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L’amico immaginario 

Il bambino che usa la sua fantasia per creare un amico immaginario vitale a risolvere i suoi problemi è un bambino che lavora per la propria salute mentale, mantiene il contatto con la realtà coltivando nello stesso tempo il contatto con il mondo reale.

 

La tavola deve sempre essere apparecchiata per un commensale in più, anche se nessun ospite è in arrivo. Vostro figlio rifiuta di iniziare la cena se accanto a lui non c’è una sedia vuota, anche se nessuno si siederà.

Se è capitato anche a voi, non preoccupatevi: è arrivato l’amico immaginario!

Ma chi è un amico immaginario?

Il termine amico, o compagno immaginario si riferisce a un personaggio invisibile dotato di un suo nome proprio a cui si fa riferimento nella conversazione con altre persone o con cui si gioca direttamente per un certo periodo di tempo. Almeno per alcuni mesi riveste un senso di realtà per il bambino pur senza avere un’evidente base oggettiva. Di solito ha la stessa età del bambino o è di poco più piccolo.

Questa definizione esclude di conseguenza quel tipo di giochi immaginativi nei quali un oggetto è personificato o nei quali il bambino stesso assume il ruolo di persone appartenenti al suo ambiente.

Una spiegazione approfondita di questo fenomeno ci viene fornita da un libro, Il compagno immaginario, appunto, che ci offre una serie di testimonianze sul ruolo svolto da questa figura.

Perché un compagno immaginario?

L’invenzione di un compagno immaginario rappresenta una soluzione creativa a cui il bambino può ricorrere per far fronte ai suoi conflitti evitando di cadere in soluzioni patologiche e deve essere vista in funzione del suo bisogno di colmare uno specifico vuoto nel suo sviluppo personale e nella sua struttura di personalità, piuttosto che come necessità legata ad una specifica età.

La ricerca psicoanalitica del compagno immaginario mostra la pluralità di significati e funzioni che questo fenomeno può assumere. Agli estremi si trova, da un lato, la costruzione immaginaria di un bambino dotato di unica fantasia che resta sempre consapevole della natura fittizia del suo compagno e, dall’altro lato, una costruzione patologica sostitutiva dei rapporti con altri esseri umani e investita di concretezza allucinatoria.

La creazione di un compagno immaginario si colloca frequentemente in un periodo evolutivo intermedio tra una fase in cui il controllo delle istanze pulsionali è interamente gestito dalle autorità genitoriali e una fase in cui esso è introiettato e assunto dall’istanza del super io; tra le tante funzioni del compagno immaginario rientra quella di essere adoperato come portavoce di sentimenti particolarmente difficili o dolosi da esprimere per un bambino. In questi casi risulta più facile proiettare le proprie paure e speranze in un compagno immaginario e comunicarlo in questa forma piuttosto che ammettere che queste paure e questi desideri appartengono a lui; il compagno immaginario offre perciò la possibilità di comunicare in maniera indiretta sentimenti troppo intensi o dolosi

Otto Sperling, psicoanalista, ipotizza che un tale comportamento consenta al bambino di salvaguardare il proprio narcisismo attraverso la possibilità di attribuire gli ordini e le istanze educative dei genitori ad una creatura da lui stesso inventata.

Secondo il Dott. Humberto Nager, psichiatra, ciò di cui bisogna parlare non è tanto una condizione oggettiva di solitudine, quanto di un sentimento di solitudine che può insorgere anche in situazioni particolari, quali la nascita di un fratellino o una crisi familiare, che attivano nel bambino vissuti di abbandono e di trascuratezza.

Winnicott e il compagno immaginario

Per Winnicott il compagno immaginario è un rifugio per l’individuo perpetuamente impegnato nel suo compito umano di tenere le due realtà, interna ed esterna, separate e pur tuttavia in relazione l’una con l’altra. Per quanto sembri un paradosso, la capacità di essere soli si sviluppa in presenza dell’atro. Il bambino ha bisogno della madre, al tempo stesso disponibile e discreta, per pensare, giocare, sentirsi sicuro e in relazione con il suo Io ed è questa esperienza preliminare di poter essere da solo in presenza di qualcuno che permette al bambino di sopportare momentaneamente la solitudine dell’assenza, senza essere sommerso dall’angoscia, dalla paura e dalla tristezza.

Riprodurre se stesso sdoppiando la propria immagine per metterla al posto dell’altro è il tentativo che fa l’Io per riconoscere la differenza e la singolarità di quest’altro che è ribelle ai suoi desideri, contesta la sua onnipotenza e lo mette a confronto con la sua mancanza.

Questi custodi narcisisti sono adoperati allo scopo di proteggere lo sviluppo di una rappresentazione di sé, soprattutto nei periodi di vulnerabilità, collegati all’età o a tensioni psichiche. Sono creati dai bambini e dagli adolescenti in risposta a bisogni evolutivi.

Un valido aiuto contro le frustrazioni

E’ sbagliato immaginare che il compagno immaginario sia un povero sostituto di compagni reali e non dobbiamo confondere l’uso nevrotico dell’immaginazione con quello sano. Il bambino che usa la sua fantasia per creare compagni immaginari vitali a risolvere i suoi problemi è un bambino che lavora per la propria salute mentale, mantiene il contatto con la realtà coltivando nello stesso tempo il contatto con il mondo reale. Il contatto con il mondo reale viene rafforzato dalle periodiche escursioni nel regno della fantasia. Diventa più facile tollerare le frustrazioni del mondo reale e accedere alle richieste della realtà se è possibile di tanto in tanto rifugiarsi in un mondo dove i desideri più profondi posso essere immaginativamente esauditi.

L’amico immaginario in età adulta

Generalmente i compagni immaginari scompaiono nel momento in cui il bambino ha imparato a padroneggiare le proprie paure.

Ma in alcuni casi e forme particolari l’amico immaginario può continuare ad esistere anche in età adulta. Un esempio citato nel libro è quello del poeta e scrittore portoghese Fernando Pessoa che viene preso ad esempio con i suoi eteronimi. Nella lettera ad Adolfo Casais Monteiro del 13 gennaio 1935, interrogato da questo sulla genesi dei suoi eteronimi, Pessoa scrive:

L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. […] L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente, per me e per gli altri, in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso.

 

Terapia Metacognitiva per Pazienti con Disturbo da Uso di Alcol

Il Disturbo da Uso di Alcol (AUD) è definito dal DSM 5 come una patologia caratterizzata dall’incessante desiderio di consumare la sostanza (craving), una mancanza di controllo sul suo utilizzo e situazioni problematiche, pericolose e dannose in cui il soggetto si ritrova a causa del bere (APA, 2013).

 

Un utilizzo esagerato di alcol è anche stato associato a una maggior probabilità di sviluppare disturbi mentali, di tentativi di suicidio (Merrill et al., 1992) e di violenza domestica o abusi di minore (Leonard et al., 2001; Windom & Hiller-Sturmohofel, 2001).

Gli approcci attualmente utilizzati per intervenire sull’AUD si concentrano principalmente sui bias cognitivi, sui processi d’apprendimento e sulle credenze disfunzionali; in particolare, la Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT), si focalizza sul ruolo dell’alcol come rinforzo positivo al mantenimento del comportamento d’abuso (Caselli et al., 2018). Lo scopo della CBT per il trattamento del Disturbo da Abuso di Alcol è quello di identificare le situazioni problematiche che portano il soggetto all’uso della sostanza, aumentare il coinvolgimento in attività che non prevedono l’abuso di alcol e intaccare le resistenze emotive e comportamentali al cambiamento (es. Donohue et al., 2004). Nonostante i numerosi studi presenti sull’efficacia della CBT, questa terapia riporta ancora dei limiti: in primo luogo, dal punto di vista comportamentale, questa tecnica non fornisce una spiegazione del perché solo alcuni tra gli individui che consumano alcol perdono il controllo fino a sviluppare un disturbo; dal punto di vista cognitivo, invece, la CBT non riesce a mettere in luce il ruolo causale delle credenze irrazionali sull’eziologia del disturbo (Burtscheidt et al., 2002). Infine, i pazienti sottoposti alla CBT tendono a mostrare ricadute dopo 6/9 mesi dalla fine del trattamento (Magill and Ray, 2009).

Negli ultimi decenni, il Self-Regulatory Executive Function model (S-REF) di Wells e Matthews (1994) ha offerto una differente chiave di lettura sulla sintomatologia di alcuni disturbi psicologici e, nel caso dell’AUD, ha ipotizzato che uno dei motivi di ricaduta in pazienti sottoposti a CBT fosse dovuta ai sintomi metacognitivi residui (Spada & Wells, 2008).

La Terapia Metacognitiva (MCT), sviluppata ispirandosi ai principi teorici del S-REF (Wells, 2009), vede nella cognitive attentional syndrome (CAS) quel processo disfunzionale del pensiero, rimuginativo e ruminativo, che causa l’esordio e il mantenimento dei disturbi psicologici, in particolare quelli dello spettro ansioso e depressivo (Wells, 2009); ad alimentare il CAS sono le metacredenze positive e negative sul pensiero e sulla preoccupazione che influenzano negativamente le abitudini cognitive e comportamentali degli individui (Wells, 2009).

Nello studio qui riportato (Caselli et al., 2018), un campione composto da 5 pazienti affetti da AUD è stato dettagliatamente analizzato per testare l’efficacia, la validità e l’associazione a outcome positivi della MCT in tre differenti tempi: subito dopo il trattamento, in un follow-up a 3 mesi e in uno a 6 mesi.

Sono stati somministrati l’Alcohol Use Disorders Identification Test Consumption (AUDIT-C) per identificare le abitudini legate all’uso di alcolici, l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS) per misurare ansia e depressione, la Positive Alcohol Metacognition Scale (PAMS) e la Negative Alcohol Metacognition Scale (NAMS) per avere un indice delle metacredenze positive e negative, la Penn Alcohol Craving Scale (PACS) per il livello di craving, la Quantity Frequency Scale (QFS) e la Cognitive Attentional Scale (CAS-A). Inoltre, tutti i pazienti hanno partecipato a 12 sedute settimanali di MCT, della durata di 45-60 minuti l’una.

I risultati dimostrano l’efficacia della MCT come approccio terapeutico per l’AUD nel campione analizzato: i pazienti hanno mostrato un miglioramento clinicamente significativo nell’auto-regolazione sia cognitiva che comportamentale. Inoltre, vi è stata una riduzione significativa del consumo settimanale di alcolici e degli episodi di binge drinking rispetto alla condizione pre-trattamento. I miglioramenti riportati sono stati mantenuti stabili anche nei follow-up a 3 e 6 mesi. In conclusione, la MCT si è dimostrata efficace e nessun paziente ha mostrato segni di peggioramento né nell’ansia e nella depressione né nel craving, spianando la strada a future ricerche nel campo dei comportamenti di dipendenza e abuso (Caselli et al., 2018).

 

Natale con i tuoi? Il microbiota intestinale ha qualcosa da dire in merito!

Cosa vi viene in mente pensando al Natale? Forse i regali, forse l’atmosfera di festa, le luci e le decorazioni, con un po’ di fortuna la neve, sicuramente le attese e temute abbuffate natalizie, ma per molti è sicuramente sinonimo di tempo passato in famiglia.

 

Per quanto nell’iconografia natalizia sia onnipresente il quadretto patinato fatto di parenti che si stringono attorno all’albero addobbato a festa, per momenti di comunione e dimostrazioni di affetto reciproco, la realtà che tutti conosciamo è ben diversa. Le festività in generale, e il Natale su tutte, costituiscono uno stress significativo per l’individuo, sia perché la routine quotidiana viene interrotta o comunque alterata, sia perché il ritorno in famiglia (talvolta obbligato) stravolge le distanze dai propri cari strategicamente contrattate durante il resto dell’anno.

In questo senso le statistiche dipingono un quadro sicuramente meno festivo e decisamente poco gioioso: Bergen e Hawton (2007) ad esempio, hanno riscontrato come i soggetti che riportassero problemi relazionali con il partner avessero il doppio delle possibilità di mettere in atto condotte autolesive nel periodo post-natalizio e addirittura come vi fosse un aumento del 250% del tasso di ospedalizzazione a seguito di un tentativo di suicidio per quei pazienti che avevano fatto abuso di alcool, ma senza storie pregresse di abuso alcolemico.

È stato poi riscontrato come il Natale rappresenti per il benessere fisico e psicologico un fattore di rischio ambientale ancora più rilevante quando questo non veniva trascorso con la propria famiglia di origine, bensì con la famiglia del partner (Mirza et al., 2004), sebbene non sia chiaro come ciò avvenga. Mirza e colleghi hanno inoltre dimostrato come problemi relazionali con i suoceri fossero associati a sintomatologia depressiva e ansia; addirittura, uno studio giapponese ha trovato che coabitare con i propri suoceri, sottoponesse le donne ad un rischio di tre volte maggiore di sviluppare malattie cardiovascolari, rappresentando un trend assolutamente anomalo per questo tipo di sintomatologia, che generalmente affligge maggiormente la popolazione maschile (Ikeda et al., 2008).

Presi nel complesso, sia gli stravolgimenti relativi alle abitudini alimentari che gli stressor ambientali – dati in questo caso dalla presenza dei parenti (prossimi o acquisiti) – costituiscono dei modulatori già noti e riconosciuti come cruciali negli studi che si occupano di indagare il microbiota umano: recenti ricerche si stanno infatti occupando di svelare la connessione ed interdipendenza sempre più evidente e dimostrata, tra cervello e flora batterica intestinale, la quale funziona come una sorta di “organo metabolico” coinvolto in svariati processi iatrogeni, come ad esempio l’obesità (Turnbaugh et al., 2008) o la sindrome metabolica (Arora e Bäckhed, 2016). Tale interconnessione ha natura bidirezionale, tanto che si è iniziato a parlare di asse intestino/cervello e si è iniziato a formulare strategie di intervento che ripristinando la flora batterica intestinale, ad esempio mediante probiotici o trapianti fecali, comportino un miglioramento della sintomatologia accusata.

Le feste natalizie quindi, socialmente impegnative grazie alla presenza della famiglia, accompagnate da grandi abbuffate ed elevato consumo di alcolici, costituiscono la ricetta perfetta per l’alterazione del microbiota, che spiegherebbe anche parte del disagio psicologico che accompagna talvolta l’arrivo delle festività.

Un team di ricercatori (de Clercq et al., 2019), ha voluto testare se vi fosse una differenza empiricamente riscontrabile sulla flora batterica intestinale che supportasse (almeno in parte) i racconti aneddotici dell’incubo che costituisce, per alcuni, l’annuale pellegrinaggio presso la casa dei suoceri in occasione del Natale. Allo studio hanno partecipato ventiquattro soggetti, sedici sei quali hanno scelto di passare le festività a casa della famiglia del proprio partner, mentre i rimanenti otto avevano deciso di rimanere con la propria famiglia. I partecipanti sono stati istruiti nel compilare un dettagliato e quanto più possibile veritiero diario alimentare, questo ha permesso ai ricercatori di escludere che le eventuali differenze nel microbiota fossero dovute non tanto all’impatto del fattore familiare quanto all’assunzione di macronutrienti o alcool che differissero significativamente tra i due gruppi: per quanto vi fosse un aumento relativo nell’assunzione di grassi saturi e proteine di origine animale, non sono state riscontrate differenze apprezzabili tra i due gruppi. Oltre al diario alimentare che aveva come data di inizio il 21 Dicembre, i partecipanti hanno fornito inoltre due campioni di feci, raccolti rispettivamente la mattina del 23 Dicembre e la mattina del 27 Dicembre, giorno di fine dell’esperimento; le feci sono state poi analizzate con un procedimento di sequenziamento del DNA ribosomiale 16S.

È emerso come nei soggetti che avevano trascorso il Natale dai suoceri si riscontrassero cambiamenti maggiori del microbiota alfa fecale (Shannon index) rispetto a chi avesse trascorso le feste con la propria famiglia di origine. Inoltre, sono stati identificati due distinti profili di firma batterica che permettevano di distinguere tra le due condizioni famiglia vs. suoceri, comprendenti sette differenti specie i cui cambiamenti relativi erano riscontrabili nei due gruppi. Su tutte, la famiglia dei probioti Rumminococcaceae dominavano nel determinare le differenze riscontrate: il genere Rumminococcaceae_UCG-009 ha mostrato due pattern estremamente divergenti, registrando un aumento significativo nel gruppo che aveva trascorso le festività con la propria famiglia, mentre diminuiva nel gruppo che era ospite dai propri suoceri. Altri due generi di rumminococcaceae, rispettivamente UCG-002 ed NK4A214_group subivano invece un calo in entrambi i gruppi.

E’ interessante sapere che la diminuzione di questa famiglia è stata associata in letteratura alla depressione maggiore negli umani (Jiang et al., 2015) così come è stata riscontrata nei topi sottoposti a stress cronico (Bangsgaard Bendtsen et al., 2012): in tal senso quindi una diminuzione della presenza di Rumminococcaceae potrebbe indicare che non solo i soggetti che hanno preso parte ai festeggiamenti dei suoceri, ma anche chi avesse passato le feste in compagnia dei propri cari, potesse in realtà star risentendo di uno stress psico-fisico non indifferente.

Il presente studio porta con sé delle evidenti limitazioni: ad esempio la scelta circa il gruppo di parenti con i quali passare le festività Natalizie era stata lasciata ai partecipanti stessi, per cui potrebbe essere stata dettata già da una preferenza personale, magari decidendo di evitare la casa dei suoceri; inoltre la tecnica usata per ottenere il diario alimentare si basava sull’autocompilazione che, specialmente in occasione delle esagerazioni alimentari delle festività, potrebbe essere stata sottoposta a censura da parte dei partecipanti. Da ultimo, è auspicabile ampliare in futuro il campione sperimentale, che era estremamente piccolo in questo esperimento e gioverebbe invece di un ampliamento, per permettere di cogliere con più accuratezza i cambiamenti nella composizione del microbiota.

 

Disturbo della Coordinazione Motoria: relazione tra le abilità motorie e la qualità di vita

Le capacità motorie ricoprono un ruolo estremamente importante nello sviluppo di bambini e adolescenti. Non solo influenzano il concetto di sé fisico, sotto forma di autostima, ma hanno ripercussioni anche sulla salute mentale, infatti è stato osservato che bambini con scarse capacità motorie tendono ad avere una bassa autostima o in generale mostrano una minore soddisfazione di vita.

Giulia Balerci e Mariasilvia Rossetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Lo sviluppo adeguato delle capacità motorie rende possibile l’adattamento al mondo esterno, amplificando le nostre possibilità, permettendoci di partecipare attivamente alla vita in società. Già nel 1993 Bushnell e Boudreau suggerivano che lo sviluppo motorio fosse un prerequisito per lo sviluppo di varie funzioni, prime fra tutte le competenze percettive e cognitive. A sostegno di tale tesi Piaget (1953) affermava che l’esperienza senso-motoria, affinata con l’esplorazione dell’ambiente, costituiva una tappa importante per lo sviluppo delle capacità cognitive dei bambini. Murray e colleghi (2006) hanno dimostrato che i bambini che erano in grado di stare in piedi prima dei loro coetanei nell’infanzia, da adulti mostravano delle performance migliori nei test che valutano la capacità di catalogare le informazioni (memoria di lavoro) rispetto ai bambini che erano in grado di stare in piedi molto più tardi.

Sulla base di questi risultati gli autori ipotizzarono l’esistenza di un legame tra lo sviluppo motorio precoce e le funzioni esecutive in età adulta. Sostenendo che una maggiore maturazione nei primi anni di vita dei circuiti neurali coinvolti nella funzione motoria potesse favorire lo sviluppo dei circuiti corticali e sottocorticali coinvolti nei processi cognitivi superiori in età adulta. Le competenze motorie sono necessarie in tutte quelle situazioni che dipendono dalle funzioni esecutive, che richiedono la capacità di definire gli obbiettivi, di pianificare il loro raggiungimento e di eseguirli concretamente.

Dall’insieme degli studi in letteratura emerge che vi è una stretta relazione tra capacità motorie e cognitive e che lo sviluppo adeguato o meno di entrambe si riflette sullo sviluppo degli apprendimenti e più in generale sul funzionamento della persona (Voza D., 2017). Le capacità motorie ricoprono un ruolo estremamente importante nello sviluppo di bambini e adolescenti. Non solo influenzano il concetto di sé fisico, sotto forma di autostima, ma hanno ripercussioni anche sulla salute mentale, infatti è stato osservato che bambini con scarse capacità motorie tendono ad avere una bassa autostima o in generale mostrano una minore soddisfazione di vita (Karras et al., 2019). L’autostima costituisce una parte centrale del concetto di sé che comprende l’insieme dei giudizi che un individuo sviluppa rispetto alle proprie competenze nei vari domini di vita, come l’ambito sociale, quello emotivo-affettivo, il successo a scuola e nelle attività fisiche. Una relazione molto interessante che emerge dallo studio di Schmidt, Blum, Valkanover e Conzelmann (2015) è quella fra attività fisica e senso di competenza. L’acquisizione della padronanza di una attività fisica rinforza la percezione di auto-efficacia che a sua volta porta ad un aumento della competenza fisica percepita, la quale aumenta il livello di autostima attraverso la mediazione dell’accettazione del proprio corpo. Spesso i bambini con DCD ottengono delle prestazioni scarse nelle attività fisiche (ad esempio nei giochi di squadra o negli sport che richiedono lo sviluppo ottimale delle capacità fine e grosso-motorie) e questo provoca un abbassamento del senso di competenza e dell’autostima generale che si può riflettere in comportamenti internalizzanti come il ritiro sociale. La prestazione motoria reale o percepita è legata anche ad un altro aspetto che dall’infanzia all’adolescenza acquisisce un ruolo sempre più importante, l’accettazione da parte dei pari, essenziale per il sostegno emotivo e il confronto sociale.

È sulla base di tali evidenze che riteniamo sia interessante e utile indagare le influenze che i disturbi dello sviluppo motorio, in particolare il Disturbo dello Sviluppo della Coordinazione Motoria (DCD), possono avere sulla qualità di vita dei bambini.

Definizione di Disturbo dello Sviluppo della Coordinazione Motoria

All’inizio del Novecento si sviluppa l’interesse verso i disturbi di tipo motorio, cresce l’attenzione nei confronti di quei bambini che vengono definiti goffi e maldestri. Collier sarà uno dei primi ad affrontare tali temi parlando di “goffaggine congenita” (Vaivre-Douret et al., 2011), seguito da Lippitt che fa riferimento al concetto di “scarsa coordinazione muscolare nei bambini”, Orton parla di “aprassia dello sviluppo o goffaggine anormale”, Ayres invece per descrivere la goffaggine che caratterizza questi bambini fa riferimento al termine “disprassia evolutiva”, Gordon, McKinley e Gubbay si riferiscono a tale condizione usando il termine “sindrome del bambino impacciato” (Van Waelvelde, De Weerdt e De Cock, 2005).

Nel corso degli anni sono stati usati molti termini diversi per descrive i bambini con difficoltà motorie, quali ad esempio disfunzione cerebrale minima, paralisi cerebrale minima, disprassia dello sviluppo, deficit dell’integrazione sensoriale, sindrome ipercinetica dell’infanzia, disturbo dell’apprendimento non-verbale, difficoltà motorie percettive. Per fare chiarezza di fronte all’ampia variabilità dei termini nel 1994 i maggiori esperti del campo si riunirono a Londra formando un gruppo interdisciplinare e decisero di utilizzare il termine Disturbo dello Sviluppo della Coordinazione, come poi verrà descritto all’interno del DSM- III (e revisionato nella quarta e quinta versione) (Cermak e Larkin, 2002).

Il Disturbo dello Sviluppo della Coordinazione (DCD) è classificato come disturbo motorio, all’interno della categoria dei disturbi dello sviluppo neurologico, ed è caratterizzato da un ritardo nell’acquisizione delle competenze motorie a partire dai primi stadi dello sviluppo, che interferisce significativamente con le attività della vita quotidiana e non può essere spiegato da una condizione medica (ad esempio, paralisi cerebrale, distrofia muscolare, o una malattia degenerativa), handicap visivo, disturbo pervasivo dello sviluppo e ritardo mentale (DSM-5, Americcan Psychiaatric Association, 2014). Per riferirsi ai bambini che presentano un deficit nello sviluppo della coordinazione motoria l’ICD-10 (International Statistical Classification of Diseases), usa il termine Disordine Specifico dello Sviluppo della Funzione Motoria (SDDMF). Tali difficoltà si esprimono con un ritardo nell’acquisizione degli schemi motori di base (es. strisciare, rotolare, gattonare, afferrare, camminare, correre, lanciare).

Prevalenza

La prevalenza del DCD è stimata, nei bambini tra i 5 e gli 11 anni, tra il 5%-6%, con un rapporto maschio-femmina di 2:1 (DSM-5, 2014). L’impatto del DCD può essere diverso tra femmine e maschi. Sembra che le ricadute negative sulla competenza auto-percepita siano maggiori nelle femmine, che presentano livelli di auto-efficacia percepita e di autostima più bassi rispetto ai maschi. Le ragazze con problemi di coordinazione riportano livelli più bassi di competenza atletica, maggiori difficoltà a scuola e livelli più bassi di autostima rispetto ai maschi con bassi livelli di coordinamento e a ragazzi e ragazze senza difficoltà di movimento (Murray et al., 2006).

La partecipazione alle attività fisiche può essere influenzata dal differente valore sociale che maschi e femmine vi attribuiscono, per i ragazzi sembra che la prestazione atletica costituisca un aspetto importante nella definizione dello status sociale. La minore partecipazione alle attività fisiche da parte delle ragazze potrebbe essere legata anche alle minori pressioni che generalmente ricevono dagli altri e che invece aumentano nei confronti dei maschi (Cairney, Hay, Faught e Hawes, 2010). È possibile ipotizzare che i ragazzi vengono rilevati più spesso delle ragazze perché i genitori e gli insegnanti si aspettano maggiori prestazioni fisiche da loro. Così, anche lievi compromissioni nei ragazzi sono notate di più e vengono considerate più gravi rispetto allo stesso grado di compromissione presentato nelle femmine, che invece spesso viene trascurato. Non dobbiamo tralasciare che anche il contesto culturale nel quale si sviluppano i ragazzi esercita una forte influenza, ad esempio negli USA, la performance sportiva ha delle ricadute accademiche importanti (es. borse di studio). Inoltre sembra che i ragazzi presentino maggiori comportamenti esternalizzanti e questo li rende più “visibili” e aumenta le loro probabilità di entrare in contatto con gli operatori sanitari.

Eziologia

Il DCD è un disturbo eterogeneo, e le sue manifestazioni possono essere diverse e complesse. Sulla base della co-occorrenza del DCD con Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD), Disturbi dello Spettro Autistico e Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) è stata ipotizzata l’esistenza di una base genetica condivisa (DSM-5, American Psychiatric Association, 2014).

Ancora oggi l’eziologia e i meccanismi cognitivi coinvolti non sono chiari. Le cause principali sembrano essere: la prematurità, il disturbo di integrazione sensoriale, la compromissione dell’emisfero cerebrale dominante, l’anossia o l’ipossia. Le difficoltà motorie nei bambini con DCD potrebbero essere correlate a diversi tipi di disfunzione che possono coinvolgere il lobo parietale, il cervelletto, i gangli della base, l’ippocampo, l’assottigliamento del corpo calloso, disturbi oculo-motori o anomalie neuro-visie (Vaivre-Douret et al., 2011). Un dato interessante che emerge dalla letteratura riguarda proprio l’alterazione del funzionamento del lobo parietale inferiore, area deputata alla ricostruzione dell’immagine visiva e al suo orientamento nello spazio (Lewis, Vance, Maruff, Wilson e Cairney, 2008). Le significative difficoltà riscontrate dai bambini con DCD nel generare una rappresentazione visuo-spaziale accurata rispetto ad un’azione programmata, possono essere attribuite ad un deficit di immaginazione motoria. Le difficoltà nella gestione del controllo online del movimento sperimentate dai bambini con DCD sembrano dipendere dalla minore capacità di attivare le rappresentazioni interne dell’azione (Fuelscher, Williams, Enticott e Hyde, 2015). Da diversi studi sulla rotazione mentale, infatti, è emerso che i bambini con DCD ottenevano prestazioni peggiori in questo tipo di compiti rispetto ai loro coetanei con sviluppo tipico (Adams, Lust, Wilson e Steenbergen, 2014). Secondo gli autori le peggiori prestazioni nella condizione immaginata dovrebbero essere imputate ad una ridotta capacità di rappresentare internamente le coordinate visuo-spaziali dei movimenti programmati.

Partendo dal presupposto che l’immaginazione motoria determini l’attivazione di reti neurali simili a quelle che si attivano durante la pianificazione, l’esecuzione e il controllo dei movimenti reali, è possibile ipotizzare che le difficoltà che sperimentano i bambini con DCD siano causate da una immaturità nello sviluppo neuro-motorio, rilevata attraverso studi di neuroimaging, che colpisce in particolare proprio le aree preposte alla realizzazione e all’immagazzinamento delle rappresentazioni delle azioni (corteccia parietale posteriore e cervelletto). L’impatto di questo ritardo nello sviluppo è così forte che le prestazioni dei bambini con DCD sono state paragonate a quelle dei pazienti con danni alla corteccia parietale (Ferguson, Wilson e Smits-Engelsman, 2015).  Le difficoltà che i bambini con DCD sperimentano nell’integrazione dei segnali visivi collegati all’asse del corpo, sembrano essere legate alla compromissione del controllo cognitivo. Ad essere compromesse sono proprio le funzioni cognitive di livello superiore quali la pianificazione, la memoria di lavoro, l’inibizione, la meta cognizione e di particolare rilievo la capacità di codificare e rappresentare le caratteristiche spaziali e temporali indispensabili per l’organizzazione delle azioni coerenti con i propri obbiettivi e con il contesto (Rosenblum, Margieh e Engel-Yeger, 2015).

Disturbo dello Sviluppo della Coordinazione Motoria e qualità di vita

I bambini con DCD sperimentano numerose difficoltà funzionali legate alla loro scarsa coordinazione motoria. Questi problemi possono includere difficoltà nel vestirsi, legare scarpe, usare utensili, andare in bicicletta, scrivere, nel praticare educazione fisica e nelle attività del tempo libero. Il DCD può avere effetti profondi su una serie di aspetti della vita dei bambini, e sembra persistere nell’adolescenza e nell’età adulta. Sebbene il Disturbo della Coordinazione Motoria sia principalmente un disturbo motorio, può avere un impatto sul funzionamento emotivo e psicosociale del bambino. Vi è dunque una relazione significativa tra abilità motorie, concetto di sé, accettazione sociale e qualità di vita. Quando si parla di qualità della vita ci si riferisce alla valutazione della soddisfazione di vita, la speranza, il concetto di sé e di benessere, in relazione ai propri obiettivi, aspettative, cultura, valori e credenze. Riflette lo stato funzionale e di salute, il livello di dipendenza e la capacità di partecipare a occupazioni significative, motivanti e responsabilizzanti. Per la rilevazione del benessere nei bambini, accanto a tecniche narrative in cui il bambino è libero di esprimere il proprio pensiero riguardo a domande generali o specifiche si utilizzano principalmente test e questionari di autovalutazione (Scale Psichiatriche di Auto-somministrazione per Fanciulli e Adolescenti (SAFA, Cianchetti C. e Sannio Fancello G., 2001); Quality of Life profile Adolescent Version (QOLPAV, Raphael, Rukholm, Brown et al., 1996); Pediatric Quality of Life Inventory (PedsQL4.0GenericCoreScales; Varni, 2005)).

Dallo studio di Raz-Silbiger et al. (2015) emerge che sia i bambini con DCD che i loro genitori percepiscono livelli più bassi per quanto riguarda le competenze motorie, cognitive, psicosociali e in generale una qualità di vita inferiore rispetto a quella dei coetanei con sviluppo tipico. Dunque i bambini con DCD non solo mostrano un funzionamento motorio peggiore rispetto ai coetanei, ma presentano anche sintomi significativamente più gravi di depressione e ansia, minore autoefficacia e maggiori problemi di tipo socio-relazionale (Zwicker, J. G., et al. 2013). In uno studio ancora più recente (Karras, H. C et al., 2019) viene rilevato che sia i bambini con DCD che i loro genitori presentano una percezione della qualità di vita significativamente più bassa in numerosi campi, tra cui il benessere fisico, il benessere psicologico, gli stati d’animo e le emozioni, l’auto-percezione, l’autonomia, le relazioni parentali e la vita domestica, il sostegno sociale dei pari, l’ambiente scolastico e il bullismo. In particolare i genitori riferiscono che i loro bambini presentano disturbi emotivi e comportamentali significativamente più gravi rispetto ai coetanei.

I bambini con DCD tendono ad evitare di impegnarsi in attività fisiche essenzialmente a causa della loro paura di essere criticati, ridicolizzati e di essere bersaglio di bullismo da parte dei loro compagni, sperimentando un minor senso di auto-efficacia e una minore competenza auto-percepita rispetto alle loro abilità motorie (Payne, 2015). La paura del fallimento ripetuto non solo riduce il desiderio di partecipare a tali attività, vissute come sgradevoli, ma crea una sorta di circolo vizioso in cui l’angoscia legata alla possibilità di non riuscire porta al ritiro, che a sua volta diminuisce le opportunità di allenare le competenze necessarie (Cairney e Veldhuizen, 2013). Diversi studi hanno rilevato, nei bambini con DCD, livelli di partecipazione sociale inferiori rispetto ai coetanei con sviluppo tipico (Sylvestre, Nadeau, Charron, Larose e Lepage, 2013).

Questo è un dato importante considerando che la partecipazione dei bambini nei vari contesti della vita quotidiana, quali attività fisiche, giochi di squadra, sport e attività educative risulta essere di fondamentale importanza per lo sviluppo del senso di competenza, la definizione della propria identità e lo sviluppo sociale. Il grado di impegno fisico che queste attività richiedono può variare, ad esempio la maggior parte degli sport richiede capacità grosso-motorie, come l’equilibrio e la coordinazione, mentre le attività grafiche, come il disegno e la pittura richiedono capacità fine motorie. Le difficoltà motorie che sperimentano i bambini con DCD possono limitare la partecipazione a tale tipo di attività alimentando una spirale: questi bambini spesso non sono ben accolti dai loro coetanei e sperimentano una maggiore difficoltà nel partecipare alle attività motorie. Di conseguenza, la riduzione della partecipazione porta a non sviluppare una buona forma fisica, che a sua volta rende l’attività fisica ancora più impegnativa, con un conseguente ulteriore calo della partecipazione. La riduzione della partecipazione a questo tipo di attività porta ad un aumentano del comportamento sedentario, che accresce il rischio di sovrappeso e obesità.  La mancanza di pratica e le ridotte opportunità di partecipazione alle attività in cui i bambini si impegnano quotidianamente, si traduce in un divario ancora maggiore tra le capacità motorie dei bambini con DCD e quelle dei pari, con l’esito di un abbassamento significativo dell’autostima ed un incremento della tendenza al ritiro sociale (Cermak, S. A., 2015). Le difficoltà motorie, dunque, hanno un peso importante sulla salute fisica e possono determinare problemi emotivi e psicosociali secondari.

Dallo studio di Rahimi-Golkhandan et al. (2014) emerge che la maggiore sensibilità agli stimoli emotivamente significativi presentata dai bambini con DCD potrebbe essere spiegata dall’alterazione dell’attività delle regioni frontostriatali, coinvolte nella capacità inibitoria, in particolare rispetto a stimoli emotivi. Cummins, Piek e Dyck (2005) hanno rilevato nei bambini con difficoltà motorie livelli più bassi di accuratezza e di velocità nel rispondere agli stimoli delle emozioni facciali rispetto ai coetanei con sviluppo tipico. Secondo gli autori alla base di tale compromissione vi potrebbe essere l‘inadeguata capacità di elaborazione visuo-spaziale, riscontrata spesso nei bambini con DCD. Questo aspetto ha un forte impatto nella vita del bambino soprattutto a livello sociale, in quanto le capacità percettive sono necessarie per rilevare, interpretare e rispondere in maniera adeguata ai segnali sociali. È stato ipotizzato che la scarsa organizzazione percettiva che caratterizza i bambini con DCD potrebbe essere all’origine delle difficoltà nel riconoscimento delle emozioni e che tali difficoltà si potrebbero riflettere proprio nei comportamenti di internalizzazione (ritiro sociale, ansia e depressione) spesso riscontrati in questi bambini (Piek et al., 2008). Le difficoltà nel riconoscere ed elaborare segnali visuo-spaziali alterano la loro capacità di valutare e riconoscere le espressioni emotive degli altri, l’impossibilità di utilizzare tali informazioni per guidare il proprio comportamento ostacola la costruzione di relazioni sociali significative nei vari contesti di vita.

I questionari rivolti ai genitori, come il DCDQ (Questionario Sulla Coordinazione Motoria (The DCDQ ’07 ©B.N. Wilson), rivelano forti preoccupazioni rispetto ai propri bambini con DCD che, a causa delle loro scarse capacità motorie hanno difficoltà con molte attività quotidiane, come ad esempio pettinarsi, vestirsi, lavarsi i denti, allacciare le scarpe o abbottonarsi. Molti di questi bambini devono essere assillati dai genitori per vestirsi per andare a scuola, per alcuni di questi bambini è ancora necessaria la diretta supervisione e un aiuto fisico da parte dei genitori. Le ripercussioni che le difficoltà fine e grosso motorie hanno nello svolgimento delle attività quotidiane possono essere interpretate, erroneamente, da familiari, amici, insegnanti come svogliatezza, pigrizia, e mancanza di interesse da parte del bambino.

Lo studio di Green, D., & Payne, S. (2018) ha esplorato l’esperienza vissuta da adolescenti con DCD, i partecipanti hanno descritto la loro vita come un “duro lavoro” a causa dello sforzo richiesto per padroneggiare e svolgere le attività motorie quotidiane e lo sforzo cognitivo necessario per organizzare, il loro tempo e le loro attrezzature. Il DCD per questi adolescenti, non è solo un costrutto fisico, la frustrazione per la loro incapacità di svolgere attività che altri riescono facilmente a realizzare contribuisce allo sviluppo di un forte senso di inadeguatezza. Le difficoltà vissute dai giovani con DCD influenza il loro benessere emotivo e la loro partecipazione sociale.

È stato dimostrato che i bambini con DCD sono più a rischio nello sviluppare problemi psicosociali che influiscono sulla loro qualità di vita. Inoltre emergenti prove indicano che l’associazione tra DCD e scarsa salute mentale persiste nell’adolescenza e nell’età adulta. La scarsa auto-efficacia per le abilità motorie influisce sulla motivazione di bambini e ragazzi con DCD ad impegnarsi in attività sociali e fisiche, i genitori di questi bambini spesso ritengono che i loro figli siano socialmente vulnerabili, abbiano contatti sociali meno sviluppati e meno amici rispetto ai coetanei (Payne, S., 2015). Le ripercussioni possono essere preoccupanti, in quanto espongono maggiormente questi bambini e questi ragazzi al rischio di isolamento sociale. Dallo studio di Kennedy-Behr, Rodger e Mickan (2013) è emerso che durante il gioco libero, i bambini con probabile DCD sono maggiormente coinvolti in episodi di aggressione, partecipano meno ai giochi di gruppo e trascorrono una maggiore quantità di tempo ad osservare gli altri rispetto ai loro coetanei con sviluppo tipico. Presentano un maggior rischio di vittimizzazione da parte dei pari a scuola, legato soprattutto al fatto che vengono percepiti da parte dei compagni come diversi per quanto riguarda l’aspetto e in relazione alle loro prestazioni.

Alla luce di quanto emerge dalla letteratura è possibile ipotizzare che i problemi motori e le difficoltà psicosociali, come ad esempio la bassa autostima, lo scarso rendimento scolastico e la percezione di carente sostegno sociale vissute da bambini con DCD, possono costituire dei fattori di rischio per l’emergere di depressione, ansia ed altri disturbi che possono compromettere l’adattamento psicosociale dell’individuo (Karras et al. 2019). Le evidenze che possiamo ricavare dalla letteratura non devono però scoraggiare coloro che entrano in contatto con questi bambini, dobbiamo ricordare che l’ambiente nel quale il bambino cresce può influenzare il suo sviluppo. Spetta dunque ai genitori, agli insegnanti e a tutte quelle persone che entrano in contatto con loro ad educarli rendendoli consapevoli non solo dei propri limiti ma anche e soprattutto dei propri punti di forza, in modo da favorire la creazione di adeguate strategie adattive allo scopo di gestire, ridurre o tollerare le situazioni stressanti. In questo modo il bambino sarà più motivato a cimentarsi anche in quelle attività valutate come “rischiose” dal punto di vista fisico ed emotivo.

Uno dei punti di forza che caratterizza questi bambini è la loro grande creatività, queste figure di supporto hanno dunque il compito di indirizzare questa forza creativa verso obbiettivi positivi, incanalare questa energia in modo da far emergere le potenzialità, di cui spesso il bambino non è consapevole. Un compito importante è anche quello di individuare le attività che permettano al bambino di compensare i propri limiti attraverso i punti di forza (ad esempio il karate e il nuoto sembrano essere sport in cui i bambini con difficoltà motorie hanno minori difficoltà). Per aiutare il bambino ad affrontare e gestire le conseguenze emozionali legate alle difficoltà motorie è utile individuare quali sono le situazioni che generano un forte stress emotivo e discutere insieme sulle strategie da adottare per farvi fronte, stabilire quali sono i comportamenti e le reazioni adeguate. Un ulteriore aspetto sul quale si può lavorare è l’inclusione in classe, soffermandosi sulle caratteristiche proprie di ogni alunno, cercando di stimolare fra gli alunni un confronto positivo con le diverse sfaccettature dell’altro. Creare un ambiente che spinga a mettersi alla prova, che stimoli una riflessione sulla diversità che non deve essere considerata solo un ostacolo ma anche una risorsa.

Conclusione

I bambini con scarse capacità motorie presentano spesso difficoltà nel far fronte alle richieste sociali nei vari contesti di vita, a casa, a scuola, ma anche con i propri amici, questo fa sì che molte delle esperienze di condivisione e di interazione, come ad esempio giocare a calcio con i compagni di scuola o partecipare ad una sfida a squadre, fare lavori di gruppo in classe vengono vissute come spiacevoli ed evitate quando possibile. L’impossibilità di competere con i compagni in quelle attività che richiedono competenze motorie specifiche può portare il bambino ad essere deriso ed emarginato. Non ci sorprende dunque che questi bambini sperimentino un benessere emotivo inferiore rispetto ai coetanei con sviluppo tipico che purtroppo può sfociare in vere e proprie psicopatologie. Spesso i genitori dei bambini con deficit di coordinazione motoria, preoccupati per le difficoltà che il bambino sperimenta nel fare nuove amicizie, per i frequenti comportamenti aggressivi, e per il loro ritardo nel raggiungere gli obbiettivi scolastici tendono a spingere il bambino a provare e riprovare, ad applicarsi di più e a partecipare più spesso alle attività di gruppo allo scopo di motivarlo. In realtà l’effetto di queste raccomandazioni è quello di innescare una serie di pensieri negativi nel bambino, rispetto alla propria autostima legati all’incapacità di soddisfare le richieste dei genitori che a loro volta generano sentimenti di frustrazione. Il problema di fondo è legato al fatto che spesso si presta attenzione alle difficoltà con il quale il disturbo si manifesta senza riconoscerne l’origine, ovvero la difficoltà di coordinazione motoria. Ciò che un genitore, un insegnante o comunque una persona che entra in contatto con il bambino che presenta difficoltà motorie possono fare per favorire lo sviluppo di una buona capacità sociale ed emozionale è dare dei feedback positivi per i suoi tentativi e stimolare lo sviluppo di adeguate strategie di coping. Se la famiglia viene guidata da professionisti e specialisti del campo (psicologi, psicoterapeuti e psicomotricisti) riceverà l’aiuto necessario per comprendere le difficoltà vissute dal bambino e per costruire un ambiente più favorevole al suo sviluppo. Le capacità motorie devono essere considerate nella valutazione funzionale dei bambini in età scolare, in quanto non influenzano solo la possibilità di cimentarsi nelle attività scolastiche ma si riflettono nel funzionamento generale del bambino. È importante che tali aspetti siano inclusi nelle attività di screening, in modo tale da individuare precocemente specifiche difficoltà ed organizzare interventi altrettanto precoci, rivolti sia al dominio motorio che agli apprendimenti.

 

Autismi in pratica. 4 punti chiave per far funzionare la Token Economy

La Token Economy consiste nell’erogare rinforzatori simbolici (i gettoni/token) ogni volta che il comportamento bersaglio viene emesso, fino a quando non si arriva a un numero stabilito che permetterà l’accesso al rinforzatore vero e proprio. Quando si decide di presentare uno strumento del genere a un bambino con autismo bisogna rispettare una serie di accorgimenti.

 

La Token Economy, o economia a gettoni, viene proposta spessissimo dagli operatori per incrementare l’emissione di comportamenti desiderabili/adeguati da parte di bambini e/o ragazzi. Viene proposta perché, nonostante tutti i dubbi che suscita in chi si approccia ad essa per la prima volta, funziona! Inoltre, è adattabile ad età e funzionamenti diversi (“adattamento” è una parola chiave quando si ha a che fare con la disabilità!). Ma, concretamente, di che cosa si tratta?

Poniamo il caso che desideriamo alla follia quel robot da cucina che proprio non possiamo permetterci e che scopriamo che al supermercato X c’è una nuova raccolta di bollini. Se ne raccoglieremo a sufficienza, il robot potrà finalmente essere nostro. Che cosa faremo quindi? Andremo più spesso a fare la spesa nel supermercato X (comportamento bersaglio desiderato) e ci faremo dare i bollini (o gettoni, o token) così, quando ne avremo un numero sufficiente, precedentemente stabilito (o contrattato), potremo finalmente ritirare il nostro robot da cucina nuovo di zecca.

Ecco, in buona sostanza la Token Economy è questo. Si basa sul rinforzo positivo e consiste nell’erogare rinforzatori simbolici (i gettoni/token) ogni volta che il comportamento bersaglio viene emesso, fino a quando non si arriva a un numero precedentemente stabilito di token, che darà accesso al rinforzatore vero e proprio.

Quando si decide di presentare uno strumento del genere a un bambino con autismo bisogna rispettare una serie di accorgimenti.

Individuare in maniera operativa il comportamento che vogliamo incrementare (comportamento bersaglio). Questo significa che esso è già presente nel repertorio comportamentale del bambino, ma non con la frequenza attesa. La Token Economy non è adatta per insegnare nuovi comportamenti e, se la usassimo a questo scopo, non faremmo che generare frustrazione disincentivandone l’utilizzo.

Per evitare la perdita di motivazione, è consigliabile fare in modo che, le prime volte, sia più semplice accedere alla ricompensa, prevedendo ad esempio un numero ridotto di token da conquistare. Specie all’inizio, è bene non ricorrere allo stesso strumento per più comportamenti perché potrebbe confondere. Una volta che il suo funzionamento sarà acquisito si può (si deve?) fare.

Bisogna quindi stipulare un contratto: la persona deve essere a conoscenza di quello che ci aspettiamo da lui e di che cosa gli permetterà di guadagnare gettoni. Se si tratta di bambini piccoli o di individui con un funzionamento basso, sarà indispensabile, prima di proporre la nostra tabellina con la ricompensa finale, associare i token scelti (stelline? smile? monete? stickers di Harry Potter? Dipende da chi abbiamo davanti, ovviamente!) a un rinforzo tangibile. Ovvero, se sappiamo che per quella persona è molto gradita la cioccolata (perché abbiamo già fatto il nostro assessment delle preferenze) ogni volta che emetterà il comportamento target, noi elargiremo un pezzo di cioccolata e un gettone. Così quest’ultimo assumerà un valore che manterrà anche quando lo proporremo senza cioccolata. Con funzionamenti più alti è possibile associare la Token Economy a una storia sociale che chiarisca quali comportamenti verranno premiati e quali no, senza lasciare troppo spazio ad ambiguità.

I gettoni non si sottraggono a meno che ciò non sia specificato nel contratto (in questo caso però, se siamo di fronte a un individuo ansioso, il timore di perdere gettoni potrebbe offuscare la voglia di vincere la ricompensa finale). E dopo tutta questa teoria…la pratica?

Nella pratica clinica è possibile utilizzare la Token Economy con individui di ogni età e con differenti livelli di funzionamento. Si può usare per allungare i tempi di attesa e di permanenza a tavolino, per aumentare l’autonomia personale, per limitare i comportamenti di controllo verso gli altri, per promuovere la richiesta di aiuto come strategia per prevenire crisi comportamentali. Se ne possono costruire di semplici e complesse. Si tratta di uno strumento estremamente versatile ed efficace, se si tengono a mente questi consigli.

 

Elogio dell’imperfezione di Rita Levi Montalcini – Recensione del libro

La vita di Rita Levi Montalcini si snoda per quasi un secolo di storia attraversando la seconda guerra mondiale, le leggi antirazziali, ricerche mediche pionieristiche e scoperte scientifiche coronate dal premio Nobel. In questo libro, lei ne ripercorre ogni tappa, intrecciandola con ricordi intimi e familiari e un punto di vista critico e mai banale.

 

L’originalità dello sguardo con cui l’autrice descrive eventi privati, pubblici e storici è ben rappresentata dallo stesso titolo scelto per la propria autobiografia, che si ispira a quello della celebre opera Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam.

Scriveva nel 1509 il teologo e filosofo olandese:

 

Sono due i principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la vergogna che offusca l’animo, e la paura che, alla vista del pericolo, distoglie dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e osare tutto: pochissimi sanno quale messi di vantaggi ne derivi.

A distanza di mezzo millennio, la scienziata italiana sembra confermare un’affermazione così ardita con la sua stessa esperienza di vita, ricordando che:

La mancanza di complessi, una notevole tenacia nel perseguire la strada che ritenevo giusta e la noncuranza per le difficoltà che avrei incontrato nella realizzazione dei miei progetti, (..) mi hanno enormemente aiutato a far fronte agli anni difficili della vita.

Non solo. Raccontando la propria storia, si cimenta nell’ardito compito di valorizzare un altro demonizzato stigma dell’essere umano: l’imperfezione.

Senza seguire un piano prestabilito, ma guidata di volta in volta dalle mie inclinazioni e dal caso, ho tentato (…) di conciliare due aspirazioni inconciliabili, secondo il grande poeta Yeats: “Perfection of the life, or of the work”. Così facendo, e secondo le sue predizioni, ho realizzato quello che si può definire “inperfection of the life and of the work”. Il fatto che l’attività, svolta in modo così imperfetto, sia stata e sia tuttora per me fonte inesauribile di gioia, mi fa ritenere che l’imperfezione nell’eseguire il compito (…) sia più consona alla natura umana così imperfetta che non la perfezione. (Rita Levi Montalcini)

Cresciuta nell’alta borghesia torinese, Rita sin da bambina è giudicata come più introversa e meno talentuosa dei fratelli, che possiedono spiccate doti artistiche. Critica fin da giovanissima sulle convenzioni sociali che limitano la libertà femminile e che relegano la donna ad una condizione subordinata e domestica, decide solo in tarda adolescenza di dedicare i suoi studi ad un ambito universitario, quello della medicina, ancora prettamente maschile, rifuggendo dall’idea del matrimonio e dei figli. Iscritta alla facoltà di medicina di Torino, diventa presto tirocinante presso l’Istituto di Anatomia sotto la guida del professor Levi, di cui delinea un burbero quanto affettuoso e indimenticabile ritratto. Anche tra le mura dell’Istituto torinese non spicca per particolari doti scientifiche a confronto con i compagni, tra cui si annoverano nomi come quelli de futuro premio Nobel Renato Dulbecco. Rita non possiede innatamente il cosiddetto “pollice verde” per le preparazioni istologiche, trova noiose e improduttive le sue prime mansioni di ricerca e fallisce del tutto uno dei progetti scientifici che le vengono assegnati. Tuttavia, sfide ben più ardue la attendono negli anni successivi. L’avvento del fascismo e delle leggi razziali comporta un giro di boa nella vita dell’autrice così come in quella della sua famiglia, dei colleghi, dell’Italia e dell’Europa intera.

L’autobiografia Elogio dell’imperfezione si suddivide in quattro grandi capitoli. Se il primo capitolo è interamente dedicato ai ricordi familiari dell’infanzia e agli anni universitari della giovinezza, il secondo si concentra sugli anni della seconda guerra mondiale, così difficili, eppure indispensabili per formazione di quella predisposizione all’ottimistica tenacia e lungimiranza che costituisce la “sana” ed elogiata follia, foriera di conoscenza, elogiata da Erasmo da Rotterdam.

Rita, giovane studiosa ebrea, con le leggi razziali viene privata della possibilità di svolgere i suoi studi in università. Combattuta tra due prerogative apparentemente inconciliabili, la prosecuzione delle sue ricerche all’estero o la vita familiare accanto ai suoi cari in Italia, Rita si adopera ingegnosamente per perseguirle entrambe. Così i ricordi degli studi scientifici iniziano a legarsi curiosamente e indissolubilmente a scene di vita intime e familiari. La sua piccola camera da letto torinese viene trasformata in laboratorio, dove accorrono professore e colleghi, egualmente impossibilitati a svolgere le loro attività. Il microscopio, acquistato a spese della famiglia, la accompagna ad ogni suono di sirena quando, annunciati i bombardamenti, Rita stringe a sé il materiale più costoso per i suoi esperimenti nelle interminabili ore trascorse nei rifugi. E quando vivere in città diviene troppo pericoloso, il laboratorio si trasferisce in un angolo del soggiorno della casa di campagna. In quell’angolo, la studiosa può continuare gli studi sugli embrioni di pollo, ricavati dalle stesse uova che prima vengono acquistate nelle cascine vicine e, a fine esperimento, diventano ingredienti di torte e frittate cucinate e servite ai sospettosi e attoniti familiari. Guerra, tentate fughe e malattie spezzano alcuni legami sentimentali e di amicizia, così come ne creano e rinforzano altri.

Paradossalmente, solo con l’avvento del Dopoguerra in Italia, Rita prende la decisione di recarsi all’estero. Quella che doveva essere un’esperienza di studio di sei mesi si trasforma in un soggiorno trentennale negli Stati Uniti.  Proprio a quei trent’anni è dedicato il terzo capitolo del libro, in cui l’autrice delinea un affresco della società americana, traccia affettuosi ritratti dei più stretti amici e collaboratori e ripercorre il suo percorso di studi, ricordando le sue prime grandi scoperte scientifiche insieme ai dubbi, alle perplessità, alle sfide che le hanno precedute. Per i non addetti ai lavori questa rappresenta senza dubbio la parte più complessa dell’opera. Per quanto l’autrice cerchi di rendere fruibile al grande pubblico il suo campo di studio, la complessità dei temi trattati e la specificità dei termini utilizzati fa sì che alcune parti risultino più lente e meno chiare rispetto alle pagine precedenti. Per coloro che si occupano di neuroscienze, sarà tuttavia estremamente interessante ripercorrere quali fasi sperimentali e quali ipotesi hanno preceduto la scoperta del Nerve Growth Factor, il fattore di crescita neuronale per la quale la scienziata ha meritato il Nobel. Coloro che si occupano di ricerca saranno invece incuriositi dal singolare affresco delle procedure dell’epoca, in cui mancavano le attuali tecnologie e mezzi di comunicazione; fitti scambi epistolari, che Rita arricchiva con i disegni di ciò che osservava al microscopio, erano la prassi per fornire e ricevere pareri tra colleghi. Infine, per qualsiasi lettore, risulterà di impagabile valore l’esempio di “folle” tenacia nel perseguire quell’intuizione che inizialmente professori e colleghi, increduli, osteggiavano, e nell’affrontare i periodi di “stallo”, in cui il lavoro compiuto appariva fallimentare.

A concludere l’opera vi è il quarto capitolo, che non coincide con il gli ultimi anni di vita della scienziata, ma chiude il cerchio del percorso di studi e familiare delineato in precedenza. E’ il capitolo del rientro in Italia, del ricongiungimento con la famiglia e dell’apertura del centro per lo studio delle neuroscienze, da lei diretto, a Roma. Il lutto per la morte della madre e le difficoltà nel dirigere un istituto di ricerca in Italia sono un’ennesima sfida. Rita, come in passato, non si tira indietro. E, con questo ultimo esempio, sembra voler ribadire la profonda convinzione che, sia nello studio del “meraviglioso e quanto mai imperfetto cervello dell’Homo Sapiens” sia nella vita privata, limiti e imperfezioni siano inevitabili e non debbano diventare pretesti per arrestare il cammino prefissato.

Considerando in retrospettiva il mio lungo percorso, quello di coetanei e colleghi, (…) credo di poter affermare che, nella ricerca scientifica, nè il grado d’intelligenza, nè la capacità di eseguire e portare a termine con esattezza il compito intrapreso, siano i fattori essenziali per la riuscita e la soddisfazione personale. Nell’una e nell’altra contano maggiormente la totale dedizione e il chiudere gli occhi davanti alle difficoltà: in tal modo possiamo affrontare problemi che altri, più critici e più acuti, non affronterebbero.”

 

I tratti di personalità narcisistici diminuiscono con l’avanzare dell’età

Una recente ricerca mostra come il narcisismo rimanga moderatamente stabile nel corso della vita. Tuttavia alcuni aspetti tipici del disturbo variano: sembra che tendano ad affievolirsi alcune caratteristiche maladattive, come l’ipersensibilità al fallimento e l’eccessiva autostima, e ad aumentare alcune caratteristiche adattive, come l’ambizione.

 

Il disturbo di personalità narcisistico è un disturbo della personalità del cluster B caratterizzato da idee di grandiosità, necessità di ammirazione e mancanza di empatia che inizia entro la prima età adulta, stando alla classificazione del DSM 5, l’individuo deve presentare cinque (o più) dei seguenti sintomi:

  • Senso di grandiosità eccessivo ed esagerato (ad esempio pensa che tutto gli sia dovuto e che dev’essere considerato superiore senza un’adeguata motivazione).
  • Eccessive fantasie di successo, potere e fascino.
  • Crede di essere ‘’speciale’’.
  • Richiesta di eccessiva ammirazione.
  • Irragionevole aspettativa di trattamenti speciali o di favore che a suo parere gli sono dovuti.
  • Sfruttamento dei rapporti interpersonali per il raggiungimento dei propri scopi.
  • Mancanza di empatia.
  • Invidia pervasiva verso gli altri, o credenza che tutti lo invidiano.
  • Comportamenti arroganti e presuntuosi (DSM 5, 2014).

Il narcisismo è considerato un costrutto multi-fattoriale, che comprende sia aspetti adattivi che aspetti maladattivi. Ad esempio, avere leadership e autorità sono considerate competenze che permettono il raggiungimento di obbiettivi, mentre aspetti come l’eccessiva sensibilità ai fallimenti, o le idee di grandiosità, sono caratteristiche giudicate come maladattive, dato che, portano l’individuo ad avere problemi di natura interpersonale e di autostima (Wink, 1992a, 1992b). Come tutti i disturbi di personalità non si può fare diagnosi prima dell’età adulta, dato che la personalità di un individuo intesa come tratti e comportamenti stabili e persistenti non è del tutto formata fino alla fine dell’adolescenza.

L’evoluzione dei tratti narcisistici nel corso dell’età dell’individuo è un tema poco trattato in letteratura. Una ricerca pubblicata nel 2019 su Psychology and Aging si è proposta di indagare come i tratti narcisistici cambiano nel corso della vita di una persona (Chopik & Grimm, 2019).

Per rispondere a questo quesito, sono stati reclutati 747 soggetti con disturbo di personalità narcisistico. Si tratta di uno studio longitudinale, i soggetti sono stati monitorati dall’età di 13 anni fino ai 77 anni. I risultati mostrano che il narcisismo rimane moderatamente stabile lungo il corso della vita; tuttavia alcune caratteristiche maladattive tipiche di questo disturbo tendono ad affievolirsi, come l’ipersensibilità al fallimento e l’eccessiva autostima, mentre altre caratteristiche considerate come adattive, tendono ad aumentare nel corso della vita come l’ambizione (Chopik & Grimm, 2019).

I ricercatori sottolineano l’importanza di ulteriori studi per comprendere il perché il narcisismo cambia nel corso della vita e quali sono i fattori che incidono su questo cambiamento. Il limite principale che viene sottolineato è lo sbilanciamento del campione per età e genere, oltre che la mancata comprensione del perché i tratti alcuni tratti disadattivi tendono a diventare meno intensi (Chopik & Grimm, 2019).

 

Natale e solidarietà: nel periodo natalizio siamo tutti più buoni? – Intervista al Prof. Francesco Ambrogetti

Si avvicina il Natale, le piazze si popolano di banchetti della solidarietà che ci invitano a donare. E’ vero che in questo periodo dell’anno “siamo tutti più buoni” ed aderiamo con maggior facilità alle cause sociali? Che cosa succede nel nostro cervello quando facciamo un’offerta?

 

Abbiamo intervistato Francesco Ambrogetti, che da oltre vent’anni si occupa di raccolta fondi per organizzazioni come Unicef, WWF e Croce Rossa; docente dal 2011 all’Università di Forlì, è stato responsabile di finanza innovativa presso il Fondo di sviluppo del capitale delle Nazioni Unite (UNCDF) e ha lavorato in Sudafrica, promuovendo campagne di sensibilizzazione in tema di AIDS, in Asia a sostegno della salute riproduttiva femminile.

Intervistatrice (I): Quanto c’è di autentico e, al contempo, di indotto nel gesto di donare o di aderire ad un’organizzazione umanitaria in questo particolare periodo dell’anno?


Francesco Ambrogetti (F.A.): Senza dubbio, i dati mostrano che in Italia, così come in altri Paesi, dicembre è il mese in cui si registra il più alto livello di donazioni; addirittura, per alcune organizzazioni, fino al 50-60% dell’intero ammontare raccolto in tutto l’anno. La donazione, infatti, viene attivata in risposta ad un complesso di emozioni – dunque a livello subconscio ed istintivo – e di valori nei quali crediamo e siamo stati educati. Per chi festeggia o è immerso nell’atmosfera del Natale, soprattutto in un Paese tradizionalmente cattolico come l’Italia, il dono può diventare una parte essenziale del proprio essere. Siamo, per così dire, predisposti emozionalmente ed educati valorialmente. Il problema sta nel fatto che esistano moltissime organizzazioni no-profit.
A Natale, allora, tendiamo a donare alle organizzazioni a cui abbiamo sempre donato, piuttosto che aderire a nuove cause sociali, a meno che queste ultime non abbiano notevole visibilità e producano un effetto chiaramente più forte dal punto di vista emozionale. E’ il caso dello tsunami in Asia del 26 dicembre 2004.

I: Cosa succede nel nostro cervello quando decidiamo di sostenere un’organizzazione? Donare aumenta la nostra autostima? Ci fa sentire più accettati socialmente?

F.A.: Il nostro cervello è complicatissimo e le neuroscienze hanno appena iniziato a capire cosa succede quando proviamo determinate emozioni o quando prendiamo decisioni, incluso il donare. Per chi è interessato ad approfondire l’argomento, rimando al mio libro Emotionraising. Neuroscienze applicate al fundraising (Maggioli Editori, 2013). Come detto, le donazioni sono attivate da un articolato meccanismo neurobiologico, in cui vengono coinvolte alcune aree del cervello che rilasciano neurotrasmettitori ed ormoni. In più, il processo psicologico ci “forza” ad agire e, una volta effettuata la donazione, ci sentiamo meglio, grazie al rilascio della dopamina, neurotrasmettitore che controlla i meccanismi del piacere, della ricompensa, dell’attenzione. Ci sono alcune teorie ed esperimenti sul cosiddetto “warm glow”, ossia sull’idea che donare migliori la nostra autostima e quella degli altri, come mettersi un paio di guanti quando fa freddo. Tuttavia, il vero driver sono, appunto, le emozioni e i valori: essi sono evolutivamente e culturalmente parte del nostro modo di essere (e del nostro cervello). Cosa succede dopo il dono e come noi ci giustifichiamo per averlo fatto, così come a seguito di un acquisto, interessa, invece, la parte razionale del nostro cervello – inclusa l’autostima – ma non rappresentano il motivo o la forza che ci fa agire.

I: Ci sono parole, immagini, colori, suoni che, secondo la Sua esperienza, funzionano meglio in una campagna sociale?

F. A.: La maggior parte del nostro cervello processa immagini, perciò, senz’altro, foto e video risultano molto più efficaci rispetto alle sole parole. Tuttavia – questo è un elemento importante – immagini, suoni e colori hanno un’efficacia solo e soltanto all’interno di una storia che raccontiamo, o di un caso che presentiamo. Sono le storie, attraverso le immagini, i suoni e i colori che catturano l’attenzione e, quando presentano un bisogno chiaro a cui rispondere e una call to action semplice ed evidente, motivano la gente ad agire.

I: La strategia comunicativa per una raccolta fondi cambia in base al destinatario? E’ più difficile emozionare un anglosassone rispetto ad un italiano? Ha riscontrato delle differenze tra uomini e donne?

F. A.: Secondo me, non è una questione di cultura. Ho lavorato e raccolto fondi in tante parti del mondo e, fondamentalmente, non cambia essere anglosassone o tailandese. Quello che cambia, però, è l’audience a cui ci rivolgiamo. Troppo spesso le organizzazioni pensano che un messaggio vada bene per chiunque. Non è così. Le emozioni ed il messaggio funzionano per audience specifiche, sia dal punto di vista della composizione socio-demografica, sia dal punto di vista dei valori. Sulla differenza tra uomini e donne è difficile generalizzare, ma in linea di principio i dati dimostrano che le donne siano più generose, più attive e più sensibili nel supportare una causa o un’organizzazione.

I: Ci sono emozioni o messaggi sui quali non dobbiamo fare leva quando si tratta di fundraising?

F. A.: Difficile anche qui generalizzare. Dipende, come detto, dall’audiuence, dalla causa e dalla campagna. I dati dimostrano, però, che le emozioni negative, come paura, rabbia, tristezza siano, per ragioni evolutive, molto più potenti nel catturare l’attenzione e nello stimolare comportamenti corretti. Naturalmente, non sono sufficienti se non vengono accostate in modo esplicito ad un obiettivo: la donazione che cosa contribuirà a risolvere? Ciò genera un’emozione positiva nel donatore.

I: I giovani sono più sensibili rispetto agli adulti su determinate tematiche? Pensiamo al fenomeno Greta Thunberg, che è stata in grado di mobilitare studenti di tutto il mondo. Qual è il segreto? Forse, ancora una volta, l’emozione?

F. A.: Non credo sia corretto utilizzare categorie come giovani (fino a che età?) o millennials (tutti coloro sotto i quarant’anni). C’è una grande differenza tra un quindicenne, un ventenne o un trentenne. E’ vero, però, che le nuove generazioni siano culturalmente molto più coinvolte da tematiche globali come il problema del cambiamento climatico. Detto ciò, i ragazzi sono anche più esigenti: vogliono capire quale possa essere, in concreto, il loro impatto, non si fidano delle organizzazioni e non hanno la disponibilità economica delle generazioni precedenti. Non credo ci sia un modello, ma la semplice richiesta di donazione non funziona con target più giovani.

I: Come è cambiato nell’ultimo decennio il Suo lavoro? E’ mutato il modo di fare comunicazione nel sociale?

F. A.: E’ cambiato tutto direi. Prima il fundraising era un lavoro a 360 gradi, che spaziava dalle sponsorizzazioni aziendali alle cartoline. Oggi è diventato super specializzato (se sei un digital fundraising non sei un major donor specialist) e più strategico.
La chiave non è più semplicemente la beneficienza, ma come fare innamorare dell’organizzazione e della missione i tuoi sostenitori. Un po’ come fanno le grandi marche e aziende che non vendono più soltanto un prodotto. Attualmente lavoro in UNICEF internazionale, dove mi occupo di supporter engagement. In precedenza, presso l’UNCDF (United Nations Capital Development Fund), ho creato e lanciato il primo prodotto di investimento (SDGA) nella Borsa di New York (NYSE, New York Stock Exchange), allineato con gli obiettivi del Millennio, “Sustainable development Goals”. In sostanza, un paniere di azioni di imprese che rispettano criteri di sostenibilità nei Paesi più poveri.

 

Di cosa parliamo quando parliamo di mindfulness

Ogni nuova tecnica, compresa la mindfulness, attraversa una serie di fasi: dopo la fase iniziale di innesco della novità segue la fase delle aspettative gonfiate, cui succede la disillusione. Dopodiché può avere inizio un approccio più costruttivo alla tecnica che fa approdare alla successiva fase di applicabilità e produttività del nuovo strumento.

 

Commento all’articolo Dove sono le prove dell’efficacia della Mindfulness? che riprende Mind The Hype: A Critical Evaluation and Prescriptive Agenda for Research on Mindfulness and Meditation (Van Dam N. T. et al. 2017), pubblicato su Perspectives on Psychological Science nell’ottobre 2017. Lo studio è citato su Le Scienze (edizione italiana di Scientific American), più conosciuta come Mente & Cervello.

Interessante notare come la stessa rivista nel gennaio 2013 pubblichi l’articolo I sentieri della meditazione: effetti benefici di una pratica millenaria sull’equilibrio del cervello e la salute del corpo.

Un team composto da 15 psicologi e ricercatori facenti capo dall’australiano Nicholas Van Dam afferma che i potenziali vantaggi della mindfulness sono messi in ombra dalle affermazioni iperboliche e dalle speculazioni economiche. Meditazione e allenamenti di mindfulness sono un’industria da 1,1 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti.

La dott.ssa Ruth Baer, professoressa di psicologia presso la Kentucky University ed associata all’Oxford Mindfulness Centre dell’Università di Oxford, che ho avuto il piacere di conoscere in occasione del Master in Clinical Mindfulness, spiega questo fenomeno con la teoria sul ciclo dell’iperbole (Hype Cycle): ogni nuova tecnica attraversa una serie di fasi che si intersecano a livello di due variabili, visibilità e maturità.

Dopo la fase iniziale del technology trigger (innesco per così dire della novità), la fase delle aspettative gonfiate (all’apice sull’asse della visibilità) fa assurgere la tecnica in questione allo status di rimedio universale.

Fatalmente, ad eccessive aspettative succede la disillusione, dopodiché può avere inizio un approccio più costruttivo alla tecnica (slope of enlightenment) che fa approdare, con il raggiungimento della maturità, alla successiva fase di applicabilità e produttività del nuovo strumento.

La Mindfulness non fa eccezione.

Il trigger sono le ricerche di Jon Kabat Zinn, che negli anni settanta dimostra l’efficacia delle tecniche di meditazione di tradizione buddhista nel trattamento dello stress e del dolore cronico presso l’Università del Massuchusetts, e la Dialectical Behavior  Therapy di Marsha Linehan, che dagli anni ’80 dimostra come mindfulness ed accettazione in sinergia con le strategie volte al cambiamento siano efficaci nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità.

Il crescente interesse sui risultati raggiunge il culmine: la copertina del Time del febbraio 2014 titola Mindfulness Revolution e si iniziano ad intuire i potenziali interessi enormi legati allo sfruttamento della popolarità delle tecniche di consapevolezza, la cui diffusione capillare coincide anche con la sua fase di massima indefinitezza.

E’ necessario attraversare una fase di disillusion per poter prendere contatto con quella che veramente è la potenzialità della mindfulness, attraverso una ricerca rigorosa e quantificabile dei risultati.

Le pubblicazioni scientifiche, una sessantina fino al  2000, nel solo anno 2016 sono 677.

E ci ricolleghiamo al tema dell’articolo, cioè l’indefinitezza delle ricerche.

E’ soprattutto la mancanza di una definizione comune di cosa esattamente si vada a misurare con la mindfulness a creare scetticismo nel gruppo di ricercatori di cui sopra (non sappiamo se questi ricercatori siano a loro volta meditatori esperti, presumo di no). Come hanno scritto Van Dam e colleghi: Non esiste una definizione tecnica universalmente accettata di mindfulness né un ampio accordo sugli aspetti più dettagliati del concetto a cui si riferisce.

Questa affermazione si spiega in parte col fatto che l’esperienza nella tradizione buddhista non è esattamente traducibile per il praticante occidentale.

Inoltre, vi sono diversi tipi di meditazione, ciascuno con proprie caratteristiche.

Le ricerche che andrò a citare riguardano la meditazione di consapevolezza o mindfulness, derivata dalla meditazione Vipassana, alla base delle applicazioni terapeutiche della meditazione a partire dagli anni ’70.

Le due abilità fondamentali che andiamo ad allenare con la mindfulness sono l’attenzione e la consapevolezza, in una maniera peculiare: con volontà, accettazione, gentilezza, non giudizio.

Tutte le definizioni di mindfulness fornite dai principali ricercatori sono sostanzialmente analoghe e riprendono le qualità originariamente contenute nel termine ‘sati’ (lingua indiana Pali utilizzata nella forma liturgica del buddhismo) che connota consapevolezza, attenzione e ricordo.

Westen: la Consapevolezza è il radar della coscienza. Essa monitora continuamente l’ambiente interno ed esterno dell’individuo, il quale può essere consapevole degli stimoli senza che essi siano al centro dell’attenzione. L’attenzione è un processo di focalizzazione della consapevolezza, nella quale viene fornita un’accresciuta sensibilità ad un range limitato di esperienze.

Kabat- Zinn: prestare attenzione, nel momento presente, in modo non giudicante.

Marlett e Kristeller: portare attenzione completa all’esperienza del momento presente con accettazione e gentilezza.

Bishop: autoregolazione dell’attenzione sull’esperienza immediata, con curiosità, apertura e accettazione.

Germer: consapevolezza dell’esperienza presente con accettazione, amichevolezza, non giudizio.

Linehan: focalizzare la mente nel momento presente senza giudizio e attaccamento (o avversione), con apertura e curiosità nei confronti della fluidità del momento.

Per riassumere cito Didonna (2010) che definisce la mindfulness uno stato di coscienza caratterizzato da attenzione consapevole, libera da valutazioni e focalizzata nel presente, verso l’esperienza interna ed esterna e priva di reazioni verso di essa, definizione che chiarisce come sia possibile osservare anche il contenuto della mente: nella psicologia buddhista, la mente è uno degli organi di senso.

Pertanto, il ricercatore (serio) occidentale conosce esattamente il COSA sta misurando, e cioè la capacità di osservare, prestare attenzione, essere consapevoli, e il COME: in modo non giudicante, con apertura, curiosità, accettazione.

Due parole per spiegare cosa si intende per non giudicante: è un approccio alla percezione esperienziale, non concettuale, evitando di mediare l’esperienza la percepiamo nella sua natura essenziale anziché secondo il giudizio che le attribuiamo. Per semplificare, per giudizio possiamo intendere le tre principali modalità di approccio all’esperienza elencate dalla psicologia buddista: l’attaccamento, l’evitamento, l’avversione.

Durante la meditazione, il facilitatore invita spesso i presenti ad osservare le eventuali distrazioni (pensieri, sensazioni corporee, emozioni) prendendo semplicemente atto della loro comparsa e lasciandole andare senza giudicarle e senza giudicare sé stessi per la distrazione, semplicemente tornando a focalizzare l’attenzione sul respiro (utilizzato come ancora al qui e ora, come semplice oggetto di concentrazione).

Nel prosequio del percorso, oltre alla focalizzazione dell’attenzione (meditazione concentrativa) si acquisisce la capacità di ampliare la propria consapevolezza degli stimoli esistenti, e di ridurre la propria reattività alle manifestazioni interne.

L’accettazione è la capacità di stare in contatto con l’esperienza disagevole, creando con essa il rapporto più utile per noi, evitando inutili sforzi per cambiare la sua frequenza o forma, soprattutto quando tale esperienza non è modificabile o quando fare questo incrementerebbe il disagio psicologico.

E’ un atteggiamento attivo, mentre la rassegnazione è passiva.

La mindfulness è uno strumento attentivo, non spirituale, anche per i buddhisti.

E’ vedere le cose nel modo in cui esse sono. La psicologia buddhista è affascinante e complicata, per cui non cercherò di approfondire perché non utile in questa sede.

Mi limito a ciò che interessa al ricercatore occidentale (il meditatore buddhista dice state cercando di dimostrare quello che noi sappiamo da 2.500 anni).

Ciò che il ricercatore è interessato a misurare è se le persone più mindful nel senso indicato dalle definizioni di cui sopra godono di maggiore salute.

Se sì, gli interessa scoprire se la capacità di mindfulness aumenta con l’allenamento, e in quale modo funziona tale allenamento.

Prima di parlare dei benefici della mindfulness, vorrei mettere in luce una importante condizione di base, e cioè che  l’osservazione del momento presente è utile solo se non giudicante: se la consapevolezza dei propri contenuti mentali è giudicante e reattiva si rischia di amplificare eventuali vissuti depressivi.

E’ pertanto molto importante la cura del training: durante le otto settimane standard di trattamento dei vari protocolli (MBSR e MBCT i più conosciuti) viene posta molta attenzione alla corretta esecuzione degli esercizi (per semplificare) e soprattutto alla condivisione in gruppo dei vissuti legati all’esperienza personale.

Non ci sono evidenze di effetti avversi peculiari agli interventi mindfulness based rispetto ad altri tipi di intervento, sebbene  vi siano dei parametri da rispettare nella scelta dei soggetti (stiamo parlando della popolazione clinica) da inserire nei protocolli.

La misurazione delle capacità viene effettuata soprattutto attraverso questionari di autovalutazione, integrati con un test comportamentale che corregga la tendenza a dare risposte non corrispondenti alla reale percezione.

I principali questionari di autovalutazione sono:

  • Mindful Attention Awareness Scale (MAAS)
  • Kentucky Inventory of Mindfulness Skills (KIMS)
  • Freiburg Mindfulness Inventory (FMI)
  • Five Facet Mindfulness Questionnaire (FFMQ), soprattutto nella sua versione abbreviata, che misura le sottoscale osservazione, descrizione, consapevolezza nell’agire, non-giudizio, non-reattività con 15 item invece dei 39 della versione estesa.

Molti degli studi su mindfulness e meditazione, contestano Van Dam e colleghi, sono mal progettati, indeboliti da definizioni incoerenti della mindfulness e spesso privi di un gruppo di controllo per escludere l’effetto placebo.

Una recente meta analisi (Khoury et al. 2013) valuta l’efficacia di 209 studi, per un totale di circa 12.000 partecipanti trattati con MBSR (riduzione dello stress basata sulla mindfulness), MBCT (trattamento delle ricadute depressive), MBRP (trattamento delle dipendenze basato sulla mindfulness), MBCP (trattamento mindfulness genitori e bambini).

Svariate le patologie oggetto delle ricerche: disturbi dell’umore, ansia, abuso di sostanze, psicosi, disturbi dell’attenzione, della personalità e altri; dolore fisico, cancro, obesità, artrite ecc.

Sono stati usati quattro gruppi di controllo: nessun trattamento, trattamento con terapie supportive o tecniche di rilassamento, trattamento con terapia cognitiva, trattamento farmacologico.

Le ricerche sono significative rispetto al gruppo di controllo che non è stato trattato, soprattutto per quanto concerne l’ansia e la depressione, modesta efficacia sul dolore; si rileva una modesta efficacia anche rispetto agli altri gruppi di controllo.

La meta-analisi quantifica le effect-size in small (risultati dell’ordine dello .20), medium (.50), large (.80).

Gli effetti positivi sono presenti al follow-up per diversi mesi.

Una seconda recente meta analisi (Goldberg et al., 2018), simile alla prima per quanto concerne la durata del trattamento (8 settimane) e la numerosità del campione, ma effettuata solo su depressione, ansia e dipendenze (non generico stress), presenta una comparazione con cinque gruppi di controllo: non trattati, trattamento breve, placebo, trattamento non specifico, trattamento evidence-based.

I trattamenti basati sulla mindfulness dimostrano un effetto large rispetto ai trattamenti ‘informali’ (soprattutto per quanto concerne i disturbi d’ansia), e un effetto small rispetto agli altri trattamenti evidence-based.

Si può quindi concordare con Van Dam e colleghi sui piccoli numeri, tuttavia l’interpretazione di tali risultati stabilisce che un trattamento basato sulla mindfulness ha (almeno) la stessa efficacia degli altri interventi, compreso il trattamento farmacologico. Ognuno tragga le proprie conclusioni.

Nello specifico, il protocollo MBSR si mostra efficace per la riduzione dello stress in popolazione non clinica (professionisti della salute mentale, studenti) e nella riduzione di stress e sintomi psicologici in pazienti affetti da malattie invalidanti tra cui cancro e dolore cronico.

Il protocollo MBCT ha effetti importanti sulla prevenzione delle ricadute depressive (pazienti che hanno avuto 3 o più episodi) , mostrando efficacia pari all’assunzione di farmaci antidepressivi. Ci sono ricerche anche in merito al limite di tale trattamento, cioè la sua applicabilità ai pazienti in fase di remissione: si sta testando la sua efficacia anche su persone nella fase attiva della patologia.

Una citazione a parte per quanto concerne gli studi basati su DBT (Dialectical Behavior Therapy) o ACT (Acceptance and committment therapy), non inclusi nelle meta-analisi citate.

Il protocollo DBT ha mostrato risultati importanti nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità, e promettenti appaiono le ricerche per quanto concerne i disturbi dell’alimentazione e da abuso di sostanze.

Il protocollo ACT mostra evidenze consistenti su un’ampia gamma di disturbi, in particolare sulle dipendenze.

Infine, una meta analisi del 2015 (Gu, Strauss, Bond & Cavanagh, 2015) compara le ricerche sui meccanismi che permettono di migliorare benessere e salute mentale attraverso la partecipazione ad un protocollo basato sulla mindfulness.

I risultati di tali ricerche evidenziano un aumento della salute psicologica e fisica attraverso l’incremento di capacità che riguardano l’aumento della consapevolezza, la riduzione della reattività cognitiva che si traduce in minore ruminazione depressiva, la minore reattività emozionale o capacità di recupero più veloce dopo uno stress, l’aumento della capacità di autocompassione, il mantenimento della propria capacità valutativa anche in situazione di stress.

Nel considerare i risultati finora esaminati, di per sé incoraggianti, si tenga presente che si riferiscono ad osservazioni della durata di otto settimane (salvo eccezioni).

L’efficacia della mindfulness è direttamente proporzionale alla pratica quotidiana a casa, e questa è difficilmente misurabile.

Sarebbe interessante poter avere un ipotetico database in cui le migliaia di persone che praticano regolarmente da anni la meditazione riportassero i loro risultati anche solo soggettivi.

Recentemente le tecniche di neuroimaging hanno iniziato ad avvalorare la tesi secondo cui il cervello dei meditatori esperti presenterebbe modifiche strutturali legate alla maggiore o minore attivazione di aree specifiche.

Obiettivo della ricerca neuroscientifica è comprendere i sistemi neuronali utilizzati per raggiungere gli stati meditativi e determinare gli effetti di una pratica regolare di mindfulness sull’attività e sulla struttura del cervello.

La meditazione è associata sia agli effetti di stato che di tratto, vale a dire che le modifiche non sono limitate allo stato meditativo, ma si stabilizzano con la pratica prolungata nel tempo (vale a dire otto settimane come minimo):

si ritiene che gli effetti di tratto siano la conseguenza di trasformazioni stabili e durature nell’attività e nella struttura del cervello. La comprensione degli effetti di stato chiarirà il motivo per cui la mindfulness possa essere utile in terapia per affrontare ricordi dolorosi o reazioni emotive improvvise, mentre la comprensione degli effetti a lungo termine aiuterà a comprendere il motivo per cui la mindfulness si rivela utile nel trattamento di condizioni croniche quali la depressione e l’ansia generalizzata (Treadway-Lazar, 2008).

La complessità stessa della meditazione rappresenta una sfida, perché afferisce a circuiti neuronali differenti che si alternano in un tempo molto limitato: si passa in pochi istanti dall’essere concentrati sul proprio respiro alla distrazione per un pensiero, allo sforzo per riportare l’attenzione dove era, al perdersi in un’immagine legata all’infanzia…

Vi sono pertanto risultati contraddittori nelle ricerche che a partire dagli anni ’60 utilizzano l’EEG per esaminare le modificazioni nell’attività cerebrale durante la meditazione: le differenze sono ascrivibili in buona parte al fatto che pratiche meditative diverse possono produrre pattern di attività cerebrale peculiare a seconda che siano incentrate sul rilassamento (aumento di attività theta e delta) oppure sulla concentrazione intensiva (alfa e beta).

Lo stesso accade per quanto riguarda gli studi di neuroimaging, anche se vi sono alcuni riscontri coerenti a tutti gli studi: durante la meditazione vi è attivazione della corteccia prefrontale dorso-laterale (associata all’attenzione e alla presa di decisioni esecutiva) con cambiamenti di tratto di maggiore ispessimento corticale (particolarmente visibile nei meditatori esperti); una maggiore attivazione della corteccia cingolata anteriore (integrazione di attenzione, motivazione, controllo motorio); attivazione dell’insula (enterocezione) con implicazioni interessanti sul ruolo che anomalie nella funzionalità insulare risultano avere in numerosi disturbi psichiatrici.

L’utilizzo di ricerche longitudinali potrà aggiungere informazioni interessanti sulle applicazioni cliniche della mindfulness, che viene già utilizzata nel trattamento di diverse patologie tra le quali anche quelle di area psichiatrica.

Ora, non so cosa ne pensiate, ma credo che la moltitudine di persone che pratica la meditazione (che, ricordiamo, esiste da oltre 2.500 anni anche se ancora non veniva chiamata mindfulness e non era soggetta a tentativi di standardizzazione) non sia particolarmente interessata a valutarne la portata scientifica: godono dei benefici, quali che essi siano, in termini di qualità della vita, e questo pare sufficiente.

Vorrei terminare con una citazione del Dalai Lama che, con la consueta ironia, concede agli scienziati occidentali (con cui ha un dialogo aperto) la facoltà di dimostrare scientificamente l’inefficacia della psicologia buddhista, nel tal caso smetteremo di insegnarla.

Quindi, che ne dite di spegnere il pc, e provare a sperimentare di persona?

Se volete ci sono le mie tracce audio sull’album Sediamo Assieme alla pagina facebook dedicata.

 

“We will build a Wall”: la leadership negativa

Nella sua definizione accademica e manageriale, la leadership è legata ad atteggiamenti comunicativi di apertura. Tuttavia, fra gli abbattimenti dei confini degli Stati, percepiti come conseguenza della globalizzazione, e l’ampliarsi della figura della Piazza sui social media, è riemersa una tipologia di leadership legata al rifiuto dell’empatia e della diplomazia. Questa leadership sta ottenendo consensi, avendo come esempi l’ascesa politica di Donald Trump e di Matteo Salvini. Ne segue una breve contestualizzazione del fenomeno.

 

La leadership è una delle tematiche più analizzate nella storia recente della psicologia e delle scienze umane, essendo questa una capacità ritenuta fondamentale per la società lavorativa (Pearce, Manz 2005), per il mondo accademico e scolastico (Bryman, 2007; Bogler, 2001) ed infine per la vita quotidiana (George, Sims, Mclean e Mayer,2007). Per sua definizione, la leadership è legata a atteggiamenti considerati positivi dal punto di vista interpersonale, come l’intelligenza emotiva (Goleman, 2000), l’importanza data ad una immagine sana e positiva, il creare un senso di comunità, il creare un ambiente aperto alla creatività e il creare un senso di identità propria e gruppale (Pearce, 2007). Tuttavia, con l’abbattimento delle barriere fisico-culturali percepite come conseguenza della globalizzazione e le innovazioni della comunicazione via social media, si è diffusa una nuova visione di leadership attuale, ovvero quella della “leadership negativa”.

Per leadership negativa si intende lo stile di leadership basata sulla negazione, sul rifiuto, sulla difesa delle proprie posizioni a priori e sulla critica (Chou, 2019). Sebbene questi elementi interpersonali siano considerati come atti che possono influenzare negativamente l’atto comunicazionale, attualmente il loro utilizzo come strumenti di leadership è recepito positivamente dal pubblico generale (Chou, 2019), poiché la negazione e la critica a priori crea un senso di sicurezza e un ritorno radicale al senso di identità, elementi che le comunità, soprattutto occidentali, sentono esser state minacciate gravemente (Galimberti, 2018): oltretutto, l’atteggiamento negativo rafforza il senso del “Noi vs Voi” gruppale identificato da Bion (1952), delineando così dei confini all’interno dei quali ci si possa sentire protetti.

Questa tipologia di leadership sta ricevendo consensi soprattutto nei paesi aventi una cultura di stampo patriarcale, poiché la leadership negativa impone una figura dominante basata sull’uso dell’aggressività, dell’attacco diretto, del rifiuto alla diplomazia e alla difesa ad oltranza del tradizionalismo: l’esempio più evidente è l’ascesa politica a pieno consenso generale di Trump (Riggio, 2018) negli Stati Uniti e di Salvini in Italia (Antonelli, 2019).

Un chiaro esempio di come questa leadership sia tornata popolare è la contestualizzazione del “cattivismo” (Fontana, 2018), ovvero l’utilizzo di elementi comunicativi volti principalmente a compiere azioni di denigrazione e offesa nei confronti di un certo target, violando le regole implicite culturali vigenti. Come detto prima nell’articolo, l’attuazione di questo tipo di leadership sta ricevendo dei responsi positivi, poiché essa è la tipologia di leadership legata alla visione politica del populismo (Polito, 2018), ovvero la visione più influente nel panorama politico-culturale attuale (Lewis, 2019).

Attualmente la leadership negativa è soggetto di interesse accademico e manageriale (Davenport, 2007), soprattutto per il ruolo che essa ha nel far percepire il mondo dai frequentatori della rete e dei social media (Robecchi, 2015). Principalmente, questo fenomeno è in fase di contestualizzazione  per prevenire le conseguenze negative che sono emerse (Pennstate, 2018), come lo sciacallaggio in rete nei confronti delle minoranze (Davidson, Warmsley, Macy e Weber, 2012) .

 

Il dolore nella Sclerosi Multipla: eterogeneità clinica e nuove prospettive di trattamento con tecniche di neurostimolazione non invasiva

La sclerosi multipla (SM) è una malattia neurologica ad esordio prevalente in età giovane-adulta (20-40 anni), che coinvolge il sistema nervoso centrale (SNC) mediante un meccanismo autoimmune che ha come bersaglio la mielina. Il dolore rappresenta un sintomo frequente ed eterogeneo in tale patologia, ma spesso trascurato e non adeguatamente trattato; risulta, inoltre, particolarmente invalidante, influendo negativamente sulla qualità della vita e sul tono dell’umore.

Eliana Berra – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

La prevalenza complessiva della sintomatologia dolorosa nei pazienti con sclerosi multipla è variabile ed è stata riportata, in differenti studi, dal 33,8% al 86%. Tale sintomo risulta più frequentemente associato all’età avanzata, ad una lunga durata e/o una maggiore gravità della malattia. In tale patologia, il dolore presenta una marcata eterogeneità clinica e viene classicamente distinto in tre grandi categorie: dolore neuropatico, dolore nocicettivo e misto.

Il dolore neuropatico centrale, correlato a lesioni che colpiscono la mielina (lesioni demielinizzanti) in aree del sistema nervoso centrale implicate nella percezione ed elaborazione di stimoli sensitivi tattili e/o dolorosi, è la forma più caratteristicamente associata a tale patologia e, a sua volta, si suddivide in tre forme principali: l’ongoing neuropathic pain, la nevralgia del trigemino e il segno di Lhermitte.

L’ongoing neuropathic pain, detto anche ongoing extremity pain, è un dolore subcontinuo più frequentemente localizzato a carico degli arti inferiori, descritto spesso come bruciore, come fastidioso formicolio o come un insieme di “punture di spillo”. La prevalenza varia dal 12 al 28% ed è correlato a lesioni lungo le vie spino-talamo-corticali, che veicolano le informazioni relative a stimoli dolorosi, con conseguente alterazione nei meccanismi di regolazione della percezione del dolore (nocicezione).

La nevralgia trigeminale ha una prevalenza del 2-5% nei pazienti con SM e si caratterizza per attacchi di dolore intenso (paragonato ad una “scossa” elettrica), ma di breve durata (secondi), a carico del volto, nei territori di pertinenza della I, II o III branca del n. trigemino. La patogenesi di tali attacchi,  spontanei o evocati da minime stimolazioni tattili del viso o del cavo orale, sono frequentemente riferibili a lesioni demielinizzanti a livello dei nuclei del n. trigemino del tronco encefalico.

Il segno di Lhermitte, presente nel 12% dei pazienti con SM, è una sensazione transitoria e di breve durata descritta come “scossa elettrica” o “fastidio” che si irradia tipicamente lungo il collo e la schiena, ma che talora può interessare anche gli arti;  è  spesso evocato da movimenti specifici, come la flesso-estensione o latero-flessione del collo. Tale fenomeno si correla con lesioni demielinizzanti del midollo spinale, spesso con coinvolgimento di sedi specifiche, come le colonne dorsali.

A cavallo tra il dolore di tipo neuropatico e nocicettivo, vi è il dolore definito “misto”: in tale categoria rientrano gli spasmi tonici dolorosi e il dolore correlato a spasticità.

I primi, che arrivano a interessare l’11% dei pazienti, sono abbastanza specifici nella SM; consistono in spasmi muscolari dolorosi mono o bilaterali, di durata inferiore ai 2 minuti, che si presentano con frequenza pluriquotidiana, più frequentemente agli arti.

Il dolore correlato a spasticità è molto diffuso e può interessare sino al 50% dei soggetti. Al contrario degli spasmi tonici dolorosi, di breve durata, esso è meno intenso ma subcontinuo. Entrambi i tipi di dolore sono imputabili ad una compromissione delle vie corticospinali da lesioni cerebrali (capsula interna, dei peduncoli cerebrali) o del midollo spinale, con conseguente ipereccitabilità motoria e aumento del tono muscolare.

Il dolore nocicettivo non è specifico della patologia e spesso si associa a problematiche legate alla gravità di malattia e alla disabilità, che comportano una ridotta mobilità e il mantenimento di posture viziate per periodi prolungati. In tale categoria rientrano infatti i dolori muscolo-scheletrici indotti da anomalie posturali e il mal di schiena (“Back pain”). Rientrano in tale classificazione anche il dolore associato a neurite ottica (8%), caratterizzato da una sensazione di fastidio o “peso” in sede retrorbitaria secondario all’infiammazione del nervo ottico, e i dolori secondari ai trattamenti farmacologici specifici per tale patologia.

Inoltre, nei soggetti affetti da SM, è stato dimostrato che le cefalee primarie, in particolare l’emicrania, si manifestano con una prevalenza maggiore rispetto a quella della popolazione generale, arrivando a colpire il 30-40% dei soggetti (Truini A. et al. 2013; Solaro C. et al. 2018).

A fronte di tale eterogeneità di dolore, che nel singolo paziente può manifestarsi anche in più forme tra loro associate, la diagnosi riveste un ruolo centrale al fine della scelta del trattamento ottimale. Negli ultimi anni, la ricerca clinica ha messo a punto diversi strumenti di screening per distinguere il dolore neuropatico, nocicettivo e misto. Il Douleur Neuropathique Questionnaire 4 (DN4) utilizza sia domande rivolte al paziente che valutazioni fisiche del dolore e dei disturbi sensitivi, raggiungendo una maggiore sensibilità e specificità rispetto allo screening che si basa solo sull’intervista al paziente. Il Neuropathic Pain Symptom Inventory (NPSI) risulta particolarmente utile per differenziare le caratteristiche del dolore neuropatico e comprende 12 item, di cui 10 item dedicati a indagare la qualità della sintomatologia dolorosa e 2 item volti a studiarne la durata (Solaro C. et al. 2018).

Nella Sclerosi Multipla, il trattamento del dolore, e in particolar modo del dolore neuropatico, rappresenta una sfida terapeutica, in quanto le terapie farmacologiche attualmente proposte sono molteplici, ma nella maggior parte dei casi non sufficienti per ottenere una remissione completa della sintomatologia. Come evidenziato dalla Consensus Conference Italiana sul dolore neuropatico, il trattamento farmacologico si avvale di principi attivi appartenenti a svariate classi farmacologiche, tra cui gli antiepilettici (gabapentin, pregabalin, levetiracetam, lamotrigina, carbamazepina), gli antidepressivi (duloxetina), i cannabinoidi, gli oppioidi; nelle forme miste associate a spasticità o spasmi tonici dolorosi, hanno indicazione i cannabinoidi e i miorilassanti (baclofen, dantrolene, diazepam, tizanidina) (Paolucci S. et al. 2016).

Dati incoraggianti in merito a nuove opzioni terapeutiche emergono da studi su metodiche di neurostimolazione non invasiva, come la Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS) e la Stimolazione a Corrente Continua Transcranica (t-DCS) e Spinale (s-DCS). Sfruttando rispettivamente i campi magnetici (TMS) ed elettrici (DCS), tali metodiche permettono di modulare l’eccitabilità del sistema nervoso centrale in modo sicuro, non invasivo e ben tollerato. Nella TMS, uno stimolatore (coil) viene appoggiato al cuoio capelluto del soggetto e genera un campo elettrico che, convertito in campo magnetico, è in grado di stimolare o inibire l’attività delle aree corticali sottostanti a seconda della frequenza di stimolazione. Una stimolazione a bassa frequenza (minore di 1 Hz) va a ridurre l’eccitabilità corticale, una stimolazione a frequenza maggiore (maggiore o uguale a 5 Hz) è in grado di incrementarla. La TMS, la cui efficacia terapeutica è stata dimostrata per il trattamento di molteplici patologie psichiatriche e neurologiche, come la depressione, l’ictus ischemico, la Malattia di Parkinson, è tuttavia una metodica costosa e necessita di un apparecchio di notevoli dimensioni, che la rende adatta ad applicazioni in ambito ospedaliero.

La DCS è, al contrario, una metodica poco costosa e viene erogata mediante un apparecchio portatile di piccole dimensioni, che consentirebbe un uso anche in ambito ambulatoriale e domiciliare. Applicando un elettrodo sulla cute del capo (per la stimolazione transcranica) o del dorso (per la stimolazione spinale), è possibile erogare una stimolazione elettrica indolore, il cui effetto sul sistema nervoso dipende dalla polarità dell’elettrodo (anodo o catodo) utilizzato. La stimolazione anodica incrementa l’eccitabilità nervosa sottostante (stimolazione eccitatoria), quella catodica la riduce (stimolazione inibitoria). Come per la TMS, è stato documentato che la t-DCS ha un impatto su una gamma di funzioni motorie, somatosensoriali, visive, affettive e cognitive ed ha dimostrato un potenziale terapeutico in molteplici patologie neurologiche e psichiatriche.

Nel trattamento del dolore, evidenze positive sono ormai ampiamente documentate con entrambe le metodiche nell’ambito di patologie come la fibromialgia e le cefalee primarie (emicrania e la cefalea cronica quotidiana). E’ stato inoltre riportato che tali trattamenti, applicati a livello delle aree della corteccia somatosensoriale o motoria, sono in grado di diminuire la sensazione di dolore riferita dal paziente e aumentare la soglia del dolore misurata con valutazioni cliniche e strumentali, sia in soggetti sani che in soggetti affetti da sintomatologia dolorosa. Si ipotizza che tale effetto sia imputabile ad una modulazione della nocicezione mediante il coinvolgimento di interi circuiti che presiedono al controllo del dolore e che comprendono aree cerebrali, come il talamo, situate in sede ben più profonda rispetto al sito di stimolazione.

Per quanto concerne specificatamente il dolore neuropatico, diverse evidenze hanno dimostrato l’efficacia, anche se transitoria, della TMS e della t-DCS applicate a livello della corteccia motoria primaria. A seguito di tali studi, l’impiego della t-DCS è stato raccomandato (evidenza di livello C) nel dolore neuropatico cronico degli arti inferiori secondario a lesioni del midollo spinale (Palm U. et al. 2014).

Evidenze sulla possibile efficacia di tali opzioni terapeutiche sono emerse anche per il dolore Sclerosi Multipla, e in particolare per il dolore neuropatico.

Studi caso-controllo hanno riportato che il trattamento con t-DCS anodica, applicata in corrispondenza dell’area motoria primaria controlaterale al lato affetto dalla sintomatologia dolorosa, mediante sedute della durata di 20 minuti ripetute per 5 giorni consecutivi, ha comportato un miglioramento significativo dei punteggi alle scale di valutazione del dolore neuropatico, con un beneficio clinico persistente ad un mese dal termine del trattamento. E’ descritto inoltre che l’applicazione sulla corteccia somatosensoriale primaria dei pazienti con SM  è in grado di migliorare i disturbi di tipo sensitivo a livello controlaterale (Mori F. et al. 2010).

Interessanti evidenze sul trattamento del dolore neuropatico in SM sono emerse dall’utilizzo della DCS spinale, in cui la stimolazione anodica viene effettuata applicando l’elettrodo sulla cute del dorso a livello della decima vertebra toracica. Pregresse evidenze scientifiche avevano dimostrato che la stimolazione a tale livello era in grado di inibire specifiche risposte riflesse al dolore, misurabili con metodiche neurofisiologiche, come il riflesso nocicettivo di flessione e la sommazione temporale, sia in soggetti sani che in pazienti affetti da sintomatologia dolorosa, come le cefalee (Perrotta A. et al. 2016; Cogiamanian F. et al. 2011).

Un recente studio ha evidenziato come sessioni di s-DCS della durata di 20 minuti, ripetute per 10 giorni, abbiano comportato un significativo e prolungato beneficio sul dolore neuropatico in pazienti affetti da SM. Si ipotizza che l’effetto della DCS spinale si estrinsechi mediante la modulazione  di specifici neuroni sensoriali spinali, detti wide dynamic range (WDR). Tali neuroni sono in grado di variare plasticamente la loro eccitabilità in modo graduale, in funzione della frequenza e dell’intensità della stimolazione, in un fenomeno noto come wind-up; questa proprietà consente il passaggio dall’elaborazione sensitiva da tattile a dolorosa ed è considerata fondamentale per l’analisi discriminativa della sensazione di dolore e nella genesi e mantenimento del dolore cronico. Inoltre, l’eccitabilità dei neuroni WDR è strettamente associata all’attività dei recettori NMDA, che sono parimenti considerati coinvolti nella patogenesi del dolore neuropatico nella SM (Berra E. et al. 2019).

In conclusione, benchè gli studi sulle tecniche non invasive nel trattamento del dolore nella Sclerosi Multipla siano ancora poco numerosi e condotti su campioni di pazienti relativamente ridotti, essi suggeriscono come tali metodiche, non invasive, ben tollerate e, nel caso della DCS, a basso costo e potenzialmente auto-somministrabili, possano avere un ruolo promettente per il trattamento del dolore neuropatico, in particolare come terapia aggiuntiva nei casi di dolore farmaco-resistente o in pazienti che presentano scarsa tolleranza al trattamento farmacologico.

 

Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e disturbo borderline di personalità (BPD) negli adulti: una review sui loro collegamenti e rischi

I sintomi dell’ADHD nell’età adulta differiscono dalla sintomatologia presente nell’infanzia (presenza maggiore di sintomi internalizzanti piuttosto che esternalizzanti), senza però diminuire il loro impatto sul funzionamento quotidiano. Essi si associano ad un elevato numero di comorbilità psichiatriche, tra cui il disturbo borderline di personalità.

 

Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD) è caratterizzato principalmente da tre gruppi di sintomi: disattenzione, iperattività e impulsività. La frequenza del disturbo è in aumento in bambini e adolescenti; inoltre, la statistica dimostra che almeno il 50% dei bambini con ADHD soddisfa i criteri per questa diagnosi anche nell’età adulta.

I sintomi dell’ADHD nell’età adulta differiscono dalla sintomatologia presente nell’infanzia (si verifica una presenza maggiore di sintomi internalizzanti piuttosto che esternalizzanti), tuttavia interferiscono notevolmente con il funzionamento quotidiano e sono associati ad un elevato numero di comorbilità psichiatriche. Tra queste, il disturbo borderline di personalità (BPD). Le manifestazioni principali di questo disturbo riguardano una pervasiva instabilità nella regolazione degli affetti, controllo degli impulsi, e immagine di sé. La letteratura conferma l’esistenza di un’associazione significativa tra diagnosi di BPD negli adulti e sintomi di ADHD nell’infanzia, suggerendo quindi che l’ADHD potrebbe rappresentare un fattore di rischio evolutivo per il BPD. Alcune tra le principali caratteristiche comuni ad entrambi i disturbi sono l’impulsività, la disregolazione delle emozioni e la compromissione della sfera interpersonale e relazionale; per questo motivo la diagnosi differenziale risulta spesso complicata.

L’attuale studio presenta una revisione dei dati disponibili riguardanti:

  • la prevalenza della co-insorgenza di ADHD e BPD negli adulti,
  • le somiglianze cliniche e le differenze tra i due gruppi,
  • la loro eziologia e i fattori di rischio coinvolti,
  • i percorsi di sviluppo che potenzialmente collegano i due disturbi.

L’obiettivo principale è, quindi, ottenere una miglior comprensione dei collegamenti tra i due disturbi e, di conseguenza, individuare opzioni di trattamento per gli adulti che presentano entrambe le diagnosi, ma anche progettare interventi precoci per prevenire lo sviluppo della BPD nei bambini e negli adolescenti con sintomi di ADHD.

In relazione al primo obiettivo, fornire dati sulla co-insorgenza di ADHD e BPD negli adulti, sono stati effettuati numerosi studi in letteratura che hanno confermato come una percentuale significativa di soggetti mostri un’elevata correlazione tra questi due disturbi. Un problema critico è, però, la sovrapposizione sintomatica riguardo ad alcune dimensioni chiave, che rende complicata la diagnosi differenziale e la comprensione della frequente ricorrenza tra essi. Nello specifico, queste dimensioni su cui gli autori si sono concentrati sono l’impulsività e la disregolazione emotiva, ma anche la bassa autostima e le relazioni interpersonali disturbate.

Per quanto riguarda l’impulsività, è stata identificata come la dimensione che ha la maggior sovrapposizione tra ADHD e BPD e anche come il tratto che mostra una maggior compromissione nei pazienti. Da un punto di vista neuropsicologico, i dati di neuroimaging funzionale mostrano una disfunzione frontale del controllo inibitorio (coerentemente con gli studi comportamentali); nello specifico i pazienti con BPD presentano disfunzioni prefrontali nelle regioni orbitofrontali, dorsomediali e dorsolaterali quando svolgono compiti di controllo degli impulsi, mentre gli adulti con l’ADHD mostrano un’attività disturbata principalmente nelle regioni prefrontali ventrolaterali e mediali. Pertanto, i dati comparativi sull’impulsività indicano due direzioni: in primo luogo, potrebbe esserci un sottogruppo di individui con BPD con alti livelli di impulsività di tratto e questi individui sembrano corrispondere alla tipologia BPD+ADHD; in secondo luogo, a differenza dell’ADHD, l’impulsività della BPD potrebbe essere intrinsecamente correlata alla disregolazione emotiva; ovvero, in condizioni altamente stressanti, gli individui con BPD mostrano comportamenti impulsivi più pronunciati, mentre in ADHD i comportamenti impulsivi sembrano essere meno dipendenti dallo stress.

Per quanto riguarda la disregolazione emotiva, invece, è stato riscontrato da ricerche recenti che i pazienti con BPD sperimentano una durata più lunga di tensione avversa e un ritorno più lento al loro stato affettivo di base. Nell’ADHD, la disregolazione delle emozioni è stata sottovalutata fino a poco tempo fa, sebbene si tratti di un sintomo associato ad un funzionamento interpersonale significativamente compromesso. La ricerca ha dimostrato che la disregolazione emotiva nell’ADHD è simile a quella riscontrata nel BPD, inclusa una maggiore instabilità e intensità delle emozioni e un lento ritorno alla base emotiva; tuttavia, pochi studi hanno confrontato direttamente la disregolazione emotiva in ADHD, BPD e BPD+ADHD. Nel complesso, questi studi sottolineano che la disregolazione delle emozioni è chiaramente sovrarappresentata nell’ADHD rispetto ai controlli sani ed è stato sostenuto che questa potrebbe essere una caratteristica chiave del disturbo. Le basi neuropsicologiche dei deficit di regolazione delle emozioni nell’ADHD e nella BPD sono ancora per lo più sconosciute. Nell’ADHD, ci sono due ipotesi principali: l’ipotesi del discontrollo, secondo cui la disregolazione delle emozioni è guidata dagli stessi processi cognitivi e neurali che guidano l’ADHD nei deficit di controllo esecutivo; e l’ipotesi di affettività, che afferma che la disregolazione emotiva è correlata in modo specifico ai processi neurali di regolazione emotiva, separati da quelli che portano a sintomi di ADHD. Ad oggi, l’evidenza accumulata in letteratura sta sostenendo maggiormente l’ipotesi dell’affettività. Per quanto riguarda la BPD, una revisione critica degli studi di fMRI, ha concluso che la disregolazione emotiva era associata all’aumentata attività dell’amigdala e alla diminuzione dell’attività all’interno delle regioni prefrontali, suggerendo una rete inibitoria fronto-limbica compromessa.

I problemi interpersonali si trovano spesso in entrambi i disturbi e sono correlati alla riduzione della qualità della vita e dell’autostima. Nella BPD, le difficoltà interpersonali sono un sintomo centrale del disturbo, definito da relazioni instabili ed intense con un’alternanza tra idealizzazione e svalutazione, nonché elevata sensibilità interpersonale e sforzi per evitare l’abbandono. Un elevato numero di studi ha dimostrato che le difficoltà interpersonali nella BPD sono correlate sia alla disregolazione delle emozioni che all’impulsività, ma in termini di mentalizzazione, ossia la capacità di comprendere le intenzioni e gli stati mentali propri e altrui. Di conseguenza, dunque, questi risultati hanno suggerito che la disregolazione emotiva, l’impulsività e la mentalizzazione potrebbero compromettere il funzionamento interpersonale nella BPD.

Nell’ADHD, invece, i problemi interpersonali sono stati concettualizzati come consecutivi alla triade dei sintomi fondamentali, ossia disattenzione, impulsività e iperattività. Studi sulla mentalizzazione e l’empatia in soggetti ADHD+BPD, hanno dimostrato punteggi significativamente bassi e una gravità maggiore dei sintomi, ipotizzando, quindi, che la presenza di mentalizzazione, empatia e regolazione emotiva prima dello sviluppo possano impedire la persistenza di ADHD nell’adulto e l’emergenza di comorbilità con i disturbi di personalità.

Tra i fattori di rischio coinvolti e l’eziologia dei disturbi, gli autori hanno enfatizzato il ruolo svolto da un ambiente infantile invalidante, caratterizzato nello specifico da: abuso sessuale, fisico ed emotivo, intolleranza verso l’espressione di esperienze emotive e l’esposizione precoce alle avversità. Inoltre, la maggior parte degli studi supportano l’interazione e la correlazione gene-ambiente nello sviluppo di BPD e ADHD, con tassi di ereditarietà diversi per ciascun disturbo: le stime di ereditarietà nell’ADHD sono comprese tra il 70 e l’80% (i fattori genetici, quindi, svolgono un ruolo centrale nell’eziologia dell’ADHD); mentre la letteratura della BPD rimane relativamente sottosviluppata in questo campo (indicativamente le stime di ereditarietà si aggirano introno al 30-40%).

Tra le teorie della patogenesi del BPD più riconosciute in letteratura vi è quella proposta da Linehan, secondo cui la BPD deriva dalle interazioni tra fattori biologici e psicosociali, in particolare fra temperamento ed esperienze avverse e traumatiche durante l’infanzia. L’età di insorgenza della BPD è un argomento controverso, ma la maggior parte della ricerca ora ritiene che la diagnosi di BPD possa essere stabilita nell’adolescenza, e sintomi dall’età di 12 anni predicono il funzionamento psicosociale durante la transizione all’età adulta. Dal punto di vista della durata della vita, vi sono evidenze che sostengono una diminuzione della sintomatologia di BPD con l’età. L’insorgenza dell’ADHD, invece, è più precoce; recentemente, tuttavia, le basi del neurosviluppo del disturbo sono state messe in discussione, in quanto alcune evidenze sostengono che l’ADHD ad insorgenza adulta sia un’entità clinica distinta e le vie di sviluppo coinvolte nell’ADHD ad esordio precoce e tardivo differiscono, pur condividendo gli stessi meccanismi neurali generali e ambientali, a causa della pressione ambientale o dei fattori preventivi.

I due disturbi condividono diversi tratti temperamentali, tra cui la ricerca di novità e l’evitamento del danno. Inoltre, recenti studi hanno evidenziato una significativa comorbilità di entrambi i disturbi con la diagnosi di disturbo bipolare, caratterizzato principalmente da instabilità affettiva.

In conclusione, sono state ipotizzate quattro possibili spiegazioni sul perché i due disturbi si verificano frequentemente:

  • l’ADHD può essere un precursore dello sviluppo della BPD;
  • BPD e ADHD possono corrispondere sia ad espressioni diverse dello stesso disturbo piuttosto che a due entità cliniche distinte;
  • ADHD e BPD possono essere distinti disturbi che condividono comuni fattori di rischio eziologico;
  • la presenza di un disturbo può aumentare il rischio di sviluppare l’altro.

Per quanto riguarda le possibilità di trattamento, gli interventi preventivi dovrebbero riguardare le dimensioni del tratto, nonché i fattori di rischio ambientale condivisi da ADHD e BPD durante l’infanzia, al fine di migliorare i risultati delle persone a rischio.

 

Hard skills e soft skills nel CV: significato, differenze e come inserirle nel curriculum

Quando si crea un curriculum, il primo aspetto su cui si focalizza l’attenzione sono ovviamente le competenze che il candidato andrà ad esporre nel documento. Le competenze infatti rappresentano il cardine di un CV, dato che i datori di lavoro andranno alla ricerca della coincidenza tra competenze ricercate e richieste.

Negli ultimi anni si è sentito parlare sempre di più di soft skills, ma è lecito pensare anche al termine opposto, ovverosia hard skills. Ebbene, non si tratta di un’espressione di fantasia, ma viene utilizzata per davvero nei curriculum. Vediamo la differenza tra le due tipologie, e come inserirle all’interno del proprio CV.

Soft skills: le competenze “non tangibili”

Le soft skills, come suggerisce il titolo del paragrafo, sono le competenze non tangibili. E’ un’espressione un po’ infelice, a dir la verità: si tratta comunque di competenze che hanno un riscontro più che importante nel lavoro, ma non trovano un riconoscimento concreto.

Ciò che è rilevante in una soft skill è l’intelligenza emozionale, dunque tutto l’ampio ventaglio di abilità strettamente collegate al pathos di una persona: capacità di lavorare in gruppo, senso di empatia e integrità morale, capacità di ascolto, spirito di motivazione, resistenza a situazioni di conflitti lavorativi, sensibilità comunicativa verso un interlocutore, creatività e quant’altro. Come è facile capire, queste abilità non sono riconosciute da qualche attestato, ma provengono dal profondo del candidato e aiutano il datore di lavoro a comprendere meglio il suo atteggiamento.

Hard skills: gli “attrezzi del mestiere”

Naturalmente le hard skills rappresentano il rovescio della medaglia: si tratta di tutte quelle competenze “concrete”, che possono avere un riscontro reale e che possono quindi essere misurate e quantificate entro certi limiti.

Tra le hard skills, citiamo ad esempio il livello di conoscenza di una lingua. Le hard skills sono competenze valutabili nell’immediato: a differenza delle soft skills, valutabili soltanto sul lungo periodo (in quanto l’attitudine dipende anche dal contesto), le hard skills danno immediatamente un’immagine chiara del bagaglio lavorativo e culturale del candidato.

Oltre alle lingue, altre “hard skill” sono sicuramente quelle relative all’utilizzo di un determinato software, macchinario o tecnologia specifica atta allo svolgimento di una mansione, manuale o non manuale. Inoltre, se ha partecipato a cicli formativi di settore, in cui hai appreso conoscenze tecniche; allora è proprio il caso di farne menzione.

Hard skills e soft skills: alcuni consigli per la scrittura

Sia le hard skills, sia le soft skills richiedono alcuni particolari dettagli da seguire per la scrittura, tra i quali:

1.     L’ortografia. Un’ortografia curata e priva di errori non è solo apprezzabile a livello visivo, ma sottolinea anche un’attitudine precisa e minuziosa del candidato.

2.     Il lessico. Anche la scelta di un lessico appropriato denota caratteristiche importanti del candidato, riconducibili tanto alle soft skills quanto alle hard skills. In riferimento alle prime, il lessico è importante perché indica sicurezza in sé (con l’utilizzo di termini tecnici approfonditi); in riferimento alle seconde, perché danno dimostrazione di conoscere davvero il lavoro che si è svolto, e di essere quindi pronti culturalmente e lavorativamente alla prossima posizione.

3.     Il layout: Utilizza una struttura testuale che permetta al lettore di individuare facilmente le core skills, ovvero le abilità più importanti per il la posizione per la quale ti stai candidando. L’uso di elenchi puntanti, con morigeratezza, potrebbe essere d’aiuto.

4.     La chiarezza: Consiglio utile soprattutto per le hard skills che molto spesso hanno caratteristiche e terminologie molto tecniche. Fai in modo che le tue skills vengano enunciate in maniera corretta senza cadere troppo in tecnicismi che potrebbero distorcere l’efficacia della tua spiegazione agli occhi di un recruiter che non sempre è chiamato a conoscere tutti gli aspetti tecnici di una mansione, soprattutto se si sta occupando della prima fase di recruiting.

5.     La sintesi. Il miglior modo per presentare sia le hard skills, sia le soft skills è la sintesi. In media un datore di lavoro non dedicherà più di un minuto alla lettura, dunque è bene esporre in primo piano e sinteticamente le proprie competenze.

LinkedIn: un importante strumento di rilevazione delle tue skills

Un ultimo aspetto su cui bisogna prestare particolare attenzione è la cura dei propri social network, sia nel caso in cui vogliate inserirli nel CV, sia nel caso contrario.

Nel primo caso infatti i datori di lavoro dedicheranno senz’altro qualche minuto alla consulta dei profili sui vostri social: da qui, infatti, emergono importanti dettagli sulla vostra personalità e sulla vostra potenziale condotta in azienda. Avere social curati, privi di commenti inopportuni o di contenuti sgradevoli aiuta a crearsi un’immagine positiva (meglio ancora se il candidato, tramite i propri profili, dimostrerà interesse verso il settore lavorativo di appartenenza).

In quest’ottica, LinkedIn può essere la chiave di volta. Tramite questa piattaforma dedicata ai profili lavorativi, infatti, ciascun utetente, può aggiungere delle skills che lo rappresentano e fare in modo che gli utenti che fanno parte della sua audience, possano confermarle.

La conferma delle skills da parte di terzi soggetti, affermerebbe la validità delle tue abilità grazie al parere di persone con cui hai lavorato o collaborato.

I recruiter potrebbero tenere in conto quest’aspetto.

La capacità di mentalizzazione come possibile fattore di resilienza per un miglior utilizzo di social e videogames

La mentalizzazione è ciò che permette di sperimentare sé stessi, gli altri e il mondo come sufficientemente prevedibili, gestibili e modificabili e di sentire, dunque, di appartenere a un tutto abbastanza coerente e non estraneo.

 

Il 57% della popolazione italiana di età compresa tra i 16 e i 64 anni, corrispondente a circa 17 milioni di persone, ha giocato ai videogiochi negli ultimi 12 mesi.

Il 57% della popolazione mondiale e il 92% di quella italiana è collegata a internet; youtube e whatsapp risultano le piattaforme social più attive.

Videogiochi e social hanno rivoluzionato la quotidianità e sono entrati a far parte integrante del tempo libero (e non) modificando modalità di comunicazione, relazione e cognizione; le nuove tecnologie e internet hanno permesso all’uomo di aprirsi confini inediti di interazione, apprendimento, immaginazione e sperimentazione di sé prima impensabili che hanno praticamente stravolto le concezioni di tempo e spazio così com’erano concepite prima di allora: oggi è possibile raggiungere in brevissimo tempo (quasi istantaneamente) persone a migliaia di km di distanza. Nonostante queste tecnologie abbiano reso possibile il vasto incremento e la diffusione delle conoscenze, ciò che ancora non risulta possibile è sapere, con precisione scientifica, quale sarà la forma e le caratteristiche precise di questi nuovi territori scoperti, creati o ampliati proprio dalla new technology.

Oggi molti si chiedono se e in quale misura questo cambiamento tecnologico possa portare a un miglioramento o ad un peggioramento della qualità della vita, soprattutto dei propri figli e delle generazioni future. Ondate di genitori chiedono a medici e psicologi il reale impatto dell’utilizzo di social e videogiochi e cercano disperatamente e giustamente un vademecum, delle linee guida da seguire che li facciano sentire sereni come madri, padri, adulti di riferimento.

Le informazioni appaiono spesso complesse e controverse, ad esempio: i videogiochi facilitano l’apprendimento e la socializzazione, i videogiochi violenti rendono i ragazzi aggressivi, l’utilizzo dei social espone i ragazzi al pericolo di essere adescati, ecc.; tutte queste e molte altre affermazioni possono essere considerate vere se, e solo se, vengano ben contestualizzate (quali tipi di giochi tecnologici facilitano gli apprendimenti e per quali bambini? In quali condizioni le immagini violente utilizzate da alcuni videogiochi aumentano la possibilità di far emergere comportamenti aggressivi nei ragazzi? Ecc.). Nei confronti della tecnologia possono essere messi in atto due atteggiamenti e comportamenti agli antipodi: la paura e la diffidenza con conseguenti condotte di evitamento e svalutazione oppure un’accettazione e un utilizzo impulsivo e acritico. Entrambi questi atteggiamenti possono portare a delle problematiche, siano esse di natura relazionale, sociale o di pericolo personale (ad es. fatica nel comprendere i figli e vietare a priori l’utilizzo di tecnologie, diffondere immagini di minori nella rete senza conoscerne i pericoli ecc.).

L’utilizzo di videogiochi può certamente sviluppare alcune capacità cognitive come le competenze visuomotorie, di coordinazione mani, dita, occhi, il pensiero strategico e il problem solving; può anche promuovere l’apprendimento di regole di situazioni sociali così come può rappresentare, al pari di qualsiasi altra attività ludica, un contesto di elaborazione emotiva e di conoscenza e confronto delle proprie capacità. D’altra parte, l’uso di videogiochi violenti può aumentare la possibilità di utilizzare strategie violente in situazioni sociali per via dei meccanismi di apprendimento sociale (come osservazione e imitazione).

A mio avviso, ciò che permette di valutare e agire in modo funzionale e coerente rispetto all’uso o meno di social e videogames è la capacità dell’adulto di monitorare ad una giusta distanza il ragazzo e affiancarlo in una riflessione attenta e propositiva, stimolando un processo di valutazione il più possibile critico e autonomo rispetto alle proprie scelte di gioco e di uso delle tecnologie. Sarebbe opportuno, cioè, creare il più possibile una terra di collegamento tra la tecnologia e il ragazzo e tra il ragazzo e l’adulto, data dalla promozione e dal consolidamento della capacità di mentalizzazione.

La capacità di mentalizzazione è un costrutto centrale per la psicologia dello sviluppo e della personalità. Il concetto prende forma a partire da psicoanalisti e teorici dell’attaccamento e viene descritto come funzione essenziale di uno sviluppo sano del soggetto e strettamente derivante dalla bontà della relazione primaria con il caregiver (Fonagy, Target 2001; Bowlby1989). Mentalizzare significa essere in grado di immaginare lo stato mentale proprio o di un altro soggetto, come una credenza, un desiderio o un’emozione, senza che tale stato sia realmente e totalmente provato o condiviso dal soggetto stesso; ciò permetterebbe, così, di costruire e attivare rappresentazioni di sé e dell’altro per meglio adattarsi ai contesti interpersonali.

La capacità di prevedere e interpretare atteggiamenti, speranze, conoscenze e piani altrui facilita la lettura dei propri stati mentali in un circolo virtuoso e porta ad un vantaggio individuale e sociale in termini di flessibilità e gradi di libertà rispetto al bisogno di sicurezza e affermazione. Mentalizzare è ciò che permette di sperimentare sé stessi, gli altri e il mondo come sufficientemente prevedibili, gestibili e modificabili e di sentire, dunque, di appartenere a un tutto abbastanza coerente e non estraneo.

La funzione di mentalizzazione, o funzione riflessiva, è una procedura automatica che si attiva nell’interpretazione dell’azione umana ma può essere sviluppata e incrementata nella relazione con gli adulti di riferimento.

Entrando nello specifico, ad esempio, una delle finalità raggiunte dalla capacità di mentalizzare, è quella di discriminare tra realtà e finzione e questo risulta molto importante nel momento in cui le caratteristiche di alcuni giochi virtuali confondono realtà e finzione: immersività, sensazione di presenza e agentività (possibilità di modificare e controllare lo scenario) portano spesso il fruitore a vivere in un ambiente virtuale emozioni e sensazioni reali. Le emozioni, i pensieri e le credenze che si formano negli ambienti virtuali sono spesso reali e richiedono un contenitore di senso al pari di tutti gli altri eventi mentali generati in situazioni considerate reali.

Le nuove tecnologie aprono a nuove e numerose possibilità di azione e interazione, di apprendimento e di divertimento ma anche a nuove immagini di sé, dell’altro e del mondo; ciò che l’adulto è chiamato a fare è accompagnare il processo di formazione di identità dei ragazzi e ciò deve tenere in considerazione e utilizzare in modo costruttivo queste nuove immagini sapendo che esse non possono né essere negate né accettate acriticamente.

 

Cyber-razzismo: come si diffonde online l’hate speech e quali conseguenze può comportare

La forma di hate speech online legato alle caratteristiche fenotipiche degli individui (es. caratteristiche del viso, colore della pelle) o all’affiliazione ad un gruppo etnico, culturale e territoriale acquisisce i contorni di quello che viene definito cyber-razzismo (Back, 2002).

 

Un tema attuale e particolarmente controverso è sicuramente quello dell’hate speech (tradotto generalmente in italiano in incitamento all’odio) che, nonostante sia largamente utilizzato, è un termine che non ha oggi una definizione univoca. Dal punto di vista normativo, il riferimento con maggiore autorevolezza è presentato nell’appendice alla raccomandazione n. (97) 20 del 30 ottobre 1997 realizzato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. In questo documento viene definito hate speech quel fenomeno che ricopre

tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basato sull’intolleranza, tra cui: intolleranza espressa da nazionalismo aggressivo ed etnocentrismo, discriminazione e ostilità nei confronti di minoranze, migranti e persone di origine immigrata (Committee of Ministers – Council of Europe, 1997, pag. 107).

Una sempre maggiore preoccupazione della diffusione del fenomeno, anche attraverso la promulgazione via internet, ha attirato l’attenzione della politica, dei professionisti e degli studiosi. In Italia il 30 ottobre 2019  è stata approvata una mozione, con prima firmataria la senatrice Liliana Segre, per istituire una commissione straordinaria per la prevenzione ed il contrasto dei fenomeni di odio, intolleranza, razzismo, antisemitismo e neofascismo, che pervadono la scena pubblica accompagnandosi sia con atti e manifestazioni di esplicito odio e persecuzione contro singoli e intere comunità (Segre et al., 2019, pag. 120). Sempre nel 2019 è uscita la quarta edizione della mappa dell’Intolleranza realizzata dall’Osservatorio Italiano sui diritti Vox (2019) che ha identificato la presenza sui social network di un crescente livello di intolleranza raziale nei confronti di migranti, musulmani ed ebrei. L’analisi condotta da Vox – Osservatorio Italiano sui diritti, tra marzo e maggio 2019, ha evidenziato rispetto al 2018 un netto aumento di tweet con oggetto l’odio verso i migranti (15% in più rispetto al 2018), verso gli ebrei (6% in più rispetto il 2018), e verso i mussulmani (7% in più rispetto il 2018).

Questa forma di hate speech online legato alle caratteristiche fenotipiche degli individui (es. caratteristiche del viso, colore della pelle) o all’affiliazione ad un gruppo etnico, culturale e territoriale acquisisce i contorni di quello che viene definito cyber-razzismo (Back, 2002). Il cyber-razzismo si configura, infatti, come una forma di razzismo a tutti gli effetti caratterizzato da contenuti online offensivi, denigratori e discriminatori su base razziale (Bliuc, Faulkner, Jakubowicz, & McGarty, 2018; Keum, & Miller, 2018). Un gruppo di ricercatori australiani (Bliuc, et al., 2018) ha condotto una revisione sistematica delle ricerche scientifiche sul cyber-razzismo per identificarne le fonti, i canali e le strategie di comunicazione, gli obiettivi, e le potenziali conseguenze. I risultati principali di questa rassegna hanno messo in evidenza che gli episodi di cyber-razzismo messi in atto da singoli individui non avvengono esclusivamente sui social network, ma anche nei commenti dei siti internet, nei gruppi di chat e nei video di youtube. Un aspetto sicuramente peculiare fa riferimento ad episodi di cyber-razzismo di gruppo che si esplicitano in siti-web e forum ‘tematici’ a sfondo razziale (il più famoso è Stormfront; Bowman-Grieve, 2009), con l’intento di reclutare nuovi elementi nel gruppo, promuovere lo sviluppo di un senso identitario, propagandare attraverso internet il pensiero razzista e le ideologie estremiste. Riguardo le strategie di comunicazione, la rassegna di Bliuc, et al. (2018) ha evidenziato che gli individui che pubblicano materiale razzista online tendono ad: esasperare o inventare la presenza di privilegi esclusivi del gruppo vittimizzato a scapito del proprio gruppo di appartenenza (es. ‘clandestini ospitati in alberghi di lusso, italiani nelle tende’; Genoviva, 2016); etichettare diversamente, banalizzare e negare gli episodi di razzismo (‘gli insulti ai calciatori di colore sono semplice folklore’; Mastrodonato, 2019); usare battute, barzellette e canzoncine a sfondo razziale per cercare di normalizzare il razzismo (‘senti che puzza, scappano anche i cani…’; Naletto, 2009); denigrare il gruppo vittimizzato accusando e diffamando in modo stereotipato gli appartenenti al gruppo (‘Gli ebrei sono falsari storici, attaccati al denaro ed usurai’; CDEC, 2019); creare panico sociale, generando reazioni esagerate nei confronti di un gruppo vittimizzato per renderlo agli occhi della società una minaccia all’ordine morale (‘i musulmani sostengono il terrorismo internazionale’; CDEC, 2017).

Indipendentemente dalle modalità con cui il razzismo in rete viene espresso, esso ha comunque delle conseguenze sia sugli individui sia su gruppi di persone. Il cyber-razzismo, infatti, crea nelle vittime esiti simili al razzismo offline, come alti livelli di ansia e depressione, stress e percezione di ingiustizia e discriminazione (Bliuc, et al., 2018; Keum & Miller, 2018). Un altro aspetto da tenere in considerazione è che la frequente esposizione online a contenuti razzisti e di incitamento all’odio possono contribuire ad una desensibilizzazione emotiva portando a legittimare maggiormente l’aggressione verbale (Soral, Bilewicz, & Winiewski, 2018). Con la diminuzione delle reazioni emotive negative al linguaggio offensivo e discriminatorio c’è un maggiore rischio che le persone credano al contenuto diffamatorio e diventino maggiormente accondiscendenti a trattare quelle affermazioni come linee guida (per esempio nel caso di politiche anti-migratorie; Soral et al., 2018).

In linea generale, come sottolineato da Keum e Miller (2018), è importante tenere a mente che considerare quello che avviene su internet come meno importante o meno reale sia estremamente pericoloso. Sottovalutare forme di razzismo esclusivamente perché avvengono in una realtà virtuale può avere delle profonde ripercussioni nella realtà fisica, ed è anzi evidente che l’anonimato online possa promuovere il proliferare dell’hate speech, portando le persone a ricorrere ad espressioni ed opinioni razziste in modo più esplicito rispetto a quanto si farebbe in interazioni offline (Keum, & Miller, 2018). Per questi motivi sembra chiara la necessità di mettere in atto programmi di intervento preventivi ed educativi che educhino ad un uso consapevole di internet, rendendo gli utenti maggiormente coscienti di quello che condividono e facilitare la comprensione del materiale presente in rete.

Autismi in pratica. Comportamenti problema o che ci mettono alla prova

Quello dei comportamenti problema nell’autismo (ma non solo) è un tema estremamente vasto e non si può certo pensare di esaurirlo in un articolo. Ma partiamo.

 

Innanzitutto, è interessante notare come, quelli che per noi sono comportamenti-problema, per gli anglofoni siano challenging behaviours, dicitura che potremmo tradurre con comportamenti sfidantiSe ci pensiamo, i comportamenti-problema mettono alla prova genitori e operatori perché costituiscono, in un qualche senso, un’anomalia che va ‘risolta’.

Ma quando un comportamento sfidante diventa un problema? I casi sono fondamentalmente 4:

  • il comportamento mette in pericolo l’individuo;
  • il comportamento mette in pericolo gli altri;
  • il comportamento ostacola l’accesso all’esperienza;
  • il comportamento ostacola l’apprendimento.

Per intenderci, non è un problema che Stefano guardi la lavatrice in funzione perché affascinato dal movimento circolare del cestello. Può essere strano forse o, come si diceva prima, anomalo perché si discosta dagli interessi tipici di un bambino della sua stessa età, ma non è un problema. Lo diventa nel momento in cui Stefano trascorre davanti alla lavatrice tutta la sua giornata e non mangia, non gioca, non impara perché completamente assorbito da questa attività e, magari, quando mamma decide che è ora di fare altro o, semplicemente, non ci sono più panni da lavare, piange, grida, si dispera e tira calci.

Che fare dunque in questi casi? Lanalisi funzionale, of course! L’analisi funzionale permette di capire la funzione di quel comportamento, perché ogni comportamento ne ha una. In psicoterapia si ricorre a questo strumento per identificare i meccanismi che generano e mantengono comportamenti apparentemente disfunzionali, come fuggire da un aperitivo in cui è presente il ragazzo che ci piace perché ci sentiamo goffe e imbarazzate. Ecco, in un caso del genere la funzione del comportamento di fuga è l’evitamento dell’ansia. Lavorerò quindi, in stanza di terapia, sulla gestione di quest’ultima.

Per quanto riguarda i comportamenti problema nell’autismo, il criterio è lo stesso: ne indago la funzione per capire come intervenire al meglio. Consideriamo poi che nell’autismo ci sono difficoltà a livello comunicativo, perciò spesso la crisi rappresenta l’unico modo per comunicare una qualche forma di disagio (ma una volta afferrato il punto, noi saremo prontissimi a fornire strategie alternative più funzionali, ovviamente!).

Teniamo a mente che le funzioni del comportamento si possono ridurre a 4:

  • attenzione;
  • accesso al tangibile;
  • fuga o evitamento;
  • stimolazione sensoriale.

La tabella seguente (Fig. 1) dovrebbe chiarire questo elenco, e specifica anche il tipo di rinforzo che mantiene il comportamento.

 

Autismo cosa sono i comportamenti problema e come intervenire Fig 1

Fig. 1: esempi di comportamento con relativa funzione e tipo di rinforzo

Si potrebbe pensare che, eliminando il rinforzo, il comportamento lentamente si estinguerà. Ma se l’insegnante finge che Carlo non ci sia non è detto che il bimbo la smetterà di girarle la faccia ed è quasi certo che sarà frustratissimo perché un suo bisogno verrà disatteso. L’estinzione potrà funzionare solo se associata all’insegnamento di un comportamento sostitutivo, ovvero di un comportamento più funzionale che possa assolvere quella stessa funzione. Nella prossima tabella (Fig 2) qualche esempio.

 

Autismo cosa sono i comportamenti problema e come intervenire Fig 2

Fig. 2 Esempi di comportamenti sostitutivi che favoriscono l’estinzione dei comportamenti problema

Quindi, per riassumere, i comportamenti problema sono tali solo se in qualche modo interferiscono significativamente con la vita dell’individuo e del suo ambiente. Essi ci comunicano qualcosa e tramite l’analisi funzionale potremo capire di che cosa si tratta e quali possono essere le alternative più desiderabili per rispondere alla stessa funzione.

 

Che impatto ha la nostra psiche sul nostro sistema immunitario?

A seconda del sistema di risposta allo stress attivato variano le implicazioni a livello immunitario: nel caso dell’attivazione del Sistema Nervoso Simpatico si osserva un aumento delle difese immunitarie, mentre con un attivazione dell’Asse Ipotalamo Ipofisi Surrene si assiste a uno scenario opposto.

 

Quando veniamo posti di fronte a situazioni o momenti della nostra vita stressanti, il nostro corpo può reagire in due modi:

– Attivazione del sistema nervoso simpatico (SNS): conosciuto anche come risposta di attacco-fuga, l’attivazione di questo sistema porta a vari cambiamenti fisiologici, tra cui l’afflusso di sangue verso i muscoli, la dilatazione delle pupille, aumento del battito cardiaco, la vescica si rilassa e i processi digestivi vengono bloccati. Tutto ciò accade per favorire un’eventuale fuga oppure un ipotetico attacco (Kranner et al., 2010). L’attivazione del sistema nervoso simpatico è immediata, di alta intensità, ma breve.

– Attivazione dell’asse ipotalamo ipofisi surrene (HPA): quest’asse si attiva quando siamo posti in maniera duratura ad uno stimolo stressante, in tal caso il corpo inizierà a produrre cortisolo, conosciuto come ormone dello stress. Rispetto all’attivazione del sistema nervoso simpatico, l’HPA ci mette più tempo ad attivarsi, ha un intensità minore tuttavia perdura per più tempo (Kranner et al., 2010).

Il sistema immunitario è influenzato negativamente dai livelli di cortisolo presenti nel sangue, a tal punto che, quando siamo stressati, si denota un calo delle nostre difese immunitarie.

Partendo da questi presupposti, sempre più studi sperimentali stanno indagando la relazione tra psiche, stress e sistema immunitario (Segerstrom & Miller, 2004).

L’attivazione dei due sistemi sopra citati è elicitata da stressor differenti. Nel caso del sistema nervoso simpatico ci dev’essere una situazione che evoca una risposta di attacco-fuga, solitamente si tratta di quelle situazioni dove la nostra vita viene messa a repentaglio. Al giorno d’oggi è raro che ci siano situazioni che attivano il sistema nervoso simpatico, è piuttosto molto più comune l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, elicitata da stimoli con valore più ‘soggettivo’. Ad esempio, avere alle porte un esame universitario può essere stressante per un ipotetico individuo A, mentre potrebbe non esserlo per un individuo B, delineando cosi il ruolo centrale della nostra mente nell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e delle conseguenze negative sul nostro sistema immunitario (Segerstrom & Miller, 2004).

A seconda del sistema di risposta allo stress attivato, variano le risposte immunitarie; nel caso dell’attivazione del SNS si denota un aumento delle difese immunitarie, questo perché il corpo si prepara all’eventuale presenza di ferite o infezioni; mentre nel caso dell’attivazione del HPA le difese immunitarie calano a causa del cortisolo prodotto dalle surreni (Segerstrom & Miller, 2004).

Lo stress è inoltre correlato con disturbi psichici, come la depressione, e con disturbi fisici, come le malattie cardio vascolari, ma rimane ancora un punto interrogativo la relazione tra stress, HIV/AIDS e cancro (Cohen & Miller, 2007).

 

La valutazione del rischio: una strategia preventiva fondamentale per gestire i casi di femminicidio

Un anello primario, in ottica preventiva, nella gestione dei casi di femminicidio risiede nella tempestività della valutazione del rischio di recidiva e reiterazione della violenza a danno della donna, al fine di scongiurare epiloghi tragici.

 

I reati di maltrattamento in famiglia sono complessi, difficili da dimostrare in virtù della loro natura: avvengono nella sfera dell’intimità e delle relazioni affettive e spesso sono caratterizzati da un’iniziale mancanza di disponibilità da parte della donna di procedere contro il partner o l’ex partner, per una serie di dinamiche proprie del ciclo della violenza in cui la donna è confusivamente inglobata, come la dispercezione del sé per effetto dell’effrazione psichica del maltrattante. Nella aule dei tribunali, dove in più occasioni mi sono ritrovata a testimoniare in loro favore, inizialmente mi stupiva l’atteggiamento di moltissime donne che non erano animate da sentimenti di rancore o vendetta nei confronti del partner maltrattante, quanto piuttosto da un ardente desiderio di riscatto e possibilità di ricostruirsi un’esistenza serena, e finalmente libera.

Un anello primario, in ottica preventiva, nella gestione dei casi di femminicidio risiede nella tempestività della valutazione del rischio di recidiva e reiterazione della violenza a danno della donna, al fine di scongiurare epiloghi tragici.

Il principio cardine su cui si basa la valutazione del rischio è che la violenza è una scelta, influenzata da tutta una serie di fattori sociali, biologici, neurologici, individuali di colui che maltratta:

si può così ipotizzare, prevedere, valutare quali fattori hanno portato la persona a decidere di agire violenza e intervenire cercando di modificarli, ridurli o ancora meglio farli scomparire o neutralizzarli, riducendo così il rischio di recidiva (Baldry, 2016).

Nonostante i corposi istituti giuridici preposti al contrasto della violenza domestica, troppe volte nei casi di cronaca si legge di donne che avevano già presentato delle denunce per maltrattamenti o segnalato situazioni di violenza reiterate, a cui però non hanno fatto seguito interventi efficaci a garantire la tutela della loro incolumità e di quella dei loro figli.

Questo accade principalmente per due ragioni: da un lato si tende a sottovalutare il bisogno di protezione delle donne con la complicità di una lettura errata di quanto sta accadendo nella loro vita – scambiando ancora una volta la violenza con le dinamiche conflittuali – e dall’altro si tende a ritenere che una denuncia sia un’azione già sufficientemente esaustiva. E’ accertato, invece, come il momento della denuncia o la volontà palesata al partner di interrompere la relazione costituiscano il momento di pericolosità maggiore per la vita della donna, con rischi che vanno dall’escalation della violenza a esiti letali quali, il femminicidio.

La denuncia in se stessa si rivela insufficiente, se non opportunamente supportata da una puntuale valutazione del rischio da effettuare con la donna, tale da consentire l’assunzione di maggiore consapevolezza e autodeterminazione, e la messa a punto di un piano di sicurezza ad hoc che assicuri la sua salvaguardia in toto.

Si tratta, pertanto, di porre a sistema e in rete tutti gli attori – centri antiviolenza, forze dell’ordine, servizi territoriali, tribunali, case rifugio, presidi ospedalieri, rete familiare e amicale dove presenti – coinvolgendoli nel processo di presa in carico e gestione di quello specifico caso, ricordando che ogni storia di violenza è una storia a sé, con caratteristiche per certi versi simili, ma che comunque variano da una all’altra, tra cui ad esempio, il grado di consapevolezza della violenza subita, il livello di resilienza, la fase del ciclo della violenza, le strategie di coping già attuate per fronteggiare la violenza, gli aiuti esterni che la donna può aver richiesto.

Il Piano Strategico Nazionale Contro la Violenza Maschile sulle Donne 2017 – 2020, all’asse 4.3 ‘Perseguire e punire’, recependo il contenuto dell’art.51 della Convenzione di Istanbul, recita chiaramente che

Le donne che subiscono violenza hanno diritto a sentirsi tutelate e a ottenere giustizia dai tribunali il prima possibile, le situazioni di violenza vissute devono essere opportunamente investigate al fine di evitare il protrarsi di ulteriori violenze (…) garantire la tutela delle donne vittime di violenza attraverso un’efficace e rapida valutazione e gestione del rischio di letalità della vittima, gravità, reiterazione e recidiva del reato, attraverso procedure omogenee ed efficienti su tutto il territorio nazionale.

La reiterazione, la frequenza e l’escalation della violenza che connotano tale tipologia di reato hanno aperto la strada alla riflessione circa i cosiddetti ‘fattori di rischio’ e di ‘vulnerabilità’ presenti all’interno delle relazioni violente.

Ma come si definisce un fattore di rischio o di vulnerabilità, ed esiste una metodologia per individuarli?

Un fattore di rischio è una caratteristica del maltrattante, una circostanza della relazione la cui presenza aumenta la probabilità che si verifichi quel determinato comportamento. Individuare i fattori di rischio aiuta a leggere i campanelli d’allarme e a far sì che le donne – che forse non li hanno saputi attenzionare perché normalizzati – possano rileggerli nella narrazione del loro vissuto e della loro storia. Nel valutare il rischio occorre che tali fattori vengano sempre contestualizzati e distinti tra dinamici, sui quali è possibile intervenire (attuale pericolosità del reo, condizioni di scarsa autonomia della vittima, abuso di sostanze, ecc.), e statici, che comunque permangono in termini di impatto (ad esempio, una condanna avuta nel passato dal reo per maltrattamenti o altra tipologia di reato, minimizzazione della violenza, ecc.).

I fattori di vulnerabilità sono invece quelle caratteristiche delle vittime la cui presenza aumenta la difficoltà per la donna di sottrarsi alla violenza e quindi il rischio di recidiva.

Tra i metodi più conosciuti e maggiormente usati negli Stati Uniti e in Europa (Svezia, Scozia, Repubblica Ceca, Grecia e in Italia ormai da oltre 10 anni) vi è il metodo SARA (Spousal Assault Risk Assessment, Valutazione del rischio di recidiva nei casi di violenza e nelle relazioni intime), messo a punto in Canada nel 1996, ad opera di P. Randall Kropp e Stephen D. Hart, ampiamente sviluppato e attuato in Italia, a partire dal 2006, con specifici protocolli con le Forze dell’Ordine da A.C. Baldry, e diffuso a centri antiviolenza e servizi territoriali attraverso specifica formazione.

In Italia, il progetto SARA per la valutazione del rischio di recidiva della violenza interpersonale all’interno di una relazione intima attuale o pregressa è il primo esperimento attivato e coordinato da Anna Costanza Baldry e realizzato all’interno dei programmi Daphne e Marie Curie Fellowship Reintegration Grants della Commissione Europea. La metodologia per la valutazione del rischio è iniziata in via di sperimentazione in Italia dapprima nel Lazio, e adesso è conosciuta e utilizzata a livello di tutte le 103 Questure che sono state formate a livello centrale del Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine o a livello locale nelle singole Questure che ne hanno fatto richiesta. Lo stesso dicasi per l’Arma dei Carabinieri presso cui il metodo è stato illustrato all’interno di alcuni progetti.

Per valutazione del rischio si intende

quel complesso di azioni e valutazioni che tendono a fornire un quadro prognostico – quindi di previsione – circa la probabilità (rischio) di verificarsi di eventi o circostanze, in base a parametri che sono noti, e che possono mettere a repentaglio l’incolumità o la sicurezza di una persona (Baldry, 2016).

Lo scopo della valutazione del rischio di recidiva non è tanto quello di predire chi è a maggior rischio di reiterare la violenza o quale donna è a rischio di essere ri-vittimizzata dal suo partner o ex partner, ma di poter prevenire tale recidiva e l’escalation della violenza nelle relazioni intime, attraverso l’attuazione di strategie di intervento efficaci a tutela della vittima e strategie nei confronti del reo per scongiurare tale rischio, limitandone la libertà con misure cautelari (ordine di allontanamento dalla casa familiare, divieto di dimora o la custodia cautelare in carcere) o precautelari o di prevenzione adeguate, e/o attraverso risposte trattamentali adeguate (Baldry, 2016).

Affrontare i casi di maltrattamento in famiglia e all’interno della coppia utilizzando tale metodologia rappresenta un’occasione importante per mettere a fuoco quei fattori la cui presenza aumenta la probabilità che la violenza si reiteri nel tempo, pianificando con la donna un percorso di messa in sicurezza se il rischio risulterà molto elevato. Ciò non toglie che l’assenza di fattori di rischio non escluda la possibilità di presentarsi della condotta violenta essendo il comportamento umano imprevedibile, così come la loro presenza non indica necessariamente che quell’autore della violenza persevererà nella sua condotta o ucciderà la sua partner.

Entrando nel dettaglio, i fattori di rischio possono essere divisi in sezioni separate, violenza da parte del partner o ex partner e adattamento psico-sociale includendo:

  • Gravi violenze fisiche/sessuali
  • Gravi minacce di violenza, ideazione o intenzione di agire violenza
  • Escalation (sia della violenza fisica/sessuale vera e propria sia delle minacce/ideazioni o intenzioni di agire tali violenze)
  • Violazione delle misure cautelari o interdittive
  • Atteggiamenti negativi nei confronti delle violenze interpersonali e intrafamiliari
  • Precedenti penali/condotte antisociali
  • Problemi relazionali
  • Problemi di lavoro o problemi finanziari
  • Abuso di sostanze
  • Disturbi mentali

Riguardo invece ai fattori di vulnerabilità della vittima il SARA – S annovera:

  • Condotta e atteggiamento incoerente nei confronti del reo
  • Estrema paura nei confronti del reo
  • Sostegno inadeguato alla vittima
  • Scarsa sicurezza di vita
  • Problemi di salute psicofisica, dipendenza

A tali fattori il SARA-S aggiunge anche la rilevazione della presenza di armi, bambini testimoni (violenza assistita) e child abuse.

Il S.A.R.A., nella versione originaria costituito da 20 items, poi snellito nella versione screening S.A.R.A.-S, è stato costruito sulla base di dieci fattori di rischio che riflettono vari aspetti relativi alla storia di violenza, ai procedimenti penali, al funzionamento e adattamento sociale e alla salute mentale dell’autore della violenza, ed è utile per avere un quadro esaustivo della sua pericolosità. L’operatrice o l’operatore che effettua la valutazione del rischio con la donna, con il metodo S.A.R.A.- S, procede nello stabilire il livello di presenza o meno di ognuno dei dieci fattori allo stato attuale (ultime quattro settimane) e nel passato (prima di un mese). Questo significa che quando una donna riporta le violenze subite, analizzando i dieci fattori di rischio proposti dallo strumento, sarà compito della valutatrice o del valutatore identificare se la presenza del rischio sia bassa, media o elevata, e se sia riferibile come lasso di tempo nell’immediato (entro 2 mesi), o più a lungo termine (dopo i due mesi) anche in termini di escalation e gravità.

Un punto di forza dello strumento consiste nell’integrare la valutazione dell’operatrice con quella della donna, che in prima persona fornirà la propria percezione rispetto alla violenza subìta e i rischi a essa connessi, elementi sui quali dovrà essere impostato con lei il lavoro di fuoriuscita dalla violenza e le eventuali strade percorribili. Così facendo la donna ha l’opportunità di essere al centro e protagonista del percorso da intraprendere, grazie alla restituzione del potere di scelta anche in condizione di elevato rischio di recidiva della violenza nella relazione.

Mi preme precisare che la valutazione del rischio è un processo dinamico, si parla infatti di Active Risk Assessment (ARA), e pertanto dovrà essere eseguita più volte nel corso del tempo per monitorare l’evoluzione del livello di rischio, senza tralasciare l’importanza di condividerla con le figure professionali (servizi territoriali, forze dell’ordine, tribunali, Presidi Ospedalieri, ecc.), che entreranno in contatto con lei in momenti diversi della sua storia.

Essendo la valutazione del rischio un processo dinamico, il livello del rischio può fluttuare nel tempo, ed è quindi opportuno eseguire il follow-up a intervalli di almeno 2-3 mesi. Vi sono, inoltre, alcune circostanze considerate critiche per quel che concerne il rischio di recidiva, che comportano la necessità di un’immediata ri-somministrazione, e tra queste:

  • la donna ha mostrato/riferito la sua intenzione di interrompere la relazione o di separarsi (preceduti da episodi di violenza o minacce di violenza all’interno della coppia);
  • la nascita di una nuova relazione, contrariamente alla volontà dell’ex partner (il concetto di vittima si estende anche al nuovo compagno, in questi casi, e a chiunque cerchi di fornire aiuto alla donna per uscire dal circolo della violenza);
  • presenza di dispute relative all’affidamento dei figli e al regime di visita;
  • il maltrattante viene scarcerato dopo un periodo di custodia cautelare o dopo la condanna per reato di maltrattamenti (o per tentato omicidio o per altri reati gravi).

Riassumendo, la compilazione della scheda di valutazione del rischio e la sua metodologia si rivela funzionale per attivare un virtuoso feedback bidirezionale tra la donna e l’operatrice al fine di:

  • monitorare in un lasso di tempo più circoscritto l’evolversi della violenza e ridefinirne il rischio di reiterazione nel breve e medio termine;
  • far emergere – e far acquisire – il livello di percezione/consapevolezza del rischio di reiterazione della violenza da parte della donna;
  • rimandare il rischio emerso attraverso un’adeguata restituzione, rileggendo con la donna le strategie adottate per ‘controllare’ le tipologie di violenza subita, divenuti veri e proprio habitus e rinforzo delle dinamiche proprie del circolo della violenza;
  • agire efficacemente sullo spostamento dell’attribuzione di responsabilità della violenza e sull’investimento di energia dall’esterno verso l’interno (centratura e focus sulla donna, e lavoro sul sé);
  • individuare e rileggere insieme, in ottica di genere, gli stereotipi culturali presenti, gli ostacoli (materiali, culturali, ecc.) che impediscono la fuoriuscita dal circolo della violenza scongiurando pericolose minimizzazioni;
  • definire e programmare le necessarie azioni progettuali tra i soggetti coinvolti, partendo dalla disamina di quegli indicatori che segnano un’apripista non trascurabile di possibili escalation della violenza;
  • offrire anche in una possibile sede di testimonianza processuale una chiave di lettura più nitida sul funzionamento delle dinamiche della violenza, al fine di orientare gli interventi futuri considerando gli indicatori di rischio emersi, e scongiurando processi di rivittimizzazione per la donna;
  • creare una robusta rete supportiva che offra un intervento multidisciplinare e che trasmetta finalmente alla donna il messaggio di non essere sola nel vissuto violento.

 

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