincide con l’utilizzo che il bambino fa di questi termini, poiché quest’ultimo potrebbe semplicemente dipendere dalla situazione e non sottendere quindi ad una reale comprensione, mancando anche della dimensione soggettiva, che è caratteristica fondamentale di quella emotiva. Per quanto riguarda il lessico mentalistico è necessario sottolineare che esiste, anche in questo caso, un utilizzo differente, che varia da bambino a bambino, e ciò dipende da alcuni fattori che ne influenzano sia la comprensione che la produzione. I fattori familiari sembrano essere molto importanti, poiché è stato dimostrato che l’utilizzo del lessico psicologico da parte della madre correla con lo sviluppo della teoria della mente (Theory of Mind – ToM) nel bambino, infatti quanto più fa ricorso a questi termini nel dialogare con il figlio quanto più le prestazioni di quest’ultimo saranno migliori in compiti di falsa credenza (Dunn, Brown, Beardsall, 1991; Ruffman, Slade, Crowe, 2002; Ornaghi, Grazzani Gavazzi, Zanetti, 2010; Symons, Fossum, Collins, 2006). L’importanza dell’ambiente anche nel contesto del lessico psicologico è stata approfondita da Lecce e Pagnin (2007) riferendosi al pensiero di Vygotskij (1978) il quale sosteneva che il fattore principale dello sviluppo personale fosse l’interazione con l’altro e la conseguente condivisione di esperienze, dal momento che, interagendo con partner più abili e competenti, il bambino poteva anch’esso fare esperienza e trovare nella relazione gli strumenti necessari per consolidare quelle conoscenze che altrimenti non sarebbe in grado di fare da solo. Per autori come Harris (1996) questo è ciò che accade per l’apprendimento del lessico mentalistico. Ovviamente, come per molte competenze, la cultura di appartenenza è responsabile di alcune differenze. Oltre al fatto di stabilire le modalità comportamentali di una determinata emozione, il suo oggetto e il suo valore, è anche responsabile del lessico con cui gli individui ne parlano (Battacchi, 2004).

Tornando alla letteratura esistente sul ruolo del lessico psicologico nello sviluppo della comprensione degli stati mentali, una ricerca di Ornaghi, Grazzani Gavazzi, Zanetti (2010) si è occupata di indagare la presenza di correlazioni tra la comprensione e la frequenza d’utilizzo di questo lessico e le loro prestazioni in compiti di ToM, ampiamente documentata in bambini prescolari (Lecce, Caputi, Pagnin, 2009; Longobardi, Pistorio, Renna, 2009) e in bambini di età scolare, per verificare se questa relazione rimaneva stabile anche in bambini più grandi. I risultati di questa ricerca hanno indicato una stabilità di correlazione tra produzione e comprensione di lessico mentalistico e abilità in prove di teoria della mente.

3. La terza ipotesi è stata avanzata dagli autori de Villiers e de Villiers (2000), che hanno proposto l’idea che la sintassi usata dagli adulti per riferirsi alle credenze e agli stati mentali serva al bambino per crearsi formati rappresentazionali necessari per affrontare i compiti di falsa credenza. In particolare, ciò che è importante è la comprensione di frasi in cui nella principale è situato il verbo che fa riferimento allo stato mentale, come per esempio “la mamma pensa”, e nella subordinata è presente il complemento che contiene il contenuto specifico dello stato mentale (“che non ho fatto i compiti”). In questa tipologia di frasi grammaticali la frase principale può esistere anche da sola e può essere vera, mentre non lo è necessariamente quella subordinata ( ad esempio la mamma pensa che non ho fatto i compiti ma in realtà li ho fatti). Per gli autori la comprensione da parte del bambino di questo concetto permette in seguito di comprendere gli stati epistemici nelle altre persone.

Numerosi studi hanno confermato la correlazione tra la competenza in questa tipologia di frasi e le prestazioni in compiti di teoria della mente in bambini di età prescolare (de Villiers, Pyers, 1997; Tager-Flusberg, 1997, 2000; Hale, Tager-Flusberg, 2003). In un una ricerca di Hale e Tager-Flusberg (2003) che ricorreva all’utilizzo di un training, le autrici hanno indagato se queste specifiche strutture grammaticali, piuttosto che aspetti del linguaggio più in generale, avessero un ruolo importante nello sviluppo della ToM in bambini di età compresa tra i 36 e i 58 mesi. I risultati di questa ricerca hanno mostrato che il gruppo di bambini a cui era stato sottoposto ad un training specifico riguardante le subordinate oggettive otteneva miglioramenti nelle prestazioni a compiti di teoria della mente, mentre questo effetto non si verificava nei bambini il cui training era centrato sulle frasi relative. Tuttavia, non si verificava neanche la situazione contraria, poiché il training sui compiti di falsa credenza non portava a miglioramenti in compiti di proposizioni oggettive anche se questi bambini andavano incontro a miglioramenti in compiti di ToM molto simili al primo gruppo. Questi dati sostengono l’ipotesi che l’acquisizione di queste strutture grammaticali non sia necessariamente un prerequisito per lo sviluppo di una comprensione della mente rappresentazionale (de Villers, 1995, 2000; Hale, Tager-Flusberg, 2003). Concludendo è possibile affermare che la conoscenza di particolari strutture grammaticali è ugualmente importante nel facilitare lo sviluppo della teoria della mente. Per le autrici il linguaggio non riflette o comunica semplicemente emozioni, pensieri o credenze, ma piuttosto esprime una conoscenza linguistica strutturale specifica che favorisce l’abilità di attribuire esplicitamente a se stessi e agli altri questi stati mentali (Hale, Tager-Flusberg, 2003).

4. L’ultima ipotesi avanzata da Harris (1996, 1999) riguarda il fatto che non è la struttura grammaticale ad influenzare la comprensione di compiti di falsa credenza, quanto piuttosto lo scambio linguistico che il bambino sperimenta in interazione con gli altri. Secondo l’autore il concetto di credenza come stato mentale, acquista significato solo all’interno di situazioni in cui essa può essere vera o falsa. E’ all’interno di un discorso, che il bambino capisce che una persona può avere conoscenze che lui non possiede e che su uno stesso argomento possono esistere differenti punti di vista (Harris, 1996, 1999; Lohmann e Tomasello, 2003).

Date queste quattro ipotesi, e spiegate le prove a sostegno di ciascuna, alcuni autori hanno indagato più a fondo, tentando di dare risposte definitive, su ciò che riguarda il ruolo del linguaggio nel favorire le competenze mentalistiche.

Lohmann e Tomasello nel 2003 hanno condotto una ricerca che ha coinvolto più di centotrenta bambini di tre anni di età circa in alcune condizioni sperimentali. Il training di base ha preso spunto da quello di Slaughter e Gopnik (1996): i bambini appartenenti al gruppo sottoposto al training visionavano un numero di oggetti, alcuni dei quali avevano un aspetto estetico che non corrispondeva alla sua funzione (ad esempio un fiore che ad una successiva analisi si rivelava essere una penna). Gli oggetti venivano mostrati uno per uno e a questo seguiva una discussione in cui lo sperimentatore forniva suggerimenti o correzioni ai commenti che il bambino faceva. Il gruppo di controllo visionava solamente gli oggetti ma non partecipava ad alcuna discussione. I risultati hanno dimostrato che il linguaggio è una condizione necessaria per i bambini piccoli affinché si verifichi un miglioramento nella comprensione della falsa credenza, infatti la semplice vista di oggetti ingannevoli non è sufficiente; piuttosto, i bambini necessitano che questa esperienza venga strutturata attraverso il linguaggio. I gruppi sperimentali sono stati sottoposti anche ad un training sulle proposizioni oggetto e questo ha portato ad una significativa facilitazione nella comprensione di compiti di falsa credenza, anche se l’effetto maggiore è stato registrato in quei bambini il cui training combinava entrambi gli aspetti. Il linguaggio quindi sembra essere un forte facilitatore, se non addirittura un aspetto indispensabile nello sviluppo della falsa credenza.

Ulteriori evidenze di quest’ultimo aspetto provengono dalle ricerche su popolazioni atipiche. Bambini sordi, nati da famiglie udenti, che non hanno avuto a disposizione alcun mezzo per poter conversare con i familiari su stati mentali nei loro primi anni di vita, sperimentavano presumibilmente le stesse situazioni dei loro coetanei udenti, in cui osservavano le reazioni degli altri o avevano loro stessi credenze erronee, ma non riuscivano a risolvere compiti connessi a queste abilità nonostante fossero coetanei (de Villers, de Villers, 2000; Gale et al., 1996; Peterson, Siegal, 1995, 1998, 1999, 2000; Lohmann, Tomasello, 2003). Al contrario bambini sordi, nati in famiglie che ricorrono all’uso dei segni, e che quindi possono condividere un sistema comunicativo grazie al quale sperimentare esperienze più ricche dal punto linguistico, sviluppano i concetti di falsa credenza nello stesso periodo di bambini udenti (Peterson, Siegal, 1999, 2000). Ciò che continua a non essere chiaro è se il linguaggio è un prerequisito essenziale per l’emergere della Teoria della Mente oppure se semplicemente ne facilita lo sviluppo. I meccanismi specifici che dal linguaggio conducono alla comprensione delle menti rimangono ipotesi. Il linguaggio, in particolare quello riferito agli stati mentali, può incoraggiare chi lo apprende a prestare attenzione ai pensieri e credenze interni, che prima erano stati ignorati (Gopnik, Meltzoff, 1997). Queste conclusioni non escludono che anche il ruolo dell’esperienza sociale sia importante e necessaria (Hobson, 2004).

Una serie di ricerche si è occupata di indagare il ruolo che il linguaggio materno occupa nello sviluppo delle abilità mentalistiche nel bambino. Studi recenti hanno osservato che, anche quando i bambini presentano uno sviluppo del linguaggio tipico, lo stile comunicativo delle madri, che è qualcosa di personale e diverso in ogni persona, influenza la comprensione che il bambino ha sugli stati mentali (Harris, de Rosnay, Pons, 2005). In uno studio di de Rosnay, Pons, Harris, Morrel del 2004, è emerso che l’uso che le madri fanno di termini mentalistici per descrivere i loro figli (es. il concentrarsi di più su aspetti psicologici e meno su quelli comportamentali o estetici) correla con le prestazioni in compiti di falsa credenza nei bambini, ma anche con quelle in compiti di attribuzione delle emozioni contenute in piccole storie; per cui le descrizioni mentalistiche delle madri predicono la capacità dei figli di attribuire emozioni corrette negli altri (Harris, Pons, de Rosnay, 2005).

Altri ricercatori hanno analizzato le tappe di acquisizione del lessico emotivo nel bambino videoregistrando le interazioni con la madre e hanno riportato che è intorno ai diciotto mesi che compaiono i primi termini (Bretherton, 1987; Bretherton et al., 1981, 1986; Dunn, Munn, 1987), mentre poco prima dei trenta mesi i bambini sembrano essere in grado di parlare delle emozioni provate da se stessi e anche di riflettere su quelle degli altri (Bretherthon, Beeghly, 1982).

Un ulteriore studio ha dimostrato che anche il linguaggio paterno è importante nel successivo sviluppo della cognizione sociale, competenza composta da due distinti aspetti quali la comprensione delle emozioni e la teoria della mente, entrambe influenzate dagli stili conversazionali dei genitori (LaBounty, et al., 2008). I genitori quindi riferendosi maggiormente alle credenze e ai desideri nei loro dialoghi e conversando su stati emotivi negativi, influenzano chiaramente la comprensione che il bambino ha sulle menti altrui (LaBounty et al., 2008).

La correlazione tra linguaggio e abilità di mentalizzazione in diverse culture

La maggior parte degli studi che ha indagato la correlazione tra linguaggio e teoria della mente ha utilizzato prevalentemente parlanti di lingua inglese, tuttavia diversi studi transculturali hanno dimostrato come questa relazione sia presente e valida anche per altre lingue. Nello specifico, uno studio di Shatz e colleghi (Shatz et al., 2003) basandosi sulle ricerche di Lee, Olson, e Torrance (1999), ha indagato le prestazioni di quattro gruppi di bambini prescolari parlanti turco, portoghese, inglese e spagnolo portoricano (lingue  scelte in base alla presenza o assenza di termini espliciti per riferirsi a credenze) in compiti di falsa credenza. Infatti, ogni lingua possiede dei termini coniati per riferirsi a stati mentali, solamente che nel caso dell’inglese e del portoghese brasiliano, una stessa parola viene utilizzata per esprimere diversi significati: nel caso dell’inglese il termine think si trova in frasi in cui si segnala un’azione mentale (ad esempio I’m thinking about the party), oppure una credenza che sappiamo essere falsa, ma per qualcuno ritenuta vera (es. Maria thinks that Milan is in France), infine anche un pensiero verso cui il parlante che riporta la frase ha un atteggiamento neutrale (Giorgio thinks that it will be sunny tomorrow) (Shatz et al., 2003). Questo non accade per quelle lingue come lo spagnolo o il turco in cui si ricorre a parole differenti per esprimere i concetti sopra citati. I risultati di questa ricerca hanno mostrato che, la presenza di termini espliciti all’interno della lingua, influenzava minimamente le prestazioni dei bambini in questi compiti, mentre risultavano più importanti gli effetti legati allo status socioeconomico (Shatz et al., 2003).

Una ricerca di Liu e colleghi (Liu et al., 2008) ha confrontato le prestazioni di bambini cinesi e nord americani in compiti di falsa credenza. I risultati hanno dimostrato che il primo gruppo presentava un ritardo nello sviluppo di questa abilità, tuttavia si trovava avvantaggiato in compiti sulle funzioni esecutive, abilità che correlano con i successivi punteggi in compiti di falsa credenza. Questi risultati contraddittori, possono essere spiegati sulla base del fatto che non sono stati tenuti in considerazione alcuni fattori come l’avere o meno dei fratelli o essere bilingue. Per questo motivo gli autori sono arrivati alla conclusione che non è la presenza di un singolo fattore linguistico o socioculturale a causare delle differenze nella comprensione della mente altrui, ma piuttosto esistono numerosi fattori e processi che possono verificarsi (Liu et al., 2008).

 

La risata perturbante, straziante ed assordante di Joker

La risata perturbante, straziante ed assordante di Joker. Il monito dato dalla madre di sorridere e di “mettere una faccia felice”.

Attenzione! L’articolo contiene spoiler

 

“Sono solo io o in giro tutti stanno diventando più pazzi?” questa la domanda che attanaglia per tutta la vita il protagonista dagli occhi tristi e dalla risata angosciante, penetrante e respingente. Tale sghignazzata (a tratti simile ad un gemito) non è la risposta a situazioni di gioia, divertimento, benessere o stimolazioni fisiche; è, al contrario, una risata patologica che consiste in episodi incontrollati di riso, scatenati da stimoli apparentemente non rilevanti (cioè sollecitazioni che normalmente non causerebbero tale risposta emozionale). Talvolta si passa bruscamente al pianto ed in alcuni momenti non si capisce chiaramente se Joker stia piangendo o ridendo, quasi come se l’uno diventasse l’altro in modo circolare, confuso ed incontrollato.

L’incipit del film, la scena allo specchio, designa quanto possa essere labile la distanza da un’espressione felice ad una triste. Con il fisico scarno ed emaciato da una solitudine corrodente ed affamante e con le espressioni facciali distorte tanto quanto le percezioni della mente che le muove, il film Joker, infastidisce e disturba perché nel suo trasfigurare verso il male riflette un dolore ed una richiesta d’aiuto antica, soffocata e profonda, mai capita, ascoltata ed accolta. Colpisce e permea con le sue esplosioni di violenza e con le sue manifestazioni disperate e sofferte di tormento.

Arthur, il protagonista, è un emarginato con problemi psichici, a tratti dal candore bambinesco, sopraffatto da un’inquietudine pervasiva che convoglia il suo senso di inadeguatezza al mondo in un disturbo psicosomatico: è aggredito da una risata graffiante ed isterica che scoppia tutte le volte che prova disagio. E’ ghettizzato, schernito; più volte viene aggredito. E’ ingaggiato come clown per un’agenzia, divide l’appartamento con la bizzarra madre e anela a diventare uno stand-up comedian. Nel taccuino che porta sempre con sé, dove scrive barzellette, si scorge una scritta “la parte peggiore dell’avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che tu ti comporti come se non l’avessi”. Cerca incessantemente di celare il suo dolore che in realtà lo sopraffà, lo pervade e caratterizza.

Lo spettatore è coinvolto nello straniante stato simil-allucinatorio vissuto da un uomo che è considerato, dai più, invisibile o al massimo un freak e che, a un certo punto, non avendo più nulla da perdere si aggrappa all’idea che niente più potrà ferirlo. La sua volontà criminale si è nutrita sempre e solo di sofferenza ed è nata in seno ad un habitat sociale che fa dell’iniquità, della sofferenza, della povertà e della marginalità il suo humus e la sua normalità.

Due elementi fortemente significativi e peculiari del personaggio sono la risata e la danza. La prima, strozzata in gola, sinistra, fragorosa e stridula, da brivido, sembra essere presente nei suoi momenti di disagio; una sorta di rantolo che tiene insieme lo stupore e l’orrore dell’essere ancora vivo, i traumi di un bambino che traghettano ad un uomo avvolto in una maschera di laconica tristezza. La seconda sembra manifestarsi, in modo ritualistico, potente e misterioso anche per suggellare gli atti violenti che compie; è una sorta di danza ornamentale, leggera, elegante, composta, quasi solenne con passi appena accennati, quasi come se stesse accarezzando il terreno in modo soave così come nessuno ha fatto con lui da bambino.

Il film risulta essere incentrato sulla figura del protagonista, i cui disagi rappresentano il riflesso di una società malata, ipocrita e violenta, nonché di una città, New York, velatamente trasformata in Gotham City, allo sbando, degradata, sporca e respingente, intrisa di malessere sociale e generalizzato in cui tutti, ricchi e poveri, sembrano mancare totalmente di empatia verso il prossimo, una sorta di giungla d’asfalto. Potremmo considerare il film quale riflessione sulla genesi della violenza ai giorni nostri; siamo nell’età degli incel, “celibi involontari” rifiutati perché non attraenti. Arthur per esprimere i propri stati d’animo non usa le parole, ma danza, seguendo un ritmo e una musica che solo lui sembra sentire, come se la musica lo cullasse.

Il film evoca malessere, mette paura, angoscia, inquietudine. La risata incontrollata che anima Arthur prima che diventi Joker, aspirante comico che invece di far ridere è solo oggetto di scherno, rimane addosso; i suoi sogghigni da brivido aggrediscono, il suo malessere corrode.

Il protagonista usa il film come un palcoscenico ed arriverà a un punto di rottura oltre il quale perderà il contatto con la realtà, trasformandosi da reietto, disadattato gentile a killer spietato. È un racconto tragico e la sua deriva violenta è la svolta di un passato di emarginazione e sopraffazione e prima ancora di percosse fisiche, assistite e subite, avvenute in quello che sarebbe dovuto essere un ambiente sano, sicuro accudente. È una sorta di riscatto malato per chi come lui da sempre vive prevaricazioni e deprivazioni affettive e violenze corporee e psicologiche.

Due ore di film, di primi piani, della sua dolorosa risata da iena, di denti storti, lacrime, di un corpo magrissimo che si contorce. C’è una tensione continua, uno strazio omnipresente, un bambino non accudito, un adulto non curato. C’è una solitudine profonda, un assillo quasi tangibile, una richiesta angosciata e straziante di verità, un bisogno ancestrale di risposte, il desiderio di capire, di comprendere, di andare alle origini.

Joker ballerino è spiazzante, ipnotico e terrificante allo stesso tempo. L’intento del film sembrerebbe essere una denuncia di ingiustizie ripetute senza però porre soluzioni; si tende a solidarizzare con chi però alla fine assurge a simbolo di una brutalità dagli ideali anarchici, vittima della violenza sia familiare che della società e di un’ingiustizia sociale che causa rabbia e frustrazione.

Nel film anche i servizi pubblici, che dovrebbero occuparsi del benessere di un soggetto emotivamente debole, fragile e vulnerabile, gli chiudono le porte d’emblée poiché “hanno tagliato i fondi”: Arthur non potrà più essere seguito, sarà lasciato abbandonato a se stesso. Ciò che si potrebbe scorgere, e potrebbe far riflettere taluni in modo proattivo, è magari una possibilità tanto ipotetica quanto bramata di serenità e guarigione che gli viene preclusa in quanto abbandonato dalla società.

 

Recensione dei volumi pubblicati dalla SIPSOT, Società Italiana di Psicologia dei Servizi Ospedalieri e Territoriali. 

Recensione dei volumi La valutazione dell’esito dei trattamenti psicologici. Strumenti operativi per la pratica clinica (2018) e Il monitoraggio degli esiti e dei progressi in psicoterapia. La famiglia CORE (2019) a cura di Guido Rocca.

 

Durante un soggiorno di training psichiatrico in Inghilterra circa quindici anni fa, mi imbattei nel questionario di esito Clinical Outcome for Routine Evaluation- Outcome Measure (CORE-OM) e ne fui molto colpito per la semplicità unita all’utilità nella pratica clinica. Ebbi la fortuna di conoscere in quell’occasione lo psicoterapeuta inglese Chris Evans, uno degli autori del questionario, che mi autorizzò a lavorare sulla validazione italiana. La validazione italiana del CORE-OM divenne così l’argomento per la mia tesi di dottorato e vide la gradita partecipazione della Società Italiana di Psicologia Ospedaliera e Territoriale (SIPSOT) e la persona che favorì questa collaborazione fu il compianto collega Francesco Reitano (Palmieri et al., 2009). Seppure non mi occupi più tanto dell’argomento valutazione degli esiti sono davvero felice che il lavoro di validazione svolto abbia permesso al CORE-OM di trovare una diffusione nazionale in ambito pubblico e privato. Il collega Guido Rocca della SIPSOT, che invece si occupa correntemente dell’argomento, mi ha mandato recentemente due volumi davvero interessanti di cui credo valga la pena parlare.

La SIPSOT si pone come vision la realizzazione di un modello culturale che possa costituire riferimento e guida per i servizi di psicologia presenti nelle strutture ospedaliere e territoriali del SSN. Una delle metodologie ormai imprescindibili, nei servizi pubblici che forniscono trattamenti psicologici, è la valutazione routinaria dell’esito delle prestazioni cliniche. Proprio a partire dal progetto di validazione multicentrica del CORE-OM si sono costruite le fondamenta per l’avvio di una Rete per la Ricerca Basata sulla Pratica Psicologica, verso cui la SIPSOT continua a guardare, con l’obiettivo ambizioso di costruire un database nazionale italiano sulla valutazione d’esito dei trattamenti psicologici erogati nel SSN. I frutti di tale impegno cominciano ad intravedersi nella progressiva implementazione di sistemi omogenei di valutazione d’esito in molte realtà operative, prevalentemente fondate sull’utilizzo del CORE-System. E’ indubitabile che la valutazione routinaria dell’esito sia fondamentale nell’operatività di un servizio sanitario, sia per le implicazioni cliniche che di governo della psicologia. Il DPCM del 12 gennaio 2017 definisce i nuovi Livelli essenziali di assistenza (LEA). I LEA sono le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (tasse):

il SSN […] garantisce le prestazioni, […] psicologiche e psicoterapeutiche […] mediante l’impiego di metodi e strumenti basati sulle più avanzate evidenze scientifiche, necessarie ed appropriate.

A questo grande riconoscimento, che ribadisce l’essenzialità della psicologia nell’ambito dell’assistenza sanitaria pubblica, corrisponde anche la responsabilità di privilegiare l’adozione di interventi basati sulle evidenze e clinicamente appropriati.

Esistono anche importanti implicazioni cliniche legate alla valutazione dell’esito. Le ricerche definiscono tale prassi una EBP (Evidence-Based Practice), la cui solidità rimanda pertanto ad un elevato livello di raccomandazione di utilizzo, e a responsabilità anche di natura etica. In maniera pressoché unanime, le principali associazioni scientifiche professionali internazionali (tra cui, l’American Psychological Association, Task Force 29 Evidence-Based Therapy, 2011), ribadiscono le forti evidenze nei vantaggi di utilizzo di tale metodologia, enfatizzando gli effetti del monitoraggio del trattamento e del feedback sul paziente sul rinforzo dell’alleanza terapeutica, sul contenimento dei rischi di peggioramento e dei tassi di drop-out.

La pubblicazione del 2018 propone alcuni spunti metodologici e operativi di supporto all’attività professionale degli psicologi e degli psicoterapeuti, favorendo l’adozione di standard di qualità nell’erogazione dei trattamenti. Ad introduzione viene proposto il lavoro di David Sperlinger, (2002, BPS), che evidenzia gli step principali da affrontare nella implementazione di un sistema di monitoraggio degli esiti. Segue il testo di una lunga intervista a Chris Evans, che permette di riflettere in maniera articolata su una serie di interrogativi metodologici e nodi critici legati alla valutazione dell’esito. Il volume assume quindi un taglio decisamente pragmatico, con una serie di strumenti operativi tra cui, prima di tutto, il manuale d’uso del CORE-System in italiano. In maniera puntuale il manuale guida, passo per passo, all’utilizzo del sistema e alla corretta compilazione della diversa modulistica che lo compone. Coerentemente ai suggerimenti del Prof. Evans, viene poi presentato lo PSYCHLOPS (M. Ashworth et al, 2004; traduzione italiana a cura di G.Rocca e G. Carta, 2017). Lo Psychological Outcome Profile, costituisce uno strumento di valutazione dell’esito di tipo idiografico, basato cioè sulla descrizione del problema formulata direttamente dal paziente. Il dato idiografico, combinato a quello nomotetico (cioè fondato sul riferimento a valori normativi) del CORE-OM, potenzia reciprocamente gli strumenti e apre nuove opportunità di indagine e ricerca sulle caratteristiche del disagio degli utenti. Ulteriore vantaggio dello PSYCHLOPS è di avere una versione per adulti, una per adolescenti ed una per bambini, che viene qui proposta.

Viene infine illustrato il Progetto VETraPNetwork (G. Rocca, G. Carta, 2007), le caratteristiche e le potenzialità di questa piattaforma informatica e le indicazioni principali per il suo utilizzo, sia online che attraverso file preimpostati dedicati.

Il secondo volume (2019), completa la dotazione di base per la valutazione dell’esito dei trattamenti erogati, proponendo una nuova sfida, sia di carattere clinico che organizzativo: il monitoraggio dei progressi clinici. Il concetto guida dell’appropriatezza clinica rende la verifica costante dell’evoluzione di un trattamento fondamentale per adattare e personalizzare l’intervento alla specificità del singolo paziente. Le ricerche sui bias che interferiscono sull’attendibilità del giudizio clinico rispetto all’andamento del proprio lavoro con il paziente, confermano le forti implicazioni deontologiche dell’omissione di questa procedura nella routine assistenziale. Esistono ormai corpose evidenze sull’utilità non solo di misurare, con adeguati strumenti psicometrici, le condizioni del paziente prima e dopo il trattamento, ma anche nel corso dello stesso, attraverso somministrazioni di appositi self-report a ogni seduta o, quantomeno, a intervalli regolari. Questa procedura consente di avere un punteggio in uscita del paziente anche in caso di interruzione non concordata del trattamento da parte del paziente ma, soprattutto, permette di monitorare l’evoluzione del processo terapeutico e fornire un feedback al clinico e al cliente. In questo modo è possibile rilevare precocemente i segnali di peggioramento del quadro clinico e ricalibrare tempestivamente l’intervento, riducendo così i rischi di drop-out e migliorando l’esito della psicoterapia.

In apertura il Report (2017) della Task-Force dall’Associazione Psicologi Canadese che descrive lo stato dell’arte del monitoraggio degli esiti e dei progressi in psicoterapia, individuando gli ostacoli all’implementazione e ipotizzando le strategie per la risoluzione.

Sempre in una logica decisamente operativa, viene completata la presentazione della cosiddetta famiglia CORE, con un tool completo e affidabile dal punto di vista psicometrico, nonchè liberamente fotocopiabile, di quanto serve per applicare sia la valutazione degli esiti che il monitoraggio dei progressi. Troviamo quindi i manuali d’uso delle versioni brevi del CORE che sono state ideate per risparmiare i tempi di somministrazione (CORE-10), e per la finalità del monitoraggio dei progressi seduta per seduta (CORE-5). Sono inserite anche altre due versioni del CORE: una costruita per finalità di ricerca (CORE-SFA e SFB) e l’altra come strumento di screening da utilizzare con la popolazione generale (CORE-GP). Infine è stato inserito il manuale d’uso dello YP-CORE (Young Person CORE, 11-16 anni) completo non solo delle caratteristiche psicometriche e del questionario, ma anche dei form di Assessment e End of Therapy, specifici per l’età evolutiva. Per questo strumento a breve è prevista la pubblicazione di un articolo con i valori normativi dell’adattamento italiano.

Terapia Metacognitiva e Depressione: un follow-up rivela l’efficacia della terapia a un anno di distanza dal primo trattamento

Il Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) rappresenta a tutti gli effetti una reale problematica dei nostri tempi, data la sua prevalenza all’interno della popolazione e la sua natura tragicamente ricorrente. Un recente studio mostra le potenzialità della Terapia Metacognitiva per i disturbi depressivi.

 

Hagen e colleghi (2017) hanno condotto uno studio, pubblicato su Frontiers in Psychology, che si prefiggeva lo scopo di indagare l’efficacia della Terapia Metacognitiva su pazienti adulti affetti da Disturbo Depressivo Maggiore. Recentemente è stato pubblicato un secondo articolo (Hjemdal et al., 2019), associato allo stesso progetto che riporta i risultati del follow-up a un anno di distanza.

Il Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) rappresenta a tutti gli effetti una reale problematica dei nostri tempi. Infatti, non solo è uno dei disturbi più comuni e diffusi nella popolazione (Kessler et al., 2006) e causa di un elevato rischio suicidario (Hawton et al., 2013), ma è anche noto per la sua natura tragicamente ricorrente: l’85% dei pazienti che ha sofferto di DDM in passato è vittima di ricadute nei 15 anni successivi alla guarigione (Mueller et al., 1999). Per quanto la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) sia a oggi il trattamento d’eccellenza per il DDM (Buttler et al., 2006), le percentuali di ricaduta sono ancora elevate (tra il 40 e il 60% nei due anni successivi; Vittengl et al., 2007), così come le ricadute dei pazienti che hanno seguito una terapia farmacologica (tra il 29 e il 60% tra il primo e il secondo anno di trattamento; Parker, Crawford &Hadzi‐Pavlovic, 2008).

Sono questi i presupposti che negli ultimi decenni hanno spinto i professionisti a cercare nuovi orizzonti nel trattamento della depressione. La Terapia Metacognitiva (MCT; Wells, 2009) si è dimostrata una valida alternativa alla CBT, focalizzandosi sui processi di pensiero (piuttosto che sul contenuto) che aumentano il rischio di sviluppare disturbi depressivi: essa si basa sul Self-Regulatory Executive Function Model (S-REF) che vede nelle strategie di auto-regolazione disfunzionali (come la ruminazione depressiva, ovvero la tendenza a concentrarsi in maniera ripetitiva sui pensieri negativi) un correlato dell’umore deflesso tipico dei pazienti con DDM (Wells, 2000; Wells &Matthews, 1996). Questa complessa modalità di autoregolazione è definita come Sindrome Cognitivo-Attentiva  (o Cognitive AttentionalSyndrome, CAS) una sintesi di diverse strategie controproducenti per la gestione dei propri stati d’animo che include ipermonitoraggio di sensazioni negative (es. tristezza e fatica) e stili di pensiero rimuginativi come rimuginio ansioso, ruminazione depressiva o rabbiosa (Caselli, Ruggiero &Sassaroli, 2017). Secondo il modello metacognitivo la CAS sarebbe attivata e mantenuta da alcune convinzioni, spesso implicite, sulla natura e il funzionamento della propria mente, le cosiddette credenze metacognitive. Queste si distinguono in credenze metacognitive  positive (“rimuginare mi aiuta a comprendere e  risolvere il problema”) e negative (“non sono in grado di controllare i miei pensieri”) e rischiano di mantenere attive strategie mentali controproducenti che prolungano e intensificano il malessere, spesso senza che la persona ne sia pienamente consapevole (Matthews& Wells, 1994).

Diversi studi hanno evidenziato le potenzialità della Terapia Metacognitiva per i disturbi depressivi (Hjenmdal et al., 2017; Papageorgiou & Wells, 2003; Wells et al., 2012), risultante in alcuni casi più efficace della tradizionale CBT e con un minor numero di ricadute (Normann& Morina, 2018). Il presente studio (Hjemdal et al., 2019) si è posto l’obiettivo di indagare l’effetto della MCT su pazienti depressi a un anno di distanza dalla prima misurazione, effettuata nel randomized clinical trial condotto da Hagen e colleghi (2017).

I 39 soggetti (23 femmine) erano stati suddivisi casualmente in 2 gruppi: il primo aveva ricevuto subito il trattamento con la MCT mentre il secondo era stato assegnato a una lista d’attesa di 10 settimane prima dell’inizio della terapia. I pazienti appartenenti al primo gruppo sono significativamente migliorati rispetto al secondo gruppo, sia nei sintomi depressivi che in quelli ansiosi, e circa il 70-80% non mostrava più sintomi clinici al termine del trattamento e in un follow-up a sei mesi di distanza (Hagen et al., 2017).

Per il follow-up a un anno di distanza, Hjemdal e colleghi (2019), hanno preso in considerazione gli stessi 39 pazienti. Nella fase di assessment sono state somministrate la SCID-I e la SCID-II (First et al., 1997). Per indagare la sintomatologia depressiva e ansiosa sono state somministrate rispettivamente la Beck Depression Inventory (BDI; Beck, Steer&Carbin, 1988) e la Beck Anxiety Inventory (BAI; Beck &Steer, 1990); per misurare la ruminazione come risposta alla sintomatologia depressiva la Ruminative Response Scale (RRS; Nolen-Hoeksema&Morrow, 1991); per le credenze positive e negative sulla ruminazione la Positive Beliefsabout Rumination Scale e la Negative Beliefs about Rumination Scale (Papageorgiou and Wells, 2001) e il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer et al., 1990) è stato utilizzato per valutare i livelli di preoccupazione.

I risultati mostrano che gli effetti positivi della Terapia Metacognitiva sulla sintomatologia ansiosa e depressiva si sono mantenuti nel tempo (Hjemdal et al., 2019): il 73,5% del campione ha mantenuto i miglioramenti ottenuti anche dopo un anno. Laddove le  credenze metacognitive positive e negative sono diminunite, i sintomi depressivi hanno seguito lo stesso andamento in modo stabile, confermando il modello teorico metacognitivo circa il meccanismo principale di remissione (Wells, 2009). Il 12,8% dei pazienti ha mostrato una ricaduta (Hjemdal et al., 2019).

Rappresenta un limite per la ricerca la scarsa numerosità del campione, ma i risultati ottenuti aprono la strada a futuri studi sperimentali nel medesimo campo d’interesse per valutare se la Terapia Metacognitiva ha capacità di ridurre il rischio di ricaduta anche in campioni più ampi e in studi replicati su altre popolazioni.

 

Joker e le nostre anime – Recensione del film

Joker: le recensioni abbondano, i commenti impazzano nella rete per quello che è il film più discusso e più apprezzato del festival di Venezia.  

 

Attenzione: l’articolo contiene spoiler

Todd Phillips, il regista, e Scott Silver, lo sceneggiatore, ci costruiscono un film intriso di solitudine in cui l’incomprensione è all’ordine del giorno e il degrado a tutti i livelli: la città è sporca, la criminalità dilaga, il menefreghismo pure e le istituzioni sono allo sbando. Non è un caso che la patologia mentale si origini in un contesto del genere; ce lo si può aspettare.

Sin dalla prima scena ci appare un protagonista, Arthur/Joker, vittima delle azioni (violente) degli altri e, talvolta, gli viene perfino scaricata addosso la colpa (come fa il suo capo); inoltre soffre l’incuria di una madre che non riesce a prendersi cura di lui ma è solo richiedente. Sarebbero queste le premesse perfette per sviluppare un disagio psichico significativo che, infatti, c’è ma non si comprende subito. Vediamo un uomo rassegnato sulla via dello spegnersi giorno dopo giorno, costretto alla lontananza dai suoi sogni, dalle circostanze avverse della vita, nel totale menefreghismo di chi gli sta intorno. E’ facile identificarsi in lui di fronte a una tal mole di ingiustizie: sarà capitato a ognuno di noi almeno una volta nella vita di aver avuto un capo che ci incolpava di qualcosa che non era sotto il nostro controllo, o di avere un genitore che, in qualche modo, anche solo una volta, è stato manchevole o di essere stati vittime di qualunque tipo di angheria da parte del mondo, magari proprio nel mentre eravamo in difficoltà e ci siamo sentiti soli ad affrontare queste cose. Un’esperienza di vita che potrebbe essere di chiunque, da cui è stata inflitta la ferita dell’incomprensione e che ha fatto soffrire la solitudine.

Arthur è stato abbandonato dalle istituzioni, altra cosa contro cui ce la prendiamo tutti, verso le quali finisce, e finiamo, col provare una rabbia atavica. Questa pellicola sbandiera sentimenti fin troppo condivisi, a cui si potrebbe anche attribuire parte della responsabilità dello scenario politico attuale. In effetti si potrebbe pensare che lo scenario socio-politico che dipinge il film sia ispirato a quello reale e non ha spazio se non per una crisi continua del sistema che riflette una crisi interiore (o la genera?) di un individuo.

Il punto di vista di questo film è un programma: il ribaltamento radicale, nel nostro immaginario, di quelli che sono gli archetipi del buono e del cattivo rappresentati dai personaggi; i buoni del fumetto originale (Mr. Waine) sono malvagi dentro e i cattivi (Joker) non sono altro che buoni vittime di un sistema corrotto su tutti i livelli. Il giudizio di un osservatore sui buoni (di cui fa parte, non solo Mr, Waine, ma anche il personaggio interpretato da De Niro) non poteva che essere una condanna morale in quanto, questi, si sono macchiati di ottusità, rigidità mentale, mancanza di comprensione di come va il resto del mondo, si crogiolavano nei loro immotivati privilegi ed erano eccessivamente inclini al giudizio selvaggio.

Dopo una fortissima identificazione (o quantomeno compassione) che ci fa provare all’inizio, dopo la rabbia e l’angoscia attraverso cui ci accompagna, questo film ci scaraventa nel desiderio di rivalsa e questo genera, nel protagonista, comportamenti criminali, devianti e pericolosamente scevri di sensi di colpa. E siamo spinti a giustificare anche tutto questo: perché sentirsi in colpa se stai rivendicando un diritto che ti è stato negato con violenza? Perché evitare impaurito una vendetta che sa di giustizia, di meritata rivalsa?

Prendendo in considerazione questo aspetto possiamo capire alcune critiche fatte a questo film che sostengono che la narrazione giustifichi atti criminali folli e violenti. L’omicidio è solo un’espediente narrativo, commesso alla leggera, quasi poco credibile allo spettatore per come è chiamato in causa. Per questo si possono non condividere le critiche che vedono questo film come un giustificativo di atti criminali.

Queste non peccano di arroganza solo per aver attribuito questo significato all’intento narrativo del film, ma anche perché accostano la follia alla violenza. Probabilmente la sceneggiatura non indugia sufficientemente su come il personaggio impazzisca; mancano dei passaggi, ma questo è inevitabile perché la domanda che riguarda il come della malattia mentale non ha spiegazioni. Quindi, se non ci sono risposte nella vita reale, come potrebbero esserci in un film?

Gli autori ci offrono solo uno spaccato di vita ipotetica, in una storia costruita in uno scenario parallelo alla realtà che gode di vita propria. Narrazione pura. E’ proprio questa una delle sensazioni che dà questo film: l’impressione che sia un’entità a sé, che prenda vita, si stacchi dalla realtà, segua le sue regole, con la sua logica semi-oscura che dilaga e ti trascina con sé in un turbine di emozioni quasi tutte negative a cui non si riesce a dare un ordine. Probabilmente era proprio questo che volevano ottenere gli autori: dare la sensazione di caos, far capire che esso esiste e non si controlla. Il Caos è Joker, da sempre, dalla nascita del personaggio nel 1940. Quindi riescono benissimo il personaggio rinnovato e la sua storia rivisitata e pericolosamente attraente. Un film che non lascia scampo: attiva lo spettatore nel bene e nel male (più nel male), lo turba, gli fa provare qualcosa che non è buono e che non si aspetta. Di certo questo film fa tutto eccetto che divertire.

Infine la scena finale ci dà, visivamente, l’impressione che non esista possibilità di redenzione, ormai siamo tutti Joker, impazziti, criminali, una folla scatenata che si ribella con violenza alle istituzioni. Ma ciò che fa il branco sembra assai poca cosa rispetto a ciò che ha fatto Joker. Lui ha indicato la via, tutti gli altri l’hanno seguita volontariamente ma senza critica, come se non aspettassero altro. Un altro Dio forse? Che sia tutta una metafora della nascita di una nuova religione e di un profeta imperfetto, umano, peccatore? La scena in cui Joker (o solo Arthur?) sembra morire in una posa che ne richiama una cristiana e poi rinviene quasi come resuscitasse, tirato su dai suoi seguaci è quantomeno d’impatto se non addirittura didascalica

La valutazione del minore nei casi di abuso (2018) di Giovanni B. Camerini – Recensione del libro

La valutazione del minore nei casi di abuso rappresenta un efficace compendio in materia di buone prassi nell’ambito tanto delicato quanto complesso delle valutazione del minore in caso di presunti abusi.

 

La lettura di questo piccolo ma ricco libro capita forse non a caso, proprio in un momento in cui la cronaca è inondata di ombre che aleggiano sulle modalità di condurre valutazioni di minori coinvolti in presunti abusi o maltrattamenti.

I professionisti che decidono di impegnarsi in tale ambito non possono lavorare in maniera approssimativa, ma hanno il dovere morale ed etico, oltre che deontologico, di offrire un contributo scientificamente orientato e accurato.

Il lavoro di Camerini – 100 domande su La valutazione del minore nei casi di abuso – rappresenta un efficace compendio in materia di buone prassi nell’ambito tanto delicato quanto complesso delle valutazione del minore in caso di presunti abusi. Il testo è molto agile nella lettura e snello nella presentazione dei contenuti. Ci sono le risposte a 100 domande, (appunto dal nome della collana di cui fa parte): dubbi semplici, a volte dati per scontati, ma anche interrogativi più articolati, a cui seguono altrettante risposte accurate e sostenute da preziosi rimandi ai protocolli e alle linee guida in materia riconosciute dalla comunità scientifica di riferimento.

È un libro che sorvola sul tema, se ci si vuole fare una panoramica sull’argomento, ma che arriva dritto al punto se invece si cerca una guida.

Il testo è suddiviso in 4 grandi aree tematiche. La prima riguarda gli aspetti giuridici legati al concetto di abuso sessuale, sull’idoneità a rendere testimonianza e quindi sulla perizia in tal senso. Contiene indicazioni circa tutti i protocolli e le linea guida prodotte negli anni, dalle quali non si può prescindere nella pratica peritale: prima tra tutte, la Carta di Noto IV (la cui versione integrale aggiornata nel 2017 è allegata in appendice), di cui l’autore stesso è tra i professionisti che l’hanno redatta e sottoscritta oppure le Linee Guida in tema di abuso sul minore pubblicate nel 2007 dalla SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) o ancora le Linee Guida Nazionali (Gulotta e Camerini, 2014). Inoltre, vengono descritti gli step giuridici (dalle SIT alle audizioni protette durante l’incidente probatorio), le modalità di segnalazione e i rischi delle cosiddette false allegations (i casi di denuncia infondata) o delle dichiarazioni a reticolo (il cosiddetto fenomeno del contagio di gruppo), che per esempio hanno reso tanto famoso quanto tragico il caso di Rignano Flaminio; e ancora, le casistiche in cui tali fenomeni spesso fanno da corollario (come per esempio nei casi di separazioni conflittuali spesso si aggiungono denunce di questo tipo).

La seconda parte è dedicata alla valutazione del minore a rendere testimonianza, tipico oggetto di attenzione del lavoro peritale, a cui segue un focus nella terza parte sull’audizione protetta e sulla raccolta della testimonianza vera e propria. Ampio spazio viene dato ai meccanismi della memoria infantile (per un approfondimento di rimanda a Mazzoni, 2000; 2003) e alla pericolosità legata alle domande suggestive e alla valutazione del livello di suggestionabilità (per un approfondimento di rimanda a Gudjonssson, 1986; 2014). Vengono anche illustrati alcuni tra gli strumenti utilizzabili per effettuare una completa valutazione dell’idoneità testimoniale (si rimanda anche a Codognotto, Magro, 2012) e i protocolli di ascolto giudiziario del minore, per esempio, l’intervista cognitiva (Geiselman e Fisher, 1992) o la Step- Wise Interview (Youille, Hunter, Joffe e Zaparniuk, 1993); e ancora, strumenti per valutare la validità della testimonianza resa, per esempio, la SVA – Statement Validity Analysis o la CBCA – Criteria-Based Content Analysis, delle quali vengono messe in luce anche le criticità.

Infine l’ultima parte è dedicata ai cosiddetti e tanto discussi indicatori di abuso, teoria che non ha trovato sostegno scientifico, in quanto come lo stesso Camerini scrive:

La comunità scientifica è concorde nel non riconoscere alcuna valenza a questo costrutto, il quale attiene alla c.d. psicologia popolare o psicologia ingenua. La reazione allo stress è del tutto aspecifica e nessun sintomo o comportamento può esser fatto risalire, di per sé, a un’origine definita (p. 119).

Affermazione che trova sostegno negli artt. 4.3 e 4.4 delle Linee Guida Nazionali e nell’art. 18 della Carta di Noto IV. A tal proposito, si ritiene, inoltre, molto utile il prospetto presentato, che raccoglie un lavoro (tratto da Ney, 1995) in cui sono stati identificati tutti quei comportamenti sessualizzati maggiormente significativi, classificati come naturali e previsti, preoccupanti e necessitanti di una consulenza da parte di un esperto (p. 128): tale contributo può facilitare una valutazione degli stessi e contenere l’allarme che inevitabilmente si accende davanti a comportamenti sessualizzati rilevati nei bambini, che possono essere automaticamente e fallacemente considerati conseguenza di abusi subiti, ma che alle volte possono invece essere semplici comportamenti coerenti con lo stadio di sviluppo in cui il bambino si trova. È molto importante non farsi suggestionare o applicare ragionamenti deduttivi in queste situazioni, in quanto un falso positivo può avere effetti altrettanto, se non maggiormente, dannosi (Sandler, Fonagy, 2002).

Il lavoro di Camerini, insieme a tutti gli svariati contributi scientifici di cui è autore e sostenitore, offre una mappa essenziale per addentrarsi e per non perdersi nel mare oscuro dell’abuso infantile e della testimonianza dei minori e della sua complessa valutazione. Oggi e sempre.

Un modello dualistico della passione sessuale: i fattori disposizionali che spingono gli individui verso il tradimento.

Secondo il Modello Dualistico della Passione Sessuale il tradimento non va più visto come una contingenza situazionale verso uno specifico partner non appartenente alla coppia, ma piuttosto come una spinta motivazionale costante nella soddisfazione del proprio desiderio sessuale, laddove risultino determinanti le modalità di interiorizzazione valoriale legata alla sessualità e al piacere.

 

Il termine monogamia deriva dal Greco μονός, monos (“unico”), and γάμος, gamos (“matrimonio, unione”) e descrive una relazione diadica nella quale un individuo accetta di avere un solo partner per la vita o, alternativamente, un solo partner alla volta (monogamia seriale). Tuttavia, questa modalità relazionale non è quella che maggiormente caratterizza le unioni della specie umana: si è riscontrato infatti come delle 1231 società conosciute, solo 186 fossero strettamente monogame; nella maggioranza dei casi riportati le società tolleravano un’occasionale poliginia, ovvero l’unione di un uomo con più di una partner sessuale e/o coniugale (453 popolazioni), alcune addirittura abbracciando una condotta apertamente poligama (588 popolazioni in cui la poliginia fosse frequente), solo in quattro casi invece, sono state documentate società in cui fosse praticata la poliandria, ovvero l’unione di una donna con svariati partner sessuali e/o coniugali (Murdock, 1967).

L’adesione ad un principio monogamico implica l’ottemperanza di un implicito patto di non ricercare altri partner al di fuori della coppia costituita, confidando nella reciprocità di tale promessa: si è stimato tuttavia che nel 20 % delle relazioni romantiche vi sia stato un caso di infedeltà (Mark, Janssen, & Milhausen, 2011). La pratica clinica può offrire testimonianza di come la rottura di tale patto da parte del partner venga configurata dai pazienti come un evento altamente traumatico, con conseguenze emotive negative (Allen et al., 2005) e vissuti di rabbia e vergogna (Olson, Russell, Higgins-Kessler & Miller, 2002) e associato alla risoluzione del rapporto stesso (Frisco, Wenger, & Kreager, 2017).

La ricerca sul fenomeno dell’infedeltà ha cercato di indagare quali fossero i fattori predisponenti, sia situazionali che disposizionali degli individui coinvolti, che potessero contribuire a spiegare una tale violazione del patto di coppia, indagando però principalmente il legame con una più generale inclinazione individuale verso le attività sessuali, suggerendo che fosse sufficiente avere uno spiccato appetito sessuale per rischiare di divenire infedeli.

Contrariamente a questa concettualizzazione, Philippe e collaboratori (2019; 2017) hanno sviluppato un Modello Dualistico della Passione Sessuale (Vallerand et al., 2003; Vallerand, 2015), in cui l’infedeltà non è più vista come una contingenza situazionale verso uno specifico partner non appartenente alla coppia, ma piuttosto come una spinta motivazionale costante nella soddisfazione del proprio desiderio sessuale, laddove risultino determinanti le modalità di interiorizzazione valoriale legata alla sessualità e al piacere. Secondo il modello, gli individui con una passione sessuale più marcata avrebbero una rappresentazione cognitivamente più positiva legata alla sessualità, attribuendo valore all’attività erotica, e spenderebbero più tempo ed energie nel praticarla, associandovi inoltre un forte senso di identità personale. Il Modello Dualistico della Passione Sessuale distingue inoltre tra due differenti tipologie di passione; l’Harmonious Sexual Passion (HSP; ndt: passione sessuale armoniosa) è caratterizzata da un’internalizzazione autonoma della sessualità senza l’influenza di pressioni interne o esterne che possano aver interferito con un’esplorazione libera del proprio desiderio sessuale, come ad esempio la pressione percepita nel dover aderire a degli stereotipi culturali socialmente prescritti. Essendo una scelta libera e consapevole, è plausibile che gli aspetti legati alla sessualità non entrino poi in conflitto con altri aspetti legati alla definizione del Sé (Mageau, Carpentier, & Vallerand, 2011). Al contrario, l’Obsessive Sexual Passion (OSP; ndt: la passione sessuale ossessiva) è caratterizzata da un’internalizzazione dei costrutti legati alla sessualità guidata da doverizzazioni autoimposte o subite della comunità di appartenenza. Le norme, i valori e le credenze legate alla sessualità, risultano così in qualche modo calate dall’alto e non necessariamente in linea con i valori personali dell’interessato.

Le due diverse disposizioni, verso una passione più armonica (HPS) oppure ossessiva (OSP), sono risultate associate con diverse conseguenze nella gestione relazionale: si è riscontrato come la HPS risultasse associata ad una maggiore qualità della relazione e ad una migliore resilienza di coppia; è risultata inoltre negativamente associata a comportamenti potenzialmente dannosi per la relazione, come ad esempio la valutazione di alternative romantiche mentre si è impegnati in un rapporto preesistente, in tal senso non risulta essere in contrasto con il mantenimento di una relazione di coppia a lungo termine (Phillippe et al., 2017; 2019). Al contrario, uno stile di passione ossessiva (OSP) è risultato essere negativamente o del tutto non correlato con la qualità del rapporto e resilienza di coppia, si dimostra associato ad una tendenza a mantenere l’attenzione rivolta alle alternative al di fuori della coppia e da ultimo, è un indice in grado di predire la dissoluzione della relazione (Philippe et al., 2017, 2019): questi risultati sembrano suggerire che l’individuo possa sentire il bisogno di soddisfare i propri bisogni sessuali anche a discapito del mantenimento di una relazione a lungo termine.

In un recente studio, Guilbault, Bouizegarene, Philippe & Vallerand (2019) hanno analizzato un campione di 631 studenti per determinare come gli stili descritti nel Modello Bimodale della Passione Sessuale (Phillippe,et al., 2017;2019) siano legati alla possibilità di aver tradito il proprio partner in passato e quali potessero essere state le motivazioni ad averli spinti verso tale decisione. I partecipanti hanno compilato la Sexual Passion Scale, validata da Phillippe at al., (2017) per determinare se fossero appartenenti al gruppo OSP oppure HSP e tre criteri per valutare l’investimento nell’attività sessuale (Mi piace il sesso; Il sesso è importante per me; Spendo un considerevole quantitativo di tempo nel praticare attività sessuali) espresso su di una scala Likert a 7 passi. È stato poi loro chiesto se avessero mai tradito il proprio partner, se il loro rapporto con il sesso entrasse in conflitto con la possibilità di avere una relazione a lungo termine e infine di completare una frase esprimendo tutte le possibili motivazioni che avrebbero mai potuto spingerli a tradire il proprio partner; da ultimo, i partecipanti hanno compilato un questionario sullo stile di attaccamento nelle relazioni romantiche adulte per valutare le due dimensioni di evitamento e di ansia circa la relazione e hanno fornito un indice di soddisfazione sessuale al momento dell’intervista. Dai risultati è emersa una correlazione tra lo stile di passione ossessivo e la presenza di almeno un tradimento passato. Inoltre, sia gli individui OSP che HSP hanno riportato maggiormente come motivazione che li potesse spingere a tradire la presenza di bisogni di natura fisica; tuttavia solo gli individui OSP hanno riportato motivazioni come sensazione di solitudine, rabbia o vendetta e la propria autostima come possibili fattori predisponenti il tradimento, suggerendo che sia possibile che questi individui ingaggino condotte sessuali per arginare delle emozioni negative non inerenti alla sfera sessuale.

Una seconda fase dello studio ha visto coinvolti 84 studenti impegnati in una relazione al momento della partecipazione, con l’obbiettivo valutare come i due stili di Passione Sessuale si associassero a diversi outcome nel destino di una relazione, in uno studio prospettico in due fasi svoltesi a 10 mesi l’una dall’altra. È emersa un’associazione positiva di grado moderato tra l’appartenenza ad uno stile ossessivo e la possibilità che l’individuo avesse tradito; inoltre, il grado di severità dello stile OSP è risultato predittivo del numero di partner sessuali extradiadici dei partecipanti per quanto riguarda gli uomini, ma non per le donne.

Gli studi presentati hanno contribuito ad arricchire le conoscenze in letteratura circa la rottura del patto monogamico, sottolineando come diversi tipi di inclinazione sessuale potrebbero contribuire alla possibilità che una persona decida di tradire il proprio partner. Mentre ricerche precedenti sembravano attribuire al desiderio sessuale, o meglio, ad un suo generale eccesso, la condotta fedifraga (Treas & Giensen, 2000), i risultati appena esposti tratteggiano un profilo più sfaccettato, nel quale sembra essere l’interiorizzazione di valori e credenze non in linea con il proprio senso del Sé, non in linea con i propri valori e desideri, così come plausibilmente distanti da un’esplorazione libera ed acritica della propria sessualità, ad aumentare la possibilità di ricercare sesso al di fuori della propria coppia o a discapito della possibilità di instaurare un legame a lungo termine con un partner.

 

Mindfulness orientata alla relazione – Report dalla giornata di formazione

Come ci sentiamo quando siamo in relazione con un’altra persona? Cosa si prova ad essere un sé-con-l’altro? Siamo poco abituati a chiedercelo, vero. Eppure, se ci pensiamo un attimo, oltre ad essere fondamentale osservarlo nel nostro lavoro di terapeuti, basato proprio sulla relazione, lo è in riferimento alla nostra natura di esseri umani sociali.

 

Siamo impegnati quasi tutto il tempo in relazioni con gli altri ma il pilota automatico ci fa dimenticare di esserlo e, quando siamo soli, siamo coinvolti in relazioni immaginate, ricordate, temute, desiderate ma anche questo sembra essere un processo dimenticato.

Nella giornata di formazione sulla mindfulness orientata alla relazione il pilota automatico l’abbiamo cercato di contrastare e ci siamo impegnati più e più volte a rispondere a quella domanda iniziale. Che si prova a stare di fronte a qualcuno? Cosa si smuove dentro di noi quando parliamo e ci guardiamo negli occhi a vicenda? Quando ascoltiamo le storie di vita degli altri? Cosa si prova quando siamo vicini ma, senza neppure parlare né toccarsi, sentiamo che l’altro c’è?

Durante una breve meditazione, il docente del corso, Paolo Ottavi, ci ha fatto stare del tempo, non saprei quantificarlo, uno di fronte all’altro e ricordo che, quando ci ha chiesto di sentire l’altro pur restando con gli occhi chiusi, ho sorriso. Credo di aver sentito immediatamente le spalle rilassarsi, le mani morbide e ho ascoltato il respiro. Il mio, certamente, ma anche quello della persona che mi era difronte. Per quanto potesse disperdersi tra tutti gli altri respiri, lo riuscivo ad identificare. Non c’era bisogno di parole o di gesti, eravamo interconnesse! Finita la meditazione interpersonale io sono tornata ad essere io, estranea a tutto ciò che mi stava intorno, ma ne ero consapevole.

Dopo ogni meditazione, la condivisione o inquiry rappresenta un momento importante almeno tanto quanto quello della pratica, perché consente di identificare con chiarezza quello che accade durante la meditazione in termini di pensieri ed emozioni e la reazione mentale collegata ad essi. Ed è, ogni volta, una sorpresa perché affiorano contenuti soggettivi e personali. Mai per nulla scontati. Mai banali. Io, ad esempio, ho rivisto la mia tristezza accolta dall’altro. Accettata e tollerata. L’ho vista presentificarsi in tutto il suo inevitabile spazio mentale. L’ho vista grazie all’altro connesso con me. Un altro con il suo sguardo ed il suo respiro, evidente dal petto che si alzava e abbassava ritmicamente. Ho accolto, vicendevolmente, l’ansia e la preoccupazione senza dover passare all’azione. Quest’ultimo aspetto non è ovvio perché spesso tendiamo al fare, ad agire mente la mindfulness, invece, ci ricorda costantemente la modalità dell’essere, uno stato mentale fatto di consapevolezza, accettazione, non giudizio.

All’interno delle relazioni sembra essere particolarmente difficile da coltivare perché bombardati dai nostri pensieri personali assieme a quelli che coinvolgono l’altro e, in presenza di un disturbo di personalità la complessità cresce in modo esponenziale.

Le relazioni sono degli incontri di storie, di vite, di emozioni. Spesso le rappresentiamo come danze complesse. In termini tecnici sappiamo che sono permeate da cicli interpersonali. Noi psicoterapeuti lo vediamo bene nelle sedute coi pazienti. Narcisisti, evitanti, borderline sono un territorio ricchissimo per osservare come facilmente si possa scivolare in cicli ostili o rabbiosi.

Ognuno di noi ha i propri modi di funzionare nel mondo, dei sistemi motivazionali più attivi rispetto ad altri e alcuni hanno dei veri e propri schemi interpersonali maladattivi. Quando questi si agganciano ad altri schemi, altri funzionamenti, ad altrettanti pensieri, emozioni, credenze e strategie di coping, lì le cose possono complicarsi. Il meccanismo è semplice: gli schemi provocano l’emergere di stati mentali dolorosi ricorrenti, abbastanza specifici per ogni disturbo di personalità. Gli stati mentali dolorosi, a loro volta, spingono a mettere in atto strategie di coping per ridurne l’intensità. Ma spesso e volentieri il rimedio è peggiore del male: da un’emozione negativa si giunge ad un sintomo e all’innesco di cicli interpersonali disfunzionali. Così il dolore aumenta. E le relazioni si deteriorano, provocando altra sofferenza. Alla base di tutto, diversi livelli di funzionamento metacognitivo: se sono consapevole della mia reattività a certe situazioni relazionali, posso evitare di farmi condizionare dagli schemi. E non innescare ricorsivamente cicli interpersonali disfunzionali.

A cosa può servire la mindfulness, allora? Uno degli scopi principali è quello di gestire lo stato mentale problematico che precede la messa in atto di coping disfunzionali i quali possono generare o amplificare la sintomatologia e rendere particolarmente complesse le relazioni. Sono soprattutto le strategie cognitive perseverative che preparano il terreno all’azione: ruminazione, worry, pensiero desiderante ci illudono di lenire il dolore correlato allo schema ma, a lungo andare, amplificano l’emotività negativa (Valentino, 2019). Nel testo Corpo, immaginazione e cambiamento (Dimaggio et al., 2019) questo è spiegato molto bene. Gli autori illustrano come nei disturbi di personalità, soprattutto, il contenuto di questi coping sia di tipo relazionale. Ruminazioni sul capo umiliante, sulla ex fidanzata fredda, sul padre ostile.

Oltre alle strategie di coping perseverative, che incrementano le emozioni, vi può essere la distrazione o la dissociazione, strategie basate sull’evitamento cognitivo che producono il temporaneo spegnimento dell’attivazione emotiva.

La mindfulness aiuta, nello stesso tempo, a non evitare il dolore e a non focalizzarsi su di esso con le ruminazioni. Insegna, attraverso l’aggancio ai sensi, a stare con quello che c’è, anche se doloroso e problematico e poi a lasciarlo andare, spostando volontariamente l’attenzione. Il risultato sarà uno sganciamento dalla tendenza ad azioni nocive, una maggiore tollerabilità del dolore o degli stati mentali problematici, ed una riduzione di coping cognitivi e comportamentali. Praticamente maggiore agency e mastery più fini. Ultimo ma non ultimo, anche una riduzione dei sintomi: se rumino di meno non cado in depressione; se rimugino e monitoro di meno, abbasserò i livelli d’ansia.

La mindfulness orientata alla relazione aiuta a fare tutto questo online, nel vivo dell’incontro con l’altro. Sentire cosa c’è nel corpo e nella mente, osservarlo senza agirlo, è il risultato auspicabile. Effettivamente è una vera e propria pratica da coltivare: chi di noi è, infatti, capace di sentire sempre quali sensazioni ci sono nel corpo, proprio a livello enterocettivo, quando l’amica non risponde al telefono oppure quando un tipo ci taglia la strada?

Paolo Ottavi e i colleghi del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale hanno messo a punto un programma mindfulness based, il MIMBT (Metacognitive Interpersonal Mindfulness-Based Training) che è un intervento mirato a ridurre i coping cognitivi attivanti e a migliorare il funzionamento metacognitivo (Ottavi et al., 2019). Non è una terapia a sé stante, ma un modulo da applicare all’interno di una terapia individuale. Esso si svolge in gruppo, in 9 incontri più uno individuale e unisce un lavoro sulle strategie di coping cognitive interpersonali, un lavoro sugli schemi interpersonali ed uno sullo stare in relazione con consapevolezza. Questo è possibile attraverso meditazione sugli schemi, meditazioni interpersonali formali e informali e, infine, unisce le tecniche attentive per l’autoregolazione emotiva nel vivo della relazione. Essendo sempre in un territorio targato TMI, tutto questo non può che essere strettamente collegato alla formulazione condivisa del funzionamento.

Il vero nucleo del programma sono le pratiche interpersonali e le meditazioni sullo schema interpersonale. Le prime si svolgono a coppia. Si cerca di portare un’attenzione costante e curiosa al proprio stato interno durante la relazione: un momento di vicinanza fisica, lo scambio di narrazioni neutre oppure cariche emotivamente, osservare lo sguardo dell’altro. Come si fa ad essere meta-consapevoli durante l’interazione? Come nelle meditazioni di consapevolezza ordinarie, ci serve il corpo. Mentre stiamo di fronte all’altro, mentre lo ascoltiamo, finanche mentre gli parliamo, una piccola quota di attenzione rimane ancorata alle sensazioni fisiche. Quelle che provengono dai piedi o dalle mani, dalla postura o dal respirare. È tutto qui il senso delle pratiche interpersonali nel MIMBT: rimanere centrata su di me anche quando, davanti all’altro, vengo inghiottita nella danza relazionale. L’incontro con l’altro chiama in causa il “noi”, dove le individualità necessariamente si eclissano. Ma è sempre un bene perdere il senso di sé in uno scambio interpersonale? Talvolta no, e allora giova reimpossessarsi del proprio centro, cioè il corpo. Provateci: parlate con un vostro collega e, contemporaneamente, o a intervalli frequenti, portate una quota di attenzione consapevole ai vostri piedi. Il tutto senza perdere le informazioni della comunicazione. E poi notate l’effetto che fa.

Le meditazioni sullo Schema Interpersonale sono differenti; si tratta di esplorare in maniera mindful i propri e altrui stati mentali presenti in una scena dolorosa ricordata. Si prende un fotogramma, quello a più alta intensità emotiva, di un episodio schema-correlato. Si scende in profondità nell’immagine, il passato diventa l’oggi e ci si chiede: cosa sto provando? Quali pensieri mi passano per la mente? Come mi sento nel corpo? Cosa vorrei fare? Cosa vorrei che l’altro facesse? E poi ci si trasferisce per un po’ nella mente dell’altro: cosa starà provando l’altro? Cosa starà pensando? Quali sono i suoi desideri? Infine si esce dall’immagine e la si guarda da lontano. Poi la si lascia andare e si assapora ciò che resta, positivo o negativo che sia. Se ci sono giudizi, li si osserva e li si lascia andare. Suonano i cimbali e finisce la meditazione, ma nella condivisione emergono mille esperienze diverse e tutte interessanti.

Tutto questo è tanto importante per il paziente in terapia ma anche per il terapeuta stesso. È, infatti, un assetto mentale che dovrebbe essere una costante per noi terapeuti impegnati nella seduta, per favorire anche maggiore sintonizzazione con il paziente. Inoltre, familiarizzare con la mindfulness permette al terapeuta di accedere a un mondo di preziosissime tecniche attentive, in cui l’aggancio ai sensi favorisce l’autoregolazione emotiva. Potete trovarle nel manuale (Dimaggio et al., 2019) oppure attendere il prossimo post dedicato espressamente ad esse.

In quanto corso mindfulness, questa è stata la giornata della consapevolezza. Della scoperta. Del non giudizio. Certe cose hanno bisogno solo di essere osservate. E, di fatto, torno a casa in un viaggio in macchina in cui il mio respiro, i miei piedi e le mie mani mi hanno ricordato che c’ero, nel momento presente, aiutandomi a sguazzare dentro di me, esplorando pensieri, emozioni, sensazioni corporee, accettazione e compassione. Poi lascio andare…o, quanto meno, ci provo!

 

La comunicazione in emergenza: percezione dei rischi e processi decisionali nei contesti emergenziali

Per affrontare l’emergenza tutto va predisposto e anche la comunicazione deve essere organizzata e affinata per poter poi intervenire velocemente e in modo coordinato.

Alessadra Curtacci – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Principi generali della comunicazione

Per definizione la comunicazione è quel processo dinamico che avviene tra un emittente e un ricevente: l’emittente invia al ricevente un messaggio di tipo verbale o non verbale, il ricevente lo elabora codificandolo e ne invia uno in risposta. Anche una non comunicazione (comunicazione non verbale) può essere considerata una risposta significativa. La comunicazione comprende qualunque tipo di informazione dotata di senso che gli individui scambiano nell’ambiente sociale, attraverso segni e simboli: dunque, riguarda l’emissione di messaggi tra due o più persone e coinvolge praticamente tutte le forme di contatto con gli altri esseri umani. La comunicazione è essenziale a diversi livelli e per un’ampia serie di motivazioni.

Per imparare a comunicare in modo funzionale ed efficiente occorre una buona consapevolezza:

  • della propria comunicazione interpersonale:
    • comunicazione verbale: ciò che si dice, la scelta delle parole, la costruzione logica delle frasi e l’uso di alcuni termini piuttosto che di altri;
    • comunicazione paraverbale: il modo in cui qualcosa viene detto facendo riferimento al tono, alla velocità, al timbro, al volume della voce.
    • comunicazione non verbale: sostiene e completa la comunicazione verbale e comprende una vasta gamma di segnali che integrano e a volte sostituiscono il contenuto verbale di una comunicazione.
  • della propria comunicazione intrapsichica (stati d’animo, rappresentazioni, intenzioni).

Ogni comunicazione è formata da 3 componenti:

  • emotiva/motivazionale: il perché si sta comunicando;
  • cognitiva: il cosa si sta comunicando;
  • comportamentale: in che modo si sta comunicando (verbale e/o non verbale);

Quelli appena descritti sono principi fondamentali da rispettare nell’ambito della comunicazione in un contesto emergenziale: per affrontare l’emergenza tutto va predisposto e anche la comunicazione deve essere organizzata e affinata per poter poi intervenire velocemente e in modo coordinato. La comunicazione è un’abilità che offre un contributo allo stesso processo di pianificazione, in quanto è la risorsa che permette di creare rapporti e di affrontare i momenti di difficoltà potenzialmente presenti nell’emergenza.

Comunicare in Emergenza

Le situazioni critiche sono caratterizzate da:

  • esordio improvviso ed inaspettato;
  • minaccia reale o simbolica per la vita o la salute della persona;
  • alta emotività (paura, ansia, sensazione di vulnerabilità o impotenza, ecc);
  • comportamenti impulsivi potenzialmente dannosi.

Il tipo di risposta individuale quando si è coinvolti in una situazione di stress acuto dipende da numerosi e differenti fattori come lo stato di stress preesistente, il livello di sostegno sociale sul quale poter far riferimento (familiari, amici, colleghi, ecc), la possibilità di operare un controllo su ciò che sta accadendo e il grado di preparazione rispetto all’evento (Rampin, M., Anconelli, L., 2010). La comunicazione, infatti, relativa all’ambito della gestione delle emergenze prevede 3 finalità, ognuna propedeutica all’altra:

  • Comunicazione per prevenire/informare (es: comunicazione dei rischi)
  • Comunicazione per gestire l’emergenza (es: protocolli, segnaletica, alfabeto ICAO, ecc)
  • Comunicazione per coordinare il post emergenza

Fondamentale è considerare l’aumento della complessità nel rispondere a tutta la serie di bisogni che si palesano durante un’emergenza dovuto all’estrema incertezza della situazione causata dall’alterazione della funzionalità delle vie ordinarie di comunicazione; per questo motivo è utile ed importante predisporre ed apprendere le giuste metodiche in tempo di pace focalizzando l’attenzione sul primo punto sopracitato.

La comunicazione dei rischi

Si parte dal presupposto che ogni tentativo di produrre un cambiamento nell’equilibrio di un organismo crea una resistenza e conseguentemente un probabile conflitto a seconda della questione che viene trattata e dalla tipologia di situazione critica in cui si interviene. Scopo di tale tipo di comunicazione è superare le diffidenze e inserire nozioni utili a facilitare il cambiamento o il processo di adattamento ad esso. Affinché una persona modifichi il suo comportamento in seguito ad una comunicazione trasmessa (Rampin, M., Anconelli, L., 2010) è possibile:

  • convincerla: usando argomentazioni che devono essere accettate come vere utilizzando i principi della logica (esempio: dimostrazione statistica o matematica);
  • persuaderla: proponendo argomenti che non fanno riferimento alla razionalità ma alle emozioni.

Per applicare interventi efficaci circa la comunicazione del rischio su un determinato evento critico si devono superare 4 difficoltà (Sbattella, F., 2009):

  • L’illusione di certezza: ossia l’idea che sia possibile avere la certezza dell’evento che si sta descrivendo al 100%. Opportuno risulta promuovere il principio che nulla è realmente certo a prescindere dalle ricerche;
  • L’ignoranza del rischio: che corrisponde alla consapevolezza dell’esistenza delle incertezze relative al verificarsi di un evento (comunicazione scorretta o dati nascosti);
  • La comunicazione scorretta del rischio: promozione della consapevolezza dei rischi ma la popolazione riscontra difficoltà nel trarre insegnamento dalle informazioni ricevute;
  • Il pensiero annebbiato: chiara informazione sui rischi ma difficoltà a trarne conclusioni.

Curare i processi comunicativi prima e durante una crisi vuol dire occuparsi del:

  • reperimento ed organizzazione delle informazioni relative all’evento,
  • realizzare azioni di distribuzione delle informazioni alle fasce di popolazione più indicate,
  • facilitare il coordinamento delle azioni in atto,
  • facilitare la percezione ed il mantenimento del controllo.

Percezione dei rischi e processi decisionali

 Un aspetto di grande rilevanza riguarda la comprensione di come si innescano determinate modalità di comportamento che provocano un avvicinamento o un allontanamento dalle situazioni potenzialmente pericolose (sopravvalutazione o sottovalutazione del rischio, indifferenza verso i messaggi di allarme e non attivazione di misure di autoprotezione, ecc) e come la comunicazione dei rischi attuata in fase di prevenzione possa influire in questo processo (Sbattella, F., 2009).

Si definisce rischio l’eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili (è quindi più tenue e meno certo di un pericolo) che viene rappresentata a livello mentale e valutata in modo tale da riuscire a prendere una decisione basata sulla considerazione di esperienze pregresse e conoscenze generali, eventuale ricerca di altre informazioni, stima delle probabilità, e gestione delle emozioni. Proprio la componente emotiva e relazionale potrebbe avere un ruolo cruciale nella valutazione del rischio, immaginando ad esempio le conseguenze della decisione intrapresa. Riguardo la componente della cognizione (Ruminati e Bovini, 2001) coinvolta nelle strategie decisionali umane si fa riferimento ai procedimenti euristici, un metodo di approccio alla soluzione dei problemi che non segue un chiaro percorso, ma che si affida all’intuito e allo stato temporaneo delle circostanze, al fine di generare nuova conoscenza (Tversky e Kahneman, 1974). In particolare:

  • l’euristica della rappresentatività: la probabilità dell’evento viene stimata in base alle caratteristiche tipiche della categoria a cui appartiene;
  • l’euristica della disponibilità: si tende a stimare la probabilità di un evento sulla base e l’impatto emotivo di un ricordo, piuttosto che sulla probabilità oggettiva.
  • l’euristica dell’ancoraggio: la stima di probabilità di un evento è influenzata da un termine di paragone.

La differente percezione del rischio può inoltre essere supportata da altri processi di ordine psicologico come la capacità di controllare l’ansia, lo stile di coping attivato, il senso di efficacia personale e la capacità di gestione le emozioni negative derivate dalle proprie decisioni. (Mann, L., Burnett, P.C., Radford, M., Ford, S., 1997).

Il ruolo delle Emozioni

Attivare progetti di prevenzione vuol dire anche limitare potenziali disagi emotivi nella popolazione individuando rischi, creando scenari e previsioni promuovendo la resilienza. Nella comunicazione dei rischi un ruolo chiave lo giocano le emozioni: evidenziare pericoli o rischi collegati ad un luogo o un’attività solleva paura ed ansia, entrambe emozioni negative dalle quali ognuno cerca di difendersi, nonostante esse possano avere una funzione adattiva.

Una comunicazione preventiva efficace deve sollevare un livello di allerta tollerabile dei soggetti che ottengono le informazioni. Se questo non avviene le nozioni riportate potrebbero essere perse in pochi istanti o neanche ascoltate. Controproducente sarebbe la promozione di una forte sensazione di ansia, la quale potrebbe implicare anche una mancata o difficoltosa comprensione del messaggio, rendendo vano il lavoro svolto e soprattutto mettendo in pericolo l’utente.

Accade anche che queste informazioni riguardino eventi che le persone possono non aver mai sperimentato (es: eruzione vulcaniche piuttosto che un incidente stradale), lasciando spazio a fantasie e rappresentazioni generiche. A tal proposito, affinché le informazioni di prevenzione siano fruibili da tutti, è utile creare una concreta rappresentazione della realtà (es: testimonianze dei sopravvissuti). Coinvolgere la popolazione in attività il più possibile pratiche e reali permette di lavorare sul loro sistema cognitivo e percettivo migliorando l’apprendimento delle buone prassi espresse generalmente in maniera verbale. Inoltre accanto agli elementi di pericolo devono essere evidenziate le risorse e i punti di forza presenti nello scenario emergenziale.

Quanto appena detto può essere spiegato dal fatto che durante un’emergenza c’è un elevato coinvolgimento a livello percettivo, corporeo, cognitivo ed emotivo, diverso da quello che si ha in una semplice dimostrazione visiva.

Conclusioni

L’impatto psicologico e sociale delle emergenze può produrre effetti a breve termine, ma può anche compromettere a lungo termine il benessere psicosociale delle popolazioni colpite, quindi una delle priorità è quella di tutelare e promuovere la salute mentale delle persone coinvolte. Proprio per la natura così delicata di tale intervento sono state messe a punto importanti indicazioni per il supporto psico-sociale in condizioni di emergenza, che consistono in strategie concrete, rivolte alle popolazioni, utili a trattare o prevenire i disagi mentali sia prima che dopo la fase acuta dell’emergenza.

Appare quindi fondamentale avere nozioni per una comunicazione efficace da applicare nei contesti emergenziali, sia per operare in maniera ottimale in prima persona, sia per essere in grado di relazionarsi con le varie figure che notoriamente intervengono in situazioni del genere: dalle Istituzioni, ai soccorritori di altri corpi o associazioni, ai sopravvissuti e/o ai familiari delle vittime.

Il mio profilo migliore (2019) la bellezza che sfiorisce, il timore della solitudine e il ricorso a un alter ego social – Recensione del film

Il film Il mio profilo migliore, nell’originale francese Celle que vous croyez basato sul romanzo omonimo di Camille Laurens, indaga le dinamiche attraverso le quali i social network offrono alla protagonista Claire la possibilità di mettere in scena il suo alter ego ideale.

 

C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno.” scriveva Luigi Pirandello in Uno, nessuno e centomila. Al di giorno d’oggi possiamo sicuramente aggiungere che c’è una maschera per i social network, che sono parte integrante dell’immagine pubblica con cui ci presentiamo al mondo.

Il film Il mio profilo migliore, nell’originale francese Celle que vous croyez basato sul romanzo omonimo di Camille Laurens, indaga le dinamiche attraverso le quali i social network offrono alla protagonista Claire la possibilità di mettere in scena il suo alter ego ideale.

Claire, cui presta il volto un’intensa Juliette Binoche, non si limita a mostrare l’immagine social di sé stessa; su Facebook Claire, docente universitaria di letteratura, affermata sul lavoro ma in crisi nella vita privata, crea un profilo fittizio e diventa Clara, giovane stagista nel mondo della moda.

Come mai Claire diventa Clara nel mondo virtuale?

Il mio profilo migliore è stato presentato al Festival del cinema di Berlino ed esce nelle sale italiane il 17 ottobre; ho avuto l’opportunità di vederlo in anteprima e sono qui a raccontarvi i numerosi spunti di riflessione che la storia offre, parlandovi dal duplice punto di vista di appassionata di cinema e di psicoterapeuta. Come mai Claire diventa Clara nel mondo virtuale? Questa è la domanda a cui il film risponde attraverso un lungo flashback, il racconto di Claire alla psicoterapeuta che la segue, la dottoressa Catherine Bormans.

L’inizio de Il mio profilo migliore coincide con l’avvio del percorso terapeutico: la dottoressa Bormans sostituisce il terapeuta di Claire, che ha avuto improvvisi e gravi problemi di salute. Tra le due donne, paziente e terapeuta, si crea, fin dalle prime battute, un confronto/scontro serrato, basato sulla specularità.

Tanto Claire è istintiva e passionale, tanto la dottoressa Bormans delimita il proprio ruolo professionale, contenendo l’esuberanza della sua nuova paziente, la quale mette subito alla prova i confini del setting proponendo, prima ancora di aver iniziato la seduta, spostamenti di orario che il precedente terapeuta le concedeva. Claire mostra di essersi ben documentata, facendo ricerche su Google, sulla nuova terapeuta e sui suoi trascorsi professionali e conclude affermando che era sicura che la dottoressa (che sembra essere più o meno sua coetanea) fosse “più giovane”.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO IL TRAILER DEL FILM

IL MIO PROFILO MIGLIORE – GUARDA IL TRAILER DEL FILM:

Il tema della giovinezza perduta, della bellezza che sfiorisce e del timore della solitudine è, in effetti, centrale nel racconto. Claire, una bella donna sulla cinquantina, mal sopporta lo scorrere inesorabile del tempo. Intuiamo che il suo ex marito Gilles, padre dei suoi due figli, l’ha lasciata per un’altra donna e che questo ha creato in lei una profonda crisi che nemmeno il lavoro, contesto che le offre un’identità forte e apprezzata, e il ruolo di madre di due ragazzi riescono a mitigare. La solitudine dell’aula universitaria, Claire che parla ad una platea di studenti delle eroine della letteratura francese, fa da contraltare alla solitudine della sua casa, quando i figli sono con l’ex marito e la nuova compagna.

Claire intreccia, a sua volta, una liason con Ludo, un amante più giovane che vuole una relazione di natura esclusivamente sessuale; non desidera far parte della sua vita, tantomeno conoscere i suoi figli per i quali, ci tiene a sottolineare “potrebbe essere un fratello”, data l’età.

Il dolore del nuovo rifiuto induce Claire a rifugiarsi nel mondo virtuale di Facebook in cui può essere Clara, che ha la metà dei suoi anni. Nei panni di Clara torna a sentirsi desiderabile e inizia un gioco di seduzione che ha per oggetto l’ignaro Alex, amico del suo amante Ludo. All’inizio Claire contatta Alex solo per avere modo di arrivare a Ludo, ma poi il gioco prende una piega totalmente indipendente. Lusingata dalla curiosità di Alex, inizia uno scambio virtuale che gratifica i desideri più profondi e inconfessati di entrambi e da cui entrambi diventano dipendenti; una “relazione” in cui a incontrarsi non sono mai le persone reali, con le proprie imperfezioni, e in cui il rischio di essere delusi e feriti sembra ridotto al minimo. Ma i giochi, si sa, per quanto coinvolgenti, non possono durare all’infinito.

Il mio profilo migliore ci mette faccia a faccia con la paura che si fa strada in ognuno di noi quando siamo costretti a fare i conti con la nostra vulnerabilità, quando l’immagine ideale che vorremmo vendere agli altri scricchiola sotto il peso della realtà.

Claire, più ancora che di invecchiare, ha paura della solitudine e dell’abbandono; lo dice alla dottoressa Bormans, protestando con forza il proprio diritto alla felicità, per quanto si tratti di una felicità artificiale che passa attraverso la finzione. È alla ricerca di comprensione e di conforto, ma, prigioniera dell’immagine che lei stessa ha costruito per difendersi dalle offese del mondo, non riesce a confidare neanche alla sua terapeuta il nucleo più profondo della sua sofferenza, che ha posto le premesse del suo sdoppiamento di identità tra reale e virtuale.

Nonostante quello che a me personalmente è apparso qualche colpo di scena di troppo, che appesantisce il racconto, ho apprezzato molto il film per il modo in cui rappresenta i conflitti legati all’essere donna e alla paura di invecchiare, declinadoli sia nel contesto del mondo virtuale e che in quello della relazione terapeutica.

Con il procedere degli eventi la psicoterapeuta si lascia sempre più coinvolgere dalla sua paziente, la cui vicenda, si intuisce, la tocca profondamente, mettendola in contatto con emozioni, desideri e paure da cui nessun essere umano può essere immune; la terapeuta si trova costantemente in bilico tra empatia e distacco professionale, sedotta dalla disperata voglia di vita e di passione che anima Claire, in un gioco di specchi in cui i confini della relazione terapeutica sembrano allentarsi notevolmente.

La dottoressa Bormans è il secondo alterego di Claire, che si affianca al doppio virtuale incarnato dalla giovane Clara. Se Clara esprime la bellezza e la giovinezza di cui la protagonista si sente ingiustamente privata, la psicoterapeuta dà voce, con il suo fare pacato e professionale e con la razionalità dei suoi interventi che sottolineano l’incongruenza tra realtà e fantasia, all’accettazione del tempo che passa e della vulnerabilità, venendo a patti con l’abbandono subìto e con la necessità di elaborare il lutto della perdita dell’immagine idealizzata di sé.

Claire, a sua volta, rappresenta il doppio impetuoso e passionale che mette la dottoressa Bormans faccia a faccia con emozioni travolgenti e comportamenti istintivi al punto da risultare distruttivi per sé stessi e per gli altri altri, un vaso di Pandora dei sentimenti che, nel profondo, appartiene anche alla terapeuta e al confronto col quale non può sottrarsi.

Dipendenza dallo smartphone e depressione negli adolescenti

La dipendenza da smartphone (nota anche come uso problematico dello smartphone) è caratterizzata da un eccessivo attaccamento psicologico allo smartphone con conseguenze funzionali negative.

 

In poco più di un decennio lo smartphone è diventato un bisogno necessario. Il Pew Research Center ha rilevato che circa il 77% degli adulti americani possiede un cellulare e così anche il 95% degli adolescenti.

Oggi gli adolescenti sono soliti utilizzare lo smartphone quotidianamente per molte ore al giorno, unitamente sta crescendo la preoccupazione legata a questi dispositivi, dal momento che si pensa che possano interferire con la loro salute e il loro benessere generale.

I ricercatori hanno riportato risultati contrastanti riguardanti l’associazione tra uso dello smartphone e lo stato di benessere: vi è chi sostiene che il numero dei messaggi di testo si associ negativamente ai sintomi depressivi, altri sostengono che l’uso degli smartphone contribuisca alla cattiva salute mentale.

Inoltre, recenti ricerche hanno dimostrato che l’uso dello smartphone è un fattore predittivo della dipendenza da smartphone e che a sua volta influisce negativamente sulla salute mentale.

La dipendenza da smartphone (nota anche come uso problematico dello smartphone) è caratterizzata da un eccessivo attaccamento psicologico allo smartphone con conseguenze funzionali negative. Sebbene si parli di dipendenza da smartphone questo non rientra ancora in alcuna sezione del DSM 5; nonostante ciò vi sono diversi studi che considerano la dipendenza da smartphone una dipendenza vera e propria, dal momento che condividono alcune caratteristiche comuni con le altre dipendenze (alcol e droghe) quali perdita di controllo, tolleranza e astinenza.

Uno studio, condotto dall’Università dell’Arizona, è stato pubblicato sul Journal of Adolescent Health e ha avuto come obiettivo quello di indagare i risvolti a breve termine che si possono ottenere dall’uso di uno smartphone, dalla sua dipendenza e se questi possano essere correlati a sintomi depressivi negli adolescenti o alla loro solitudine.

Il campione era composto da 346 studenti universitari iscritti ai corsi di comunicazione e sociologia, di cui il 33,6 % era di genere maschile, mentre l’età media dei partecipanti era pari a 19,11.

I ricercatori hanno utilizzato diversi strumenti:

  • Per misurare la dipendenza da smartphone i ricercatori hanno utilizzato il Development of Korean smartphone addiction proneness scale for youth di Kim D, Lee Y, Lee J, et al.
  • Per misurare l’uso dello smartphone, ai partecipanti è stato chiesto di stimare il loro uso quotidiano dello smartphone, attraverso otto usi comuni (navigare in internet, scrivere mail, utilizzare Facebook, Instagram,…).
  • Per misurare la solitudine i ricercatori hanno utilizzato la UCLA Loneliness scale.
  • Per misurare i sintomi depressivi hanno utilizzato la 10-item Center for Epidemiologic Studies Depression Scale

I risultati rivelano come l’utilizzo eccessivo dello smartphone sia un fattore predittivo significativo dei sintomi depressivi e della solitudine.

Concludendo, considerati i tassi di proprietà / utilizzo degli smartphone tra gli adolescenti, l’associazione tra uso e dipendenza dello smartphone e gli effetti dannosi della solitudine e della depressione all’interno di questo campione, questa ricerca può aiutare i professionisti a comprendere gli effetti dannosi dell’utilizzo eccessivo dello smartphone sul benessere degli adolescenti, di conseguenza informare i genitori e gli adolescenti sulle conseguenze negative che si possono manifestare.

 

L’illusione della cura: commento all’articolo di Gilberto Corbellini su “Il Sole 24 Ore”

Mentre la moderna ricerca in ambito medico riconosce i limiti di un approccio strettamente nomotetico, la psichiatria e la psicopatologia vengono ciclicamente definite in crisi per il loro non esser sufficientemente nomotetiche! 

 

Mentre la moderna ricerca in ambito medico riconosce i limiti di un approccio strettamente nomotetico, investendo ingenti risorse in modelli basati su personalizzazione, umanizzazione e sistemi complessi (es. Personomics; Precision Medicine; Medical Humanities; etc.), la psichiatria e la psicopatologia vengono ciclicamente definite in crisi per il loro non esser sufficientemente nomotetiche! Se aprite un qualsiasi motore di ricerca troverete numerosi item a riguardo, che, anno dopo anno, si interrogano o sulla mancanza di un nesso causale tra sofferenza e meccanismi neurobiologici o sulla limitata innovazione psico-farmacologica e relative impasse farmaco-economiche (Smith, 2004; Jablensky, 2010; Harrington, 2019).

Con questo post vorremmo proporre un commento alla tesi di Gilberto Corbellini (2019) che, sull’inserto del Sole 24 Ore del 1 settembre, sostiene l’idea che la psichiatria offra solo cure illusorie. Nel sostenere questa tesi, da cui dissentiamo, il saggista formula alcune argomentazioni che riteniamo opportuno contestare a partire da evidenze scientifiche ormai consolidate.

La Tesi e le Argomentazioni di Corbellini

In breve Corbellini sostiene che la psichiatria sia “la specialità medica con le più flebili basi scientifiche” in assoluto. Tale asserzione è agli occhi dell’elzevirista del Sole 24 Ore corroborata dall’assenza di un modello biologico della malattia mentale, che a sua volta sarebbe ostacolato da un modello psicodinamico di psicopatologia assolutamente a-scientifico. Nel suo procedere argomentativo si rifà in particolare a due libri: un saggio di recente uscita in lingua inglese sulla storia della psichiatria (Harrington, 2019) ed uno di recente traduzione in lingua italiana in cui si propone una teoria infiammatoria sull’origine della depressione (Bullmore, 2019).

Pur ammettendo da parte nostra un bias blind spot (Pronin & Kugler, 2007) nei confronti di Corbellini visto quanto sostiene, riteniamo che sia a livello argomentativo che contenutistico le sue tesi siano da rigettare. Innanzitutto Anne Harrington avrebbe forse da dissentire sull’uso e sull’interpretazione del proprio lavoro. Le asserzioni su una certa debolezza scientifica della psichiatria e degli approcci psicodinamici viene a ragione collocata da Harrington (2019) nella prima parte della storia della psichiatria (da fine ‘800 alla fine degli anni ’70 del secolo scorso). E le sue conclusioni sono in realtà a favore di un maggior e più proficuo utilizzo di psicologici, psicoterapeuti e social worker nella salute mentale. Secondariamente, le tesi sostenute dall’elzevirista sembrano dimenticare due argomentazioni a nostro avviso cruciali: (I) l’assenza di marker biologici in psicopatologia sembra suffragata dall’attuale comprensione della problematiche psicopatologiche; (II) le evidenze scientifiche a favore delle psicoterapie esistono in ambito psicodinamico ed in altri ambiti come la Terapia Cognitivo Comportamentale.

L’Infinita Querelle sui Marker Biologici

Senza voler addentrarsi in un’esegesi del Corbellini-pensiero appare però probabile un assunto organicista di fondo, che sembra dimenticare gli onnipresenti capitoli introduttivi dei testi di biologia, etologia e cliniche varie in cui si fa pace tra nurture and culture, natura e cultura, ambiente e genetica. Per chi, come chi scrive, si è laureato in una disciplina sanitaria asserire un predominio tra uno di questi due poli implicherebbe aver disertato ben più lezioni di quanto ricordavamo.

La Harrington ripropone in chiave aggiornata e forse migliorata la soluzione diplomatica o difensiva che la psichiatria ha solitamente offerto alle critiche legate ad una sua possibile crisi (si veda gli editoriali di Lancet ad aprile 1997, di JAMA Psychiatry a maggio 2015, e di Nature a giugno 2019). Il gioco argomentativo prende le mosse da un assunto biologicista della psichiatria e dal presumere l’impossibilità per questa disciplina di poter interloquire con discipline e campi di applicazione che non stiano nell’alveo della stretta causalità biologica. Successivamente l’iter retorico sembra basarsi sulla diffusa banalizzazione della sentenza di Wittgenstein “su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, che non è un invito a star zitti, quanto a ripensare e ridefinire i propri vincoli creando dunque nuove possibilità! Sfortunatamente numerosi teorici della psichiatria assumono che l’assenza di un indiscutibile marker biologico per ognuna della problematiche psicopatologiche esistenti implichi circoscrivere tale disciplina in quegli ambiti dove i tanto agognati marker siano riscontrabili. Per quanto suoni rassicurante tale affermazione sembra ingenerare più problemi che soluzioni.

Prendiamo ad esempio la mossa diplomatica di Harrington di confinare la psichiatria nelle psicosi. Ora gli antipsicotici di nuova generazione hanno sicuramente incrementato l’efficacia terapeutica degli interventi, ma come risolviamo il fatto che molti dei disturbi psicotici non abbiano evidenti marker? O che un costrutto per sua natura dimensionale come la schizotipia oscilli da stati dissociativi e bizzarrie normali (quindi privi di marker) sino alla franca schizofrenia? Quello che dovrebbe essere il posto sicuro della psichiatria 2.0 diviene facilmente un rompicapo. Anche Lenzenweger (2010) che ha dedicato tutta la sua vita alle neuroscienze e alla psicopatologia sperimentale sostiene come la schizotipia sia una suscettibilità latente osservabile tramite numerosi indicatori (psicosi, caratteristiche di personalità, misure di laboratorio, indici psicometrici, etc.) che non sono però isomorfici rispetto a tale costrutto. Dulcis in fundo, esistono ormai dati consolidati sulla maggiore efficacia e minor tasso di drop-out delle terapie combinate antipisocotici/psicoterapia rispetto ai soli antipsicotici (Guo et al., 2010) e buone evidenze sull’uso esclusivo degli interventi psicoterapeutici (Morrison et al., 2018).

In un precedente articolo su State of Mind (2015) Francesco Mancini rimarcò come vi fossero almeno tre valide contro-argomentazioni nello sconfermare questa visione e mission difensiva della psichiatria. Primo, non esiste una relazione causale biunivoca tra farmaci e cambiamenti psicologici. Un antidepressivo può aumentare la quantità di serotonina o un antipsicotico può ridurre la dopamina, ma quali cambiamenti psicologici ne conseguano direttamente e quali tra questi svolgano un ruolo cruciale nel migliorare il quadro clinico esula da una spiegazione biologicista e sembra avvalorare piuttosto una cognitivista che presupponga un processo interpretativo soggettivo di eventi esterni o interni alla persona. Il secondo punto si fonda sulla centralità nella moderna medicina di modelli multifattoriali su base evolutiva in cui, ad esempio, esperienze negative interpersonali svolgono un ruolo comparabile se non a volte superiore all’ereditarietà genetica nell’insorgenza di una psicopatologia (Cicchetti & Walker, 2000). Il terzo punto ruota attorno all’assunto logico che non è legittimo inferire una neuropatologia solo perché si osserva una diversità, anche se la diversità osservata nel cervello corrisponde a una psicopatologia. Esempio chiaro di questo è l’alterazione neurobiologica in aree cerebrali diverse tra un paziente con demenza e soggetto normale, ma anche tra un paziente con disturbo ossessivo e soggetto normale ed infine tra un genio degli scacchi o del piano e tutti noi non scacchisti o pianisti.

Torniamo dunque alla centralità nella moderna psicopatologia dei modelli dimensionali, processuali e transdiagnostici e a come stiano ricevendo così grande attenzione e così tante conferme sperimentali (Harvey et al, 2004;,Widiger et al., 2002; Hayes & Hoffman, 2018). A meno di non voler cedere ad innumerevoli bias cognitivi, è forse più sensato non cercare di confermare ostinatamente un organicismo che si è ad oggi dimostrato fallimentare. Piuttosto che accorciare lo spazio a disposizione della psichiatria come Procuste era solito fare con gli ospiti di lunghezza diversa da quella del suo letto e confinarla in miserrime nicchie, converrà far proprie ipotesi alternative e cambiar il nostro sguardo al problema in oggetto. La comprensione dei meccanismi di funzionamento su base descrittiva dovrebbe più spesso orientare la ricerca di correlati organici piuttosto che imporre ai clinici la possibilità di parlare solo dopo riprove biologiche. Altrimenti la chirurgia non sarebbe potuta nascere sino all’avvento dei coniugi Curie e dei raggi x!

Evidenze e Prospettive Psicoterapeutiche

Ripartiamo dai dati. Nel leggere in maniera a nostro avviso creativa le argomentazioni della Harrington e gli ultimi 50 anni di storia della psicopatologia, Corbellini si dimentica di accedere alle linee guida esistenti sia nello specifico ambito della salute mentale (es. National Institute of Mental Health – NIMH) che più genericamente medico (es. National Institute of Care Excellence – NICE). Qualora scegliesse di farlo potrebbe scoprire come protocolli psicodinamici come il Mentalization-Based Treatment o la Transference-Focused Psychotherapy non si basano su quello che l’elzevirista definisce il “sonno della ragione”, quanto piuttosto su metodologie di validazione scientifiche.

Inaspettatamente organismi di rinomata fama internazionale come il NICE, che ben poco indulgono a “credenze pseudoscientifiche”, inseriscono protocolli psichiatrici e psicoterapeutici tra le loro prime linee di intervento! E molti tra gli interventi psicoterapeutici con le più solide evidenze scientifiche afferiscono alla cornice cognitivista che come sopra riportato ben si integra con una visione non più organicista della psichiatria e della scienza moderna. Come ben noto infatti, l’assunto è che i sistemi cognitivi rappresentino il nostro modo di percepire, interpretare ed attribuire significati agli eventi. E parlare di psicopatologia significa riconoscere che “a volte le risposte sono maladattive a causa di dispercezioni, interpretazioni errate, disfunzionali o idiosincratiche delle situazioni” (Beck & Weishaar, 2000, p. 242) con le quali ci confrontiamo.

Dunque vale sempre il principio evoluzionistico sommariamente riassunto in quello che in genere è il criterio C del DSM (leggasi disagio clinicamente significativo): per il pianista di cui sopra, dotato di un cervello a-normale, questo, fino a prova contraria, è pienamente adattativo per gli scopi della sua carriera di musicista. Nella misura in cui, come accadde al povero Schumann, l’esercizio pianistico diviene uno striving perfezionistico che porta a ledersi il nervo del dito anulare, compromettere la carriera solistica e sconfinare in un ritiro sociale, allora insorge una sofferenza che è ben altro dalla apollinea a-normalità cerebrale di un genio del pianoforte. Ed in tal caso, il Corbellini non ce ne voglia, una comprensione psicopatologica ed uno dei protocolli suggeriti da NICE o NIMH potrebbero pur valer qualcosa.

 

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