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Il sonno, cosa succede se non dormiamo?

Le conseguenze date dal non dormire si ripercuotono sia a livello fisico che psicologico, portando a problemi cardiovascolari, depressione, rischio di diabete e un’importante alterazione delle funzioni cognitive.

 

Il sonno è uno stato di riposo contrapposto alla veglia; è una condizione che implica la mancanza temporanea della coscienza, della volontà e le funzioni neurovegetative rallentano. Tuttavia si tratta di un processo fisiologico attivo e non passivo, dato che, alcune componenti del sistema nervoso centrale e del sistema nervoso autonomo sono in interazione tra loro, inoltre, alcune cellule cerebrali sembrano avere un’attività 10 volte superiore durante il sonno (Buysse, 2014).

Il sonno è suddiviso in fasi, più precisamente 5 stadi, ognuno dei quali, è caratterizzato da onde cerebrali differenti. Quando ci addormentiamo passiamo progressivamente dallo stadio 1 (sonno leggero non-REM) fino allo stadio 4 che rappresenta il sonno più profondo, dopo di che, passiamo al sonno REM (Rapid eye movment) che è la fase durante la quale tipicamente sogniamo. E’ interessante notare che la fase REM non è caratterizzata da un sonno profondo, anzi, il cervello in questo stadio risulta essere attivo tanto quanto mentre svolgiamo un attività intellettuale (come risolvere un problema di matematica, oppure studiare) (Buysse, 2014).

La scienza tutt’ora non sa dare una spiegazione sul perché abbiamo bisogno di dormire, ci sono varie teorie a riguardo, come la teoria della “pulizia”. Secondo questo modello, mentre dormiamo, dei canali che si trovano tra i nostri neuroni si espandono permettendo il passaggio di liquido cerebrospinale, questo processo permette di “pulire” il cervello, portando via prodotti di scarto come le proteine beta-amiloidi.

Anche se non si sa con esattezza il perché dobbiamo dormire, sono ben noti gli effetti dati dalla deprivazione del sonno. Le conseguenze date dal non dormire si ripercuotono sia a livello fisico che psicologico, portando a problemi cardiovascolari, depressione, rischio di diabete (Stenuit & Kerkhofs, 2008). In particolare si denota un’alterazione delle funzioni cognitive, quali calo della memoria, dell’attenzione e della percezione; le alterazioni sono tali che, guidare in uno stato di deprivazione dal sonno è tanto pericoloso quanto guidare dopo aver bevuto alcolici.

Una ricerca pubblicata sul Journal of Experimental Psychology ha dimostrato che anche il “placekeeping” cioè la capacità di seguire procedure complesse risulta essere estremamente alterato in uno stato di deprivazione da sonno; inoltre a livello cerebrale si denota un’attivazione minore della corteccia prefrontale e del lobo temporale.

Contrariamente al pensiero comune, non ci sono prove scientifiche del fatto che la mancanza di sonno possa portare alla morte (Chua et al., 2017).

 

Theodor Reik e la comprensione psicoanalitica

Il processo duale (intuizione ed analisi) come fulcro della consultazione terapeutica bi-sistemica singola e della comprensione psicoanalitica secondo Theodor Reik.

Il presente articolo è il secondo, in ordine di pubblicazione, dei tre contibuti sul tema scritti dallo stesso autore e pubblicati da State of Mind. Il primo e il terzo contributo sono rispettivamente:
1- Dalla prima visita psichiatrica alla consultazione terapeutica bi-sistemica singola
3- Riflessioni meta-cognitive dello psichiatra psicoterapeuta sul metodo della consultazione terapeutica bi-sistemica singola: domande sistematiche, ‘skilled intuition’ e interpretazione precoce

 

Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così. (Italo Calvino – Il barone rampante)

 

Abstract

In questo lavoro affronto il processo duale (intuizione ed analisi) come fulcro della mia consultazione terapeutica bi-sistemica singola e della comprensione psicoanalitica secondo Theodor Reik. A tale idea di consultazione sono giunto dopo avere precedentemente trasformato la prima visita psichiatrica in una terapia a seduta singola. Spesso i pazienti vengono da noi una o due volte in tutto e quindi la prima visita deve essere già un atto terapeutico. La terapia va intesa come una consultazione in quanto deve anche stimolare le risorse auto-terapeutiche del paziente. Deve essere bi-sistemica in quanto, al tempo stesso, sistematico-analitica ed intuitiva. Anche Reik dà importanza all’intuizione congetturale ed alla successiva comprensione razionale del paziente, valorizzando la soggettività del terapeuta, la sua auto-osservazione interna e la sua ‘response’ globale al paziente. L’intuizione può essere ricercata non solo con le associazioni libere e l’attenzione liberamente fluttuante, ma anche con la ricerca sistematica del terapeuta. La dinamica interattiva tra i due attori, determinata anche dai numerosi cicli di domanda-risposta sempre più mirati, può portare all’intuizione esplicativa del caso.

Parole Chiave: prima visita psichiatrica, terapia a seduta singola, consultazione terapeutica bi-sistemica singola, processo duale, intuizione, unipatia, comprensione, Theodor Reik.

 

Lo psicoanalista sorpreso e Ascoltare con il terzo orecchio: Theodor Reik e la comprensione psicoanalitica

La soggettività dell’analista osservatore ha un ruolo insostituibile e, in modo particolare, i suoi processi intuitivi inconsci sono un organo adibito all’indovinare (individuare con esattezza affidandosi all’intuito). Le sensazioni sono impressioni raggiunte con l’intuizione, una sorta di pre-conoscenza. È un sentire qualcosa piuttosto che un conoscerlo o giudicarlo con la ragione. L’inconscio comunica con gli altri inconsci e stabilisce con essi un rapporto di comprensione. Ci dobbiamo pertanto affidare a lui, lasciandoci sorprendere e affidandoci alla regola fondamentale delle libere associazioni e dell’attenzione liberamente fluttuante (metodo funzionale al dialogo tra gli inconsci). Soprattutto nelle prime fasi dell’investigazione non ci dobbiamo aggrappare al pensiero conscio, perché, se rifletti, interrompi l’attività del cercare la verità. L’ordine che governa il processo analitico è quindi determinato dall’azione reciproca degli inconsci ed il cuore del libro Surprise and the Psychoanalyst (Reik, 1936) è costituito dall’esposizione di una teoria dell’ascolto psicoanalitico che individua la specificità di tale ascolto nel ruolo preponderante che in esso svolge il processo inconscio dell’intuizione, sia per intuire il paziente che l’inconscio del terapeuta, che reagisce a quello del paziente. La scansione temporale del processo va dalla registrazione inconscia degli ‘indizi’ alla loro comprensione razionale ed il suo spartiacque è il momento della sorpresa (la reazione di soddisfacimento ad una aspettativa inconscia, come vedremo meglio più avanti). A tal fine è fondamentale la capacità di auto-osservazione del terapeuta.

Auto-osservazione

L’attenzione del bambino piccolo è rivolta inizialmente all’esterno e solo dopo si dirige sul proprio sé. La capacità di auto-osservarsi si sviluppa dalla presa di coscienza di essere osservato dagli altri, che lo considerano come un Io. Il bambino incorpora nel suo Sé, introietta, lo sguardo con cui l’altro significativo lo osserva. Questa introiezione produce una scissione nel Sé, tra una parte che osserva (Super-io) e una parte osservata, ed è tale scissione che rende possibile l’auto-osservazione e la meta-cognizione. Tale capacità è fondamentale per la comprensione della mente altrui, in quanto siamo costretti a guardare profondamente in noi stessi per raggiungere tale scopo. Non è infatti possibile un’introspezione profonda della mente dell’altro senza un confronto inconscio con le nostre esperienze precedenti. La mente inconscia del paziente viene percepita da quella del terapeuta, che è in grado di congetturare i significati nascosti solo attraverso l’utilizzo dei segni, come dice Kant: Nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensibus. L’esperienza ha quindi le sue origini nelle nostre percezioni sensoriali.

Telepatia

C’è una sorta di comunicazione telepatica diretta tra i due inconsci, che non è super-sensoriale e non procede nel vuoto, ma che rende reali quei sensi arcaici, rudimentali, che sono sopravvissuti, ma che si sono alienati alla nostra consapevolezza e che leggono meglio l’istinto rispetto al pensiero. E gli istinti spesso sono più intelligenti della nostra ‘intelligenza’ conscia. Il linguaggio gestuale è un’espressione istintiva e quello verbale ne ha preso parzialmente il posto. La percezione inconscia passa i confini delle comunicazioni ricevute attraverso i nostri organi di senso conosciuti. Tali sensi si riattivano ed utilizzano come segnali l’espressione di stimoli che non superano la soglia della nostra coscienza. Movimenti piccolissimi accompagnano ogni processo di pensiero ed impulsi sotterranei sono costantemente inviati silenziosamente attraverso la parola, il gesto ed il movimento. Tale tipo di comunicazione è comparabile a quella che noi presupponiamo nelle società animali inferiori alla nostra.

Evoluzione e civilizzazione

Nei primi giorni dell’evoluzione l’uomo afferrava più immediatamente cosa passava nella mente altrui, ma poi c’è stata una progressiva perdita di questo tipo immediato di comprensione, grazie all’avanzamento della tendenza a soppiantare l’istinto. Gli animali non hanno bisogno di psicologia, nel senso di una teoria della vita interna degli altri animali, perché loro conoscono con certezza istintiva cosa si muove nella mente dell’altro. Anche l’uomo primitivo non ha bisogno di questo tipo di psicologia, perché possiede ancora in larga misura la stessa certezza istintiva sulla vita mentale altrui. Sempre di più però questa certezza istintiva è andata persa. L’interiorità si è accresciuta più differenziata, ma anche più difficile da conoscere. Ma l’antica affidabilità e immediatezza con cui diventavamo consapevoli degli impulsi negli altri è stata persa solo nella nostra coscienza; nell’inconscio invece è stata preservata. La civilizzazione ha ridotto l’importanza delle percezioni sensoriali. Lo scopo è quello di cavarsela con un minimo di percezione sensoriale, lasciando il susseguente processo di cognizione all’intelletto. E la memoria che si sviluppa diventa un sostituto della percezione sensoriale. La perdita di intensità e di significato dei sensi è un segno della diminuita vitalità della razza umana, associata ad un indebolimento dell’istinto sessuale.

Ci viene ricordato da Freud che i mortali non sono fatti per trattenere i segreti e che quindi, il nostro ‘auto-tradimento’ schizza fuori da tutti i nostri pori. E la pelle, la nostra superficie corporea, è stato il primo organo a far trasparire i processi mentali interni. Noi reagiamo all’inconscio altrui con tutti i nostri organi, con tutti i nostri vari strumenti di ricezione e comprensione.

Introiezione e proiezione

Incorporare qualcosa, divorarla, è il modo elementare con cui i primitivi rendevano le cose comprensibili, le rendevano proprie. Il fatto che l’origine della comprensione fosse l’atto di incorporare l’oggetto, di sentirlo dentro di sé, non ha mai perso di significato. All’inizio della vita c’è solo l’Io del bambino. Il mondo esterno ed i suoi oggetti, come il suo corpo ed i suoi organi, appartengono a lui. Successivamente, il mondo esterno viene gradualmente e, con esitazione, separato. Ma, in un certo senso, rimarrà per sempre una parte distaccata del suo Io. Nel processo di introiezione, l’Io non fa altro che riappropriarsi di una parte di sé, temporaneamente separata dalla spinta della realtà. Si tratta di una forma di cannibalismo psicologico, che connette la passione più sublimata della conoscenza altrui al desiderio primitivo di divorare. L’oggetto compreso deve essere cambiato da se stesso ad una parte dell’Io, da qualcosa di esterno a qualcosa di interno al soggetto. L’introduzione di un oggetto dentro di noi determina un cambiamento del nostro Io. Per un momento l’Io diventa l’oggetto. Abbiamo divorato l’oggetto ed il nostro Io, temporaneamente, non c’è più. Questa assimilazione inconscia per introiezione dell’oggetto è la naturale attitudine dell’Io inconscio a trasformarsi temporaneamente nell’altro. Per comprendere l’inconscio di un’altra persona dobbiamo quindi, almeno per un istante, trasformarci in lui, diventare l’altro. Possiamo capire però solo lo spirito che ci rassomiglia e comprendere l’esperienza di un’altra persona soltanto sperimentandola in noi stessi. L’analista, vibrando inconsciamente al ritmo pulsionale dell’altro, inconsciamente risponde ai vissuti comunicati dal paziente, ed è l’osservazione analitica di questa sua risposta che gli permette di indovinare e comprendere i processi inconsci del paziente. Dopo l’introiezione abbiamo la proiezione, grazie alla quale l’Io trasformato viene gettato all’esterno e percepito come un oggetto psicologico. Questo processo costituisce la ri-emergenza, dall’Io inconscio dell’analista, dei vissuti pulsionali del paziente precedentemente introiettati e rielaborati. L’impulso del paziente, che ha inconsciamente riattivato un impulso corrispondente nell’analista, viene visto esternamente. L’osservazione di tali impulsi repressi o rimossi è solo possibile attraverso la via indiretta della percezione interna del terapeuta. Posso comprendere quindi l’esperienza altrui solo se la vivo io. L’analisi dell’altro può portare, in un modo peculiare ed indiretto, alla congettura di processi segreti che sono nel nostro Io, proseguendo in tal modo l’auto-analisi del terapeuta. L’analisi è, pertanto, un processo di ‘illuminazione reciproca’.

Terapeuta come attore

Sul palco, l’attore diventa l’eroe, sente quello che lui sente. Si trasforma in lui nel momento che lo sta recitando. I grandi attori non entrano nella personalità dell’eroe, ma diventano l’eroe stesso. Non imitano la sua esperienza, ma realmente vivono il suo destino, con l’aiuto delle loro possibilità psichiche interne e delle tracce di memoria delle proprie esperienze. Non c’è quindi empatia, identificazione, ma un cambiamento nell’Io dell’attore a livello inconscio. C’è quindi in lui una memoria inconscia ed un rivivere le proprie esperienze del passato.

Congettura e comprensione

Gli impulsi e le idee inconsce del paziente non stimolano subito l’analista ad una comprensione psicologica. Il loro primo effetto sarà invece quello di stimolare inconsciamente in lui impulsi ed idee simili. L’impulso del paziente crea un eco nell’inconscio dell’analista e tale eco è il fattore determinante della congettura psicologica. Questa è la base istintiva della comprensione psicologica e l’effetto psichico prodotto sull’analista dai segnali dell’inconscio del paziente non è un semplice processo di identificazione, ma un cambiamento dell’Io inconscio del terapeuta. C’è quindi un intervallo di tempo inconscio, un periodo di latenza per giungere alla comprensione psicologica, partendo da una congettura iniziale. In questo stadio preliminare l’analista si comporta come un investigatore che ha premura di preservare ogni indizio raccolto per poi farne uso. La fase intuitiva, congetturale, dell’ascolto è composta dalla sequenza temporale di tre processi diversi: la percezione conscia, preconscia e inconscia di elementi significativi del materiale portato dal paziente; l’assimilazione da parte dell’inconscio dell’analista di questi elementi (introiezione); la ri-emergenza nella coscienza dell’analista degli elementi che erano stati inconsciamente assimilati. Reik concepisce l’ascolto clinico come un passaggio graduale di durata imprevedibile tra una fase intuitiva, in cui l’analista perviene inconsciamente a indovinare – o a congetturare – il significato inconscio di alcuni elementi del materiale portato dal paziente, e una fase di comprensione. Nel congetturare, le tracce di memoria del terapeuta (conoscenza inconscia) sono più importanti della sua conoscenza conscia. La specificità della psicoanalisi risiede quindi nei processi della fase intuitiva, congetturale, dell’ascolto. L’ascolto analitico è un dispositivo psicologico volto specificamente alla produzione di intuizioni e l’intuizione è centrale nel processo della comprensione psicologica. Ciò che però all’inizio è stato spesso afferrato e congetturato solo inconsciamente deve passare attraverso il filtro dell’intelletto prima che la sua verità possa essere confermata.

Ascoltare col terzo orecchio

Riprendendo la genesi dell’auto-osservazione, il terzo orecchio non è altro che la terza persona presente nell’auto-osservazione, dopo la prima che è il Sé osservato, e la seconda, che è il sorvegliante interno introiettato (tenere sotto controllo il controllore introiettato, per ascoltare le voci interne che lo rappresentano). L’analista ascolta col terzo orecchio, udendo non solo ciò che il paziente dice, ma anche le proprie voci interne che emergono dalle profondità del proprio inconscio. L’analista ha una certa abilità e sensibilità (iperestesia) ad afferrare e a decodificare i prodotti e i segni dell’inconscio del paziente. Con la percezione endopsichica, l’osservazione dell’altro è deviata nell’osservazione dell’Io (che gioca il ruolo di medium), o piuttosto di una parte dell’Io del terapeuta, trasformata dall’introiezione del paziente in una esperienza inconscia dell’Io.

Intuizione e insight

Psicologicamente, l’intuizione è come una forma di visione, in cui una ricognizione di certe relazioni finora inconsce forza la via verso la consapevolezza. La cosa essenziale è un’immediata, o apparentemente immediata, comprensione conscia di una cognizione finora inconscia, con un vissuto di sorpresa.

L’insight è il momento in cui un’idea emerge dall’inconscio, passando dal processo psichico primario a quello secondario. L’emergenza dai piani profondi ed oscuri del pensiero dell’analista è preceduto per una frazione di secondo da un senso di alienazione, come di assenza mentale, di sensazione nebbiosa. E’ come se una cognizione analitica fosse annunciata da un momento di eclisse che la precede. Il buio più profondo precede l’alba. Forse questo momento di eclisse prima della congettura è solo l’espressione di una resistenza inconscia alla cognizione che si sta spingendo nella consapevolezza e, allo stesso tempo, il segnale della sua emergenza imminente. Dopo tale situazione caotica di passaggio si ha la lucidità immediata con cui l’idea supera la soglia della consapevolezza, la conclusione arriva nella mente del terapeuta che vive l’esperienza: ‘Oh, that’s it’.

Response

Reik non usa mai la parola ‘contro-transfert in quanto la ‘response’ è un fenomeno molto più olistico. È una reazione globale dell’analista alle comunicazioni, verbali e non, della persona analizzata. Tale risposta include tutti i tipi di impressioni ricevute ed include la consapevolezza delle voci interne reattive dell’analista verso il paziente. E’ un’esperienza interna prevalentemente inconscia e solo una sua piccola parte diventa conscia. La ‘response’ è il risultato di questa rielaborazione inconscia, è fondata sull’esperienza sensoriale del terapeuta e si palesa consciamente con un’intuizione. E tale ‘response’, nel momento in cui raggiunge l’introspezione più profonda nell’inconscio, ha la natura della sorpresa.

Surprise

La sorpresa del paziente e del terapeuta è influenzata da un risparmio di operazioni intellettuali consce in quanto l’intervento dell’inconscio permette un cortocircuito al posto delle inferenze logiche. Un paziente è sempre sorpreso quando gli viene detto un qualcosa che inconsciamente già conosce. Quindi, la sorpresa è una reazione al soddisfacimento di una aspettativa inconscia. Anche per l’analista la conoscenza più vitale ottenuta dell’inconscio rimosso del paziente è una sorpresa e deve utilizzare gli stessi meccanismi del processo primario utilizzati dal paziente se vuol scoprire il significato segreto dei processi inconsci.

Velocità di comprensione

Reik (1948) affronta anche il tema della velocità dei processi cognitivi di comprensione del paziente, evidenziandone le possibilità ed i limiti:

La prova scoperta dalle prime impressioni qualche volta conduce ad introspezioni che sarebbero state altrimenti ottenute solo dopo un lungo tempo e con uno sforzo di duro lavoro di scavo psicologico.

Evidenzia perfino l’importanza diagnostico-terapeutica della prima fase interattiva paziente-terapeuta antecedente al primo incontro:

L’analista può raggiungere qualche introspezione psicologica di un paziente perfino prima dell’inizio del trattamento se si fida delle sue impressioni, appena si rende consapevole di loro.

Ma la velocità di comprensione dell’altro non può essere sempre intesa come ipervelocità forzata:

La comprensione psicologica dei processi inconsci richiede, come tutte le comprensioni, un tempo definito, che varia in ciascun caso. La nascita di un’idea analitica può essere lievemente accelerata come la nascita di un bambino. Ma se noi cerchiamo di accelerare il progresso di una gravidanza, il risultato sarà un aborto. L’essenza dell’intervallo inconscio, questa fase fruttifera, consiste nel nostro non insistere coscientemente per comprendere i processi interni ed avere fiducia degli sforzi psicologici del nostro inconscio nel corso del tempo.

 

Mondi psicopatologici (2018) di G. Stanghellini e M. Mancini- Recensione del libro

Mondi psicopatologici assomiglia ad una guida per un viaggio interiore: si divide in due parti, la prima che contiene le informazioni utili, la seconda dove ci sono alcune mappe della psiche umana da esplorare.

 

Sono mappe, appunto, e come tali servono ad orientarsi, ma non pretendono di esaurire la reale particolarità di ciascun mondo. Infatti, leit motiv del libro rimane l’unicità di ciascun essere umano, che sì, presenta tratti e sfumature categorizzabili ma che difende con forza la propria essenza speciale.

Come gli autori stessi esplicitano nella prefazione, lo scopo di questo libro è fondare la pratica dell’intervista terapeutica […] su concetti chiave come ‘soggettività’, ‘persona’, ‘mondo della vita’, ‘emozioni’, ‘valori’, ‘significato’, cura’ e ‘comprensione’ ispirandosi alla tradizione della psicopatologia fenomenologica, approccio che essi definiscono come costruito sull’esperienza individuale del paziente, sulle sue emozioni, sui suoi valori e sulla loro interazione (Prefazione, XV). Il loro monito è quello di andare oltre e sganciarsi dal colloquio clinico che miri esclusivamente a categorizzare i sintomi svuotandoli di soggettività, per spostarsi sempre più su un piano di comprensione, di ricerca di significato, di costruzione di un noi terapeutico, passando dalle emozioni e dai valori propri di ciascun paziente, riconoscendo senso e valore a ogni forma di vita (Prefazione, XX).

Il volume ha essenzialmente due grandi sezioni: la prima più tecnica, focalizzata sul saper-fare, il bagaglio che l’esploratore deve riempire consapevolmente con l’attrezzatura necessaria per avventurarsi nei mondi dei pazienti; la seconda riguarda il sapere, ciò che gli autori definiscono come una cartografia del mondo della vita in cui vivono le persone affette dai principali disturbi mentali, dell’atmosfera emotiva e della struttura dei valori con cui le loro esperienze si intrecciano (p. 188).

‘Lo zaino dell’esploratore’ contiene una serie di indicazioni per condurre un’intervista terapeutica che abbia come obiettivo la comprensione dei vissuti legati all’esperienza soggettiva psicopatologica più che la categorizzazione sterile di sintomi e la definizione di quadri clinici. Per far questo gli autori propongono un approccio che superi il razionalismo scientifico in modo da preservare una sensibilità fenomenologica e raggiungere una comprensione del significato e della situazione clinica come sentita (p. 23).

È una sezione di stampo più specialistico, che racconta appunto dei limiti di un approccio esclusivamente tecnico (vs approccio fenomenologico); troviamo qui una definizione del concetto di sintomo spaziando dal punto di vista biomedico a quello psicodinamico, fino all’idea che il sintomo è l’opportunità per il paziente di ottenere una nuova consapevolezza di sé. Il sintomo è la manifestazione di un significato a cui solo il sintomo ha dato l’opportunità di emergere (p. 51). La cassetta degli attrezzi si compone di strumenti cari alla tradizione fenomenologica, quali l’epochè (o la sospensione del giudizio), la comprensione empatica e eidetica (ossia la comprensione della più profonda essenza del fenomeno) e la comprensione dialettica, concetto che riporta all’idea del sintomo come incontro della persona con la sua alterità, che consente alla persona di mettersi in una diversa prospettiva per accrescere la conoscenza del proprio Sé, la cui costruzione è intesa come un processo narrativo e dinamico di cui ciascuno è attivo protagonista. Essi considerano in generale la patologia mentale come una crisi di dialogo (p. 66) tra la persona e la sua alterità, una sorta di rottura della continuità personale, che si manifesta attraverso il sintomo, la cui forma, decorso e esito è nelle mani attive del paziente. Viene illustrato il concetto di mondo della vita composta dalle dimensioni del corpo, l’alterità, il tempo, il Sé, lo spazio così come vissute da chi lo abita; preminente è il ruolo delle emozioni, che rivelano come il mondo è per me (p. 118), dei valori, la chiave per comprendere la forma di vita, l’essere nel mondo di una data persona (p. 152), e del bisogno di riconoscimento da parte dell’altro che si trascinano.

L’intervista terapeutica di stampo fenomenologico viene quindi intesa come ricerca di significato (p. 159) attraverso il dialogo, che diviene strumento di cura (p. 171). Il metodo proposto e esplicato è il cosiddetto metodo PHD che vede l’integrazione di tre dispositivi fondamentali: la fenomenologia – Phenomenology -, l’ermeneutica – Hermeneutics – e il pensiero psicodianamico – psycho-dynamics – (Stanghellini, 2016; 2017).

Dopo questo a tratti faticoso e lento excursus tecnico, che rimane certamente puntuale, prezioso e necessario per una piena comprensione del metodo fenomenologico, si approda finalmente nella seconda parte, quella dedicata a I mondi della vita. Questi sono intesi come il mondo del paziente, fatto di un’atmosfera psichica, un nucleo emotivo e una struttura di valori che ricoprono un ruolo fondamentale nella propria costruzione della visione del mondo (p. 189), il cui accesso da parte del clinico attraverso un’intervista terapeutica scevra di pregiudizi e mossa solo dal desiderio di un’autentica e libera conoscenza dell’altro così com’è e così come sente e vive il e nel suo mondo, diventa il primo e più importante passo per avvicinarci alla cura, in relazione e con il dialogo.

Le descrizioni che seguono riguardano il mondo delle persone fobiche, isteriche, narcisiste, borderline, paranoiche, delle persone tossicomani e di quelle affette da disturbi della nutrizione e dell’alimentazione; il mondo delle persone melanconiche, maniacali e schizofreniche. Tali quadri psicopatologici vengono proposti attraverso l’analisi e la descrizione delle esperienze e dei vissuti di ciascuna delle dimensioni che compongono i mondi della vita (tempo, spazio, corpo, altro, Sé, emozioni e vissuti). Naturalmente, come intuibile e come esplicitato anche dagli autori stessi, tale sezione è incompleta e non esaurisce tutto il panorama psicopatologico, ma al momento affronta i più gravi disturbi mentali (tralasciando le forme più sfumate e vicine alle esperienze psicopatologiche quotidiane) offrendone dei prototipi che fungano da faro, mantenendoci ancorati al concetto che ciascuna persona, per quanto possa attraversare e sostare in tali mondi, conserva sfumature esistenziali tipiche e individuali, preziose e imprescindibili nella pratica clinica terapeutica.

Mondi psicopatologici è un volume prezioso e uno strumento di lavoro di grande spessore e fresca accessibilità, che apre ad un panorama teorico-clinico nuovo, differente seppur con tanti punti di contatto con l’approccio costruttivista, che aggiunge conoscenza e può permetterci di allargare – se accolto e integrato – i nostri orizzonti teorici e pratici.

 

 

La terapia EMDR in bambini e adolescenti con Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD): efficacia e follow-up

La letteratura mostra risultati efficaci in relazione al trattamento terapeutico con EMDR negli adulti, ma poche sono le ricerche effettuate sull’effetto nei bambini e negli adolescenti; tuttavia, gli studi svolti fino ad ora confermano la validità dell’EMDR nel trattamento del PTSD infantile.

 

I bambini, come gli adulti, possono fare esperienza di eventi traumatici nel corso della loro vita; questi eventi (abusi, guerre, incidenti e disastri naturali) possono causare lo sviluppo in età infantile o adolescenziale del Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD, Luthra et al., 2009). Gli effetti e le conseguenze che il PTSD può avere sulla vita sociale e psicologica del bambino sono devastanti e spesso è frequente la comorbilità con altri disturbi psicopatologici, quali ansia, depressione e disturbi della personalità. Alcuni dei sintomi caratteristici del PTSD nei bambini e adolescenti sono: flashback e incubi riguardanti l’evento traumatico, difficoltà nell’espressione delle emozioni ed evitamento di luoghi, persone o attività che ricordano l’evento; disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, iperattività, aumento dell’irritabilità e della rabbia (Foa, Keane, Friedman, & Cohen, 2008).

Possibili terapie per il trattamento del PTSD sono la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma (TF-CBT) e la terapia basata sulla desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari (EMDR). Nello specifico, la terapia EMDR si focalizza sul ricordo dell’esperienza traumatica ed è una metodologia che utilizza i movimenti oculari, o altre forme di stimolazione bilaterale alternata destra/sinistra, per trattare i disturbi legati direttamente ad esperienze traumatiche o particolarmente stressanti dal punto di vista emotivo. Dopo una o più sedute di EMDR, i ricordi disturbanti legati all’evento traumatico vanno incontro a una desensibilizzazione, perdono cioè la loro carica emotiva negativa e avviene un rapido cambiamento, una ristrutturazione cognitiva che permette di cambiare prospettiva, modificando la valutazione di sé e dell’evento e, di conseguenza, mettere in atto comportamenti più adattivi (Shapiro& Forrest, 2016).

La letteratura mostra risultati efficaci in relazione al trattamento terapeutico negli adulti, ma poche sono le ricerche effettuate sull’effetto nei bambini e degli adolescenti; tuttavia, gli studi svolti fino ad ora confermano la validità dell’EMDR nel trattamento del PTSD infantile, con percentuali superiori rispetto alla TF-CBT (Chen et al., 2018).

Lo scopo del presente studio è valutare se l’EMDR sia effettivamente una terapia efficace nel trattamento del PTSD e se influisce sui livelli d’ansia nei bambini e negli adolescenti. Più nello specifico, l’ipotesi è che l’EMDR riduca i sintomi della patologia, della depressione e dell’ansia nei bambini con PTSD dopo un follow-up di 6 settimane.

Il campione finale dei partecipanti era costituito da 30 soggetti con PTSD (20 ragazze e 10 ragazzi), di età compresa tra i 6 e i 18 anni. Gli strumenti utilizzati erano quattro questionari self-report, somministrati prima della terapia e sei settimane dopo la conclusione del trattamento terapeutico.

  • Demographics questionnaire: è un questionario utilizzato al fine di ottenere informazioni sociodemografiche sui partecipanti della ricerca (età, sesso, famiglia, storia psichiatrica, dati specifici sull’evento traumatico…).
  • Kiddle Schedule for Affective Disorders and Schizophrenia (K-SADS; Kaufman et al., 1997) per bambini e adolescenti: è un’intervista strutturata sviluppata per indagare la presenza di disturbi psichiatrici, attuali e passati, nei bambini e negli adolescenti.
  • Child post-traumatic stress reactionindex (PTSD-I; Pynoos et al., 1987): è un questionario composto da 20 item che valutano la gravità dei sintomi post-traumatici nei bambini e negli adolescenti che hanno fatto esperienza di eventi traumatici.
  • State-Trait Anxiety Inventory (STAI; Gaudry, Vagg, &Spielberger, 1975): è una misura sviluppata per determinare lo stato d’ansia e i livelli dei tratti d’ansia in contesti clinici e di ricerca. La scala è divisa in due parti: la prima parte misura l’attuale stato ansiogeno, mentre la seconda parte valuta i sentimenti generali d’ansia.

I risultati confermano l’ipotesi secondo cui l’EMDR sembra essere efficace per la risoluzione del trauma e, di conseguenza, allevia i sintomi d’ansia, depressione e stress in bambini e adolescenti con PTSD.

La ricerca non evidenzia nessuna differenza significativa tra il tipo di trauma (abusi, incidenti, catastrofi naturali…) e la risposta al trattamento; tuttavia, questi dati dovrebbero essere supportati anche da studi con campioni di dimensioni maggiori per poter essere generalizzati. Infine, il campione dei soggetti era costituito sia da coloro che utilizzano farmaci psicotropi e sia da coloro che non hanno utilizzato alcun farmaco durante la terapia: nell’analisi statistica, non è stata trovata nessuna differenza significativa tra i pazienti che hanno usato i farmaci e quelli che non lo hanno fatto, in termini di risposta al trattamento.

Un punto di forza del presente studio è che esso ha dimostrato un tasso minimo di abbandono, in quanto essendo l’EMDR una terapia più breve rispetto ad altre tipologie di terapie cognitive, la propensione a portarla a termine era maggiore. I limiti, invece, sono: la piccola dimensione del campione, l’assenza di un gruppo di controllo e la mancanza di misurazioni di follow-up. Pertanto, non è possibile fare deduzioni sugli effetti più a lungo termine dell’EMDR; un’altra limitazione è costituita dai fattori confondenti, come ad esempio il tipo di trauma e la frequenza del trauma. Infine, la mancanza di un’equa distribuzione dei sessi può essere considerata una limitazione, il numero di ragazze, infatti, era superiore a quello di ragazzi.

 

 

I bias cognitivi rivolti alle policy del nudging

Tradizionalmente, per indurre un cambiamento comportamentale a livello individuale e collettivo, la scatola degli attrezzi dei policy-makers è dotata in primis di divieti, obblighi, sussidi, sanzioni, tassazione, politica dei prezzi. Grazie alla sostituzione di tali attrezzi – in parte obsoleti e non più competitivi nel costo – con altri di nuova generazione, si sta implementando in modo crescente il nudging.

 

E’ una policy di soft power per scoraggiare un’azione o il consumo di un bene/servizio (demerit good) – ovvero incoraggiarne altri (merit goods); in più, è una policy low cost fondata sulla moral suasion. E in tempi di conti pubblici critici, tale requisito non è di poco momento.

La celeberrima immagine è quella dell’animale adulto che dà una piccola spinta al cucciolo per aiutarlo a superare un ostacolo o a buttarsi in un’esperienza che lo spaventa, ma che lo premia nel lungo periodo per la sua stessa sopravvivenza.

La teoria del nudge di Thaler (Nobel per l’Economia nel 2017) ha contribuito al consolidarsi dell’economia comportamentale e a utilizzarla nell’analisi e valutazione delle politiche pubbliche. La batteria di strumenti comprende: i bias cognitivi – tra cui il framing effect – e la moral suasion, che sopperiscono alla mancanza di volontà dell’individuo, spesso inducendolo a scelte miopi di appagamento immediato a scapito di quelle (più costose) lungimiranti di lungo periodo.

Numerosi paesi infatti sfruttano positivamente taluni errori sistematici, persuadendo e incoraggiando tramite piccole, ma efficaci ‘spinte gentili’ (nudging), i soggetti verso comportamenti virtuosi sul piano individuale e per la collettività.

Anche il settore privato (ad esempio nel marketing) si avvale del nudging con successo.

La fortuna dello sviluppo delle politiche di nudge è collegata essenzialmente ad almeno tre circostanze: i) l’idea che noi siamo ‘Uomini’ e non ‘Econi’ (Thaler, Sunstein): soggetti fallaci, che si confondono, si contraddicono, dimenticano, le cui previsioni sono per lo più imprecise e distorte. Niente a che fare con l’onniscente e ottimizzante homo oeconomicus (l’Econe); ii) nel 2010, in UK, viene costituita un’unità di ricerca, il Behavioural Insight Team, volta ad attuare, validare e adattare politiche pubbliche basate sul nudging; iii) Sunstein, professore alla Harvard Law School di Economia comportamentale (applicazione dei concetti di psicologia cognitiva alla comprensione delle decisioni economiche), viene nominato dal Presidente Obama capo dell’Ufficio dell’Informazione e delle Regole. Secondo la sua linea, un governo otterrebbe buoni risultati ‘sospingendo’, suggerendo, più che imponendo. Le regole devono diventare l’opzione naturale per una collettività che le sceglie in quanto ritenute migliori e senza che ciò pregiudichi le libertà di scelta.

La filosofia su cui si fonda tale policy è il ‘paternalismo libertario’ di Thaler e Sunstein. Benché libertarismo e paternalismo siano ossimori (Sunstein e Thaler, 2003b), gli autori del nudging, Thaler e Sunstein, creano un ponte tra queste due sponde (Sunstein e Thaler, 2003a): da un lato, ‘paternalisticamente’, si decide che una scelta o un comportamento sia migliore per i singoli e per la collettività – tutelare la salute fisica, l’ambiente, risparmiare per la pensione, ecc. – e dall’altra, non si introducono obblighi né divieti. Se da una parte si spingono le persone a preferire le scelte migliori per loro, allo stesso tempo si lasciano inalterate tutte le opzioni loro possibili (da cui l’aggettivo ‘libertario’). Una leggera spinta verso un comportamento più virtuoso a beneficio dell’individuo e della società può mai essere etichettato pregiudizievole della libertà individuale? Una leggera modifica dell’architettura della scelta, infatti, non è equiparabile a una limitazione della libertà: il soggetto è stimolato a imboccare pattern decisionali che altrimenti avrebbe ignorato per i naturali limiti della razionalità, soprattutto quando si trova a operare in condizioni di incertezza.

Il ragionamento è soggetto a confusioni, cantonate – la maggior parte delle quali rientrano nell’ampia categoria dei bias cognitivi e a naïves semplificazioni. Basti pensare al mental accounting, termine coniato da Thaler per indicare che nella mente non tutti i soldi sono uguali e, di conseguenza, vengono posti in appositi cassetti mentali che aiutano il soggetto a decidere su come allocarli (nel cassetto A si trovano quelli destinati al ménage familiare, in quello B all’istruzione dei figli, nel D vanno quelli per il tempo libero, nel cassetto E i risparmi che si accumulano nel tempo, ecc.).

Ma non è solo la razionalità a essere limitata; lo è anche la volontà, pure nella capacità di autocontrollo. Nelle scelte intertemporali, miopi sul breve periodo vs quelle ottimizzanti di lungo periodo, l’individuo è portato a cedere al canto delle Sirene piuttosto che a essere un pianificatore lungimirante che fa rotta verso la strada di casa (Elstern, 2005).

A tale mix di cedimenti sia nella razionalità sia nella volontà un supporto viene appunto dal nudging. Uno dei temi più cari alla teoria dei nudge è l’opzione di default. Tali opzioni costituiscono scelte predefinite che divengono effettive quando il decision-maker non intraprende azioni per cambiarle. Consiste, quindi, nell’abilità dell’architetto strutturare una situazione o una modalità di vendita di un prodotto/servizio perché l’individuo privilegi la situazione di base senza che senta la necessità di scegliere e fare cambiamenti (status quo bias). Sulla base di tale bias, la strategia degli individui è ‘scegliere di non scegliere’. La situazione attuale viene presa come punto di riferimento (focal point), e qualsiasi mutamento (opt-out) viene considerato una perdita (di varia natura: costi fisici, cognitivi, di tempo, emotivi, ecc.).

Johnson e Goldstein hanno osservato le percentuali di donatori di organi nei paesi europei, rispetto alla popolazione, enucleando due categorie di paesi: uno – che sembrerebbe molto generoso – dove la quasi totalità dei cittadini è donatrice e un secondo – apparentemente più egoista – in cui, invece, i valori sono molto più bassi. Gli studiosi sono arrivati alla conclusione che l’architettura di un programma di policy riesce a dirigere le scelte di massa a beneficio dell’intera collettività e a gratificare (attraverso il rilascio di dopamina) il singolo donatore, con l’atto del futuro dono. L’architettura della scelta diventa quindi dirimente per la sanità pubblica e per il numero di vite salvate tramite trapianto di organi.

L’opzione di default è l’opzione di partenza e, quindi, la modalità in cui la donazione degli organi è strutturata. Nel gruppo dei paesi con i tassi più alti (l’Austria con il 99% della popolazione), l’opzione di default è quella del silenzio-assenso per cui si è automaticamente donatori e, in vita, si può semmai esprimere la volontà di uscire dal programma (sistema opt-out).

Nei paesi con i tassi più bassi (come la Germania, con il 12 per cento), invece, l’opzione di default è non donare, a meno che in vita si decida di aderire al programma di donazione (sistema opt-in).

La libertà è garantita in entrambe le situazioni, ma il risultato, di fatto, dipende da quale è l’opzione di default. In entrambi i casi la popolazione si appiattisce allo status quo (status quo bias), e quindi al default bias (le persone replicano le scelte passate, si comportano allo stesso modo e vengono prese dalla pigrizia persino quando le circostanze richiederebbero un cambiamento). Si può allora sfruttare in maniera strategica la tendenza al default, avvalendosi dell’umana e generalizzata tendenza a evitare scelte impegnative e pensieri spiacevoli; a risparmiare energia, all’inerzia. Di fatto, quando sono indecise, le persone aderiscono a quanto fanno gli altri (effetto gregge) o, semplicemente, a non far nulla.

Istituti finanziari del nord Europa hanno impostato i clienti come investitori etici. Se qualcuno desidera sottoscrivere fondi non etici, deve firmare una specifica lettera. In pratica, puntano sulla pigrizia dell’utente.

Il Massachusetts General Hospital, per migliorare la salute dei propri dipendenti, ha usato due accorgimenti presso la mensa: evidenziare con un segnale tipo semaforo il livello di benessere dei cibi in vendita (verde per le insalate, rosso per gli hamburger); mettere ad altezza occhi i cibi più salutari e abbassare il junk food. In due anni, secondo i dati della ricerca, vi è stato un calo del 39% nel consumo di cibo spazzatura.

In UK le utilities di luce e gas hanno inviato ai clienti lettere con frasi del tipo: 9 persone su 10 nel tuo quartiere pagano la bolletta con regolarità; il consumo della tua abitazione è superiore alla media del tuo vicinato. La ricerca dimostra che chi ha ricevuto simili pungoli ha pagato più velocemente il debito e ridotto il consumo elettrico.

Anche in questi due ultimi esempi è bastato cambiare il frame per ottenere risultati efficaci.

Altro esempio di nudging è ispirato alla Fun Theory (something as simple as fun is the easiest way to change people’s behaviour for the better). Per il loro interesse – fare moto – si invoglia all’azione le persone, vincendo la loro naturale pigrizia, puntando sul divertimento. A Stoccolma, nella metropolitana di Odenplan, proprio accanto alla scala mobile, è stata creata una bellissima scala dove i gradini sono configurati e disegnati come la tastiera di un pianoforte e i gradini, calpestandoli, emettono ciascuno una nota di pianoforte (Piano Stairs).

Tuttavia, le contestazioni sulle politiche pubbliche basate sul nudging non hanno tardato: il conduttore tv ultraconservatore Glenn Beck ha etichettato Sunstein l’’uomo più pericoloso d’America’: i suoi ‘buoni consigli’ sono una limitazione delle libertà individuali. Sugden ha criticato l’uso del nudging per le politiche pubbliche perché in qualche modo avalla e sfrutta i bias stessi e le ‘cascate informative’, processi per cui le scelte errate compiute da alcuni in anticipo, inducono altri soggetti a trascurare le proprie informazioni e valutazioni in base all’ipotesi che coloro che hanno deciso per primi, erano consapevoli di cosa stessero facendo. Oppure, un individuo che decide in ritardo tenta di evitare le conseguenze sulla propria reputazione dovute a scelte contrastanti da quella modale. Si tratta insomma di un effetto gregge che amplifica e rende collettivi i bias cognitivi. Perciò, le politiche di nudging possono finanche amplificare gli errori cognitivi compiuti da altri, lavorando contro altre importanti politiche, tipicamente di debiasing. Il ‘paternalismo liberale’ – con i suoi escamotage – rischia di trasformarsi in un sottile metodo di controllo intrusivo – e persino manipolatorio – della sfera economica nella libertà del cittadino di decidere cosa sia davvero meglio per sé.

Forse, più che di ‘pungoli’, ci sarebbe bisogno di porre le persone nelle condizioni di scegliere consapevolmente, sollecitando quello che Kahneman definisce ‘pensiero lento’, ossia il sistema di pensiero riflessivo, intenzionale e logico, che secondo gli esperimenti verrebbe attivato quando l’individuo pone attenzione, le/gli vengono forniti più elementi di giudizio e tempo sufficiente per operare la scelta.

Al di là del dibattito sul ruolo della libertà del cittadino, l’applicazione e la diffusione del nudge costituiscono una innovazione forte di evidence based policy, cioè del ricorso a policy validate empiricamente con approcci rigorosi.

 

Dalla prima visita psichiatrica alla consultazione terapeutica bi-sistemica singola

Il processo duale (intuizione ed analisi) come fulcro della consultazione terapeutica bi-sistemica singola e della comprensione psicoanalitica secondo Theodor Reik.

Al presente articolo seguono altri due importanti contibuti dell’autore sul tema:
2 – Theodor Reik e la comprensione psicoanalitica
3 – Riflessioni meta-cognitive dello psichiatra psicoterapeuta sul metodo della consultazione terapeutica bi-sistemica singola: domande sistematiche, ‘skilled intuition’ e interpretazione precoce

 

 

Abstract

In questo lavoro affronto il processo duale (intuizione ed analisi) come fulcro della mia consultazione terapeutica bi-sistemica singola e della comprensione psicoanalitica secondo Theodor Reik. A tale idea di consultazione sono giunto dopo avere precedentemente trasformato la prima visita psichiatrica in una terapia a seduta singola. Spesso i pazienti vengono da noi una o due volte in tutto e quindi la prima visita deve essere già un atto terapeutico. La terapia va intesa come una consultazione in quanto deve anche stimolare le risorse auto-terapeutiche del paziente. Deve essere bi-sistemica in quanto, al tempo stesso, sistematico-analitica ed intuitiva. Anche Reik dà importanza all’intuizione congetturale ed alla successiva comprensione razionale del paziente, valorizzando la soggettività del terapeuta, la sua auto-osservazione interna e la sua ‘response’ globale al paziente. L’intuizione può essere ricercata non solo con le associazioni libere e l’attenzione liberamente fluttuante, ma anche con la ricerca sistematica del terapeuta. La dinamica interattiva tra i due attori, determinata anche dai numerosi cicli di domanda-risposta sempre più mirati, può portare all’intuizione esplicativa del caso.

Parole Chiave: prima visita psichiatrica, terapia a seduta singola, consultazione terapeutica bi-sistemica singola, processo duale, intuizione, unipatia, comprensione, Theodor Reik.

English abstract

In this paper I face dual-process (intuition and analysis) as the heart of my single bi-systemic therapeutic consultation and of Theodor Reik’s psychoanalytic comprehension. I arrived at such idea of consultation after previously transforming first psychiatric visit into a single session therapy. Often patients come to us once or twice at all, so first psychiatric visit has already to be a therapeutic act. Therapy must be intended as a consultation because it has also to stimulate patient’s self-healing resources. It has to be bi-systemic because, at the same time, systematic-analytic and intuitive. Also Reik gives importance to conjectural intuition and to next rational comprehension, appreciating therapist’s subjectivity, his inner self-observation and his global response to the patient. Intuition can be found not only by free associations and free floating attention, but also by a therapist’s systematic research. The interactive dynamic between the two actors, also caused by several cycles of question-answer always more targeted, can bring to the explicative intuition of the case.

Key Words: first psychiatric visit, single session therapy, single bi-systemic therapeutic consultation, dual-process, intuition, unipathy, comprehension, Theodor Reik.

Introduzione

Nel 2007 applicai il modello manageriale della Qualità Totale ad un’ipotesi riorganizzativa del Dipartimento di Salute Mentale che tendesse all’eccellenza, partendo da un cambiamento radicale della prima visita psichiatrica (Gherardi, 2007). In un mio articolo del 2014, ho poi proposto di trasformare la prima visita psichiatrica tradizionale (PVP) in una terapia a seduta singola (TSS) e, successivamente, in una consultazione terapeutica bi-sistemica singola (CTBS), in quanto i pazienti vengono spesso da noi una o due volte in tutto e quindi, la prima visita deve essere già un atto terapeutico. Nel 1985 partecipai ad una ricerca presso il servizio psichiatrico territoriale di Imola sugli autodimessi di quell’anno (8,6 %) (Gallo, et al. 1988). La maggioranza di tali autodimessi (2 su 3) erano rappresentati da prime visite, che interrompevano il rapporto alle prime consultazioni in quasi la metà dei casi (il 47,7 % dopo 1-3 consultazioni). Nel corso del 2011, il 28,5 % delle mie prime visite psichiatriche private ha avuto con me solo un incontro, l’11,4 % due in tutto. Nel 2012 tali percentuali sono lievemente diminuite, rispettivamente al 26,4 % e all’8 %. In sintesi, nella libera professione psichiatrica, circa un paziente su quattro viene da noi una volta in tutto (Gherardi, 2014).

La terapia va intesa come una consultazione, perché è finalizzata anche a stimolare le risorse auto-terapeutiche del paziente. E’ bi-sistemica in quanto, al tempo stesso, è sistematico-analitica ed intuitiva nelle modalità d’indagine e di cura (teoria del processo duale). Il terapeuta infatti usa, contemporaneamente, la parte conscia ed inconscia della propria mente, per comprendere e curare. In modo particolare, utilizza l’intuizione dell’inconscio, una forma di intelligenza propria dei suoi strati più superficiali, la logica del processo primario. La CTBS è quindi una forma di consultazione terapeutica anche intuitiva in quanto, come sostiene Jung (1921), chi intuisce carica anche l’oggetto intuito di un influsso inconscio. Non si possono infatti separare le forme epistemologiche di comprensione dell’altro e di se stessi dalle forme conseguenti di terapia. Rimando il lettore allo splendido articolo di Mauro Fornaro sulla validità epistemologica dell’intuizione nella clinica psicoterapeutica (2011). Comunque, non sempre abbiamo bisogno di utilizzare la nostra intuizione per comprendere pienamente il paziente durante la prima visita. Spesso bastano infatti le nostre abilità sistematico-analitiche.

Recentemente ho partecipato ad uno studio osservazionale prospettico sui processi cognitivi diagnostici in medicina generale, da cui è emerso come i medici di medicina generale usino strategie diagnostiche ‘miste’, ma prevalentemente quelle ultrarapide e rapide, più intuitive, rispetto a quelle lente, più analitiche, per fare diagnosi (Ehrlich, S. et al. 2018). Ho poi utilizzato la stessa scheda sui processi cognitivi diagnostici utilizzati dal medico di famiglia con le mie prime visite psichiatriche private del 2018 e del primo semestre 2019. In tali 18 mesi ho utilizzato l’intuizione pura ‘solo’ in circa 3 pazienti su 10 (nel 32,5 % delle donne e nel 32,7 % degli uomini) e prevalentemente un’intuizione di tipo cognitivo, piuttosto che il ‘gut feeling’. Come dice infatti Reik, la verità è come una donna che non può essere sempre conquistata nello stesso modo e l’essenza della tecnica psicoanalitica è il raggiungimento e la chiarificazione della verità interiore del paziente (Reik, 1948).

Nel mio lavoro del 2014 avevo anche considerato il concetto bioniano di ‘mente binoculare intuitiva’ nell’osservazione non sensoriale del paziente (Bion, 1970). Per Bion risulta fondamentale, a tal fine, l’assenza di memoria, comprensione e desiderio e, secondo lui, anche l’apparato sensoriale può essere d’intralcio all’intuizione psicoanalitica in seduta.

L’osservazione psicoanalitica non riguarda le impressioni sensoriali e gli oggetti percepibili attraverso i sensi. La consapevolezza dei concomitanti sensoriali dell’esperienza emotiva è un impedimento all’intuizione della realtà da parte dello psicoanalista.

Anche per un operatore che, come me, valorizza molto le abilità intuitive del terapeuta, tali affermazioni mi sono sembrate eccessive e mi hanno stimolato ancora di più a riflettere su che cosa consista veramente il processo intuitivo nella sua essenza. Ho perciò attentamente studiato un libro di Duccio Sacchi del 2010 sul pensiero di Theodor Reik riguardo all’ascolto ed alla comprensione psicoanalitica (Reik, 1935 & 1948). Reik nacque a Vienna nel 1888 e morì a New York nel 1969. Psicologo, psicoanalista, fu allievo e amico di Freud. Ritenendo che Reik sia riuscito tanti decenni fa (il 1935 ed il 1948 sono gli anni della prima pubblicazione dei suoi due libri sull’ascolto e sulla comprensione psicoanalitica, da me tradotti dall’inglese e sintetizzati nel presente lavoro) ad avvicinarsi al ‘nocciolo’ dell’intuizione e quindi alla vera comprensione del paziente, ho deciso di scrivere il presente contributo per vedere la CTBS alla luce del suo pensiero illuminante, al fine di un ulteriore chiarimento, evoluzione e potenziamento di tale strategia terapeutica. Come psicologo psicoanalista, Reik è riuscito, con concetti psicoanalitici, ad essere antesignano del modello cognitivo del processo duale (ragionamento intuitivo ed analitico), oggi largamente accettato per la sua validità epistemologica ed empirica (Kahneman, 2011).

Ovviamente, non ci sono ancora in letteratura internazionale studi di efficacia sulla CTBS, in quanto rappresenta un mio modello di intervento molto specifico, da me ancora sottoposto ad ulteriore elaborazione ed indagato per ora parzialmente sotto il profilo diagnostico, coi primi risultati riportati in sintesi precedentemente nel presente lavoro. Per quanto attiene all’efficacia della TSS, da cui deriva il mio metodo, rimando il lettore ai dati abbastanza aggiornati riportati nel libro sulla TSS di Cannistrà e Piccirilli (2018). La TSS tende a massimizzare l’efficacia terapeutica del singolo incontro rispetto a quello tradizionale. Sarebbe interessante condurre in futuro uno studio di comparazione tra TSS e CTBS per vedere se quest’ultima riesce a massimizzare ulteriormente l’efficacia della TSS.

Dalla prima visita psichiatrica alla consultazione terapeutica bi-sistemica singola

Non possiamo più ritenere la PVP come riservata esclusivamente al processo valutativo, diagnostico e di impostazione di un piano terapeutico, ma come un atto terapeutico. Per passare dalla PVP alla TSS ed infine alla CTBS, sono transitato attraverso la Psicoterapia a Seduta Singola (PSS) di Moshe Talmon, ritenuta la forma più breve di psicoterapia, ma non una forma di psicoterapia breve (Talmon, 1990). Per l’analisi della letteratura a riguardo, rimando il lettore ad un mio articolo del 2008. La PSS è un intervento molto più vicino ad una tecnica ‘open-ended’ che ad una psicoterapia breve, perché, in realtà, né il terapeuta né il paziente sanno all’inizio della seduta quale sarà la durata della cura, anche se si erano accordati precedentemente di vedersi una volta in tutto. Dopo la PSS, il terapeuta deve lasciare la porta aperta al paziente, che lo può ricontattare in caso di bisogno. Talmon si propone di ottenere il massimo, sfruttando l’opportunità del primo incontro. Convoglia le risorse del paziente verso la guarigione naturale, scegliendo il metodo meno intrusivo e meno restrittivo, aiutandolo ad aiutarsi da sé, nella cornice del continuo processo di cambiamento tipico dell’uomo. Tale approccio è proposto a pazienti e terapeuti che sono disponibili e motivati a prendersi cura fin dall’inizio del problema. Può utilizzare varie tecniche terapeutiche, purché l’approccio sia adattato alla singola persona, senza costringerla dentro un rigido modello teorico. Solo così infatti l’individuo si sentirà veramente ascoltato e compreso. Considerare tale seduta completa in sé stessa, olistica, terapeutica fin dall’inizio e come se fosse l’ultima, è l’atteggiamento mentale fondamentale.

La consultazione terapeutica bi-sistemica singola

Deve essere sistematico-analitica e, al tempo stesso, intuitiva. E’ un’esperienza di co-pilotaggio, con il terapeuta con le sue competenze ed il paziente con le sue capacità attuali e potenziali di auto-terapia. Il terapeuta deve anche usare il suo inconscio per intuire il paziente e quindi, aiutarlo ad auto-intuirsi per potersi veramente auto-curare. Sull’intuizione rimando il lettore a due mie rassegne della letteratura, dove avevo sviluppato un’idea di terapia intuitiva in psichiatria e psicoterapia (2009 e 2011). In linea con il modello bi-sistemico della mente proposto da Kahneman (due processi di pensiero: il sistema 1, veloce, automatico, intuitivo; il sistema 2, lento, logico e riflessivo) (Kahneman, 2011), ho proposto il modello bi-sistemico della CTBS, al tempo stesso clinico e psicologico, diagnostico e terapeutico, sistematico-analitico ed intuitivo, ovvero conscio ed inconscio. Per rivelare il paziente a se stesso. Con questa forma di intersoggettività primaria, con questo ‘intelligere’ (saper collegare, connettere) inconscio, riusciamo in meno tempo e più facilmente a cogliere l’essenza del paziente e a formulare e ad adottare terapeuticamente un’ipotesi esplicativa profonda.

 

Insonnia: il metodo semplice per (ri)addormentarsi in 7 minuti (2019), di E. Rolla – Recensione del libro.

Insonnia approfondisce temi di grande importanza per la popolazione generale: il sonno e l’insonnia. Enrico Rolla ha affrontato queste questioni in modo chiaro, completo e professionale, realizzando un manuale per i non addetti ai lavori interessati, ma anche un valido riferimento per il professionista che opera per il benessere della persona.

 

 “L’insonnia è un male che affligge quasi dieci milioni di italiani nella sua forma cronica e il 45% della popolazione nella sua forma transitoria”, per non tralasciare il numero di persone che presenta questo problema antecedentemente, in seguito o congiuntamente ad altre forme di disagio psichico (depressione e disturbi d’ansia) e di coloro che pensano di aver risolto il problema delegando ad un farmaco, il quale con il trascorrere del tempo, diminuisce i suoi effetti terapeutici aumentandone quelli negativi.

In questo scenario Insonnia, rappresenta una valida risorsa e risposta a tale problema.

Poter addormentarsi quando si è stanchi e poter deporre un peso che si è portato per tanto tempo, è una delizia, è un fatto meraviglioso.  (Hermann Hesse)

Nel suo ultimo lavoro il grande Prof. Enrico Rolla, ha affrontato e approfondito un tema centrale per la salute della popolazione generale e lo ha fatto in modo chiaro, completo e professionale realizzando un manuale contenente utili consigli per i non addetti ai lavori interessati al tema, ma anche un valido riferimento per il professionista che opera per il benessere della persona.

Insonnia infatti, partendo da un’ampia panoramica su cosa sia il sonno, le sue fasi e gli studi in merito alla quantità di sonno necessaria per età, prosegue illustrando cosa intendiamo per insonnia, quali sono i diversi tipi di insonnia e i fattori causali, entrando poi nel vivo della Terapia Cognitivo Comportamentale per il trattamento dell’insonnia e dei protocolli validati dalle scienze.

Enrico Rolla, all’interno del suo lavoro, ci mostra come procede un intervento terapeutico in tal senso. Dopo un’attenta fase valutativa e di monitoraggio, grazia ad esempio ai questionari e al Diario del sonno che sono contenuti all’interno del testo, si passa all’approfondimento e la spiegazione del programma di trattamento nelle sue varie fasi:

  1. Fase educativa dove vengono fornite spiegazioni sul sonno, igiene del sonno, problematiche relative alla sua mancanza e  relativi programmi di intervento.
  2. L’utilizzo del diario del sonno in cui annotare le ore di sonno, la qualità, il tempo impiegato per addormentarsi la sera e quello per riaddormentarsi quando ci si sveglia di notte.
  3. Valutare la presenza di eventuali disturbi d’ansia o depressione.
  4. Valutare il resoconto storico dell’insonnia, misurando l’efficienza del sonno tramite diario del sonno e relative schede presenti nel testo.
  5. Utilizzare questionari per misurare la gravità dell’insonnia e approfondire atteggiamenti che la persona attua nei confronti del sonno.
  6. Valutare la presenza di comportamenti e abitudini che possono peggiorare il problema.
  7. Individuare le credenze disfunzionali sul sonno, gli sforzi che il soggetto mette in atto per riaddormentarsi, ecc
  8. Insegnare una buona igiene del sonno.
  9. Monitorare i risultati che solitamente si ottengono in poche settimane (4-5).

All’interno del libro vengono inoltre approfondite tecniche come il rilassamento muscolare progressivo, la respirazione diaframmatica o profonda, l’ipnosi e l’autoipnosi, e il valore aggiunto viene rappresentato dalla disponibilità di poterle mettere in pratica grazie alla presenza di file audio che diventano un valido aiuto al training.

Si parla ancora di altre interessanti tecniche come il controllo dello stimolo, la terapia della restrizione del sonno e le tecniche paradossali.

Essere un buon dormitore, in fondo, significa soltanto non pensare al sonno. (Enrico Rolla)

Non viene tralasciato l’aspetto cognitivo tra gli obiettivi del lavoro in studio e tra gli interventi illustrati, all’interno di Insonnia l’attenzione viene posta anche al riconoscere e individuare gli errori di pensiero che i pazienti sviluppano in riferimento al sonno e la relativa assenza dello stesso. Come evidenzia l’autore infatti, non è raro sentire in studio pazienti che riferiscono di aver sviluppato problematiche con il sonno e relativa insonnia proprio a seguito di singoli episodi, i quali sono stati vissuti in maniera catastrofica e con un atteggiamento particolarmente ansioso. Non mancano persone che si impongono di andare a dormire in maniera rigida ad una certa ora, di dover dormire un certo numero di ore o persone che si approcciano al sonno con un atteggiamento profetico “di colui/colei che sa già che passerà un’altra notte insonne…”, predisponendosi in una condizione della profezia che si autoavvera (effetto Pigmalione).

Ma non si può non pensare di aver paura di non dormire. Cosa fare allora? Anche in questo caso Enrico Rolla spiega come  si possa intervenire con tecniche e strategie terapeutiche, trasformando le aspettative (da catastrofiche) a risultati (efficaci ed efficienti). Ne sono esempio l’appuntamento giornaliero con le proprie preoccupazioni, dove la persona dovrà pensare volontariamente, per l’appunto, alle proprie preoccupazioni per un tempo stabilito.

Concluderei riportando alcuni consigli che l’autore ci offre:

  1. Andare a letto quando si ha veramente sonno.
  2. Fare in modo che la camera da letto sia in un posto tranquillo e lontano da fonti luminose.
  3. Dedicare il letto solo al sonno, al sesso e nient’altro.
  4. Limitare il tempo dedicato a guardare uno schermo luminoso prima di andare a letto, come tv, tablet e cellulari.
  5. Seguire delle routine della buona notte, (ad esempio preparando una tisana, leggendo un buon libro, meditando, …).
  6. Limitare i sonnellini pomeridiani.
  7. Mantenere delle accortezze rispetto a ciò che si mangia durante i pasti serali.
  8. Evitare l’assunzione di alcol, caffeina, fumo nelle ore serali in quanto sostanze eccitanti.
  9. Se ci si sveglia durante la notte, non rimanere più di 15-20 minuti a letto, ma alzarsi e cambiare stanza e riprovare a tornare a letto non appena si percepirà nuovamente sonno.

Un libro ricco di informazioni, materiale pronto all’uso, grafici, illustrazioni, file audio e, dunque, non soltanto un ricettario, ma un vero strumento alla portata di tutti e, come lo stesso autore suggerisce, “con l’esercizio, tutti possono diventare “normali o buoni dormitori” e finalmente raccontare che l’insonnia non è più un problema”.

 

Nascono prima le emozioni negative o la metacognizione?

Matthews e Wells hanno ipotizzato nel loro modello che le credenze metacognitive potrebbero precedere l’insorgenza di emozioni negative e disfunzionali. Uno studio ha cercato di esplorare questa eventualità.

 

Secondo il Self-Regulatory Function Model (S-REF), le emozioni negative sono influenzate da determinate credenze metacognitive che inducono l’individuo a reagire allo stress in maniera disfunzionale (Matthews& Wells, 1994). Rimane però una questione aperta se esista un rapporto di causalità tra fattori metacognitivi e sintomi emotivi presenti nei disturbi psicologici.

Secondo il S-REF, così come formulato da Matthews e Wells (1994), le credenze metacognitive dovrebbero precedere temporalmente l’insorgere di emozioni negative e disfunzionali. Il S-REF, inoltre, ipotizza che la sofferenza psicologica sia associata a uno stile di pensiero definito Cognitive Attentional Syndrome (CAS), che rappresenta uno stato di pensiero negativo e ripetitivo (come la ruminazione e il rimuginio) che intensifica le risposte emotive dell’individuo (Wells, 2009).

Per indagare il rapporto causa-effetto che intercorre tra metacognizione ed emozioni negative, in particolare quelle presenti nei disturbi d’ansia e depressivi, gli autori del presente studio (Capobianco et al., 2019) hanno analizzato due campioni statistici composti 265 soggetti.

Sono stati somministrati l’Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS) e il Meta-cognitions Questionnaire 30 (MCQ-30) per tre volte in un periodo di 2 mesi.

Lo studio è stato condotto utilizzando lo Structural equation modeling (SEM), un modello in grado di individuare le relazioni di causalità presente tra due o più variabili (Berrington et al., 2006).

I risultati hanno mostrato che, per quanto riguarda i sintomi emotivi dei disturbi d’ansia piuttosto che per quelli depressivi, le credenze metacognitive potrebbero esserne un predittore affidabile. In questo caso, infatti, sarebbero proprio le metacognizioni a precedere l’insorgere di emozioni negative. Tuttavia, l’effetto osservato dell’ansia sulle credenze metacognitive esperite dagli individui, ha suggerito una notevole reciprocità nelle relazioni causali e temporali coerente con i presupposti teorici del modello S-REF. I risultati, nel caso dei sintomi emotivi della depressione, al contrario, non hanno mostrato relazioni causali e temporali significative (Capobianco et al., 2019).

 

La terapia con le fiabe

Nel variegato panorama delle psicoterapie si sta facendo spazio, già da qualche anno, la pratica della fiaba terapia, ovvero la cura dei disagi psicologici attuata mediante la produzione, l’interpretazione, il racconto e la drammatizzazione di episodi attingenti al mondo fiabesco.

 

 La fiaba terapia è una modalità terapeutica che stimola direttamente l’attività fantasmatica del soggetto, tanto adulto quanto bambino, consentendo l’insorgenza di una fase regressiva che lo conduce indietro, ad un tempo passato, fino alla rievocazione di un conflitto traumatico precedentemente vissuto e non rielaborato. La funzione catartica della fiaba fa leva sui suoi connotati fortemente simbolici, grazie ai quali è possibile elaborare contenuti inconsci senza ricorrere al meccanismo della rimozione; rivivere situazioni negative, stemperate da un clima rassicurante e protettivo garantito dal lieto fine, una sorta di compensazione dall’impotenza infantile, grazie alla quale il soggetto può tornare a regolare i propri moti psichici, così come gli eventi della sua vita, munito di energia e determinazione in vista di finalità adattive.

Alla stregua del mito e della leggenda, la fiaba è caratterizzata dal contenuto simbolico: ed è proprio questa sua peculiarità intrinseca a renderla una terapia di elezione soprattutto con i bambini, nel cui universo psichico proprio il ricorso al simbolo garantisce un accesso privilegiato.

Nel paziente infantile l’inesplorabilità tipica del conflitto inconscio risulta infatti amplificata da contesti emotivi immaturi, deficit di verbalizzazione e differenziazione dalla realtà: si rivela pertanto indispensabile l’utilizzo di terapie che, pur conservando le caratteristiche proprie della psicoanalisi, siano in grado di superarne le limitazioni evidenziate.

In questo senso l’utilizzo della fantasia costituisce una valida modalità di accesso al contenuto inconscio del bambino. Nello specifico la trama fiabesca dipinge un mito che il bambino può esplorare in via del tutto immaginativa e questo gli consente di far riaffiorare il materiale inconscio non elaborato e di ottenere la visione integrata di un’esperienza frammentaria, non risolta e quindi patologica (Sordano, 2006). Inoltre l’immaginario costituisce un campo esplorativo illimitato delle possibili esperienze vitali, a mezzo del quale il bambino può sperimentare percorsi e adottare soluzioni senza le compromissioni irreversibili proprie dell’approccio realistico (Santagostino, 2006; Von Franz, 1972; Valente, 1995).

L’elemento magico dello strumento fiabesco consente la rielaborazione della realtà traumatica e conflittuale tramite una serie di passaggi simbolici che costituiscono l’intreccio formale tipico della fiaba, ovvero la perdita di un membro della famiglia e l’allontanamento dell’eroe da casa (evento modificante), l’imposizione di un divieto all’eroe e una sua infrazione (trasgressione), la comparsa di un antagonista (aggressore) che ha il compito di ostacolare il recupero dell’equilibrio iniziale attraverso una serie di trappole e malefici, l’intervento di un personaggio magico grazie al quale l’eroe otterrà la sconfitta del malvagio e guadagnerà la salvezza (Propp, 1928).

Questo canovaccio si ripete nella fiaba come un filo conduttore immutabile grazie al quale la realtà psichica del bambino viene ridotta ad una serie di modelli operativi simbolici che le caratteristiche dei personaggi – più che altro simili ad archetipi- riescono a rispecchiare fedelmente: così l’eroe rappresenta il Sé inteso come totalità psicofisica del bambino, ma anche l’Io che riesce a mantenere un dialogo con i conflitti interni, l’antagonista incarna il nemico, il cattivo, l’ostacolo alla realizzazione del Sé, mentre l’alleato è l’amico che viene in soccorso dell’eroe e lo aiuta a sconfiggere il male.

Tale fissità di ruoli ricalca la stereotipia delle figure familiari e consente di rielaborare il rapporto conflittuale che il bambino ha con ognuna di esse. La strega rappresenta un femminile potenzialmente distruttivo nel cui ritratto è possibile intravedere le caratteristiche di una madre intrusiva che il bambino avverte come minacciosa carceriera del Sé. Ella tiene prigioniero l’eroe oppure avvelena la principessa costringendola ad un sonno eterno: dunque il pericolo non è tanto il divoramento o la distruzione quanto la condanna all’immobilizzazione e la liberazione dal sortilegio dell’eroe simboleggia in questo senso l’affrancamento del bambino dal corpo materno (Santagostino, 2006).

Il mostro può spesso rappresentare una figura genitoriale distruttiva e indistruttibile, capace di rigenerarsi e presentarsi sotto mille forme diverse, sfuggendo ad ogni possibile controllo. In questo senso il genitore appare come un caos indistinto in cui convivono bene e male, possibilità di salvezza e distruzione: una figura mostruosa tipica della fase uroborica in cui il bambino si sente prigioniero della madre e invischiato con lei in un tutto indifferenziato (Neumann, 1980).

Al contrario le fate costituiscono l’idealizzato positivo della madre: sono il seno buono, l’oggetto materno che protegge e difende dal pericolo. Il ruolo della fata è anche quello di conferire poteri attivi ai protagonisti restituendo libertà, forza e coraggio: ella concede senza chiedere nulla in cambio, rappresenta un femminile simbolico che non abbandona l’eroe nel momento del pericolo e lo aiuta senza legarlo a sé (Santagostino, 2006; Von Franz, 1972).

La figura della vecchietta, la cui conformazione estetica potrebbe simboleggiare una bruttezza anche interiore, si pone in uno stadio intermedio tra l’archetipo della strega cattiva e la bontà della fata salvifica identificabile con l’archetipo della madre buona. Ella non offre all’eroe la liberazione, ma comparendo all’improvviso sul suo cammino lo aiuta a liberarsi dai malefici e a guadagnare la salvezza. Questo potrebbe rappresentare il senso metaforico di un passaggio tra la considerazione negativa e quella positiva della madre, una sorta di oggetto transizionale grazie al quale il bambino può sviluppare e reintroiettare una visione materna meno persecutoria (Santagostino, 2006; Von Franz, 1972).

 Storie presentate da bambini affetti da disturbi disorganizzati si concludono negativamente, lasciando intravedere la convinzione dell’impossibilità di salvezza in situazioni dolorose. Molto spesso si tratta di storie in cui l’aggressività verso il genitore viene simbolizzata nella presenza di figura nefaste che avranno la meglio sui buoni. Al contrario i bambini ansiosi tendono ad applicare all’eroe la medesima immobilità che caratterizza il loro contesto emotivo, perennemente alla ricerca di una salvezza concedibile solo da un’entità superiore che tuttavia non arriva o non arriva mai in tempo. Il bambino ansioso è passivo, insicuro, preoccupato, e si mostra diffidente anche verso la magia che nelle sue storie non assume un ruolo salvifico.

Anche nei bambini aggressivi sono i cattivi ad avere la meglio, ma se questo costituisce un epilogo funesto per i piccoli pazienti affetti da disturbi dell’umore, al contrario per questi altri si tratta di un lieto fine: è con gioia che bambini caratterizzati da personalità oppositive elaborano mentalmente la distruzione del buono appannaggio del malvagio, a testimonianza di un’aggressività endogena che nella fiaba si slatentizza in via simbolica (Sordano, 2006).

È a questo punto che giunge l’intervento terapeutico della fiabazione: il bambino, dopo aver inventato una storia e averla esposta al conduttore, sotto la guida di quest’ultimo sarà chiamato alla risoluzione della stessa; e non dovrà farlo avvalendosi dell’elemento magico in cui ogni cosa torna a posto per mano di una volontà inconoscibile e soprannaturale, ma dovrà trovare da solo soluzione nuove e creative in grado di liberare l’eroe (Propp, 1928).

Nella fiaba di Hansel e Gretel, ad esempio, la salvezza non proviene dall’intervento magico, ma dall’astuzia dei due fratelli che riescono a far finire nel pentolone la strega cattiva che voleva divorarli (White, 2015). Nella fiaba dei tre porcellini l’elemento salvifico viene individuato nel legame raggiunto dai tre fratellini che si alleano per far finire nella pentola di olio bollente il lupo cattivo: alleanza che simboleggia altresì la conclusione della rivalità fraterna per l’accesso alle risorse genitoriali, accompagnata dal naturale passaggio dall’infanzia all’adolescenza in cui gli investimenti affettivi trasmigrano da un legame esclusivamente verticale- bambino genitore- ad uno orizzontale- legame tra pari (Sordano, 2006).

Quando l’eroe riesce a raggiungere la salvezza grazie alle sue doti di astuzia e maestria egli si trasforma da salvato in salvatore, e ciò consente l’acquisizione di competenze, autostima e sicurezza necessarie alla strutturazione funzionale del Sé. In questo contesto anche il senso di colpa potrà trovare una risoluzione interiore e l’aggressività verrà sublimata, neutralizzata, resa inerme di fronte alla costruttività interiore (Sordano, 2006; Kaes, 1993).

Molto spesso il raggiungimento di una dimensione evolutiva viene agevolato dall’utilizzo della fiaba all’interno di contesti collettivi: il bambino racconta la sua storia di fronte a un gruppo di pari guidati da un conduttore il cui compito è quello di contenere la sua angoscia, fare da specchio al suo disagio, aiutarlo ad assumere nuovi punti di vista e nuove prospettive. La parola nel gruppo ha il potere di aprire prospettive inconsce e insondabili, senza contare che i ragazzi, trovandosi insieme in un unico contesto, sperimentano una velleità relazionale che li pone in una dimensione collaborativa. Tutti vogliono aiutare l’eroe a salvarsi dal maligno e ciascuno offre il proprio contributo perché ciò possa avvenire.

Così i componenti del gruppo imparano a pensare alla relazione più che al singolo personaggio e la trama della fiaba diviene lo strumento per favorire una comunicazione inconscia tra i partecipanti e costruire un confronto tra i modelli dell’Io e le molteplici possibilità di essere del Sé (Sordano, 2006). Man mano che la struttura gruppale acquisterà relazione e coesione interna l’emergere di strutture grafiche o narrative sarà sempre meno collegato all’intenzionalità cosciente del singolo e farà maggior riferimento al registro del corpo e dell’immaginario collettivo, mostrandosi in grado di attuare un decentramento dal Sé e dai temi ricorrenti della propria storia per divenire parte di una nuova matrice relazionale (Sordano, 2006; Neri, 1996).

 

La scoperta dell’intelligenza. Alfred Binet e la storia del primo test (2019) di E. Cicciola – Recensione del libro

La scoperta dell’intelligenza racconta i contributi di Binet, i cui meriti storici sono legati soprattutto alla fondazione dell’Année Psychologique, la prima rivista francese interamente dedicata alla psicologia scientifica e al test di intelligenza messo a punto, pubblicato come Scala metrica dell’intelligenza.

 

Il nome di Binet è (o dovrebbe essere) noto a tutti gli studenti e i cultori di psicologia come quello dell’autore del primo test di intelligenza infantile (la scala di Binet o scala di Binet-Simon). Tuttavia, Alfred Binet (nato Alfredo Binetti) non è certo stato oggetto di una mole di studi monografici minimamente proporzionale alla sua importanza storica. Si tratta peraltro di un destino che lo accomuna a tutti i numerosi grandi personaggi della psicologia, della psichiatria e della psicoterapia francesi di fine Ottocento. Una storiografia incentrata sul mondo anglosassone e su quello germanofono ha posto a lungo in secondo piano tanto Binet quanto personaggi come Théodule Ribot (l’iniziatore della psicologia scientifica francese), Paul Dubois (che inventò una psicoterapia di tipo cognitivista cinquant’anni prima di Albert Ellis), Hippolyte Bernheim (che praticò una psicoterapia ipno-suggestiva, influenzando gli inizi della psicoanalisi). Addirittura Pierre Janet, il vero padre della psicoterapia moderna, tuttora attende una vera e propria rivalutazione; mentre Jean-Martin Charcot viene ricordato spesso solo perché occasione della svolta decisiva degli interessi del giovane Freud.

Di fatto, questa monografia di Elisabetta Cicciola è la prima dedicata integralmente a Binet, e non solo, in lingua italiana e fortunatamente colma la lacuna in modo più che adeguato. Restituisce infatti dello psicologo francese un’immagine articolata, un ruolo storico più ampio di quello – pur fondamentale – di iniziatore degli studi per la costruzione dei test di intelligenza.

Ciò che in senso assoluto caratterizzò il percorso teorico di Binet fu essenzialmente un solido ancoraggio empirico-sperimentale: sue espressioni tipiche erano: l’anima della psicologia sperimentale è il controllo; piccoli fatti raccolti di prima mano; il futuro della psicologia è nei piccoli fatti. L’esperimento, tuttavia, aveva senso in quanto si caratterizzava per la misurazione, secondo Binet:

Lo scopo della scienza è considerare ogni fenomeno come una grandezza e applicare una misura a questa grandezza. Ogni scienza progredisce più o meno rapidamente verso questo ideale matematico.

I suoi interessi furono estremamente vari. La psychologie du raisonnement (La psicologia del ragionamento, 1886) si inseriva nella tradizione francese di ispirazione associazionista dei Taine e dei Ribot (che negli stessi anni pubblicava monografie sulla memoria, la volontà e l’attenzione). Etude de psychologie expérimentale (Studio di psicologia sperimentale, 1888) aveva un titolo piuttosto vago (e che risentiva ancora dell’accezione ribotiana di sperimentale semplicemente come non-filosofico; cfr. Innamorati, 2005) ma conteneva spunti diversi e interessanti, compresa una sezione sul feticismo, che peraltro è disponibile anche tradotta in italiano (Binet, 2005). On Double Consciousness (Sulla doppia coscienza/personalità, 1890) e Les altérations de la personnalité (Le alterazioni della personalità, 1892) si concentravano sulla personalità multipla e altri temi studiati all’epoca sia da Ribot che da Pierre Janet, che da poco aveva pubblicato L’automatismo psicologico (Janet, 1889), vero punto di svolta del suo pensiero in psicopatologia.

Tuttavia già si vedeva nelle nuove opere di Binet un certo distanziamento dalla tradizione associazionista che aveva segnato i suoi esordi. Nel 1891, del resto, Binet aveva iniziato un’attività sperimentale vera e propria nel primo laboratorio di psicologia fisiologica francese all’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, diretto dal 1899 da Henri Beaunis. Binet, dapprima volontario, ne divenne condirettore nel 1892 e poi direttore unico, al posto di Beaunis, a partire dal 1894. Proprio nel 1894 uscivano La psychologie des grands calculateurs (La psicologia delle persone dotate dei grandi calcolatori) e Introduction à la psychologie expérimentale (Introduzione alla psicologia sperimentale), nei quali Binet esponeva tra l’altro le proprie ricerche sugli individui dotati di eccezionali capacità di memoria e di calcolo. In effetti, sottolinea Cicciola, nella tradizione di ricerca tedesca le ricerche esperimentali volgevano unicamente su individui normali (tanto che sperimentatore e soggetto sperimentale, spesso ambedue studenti universitari, potevano sovente scambiarsi il ruolo); al contrario Binet condusse studi anche sui giocatori di scacchi, i grandi calcolatori, i prestigiatori, gli attori, i drammaturghi, i pittori, gli artisti e gli alienati. I ‘soggetti sperimentali’ di Binet appartenevano dunque a un’ampia gamma di individui a volte ‘ordinari’ e altre volte invece ‘straordinari’ (p. 65).

Sempre a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, Binet iniziava a occuparsi di psicologia infantile e pedagogia. I primi frutti di questo nuovo impegno furono La fatigue intellectuelle (La fatica intellettuale, 1899), in cui Binet raccoglieva i propri risultati empirici sull’influenza del lavoro mentale sull’affaticamento anche fisico; La suggestibilité (La suggestionabilità, 1900), dedicato alla psicologia della testimonianza infantile. Uno studio che anticipava singolarmente Jean Piaget fu L’étude expérimentale de l’intelligence (Lo studio sperimentale dell’intelligenza, 1903), dove Binet raccoglieva i frutti di ricerche longitudinali sullo sviluppo intellettuale delle figlie. Scrive al riguardo Cicciola:

La metodologia utilizzata fu ampia e incrociata allo scopo di ottenere un controllo significativo […] Non erano rari inoltre i momenti in cui egli arrivava perfino a ingannare i soggetti sperimentali pur di ottenere delle risposte autentiche. Binet fu in tal senso un vero ‘affabulatore’, arrivando spesso a svelare il ‘vero’ tramite l’imbroglio(p. 52).

Ma Binet non finì mai di ampliare il proprio eclettico orizzonte: in L’âme et le corps (L’anima e il corpo, 1905) oltre agli studi sperimentali confluivano considerazioni di ordine filosofico sui rapporti tra fisico e mentale; in Les révélations de l’écriture d’après un control scientifique (Le rivelazioni della scrittura sulla base di un controllo scientifico, 1906), Binet esponeva invece le proprie ricerche nell’ambito della grafologia, disciplina che, nata in Francia con Jean-Hippolyte Michon, aveva ricevuto un forte impulso grazie alla pubblicazione, nel 1888, di La scrittura e il carattere, di Jules Crépieux-Jamin (che diventò famoso per la perizia con cui dimostrò l’innocenza di Dreyfus, l’ufficiale ebreo ingiustamente accusato di tradimento).

Ma i meriti storici di Binet sono legati soprattutto alla fondazione (con Beaunis) dell’Année Psychologique, la prima rivista francese interamente dedicata alla psicologia scientifica, tuttora in vita; e al test di intelligenza messo a punto con Simon nel 1904 e pubblicato per la prima volta proprio sull’Année Psychologique nel 1905, come Scala metrica dell’intelligenza. Il test nasceva dalla necessità (soprattutto a un fine pedagogico) di uscire dalla vaghezza della terminologia messa a punto dagli alienisti per classificare un’intelligenza anormale, soprattutto nei bambini. All’epoca si distingueva tra ‘idioti’, ‘imbecilli’ e ‘deboli mentali’ (in ordine decrescente di gravità) ma nessun criterio preciso consentiva una distinzione sensata e condivisa tra diversi periti. Binet e Simon realizzarono un metodo di diagnosi differenziale in grado di fissare il livello intellettivo dei bambini arretrati, confrontandolo con quello dei bambini della stessa età o con un livello analogo (p. 163).

La scala comprendeva nella sua versione originale trenta brevissime prove di difficoltà crescente, finalizzate a classificare la capacità dei bambini di giudicare, comprendere, ragionare, le tre modalità di espressione dell’intelligenza secondo Binet e Simon. Il test conobbe due revisioni, nel 1908 e nel 1911 (l’ultima versione fu firmata soltanto da Binet, per ragioni storicamente non chiarite). Già dalla seconda versione, tuttavia, la Scala assumeva l’aspetto di un vero e proprio test, nel senso moderno, e soprattutto la misura non aveva più come riferimento il rapporto tra normalità e anormalità ma si basava sul concetto di ‘età mentale’:

Gli autori decisero di assegnare a ogni prova un ‘livello di età’, definito come l’età più giovane alla quale un bambino di intelligenza normale dovrebbe essere in grado di completare il compito con successo. Il bambino iniziava il test con compiti per l’età più giovane e procedeva finché non era più in grado di completarli. L’età associata con gli ultimi compiti che poteva affrontare corrispondeva alla sua ‘età mentale’ e il livello intellettivo generale era calcolato sottraendo l’età mentale dalla reale età cronologica (p. 181).

La scala venne a questo punto adattata anche per l’età adulta e Binet previde giustamente le sue grandi potenzialità applicative anche in ambito giudiziario e militare. In effetti, una versione adattata del test venne utilizzata già durante la Prima guerra mondiale negli Stati Uniti, rendendo assai più efficiente l’operazione di reclutamento. Fu questo a risultare poi l’impulso decisivo nelle ricerche testologiche sull’intelligenza.

Il dono nella cultura ebraica: la fiducia e la speranza nell’attesa

L’ebraismo è un sistema di vita in cui tutti i momenti sono vissuti sul piano religioso. Non vi è, infatti, nessuna distinzione tra religione e cultura ebraica poiché quest’ultima più che essere una ortodossia è una ortoprassi ovvero un sistema di codici etici e sociali scritti nelle tavole della legge.

 

D’altronde, l’ebraismo nasce con l’esodo dall’Egitto nel momento in cui Dio dona le tavole della legge a Mosè. La Torà è composta da cinque libri (il pentateuco) frutto del dono profetico ricevuto da Mosè che in contatto mistico con Dio li compilò. Il primo libro tratta della genesi dell’universo e dell’uomo, i quali sono un dono di Dio. In effetti, il legame tra Dio e il mondo è contraddistinto dal dono gratuito senza nessun tipo di ricompensa.

Tale relazione contraddistingue la cultura ebraica da tutte le altre culture ovvero il donare non presuppone nessuna ricompensa o ricambio. Ciò che Dio si aspetta è l’assoluta ubbidienza soprattutto da parte dell’uomo che ha creato a sua immagine e somiglianza e lo mette subito alla prova nel giardino dell’eden ponendolo di fronte all’albero della conoscenza, del bene e del male. L’uomo sceglie il dono del male rappresentato dal serpente e ciò comporta la sua caduta dall’Eden.

Ecco il dono malefico, ingannevole, velenoso come frutto del male che, nella cultura ebraica, si contrappone al bene che risiede in Dio. Contrapposizione che non riguarda Dio poiché egli precede il male essendo il creatore di tutte le cose compreso il male personificato da Satana. D’altronde è il serpente creato da Dio che offre la mela ad Eva.

Il dono di Dio, quindi, è un dono buono mentre può essere velenoso quello che viene da Satana e dallo scambio tra gli uomini. Un’altra caratteristica del dono di Dio è che esso prevede la rinuncia. Eva dovrebbe rinunciare alla bella mela offerta dal serpente, Adamo dovrebbe rinunciare all’offerta di Eva così come Abramo deve rinunciare alla sua casa, alla sua terra, a suo figlio di fronte all’offerta di Dio. Se l’uomo saprà rinunciare così come ha fatto Abramo potrà entrare in stretto contatto con Dio, potrà fare legame con Dio. Abramo rinuncia alla sua casa, alla sua terra, a suo figlio per dare compimento al progetto di Dio e riceve in dono una nuova casa, una nuova terra, una nuova generazione che per la sua età non avrebbe potuto più avere.

Mosè, il grande condottiero, scelto per portare il popolo ebreo dall’Egitto nella terra promessa, deve rinunciare ed è costretto a guardare da lontano la terra d’Israele. Il popolo liberato nel deserto deve rinunciare al vitello d’oro per avere le tavole della legge. Chi non rinuncia, Caino, è costretto ad errare nel deserto, a vivere in assenza di legami anche se guadagna la vita. Ecco il segreto: si deve rinunciare per guadagnare. Gli uomini che non intendono rinunciare cadono dalla torre, costruiscono su pilastri precari poiché la vera forza sono i legami.

Nel Libro dei Numeri viene descritta la pena a cui sono sottoposti coloro che non hanno saputo rinunciare costruendo il vitello d’oro. Essi sono costretti a girovagare nel deserto per 40 anni e molti di loro non vedranno la terra promessa. Ida Magli sostiene che il rito della circoncisione comporta la perdita di una parte che assomiglia ad una parte femminile. Il rituale della circoncisione che serve a stabilire il patto con Dio, indipendentemente dal giudizio della Magli, comporta la rinuncia ad una parte del prepuzio e sul piano simbolico sembra richiamare la rinuncia necessaria per stabilire il legame con Dio. La circoncisione, inoltre, deve essere praticata inesorabilmente l’ottavo giorno dopo la nascita e il numero 8, secondo la tradizione ebraica, richiama simbolicamente ciò che va oltre il naturale. Il maschio attraverso la circoncisione va oltre il naturale avvicinandosi a Dio contribuendo a perfezionare la natura.

Dio, spesso, nell’Antico Testamento viene visto come iroso, vendicativo, irascibile, etc. Al contrario, nella Torà si hanno molteplici esempi del perdono di Dio. Perdona Adamo ed Eva, andandoci a parlare subito dopo la caduta, perdona Abramo restituendogli il figlio Isacco, perdona l’umanità durante il diluvio universale salvando Noè e tutte le specie animali e vegetali, perdona Mosè per aver rotto le tavole della legge facendogli vedere la terra promessa, e cosi via. Essendo l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, Giuseppe perdona i suoi fratelli che lo avevano venduto agli egiziani. Il termine perdono letteralmente significa donare completamente la vendetta e, quindi, è un dono rafforzato. Nella concezione ebraica è il dono di Dio per non rompere il legame con l’uomo e, di conseguenza, è il dono da offrire anche per fare legame tra gli uomini.

V. Pavoncello ipotizza che si ravvisa nella creazione stessa, nel suo continuo essere creata, un atto di grazia e un incessante perdonare e, quindi, si può immaginare un Dio perdonante nella sua essenza creatrice. Chiaramente se vi è il perdono, deve esserci un preesistente stato di colpa, che egli individua nei primi istanti della creazione nel momento in cui nelle cose create vi era una mancanza di essenza, ovvero di presenza di Dio che si librava solamente nelle acque. E’ per farsi perdonare questa mancata presenza che ritorna sulla Terra popolandola di tutte le specie animali e vegetali, e dividendo le acque dona l’asciutto.

Anche in questo caso il perdonare comporta la rinuncia ovvero rinunciare al senso di onnipotenza e scoprire le proprie imperfezioni. E’ quello che mette in atto Giuda, fratello di Giuseppe, che si offre al posto del fratello Beniamino come ostaggio sentendosi in colpa per il rapimento e la vendita. Pavoncello, nel cercare di confermare l’assenza dalla Terra, mette in risalto il valore dell’acqua, intrisa della presenza di Dio, nella cultura ebraica.

Il dono dell’acqua è l’essenza purificatrice: tutti i riti di purificazione avvengono attraverso l’acqua. I pozzi contenenti il dono prezioso dell’acqua sono i luoghi dell’incontro dove nascono anche nuovi amori, ma oltre a liberarci dall’arsura possono anche avvelenarci mettendo in rilevo che il dono ha un doppio effetto liberatorio o nefasto. Dio si serve dell’acqua per purificare ma anche per punire come nel diluvio universale.

Un’altra caratteristica del dono nella cultura ebraica è l’attesa di un evento che dovrà avvenire in un tempo non definito. L’attesa messianica, ovvero di un tempo in cui l’agnello potrà tranquillamente convivere con il lupo, può essere definita come la fiducia trascendentale che la speranza non sarà delusa.

Adorno sostiene che il pathos del dono stia tutto nell’attesa. La cultura ebraica ha riempito e continua a riempire questo vuoto con la fiducia e la speranza che saranno contraccambiati da Dio. A. Luzzato avverte che l’errare degli ebrei in cerca della terra promessa è legato, da un lato, alla colpa per aver tradito il giuramento ai piedi del monte Sinai e, dall’altro, alla fiducia e alla speranza che la dispersione finirà in un tempo di restaurazione che sarà contraddistinto da giustizia e pace. O. Di Grazia sostiene che la fiducia e la speranza legate all’attesa risiedano non tanto in quello che dovrà avvenire ma in ciò che è avvenuto. E’ il legame tra Dio e l’uomo, che troviamo sin dal primo rigo della Genesi, che infonde fiducia e speranza. Il vuoto dell’attesa, quindi, si riempie con ciò che viene trasmesso dalle generazioni precedenti che giustifica la speranza e la fiducia. Di Grazia nel suo articolo si chiede quando l’attesa finirà che cosa succederà, si esaurirà la speranza come forza redentrice? A questa domanda risponde no perché la speranza e la fiducia risiedono nel legame con l’altro ovvero nel rispetto dei dettami della Torà.

Fiducia e speranza sostengono la relazione, ed essendo quest’ultima predeterminata come sostiene Cigoli, sta alle generazioni passate trasmetterle. Il dono, l’atto del donare, trova la necessaria linfa nella fiducia e nella speranza che si esplica nei passaggi generazionali. Scabini e Cigoli ne Il famigliare sostengono che

il dono è inteso come espressione di un atto fiduciario; all’origine di un nuovo legame vi è un open gift, un’apertura di credito che, se ricambiata con un altro dono, che è in genere non equivalente, ma migliore, dà luogo a una relazione sociale – ed ancora – il dono ….. è una caratteristica del legame incondizionato: il legame familiare si alimenta di azioni che prestano fiducia all’altro ed ha alla sua origine un quid gratuito.

La famiglia, una comunità, vive nella misura in cui può sperimentare il tempo dell’attesa che si riempie delle azioni tipiche dell’atto del donare così come individuate da Mauss dare, ricevere, ricambiare. Il tempo dell’attesa è un tempo psicologico che se riempito dalla fiducia e dalla speranza porta benefici come la costituzione del legame sociale e relazionale; al contrario, la mancanza di fiducia e speranza comportano la morte della relazione e/o la patologia.

Un brillante esempio letterario c’è lo dà Elizabeth Jane Howard ne Il tempo dell’attesa nel momento in cui fa dire alle piccole Clary e Polly:

Il fatto è che se una madre perde un bambino può sempre averne un altro, ma di madre invece ognuno ne ha una soltanto.

Dalla biografia dell’autrice sappiamo che da piccola le era morta la mamma e che il padre era dedito alle belle donne e addirittura molestò la stessa figlia (dono avvelenato trasmesso dalle generazioni precedenti). La Howard si sposò giovanissima per scappare dal padre e ben presto lasciò sia il marito che la figlia nata dal matrimonio. Da quel momento ebbe molti uomini e mariti. Il dono avvelenato proveniente dalle generazioni precedenti non dà fiducia e speranza nelle relazioni sia di carattere coniugale che genitoriale. La vita apparentemente dissoluta della Howard trova spiegazione proprio nel dono avvelenato ricevuto.

S. Parise, a tal proposito, mette in risalto che per Freud il senso dell’attesa ovvero il tempo psicologico è legato alla fuga dal dispiacere:

… tanto piu frustrante è il momento che si vive, tanto più lunga e I’attesa della sua fine. Al contrario, il tempo sembra fermarsi nell’attimo in cui il desiderio trova il suo oggetto.

M. M. Khan sostiene:

Attendere fa parte della natura dell’uomo. Da tempo immemorabile l’uomo attende qualcuno, o con devozione attende a qualcuno: una divinità, un dio, una persona amata (…). Gli enigmi e i paradossi dell’attesa sono fra le creazioni più nobili della mente e dell’animo dell’uomo. Tutti coloro che hanno intrapreso grandi viaggi negoziano l’attesa (…). L’attesa è l’esperienza cruciale di chiunque cerchi di costruirsi i propri strumenti per sperimentare se stesso e gli altri. L’attesa, la lunga attesa, può essere salute e può essere malattia. Colui che attende trova. La non-attesa garantisce la non-scoperta….

Penelope nella sua lunga attesa non perse mai la fiducia e la speranza di ritrovare il suo amato marito Ulisse. Il senso dell’attesa, quindi, sono la fiducia e la speranza, che trova i suoi riscontri all’interno delle trasmissioni generazionali.

 

Leggere previene la demenza?

La demenza è un deterioramento cognitivo globale che presenta caratteristiche di progressività e irreversibilità, l’eziopatogenesi è organica.

 

Per fare diagnosi di demenza ci dev’essere un calo delle funzioni cognitive rispetto ad un precedente livello di funzionamento; si stima che il 5% dei soggetti con età superiore ai 65 anni soffra di demenza, l’incidenza sembra aumentare sempre di più negli anni, si stima infatti che nel 2030 i casi di demenza saranno il doppio rispetto ad adesso, questo perché la longevità aumenta sempre di più, e più si avanza con l’età più la probabilità di avere una demenza aumenta (Prince et al., 2013).

Una delle classificazioni eziologiche principali è costituita da demenze primarie e demenze secondarie.

Le demenze primarie sono tutte quelle demenze di tipo degenerativo di cui non è nota l’eziopatogenesi. La demenza primaria più frequente è la malattia di Alzheimer, in questo caso si sa cosa accade a livello cerebrale, cioè la formazione di placche amiloidi e ammassi neuro-fibrillari, tuttavia è sconosciuto il motivo per cui vengano a formarsi.

Le demenze secondarie sono quadri di degenerazione cognitiva dove le cause eziologiche sono identificabili; sono infatti alterazioni date da condizioni neurologiche, metaboliche ed endocrine. Un esempio di questa tipologia di demenza è la demenza vascolare (danni cerebrali dati da ictus).

I fattori di rischio attualmente associati alla demenza sono sette: diabete, ipertensione, obesità, fumo di sigarette, depressione, inattività cognitiva e basso livello di istruzione (Lewis at al., 2016).

Uno studio longitudinale della durata di 17 anni, pubblicato nel 2019 sulla rivista Neurology, è stato condotto su 983 adulti (avevano tutti più di 65 anni), suddivisi in istruiti, ovvero tutti coloro che avevano più di quattro anni di scolarità (746 individui), e in analfabeti, ovvero tutti coloro con meno di 4 anni di scolarità (237 soggetti); i risultati di questo studio mostrano che le persone analfabete, quindi che non sanno o che hanno scarse abilità nel leggere o nello scrivere, hanno una probabilità tre volte superiore di sviluppare una demenza primaria; inoltre gli effetti dell’analfabetismo sembrano essere diversi per genere, difatti le donne analfabete mostrano più rischio di sviluppare una demenza rispetto agli uomini; la degenerazione cognitiva sembra essere più lenta, una volta iniziata, negli individui con molti anni di scolarità, tuttavia quest’ultimo è un dato controverso, dato che studi diversi, hanno trovato risultati differenti.

Pare quindi che una continua stimolazione cognitiva attraverso la lettura e lo studio, possa giovare ed agire come uno dei fattori protettivi nei confronti delle demenze primarie (Renteria et al., 2019).

Fitspiration: non è tutto oro quello che luccica

L’immagine corporea è un costrutto multidimensionale, caratterizzato dall’insieme di percezioni e valutazioni dell’individuo in merito al proprio aspetto fisico. Per molto tempo si è assistito alla promozione di ideali estetici irrealistici, sopratutto legati all’estrema magrezza, ma negli ultimi anni questa tendenza si sta invertendo, virando dalla thinspiration alla fitspiration. Ma questi trend sono davvero così diversi?

Alice Nannini – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva Firenze

 

Introduzione

L’immagine corporea è stata inizialmente definita da Schilder come l’immagine del proprio corpo nella mente, il modo in cui questa appare a se stessi (Schilder, 1935). È una rappresentazione soggettiva che possiede una componente percettiva (come la persona percepisce e valuta la forma del proprio corpo), affettiva (quali sentimenti nutre verso il proprio corpo), attitudinale (a livello cognitivo, cosa pensa e conosce del proprio corpo) e comportamentale (Slade, 1994) e che comprende la persona nella sua globalità. Tale costrutto multidimensionale risulta quindi rilevante, poiché caratterizzato dall’insieme di percezioni e valutazioni dell’individuo in merito al proprio aspetto fisico (Cash & Pruzinsky, 2002).

Alla base dell’immagine corporea occorre distinguere due elementi: “body image evaluation”, ossia la soddisfazione o insoddisfazione per il proprio aspetto riconducibile al livello di concordanza o discrepanza tra percezione del fisico e ideali estetici interiorizzati, e “body image investiment”, inteso come l’importanza psicologica attribuita al proprio aspetto. Tale investimento può avvenire secondo due modalità: la salienza motivazionale (valore dato alla cura di sè per apparire al meglio o aumentare la propria capacità di attrazione) e la salienza dell’autovalutazione (motivo per cui la persona giudica il proprio aspetto come parte integrante del senso di sé o del valore attribuito al sé) (Cash, Melnyk & Hrabosky, 2004). La costruzione dell’immagine corporea deriva da un insieme di fattori biologici, psicologici e socio-culturali e riveste un ruolo fondamentale in adolescenza, un periodo critico connotato da sfide continue da fronteggiare e cambiamenti fisici evidenti che rendono necessario ridefinire e ri-mentalizzare il corpo e la sua rappresentazione. Proprio in età adolescenziale si assiste ad un incremento dell’insoddisfazione corporea, prodotta dalla scontentezza per la forma generale del proprio corpo o la dimensione di parti di esso (Thompson, Heinberg, Altabe & Tantleff-Dunn, 1999) e che appare strettamente implicata nell’eziologia e nel mantenimento dei disturbi alimentari (Attie & Brooks-Gunn, 1989; Polivy & Herman, 2002; Stice & Shaw, 2002) e di comportamenti alimentari problematici, come la tendenza a seguire diete dimagranti (Huon, Lim, Walton, Hayne, &  Gunewardene, 2000).

Secondo il Modello Tripartito dell’Influenza, proposto da Thompson e colleghi (1999), esistono tre fattori che incidono sullo sviluppo dei problemi correlati ad una percezione negativa del proprio corpo e ai disturbi alimentari: i pari, i genitori e i mass media. L’influenza di queste variabili socioculturali è mediata da due processi: l’interiorizzazione dell’ideale di bellezza proposto dalla società e la tendenza al confronto sociale. (Thompson et al., 1999; Keery, Van Den Berg & Thompson, 2004; Nerini, Stefanile & Mercurio, 2009). Il primo si riferisce all’accettazione e incorporazione degli standard trasmessi dai media che divengono principi e norme in grado di guidare il comportamento (Cafri, Yamamiya, Brannick  & Thompson, 2005; Cash, 2005). Il secondo processo è alla base della Teoria del confronto sociale di Festinger (1954), per cui le persone tendono continuamente a valutare le proprie capacità e caratteristiche mediante il confronto con gli altri e ciò può avvenire con una modalità “downward” (verso il basso), se il paragone avviene con persone ritenute più sfortunate sotto certi aspetti, o ”upward” (verso l’alto), se si verifica con individui percepiti come socialmente migliori. Quest’ultima tipologia è quella che può produrre effetti negativi sull’umore e sull’autovalutazione (Gibbons & Gerard, 1989; Wheeler & Miyake, 1992). Inoltre, è emerso che l’internalizzazione degli ideali mediatici precede e predice il confronto sociale, che a sua volta determina sentimenti negativi e insoddisfazione corporea (Rodgers, McLean & Paxton, 2015): i media continuano a veicolare e promuovere determinati canoni estetici che sono in un primo momento interiorizzati e assorbiti e in seguito trasmessi e rinforzati dalle interazioni sociali, diventando il canale primario di auto ed etero valutazione ed esercitando pressioni sia sul livello di soddisfazione corporea che sul comportamento (Stefanile, Pisani, Matera & Guiderdoni, 2010).

In passato, e soprattutto a partire dagli anni ’90, tv, riviste e giornali hanno supportato l’ideale di magrezza (thin ideal beauty) quale simbolo di status sociale, capace di incarnare potere, determinazione, successo e avvenenza. L’epoca dei corpi “perfetti” ma irrealistici, fisici androgini, scheletrici e stereotipati. I soggetti più vulnerabili a queste influenze sono proprio i giovani (Brown & Whiterspoon,2002): alcuni studi hanno dimostrato che una breve esposizione a immagini di donne magre incrementa l’insoddisfazione corporea ed emozioni negative (Botta, 1996; Anschutz, Engels, Becker & Van Strien, 2010), mentre un’esposizione prolungata risulta direttamente correlata ad ansia, umore depresso, disturbi alimentari, bassa autostima, dipendenza da esercizio fisico (Stice & Whitenton, 2002). Le immagini mediatiche rendono normativo il thin ideal beauty e propongono continuamente corpi oggettivati sessualmente. Come specificato da Volpato (2011), la persona è ridotta a mero oggetto sessuale quando il suo valore è confinato alla capacità di attrarre sessualmente, visto come puro strumento del volere e piacere altrui; ciò può condurre all’auto-oggettivazione, per cui si interiorizza la prospettiva dell’altro (pensando e trattando se stessi come oggetto del desiderio altrui) e si giunge ad una costante sorveglianza del corpo in grado di indurre stati d’ansia e di diminuire la consapevolezza degli stati interni (Fredrickson e Roberts, 1997). Il focus è posto unicamente su attributi corporei osservabili, limitando le risorse cognitive e incidendo su interessi e prestazioni.

Con l’avvento di internet, e in seguito dei social media, l’influenza sull’immagine corporea si è ulteriormente ampliata e modificata. Viviamo costantemente connessi e l’uso dei social è ormai parte integrante della quotidianità, soprattutto per adolescenti e giovani adulti (Kuss & Griffiths, 2011), soddisfando il bisogno di appartenenza alla comunità e consentendo la costruzione di un’identità sociale (Marino et al., 2016). A differenza di altri media, tali piattaforme mostrano una natura prettamente attiva e interattiva e riflettono valori, desideri e preoccupazioni degli utenti (Fuchs, 2017). Gli aspetti positivi legati all’opportunità di possedere uno spazio online in cui scambiarsi informazioni, creare e mantenere relazioni, esprimere se stessi e accrescere le conoscenze sul mondo circostante, non devono però distogliere l’attenzione dai potenziali rischi e pericoli derivanti dall’utilizzo dei social media, in particolare dall’impatto che questi hanno sulla salute psicofisica. Diverse ricerche sperimentali si sono occupate della relazione tra uso dei social, immagine corporea e disturbi alimentari (Holland & Tiggermann, 2016), mostrando come a mediare l’associazione tra social media e insoddisfazione corporea sia il confronto basato sull’aspetto fisico (Fardouly & Vartanian, 2015; Fardouly, Pinkus & Vartanian, 2017).

Blog Pro-Ana e Thinspiration

A partire dalla fine degli anni ’90 negli Stati Uniti, e dai primi anni del 2000 in Italia, si è assistito all’emergere di forum e blog “Pro-Ana” (a favore dell’anoressia) che incitano all’estrema magrezza, al perfezionismo, al sacrificio e controllo alimentare e consentono lo scambio di informazioni e trucchi (“tips and tricks”) su come perdere peso. Nello specifico, la filosofia pro-ana è considerata un vero e proprio stile di vita per i suoi seguaci e permette la creazione di un’identità di gruppo, divenendo fonte di supporto e condivisione sociale. È stato dimostrato che la partecipazione di persone non affette da un disturbo alimentare a questi siti web è associata ad un’alta spinta alla magrezza, perfezionismo e insoddisfazione corporea (Custers & Van der Bulck, 2009), oltre che bassa autostima (Bardone-Cone & Grass, 2007); mentre in coloro che già manifestano problematiche alimentari può aggravare la sintomatologia, correlando con stress, emotività negativa, maggiore lunghezza dei ricoveri, prognosi meno favorevole, impatto negativo su insoddisfazione corporea e dieta (Gale, Channon, Larner & James, 2016; Rodgers, Lowy, Halperin & Franko, 2016).

Uno dei termini frequentemente rintracciabili visitando questi siti è “thinspo”, abbreviazione della parola inglese “thinspiration”, composto da “thin”, magro, e “inspiration”, ispirazione: nato inizialmente per superare la pressione mediatica legata ai Pro-ana (con siti chiusi e oscurati da diversi paesi europei), gli hashtag #thinspiration e #thinspo si sono presto diffusi sui social, dove si ritrovano migliaia e migliaia di immagini che celebrano la magrezza come valore assoluto ed esaltano corpi emaciati. I contenuti tipici della Thinspiration, glorificando la restrizione calorica estrema, mantengono atteggiamenti e comportamenti orientati al thin ideal beauty (Ghaznavi & Taylor, 2015; Talbot, Gavin, van Steen & Morey, 2017) e sostengono le credenze tipiche della psicopatologia dei disturbi alimentari. In seguito alla crescente preoccupazione e all’allarme dovuto a tali temi, alcuni social hanno cercato di arginare il problema: Instagram, piattaforma incentrata sull’immagine e sul photo-sharing (condivisione di foto), che spopola tra i giovani under 35, già dal 2012 ha messo al bando molteplici hashtag incriminati. Nonostante questo, le community continuano a riorganizzarsi e ad arginare i divieti, creando nuovi account e nuove etichette con varianti lessicali e proseguendo così la diffusione della filosofia Pro-Ana.

Fitspiration

Accanto al proliferare dei siti web Pro-ED (Pro-Eating Disorders, a favore dei disturbi alimentari, che oltre ai Pro-Ana includono anche i Pro-Mia, a favore della bulimia) si sono affermati i cosiddetti “Healthy living blog”, dedicati alla vita sana, che attraverso informazioni su nutrizione ed esercizio fisico si propongono di migliorare la salute delle persone. Gli argomenti trattati da questi blog, pur non riguardando in maniera palese comportamenti patologici e disfunzionali, sono risultati potenzialmente dannosi per coloro che già hanno problematiche col cibo e con l’immagine corporea (Boepple & Thompson, 2014; Lynch, 2010).

Su Internet e soprattutto sui social media è nato un nuovo trend, con contenuti simili agli Healthy living blog, che ha acquisito in breve tempo notevole popolarità: la “Fitspiration”, dalla fusione di Fit e Ispiration, letteralmente ispirazione al fitness. Ad ottobre 2017 sono state condivise ben 48 milioni di immagini su Instagram usando l’hashtag Fitspo, abbreviazione di Fitspiration. Ha cominciato a diffondersi un nuovo ideale di bellezza, come dimostrato dalle innumerevoli foto accompagnate da messaggi e didascalie che ritraggono corpi tonici, atletici, forti (Boepple, Ata, Rum & Thompson, 2016; Boepple & Thompson, 2016). Più precisamente, sotto questo termine sono racchiusi due tipi di ideali, quello atletico (fisico asciutto, bassa percentuale di grasso e aspetto tonico) e quello muscoloso (con gambe e braccia ben definite, addominali evidenti e massa muscolare predominante).

È possibile evidenziare come quest’inversione di tendenza da thin a fit, tipica degli ultimi anni, possa essere riconducibile a due aspetti socioculturali: il primo che concerne un rafforzamento nella valutazione positiva di un fisico femminile relativamente muscoloso, con corpi scolpiti considerati sempre più attraenti e desiderabili (Rodgers et al., 2018), e il secondo che riguarda un incremento delle preoccupazioni da parte della popolazione maschile per il proprio aspetto fisico e in particolare per il livello di muscolosità, osservabile negli alti tassi di utilizzo di steroidi anabolizzanti androgeni (Sagoe, Molde, Andreassen, Torsheim & Pallesen, 2014).

Il focus apertamente dichiarato sul fitness, che l’European Health & Fitness Association (EHFA) definisce come: “stato dinamico di benessere fisico, psicologico e sociale, risultante dalla pratica di un’attività motoria adeguata alle capacità, possibilità ed esigenze-preferenze di ciascun individuo che assume la responsabilità della propria salute”, non deve però trarre in inganno. Gli account Fitspiration, che imperversano sul web e propongono uno stile di vita salutare attraverso l’esercizio fisico e la corretta alimentazione, nascondono infatti numerose insidie. Boepple e Thompson (2016) hanno comparato i contenuti relativi ai siti di Thinspiration con quelli provenienti dai siti Fitspiration e hanno evidenziato che, sebbene i primi fossero maggiormente correlati alla perdita di peso e all’impulso alla magrezza, entrambi (rispettivamente 88% e 80%) presentavano messaggi colpevolizzanti sul peso o sul corpo e stigmatizzanti verso il sovrappeso, termini oggettivanti e suggerimenti per diete ipocaloriche e restrizione alimentare.

Analogamente, Alberga e colleghe (2018) hanno analizzato 360 post di Fitspiration e Thinspiration su Instagram, Tumblr e Twitter, rintracciando diverse similitudini, con immagini focalizzate per entrambi su aspetto fisico e apparenza, foto sessualmente allusive e messaggi che incoraggiavano a ridurre l’introito calorico. Sono stati anche confrontate 734 immagini, di cui 269 relative a Thinspiration, 189 a Fitspiration e 276 a Bonespiration (corpi magrissimi e ossa sporgenti) su tre piattaforme, Instagram, Twitter e We Heart It: nonostante i contenuti Fitspiration presentassero generalmente corpi più muscolosi, un sottogruppo di immagini era simile a quelle Thinspiration nell’evidenziare clavicole, costole e colonna vertebrale, enfatizzando l’ideale della magrezza (Talbot et al., 2017). Un esperimento condotto su 130 studentesse universitarie, di età compresa tra 17 e 30 anni, ha rilevato che l’esposizione a immagini Fitspiration incrementa l’insoddisfazione corporea, l’umore negativo e il bisogno di praticare esercizio fisico e mangiar sano (Tiggerman & Zaccardo, 2015).

Eppure alcuni studi hanno rimarcato delle differenze principali tra Thinspiration e Fitspiration. Harris e colleghi (2016) hanno trovato che su Twitter i messaggi Thinspo riguardavano maggiormente tematiche di perdita di peso, purging, binging, disturbi alimentari e il desiderio di possedere una certa caratteristica o tipo di corpo, mentre quelli Fitspo erano più inclini a includere alimentazione sana, esercizio fisico e forza. Inoltre, mentre i mittenti della fitspiration erano soprattutto aziende e organizzazioni, quelli thinspiration riguardavano soprattutto i contenuti di singole persone. Un’altra analisi, eseguita sempre su Twitter, ha mostrato come i contenuti Fitspiration abbiano principalmente una valenza positiva (Tiggermann, Churches, Mitchell & Brown, 2018).

Carrotte e colleghe (2017) hanno invece indagato le caratteristiche dei contenuti Fitspo su Instagram, Facebook, Twitter e Tumblr, trovando che, su 415 post esaminati ben 295 erano relativi solo a fitness ed esercizi, e in particolare le donne apparivano tipicamente magre e toniche, mentre gli uomini muscolosi. Emerge una sovra rappresentazione di un certo tipo di ideale corporeo a cui sono soggetti entrambi i sessi, che combina il fitness con magrezza o muscolosità, suggerendo come si possa essere adeguati solo in un determinato modo (Tiggermann & Zaccardo, 2016). Un’altra ricerca si è occupata di esaminare la natura di immagini e testi presenti sui post Fitspiration (Deighton-Smith & Bell, 2018): dall’analisi di contenuto su 1000 immagini di Instagram, è emerso che gli individui erano tipicamente rappresentati in modi sessualmente oggettivanti, incoraggiando così l’auto-oggettivazione; mentre dall’analisi dei testi su 400 immagini sono stati identificati alcuni temi comuni, ad esempio “fit è sexy”, “le tue scelte ti definiscono”, “piacere e perseveranza attraverso il dolore”, esaltando l’attività fisica come mezzo per raggiungere certi ideali estetici e perpetuando la cultura dell’apparenza.

Holland e Tiggermann (2017) hanno condotto un’analisi comparativa tra un campione di 101 donne che pubblicavano su Instagram immagini Fitspiration e un campione di 102 donne che condividevano immagini di viaggio. Quelle del primo gruppo riportavano punteggi significativamente più elevati in merito a impulso alla magrezza, bulimia, impulso alla muscolosità, emotività negativa ed esercizio compulsivo (quest’ultimo si riflette nel senso soggettivo di essere obbligati o spinti ad esercitarsi, priorità dell’esercizio fisico sulle altre attività e distress in caso di incapacità di allenarsi); almeno un quinto di queste donne erano a rischio di sviluppare un disturbo alimentare rispetto a chi pubblicava immagini di viaggio.

Negli uomini appare evidente che il fitness e la muscolosità siano componenti chiave nella costruzione del concetto di sé e dell’autostima. Le preoccupazioni del genere maschile sono soprattutto rivolte all’incremento di peso e di massa muscolare, evidenziando livelli più elevati di insoddisfazione corporea e una maggiore possibilità di incorrere in disturbi alimentari o dismorfia muscolare (Furnham & Calman, 1998). Palmer (2015) ha studiato gli effetti della Fitspiration sul genere maschile, rilevando che la maggioranza di essi si servivano dei contenuti offerti sui social per accrescere la propria conoscenza e migliorare la routine di allenamento e di conseguenza il proprio aspetto esteriore. Non solo, i partecipanti di sesso maschile effettuavano confronti di tipo downward e il loro scopo principale era rendere gli altri gelosi della propria forma fisica. Pur mostrandosi selettivi nella ricerca di immagini e consapevoli della manipolazione e artificiosità di alcune di esse, i contenuti a cui erano esposti mantenevano lo stereotipo di iper mascolinità esercitando pressioni sul fisico ideale da esibire.

Un altro studio (Robinson et al., 2017) ha messo in rilievo che la visione di immagini relative all’ideale atletico conduceva a maggior insoddisfazione corporea rispetto a quelle che esaltavano il thin ideal beauty, e che le immagini Fitspiration presentavano promesse ingannevoli, portando a credere che impiegando tempo e sforzi sufficienti sarebbe stato possibile sviluppare il proprio corpo. Inoltre, le immagini di fitness erano fonte di ispirazione, ma di fatto non conducevano ad un conseguente cambiamento comportamentale. In contrasto, uno studio di tipo longitudinale ha specificato che l’interiorizzazione dell’ideale del corpo atletico, così come accade per quello magro, risulta deleterio, inducendo nei soggetti forti sensi di colpa in caso di mancata sessione di allenamento, predicendo in particolare l’esercizio compulsivo, ma non l’insoddisfazione corporea o la dieta (Homan, 2010).

Alcuni autori (Vaterlaus, Patten, Roche & Young, 2015), utilizzando focus group e interviste, hanno osservato che più della metà dei 34 partecipanti (tra i 18 e 25 anni) che possedevano Instagram, Pinterest o Facebook seguivano account Fitspo per rimanere motivati. È stato però riconosciuto che quelli che condividono contenuti relativi a dieta ed attività fisica spesso esercitano una forma di “ditigal bragging” (millanteria digitale), elevando la propria autostima e senso di realizzazione e celebrando i risultati raggiunti, ma al tempo stesso inducendo negli altri sentimenti di vergogna per il proprio corpo e stile di vita. Occorre anche menzionare il contributo di Libero magazine, una rivista digitale che si occupa di promozione della salute mentale e di condivisione di storie su ansia, depressione, disturbi alimentari, che, a partire dal 2014 circa, ha lanciato su diversi social l’hashtag StopFitspiration per rendere consapevoli dei danni connessi ai messaggi Fitspiration e sostenere un approccio più positivo e più bilanciato col fitness e col proprio corpo.

Ippocrate, conosciuto come il padre della medicina, sosteneva che:

Se fossimo in grado di fornire a ciascuno la giusta dose di nutrimento ed esercizio fisico, né in difetto né in eccesso, avremmo trovato la strada per la salute.

Il trend Fitspiration è stata creato per perseguire uno stile di vita salutare, ponendo in primo piano proprio l’importanza di svolgere attività fisica e curare l’alimentazione, in antitesi alla Thinspiration. Gli utenti dei social che seguono la Fitspiration riferiscono effettivamente anche benefici: si sentono parte di una comunità, ricevono supporto sociale, hanno accesso a numerose informazioni sulla salute, si sentono più motivati e percepiscono maggior senso di controllo personale. Eppure questo fenomeno, come emerge chiaramente da molteplici ricerche, presenta aspetti problematici: privilegia ideali fisici non generalizzabili né raggiungibili da tutti, con messaggi e testi che possono generare ansia, preoccupazioni, percezioni negative sul proprio corpo, sentimenti di inadeguatezza, atteggiamenti estremi nei confronti dell’esercizio fisico e anche disordini del comportamento alimentare. L’insoddisfazione corporea esperita può a sua volta esitare in isolamento sociale, vergogna, depressione e altri tipi di distress psicologico. È uno specchio che riflette una cultura ossessionata dalla forma fisica e dall’aspetto esteriore, che in realtà promuove, almeno in parte, comportamenti disfunzionali o potenzialmente dannosi e che ci invita a riflettere sul confine spesso labile tra salute e patologia. Risulta fondamentale predisporre innanzitutto interventi psicoeducativi, per informare sulle modalità con cui certi messaggi sui social media possono incidere sull’immagine di sé, su pensieri e comportamenti delle persone. Sono sicuramente necessarie ulteriori ricerche per approfondire un tema così ampiamente diffuso e in continua espansione, per comprendere altresì la sua influenza sul benessere dei giovani e degli adulti e sulle ricadute a breve/lungo termine, determinando i fattori di rischio individuali e i differenti tipi di contenuto associati con esperienze negative o positive del movimento Fitspiration.

Oculus quest: la realtà virtuale di Facebook – Psicologia digitale

La realtà virtuale o virtual reality (VR) consiste nella simulazione di un ambiente tridimensionale che può essere esplorato e con cui è possibile interagire usando dispositivi come visori, guanti e controller. La VR trova applicazione in diversi ambiti: dai videogiochi al cinema, dai viaggi alla medicina, dal turismo al settore educativo.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 4) Oculus quest: la realtà virtuale di Facebook

 

 Diverse aziende, come Google, Sony per la Playstation e Samsung, stanno investendo anche nello sviluppo di strumenti per la realtà virtuale. Attualmente sono disponibili diverse tipologie di visori, da quelli più economici, ma con prestazioni limitate, fino a quelli più avanzati. In breve le soluzioni possono andare dal cardboard, economico e semplice, in cui basta inserire lo smartphone per riprodurre un ambiente virtuale grazie ai sensori giroscopici del telefono, passando per i visori da collegare al pc o a una console, più potenti, ma con la limitazione della mobilità dell’utente a causa dei cavi, fino ai visori standalone o all in one, chiamati così perché non necessitano di pc, console o smartphone e con prestazioni maggiori rispetto alle altre tipologie.

Oculus VR, la condivisione della realtà virtuale

Oculus VR, società acquistata da Facebook cinque anni fa, concentra le sue risorse e i suoi sforzi esclusivamente sulla produzione di visori sempre più raffinati e avanzati. In questi anni ha lanciato Oculus GO, Oculus Rift e la versione Rift 6. L’ultimo prodotto è Oculus Quest, un visore standalone che quindi funziona senza essere collegato al pc o a un altro dispositivo con cui è possibile giocare ad uno dei 53 giochi disponibili (alcuni adattati da altre piattaforme, ad esempio Angry Birds VR, e altri creati appositamente), oppure immergersi in documentari, concerti e film vivendo esperienze come ad esempio visitare destinazioni sparse per il mondo, vagare nella savana o assistere ad un concerto.

Con Oculus Quest vengono tracciati i movimenti sia in piedi che da seduti, l’ambiente ed eventuali ostacoli possono intralciare gli spostamenti. Ha diverse funzionalità: roomscale, in cui ci si muove in un’area di gioco di 2 metri quadrati; standing, che permette di interagire con gli elementi del gioco mentre si è in piedi, accovacciati, girandosi o raggiungendo oggetti sul pavimento; stationary o sitting, che consente di giocare/esplorare da seduti. Oculus Quest è in grado di tracciare anche le mani servendosi dei controller Oculus Touch con cui si effettuano le operazioni nella realtà virtuale (prendere oggetti, stringere la mano, colpire, indicare, premere, ecc.).

Indossare un visore e dei guanti per usare dei controller e immergersi in esperienze virtuali fa pensare ad una forma di isolamento. Oculus Quest invece è pensato per non isolare l’utente dalla realtà circostante, ma anzi per creare esperienze partecipative e condivisibili. L’aspetto del coinvolgimento e della condivisione è valorizzato ed incentivato sia online che dal vivo. Attraverso il visore o l’app collegata è possibile accedere a Oculus Home da cui si possono condividere foto, video, streaming con gli amici di Facebook; il visore si può anche collegare tramite bluetooth a smartphone o Chromecast per estendere l’esperienza su altri dispositivi vicini.

Ambiti di applicazione

I visori VR hanno molti ambiti di applicazione: dal gaming con giochi di sport, d’azione, avventura o fantasy, al ramo industriale, dell’istruzione e della medicina. Pensiamo, ad esempio, alla progettazione di video e film o, ancora, in ambito educativo come strumento per apprendere in maniera immersiva e coinvolgente: ad esempio, TeenDrive365 è un programma di Toyota che utilizza Oculus Rift come simulatore di guida durante i corsi per la patente. Nel settore della salute pensiamo a dispositivi che hanno modelli tridimensionali del corpo umano che permettono di avere una visione completa in maniera non invasiva prima di effettuare l’operazione, o nella riabilitazione di pazienti, aiutandoli a riacquistare le funzioni cognitive e motorie. Nell’ambito della psicologia clinica viene utilizzato per l’esposizione in un ambiente controllato, per esempio nel trattamento di fobie, ansia e stress. La fedeltà della riproduzione porta gli utenti a sperimentare effettivamente le risposte fisiologiche che sperimenterebbero nella situazione reale (Martens et al., 2019; Wiederhold e Riva, 2019).

Le applicazioni della VR portano a vivere esperienze totalmente immersive in cui, pur essendo consapevoli della finzione, veniamo guidati dai nostri sensi in situazioni che percepiamo come reali in tutto e per tutto. La cosa che accomuna tutte le applicazioni è che l’utente diventa il protagonista dell’esperienza, entra in mondi nuovi in cui poter interagire, in cui può sperimentare e mettersi alla prova in diverse situazioni e ambiti.

 


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L’intelligenza artificiale fra utopie, distopie, pregiudizi algoritmici

Negli ultimi anni si sta assistendo a un incessante sviluppo dell’Intelligenza Artificiale. Per quanto l’IA porti interessanti e utili innovazioni, può nascondere risvolti inquietanti: la possibile evoluzione secondo cui essa riesca a superare le capacità stesse degli esseri umani e i bias cognitivi da essa generati.

 

Il mondo dell’intelligenza artificiale (IA) ormai sommerge il nostro quotidiano, anche nelle tradizioni più ataviche quali la preghiera. Sì, perché siamo arrivati al rosario digitale. Il dispositivo eRosary è un bracciale che si attiva facendo il segno della croce. E’ dotato di una croce intelligente che memorizza tutti i dati connessi all’applicazione.

Nel lavoro vengono analizzati due aspetti inquietanti dell’IA. Il primo riguarda la possibile evoluzione secondo cui essa riesca a superare le capacità stesse degli esseri umani in ogni settore. Il secondo aspetto riguarda i bias cognitivi generati dalla IA tramite i pregiudizi algoritmici.

La capacità di apprendimento di programmi estraendo pattern di dati è il machine learning o apprendimento automatico (sotto-settore dell’IA, che studia algoritmi che migliorano con l’esperienza). Tale processo di apprendimento rinvia alle reti neurali artificiali.

All’interno di una rete neurale artificiale, i neuroni vengono organizzati per strati/livelli (se sono più di due livelli, tale architettura è il deep learning o apprendimento strutturato profondo o apprendimento gerarchico. “Profondo” sta a significare appunto “su più livelli”). I neuroni di ciascuno strato sono connessi solo a quelli dello strato immediatamente superiore e a quello subito inferiore. Le interconnessioni fra strati avvengono attraverso pesi numerici. Naturalmente, in questo processo di trasmissione, i neuroni posizionati a livello apicale (cd. livello nascosto) si limitano a ricevere informazioni dallo strato inferiore. Secondo un sistema di bottom-up, è lo strato di base ad acquisire input esterni: un neurone di base è in grado di processare, ad esempio, le informazioni relative a uno specifico punto (pixel) derivante da una macchina fotografica. L’intera struttura acquisisce un’immagine – quella di un elefante, ad esempio – da uno strato all’altro tramite i pesi numerici. E’ anche possibile che, sempre mediante tali interconnessioni, l’immagine scenda di nuovo, fino a quando l’intera struttura è pienamente in sintonia così da riconoscere l’immagine dell’elefante. Per il training si usano gli “algoritmi di retropropagazione dell’errore” (backpropagation), attraverso cui si rivedono i pesi della rete neurale in caso di errori (la rete propaga all’indietro l’errore in modo che i pesi delle connessioni vengano aggiornati in modo più appropriato). E’ un processo iterativo. Una rete neurale si presenta quindi come un sistema “adattivo” durante la fase di apprendimento, compiendo un processo di “trial and errors”. Che il sistema abbia raggiunto la sintonia è indicato da un pattern di neuroni posizionati al livello basso, che “spara” tale informazione allo strato superiore. Dopo un allenamento costituito da milioni di immagini dell’elefante, finalizzato a un apprendimento autonomo (i sistemi di deep learning, infatti, migliorano le prestazioni all’aumentare dei dati), finalmente la macchina da sola è in grado di riconoscere un elefante (“apprendimento non supervisionato”). La rete neurale apprende quindi in modo autonomo come analizzare i dati grezzi e come svolgere un compito di riconoscimento visivo (classificare un individuo/oggetto riconoscendone, autonomamente, le caratteristiche).

L’apprendimento profondo consente ai computer una progressiva quantità di applicazioni, tra cui il riconoscimento facciale come strumento di sorveglianza in paesi come la Cina. La società della sorveglianza digitale è inaccettabile. Emblematica la protesta dello scorso 24 agosto a Hong Kong. Nel video virale appaiono manifestanti vestiti in nero, con il volto coperto e con gli ombrelli, l’icona della volontà di frapporre uno strato di stoffa oscurante tra l’occhio pervasivo dello Stato e il proprio spazio personale. “Quello non è un lampione”, afferma un tweet virale di un manifestante, “è un lampione intelligente dotato di videocamera e tecnologia di riconoscimento facciale. I manifestanti li stanno abbattendo”. Le informazioni vengono trasmesse immediatamente in tutta la Cina: abbattere quel palo costituisce la metafora di segare il tronco da cui si alimenta il potere repressivo delle autorità. Non a caso i migliori sistemi di riconoscimento facciale sono cinesi e, non a caso, la Microsoft non vende più tecnologie di IA a governi autoritari. Il tema è di attualità anche in Italia: la Polizia di Stato ha attivato il sistema SARI (Sistema Automatico per il Riconoscimento delle Immagini) basato su questo tipo di tecnologie. Si sono generate polemiche sull’ampiezza del database – 16 milioni di volti – poiché si teme una massiccia schedatura della popolazione (“Riconoscimento facciale in tempo reale: quello che vediamo nei film è realtà, 16 milioni di volti schedati”, settembre 2018, reperibile al LINK).

Un’altra pietra miliare nei progressi dell’apprendimento è stata la vittoria di Deep Blue dell’IBM nella sfida a scacchi del campione mondiale nel 1997. Deep Blue è comunque una “IA ristretta”, in quanto la macchina ha come unica capacità quella di giocare a scacchi, pur superando l’uomo. Così pure rimane una “IA ristretta” la forma di “apprendimento profondo con rinforzo” (reinforcement learning), una tecnica di apprendimento della macchina (esempio, il giocatore-macchina di “Breakout”, che scoprì la strategia vincente cui nessun umano aveva fino ad allora pensato). Tale forma di apprendimento è mutuata dalla psicologia comportamentista: il premio acquisito per un successo ottenuto (qui il punteggio) stimola a ripetere la stessa cosa.

Oggi il dibattito si è esteso all’“IA forte” o “IA di livello umano”, chiamata pure “IA generale” (IAG), che riesce a eguagliare – se non a superare – le capacità cognitive umane in ogni campo. Ci si arriverà? Ciò è auspicabile? Le macchine ci renderanno obsoleti? Che cosa significherà essere umani nell’era della “vita digitale”? (Tegmark, 2018).

La “vita digitale” rappresenta l’evoluzione cosmica ineludibile. E’ una evoluzione desiderabile, perché l’esito sarà quasi sicuramente buono, risponderebbe un “utopista digitale”. Di contro, un’altra schiera di sviluppatori e data scientist – i “tecnoscettici” – sostiene che preoccuparsi dell’evoluzione a livello vitale della IA significa imboccare un percorso potenzialmente dannoso – “rallentare la marcia della IA” stessa – distraendo risorse dal problema centrale: gli avanzamenti della IA. Quindi, entrambe le correnti di pensiero non si preoccupano di una possibile “vita digitale”, sebbene con argomenti affatto diversi. La terza via è il movimento della “IA benefica”: è realistico pensare di arrivare nel lungo periodo a una IA di livello umano, sebbene sia necessario prendere precauzioni ex ante, cioè misure di sicurezza perché la macchina non si rivolti contro l’uomo. Una “IA benefica” contribuirebbe a risolvere molte piaghe, quali guerre, cambiamenti climatici, giustizia sociale. Tuttavia, affinché tale utopia non si tramuti in distopia – l’uomo che soccombe alla macchina -, core della ricerca deve essere la sicurezza dell’IA (Tegmark, 2018). In altri termini, mantenere ben salde le briglie della macchina mentre essa avanza.

Un secondo tema cruciale del dibattito è quello dei bias cognitivi che possono essere generati dalla stessa IA tramite pregiudizi algoritmici. In un contesto esterno, complesso e in continua trasformazione, nel processo decisionale l’uomo ricorre a scorciatoie – le euristiche – per rendere più semplice e veloce l’adozione di una decisione. Tali scorciatoie, se sono errate, diventano bias cognitivi, costrutti fondati al di fuori di ogni giudizio critico, su percezioni errate o deformate, su pregiudizi e ideologie, su discriminazioni e gender.

Trasposti nell’IA, le ricadute possono diventare pericolosissime. Rimanendo nel campo del riconoscimento facciale, ricercatori del MIT Media Lab in uno studio del 2018, “Gender Shades”, hanno verificato l’accuratezza di alcuni sistemi di riconoscimento facciale dell’IBM. La ricerca ha dimostrato una precisione pari al 99% nel riconoscimento di uomini bianchi e solo del 34% per le donne dalla carnagione scura. Motivo di un così ampio gap nella percentuale di errore è che gli algoritmi usati da questi sistemi si sono basati su soggetti prevalentemente di tipo maschile e di carnagione chiara. Vale a dire, i volti neri erano meno presenti nei database usati per realizzare i software di riconoscimento e, di conseguenza, venivano identificati con maggiore difficoltà. Per comprendere fino in fondo il senso del problema, basti pensare a due circostanze: il pregiudizio insito nel sistema è stato del tutto ignorato fino a quando non è intervenuta un’audit indipendente; la quantità di dati che gli algoritmi analizzano è oggi costantemente in aumento (siamo nel campo dei big data) e, dunque, la probabilità di nascondere l’errore sempre più in profondità è destinata a crescere.

Analoga circostanza anche per il software di reclutamento del personale di Amazon: il bias privilegiava le assunzioni maschili. Ci sono voluti anni per rendersi conto dell’errore e molti tentativi per correggerlo. La probabilità di incorrere in alcuni di tali bias – quelli sessisti – si ridurrebbe se più donne lavorassero nell’IA (Rossi, 2019).

Nel settore della giustizia, affidare a un algoritmo il giudizio su un crimine o sulla possibilità che questo si verifichi è un’interferenza indebita e pericolosa. Ad esempio, in UK, uno studio realizzato da un organismo a tutela dei diritti e libertà nel paese ha evidenziato come il set di dati, già discriminatori in origine, consolidassero i pregiudizi minando diritti fondamentali. Alla base di tale bias c’è una duplice circostanza: in primo luogo, ci si è occupati di mappare zone urbane considerate più a rischio, concentrando gli sforzi della polizia verso quelle aree; in secondo luogo, si sono analizzati dati e informazioni sia di potenziali criminali sia di vittime, cercando di prevenirne le azioni. La sovrapposizione di questi due sistemi e la possibilità di utilizzare un enorme stock di serie storiche, unite alla velocità con cui si possono elaborare risposte, dovrebbero garantire un accurato “risk assessment” del crimine. Ma la vita reale è più complessa: le serie storiche non riescono a inferire a sufficienza le tendenze comportamentali del futuro, in primis perché le condizioni socio-economiche evolvono (Giribaldi, 2019).

Nello studio L’intelligenza artificiale può essere sessista e razzista: è ora di renderla equa (Schiebinger e Zou, 2018) è stato criticato come gli sviluppatori e i data scientist non abbiano insegnato alle macchine a riconoscere le minoranze sottorappresentate nella società. Sicuramente, un ordine di problemi deriva da come vengono raccolti i dati che alimentano gli algoritmi e i software. ImageNet, ad esempio, è un database di immagini utilizzato da moltissimi sistemi di visione automatizzati: il 45% di queste immagini viene dagli Stati Uniti, dove però vive solo il 4% della popolazione mondiale; le immagini provenienti da Cina e India (che insieme contano il 36% della popolazione mondiale) contribuiscono solo per il 3% al database! I sistemi di riconoscimento facciale già in commercio, quando hanno a che fare con donne di colore, sbagliano spesso (il 35% delle volte) nel riconoscere il genere, rispetto a quando le donne sono di carnagione chiara (0,8%). Nel 2015, Google si scusava (Burchia, 2015) perché un suo software aveva etichettato “gorilla” due afroamericani… e tuttora rischi di questo genere non sembrano scongiurati giacchè, nell’applicazione, la ricerca di termini quali “scimpanzé” e “scimmia” non conduce a risultati… (Simonite, 2018).

Per minimizzare i rischi urge un’etica dei dati. E in questo è importante il ruolo dell’Europa con un Codice Etico secondo cui l’IA non dovrà danneggiare la dignità, la sicurezza fisica, psicologica e finanziaria degli esseri umani. Anche il Consiglio d’Europa, con una Dichiarazione adottata nel febbraio 2019 (“Declaration by the Committee of Ministers on the manipulative capabilities of algorithmic processes”), mette in guardia contro il pericolo di discriminazione sociale causata dagli algoritmi. Sicché, il futuro dell’IA dipenderà dalla capacità di risolvere la questione dei bias cognitivi.

Ma non solo. Oltre i bias ci sono altre categorie di gravi errori. Ad agosto 2017, due chatbot progettati da Facebook cominciano a comunicare fra loro con un linguaggio incomprensibile persino dai ricercatori che li avevano progettati. A marzo 2018, in Arizona, un’auto a guida autonoma investe uccidendo la ciclista Elain Herberg. Il safety driver a bordo non è riuscito a frenare.

Questo genere di notizie generano un clima di insicurezza e angoscia nelle società, poiché l’IA sembra scappare di mano all’uomo e ci si rende conto di un’afasia tra uomo e macchina.

Ci avviciniamo a una “società della paura” man mano che ci avviciniamo a una “vita digitale”?

 

Trauma e stress psicosociale modificano il nostro sistema dopaminergico? 

Non è ancora chiaro il meccanismo tramite il quale stress acuti inducano un’attivazione del sistema dopaminergico, ma anche un unico evento stressante può modificare il sistema dopaminergico, alterando così la responsività dell’individuo a futuri stimoli. 

 

Quando si parla di avversità psicosociali ci si può riferire o a traumi veri e propri, quindi situazioni nelle quali la vita della persona è stata messa a repentaglio, o ha subito gravi lesioni/violenze, oppure a stress psicosociale, quindi situazioni come l’abbandono, la perdita di un familiare, i cambiamenti di lavoro.

È noto in letteratura che gli eventi traumatici aumentano il rischio di disturbi mentali (Carlsson&Carlsson, 1990); sembrerebbe che questa vulnerabilità nelle persone traumatizzate sia data da un’alterazione delle vie dopaminergiche (Bloomfiedl et al., 2019).

La dopamina è un neurotrasmettitore che è principalmente coinvolto nei meccanismi di ricompensa, quindi stimoli come il sesso, il cibo e sostanze stupefacenti provocano un rilascio di dopamina, aumentando così la ricerca di questi stimoli da parte dell’individuo; viene rilasciata dalla substantia nigra ed inoltre è in relazione con il sistema nervoso simpatico, causando l’accelerazione del battito cardiaco, oppure l’aumento della pressione sanguigna (Kapur& Mann, 1992).

Non è ancora chiaro il meccanismo tramite il quale stress acuti inducano un’attivazione del sistema dopaminergico, ma è risaputo che anche un solo ed unico evento stressante è in grado di modificare il sistema dopaminergico, andando così ad alterare la responsività dell’individuo a futuri stimoli.

Gli individui traumatizzati percepiscono la minaccia in maniera più intensa ed esagerata, rispetto ad individui che non hanno subito traumi; inoltre la produzione della dopamina sembra essere maggiore negli individui con una storia di traumi (Kapur& Mann, 1992).

Anche la risposta dell’asse ipotalamo ipofisi surrene (HPA), che è la risposta del corpo allo stress prolungato, sembra essere alterata; l’attivazione di quest’asse porta alla produzione del cortisolo, noto come ormone dello stress.

Il sistema dopaminergico, oltre ad essere alterato nei soggetti traumatizzati, è alterato anche nelle persone che fanno esperienza di stress psicosociale, andando così a compromettere la percezione della minaccia – che verrà percepita con più intensità, rispetto ad un soggetto con un sistema dopaminergico nella norma – ed aumentando la vulnerabilità dell’individuo a sviluppare disturbi mentali, come ad esempio, ma non solo, la depressione, la schizofrenia e i disturbi di addiction (Bloomfiedl et al., 2019).

Caregivers di persone con demenza e mindfulness

Le demenze portano a una progressiva e inesorabile riduzione dell’autonomia, che rende necessario l’intervento del caregiver, un compito stressante e ricco di sfide. Rendere più sostenibile il caregiving giornaliero può portare molti benefici nel lungo periodo. Gli interventi basati sulla mindfulness si sono dimostrati utili per supportare i familiari di persone con demenza.

Maria Gazzotti – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

 Con l’avanzare dell’età il nostro organismo subisce profondi cambiamenti e, oltre ai mutamenti tipici dell’invecchiamento sano, che comprende comunque un declino delle abilità cognitive, aumenta esponenzialmente l’incidenza delle patologie dementigene. Il termine demenza indica una malattia cronica degenerativa ad esordio insidioso con un progressivo peggioramento cognitivo; é caratterizzata da deficit che coinvolgono la sfera cognitiva, emotiva, comportamentale e funzionale, con una progressiva perdita dell’autonomia che porta a dipendere dagli altri.

L’invecchiamento della popolazione é uno dei cambiamenti della società odierna che spicca maggiormente e che porta con sé un aumento di tutte le patologie croniche legate all’età, comprese le demenze, fattore che ha reso il decadimento cognitivo un problema di salute pubblica di rilevanza sempre maggiore, al punto che nel 2012 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e l’ADI (Alzheimer’s Disease International) hanno definito questa patologia una priorità mondiale di salute pubblica.

Le demenze colpiscono ad oggi circa 47 milioni di persone nel mondo e il numero è in aumento (Liu et al., 2017). Secondo alcune proiezioni, i casi di demenza potrebbero aumentare drasticamente nei prossimi 30 anni nei paesi occidentali, con 7.7 milioni di nuovi casi all’anno (1 ogni 4 secondi). Considerando nello specifico la situazione italiana, si stima che il numero di persone con demenza superi il milione e che siano circa 3 milioni le persone coinvolte nell’assistenza dei loro cari (Ministero della Salute).

Come detto sopra, uno degli aspetti caratteristici delle patologie dementigene é la progressiva ed inesorabile riduzione dell’autonomia, che rende necessario l’intervento di una persona, spesso un familiare, come un figlio o il coniuge, che possa assistere il malato, un compito stressante e ricco di sfide dal momento che spesso i caregivers si trovano a dover bilanciare tra le richieste del caregiving e quelle legate alla propria vita personale, sociale e lavorativa. È comprensibile come i caregivers possano trovarsi a sperimentare emozioni negative, tristezza, preoccupazione, sconforto, rabbia, senso di impotenza, con difficoltà a comprendere e ad accettare la malattia o comunque ad adattarsi ai cambiamenti della persona cara e della relazione. I figli si trovano ad affrontare un complesso capovolgimento dei ruoli, nel quale diventa il figlio colui che si prende cura del genitore, in modo nettamente più accentuato nei casi di demenza rispetto a quelli di invecchiamento non patologico; nel caso in cui il caregiver sia il coniuge si ha un altrettanto profondo sconvolgimento della relazione, nella quale uno dei due coniugi deve ora accudire l’altro, spesso fronteggiando contemporaneamente i cambiamenti della propria vita che, come detto sopra, sopraggiungono anche nei casi di invecchiamento non patologico.

Prendersi cura di un familiare affetto da malattie croniche ha generalmente effetti negativi come stress cronico, isolamento sociale, riduzione della salute fisica, difficoltà emotive, maggiore uso di farmaci, maggiori rischi di ansia e depressione, alti costi finanziari e personali, compromissione della salute e del benessere (Whitebird et al., 2012; Oken et al., 2010). È noto poi come prolungati alti livelli di stress predispongano proprio allo sviluppo di patologie psicologiche e fisiche (Liu et al., 2017;  Kor et al., 2019). Il burden legato a questo ruolo impatta sul benessere e sulla qualità della vita del caregiver con conseguenze anche nella gestione pratica della situazione, aumentando le probabilità di istituzionalizzazione del paziente. Rendere più sostenibile il caregiving giornaliero nel lungo periodo, riducendo lo stress e migliorando la salute mentale dei caregivers, può contribuire a ritardare l’istituzionalizzazione riducendo così anche i costi per la società (Liu et al., 2017; Kor et al., 2019).

Si ipotizza che il numero di caregivers di persone con demenza triplicherà nei prossimi anni arrivando a 131.5 milioni nel 2050 (Kor et al., 2019) e, proprio perché un numero sempre maggiore di famiglie si trova ad avere un familiare con decadimento cognitivo, e per le difficoltà che questo compito implica, sta diventando sempre più importante concentrarsi sulla condizione dei caregivers e su come sia possibile migliorarla (Whitebird et al., 2012; Oken et al., 2010).

Diversi studi si sono quindi occupati della ricerca di metodi che potessero mitigare gli effetti negativi di tale condizione, partendo dall’idea che rendere le persone maggiormente in grado di gestire lo stress cronico che si trovano ad affrontare giornalmente, possa portare benefici a lungo termine.

 Sono stati svolti numerosi interventi psicosociali, come il fornire informazioni, supporto sociale e skills training che hanno però portato a risultati non del tutto soddisfacenti nel ridurre il distress dei caregivers. Infatti, nonostante i caregivers possano diventare sempre più competenti e sviluppare sempre maggiori abilità utili a prendersi cura della persona cara, permarrà comunque il burden e ci saranno inevitabilmente momenti nei quali si sentiranno sopraffatti; è proprio qui che entra in gioco la mindfulness (Liu et al., 2017).

La mindfulness trae origine dal buddhismo e può essere definita come un particolare tipo di attenzione focalizzata sul momento presente, di consapevolezza non giudicante e di accettazione dell’esperienza (Whitebird et al., 2012). Gli elementi caratteristici della mindfulness sono la consapevolezza, che consente di affrontare con flessibilità e padronanza i pensieri e le emozioni negative, e l’accettazione non giudicante del momento presente. Il trattamento di mindfulness consiste nel ridurre lo stress, nell’imparare a gestire le emozioni attraverso la consapevolezza, nell’accettare la propria esperienza così com’è (Whitebird et al.,2012) ed è associata al benessere psicologico;  proprio le sue caratteristiche sopra descritte sono considerate degli antidoti potenzialmente efficaci contro svariate forme di stress psicologico, come ruminazione, ansia, preoccupazione, paura e rabbia (Keng, Smoski & Robins, 2011).

Negli studi presi in considerazione sono stati conservati interventi basati sulla mindfulness la Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT) e l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), con buone evidenze del fatto che possano essere utilizzati come interventi supportivi standard per i familiari di persone con demenza (Liu et al., 2017; Kor et al., 2019).

I trattamenti basati sulla mindfulness possono aiutare i caregivers a sviluppare un atteggiamento di caregiving accettante e non giudicante, a rispondere a stimoli esterni, come ad esempio i problemi comportamentali, in modo meno reattivo e impulsivo, a sviluppare una maggiore pazienza nel gestire le diverse situazioni, a favorire un aumento dell’accettazione delle problematiche, prerequisito fondamentale per l’adattamento ai cambiamenti continui a cui inevitabilmente la diade caregiver-paziente va incontro (van Boxel et al., 2019). Aiuta inoltre ad essere consapevoli delle proprie reazioni inutili, dei pattern di pensiero automatico e a distaccarsi da questo pilota automatico per potersi relazionare in modo meno faticoso e più efficace (Liu et al., 2017).

É rappresentativo il vissuto di una una caregiver che ha riportato come, assumendo un atteggiamento più mindful, riusciva ad evitare di discutere con la madre che le chiedeva ripetutamente le stesse cose, sviluppando così una relazione più armoniosa e meno stressante (Kor et al., 2019).

Gli interventi basati sulla mindfulness rivolti a questo tipo di caregivers sono stati strutturati generalmente con incontri di gruppo a cadenza settimanale o bisettimanale per un totale che si aggira attorno agli 8 incontri, della durata di 90-120 minuti ciascuno, spesso con lo svolgimento di esercizi anche a casa; alcuni esempi di esercizi svolti sono quelli di consapevolezza del respiro, delle sensazioni corporee e dell’esperienza cognitiva ed emotiva (Kor et al., 2019; Oken et al., 2010).

I familiari di persone affette da demenza tendono a pensare ripetutamente al passato e al futuro e questa tecnica può aiutarli a rispondere agli stimoli interni ed esterni in modo meno impulsivo, più riflessivo e consapevole, aumentando le abilità di coping, portando a concentrarsi sull’esperienza presente nel qui ed ora con un’accettazione non giudicante e riducendo pensieri ripetitivi e ruminanti, con un effetto su preoccupazione, ruminazione, depressione, ansia e stress associati (Whitebird et al., 2012).

Prove crescenti mostrano che i programmi basati sulla mindfulness sono associati ad una riduzione di molteplici dimensioni psicologiche negative, come stress percepito, sintomi depressivi, aumento della qualità di vita, mentre minori sono le prove a sostegno di un effetto significativo sul burden e sull’ansia (Liu et al., 2017).

Il training mindfulness é breve, efficace, con costi relativamente contenuti e può essere una soluzione alternativa o aggiuntiva agli interventi convenzionali per i caregivers. Questo tipo di training é inoltre risultato ben accetto ai caregivers, infatti circa il 70% tende a completare tutte le sessioni previste dimostrando buona adesione al trattamento (Liu et al., 2017).

Gli effetti a lungo termine dei trattamenti basati sulla mindfulness non sono ancora stati stabiliti con certezza e saranno necessari studi futuri su larga scala e condotti rigorosamente per confermare i risultati ed approfondire gli effetti specifici su ansia e burden.

Per concludere, gli studi condotti fino ad ora hanno portato a risultati promettenti che indicano questo tipo di trattamenti come buoni interventi per i caregivers di persone con demenza, dotati inoltre del grande vantaggio di basarsi su esercizi e tecniche che, una volta imparati, possono essere utilizzati per gestire lo stress e le sfide del caregiving quotidianamente.

Le truffe romantiche o sentimentali (romance scam) online come fenomeno psicosociale persuasivo

Le truffe romantiche, chiamate anche truffe sentimentali (romantic scam o romance scam nel mondo anglosassone) online sono un fenomeno criminale in forte diffusione definito da specifiche caratteristiche che vanno dallo stato psicosociale vissuto dalla vittima alle tecniche persuasive manipolatorie utilizzate dai criminali.

 

Le truffe romantiche online sono un fenomeno criminale in forte crescita in alcuni paesi (in particolare USA, Gran Bretagna, Germania, Spagna ed altri Italia inclusa), ma molto probabilmente si sta espandendo anche in tutti quei paesi dove è diffuso l’uso di social network.

Le truffe romantiche avvengono soprattutto nel web e sono commesse da criminali (sempre più frequentemente da gruppi criminali) che falsificando la propria identità (molto frequentemente anche se non sempre) sfruttano in maniera non etica e manipolatoria una relazione di fiducia instaurata con l’intenzione di depredare finanziariamente la vittima. La relazione fiduciaria implica specifici aspetti cognitivi, emotivi e motivazionali all’interno della comunicazione tra la vittima e il criminale il quale si presenta inizialmente come persona assolutamente affidabile, corretta dal punto di vista etico e semplicemente orientato alla ricerca di un rapporto socialmente significativo (amicizia, matrimonio, convivenza, etc.).

Solo nel 2016 sono stati segnalati all’FBI americana 15.000 reati ascrivibili alle truffe romantiche, circa 2.500 in più rispetto all’anno precedente, con un totale stimato di danni diretti finanziari superiori a 230 milioni di dollari (FBI, 2018), mentre in Gran Bretagna, sempre relativamente al 2016, la BBC News segnala 3.889 vittime, 39 milioni di sterline di danni diretti. L’Internet Crime Complaint Center (IC3) dell’FBI ha identificato nelle truffe romantiche il crimine online che produce la maggior quantità di perdite finanziarie per le vittime (FBI, 2018).

I criminali sfruttano a loro favore il fisiologico bisogno di relazionarsi, socialmente espresso più o meno consapevolmente dalla vittima, per costruire un copione, una narrazione convincente per arrivare a “spingerla” nella condizione di prestare aiuto (quasi sempre economico) facendo leva sul solido e coinvolgente rapporto di fiducia precedentemente stabilito. Questa dinamica psicosociale avviene con modalità piuttosto veloci per il fatto che si tratta quasi sempre di rapporti a distanza che prevedono di conseguenza interazioni comunicative molto diverse da quelle più tradizionali vis à vis.

Sono presenti, nello sviluppo di relazioni a distanza di questo tipo, sia processi di maggiore disinibizione che di maggiore idealizzazione del potenziale partner, il che rende il rapporto contemporaneamente ed inizialmente più veloce ed inteso rispetto allo scenario tradizionale dove invece si percepiscono maggiori informazioni (sia positive che non) durante la conoscenza diretta. L’abilità persuasiva del criminale consiste nell’utilizzare le specifiche conoscenze di queste dinamiche psicosociali in modo non etico, ma molto efficace, per manipolare il comportamento della vittima.

La situazione attuale relativa a questo crimine è particolarmente drammatica quanto attualmente sottostimata dalla nostra società, anche per il fatto che, per ragioni psicosociali, molto frequentemente vi è una grande resistenza psicologica delle vittime nel riportare pubblicamente i reati (per i sentimenti di vergogna e/o paura conseguenti al sentirsi giudicati come stupidi, sciocchi, ingenui, etc.) e per il fatto che, anche se denunciano l’accaduto agli organi competenti (la polizia postale nel nostro paese), non ottengono nella stragrande maggioranza dei casi nessuna giustizia legale, il che rende pressoché impossibile recuperare quindi anche i danni economici.

Oltre ai danni finanziari diretti (quanto effettivamente i criminali riescono ad estorcere alle loro vittime) vi sono da considerare anche i danni economici indiretti dovuti al deterioramento dello stato finanziario/patrimoniale e le problematiche psicosociali (problematiche stress correlate, ansia, depressione, rischio suicidario, etc.) provocate alle vittime ed alla rete sociale connessa a loro (figli, parenti, etc.).

Il recupero dei danni economici perpetrati alle vittime delle truffe romantiche è molto difficoltoso per l’estrema problematicità nel risalire alla vera identità del criminale che generalmente si trova in un paese diverso rispetto a quello del truffato al fine di scongiurare qualsiasi azione legale/inevestigativa da parte dello stesso.

La frode avviene perché vi è la concomitanza di vari elementi che rendono maggiormente “vulnerabile” la vittima. Questi elementi concernono sia caratteristiche psicologiche delle vittime (basso autocontrollo, impulsività, il forte desiderio di trovare un partner, etc.), sia fattori contestuali relativi ai truffati (come ad esempio aver da poco vissuto un evento traumatico o comunque fortemente stressante come una separazione o altro) sia la capacità persuasiva del criminale. Il criminale conoscendo (esplicitamente o meno) l’importanza dei fattori psicologici e contestuali appena menzionati relativi la vittima, dopo aver effettuato una selezione dei possibili bersagli attraverso le molte informazioni a disposizione sul web (spesso del tutto gratuitamente, si pensi ai social media quali facebook…), chiede loro il contatto avviando quindi, nel caso di risposta positiva, il copione narrativo persuasivo finalizzato alla richiesta (che può essere esplicita o meno) di denaro. Tessendo questa “ragnatela persuasiva” comunicativa il truffatore asseconda i bisogni psicosociali della vittima per instaurare un solido ed emotivamente positivo rapporto di fiducia che preparerà il “terreno” per la richiesta di denaro vera e propria, molto frequentemente connotata da un carattere di urgenza e necessità imminente (che molto spesso possiede un aspetto percepito dalla vittima come negativo, tragico o pericoloso per il presunto partner, ma che può talvolta essere connotato anche positivamente nel caso assuma la forma di preziosa occasione da cogliere molto velocemente).

Nel settore della psicologia scientifica vi è stato molto recentemente lo sforzo di individuare alcune caratteristiche psicologiche che rendono le vittime più vulnerabili nei confronti delle truffe romantiche (Coutlee, Politzer, Hoyle, & Huettel, 2014; Cross, 2019; Hadlington, 2017; McCoul, 2001; Modic & Lea, 2013; Whitty, 2013; Zuckerman, 2000), ma rimane da chiarire se alcune dimensioni quali, ad esempio, l’impulsività e lo scarso autocontrollo riscontrato in queste ricerche siano caratteristiche precedenti all’interazione manipolatoria o siano la conseguenza del processo di innamoramento molto frequente nel caso delle truffe sentimentali. Personalmente ho il piacere di essere in contatto con alcuni di questi colleghi pionieri di questo specifico settore quali il prof. David Modic della Cambridge University (UK) e la prof.ssa Monica Whitty della Melbourne University (AU), ma sono convinto che anche il lavoro sulla persuasione svolto dal prof. Robert Cialdini, professore presso l’Arizona State University (USA), pur non avendo trattato specificamente le truffe romantiche, possa esser molto utile nel gettare luce su questo fenomeno psicosociale.

Anche lo stesso prof. Cialdini, durante una comunicazione personale avvenuta poche settimane fa in merito proprio a questo tema, mi ha espresso la convinzione che analizzare attraverso la prospettiva della persuasione il fenomeno delle romance scam può aiutare a comprenderlo meglio come fenomeno psicosociale (comunicazione personale, 23 ottobre 2019). In estrema sintesi i processi persuasivi identificati dal prof. Cialdini (Cialdini, 2009) sono: la reciprocità (dobbiamo contraccambiare un favore che ci viene offerto/proposto), l’autorità (siamo più propensi ad accettare una richiesta se arriva da chi giudichiamo come autorevole/competente), il consenso sociale (a parità di altre condizioni tendiamo ad adottare scelte comportamentali condivise da un gruppo numeroso di persone), la scarsità (siamo propensi ad attribuire un valore maggiore a qualcosa che percepiamo come scarsamente disponibile), l’impegno e la coerenza (anche se apparentemente poco significativi, una volta effettuata una scelta o un comportamento, abbiamo la tendenza ad effettuare scelte o comportamenti futuri coerenti con quelli effettuati precedentemente) e la piacevolezza percepita di chi emette il messaggio persuasivo (preferiamo accettare richieste da persone che ci piacciono o, in misura maggiore, che abbiamo la percezione che piacciamo loro).

Risulta molto interessante leggere il fenomeno delle truffe romantiche con la prospettiva offerta dalla comunicazione persuasiva, perché permette di comprenderne le dinamiche ed estrapolare delle informazioni utili per prevenirne il fenomeno criminoso.

Le conseguenze finanziarie e psicosociali delle romance scam o truffe romantiche sono in genere molto pesanti per gli intensi sensi di colpa, l’ansia, la depressione (talvolta anche con pericolo suicidario), lo stress e la frustrazione di non poter avere né giustizia legale (molto spesso si tratta di crimini avvenuti internazionalmente, quindi praticamente non perseguibili), né di recuperare l’aspetto economico, né di poter beneficiare del supporto sociale per la paura di essere oggetto di giudizi negativi da parte della loro stessa rete sociale significativa (in genere le vittime non ne parlano nemmeno con i parenti più stretti o gli amici). A questa condizione occorre aggiungere anche che, in seguito al crimine, vi è in genere la scarsa capacità di ricostruire facilmente un rapporto di fiducia nei confronti di altre persone il che indebolisce ulteriormente la possibilità di essere supportati socialmente (professionalmente o meno) in maniera efficace.

Minando il senso di fiducia, le romance scams producono un effetto molto negativo e potenzialmente pericoloso perché da una parte depauperano le risorse sociali positive potenzialmente benefiche per il truffato, dall’altra promuovono un senso di sfiducia nei confronti del proprio futuro, conducendo la vittima ad un pericoloso pessimismo che alimenta un fenomeno di impotenza appresa.

Le conseguenze delle truffe sentimentali sono connotate dagli aspetti psicosociali sopra menzionati che non devono essere sottovalutati per i pesanti costi individuali e sociali che comportano. Vi è la necessità di una risposta sociale, istituzionale e politica che fornisca da un lato un piano di prevenzione attraverso una corretta informazione relativa questo fenomeno, dall’altro un più efficace supporto psicologico, legale e finanziario alle vittime di questa tipologia di crimini finalizzato a contenerne i danni psicosociali.

 

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