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Metti una sera a cena … in 3D

Il settore delle biotecnologie alimentari si sta rinnovando molto rapidamente con il cibo finto, che sta coinvolgendo e appassionando scienziati, chef, studiosi, esperti di cambiamento climatico, imprenditori di tutto il mondo. La food experience del domani sicuramente cambierà il modo con cui le persone interagiscono con il cibo.

 

In passato la scuola francese era punto di riferimento per la formazione del gusto e dell’etichetta, successivamente il mondo ha preferito mangiare à l’italienne. La sua cucina si ispira alla Dieta Mediterranea, riconosciuta dall’UNESCO come bene protetto e inserito nella lista dei patrimoni immateriali dell’umanità nel 2010: oltre a essere salutare e dai sapori squisiti, la Dieta mediterranea è identità culturale, tradizione, radici di appartenenza, stile di vita, senso di comunità e ospitalità, paesaggio, competenze, pratiche, territorio.

Il cibo è sempre stato un mezzo incredibilmente potente per riunire le persone, celebrare, condividere, avviare una conversazione, stimolare idee. Grazie a tutte queste sfaccettature, il cibo, più di altri prodotti, per vocazione si presta allo storytelling come strategia di marketing di un brand (Fiocca, 2018). Oggi il processo di coltivazione, lavorazione e produzione del cibo diventa una storia da raccontare e che i consumatori desiderano conoscere. Il consumatore “etico” ha ulteriormente accentuato l’importanza dei valori positivi che un brand deve incarnare e che devono entrare nel racconto.

Il settore delle biotecnologie alimentari si sta rinnovando molto rapidamente con il cibo finto e, in particolare, con la carne artificiale, chiamata anche clean meat. Sta coinvolgendo e appassionando scienziati, chef, studiosi, esperti di cambiamento climatico, imprenditori di tutto il mondo. La food experience del domani sicuramente cambierà il modo con cui le persone interagiscono con il cibo. Un fattore di non poco momento sotto tanti profili, visto il crescente protagonismo del cibo oggi. Ci saranno impatti economici, tecnologici, etici, psicologici. Addio identità culturale, tradizione, radici di appartenenza, stile di vita, senso di comunità e ospitalità, paesaggio, competenze, pratiche, territorio… Ma, si sa, la vita è un trade-off: mentre si perdono alcune evocazioni e pezzi di storia, dall’altro si creano nuove e importanti opportunità.

Comunque, è necessaria ancora molta attività di ricerca per trasformare il battage e il dialogo scientifico in realtà. Molte sono le questioni aperte e, in primo luogo, quali tutele per il consumatore? Il cibo sintetico richiede norme per la sua produzione e trasformazione e gli studi in corso serviranno anche a definire le norme legislative, come le caratteristiche dei substrati, gli additivi chimici, le norme di sicurezza degli impianti. Quali industrie del comparto alimentare saranno influenzate dalle nuove tecnologie del cibo finto? Quali componenti di cibo potranno essere stampati in un futuro prossimo tramite la stampante tridimensionale? E quali aspetti dovranno essere presi in considerazione per garantire la sicurezza e il mantenimento del cibo ad esempio stampato in 3D? Queste sono molte delle questioni che verranno affrontate in occasione della “3D Food Printing Conference, 5th edition”, che si terrà nei Paesi Bassi (23-24 giugno 2020, Brightlands Campus Greenport, Venlo).

Sebbene ancora agli albori, il settore della carne sintetica ha fatto passi da gigante. La prima degustazione televisiva di un hamburger nato in laboratorio è avvenuta nel 2013. La carne di manzo cucinata era stata fatta crescere partendo da un campione di tessuto muscolare prelevato da una mucca. Le cellule staminali sono state poi coltivate e tagliate in modo tale da diventare filamenti successivamente stratificati per formare un tessuto che avesse la consistenza della carne bovina. Ha guidato la ricerca Mark Post, professore di fisiologia presso l’Università di Maastricht.

La carne sintetica parte quindi da cellule staminali muscolari (di maiale, pollo, manzo, anatra, ecc.) che vengono poste in un particolare contenitore (bioreattore) insieme a un substrato liquido di coltura, che generalmente è siero di sangue fetale, o a una soluzione sintetica di sostanze chimiche per ottenere una composizione simile al siero. In tali condizioni le cellule vengono alimentate in modo che possano svilupparsi e moltiplicarsi fino a formare uno strato di fibre.

La carne artificiale allevata in laboratorio, oltre a richiedere un processo lungo e costoso, non ancora è in grado di imitare né il gusto della carne né la sua consistenza fibrosa. La carne in vitro presenta, di conseguenza, problemi di tempistiche di realizzazione e di scalabilità economica significative, viene fatta crescere con un “mangime” a base di siero bovino fetale. Insomma, sempre con altre risorse animali. E’ un settore ancora lontanissimo dalla produzione industriale.

Alcune start-up – soprattutto statunitensi – vendono già carne artificiale, come la “carne impossibile”, di origine vegetale, ma dal gusto molto simile alla carne originale. Impossible Foods e Beyond Meat sono le maggiori imprese. La differenza rispetto ai normali hamburger vegetali, in vendita già da parecchio tempo, è che gli hamburger di Impossible Foods e Beyond Meat sono destinati a chi mangia abitualmente carne – e al cui gusto non rinuncerebbe mai -, anziché ai consumatori vegetariani, abituali fruitori degli hamburger di soia e quinoa.

Gli “hamburger impossibili” sono prodotti unendo tra loro ingredienti di origine vegetale, ma scelti e assemblati in modo da riprodurre il più possibile la consistenza, le sembianze e il sapore della carne, anche durante la fase di cottura. Per farlo, le imprese su cui sono impegnate hanno investito anni a studiare campioni di carne in laboratorio, scandagliando tutti i mutamenti chimici alle varie temperature, provando centinaia di ingredienti diversi per riprodurre perfino il sangue tipico degli hamburger poco cotti (che poi non è davvero sangue ma mioglobina, una proteina simile).

L’“Impossible Burger”, il più famoso prodotto di questo tipo, attualmente viene venduto anche negli oltre 7.000 ristoranti della catena Burger King degli Stati Uniti. Secondo Impossible Foods, per essere prodotto l’“Impossible Burger” richiede circa l’87 per cento di acqua in meno, il 97 per cento di terra in meno e l’89 per cento di emissioni in meno rispetto agli hamburger di manzo. Le sue proprietà nutritive, afferma l’azienda, sono uguali o superiori al corrispettivo animale.

A differenza di Impossible Foods, Beyond Meat – che oggi vende i suoi prodotti in moltissimi supermercati in tutto il mondo ed è quotata in Borsa – si è servita di un approccio diverso: usa ingredienti vegetali senza modificarli in laboratorio. L’hamburger è composto da piselli, riso, fagioli indiani verdi, amidi vegetali, olio di cocco e barbabietola rossa, che serve a dare l’impressione del tipico colore rosso della carne di manzo.

Il The New Yorker ha dedicato un ampio articolo sull’argomento, fornendone lo stato dell’arte.

In Italia non esistono ancora gli hamburger di Impossible Foods, mentre sono disponibili gli hamburger di Beyond Meat nelle catene Well Done e The Good Burger, e le polpette nella catena The Meatball Family.

Un salto in avanti – iperbolico – è avvenuto con Giuseppe Scionti, ingegnere biomedico italiano, passato dai laboratori nel campo dei biomateriali e dell’ingegneria tissutale del Politecnico della Catalogna fino a fondare una sua startup, Novameat, brevettando una tecnologia innovativa per l’industria alimentare. Il brevetto di Scionti è il risultato dei suoi studi scientifici sulla rigenerazione dei tessuti. La sua biostampante tridimensionale è in grado di generare tessuti artificiali che assomigliano a quelli umani e animali, imitando la loro struttura originale a livello sia macroscopico sia microscopico. Si tratta quindi di carne a base vegetale in tre dimensioni con la consistenza fibrosa associata alla bistecca e alle altre pietanze di carne. Tuttavia, pollo, manzo, maiale hanno consistenza differente. Di conseguenza, ciascun prodotto richiede uno studio istologico della carne di partenza. Le proprietà meccaniche vengono esaminate altrettanto attentamente e quindi riprodotte nella carne sintetica.

I prototipi finora sviluppati dalla Novameat sono due: il petto di pollo e la bistecca di manzo. Attraverso una biostampante 3D, egli ottiene un succedaneo della carne di manzo e di pollo senza carne sebbene con i suoi medesimi sapori e, comunque, evitando i significativi effetti collaterali degli allevamenti intensivi.

La ricerca più recente infatti punta il dito sull’industria del bestiame e sugli allevamenti intensivi. L’impatto ambientale della filiera della carne è appunto elevatissimo, sia in termini di emissioni di gas serra sia di consumo delle risorse (quelle idriche e i terreni coltivabili). L’agricoltura consuma più acqua di qualsiasi altra attività umana, e di questa circa tre quarti sono destinati agli allevamenti. Circa un terzo delle terre coltivabili del mondo è usato per produrre mangimi per l’allevamento. In particolare, tra i vari tipi di allevamento, è quello dei bovini il più dannoso per l’ambiente a livello mondiale, perché causa una liberazione di metano nell’atmosfera che moltiplica l’effetto serra.

Gli scienziati ritengono che entro il 2050, quando la popolazione mondiale si sarà avvicinata ai dieci miliardi di persone, la domanda di carne raddoppierà. Entro quella data, si legge nel Rapporto della Banca Mondiale e dell’ONU – “Creating a Sustainable Food Future” -, sfamare la Terra si tradurrà nella distruzione della maggior parte delle foreste, nell’eliminare migliaia di nuove specie e nel rilascio di quantità di gas serra da superare la soglia di sicurezza. In più, contribuirà ad aumentare i migranti climatici, cioè le persone che saranno costrette a lasciare la propria casa e la propria terra di origine per circostanze ambientali. Quindi, viene offerto… su un piatto d’argento un succedaneo “eco-friendly” e “cruelty-free”.

Tuttavia, per quanto riguarda le emissioni gassose, c’è da considerare che nel mondo la maggiore la concentrazione di bovini (ritenuti i maggiori responsabili della emissione di gas serra) si trova in India dove, essendo considerati sacri, non sono utilizzati ai fini alimentari e non sono macellati.

La carne ottenuta con la tecnica della biostampante 3D non è un organismo geneticamente modificato, poiché il brevetto usa solo biomateriali come le proteine vegetali, i carboidrati, le vitamine, i grassi vegetali che permettono di produrre la carne. Essendo le proteine utilizzate già presenti in natura, il brevetto non richiede lo stravolgimento dell’ecosistema. In particolare, l’inventore argomenta in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera:

Grazie a una particolare tecnica mista ereditata dalla biomedicina, le proteine vegetali possono essere organizzare a livello nanometrico come se fossero fibre muscolari. Si può così ottenere una bistecca stampata in 3D con la consistenza fibrosa tipica della carne animale. Del tutto priva di OGM.

I materiali di origine vegetale possono derivare sia da piante sia da alghe. Anche il problema della sicurezza alimentare sembra essere superato poiché i materiali utilizzati sono quelli già approvati dalle autorità europee e dalla Food and Drug Administration americana.

Sebbene il futuro della carne sintetica rimanga tutto da decifrare, l’avvento delle biostampanti tridimensionali e la costante riduzione del loro prezzo potrebbero rivoluzionare la nostra concezione di cibo. Gli alimenti prodotti attraverso questa tecnologia possono essere pastorizzati e confezionati per essere trasportati nelle zone più remote.

Una prospettiva intrigante, tanto da attirare le attenzioni della FAO, commenta l’autore di un articolo su la Repubblica. Ad esempio, la carne sintetica di origine vegetale può contribuire a contrastare la carenza di specifici nutrienti nei paesi più poveri. La sua distribuzione sarebbe più pratica ed efficace rispetto a quella degli attuali “beveroni”, peraltro difficili da far accettare alla popolazione. Sotto questo aspetto, tale modo di nutrirsi diventa fattore che contribuisce a ridurre i gap delle disuguaglianze e a ridurre la fame nel mondo. La bistecca è un pezzo di muscolo, possiede elementi, come le terminazioni nervose, che ai fini alimentari non servono a nulla. Una carne vegetale contiene invece esclusivamente gli ingredienti necessari al nutrimento.

Quindi: sarà una bistecca vegan che costerà di meno, che concorrerà a evitare gli sprechi alimentari, che sarà “ecocompatibile”, di aiuto ai paesi più poveri, che eviterà la crudeltà verso gli animali di allevamento intensivo e la loro morte. Sicché, una bistecca con un’“etica multidimensionale”. Per gli umani, per gli animali, per l’ambiente. Insomma la carne stampata a tre dimensioni costituisce l’ottimizzazione di un prodotto.

Quando arriverà sulle nostre tavole? Non presto, sebbene la rivoluzione alimentare sia ormai avviata. Afferma l’inventore che il vantaggio della carne “stampata” è che cerca di indurre un cambiamento nelle abitudini alimentari della popolazione, senza rappresentare un sacrificio, … ma circa il sacrificio sarà tutto da vedere!

Succede a volte di assaggiare dei piatti che ci lasciano sensazioni positive. Non è questione di “magia del cibo” e nemmeno di vedere un impulso primario soddisfatto. La risposta sta nel nostro cervello. Il termine coniato negli Stati Uniti è “comfort food”, cioè quel cibo che fornisce felicità a livello psicologico. Sono per lo più cibi collegati al passato e alle nostre memorie, ma anche alla cultura, valori, religione in cui si è cresciuti. In Italia classici esempi, sono la torta della nonna o il ragù della mamma. Sono piatti che ci ricordano tempi felici oppure una specifica persona della nostra vita. Quando assaggiamo un cibo che ha fatto parte della nostra infanzia, è molto probabile che il ricordo di quei momenti riaffiori velocemente, lasciandoci una sensazione di buon umore, felicità o nostalgia. Gli elementi in questo tipo di memoria (autobiografica) sono immagazzinati in modo inconscio, ma possono produrre effetti sul comportamento. Ad esempio, la sazietà sensoriale specifica è quel fenomeno che fa sì che alla fine di un’abbondante cena, quando non si ha più appetito, rimane sempre un po’ di spazio per il dolce. Inoltre, le immagini, il profumo, l’idea, il parlare di cibo producono, tra i tanti altri effetti, la salivazione (la famosa “acquolina in bocca”).

Probabilmente, il cibo sintetico ci farà perdere questo patrimonio interiore, sebbene la carne finta, nelle alternative vegetali, rifletta le preferenze etiche di molti consumatori. Chissà se questa futuristica food experience avrà veramente un futuro e la nuova cultura alimentare attecchirà.

Il paniere del consumatore è destinato a diventare un paniere di “novel food” contenente stampe tridimensionali, cibo riprodotto in vitro, altro cibo sintetico, nonché insetti. E sì, la FAO da anni promuove gli insetti come “proteina del domani”, una risposta efficace e a basso impatto ambientale al crescente bisogno di cibo conseguente all’aumento della popolazione terrestre.

Il consumatore ne guadagnerebbe senz’altro in efficienza, ma allo stesso tempo perderebbe pezzi di sé – attraverso una rimodellizzazione delle sue preferenze. Inoltre, il cibo sintetico sarà ugualmente buono? Come reagirà il consumatore al trade-off efficienza vs. gusto, tradizioni tramandate, evocazioni, antichi profumi del cibo che fu? La strategia del food storytelling diventerà particolarmente impegnativa, ma anche affascinante! Dovrà suscitare empatia, galvanizzare sentimenti, coinvolgere, far immedesimare il consumatore in un portatore dei valori etici che connotano questa nuova fase dell’alimentazione.

Certo, il pianeta ringrazia… il romanticismo un po’ meno.

Guardando il menù del ristorante: “Amore, preferisci la bistecca di manzo di rape o di cavolfiore? Se vuoi, il piatto del giorno è il petto di pollo di alghe”. Lei si rivolge al cameriere: “Mi andrebbe una braciola di maiale di carciofi”. Interviene, allora, il cuoco – un ologramma: “Mi dispiace, non la stampano ancora!”

 

Forum della Ricerca in Psicoterapia: il video della Poster Session – Riccione 2019

Stimolare una riflessione su come la concettualizzazione, la condivisione, la strategia e la tecnica interagiscano tra loro all’interno del processo terapeutico: il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia”

 

Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia” 10-11 maggio 2019, Riccione. Il Forum della Ricerca in Psicoterapia è un convegno biennale organizzato dalle scuole Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Scuola Cognitiva di Firenze, Psicoterapia e Scienze Cognitive in cui gli allievi delle diverse scuole hanno l’opportunità di presentare e discutere i propri lavori di ricerca e casi clinici e ricevere revisioni da parte di ricercatori e clinici di comprovata esperienza. Quest’anno il Forum della Ricerca in Psicoterapia ha avuto come obiettivo quello di stimolare una riflessione su come la concettualizzazione, la condivisione, strategia e tecnica interagiscano tra loro all’interno del processo terapeutico. Il Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 “Dalla concettualizzazione condivisa del caso alla terapia” ha il fine di promuovere un confronto tra le diverse prospettive cognitive, una maggiore interazione tra clinica-formazione-ricerca, una riflessione critica sui progressi scientifici nell’ambito della psicoterapia cognitiva, la realizzazione di disegni di ricerca che possano avere rilevanza in ambito clinico e un’analisi critica della concettualizzazione e gestione dei casi clinici.

 

Allievi e Ricerca – Il video dalla Poster Session
del Forum della Ricerca in Psicoterapia 2019 di Riccione:

 

Smart cities, le città del futuro tra innovazione e sostenibilità – Psicologia Digitale

Città in cui le persone sono al centro del progetto di sviluppo, dell’economia sostenibile, delle tecnologie integrate, in cui le risorse naturali vengono gestite consapevolmente da tutti attraverso l’azione partecipativa. Dove efficienza fa rima con produttività, funzionalità e alto valore sociale. Le smart cities sono le città di domani.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 3) Smart cities, le città del futuro tra innovazione e sostenibilità

 

Ci sono delle parole nuove, inglesismi che, nonostante diventino di uso comune, hanno confini sfocati e definizioni incerte. Smart city è fra queste. Argomento popolare tra studiosi come tra addetti ai lavori (urbanisti, tech company), ad oggi ha raccolto più di 100 diverse definizioni, che ora si focalizzano sull’aspetto prettamente tecnologico, ora sulle implicazioni politiche o ancora sull’aspetto della sostenibilità ambientale. Ma una smart city è questo e molto altro ancora.

Smart cities: che cosa sono e come funzionano

Secondo Prado Lara e collaboratori (2016) una smart city viene definita in base ad alcuni elementi che, insieme, concorrono a precisare cosa è e come funziona. 
Sicuramente un primo elemento fondante è l’integrazione delle tecnologie digitali più avanzate, con l’adozione di strategie economiche e sociali fondate su infrastrutture moderne. In secondo luogo, è necessario puntare sulla diffusione delle conoscenze, delle competenze distintive e del know-how (sulla cosiddetta knowledge economy), sull’innovazione e sulla competitività in modo da creare ambienti creativi e favorevoli all’imprenditorialità. Ancora, si tratta di una città che promuove la green economy e uno stile di vita sostenibile, nel rispetto della qualità della vita e delle risorse naturali del luogo. Infine, altro elemento importante è la partecipazione attiva dei cittadini che devono sentirsi parte ed essere coinvolti nei progetti di sviluppo.

Dalla smart city agli smart citizens: il cittadino al centro del progetto

La maggior parte degli studi e delle riflessioni fatte finora si è focalizzata su quali sono gli elementi chiave della smart city. Come ci ricordano Jing e colleghi (2018), la letteratura raramente tiene in conto l’elemento più importante di una città: le persone. Se è l’ambiente-città ad essere ripensato non si può non considerare che al centro di tutto ci sono i cittadini, coloro che co-creano e vivono la città. Sempre secondo Jing e colleghi (2018) la questione è più complessa di come possa apparire: non si tratta solo di innovazione, tecnologie e sostenibilità, ma anche e soprattutto di rendere tutte queste facilmente gestibili ed attuabili dalle persone. Gli smart citizens hanno a disposizione una mole ingente di informazioni da diversi canali contemporaneamente, dall’automonitoraggio grazie agli wearable devices (ad esempio, il fit bit) alle notizie disponibili in qualsiasi momento on line.

Come e quali informazioni è possibile gestire efficacemente? Ancora, grazie a Internet e alla potenza delle nuove reti 4.5g (a breve in arrivo la 5g) possiamo interagire in tempo reale con chiunque senza bisogno di un incontro faccia a faccia, ma quanto queste interazioni sono realmente qualitative? Infine, le smart cities si fondano sulla partecipazione attiva dei cittadini. Ma quante volte, ad esempio, quei click che dispensiamo tanto facilmente quando siamo online si trasformano in azioni concrete? Per esempio, basti pensare al fenomeno dello slacktivism: in italiano viene tradotto come attivismo da tastiera o attivismo da poltrona, un modo per descrivere la pratica di sostenere una causa politica o sociale mediante petizioni o adesioni a pagine online, che poi si traducono in un impegno concreto molto limitato se non, nella maggior parte dei casi, nullo.

Cosa ci aspetta

Nel 2017 è stata annunciata la costruzione di Neom, la prima città totalmente smart finanziata dal principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman. Dopo diversi progetti pilota come quello di Rio de Janeiro che hanno visto le prime implementazioni di tecnologie nel contesto cittadino già nel 2010, ora l’Europa promuove il progetto EU Smart City con il quale punta ad incentivare le principali città europee a diventare sempre più smart.

La ricerca futura si indirizzerà ad analizzare come il comportamento delle persone, sia individuale che gruppale, ne sarà influenzato.

L’aspirazione è creare spazi urbani totalmente ridisegnati: città creative perché re-immaginate, re-inventate collettivamente, ecosostenibili e tecnologicamente avanzate. Le persone al centro di tutto, la qualità di vita, l’espressione del massimo potenziale, l’incentivo alla conoscenza condivisa, lo sviluppo che nasce proprio dai singoli e dalla loro partecipazione, tutto questo è smart city.

 


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

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Diventare un Trauma Therapist secondo Kathy Steele – Report dal 7° Congresso Biennale della Società Europea per il Trauma e la Dissociazione (ESTD)

Al 7’ Congresso Biennale della Società Europea per il Trauma e la Dissociazione (ESTD), tenutosi a Roma dal 24 al 26 ottobre 2019, Kathy Steele, una delle massime esperte mondiali di trauma, ha ipnotizzato la platea con il suo intervento su come diventare, o meglio, crescere come trauma therapist.

 

Kathy Steele, riprendendo le parole di Milton Erickson relativamente a come la voce del terapeuta sia interiorizzata dal paziente, sottolinea come in realtà avvenga anche il contrario, anche il paziente entra nel terapeuta patients go with us in mind, but also in body, non solo nella mente ma anche nel corpo. Un trauma therapist deve fare quindi i conti con il proprio corpo, essere consapevole delle proprie reazioni e del proprio vissuto, con le risposte difensive che si attivano in noi di fronte ai nostri pazienti.

Un terapeuta incarnato, una incarnazione di corpo e mente, un’unità delle parti in continua costruzione quello che sono qui oggi è diverso da quello che sarò tra 5 minuti o tra 5 anni.

Un terapeuta radicato nel suo corpo è capace di integrare le proprie sofferenze con il proprio vissuto e accettare il paradosso del dolore più cerchiamo di evitare il dolore più soffriamo, più cerchiamo di accoglierlo meno sofferenza avremo. Questo è quello che il trauma therapist deve far suo e trasmettere ai propri pazienti, pazienti che sentono un dolore di cui tentano di sbarazzarsi non capendo che invece in tal modo lo bloccano, lo trattengono fino ad arrivare alla disperazione.

Ciò accade anche al terapeuta che spesso sperimenta emozioni ‘fastidiose’ come la frustrazione del non riuscire ad aiutare il suo paziente: anche questo va accettato, accolto, rimanendo stabile nella variabilità emotiva cui le situazioni di vita lo espongono.

Un concetto questo strettamente correlato a quello di attaccamento e di accudimento, per cui a volte il terapeuta nel suo ruolo ‘salvifico’ cerca il ‘miracolo’ e continua a stare con il paziente nella stessa modalità anche in assenza di miglioramenti, convinto che il legame si crei se si è presenti a sufficienza. Ciò può bloccare in realtà terapeuta e paziente in una relazione disfunzionale, simile a un attaccamento insicuro. Il terapeuta timoroso del compito da affrontare con il paziente o spaventato da ciò che il paziente potrebbe fare se viene superato il limite, rimane incastrato in un legame disfunzionale, in una modalità di soccorso che lo porta a dimenticarsi di sé. Questo è il costo del caring.

Il trauma therapist deve invece radicarsi nella propria esperienza per contrastare la pressione creata dal paziente traumatizzato e pensare coerentemente se e come portare avanti la terapia, come andare oltre definendo limiti e priorità, eventualmente decidere di non vedere più il paziente inviandolo altrove.

Un accento posto quindi sulla accettazione della vulnerabilità, fallibilità, umanità del terapeuta come fulcro per un ingaggio incarnato con il paziente e requisito fondamentale per lavorare con il trauma e la dissociazione.

Un terapeuta incarnato, come ci insegna Steele è un terapeuta compassionevole, connesso, vulnerabile e resiliente, è un terapeuta che è innanzitutto una ‘Persona’, che si prende cura di sé e della propria vita al di fuori della professione, che abbraccia le proprie negatività e che nel lavoro con il trauma è focalizzato sul processo piuttosto che sul contenuto.
 

La terapia focalizzata sulla compassione. Caratteristiche distintive (2018) di P. Gilbert – Recensione del libro

La terapia focalizzata sulla compassione. Caratteristiche distintive, un chiaro e utile testo che offre al professionista la possibilità di confrontarsi con aspetti essenziali per il benessere, come quello di sviluppare una mente compassionevole. Ma cosa intendiamo per compassione? E come possiamo svilupparla?

 

Una sensibilità verso la sofferenza di noi stessi e degli altri, unita ad un profondo impegno nel tentare di alleviarla (Dalai Lama)

Il testo di Paul Gilbert, di cui l’edizione italiana curata da Nicola Petrocchi, rappresenta un testo che offre al professionista la possibilità di confrontarsi con aspetti essenziali per il benessere, come quello di sviluppare una mente compassionevole, descrivendo le abilità che la stessa comprende, offrendo un ampio ventaglio di tecniche ed esercizi.

Sviluppata nel 2005 ad opera di Paul Gilbert, la Compassion Focus Therapy  (CFT), si presenta come terapia multimodale che unisce diversi contributi di differenti approcci della terapia cognitivo comportamentale, uniti a filosofie orientali e insegnamenti buddisti integrati da teorie evoluzionisti, psicologia sociale e contributi delle neuroscienze relativi alle scoperte sulla regolazione affettiva ed il modo in cui sistemi cerebrali antichi e moderni interagiscono fra loro. Dialogo socratico, la scoperta guidata, esperimenti comportamentali, l’esposizione, esercizi di immaginazione, esercizi di respirazione, la scrittura espressiva, la mindfulness e tanti altri, ampiamente descritti, diventano le tecniche utilizzate nel lavoro con il paziente.

Il testo sembrerebbe sottolineare come la finalità della CFT diviene quella di lavorare su un cambiamento che non ha a che fare solo con il cambiare pensieri, ma l’esigenza, come sottolinea P. Gilbert, di lavorare sulle emozioni al fine di non spiegare il cambiamento al paziente, ma di fare sentire il cambiamento, attraverso un atteggiamento compassionevole, gentile, non giudicante e accudente. Vergogna, autocritica e senso di colpa diventano emozioni secondarie sulla quale si lavora principalmente cercando di accoglierle e bilanciandole attraverso lo sviluppo del sé compassionevole.

Per comprendere il perché ed in che modo opera la CFT, nel capitolo 6 vengono presentati e descritti tre sistemi di regolazione affettiva, ossia:

  • Sistema di protezione dalla minaccia, che opera attraverso l’attivazione di particolari strutture cerebrali, come l’amigdala e l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, responsabile del sistema attacco-fuga, volto a garantirci la sopravvivenza, mobilitandoci di fronte a una possibile minaccia, al fine di mantenere o ripristinare una condizione di sicurezza. Responsabile di emozioni come rabbia, ansia, disgusto, tristezza, gelosia, invidia, vergogna.
  • Sistema di ricerca di stimoli e risorse modulato dall’eccitamento, legato ad emozioni positive ed energizzanti connesse al circuito dopaminergico che ci consente di sperimentare sensazione di benessere e piacere; il soggetto è più propenso a credere che la sensazione di benessere sia legata al fare. Un sistema attivante che spinge alla realizzazione di scopi.
  • Sistema calmante, appagamento e sicurezza, un sistema che genera in noi sollievo, quiete e serenità. Caratterizzato da stati emotivi come la calma, la tranquillità, l’appagamento ed il rallentamento che sperimentiamo quando non ci sentiamo in pericolo, ci sentiamo apprezzati, accuditi; sembrerebbe strettamente connesso all’aspetto relazionale e sociale del sentirsi connessi agli altri, ed inoltre connesso anche a un maggior rilascio nell’organismo dell’ossitocina, una sostanza in grado di produrre sensazioni appaganti e calmanti.

L’autore sottolinea come, aspetti come quelli descritti sopra, diventano importanti da spiegare ai nostri pazienti al fine di favorire la comprensione del funzionamento del nostro cervello, della nostra mente e facilitare il passaggio dal senso di colpa, all’assunzione della responsabilità per il proprio benessere. La CFT lavorerà al fine di bilanciare i tre sistemi di regolazione affettiva e non soltanto di stimolare il sistema calmante connesso alla compassione.

Nella seconda parte del testo si entra nel vivo della pratica della compassione. Esercizi di focalizzazione e di immaginazione sono i principali strumenti utilizzati, insieme al training sulla respirazione calmante, per allenare qualità compassionevoli come la saggezza, la forza, il calore, la gentilezza e l’assenza di giudizio/condanna. Luogo sicuro, sviluppare il sé compassionevole, esercizio della sedia compassionevole, mettere in scena le proprie emozioni, tra le tecniche svolte in immaginazione che vengono descritte nel testo volte a fare sperimentare le diverse sensazioni che si accompagnano ad un immagine piuttosto che un’altra e riuscire a sviluppare dentro di sé un sistema calmante.

Attraverso la CFT i pazienti potranno imparare dunque a:

  • accettare le emozioni per quello che sono;
  • essere compassionevoli e comprensivi verso se stessi, riducendo l’attitudine alla personalizzazione alla vergogna, spostando il focus verso la compassione;
  • riconosce l’autocritica disfunzionale e riqualificarsi sulla compassione di sé;
  • sviluppare la compassione che scaturisce da noi stessi ed è rivolta verso gli altri, la compassione rivolta verso noi stessi e la compassione che arriva dagli altri e che è a noi rivolta.

Un testo che in modo chiaro ci consente di affacciarci sul panorama della Terapia Cognitivo Comportamentale di terza generazione, dove nulla viene superato o sostituito, ma arricchito, integrato e personalizzato e che ci consente di cogliere, da angolature diverse, la complessità della mente e del cambiamento, dove si evidenzia come per poter cambiare sia necessario creare un rapporto armonico tra cervello antico e moderno, che passi dalla consapevolezza, dall’accettazione e dalla compassione, aspetti innati nell’uomo, ma che vanno coltivati con impegno e costanza.

Mi piace concludere con un augurio trovato all’interno del testo e che ognuno di noi potrebbe rivolgere a se stesso:

Che tu possa stare bene. Che tu possa essere felice. Che tu possa essere libero dalla sofferenza.

 

Come nasce uno stereotipo?

Come nasce uno stereotipo? O meglio, quando nasce? Riusciamo, fin dalla più tenera età, a riconoscere a colpo d’occhio una persona brillante? Se ci dicessero di immaginarci una persona molto intelligente, quali caratteristiche dovrebbe avere?

 

Uno studio recentemente pubblicato su Journal of Social Issue, cerca di dare una risposta a questi delicati quesiti, partendo da un campione formato da 203 bambini di diversa etnia, con un’età compresa tra i 5 e i 6 anni.

I bambini iniziano a identificarsi e ad adottare le caratteristiche del proprio genere addirittura dall’età di 2 o 3 anni (Gelman, Taylor, & Nguyen, 2004). Come mai questo avviene così presto nella vita? Perché i bambini sono particolarmente sensibili agli stimoli che ricevono dalle figure di riferimento: in poche parole, impariamo facilmente ciò che è più comune per i maschi e ciò che lo è per le femmine e tendiamo a identificarci con le persone del nostro genere. Così iniziano a formarsi nella mente i primi stereotipi, che concernono la dimensione più concreta della vita, per esempio, quali giochi sono adatti ai maschi e quali colori alle femmine (Serbin, Poulin-Dubois, Colburne, Sen, & Eichstedt, 2001).

Due o tre anni dopo (intorno ai 5-6 anni d’età), gli stereotipi di genere passano dalla dimensione concreta a quella più astratta: così i maschi iniziano a essere, nell’immaginario comune, più bravi delle femmine nella matematica, nelle scienze e, in generale, in tutte quelle materie in cui è richiesta una mente brillante e intuitiva (Cvencek et al., 2011). Questa tipologia di preconcetti rimane pressoché invariata anche durante età adulta, andando a intaccare la vita lavorativa e le prospettive di carriera delle donne impegnate in campi professionali dove le abilità intellettive hanno un grande peso (es. Bian, Leslie, & Cimpian, 2018).

Nonostante le numerose ricerche svolte su questo argomento, sono ancora pochi i dati in nostro possesso sull’associazione tra stereotipo di genere e gruppo etnico, in quanto l’analisi è stata portata avanti soprattutto con osservatori e osservati della medesima etnia: un dato interessante in questo ambito, ricavato dallo studio di Livingston e colleghi (2012), ha mostrato che solo gli uomini caucasici sono considerati più brillanti delle donne della medesima etnia, mentre, nel caso delle popolazioni nordafricane accade l’esatto opposto.

Nello studio qui riportato, Jaxon e colleghi (2019), si sono posti l’obiettivo di indagare gli stereotipi di genere tenendo in considerazione il gruppo etnico dei bambini sia nel caso in cui il partecipante dovesse giudicare una persona della stessa etnia, sia nel caso in cui dovesse farlo su una persona di etnia differente.

I 203 bambini che hanno partecipato allo studio, dei quali il 37,7% era bianco, il 4,9% di colore, il 29,9% ispanico e il 6,1% asiatico, sono stati sottoposti a due prove differenti: la prima prova, il training task, consisteva nella spiegazione dei bambini di quello che per loro significava brillante e con l’eventuale correzione da parte degli esaminatori nel caso la risposta non fosse del tutto corretta; la seconda prova (stereotype task) mirava a comprendere gli stereotipi di genere nei partecipanti.

I risultati hanno mostrato che i bambini, a prescindere dalla loro stessa etnia, tendevano ad associare il termine molto brillante più agli uomini caucasici che alle donne della stessa etnia e alle donne di colore piuttosto che agli uomini del medesimo gruppo etnico. Questi risultati, in linea con la precedente letteratura, dimostrano come, nonostante il gruppo etnico dell’osservatore, gli uomini caucasici vengano considerati fin dalla giovanissima età più intelligenti e brillanti di tutti gli altri, seguiti dalle donne di colore.

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Parte II: le basi neurali della cognizione sociale nella depressione

Il funzionamento sociale dei pazienti con disturbo depressivo maggiore è da sempre considerato un aspetto clinico fondamentale e recentemente molti studi di neuroscienze hanno cercato di individuare i correlati neurobiologici coinvolti.

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore – Le basi neurali della cognizione sociale nella depressione (Nr. 2)

 

Il disturbo depressivo maggiore (MDD) è caratterizzato da episodi di flessione significativa del tono dell’umore, della durata di almeno due settimane, con perdita di interesse o piacere, maggiore intensità e labilità affettiva, alterazioni a livello psicomotorio e neurovegetativo, nonché da un’importante compromissione del funzionamento a livello sociale ed interpersonale. E’ il disturbo mentale maggiormente diffuso (prevalenza lifetime di circa il 7%) e costituisce un’ ”emergenza globale” secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Il funzionamento sociale dei pazienti con MDD è da sempre considerato un aspetto clinico fondamentale e recentemente molti studi di neuroscienze si sono concentrati su uno dei principali domini della social cognition (Couture et al, 2006), la comprensione emotiva, cercando di individuare i correlati neurobiologici coinvolti. Nei soggetti sani la ricerca ha già evidenziato come gli stimoli cognitivo-affettivi vengano processati da un complesso network neurale che sottenderebbe le competenze di social cognition (Adolphs, 2001; 2009; Altshuler, Ventura, Van Gorp et al. 2004; Olson, Plotzker & Ezzyat, 2007).

La letteratura evidenzia come la Depressione Maggiore sia associata a compromissioni nella dimensione della social cognition e di conseguenza ad un peggior funzionamento socio-cognitivo, in particolare nella comprensione ed elaborazione delle emozioni, soprattutto facciali.  Maggiormente in discussione è la questione che riguarda la persistenza e l’eventuale gravità di tali compromissioni socio-cognitive anche nelle fasi di remissione dalla sintomatologia depressiva.

Complessivamente infatti gli studi che hanno utilizzato la fMRI evidenziano nei pazienti depressi una compromissione nelle capacità di identificazione ed elaborare delle emozioni facciali, che correlerebbero con talune alterazioni strutturali e funzionali, tipiche della fase di umore deflesso, la quale tende però a mantenersi anche durante le fasi eutimiche (vds. review Turchi et al., 2017). Stesse evidenze scientifiche riguardano gli studi che hanno utilizzato altri paradigmi rispetto all’elaborazione delle emozioni facciali o che hanno analizzato dal punto di vista neurale pazienti con MDD in resting state, i quali mostrano anomalie fronto-limbiche persistenti anche nei periodi liberi da sintomi depressivi (vds. review Turchi et al., 2017).

Nello specifico gli studi evidenziano una serie di alterazioni sia a livello corticale che sottocorticale, che nella connettività funzionale fra queste regioni. Tali alterazioni rappresentano complessivamente una diminuita capacità regolatoria di tipo top down, ad opera delle strutture corticali su quelle limbiche deputate al riconoscimento ed alla rielaborazione delle emozioni, sia negative che positive, durante i task di elaborazione delle emozioni espresse dai volti. Su questa linea anche le sopra riportate alterazioni a livello di connettività funzionale, che mostrano una compromissione nel funzionamento della stessa in soggetti con vulnerabilità alla depressione. Anche gli studi che hanno utilizzato paradigmi diversi sottolineano la presenza, in pazienti con MDD in fase depressiva, di bias cognitivi negativi durante l’elaborazione emotiva anche in campioni di bambini e adolescenti.

La ricerca evidenzia inoltre una difficoltà di regolazione anche bottom up, la quale si manifesta in particolare nell’iperattivazione dell’amigdala durante il riconoscimento dell’emozione di tristezza (mood congruity effect) oppure, in pazienti con MDD grave o moderato, nel valutare l’espressione emotiva di volti neutri come tristi, ed in associazione ad un bias della funzione attentiva che riguarda un’estensione selettiva dell’attenzione nei confronti delle emozioni di tristezza e rabbia. Sembra inoltre che vi siano delle dificoltà di regolazione riguardo all’emozione della colpa, che unitamente all’autosvalutazione, tende a persistere anche in fase eutimica. In linea con questi risultati alcuni studi evidenziano un’ipoattività nell’amigdala durante l’elaborazione di emozioni facciali a valenza positiva, il che potrebbe indicare una difficoltà nel processare le emozioni positive piuttosto che quelle negative (vds. review Turchi et al., 2017).  Si pensa che tali meccanismi, mood congruity effect, svolgano un ruolo di amplificazione e mantenimento dell’episodio depressivo. Infatti, una persona depressa tenderà ad identificare l’emozione con maggiori capacità ed entrerà maggiormente in risonanza emotiva quando incontrerà nell’altro l’emozione della tristezza e questo potrebbe concorrere sia allo slatentizzarsi di episodi depressivi che all’aumentare della loro durata ed intensità amplificando di fatto il vissuto di tristezza, tanto che qualche autore l’ha proposta quale possibile “marcatore di tratto” per la vulnerabilità al MDD, in accordo con il modello cognitivo della depressione (Abramson, Seligman & Teasdale, 1978).

Questa particolare sensibilità responsiva nei confronti della tristezza non potrà inoltre essere opportunamente regolata dai controlli cognitivi discendenti a causa della diminuita attivazione corticale e di connettività funzionale di cui abbiamo già parlato (vds. review Turchi et al., 2017). E’ possibile che una lunga storia clinica, con conseguente compromissione interpersonale e sociale, possa sottendere una generale compromissione delle funzioni metacognitive, ma si è altresì ipotizzato che sia proprio questa compromissione a contribuire all’aumentato rischio di incorrere in episodi depressivi più gravi svolgendo in definitiva un ruolo di variabile inter-dipendente.

E’ interessante sottolineare come, nonostante in molti casi tali anomalie possano essere adeguatamente regolate da meccanismi corticali discendenti di ipercompenso, i quali diventano sempre più efficienti tanto più il soggetto si allontana dall’episodio depressivo, la letteratura più recente tende ad evidenziare, anche dopo la remissione sintomatologica, la persistenza di anomalie residuali a carico delle regioni neurali deputate al processamento degli stimoli carichi emotivamente in un’importante quota di soggetti (vds. review Cusi et al., 2012 e Turchi et al., 2017). Tale funzionamento regolatorio non pare infatti ugualmente efficace fra i soggetti affetti da MDD e ci potremmo ragionevolemente attendere che i soggetti con episodi depressivi ricorrenti non riescano a ripristinare in modo stabile livelli di efficacia buoni. Inoltre è probabile che la tendenza ad interpretare attraverso una lente negativa eventi ed emozioni esterne, fin dalla prima infanzia, possa rappresentare un ulteriore elemento di vulnerabilità in grado di concorrere negativamente al decorso della patologia, nonché di favorire nuovi episodi depressivi in età adulta, così come proposto da T. A. Beck (2008) a proposito del concetto di cognitive vulnerability.

E’ quindi ipotizzabile che possano esistere alterazioni neurofunzionali le quali potrebbero costituire una base di vulnerabilità piuttosto che rappresentare la conseguenza degli episodi depressivi, in linea con quanto evidenziato da Liu et al. (2013), i quali hanno mostrato iperattivazione del giro mediale frontale sinistro non solo nel campione clinico costituito da pazienti con MDD, ma anche nei loro fratelli sani, concludendo che questo possa essere considerato un tratto endofenotipico di vulnerabilità per la depressione maggiore.

In ottica futura riteniamo importante approfondire ulteriormente il collegamento fra alterazioni comportamentali ed il livello neurobiologico riguardanti la social cognition nel MDD, anche e soprattutto dal momento che non solo i trattamenti di farmacoterapia, ma anche la CBT, sono in grado di svolgere un’azione di normalizzazione e reversibilità dei substrati neurali deputati all’elaborazione emotiva. Sembra infatti che la CBT possa svolgere un’azione attivante delle regioni associate alla regolazione delle emozioni ed all’elaborazione cognitiva di livello superiore, mentre il trattamento farmacologico possa svolgere un’azione attivante delle regioni sottocorticali e prefrontali (Cusi et al., 2012; Turchi et al., 2017).

Altri interessanti aspetti da approfondire potrebbero riguardare lo studio del ruolo rappresentato da altre variabili che fanno parte della social cognition, tra cui l’empatia (Preston e de Waal; 2001; Gallese; 2003), la Teoria della Mente (Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985) ed il sistema dei neuroni specchio (Gallese et al.; 1996; Rizzolatti et al.; 1996).

Ragionare tutti insieme su questi aspetti ed approfondirli in maniera scientifica risulterebbe molto utile anche per poter ipotizzare delle integrazioni, dal punto di vista della psicoterapia, che permettano o favoriscano l’abilitare o la riabilitazione del funzionamento sociale dei nostri pazienti con MDD, con relative rispercussioni sulla loro qualità di vita e sul loro livello di funzionamento globale nel real world, a loro volta fattori prognostici protettivi.

 

La cognizione sociale nei disturbi dell’umore:

 

Joker: il manifesto del narcisismo in chiave Kohutiana – Recensione

Joker offre una critica all’opulenta società odierna, raffigurata in una allegoria tragi-comica, in cui gli ultimi vengono abbandonati a loro stessi per poi essere giudicati per il male commesso.

 

Attenzione! L’articolo contiene spoiler

Sin dai primi istanti, il nuovo film di Phillips su uno degli antieroi per eccellenza dell’universo DC comics trascina lo spettatore in un vortice di emozioni quasi fisiche per la potenza evocata: vergogna e umiliazione, tristezza e disagio, nichilismo che diventa rabbia, fino all’apoteosi della rivincita del sé grandioso attraverso il riconoscimento della nuova vita, creativa e criminale, appena iniziata.

C’è una battuta, in particolare, che separa la pellicola in due parti.

Abbiamo accompagnato Arthur Fleck per più di metà film nei toni scuri e sfuggenti, tra le umiliazioni, la tristezza e il fallimento, fino a che il protagonista non reagisce a un sopruso con la violenza, nei confronti di giovani ricchi borghesi, scatenando l’ammirazione degli ultimi e dei derelitti. In tv non si parla d’altro. A quel punto, la rivelazione, davanti a una psicologa/assistente sociale monocorde e inespressiva che non lo sta ascoltando.

Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto, e le persone iniziano a notarlo! (Arthur Fleck)

Cresciuto con una madre che non ha mai riconosciuto i suoi reali stati emotivi, credendolo sempre felice nonostante gli abusi a causa della risata compulsiva che caratterizza storicamente il personaggio, è il rispecchiamento della società nella crudeltà e nell’efferatezza che rende Arthur Fleck il Joker che tutti conosciamo, trasformando, parole sue, la tragedia che sino a quel punto era la sua vita, in una commedia.

Da quel momento, tra rabbia e delirio, il carico per lo spettatore si fa più leggero, i toni diventano più chiari, colorati, delineati: ecco a voi, signori e signore, la folle crudele creatività del Joker, rappresentata nella macabra danza sugli scaloni di Gotham City, rinato dalla cenere e destinato a fare cose grandi, anche se malvagie. Da reietto di una società improntata al successo, di cui Wayne è il portavoce, il Joker distrugge il proprio ideale dell’io, rappresentato dal comico televisivo Murray che lo ha tradito e deluso, fino a diventare egli stesso l’idolo di una folla grottesca che mette a ferro e fuoco la città, lo acclama e lo imita indossando la maschera e il trucco da clown. Egli stesso ora è diventato, per dirla con Kohut, il leader carismatico in cui la gente si riconosce, circondato da gregari che non ha cercato, ma che spontaneamente si porgono al suo servizio.

Uno di questi, alienato nel pensiero distruttivo, uccide il simbolo della società del benessere in cui la maggior parte stenta a riconoscersi. In un vicolo buio, perdono la vita il signore e la signora Wayne, davanti a un piccolo Bruce inerme. Senza volerlo, è il Joker e la concatenazione di eventi da lui messa in moto a creare la sua nemesi: la privazione dall’affetto dei genitori, il senso di colpa per essere sopravvissuto, la rabbia e il bisogno di riscatto, porteranno il narcisismo del giovane Wayne a forgiare il futuro giustiziere della notte, Batman.

Un perfetto caso clinico, quindi, in cui le numerose ferite narcisistiche definiscono la scissione verticale tra la grandiosità infantile apertamente manifesta e la parte debole, improntata alla vergogna e all’impotenza, che sembrano quasi impossibili da coesistere nella stessa persona, tanto da sfociare in questo caso nella psicosi. La mancanza d’ascolto e di riconoscimento, in particolare, sono il lasciapassare verso l’odio e la rabbia distruttiva che abbiamo visto compiersi nell’entrata in scena ad effetto del Joker televisivo.

Lungi dall’essere un’apologia del male, il film di Phillips interpretato da un magistrale Joaquin Phoenix in odore di Oscar, è una critica all’opulenta società odierna raffigurata in una allegoria tragi-comica, in cui gli ultimi vengono abbandonati a loro stessi per poi essere giudicati per il male commesso, il modo purtroppo naturale e catartico che alcuni trovano per far fronte a ciò che hanno vissuto, in cui si chiede, come scritto nel diario di Arthur, “a chi ha una malattia mentale di comportarsi come se non ce l’avesse”.

Neuroscienze del bilinguismo (2018) di E. Cargnelutti e F. Fabbro – Recensione del libro

Come si può definire il linguaggio? Quali aree cerebrali coinvolge? Che cos’è il bilinguismo? Esistono differenze tra chi parla una sola lingua e chi più di una? Il libro Neuroscienze del bilinguismo ci porta alla scoperta del linguaggio all’interno del cervello bilingue.

 

Da definizione, il termine bilingue indica coloro che utilizzano alternativamente e senza difficoltà due diverse lingue. Ma chi può definire con certezza scientifica concetti come lingua e dialetto? In effetti una definizione univoca non esiste, vengono classificati come bilingui chi conosce, comprende e parla due o più lingue e/o dialetti. Secondo gli studi, inoltre, esistono diversi tipi di bilinguismo, i soggetti bilingui hanno mostrato di possedere un’aumentata capacità delle funzioni esecutive e un minor decadimento cognitivo.

Quindi esistono differenze cerebrali nei soggetti bilingui rispetto a chi parla una sola lingua?

Neuroscienze del bilinguismo presenta una panoramica dei principali argomenti che riguardano il bilinguismo. Con una struttura simile al libro Cervello bilingue edito nel 1996, il testo, pur essendo dedicato, come sottolineano gli autori, a un vasto pubblico anche non specializzato, appare in alcuni punti arduo anche se l’intento di non utilizzare eccessivamente un linguaggio tecnico, se non dove necessario, è stato mantenuto.

Il libro è ben organizzato e diviso in due parti: nella prima un’introduzione generale al tema del linguaggio, mentre la seconda è dedicata specificatamente agli aspetti neuroscientifici del bilinguismo. Più precisamente, i capitoli iniziali argomentano sulla definizione scientifica del linguaggio, cercando di rispondere alla domanda posta in apertura di questa recensione. Si passa poi a definire che cos’è e chi sono le persone bilingui, fino a addentrarsi nella localizzazione a livello cerebrale e delle diverse strutture coinvolte nella produzione e comprensione del linguaggio.

Domanda: così come per il linguaggio esiste anche per l’acquisizione di una seconda lingua un periodo critico? La risposta la trovate nel testo, nel frattempo una cosa altrettanto interessante riguarda il fatto che diversi studi hanno evidenziato come l’età di acquisizione della nuova lingua (chiamata L2 per distinguerla dalla L1 cioè la lingua madre) influenzi il livello di competenza, grammaticale e di pronuncia, della lingua stessa.

La seconda parte del libro appare per certi versi più impegnativa, riguarda infatti l’aspetto dei disturbi del linguaggio nei soggetti bilingui. Appare chiaro che la situazione nei bilingui risulta leggermente diversa e più complicata rispetto a monolinguismo, perché bisogna valutare la capacità alterata e residua in entrambi i sistemi linguistici.

I disturbi del linguaggio in particolare le afasie, presentate ampiamente nel testo, ricoprono una grande importanza, perché permettono di ottenere informazioni aggiuntive circa l’organizzazione dei sistemi linguistici all’interno del cervello. L’afasia è un disturbo che inficia la capacità di esprimersi e comprendere ed è causata da un danno alle aree cerebrali deputate al linguaggio. Le afasie nei soggetti bilingui possono mostrare diversi sintomi e caratterizzarsi in maniera diversa a seconda che influenzino una sola oppure tutte le lingue conosciute, questo aspetto è presente tanto nei soggetti adulti quanto nei bambini.

Il testo affronta anche altri argomenti legati ai disturbi del bilinguismo: come si manifesta il decadimento nei soggetti bilingui e in caso di disturbi psichiatrici? In questi casi L1 e L2 subiscono delle modificazioni particolari per ragioni differenti ascrivibili in un caso al ruolo della memoria e nell’altro all’aspetto emotivo.

I capitoli finali sono dedicati agli studi neuroscientifici del cervello bilingue. Ricerche effettuate con neuroimaging o tecniche elettrofisiologiche permettono di capire che cosa avviene all’interno del cervello quando un soggetto utilizza una lingua piuttosto che l’altra.

Che rilevanza può avere questo testo e in generale studiare il bilinguismo? Oggi più che mai stiamo assistendo a una contaminazione tra culture diverse e modificazioni geo-sociali, tutto ciò porta al fatto che l’acquisizione di una seconda lingua sarà all’ordine del giorno. Conoscere approfonditamente i meccanismi implicati nel bilinguismo ci permette di acquisire nozioni utili sia in campo educativo che clinico, ricordando sempre che ogni individuo rappresenta un caso a sé.

In conclusione Neuroscienze del bilinguismo è un libro ben organizzato, ogni capitolo infatti presenta come incipit un breve riassunto che guida il lettore alla conoscenza dell’argomento che si affronterà, inoltre il testo presenta anche esempi di casi clinici. Libro impegnativo, ricco di molte nozioni soprattutto per chi approccia per la prima volta al bilinguismo. Nonostante l’intento espresso in apertura del testo, complessivamente appare un libro di settore, per così dire, ma non per questo fuori dalla portata anche dei non addetti ai lavori.

Buona lettura, enjoy the reading, buena lectura, gute Lektüre, bonne lecture, lexim i mirë.

 

Spectatoring: mediatore nell’associazione tra la preoccupazione circa l’aspetto del pene e la funzionalità sessuale maschile

Diversi studi hanno riscontrato come negli uomini la soddisfazione circa l’aspetto del proprio pene sia seguito non soltanto da una visione più positiva della propria sessualità, ma anche da un miglioramento dell’esperienza erotica stessa, arrivando anche ad amplificare la percezione di competenza sessuale.

 

Nei momenti di intimità sessuale la dimensione corporea assume sicuramente un ruolo centrale: in particolare, le cognizioni e valutazioni egoriferite circa l’aspetto del corpo. La preoccupazione specifica per l’aspetto dei genitali è stata riscontrata in letteratura come associata a sintomi depressivi e bassa autostima, da ultimo risultando nell’evitamento delle situazioni che esporrebbero l’individuo a mostrare il proprio corpo nudo, con prevedibili conseguenze sul piano relazionale e sessuale nella coppia, oltre che per un senso più generale di valutazione personale (Tiggemann, Martins & Churchett, 2018; Veale et al., 2015).

Diversi studi hanno riscontrato come negli uomini la soddisfazione circa l’aspetto del proprio pene sia seguito non soltanto da una visione più positiva della propria sessualità, ma anche da un miglioramento dell’esperienza erotica stessa, da ultimo amplificando nell’individuo la percezione di competenza sessuale. Tuttavia, è facile realizzare come normalizzare degli standard irrealistici o distorti circa l’aspetto che i genitali “dovrebbero” avere possa portare gli uomini, in particolare quelli che nutrono delle preoccupazioni circa l’estetica dei propri genitali, a provare sentimenti di inadeguatezza, così come testimoniato dall’aumento vertiginoso delle richieste di interventi per migliorare l’estetica dei genitali o la prestazione sessuale (Veale et al.; 2016).

Da diversi studi è emerso che gli uomini che percepiscono il proprio corpo o genitali come inadeguati hanno più probabilità di sperimentare difficoltà erettili così come maggiori difficoltà nel raggiungere l’orgasmo (Johnson et al., 2014; Veale et al., 2016; Veale et al., 2014). E’ stato teorizzato da Janssen e colleghi (2000) come alla base delle difficoltà sperimentate durante il sesso vi possa essere un’interferenza cognitiva che disturba il focus attentivo degli uomini insicuri del proprio aspetto; il risultato sarebbe quindi quello di distogliere l’attenzione dai cue erotici coadiuvanti l’eccitazione dell’individuo, come ad esempio stimoli contestuali erotici o gli indizi di attivazione fisica, finendo per amplificare le ansie circa la prestazione sessuale. Al pari di ogni altro processo di elaborazione dell’informazione infatti, l’attenzione appare fondamentale per un adeguato funzionamento sessuale, portando all’esperienza cosciente dell’individuo gli indizi fisiologici rilevati in risposa agli stimoli eccitanti e attivando un feedback positivo sull’arousal (Janssen et al., 2000).

Nella clinica delle difficoltà sessuali è stato dimostrato come gli uomini disfunzionali tendano a focalizzarsi sulle emozioni negative e sulle proprie paure proprio durante l’attività erotica, talvolta interferendo con l’erezione stessa e conseguentemente alimentando il circolo ansioso circa la prestazione sessuale (Barlow, 2002). Alla luce di tale modello è possibile immaginare che gli uomini che si preoccupano per l’aspetto dei genitali possano sperimentare una simile distrazione quando si trovano in intimità, esposti al giudizio proprio e del partner.

Lo spectatoring è stato concettualizzato come una forma di fissazione cognitiva sulle percezioni di sé negative durante l’attività sessuale, focalizzazione su stimoli esterni irrilevanti rispetto alla situazione che comporta difficoltà nell’eccitazione così come nel raggiungimento dell’orgasmo. Il risultato è quello della sensazione di assumere una prospettiva in terza persona, giudicante, che osserva da fuori l’atto sessuale. Il fenomeno si declina in due accezioni differenti, quella di imbarazzo sessuale, ovvero un’autovalutazione circa la percezione che l’altro potrebbe avere, oppure il self-focus sessuale, ovvero un aumento dell’attenzione sul comportamento, la performance o l’attivazione fisica che finisce per deviare l’attenzione dagli stimoli erotici che elicitano la risposta sessuale (Janssen et al 2000) Wiegel et al., 2007).

Un recente studio condotto da Wyatt, de Jong & Holden, che ha coinvolto 549 uomini impegnati in una relazione stabile e sessualmente attiva, si è proposto di indagare se il fenomeno dello spectatoring, risultante delle preoccupazioni riguardo all’aspetto dei genitali maschili, potesse agire come interferenza cognitiva influenzando la funzionalità sessuale in termini di mantenimento dell’eccitazione e raggiungimento dell’orgasmo. Ai partecipanti sono stati somministrati dei questionari self-report volti ad ottenere una misura della preoccupazione circa l’estetica dei genitali, sulle due diverse sottoscale dello spectatoring, l’imbarazzo sessuale e il self-focus sessuale, riportando inoltre una misura delle difficoltà sessuali riscontrate nel mese precedente rispondendo alle due sottoscale relative alla funzionalità erettile e alla funzione orgasmica estratti dall’International Index of Erectile Functioni (Rosen et al., 1997).

In accordo con le aspettative degli autori, dall’analisi statistica è emerso che coloro i quali sperimentavano una preoccupazione maggiore circa l’aspetto o le dimensioni del proprio pene avevano probabilità maggiori di sperimentare imbarazzo sessuale e self-focus negativo durante l’attività sessuale.

A loro volta questi due aspetti dello spectatoring si sono dimostrati predittori di maggiori difficoltà nel mantenere l’erezione e nel raggiungere l’orgasmo, sebbene maggiori studi siano necessari per confermare la natura causale di questa relazione.

 

Quando i dati dei figli vanno on line. Lo sharenting visto dagli adolescenti

L’avanzamento tecnologico ha prodotto numerosi cambiamenti nella quotidianità delle famiglie, creando nuovi fenomeni e nuove abitudini. Una tra le più consolidate è sicuramente quella di condividere le informazioni e foto personali o di gruppo sui social network come Facebook, Twitter o Instagram.

 

Questa tendenza si è naturalmente generalizzata anche ai genitori che, oltre a postare sui social le proprie informazioni e foto, tendono a pubblicare, sempre più frequentemente, anche quelle dei propri figli.

Questo fenomeno è stato definito “sharenting” dalla fusione delle parole share (condividere) e parenting (fare i genitori). Molti genitori tendono a fornire aggiornamenti dei propri figli fin dalla nascita o addirittura prima, se si considera la propensione a postare le foto della prima ecografia. Una ricerca condotta dall’organizzazione inglese Nominet (2016a, 2016b) ha messo in evidenza che i genitori tendono a postare in media 300 foto dei propri figli ogni anno con una media di 1500 entro il compimento del quinto anno di età. Sebbene la ricerca condotta da Nominet avesse l’obiettivo di mettere in risalto i rischi per la sicurezza dei dati personali ed il rispetto della privacy, fornisce un quadro decisamente chiaro dell’ampiezza del fenomeno. La maggior parte degli studi su questa tematica, infatti, hanno approfondito prettamente il punto di vista legale e giuridico. Diversi studi (Maxim, Orlando, Skinner, & Broadhurst, 2016; Steinberg, 2017), per esempio, hanno riportato come le immagini condivise in rete dai genitori siano spesso trovate in siti pedopornografici, e che la condivisione di informazioni e foto possa facilitare i malintenzionati a ricavare indirizzi, luoghi ed abitudini quotidiane dei figli.

In generale, i genitori sembrano non conoscere adeguatamente i rischi del proprio comportamento online. Per questo motivo diversi enti ed organizzazioni come l’Australian Children’s e Safety Commissioner (2019) e l’ American Academy of Pediatrics (McCarthy, 2017) hanno sottolineato nelle loro linee guida la necessità di favorire nei genitori una maggiore consapevolezza del web ed un uso adeguato delle impostazioni e delle configurazioni dei social network. Dal punto di vista della ricerca in psicologia, invece, i pochi studi a disposizione hanno cercato di indagare il punto di vista dei figli. Infatti, sebbene i bambini piccoli non abbiano ancora percezione della propria identità digitale, dalla preadolescenza, invece, iniziano ad avere consapevolezza del comportamento dei propri genitori sui social network e cominciano a prendere coscienza della presenza dei propri dati sul web.

In questo senso, Gaëlle Ouvrein e Karen Verswijvel (2019) dell’Università di Antwerp in Belgio, attraverso l’uso di focus group con adolescenti tra i 12 ed i 14 anni, hanno mostrato che, sebbene diversi adolescenti intervistati affermino di comprendere le ragioni del comportamento dei propri genitori e di credere nelle loro buone intenzioni, sono in molti ad esprimere preoccupazione per tale modo di fare. Circa la metà degli intervistati ha espresso paura per i contenuti condivisi dai propri genitori. A suscitare maggiore imbarazzo sono specialmente le foto buffe o quelle che mostrano nudità. Gli adolescenti condividono il pensiero che preferirebbero controllare i “posts” dei genitori che li riguardano, perché ritengono che lo sharenting possa portare a “brutte sorprese”. Nel descrivere le conseguenze dello sharenting, gli adolescenti fanno riferimento ad aspetti legati all’accettazione dei pari, come la paura di essere valutati negativamente, ricevere commenti negativi fino ad essere vittima di bullismo o cyberbullismo. Qualche adolescente intervistato riporta anche il rischio di conseguenze a lungo termine della presenza di foto personali imbarazzanti sul web, come quando prima di un colloquio di lavoro i recruiter andranno alla ricerca di informazioni sui social per comprendere le abitudini dei candidati.

In un secondo studio di Karen Verswijvel insieme ad altri colleghi dell’Università di Antwerp, si è cercato di capire maggiormente la valutazione che gli adolescenti fanno del fenomeno dello sharenting. Da questo studio basato sulla somministrazione di questionari su 817 adolescenti è emersa la tendenza degli adolescenti a disapprovare largamente lo sharenting, considerandolo imbarazzante ed inutile. Inoltre, la ricerca ha messo in evidenza che gli adolescenti che valutano in modo maggiormente positivo lo sharenting sono quelli che tendono loro stessi a condividere numerose informazioni personali o che prestano meno attenzione ed hanno meno preoccupazioni nei riguardi della loro privacy.

Sebbene lo sharenting possa sembrare la semplice estensione social della classica abitudine dei genitori di mostrare album di foto, di parlare dei successi dei propri figli o di raccontare buffi aneddoti a parenti ed amici, ci sono una serie di sfaccettature legate al pubblico dominio delle informazioni sui social che rendono lo sharenting un fenomeno che necessita di particolare attenzione. Lo sharenting non può essere considerato di per sé un problema, ma una verità incontrovertibile è che una volta in rete le informazioni, i video e le foto diventano a disposizione di tutti, ed è principalmente per questo motivo che un uso disfunzionale dei social può rilevarsi deleterio.

Gli autori delle ricerche descritte sottolineano con forza la necessità di sensibilizzare maggiormente i genitori sulla tematica e creare un clima di dialogo con i figli in adolescenza per dare la giusta rilevanza alla loro opinione e discutere dei contenuti e delle modalità di condivisione. Tenendo in considerazione il punto di vista dei figli, acquisendo maggiore consapevolezza del funzionamento della privacy online, dei rischi dello sharenting, ed imparando  l’uso consapevole della nuova tecnologia, i genitori potrebbero trovare il giusto compromesso per raccontarsi sui social in completa sicurezza.

 

Avrò chiuso il rubinetto del gas? Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC). Comprendere ed intervenire – Report dalla Conferenza

Francesco Mancini offre ai partecipanti della Conferenza di Padova tante nozioni, informazioni e spiegazioni utili sia per gli addetti ai lavori, che per persone che soffrono del disturbo ossessivo compulsivo e loro familiari.

 

Si è appena concluso un interessante evento aperto all’intera comunità, tenutosi lo scorso 19 ottobre 2019 a Padova e promosso dal Centro di Terapia Cognitivo Comportamentale di Padova, in collaborazione con le scuole di Psicoterapia SPC e APC, dal titolo “Avrò chiuso il rubinetto del gas?” Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Comprendere ed intervenire che ha visto come relatore il Prof. Francesco Mancini, massimo esperto in tema di DOC.

Al di là del titolo, nella mattinata si è magistralmente spaziato ed approfondito il tema del disturbo ossessivo compulsivo in maniera più ampia, le caratteristiche salienti di una mente ossessiva, forme di manifestazioni, fattori di rischio, età di esordio, prognosi, prospettive di guarigione e ulteriori curiosità e domande mosse dai partecipanti.

La conferenza si è aperta con la visione di un estratto video tratto dal celebre film Qualcosa è cambiato, in cui Jack Nicholson recita i panni di una persona con un severo disturbo ossessivo-compulsivo. Da lì in poi, si sono andati ad analizzare alcuni importanti elementi nella genesi e responsabili anche del mantenimento del disturbo come il dubbio, un dubbio che, come spiega il Prof. Francesco Mancini, avvia in una mente ossessiva un film catastrofico che genera inevitabilmente un senso di colpa. Anche su questo ultimo aspetto, un interessante contributo del Professore riguarda proprio la distinzione e la specificazione del tipo di colpa. Secondo lo stesso infanti, è importante distinguere una colpa di tipo deontologica, da una colpa di tipo altruistica. Il senso di colpa avrebbe che fare con la sensazione di essere responsabili di possibili danni dove non necessariamente è presente una vittima. Il senso di colpa dentologico deriverebbe dall’assunzione d’aver violato una propria regola morale, comportando una sensazione di essere indegni, una sensazione di sporco e disgusto. Nel senso di colpa altruistico invece si assisterebbe alla compromissione di scopi altruistici. Nelle persone che soffrono di disturbo ossessivo-compulsivo, la colpa sperimentata ed esasperata, sarebbe di tipo deontologico dove l’iper-responsabilità accompagnata ad una sovrastima del pericolo, renderebbe impossibile tollerare il dubbio di potere in qualche modo sentirsi responsabile di un danno e non aver fatto nulla per poterlo prevenire.

 

Congresso Padova 19 ottobre 2019 DOC Mancini Report (Imm1)

Immagine 1 –  Immagine dalla Conferenza di Padova “Avrò chiuso il rubinetto del gas?” Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC). 

Altri elementi importanti diventano il disgusto, distinguendo il disgusto fisico, attivato ad esempio da sostanze contaminate/contaminanti, da un disgusto morale legato ai comportamenti. Questi aspetti si ritroverebbero indistintamente nelle varie forme di disturbo ossessivo compulsivo, sia che si tratta del tipo controllo, pulizia, ordine e simmetria o riferiti a pensieri proibiti. Un ulteriore variabile interessa sarebbe la sensazione che qualcosa non è per come dovrebbe essere (nothing just the right experience- NJRE).

Dopo un’ampia trattazione, il Prof. Mancini ha sottolineato dunque, l’elemento sul quale lavorare in terapia, ossia l’ accettazione dell’incertezza e attraverso una serie di esempi anche di casi trattati personalmente in studio dallo stesso, i partecipanti hanno avuto la possibilità di riconoscere l’esasperazione di quegli aspetti sopra descritti accompagnati a processi mentali che potrebbero riguardare ognuno di noi, ma l’aspetto quantitativo e la ricorsività ne determinano la differenza. Come faccio ad essere certo che ciò che temo non si realizzerà? Ed ecco che le compulsioni, siano esse comportamentali, che mentali, attraverso un’attività di tipo ruminante, avrebbero come scopo quello di neutralizzare l’angoscia del dubbio di sentirsi responsabili in qualche modo.

Per entrare sempre di più su meccanismi e scopi di un pensiero di tipo ossessivo, il Prof. Mancini ha citato la scommessa di B. Pascal, dove in riferimento al dubbio sull’esistenza di Dio e relativo tentativo di volerne dimostrare l’esistenza attraverso leggi matematiche, lo stesso alla fine conviene che la scommessa sarebbe stata troppo rischiosa pertanto conveniva accettare la sua assistenza al di là delle prove, pena la dannazione eterna. Nel paziente ossessivo avverrebbe un meccanismo analogo in cui, visto il senso di iper-responsabilità del soggetto e la sovrastima del pericolo di cui parlavamo prima, non si può correre il rischio.

Agli interventi del Professore si sono alternate diverse curiosità e domande da parte dei partecipanti, come ad esempio età di esordio, prognosi, terapie farmacologiche. Ciò che oggi ricerche scientifiche dimostrano è che l’età di esordio del disturbo nella maggioranza dei casi sarebbe in adolescenza e che la tempestività dell’intervento può giocare a favore sulla prognosi del disturbo stesso. Rispetto alla terapia farmacologica il Professor Mancini ha ricordato quali farmaci vengono principalmente utilizzati per il trattamento di disturbi ossessivi compulsivi (come ad esempio gli SSRI), ma ricordando i dati delle ricerche in merito ai pro e contro di un trattamento farmacologico e, soprattutto, come questo da solo non risulta essere risolutivo del problema, essendo anche associato ad un maggior rischio di cronicizzazione e ricadute. Con la psicoterapia, e soprattutto la terapia cognitivo comportamentale, di cui anche le Linee Guida Internazionali ne riconoscono validità scientifica ed efficacia nel trattamento del disturbo, le percentuali di riduzione della sintomatologia e guarigione aumentano notevolmente, soprattutto grazie all’intervento di Esposizione e Prevenzione della Risposta (EPR). L’associazione psicoterapia e farmaco, invece, sarebbe consigliabile utilizzarla per i casi cui il farmaco diventa un ausilio alla psicoterapia stessa.

Anche se solo mezza mattinata, il Professore ha offerto ai partecipanti tante nozioni, informazioni e spiegazioni utili sia per gli addetti ai lavori, che per persone che soffrono di tale disturbo e loro familiari. Spero di essere riuscita, all’interno di questo report, a sintetizzare quanto detto e mettere in luce gli elementi più importanti per avvicinarsi ad una mente ossessiva, per conoscerla, comprenderla, accettarla e per noi professionisti, aiutarla.

 

Aspetti psicologici del ghosting e dell’orbiting nella vita fuori e dentro i social networks

Ghosting e orbiting: fenomeni che coinvolgono internet, contesto che facilita l’interruzione di un rapporto venendo meno le componenti principali della comunicazione non verbale, come guardarsi negli occhi, vedere le reazioni corporee dell’altro.

 

Ho spesso pensato a Facebook, o a Instagram, come una sorta di locale ampio in cui si riuniscono i conoscenti, i famigliari e gli sconosciuti, da cui ci si può congedare quando si desidera, nel quale ci si ritrova senza appuntamento ma la comunicazione, come è già stato ampiamente dibattuto, è ridotta a parole scritte, video e fotografie. Mi viene in mente una situazione surreale in cui le persone in carne ed ossa formulano un invito scarno a partecipare, comunicano tra di loro, si escludono, osservano o non perdono occasione per farsi notare e rincorrere chi non ha assolutamente desiderio di interagire con loro. Alcuni si annoiano subito, altri continuano a restare ad aspettare o entrano per promuovere l’attività, magari sperare che qualcuno si faccia avanti. Surreale perché effettivamente nella vita fuori dagli schermi non si interagisce con tutti i 200 o 2000 amici e in certi casi si stabilisce un legame con chi non rientra neanche nella lista.

Nel mondo virtuale si inseriscono due fenomeni ormai celebri, ghosting e orbiting, rispettivamente interrompere un legame all’improvviso senza dare spiegazioni e ritornare quando si desidera, visualizzando le storie, commentando o assegnando mi piace e cuori senza però frequentarsi, manifestando l’intenzione di tenere un rapporto non definito. Nella metafora del locale che ho descritto, il ghosting, per esempio, mi evoca varie persone e situazioni, appunto perché non esiste un prototipo di ghoster e i bisogni che muovono quella sparizione improvvisa possono essere svariati, così come “gravitare” attorno ad una o più persone per non perdere i contatti. Posso immaginare chi desidera fare due chiacchiere per poi andarsene quando ha finito, chi è convinto di avere di fronte un amico o il vero amore, troncando la conversazione indesiderata quando si accorge che non è scattato niente, che l’altro non rispecchia i suoi valori o gli interessi, chi attacca strategicamente bottone per tastare il terreno su eventuali progetti di interesse e fuggire quando comprende di non poter cogliere opportunità.

In sostanza mi sovvengono vari tipi di persone, e quindi di motivazioni, per recidere una relazione nel silenzio, forse perché nelle ultime conversazioni si è detto qualcosa che ha urtato la sensibilità morale o personale a tal punto da ravvisare una perdita, da sperimentare il disprezzo per le idee e le opinioni e decretare la fine di un rapporto che non può avere un seguito; oppure perché la magia dei primi contatti svanisce e non si tollera la delusione. In altri casi si sparisce perché si avverte la costrizione di un rapporto in evoluzione o la pretesa di essere protetti e accuditi da chi pensa anche o solo a sé. E così il silenzio può diventare un mezzo per attirare o allontanare le attenzioni; per chi le subisce, le sparizioni sono attese o inaspettate e questo dice molto del funzionamento relazionale, dei segnali che uno ha accuratamente celato e l’altro accantonato o di quelli palesi e minatori. Ghosting e orbiting, quindi, non sono necessariamente congiunti; il primo si verifica spesso isolatamente nei soggetti dai pattern di attaccamento evitante, per prevenire l’intimità relazionale, mentre nei pattern coercitivi si assiste sovente ad un’alternanza tra sparire e riapparire, per esercitare un controllo sulla relazione sentimentale, amicale o professionale.

Tali fenomeni coinvolgono internet poiché diventa più facile interrompere un rapporto davanti ad uno schermo che, in quanto tale, spezza le componenti principali della comunicazione non verbale, come guardarsi negli occhi, vedere le reazioni corporee dell’altro, e così via; per la stessa ragione è più semplice gravitare con like e visualizzazioni, restando comodamente di fronte ad una tastiera. L’orbiting, azione prevalentemente coercitiva, in certi frangenti assume lo scopo di mantenere uno stato relazionale seppur annacquato e traballante; quell’implicito “ci sono ancora” può nascondere la vergogna di essere spariti senza ragione che trattiene dall’esporsi completamente o delineare un tentativo di tenere allacciato quel legame potenzialmente utile per regolare alcune emozioni intollerabili, come la paura di essere soli o incapaci di fronte ad un problema.

Leggendo vari articoli sull’argomento, noto un proliferare di ricette pre-confezionate su come difendersi da ghosting e orbiting, interpretazioni univoche, un’assidua demonizzazione che impedisce di riflettere sulle motivazioni per cui accadono; predomina spesso l’immagine del mascalzone narcisista, manipolatore che miete vittime insicure e deboli, da correggere con lo schiaffo della verità: non è interessato, scordatelo. Ecco, questo porta ad alimentare l’errore comune, quello di porsi in una posizione vittimistica e rabbiosa, crogiolandosi nella sofferenza e nella ragione assoluta e attribuendo acriticamente all’altro superficialità e incapacità di comunicare. Prima di tutto invito a valutare il contesto: è ben diverso un ghosting improvviso o minacciato, dopo anni di relazione, da uno conseguente ad una frequentazione breve, reale o virtuale, e un orbiting in una fase di riavvicinamento in seguito ad un periodo burrascoso, da una tendenza abituale quando il rapporto è ormai sepolto. Di conseguenza non va dimenticato il ghoster, i segnali che potrebbe aver lanciato e che non sono stati considerati, il perché torna e come ci si potrebbe comportare per recuperare o accettare che la storia è finita.

Da tali considerazioni non trovo necessariamente dannosi e allarmanti tali fenomeni a prescindere dal contesto; sparire dopo qualche appuntamento o una chiacchiera online può essere vissuto con dolore da alcuni e indifferenza da altri, pertanto è cruciale soffermarsi sulle aspettative, sull’effetto suscitato e sul perché tale evento ha urtato, cogliendolo come spunto per imparare qualcosa su come si funziona, senza incolparsi o incolpare. Oltre a ciò, non mi sembra una soluzione vincente bloccare i contatti nel caso di orbiting costante, come spesso si consiglia, proprio perché sembra una strategia rapida ed esteriorizzata per polverizzare la sofferenza e allontanare la tentazione di ricascarci, senza lavorare sulla paura di rifiutare ed essere rifiutati, di comunicare esplicitamente i vissuti o di accettare che quel tipo di rapporto non può evolvere secondo i nostri desideri. Aggiungerei che le soluzioni rapide e preconfezionate non incentivano la curiosità a conoscersi ma ad arrovellarsi in un giro di pensieri ed emozioni di colpa verso di sé o verso l’altro, di delusione e di rabbia che impediscono una crescita costruttiva basata sulla comprensione del proprio e l’altrui funzionamento in relazione agli eventi che si verificano.

 

Il possibile ruolo delle neuroimmagini nell’identificazione dei pazienti con disturbi dell’umore a rischio suicidario

Ad oggi il suicidio rappresenta un’importante causa di morte soprattutto tra i giovani ed in particolare tra quelli con disturbi dell’umore; l’utilizzo delle neuroimmagini può costituire uno strumento efficace per indagare i fattori di rischio in modo da agire in direzione preventiva e per poter mettere a punto trattamenti mirati.

 

A livello mondiale il suicidio risulta la seconda causa di morte nella fascia d’età 15-29 anni (World Health Organization, 2019). Il tasso di suicidio presenta un continuo incremento in questa popolazione, soprattutto in coloro che hanno disturbi dell’umore, quali il Disturbo Depressivo Maggiore e il Disturbo Bipolare. Nonostante la gravità di tale problematica, al momento esistono pochi strumenti che permettano di individuare quali persone possano essere maggiormente a rischio di comportamenti suicidari.

Risulta quindi necessario giungere a una migliore comprensione dei fattori di rischio che predispongono alla messa in atto di comportamenti suicidari, inclusi quelli di tipo neurobiologico, in modo da sviluppare migliori modelli predittivi e trattamenti mirati che vadano a diminuire l’entità di tale problematica. In uno studio recentemente pubblicato su Psychological Medicine, Stange e colleghi (2019) hanno individuato differenze rispetto alla connettività in alcuni circuiti cerebrali che potrebbero essere associate alla messa in atto di comportamenti suicidari in pazienti con disturbi dell’umore.

In una prima fase dello studio sono stati selezionati 212 giovani adulti, di fascia d’età compresa tra i 18 e i 29 anni, provenienti dalla University of Michigan e dalla University of Illinois at Chicago, parte dei quali aveva un disturbo dell’umore in remissione (130), mentre la restante parte non aveva mai avuto problematiche di tipo psicopatologico (82). Dei partecipanti con un disturbo dell’umore in remissione, 18 avevano tentato il suicidio in passato, 60 avevano avuto solo pensieri relativi al suicidio mentre 52 non avevano avuto né pensieri né comportamenti legati al togliersi la vita.

Durante lo studio, sono state eseguite delle scansioni cerebrali tramite l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI) sui partecipanti in stato di riposo, al fine di indagare se, nei pazienti con pregressi tentativi di suicidio, potessero essere riscontrate delle differenze rispetto al funzionamento cerebrale. In particolare, sono state prese in considerazione aree che erano risultate associate ai disturbi dell’umore in studi precedenti, quali il cognitive control network (CCN), un sistema che coinvolge aree fronto-parietali e dorsali associate alle funzioni esecutive e al problem-solving, il salience and emotional network (SEN), il quale comprende aree limbiche e ventrali e si attiva in risposta a stimoli, anche emotivi, che risultano rilevanti rispetto agli obiettivi attuali, e il default mode network (DMN), il quale si attiva in corrispondenza della formulazione di pensieri riferiti a sé e in assenza di stimoli esterni.

In seguito all’analisi dei dati, Stange e colleghi hanno rilevato che, rispetto agli altri partecipanti allo studio – compresi coloro che avevano avuto pensieri inerenti al suicidio – i partecipanti che avevano tentato il suicidio mostravano un’attenuazione rispetto alla connettività sia all’interno del cognitive control network sia tra quest’ultimo e il default mode network. Tali risultati suggeriscono che gli individui con disturbo dell’umore in remissione che hanno tentato il suicidio in passato potrebbero avere un pattern connettivo tratto-specifico in network coinvolti nel controllo cognitivo e nel pensiero rivolto a sé. Viene inoltre messo in luce che la risonanza magnetica funzionale eseguita su individui in stato di riposo potrebbe risultare uno strumento promettente per l’identificazione delle basi neurali del rischio suicidario in pazienti con disturbi dell’umore.

Gli autori hanno ipotizzato che, dato che il DMN risulta attivo durante il riposo e durante forme di autoriflessione, quali ad esempio la ruminazione, e che il CCN facilita le funzioni di controllo cognitivo, gli individui che hanno difficoltà a smettere di ruminare mentre sono in uno stato di riposo potrebbero presentare una minore sincronizzazione tra questi due network. Dato che la ruminazione risulta un fattore di rischio rispetto all’ideazione e al comportamento suicidario (Rogers & Joiner, 2017), ricerche future potrebbero approfondire se la presenza di difficoltà di connessione tra queste due regioni possa predisporre alla messa in atto di comportamenti suicidari, analizzando il ruolo della ruminazione come possibile manifestazione comportamentale di tale difficoltà.

L’eredità del Trauma e della Dissociazione: corpo e mente in una nuova prospettiva – Report dal 7° Congresso Biennale della Società Europea per il Trauma e la Dissociazione (ESTD)

Si è tenuto a Roma, dal 24 al 26 Ottobre 2019, il 7° Congresso Biennale della Società Europea per il Trauma e la Dissociazione (ESTD), dal titolo “L’eredità del Trauma e della Dissociazione: corpo e mente in una nuova prospettiva”

 

Dopo una prima giornata dedicata ai workshop precongressuali e all’apertura ufficiale dei lavori con la lettura magistrale di Michela Marzano “Dal ‘Cogito Ergo Sum’ alla fragilità della condizione umana: le contraddizioni dell’esistenza”, prende il via il 7° Congresso ESTD.

Esperti da tutto il mondo si sono riuniti nella Città Eterna per confrontare e condividere le proprie conoscenze ed intuizioni sul trauma e la dissociazione e poterne migliorare il trattamento. Il filo conduttore del congresso è stata l’esplorazione dei nuovi e stimolanti risultati inerenti la relazione corpo mente nella dissociazione, con un focus particolare sulla connessione tra trauma, dissociazione e corpo.

Il Congresso si apre con l’intervento magistrale di Kathy Steele sulle sofferenze intrecciate e il Sé incarnato di paziente e terapeuta, una lezione per il terapeuta che si occupa di Trauma e che, oltre a prendersi cura del paziente, deve prendersi cura di sé. In linea con quanto affermato da Michela Marzano, è fondamentale ricordarsi che il terapeuta, così come il paziente traumatizzato, è una incarnazione di corpo e mente, un’unità delle parti in continua costruzione “quello che sono qui oggi è diverso da quello che sarò tra 5 minuti o tra 5 anni”. Importante quindi che il terapeuta sia radicato nel suo corpo e capace di integrare le proprie sofferenze con il proprio vissuto e accettare il paradosso del dolore “più cerchiamo di evitare il dolore più soffriamo, più cerchiamo di accoglierlo meno sofferenza avremo”. Un accento posto quindi sulla accettazione della vulnerabilità, fallibilità, umanità del terapeuta come fulcro per un ingaggio incarnato con il paziente e requisito fondamentale per lavorare con il trauma e la dissociazione. Un terapeuta incarnato come ci insegna Steele è un terapeuta compassionevole, connesso, vulnerabile e resiliente, è un terapeuta che abbraccia le proprie negatività e che nel lavoro con il trauma è focalizzato sul processo piuttosto che sul contenuto.

Ci si addentra poi nella complessa relazione tra Trauma e Dissociazione con l’intervento di A.Laddis, E Nijenhuis, J. Rydberg e A. Schimmenti che propongono una relazione causale tra lo stress derivante dal trauma e la dissociazione, concludendo che i due fenomeni co-occorrono. Condividono con la platea la consapevolezza che per arrivare ad una evidenza scientifica si ha bisogno di avere una definizione più chiara, più “ristretta” e condivisa di trauma e di dissociazione. Ciò richiede di distinguere cosa differenzia lo stress legato al trauma dagli altri tipi di stress e cosa differenzia la dissociazione correlata al trauma da altri fenomeni simili. In particolare Schimmenti propone una digressione della relazione tra trauma e dissociazione da un punto di vista teorico ed empirico, evidenziando come spesso i terapeuti tendono a considerare la dissociazione solo correlata al trauma mentre di fatto troviamo sintomi dissociativi anche in disturbi del sonno o in presenza di deficit metacognitivi e di difficoltà di autoregolazione. Vengono quindi riportati vari studi che mostrano come la correlazione tra trauma e dissociazione sia “dose-effetto” per cui si evidenzia la necessità di indagare in modo approfondito il ruolo dell’attaccamento nel trauma e nella dissociazione. E, aggiunge Rydberg, è necessario crearsi una propria definizione di trauma e dissociazione comprendendo ciò che significa quella esperienza per quello specifico paziente, sottolineando come la dissociazione può intervenire per evitare, in una situazione traumatica, la decomposizione della personalità.

Da qui si delinea in modo sempre più chiaro la difficoltà diagnostica cui il clinico si trova di fronte a causa di questa elevata comorbilità e per il fatto che molto spesso il paziente presenta una seri di sintomi dissociativi che però non rappresentano il problema per cui arriva in terapia. S. Boom e I. Michalopoulos cercano, nella prima parte del loro intervento, di far chiarezza nella diagnosi di disturbo dissociativo e disturbo psicotico proponendo anche le diverse implicazioni per il trattamento. Attraverso la condivisione di video di sedute di terapia discutono somiglianze e differenze tra pazienti con disturbo dissociativo (DID) e pazienti con disturbo psicotico e mostrano come i due disturbi possono essere differenziati da un cluster di sintomi dissociativi e dalla qualità di questi sintomi, includendo anche i sintomi di Schneider. Ovviamente possono essere presenti anche diagnosi combinate. Nella seconda parte del workshop si focalizzano sugli interventi per il trattamento dei sintomi “psicotici” nei pazienti con DID che sono molto frequenti in base alla loro esperienza clinica in soggetti che hanno subito abusi organizzati e che sono stati vittima di estreme coercizioni. Fondamentale quindi una corretta diagnosi per individuare il trattamento più adeguato al caso specifico, nonché l’utilizzo di un linguaggio condiviso con il paziente stesso.

Ci si addentra quindi nella comprensione del DID con la lezione magistrale di Martin Dorahy che propone una esplorazione della vergogna, dell’amnesia inter-identitaria e l’ascolto di voci, tre aspetti strettamente connessi tra loro e con un importante impatto nella terapia. Spesso infatti la presenza di un DID non è esplicita, ma coperta da molti sintomi che riflettono lo sforzo dei pazienti di nascondere la vera natura delle loro sottostanti difficoltà. Doray sottolinea come una ragione di questo mascheramento sia la vergogna legata ai fenomeni specifici del DID, ossia le identità dissociate, la mancanza di consapevolezza di queste differenti identità e del loro contenuto, l’udire voci che fanno sembrare questi pazienti degli alieni. Dorahy approfondisce accuratamente la vergogna, l’amnesia intra-identitaria e l’ascolto di voci e mostra come vari studi hanno rilevato che la vergogna nel DID ha caratteristiche simili a quella presente in altri disturbi correlati al trauma come il PTSD, ma i pazienti con DID nonostante la propensione al ritiro e all’evitamento della vergogna riconoscono l’importanza di un trattamento terapeutico focalizzato proprio su questa emozione. Rispetto all’amnesia intra-identitaria Dorahy mostra numerosi studi che hanno evidenziato come le memorie semantiche autobiografiche possano richiamare le identità, nonostante la persona non ne sia consapevole. Una persona con DID, infatti, riferisce amnesie per delle parti del Sé ma può comunque avere una rappresentazione globale del Sé. Trova quindi supporto l’idea che mentre la persona può non essere consapevole di alcune parti di Sé, queste possono essere comunque recuperate. Relativamente all’udire voci, Dorahy mostra studi di comparazione tra le voci nel DID e quelle nella Schizofrenia da cui è emerso come nel DID ci sia un più elevato livello di allucinazioni uditive e soprattutto di voci bambine. Per Dorahy quindi il DID è un disturbo incline alla vergogna, con soggettive difficoltà di recupero dell’esperienza dolorosa e, nei casi in cui c’è una massiccia esperienza allucinatoria ciò sembra apparentemente dovuto dalla natura dissociativa delle loro difficoltà.

Si chiude quindi una prima intensa giornata, ricca di spunti ma anche carica di riflessioni e dubbi legati alla condivisa mancanza di una definizione chiara e univoca del concetto di trauma e di quello di dissociazione, che rende difficoltosa l’individuazione stessa del trattamento più adeguato.

Perplessità che ci accompagnano anche nella giornata successiva che si apre con la lezione magistrale di Benedetto Farina che, in ottica neuroscientifica, cerca di rispondere all’interrogativo rispetto al considerare Dissociazione e Dis-integrazione due processi patogenici correlati al trauma. Sono quindi Dissociazione e Dis-integrazione lo stesso processo etichettato con nomi differenti? L’osservazione clinica e i risultati scientifici, esplicitamente e pienamente debitori all’opera di Gianni Liotti, portano ad ipotizzare che si tratti di due processi differenti, ma altamente correlati. La mancanza di integrazione può essere quindi considerata l’effetto, travolgenti emozioni ed arcaici sistemi di difesa attivati dagli eventi traumatici o dai loro ricordi.

Differentemente, la dissociazione può essere considerata la successiva ricomposizione degli elementi del sistema in più parti separate. La distinzione di questi due processi risulta fondamentale per il trattamento terapeutico.

I lavori proseguono addentrandosi nella comprensione di un altro concetto con cui spesso i terapeuti del trauma si trovano di fronte: il Daydreaming Maladattivo (MD), un’attività fantastica, estensiva, elaborata ed intenzionale, accompagnata da movimenti ripetitivi, che viene messa in atto come una sorta di fuga dalla realtà e assorbe moltissimo tempo interferendo con la vita quotidiana del soggetto. L’MD è un assorbimento dissociativo che sembra basato su un tratto che queste persone si riconoscono fin dall’infanzia, ovvero la capacità di sognare ad occhi aperti come una forma internalizzata di gioco molto gratificante. Un gruppo di terapeuti provenienti da Israele, Polonia, Italia, Ungheria e Stati Uniti affronta il tema condividendo le proprie esperienze cliniche, riflettendo sui criteri diagnostici e ponendosi l’interrogativo se questo sia una delle varie espressioni del trauma e della dissociazione o una dimensione a sé. Si discutono quindi i criteri diagnostici per l’MD, la sua fenomenologia, la comorbilità e le caratteristiche associate, ponendo attenzione anche alla diagnosi differenziale con disturbi da dipendenza, disturbo ossessivo, disturbi dissociativi e disturbi da movimenti stereotipati. Lo stato della ricerca lascia ancora molte domande aperte ed il costrutto è ancora in fase di studio, ma dai primi risultati sembra avere una propria identità distinta, misurata e diagnosticata in maniera affidabile attraverso specifici strumenti. Emerge inoltre un’alta comorbilità con diversi disturbi psichiatrici e una certa correlazione con esperienze traumatiche infantili. Il trauma e la dissociazione sono prominenti nell’MD ma non si presentano in tutti i casi. Tuttavia, anche se la struttura dissociativa non risulta presente, tutti gli individui con MD descrivono una dissociazione tra il loro sé esterno, la loro vita “infelice e bastonata” e il loro mondo interiore fantastico, ricco e colorato. L. Somer ci mostra come questo emerga chiaramente dai disegni di questi pazienti e li compara con i disegni dei pazienti DID: la differenza più evidente è che mentre nei disegni dei pazienti DID tutto appare sfumato e poco definito, nei pazienti con MD c’è una netta differenziazione tra la realtà esterna “grigia” e il mondo interno fantastico “colorato”.

Il congresso si chiude infine con l’illuminante l’intervento di E. Nijenhuis sull’ Enactive Trauma Therapy: un ponte tra mente, cervello, corpo e mondo. Un approccio che considera le persone traumatizzate come incarnate e incorporate nel loro ambiente, orientate nei loro scopi dal sistema organismo-ambiente fondamentale per preservare la loro esistenza, qualcosa di dinamico in cui tutto fa parte di quello stesso organismo, sia la mente che il corpo. Il trauma è quindi considerato in questo approccio come una ferita all’intero sistema organismo umano-ambiente. Nei disturbi dissociativi ciò si traduce nella presenza di due o più consapevoli sottosistemi (parti) che portano avanti il loro proprio sé mentale e fenomenico. Muovendosi tra Spinoza e Kafka, Nijenhuis definisce l’Enactive Trauma Therapy come il tentativo di riparare il deficit integrativo: il paziente e il terapeuta costituiscono un sistema a sé, si muovono in un mondo comune e condividono dei risultati, insieme producono nuove azioni e nuovi risultati “L’ Enactive Trauma Therapy può essere paragonata a una danza in cui paziente e terapeuta mettono insieme la musica, insieme definiscono il ritmo, si sintonizzano e sincronizzano, bilanciano la loro sensibilità, movimenti e ritmo”.

Al termine dei lavori viene consegnato a Ellert Nijenhuis un riconoscimento dall’ESTD per il suo costante e fondamentale contributo allo studio del trauma e della dissociazione, un contributo che come il famoso pittore italiano Giorgio Morandi “sempre uguale a se stesso ma sempre diverso, attento ad approfondire i piccoli oggetti senza cercare temi nuovi” anche Nijenhuis si è focalizzato sulla comprensione dell’essenza delle esperienze traumatiche e dei fenomeni dissociativi con rigore e metodo, approfondendone ogni sfaccettatura.

Le traiettorie di peso nell’infanzia e nella prima adolescenza come fattori di rischio per lo sviluppo dei disturbi dell’alimentazione 

Diversi studi hanno valutato l’associazione tra l’indice di massa corporea (IMC) premorboso e la presenza di disturbi dell’alimentazione e hanno trovato risultati, non sempre confermati, che vanno nella direzione di un IMC premorboso più basso per l’anoressia nervosa e un IMC premorboso più alto per la bulimia nervosa e il disturbo da binge-eating.

 

Lo studio dei fattori di rischio nello sviluppo dei disturbi dell’alimentazione attrae la ricerca scientifica e negli ultimi anni sempre più fondi e più ricercatori si orientano verso questo ambito. Studi con strumentazioni sempre più all’avanguardia, con numeri molto ampi di soggetti, hanno, per esempio, portato alla scoperta di loci genetici che potrebbero, se confermati in campioni ancora più ampi, associarsi alla presenza della patologia. Lo studio dei fattori di rischio si rivolge anche alla ricerca di elementi presenti nell’infanzia o addirittura nella fase della gestazione, che potrebbero indirizzarci verso la futura presenza di un disturbo dell’alimentazione. Questo fa illuminare le menti dei clinici e aprirebbe la possibilità di capire fin dai primi anni di vita quali sono i soggetti più a rischio di sviluppare un disturbo dell’alimentazione e trovare, chissà, nuovi interventi, farmacologici e non, atti a far cambiare il corso degli eventi.

Nell’ambito di questa ricerca, il peso e il suo andamento nel tempo sono considerati un elemento chiave su cui convogliare le energie della ricerca. Diversi studi hanno valutato l’associazione tra l’indice di massa corporea (IMC) premorboso e la presenza di un disturbo dell’alimentazione e hanno trovato risultati, non sempre confermati, che vanno nella direzione di un IMC premorboso più basso per l’anoressia nervosa e un IMC premorboso più alto per la bulimia nervosa e il disturbo da binge-eating. Uno studio recente si è spinto oltre andando a valutare la presenza di un fattore di rischio non soltanto nel peso (basso o alto), ma soprattutto nell’andamento del peso nel tempo, sia nei maschi che nelle femmine, nell’età che va dalla nascita fino ai 12,5 anni. La presenza di un disturbo dell’alimentazione era poi valutata all’età di 14, 16 e 18 anni. L’analisi accurata delle traiettorie ha mostrato che, nel campione maschile, data anche la bassa numerosità di questi soggetti con disturbo dell’alimentazione, l’unica differenza che si riscontra è nei soggetti con anoressia nervosa che hanno un peso che si assesta, dai 4 anni in poi, ad un livello significativamente più basso, rispetto ai controlli sani. Nel campione femminile, risultati simili si osservano nel sottogruppo con anoressia nervosa, invece, nei soggetti con bulimia nervosa, con disturbo da binge-eating e con disturbo purgativo, sembra succedere il contrario, cioè il loro peso, soprattutto dai sette anni in poi, cresce di più rispetto al campione di controllo.

Questi dati sembrano aprire scenari sul coinvolgimento metabolico nell’eziologia dell’anoressia nervosa e sul ruolo giocato dai geni dell’obesità in relazione alla presenza di abbuffate. Rimanendo sulle implicazioni cliniche, lo studio può portare a riflessioni sull’obiettivo di peso che dovrebbe essere raggiunto in soggetti con anoressia nervosa che fanno un trattamento. Sulla base dei dati di questo studio sembra che i clinici dovrebbero puntare ad una traiettoria di peso simile a quella di soggetti senza disturbo dell’alimentazione piuttosto che stabilire un obiettivo di peso coerente con l’IMC premorboso.

Nonostante lo studio si proietti verso l’allettante possibilità di intervenire prima dell’esordio del problema, i dati della letteratura necessitano di cautela nella loro lettura e interpretazione. Primo tra tutti, i 1502 individui coinvolti nella ricerca potevano aver riportato anche una sola misurazione del peso tra gli zero e i 12,5 anni, il che obbliga il ricercatore a sostituire i numerosi dati mancanti con una loro stima. Inoltre, la diagnosi di disturbo dell’alimentazione è stata fatta usando un questionario self-report piuttosto che un’intervista strutturata. Sebbene questo sia comprensibile dal punto di vista pratico (fare oltre 1500 interviste sembra poco realistico), dal punto di vista metodologico la dobbiamo considerare un limite che ci fa inevitabilmente dubitare dell’accuratezza della diagnosi. Inoltre, gli autori non spiegano perché intorno ai 12 anni i soggetti di sesso femminile rientrano in traiettorie comparabili a quelle dei controlli sani né perché non hanno utilizzato anche un campione di soggetti con una differente patologia psichiatrica da confrontare con i controlli sani o con quelli con disturbo dell’alimentazione. Infine, facendo uno sforzo statistico di comprensione, il fatto che i dati delle curve di crescita si adattino meglio ad un modello lineare che quadratico o cubico (cioè con curvature delle traiettorie) ci dovrebbe far porre cautela nel leggere le traiettorie come curve che cambiano direzione nel tempo.

Risulta molto affascinante e promettente lo studio dei fattori di rischio nello sviluppo dei disturbi dell’alimentazione e potrà aprire future aree di lavoro e di intervento; rimaniamo in attesa che la ricerca faccia luce sulle molte ombre che ancora esistono.


 

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Le ragioni del minore nei contesti giudiziari – Report dal XXI Congresso Nazionale di Psicologia Giuridica

Nelle giornate del 25 e del 26 ottobre 2019 si è tenuto presso l’Aula Magna di Psicologia dell’Università G. d’Annunzio di Chieti, il XXI Congresso Nazionale di Psicologia Giuridica, organizzato dall’Associazione Italiana Psicologia Giuridica in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio.

 

Il tema cardine delle due giornate ha riguardato le ragioni del minore nei contesti giudiziari, prendendo in considerazioni i casi in cui il minore è messo al centro di processi civili, solitamente nei processi separativi, in cui il minore è vittima di reato e, inoltre, anche i casi in cui è il minore ad aver commesso un reato. Le due giornate sono state cariche di importanti spunti di riflessione e di elevate considerazioni, portate avanti da relatori di alto prestigio sia del mondo accademico che del mondo giudiziario.

Il Congresso si è aperto con i saluti del direttore del Dipartimento Luca Tommasi e del Presidente AIPG Paolo Capri, il quale ha ricordato l’illustre figura di Tommaso Sebastiano Sciascia, magistrato e membro del Consiglio Direttivo dell’AIPG, scomparso lo scorso 6 giugno, e da sempre sostenitore dell’incontro tra psicologia e giustizia. Il presidente Capri ha, inoltre, sottolineato l’importanza del concetto di salute, non intesa solo come assenza di malattia ma come benessere psicologico, fisico e sociale a cui ognuno ha diritto, e tale diritto si esplica anche con il diritto alla psicoterapia.

Per quanto riguarda la prima fase del Congresso, la Prof.ssa Paola Di Blasio, docente di psicologia dello sviluppo dell’ Università Cattolica di Milano ed autrice di numerosi testi, ha trattato della trumatizzazione del minore, partendo dal fondamentale concetto di trauma, inteso come stimolo esterno eccessivo, a cui non si riesce a reagire e che è capace di sopraffare l’individuo, denudandolo delle sue difese. Inoltre, la docente ha sottolineato l’effetto salutogenico della narrazione dell’evento traumatico, in quanto permette l’integrazione delle emozioni nella memoria autobiografica, l’elaborazione e la rielaborazione di esperienze, e la possibilità di riflessione e meta-riflessione. E’ interessante sottolineare anche come le situazioni stressanti possano facilitare il ricordo mentre se eccessivamente stressanti, possono impoverirla.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO LE IMMAGINI DAL CONGRESSO

Psicologia Giuridica le ragioni del minore nei contesti giudiziari - Report IMM 1

IMM. 1 – Immagine dal XXI Congresso di Psicologia Giuridica

Psicologia Giuridica le ragioni del minore nei contesti giudiziari - Report IMM 2

IMM. 2 – Immagine dal XXI Congresso di Psicologia Giuridica

Illuminante è stato anche l’intervento del Prof. Pietro Ferrara, Pediatra dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, sulle conseguenze fisiche sul minore vittima di abusi, anche in età adulta, quali: obesità, diabete, cancro, problemi cardiaci, depressione, cefalee e deficit immunologici. Inoltre, a livello celebrale, anomalie anatomiche conseguenti al trauma ripetuto sono la riduzione ippocampale e l’attivazione anomale di aree cortico-frontali.

Nella seconda parte della giornata, il focus si è spostato sulle ragioni del minore vittima di reato, ed in particolare, il Magistrato di Cassazione Sandra Recchione si è occupata dell’importanza dell’ascolto del minore vittima di abusi e del ruolo determinante dello psicologo nei contesti giudiziari per diminuire gli effetti di traumatizzazione secondaria sul minore e per accertare le capacità testimoniale dello stesso, che è fondamentale ai fini processuali. Inoltre, lo psicologo dovrebbe divenire un mezzo di tramite tra l’autorità intervistatrice e il piccolo testimone, spesso vittima di abusi.

La seconda giornata è iniziata con uno spostamento dell’attenzione sul minore autore del reato, su cui il Magistrato e Capo Dipartimento per la Giustizia minorile Gemma Tuccillo ha egregiamente riflettuto, sulla scorta della sua esperienza trentennale nell’ambito. In particolare, ha sottolineato come nei territori intrinsechi di criminalità organizzata, è fondamentale il problema del recupero del minore, che se pur desideroso di cambiare, è frenato dalla paura di percepirsi ed essere percepito come traditore. Pertanto, sarebbe spesso necessario includere anche le famiglie in questo percorso di reinserimento, affinchè il giovane si sganci dalla paura del tradimento. Inoltre, la Dott.ssa Tuccillo ha sottolineato la fondamentalità del diritto alla speranza e che questo sia supportato dalle istituzioni: le istituzioni devono credere nella capacità del minore di cambiare e di redimersi, e la comunità dovrebbe essere aperta all’accoglienza. Questo principio è alla base della “messa alla prova”, un provvedimento capace di testare il senso di responsabilità del minore in relazione ad un percorso di reinserimento, che se ha esito positivo, porterebbe all’uscita del minore dal circuito penale.

Fondamentale al Congresso è stata la figura del Dott. Fulvio Giardina, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, che ha sottolineato la straordinaria importanza dello psicologo in ambito giudiziario e in ogni ambito della salute, in quanto portatore di una cura primaria.

L’intero Congresso è stato animato da tre importanti tavole rotonde, a cui hanno preso parte altre autorevoli figure:

  • Nella prima tavola rotonda, condotta da Paolo Capri, si è discussi della relazione del minore con i genitori nei processi separativi, a cui hanno preso parte il Magistrato Cecilia Angrisano, la Prof.ssa Maria Cristina Verrocchio, professore associato di Psicologia Clinica dell’Università d’Annunzio e organizzatrice dell’evento, il Dott. Rocco Emanuele Cenci, Psicologo e psicoterapeuta, la Dott.ssa Anita Lanotte, psicologa e psicoterapeuta e l’ Avvocato Anna Berghella. Le tematiche toccate sono state varie, quali: le modalità di influenza del minore figlio di genitori aventi una relazione patologica, la triangolazione in questi casi o l’assenza di considerazione del bambino nei contesti di separazione.
  • La seconda tavola è stata condotta dalla Dott.ssa Lanotte sulla testimonianza e sul testimone in ambito minorile. Ne hanno preso parte il Presidente Capri, il Magistrato Paola Braggion, la Prof.ssa Cristiana Valentini, docente di diritto processuale penale all’Università d’Annunzio e la Dott.ssa Marilena Mazzolini, psicologa e psicoterapeuta. I temi emersi sono stati: l’importanza della relazione temporanea empatica per la testimonianza del minore, la suggestionabilità del minore, il ruolo dell’ausiliario.
  • Infine, nella terza tavola, presieduta dalla Dott.ssa Lucia Chiappinelli, dirigente psicologa, si è discusso di senso di responsabilità e discernimento nel minore. Ne hanno preso parte la Dott.ssa Carmela De Giorgio, dirigente psicologa, l’avv. Anna Di Loreto, la Dott.ssa Maria Perna, sostituto procuratore della Repubblica e la dott.ssa Maria Rupil, psicologa. Le tematiche emerse hanno riguardato il concetto di imputabilità, la valutazione di responsabilità del minore, l’individualizzazione del provvedimento minorile, il ruolo del contesto di riferimento del giovane, i reati del web, cyberbullismo e sexiting.

Il Congresso è stato, quindi, una immersione preziosa e precisa nel mondo della psicologia giuridica, ricordando la relazione fondamentale tra le due discipline e l’importanza della tutela e del benessere del minore, che dovrebbe essere la finalità in ogni contesto giudiziario. Inoltre, la prevenzione del reato è sicuramente un aspetto sottolineato e da non dimenticare.

La relazione tra ansia sociale e strategie di regolazione emotiva negli adolescenti

L’ansia sociale è definita come una paura eccessiva ed irrazionale delle situazioni sociali. Recenti studi si sono soffermati sulla strategia di regolazione delle emozioni e hanno evidenziato come un alto livello di disregolazione emotiva sia associato a maggiori sintomi di ansia sociale.

 

Secondo il DSM-5, l’ansia sociale è definita come una paura eccessiva ed irrazionale delle situazioni sociali. Nello specifico, la caratteristica principale della fobia sociale è la paura di agire, di fronte agli altri, in modo imbarazzante o umiliante, e di ricevere giudizi negativi. Per questo motivo, coloro che ne soffrono, tendono ad evitare la maggior parte delle situazioni sociali e delle prestazioni in pubblico.

In genere, questo disturbo inizia durante l’infanzia o nell’adolescenza (Burstein, He, Kattan, Albano, Avenevoli, Merikangas; 2011). Gli individui affetti hanno mostrato un’intensità più elevata di emozioni negative (Carthy, Horesh, Apter, Edge, Gross; 2010), meno conoscenza delle emozioni (O’Toole, Hougaard, Mennin; 2013) e compromissione del riconoscimento di esse (Melfsen, Florin; 2002). Inoltre, nei soggetti con ansia sociale sono stati segnalati deficit di attenzione, di interpretazione e di giudizio o aspettativa. Di conseguenza, questi individui soffrono spesso di gravi disabilità nella vita sociale (Beidel, Turner, Morris; 1999) e scolastica (Van Ameringen, Mancini, Farvolden; 2003): hanno pochi amici, frequentano la scuola in modo irregolare, possono sviluppare precocemente dipendenze da alcol e droghe (Buckner, Schmidt, Lang, Small, Schlauch, Lewinsohn; 2008), oppure si verifica un’elevata comorbilità con altri disturbi affettivi, come la depressione. Non sempre questo disturbo viene trattato, in quanto solo una piccola percentuale delle persone interessate cerca aiuto professionale e spesso questo disturbo passa inosservato ed è quindi sotto diagnosticato, anche da professionisti. La CBT (Terapia Cognitivo Comportamentale) mostra la più forte evidenza per il trattamento dell’ansia sociale infantile (Mohatt, Bennett, Walkup; 2014) ed ha un tasso di successo del 70% (Hannesdottir, Ollendick; 2007).

Recenti studi si sono soffermati sulla strategia di regolazione delle emozioni per il controllo dell’ansia sociale. Essa è definita come gli sforzi di una persona per influenzare la qualità, l’intensità, i tempi, l’espressione e le caratteristiche delle loro emozioni, sia positive che negative (Gross; 1998, 2007). I dati delle analisi auto-riportate identificano in modo coerente l’associazione tra capacità di regolare le emozioni e sintomi di ansia e depressione negli adolescenti; cioè, un alto livello di disregolazione emotiva è associato a maggiori sintomi di ansia sociale.

In questo studio, la regolazione delle emozioni degli adolescenti con diagnosi di ansia sociale (30 soggetti) di età compresa tra gli 11 e i 16 anni, è stata approfondita e confrontata con un gruppo di controllo sano (36 soggetti). Gli strumenti utilizzati sono stati: un questionario standardizzato self-report per la misura dell’ansia sociale e uno per le diverse strategie di regolazione delle emozioni. Sulla base dei dati esistenti, si presumeva che gli adolescenti con ansia sociale avrebbero usato le strategie di regolazione delle emozioni adattive meno spesso e le strategie di disregolazione emotiva più spesso del gruppo di controllo. Le emozioni che sono state prese in considerazione per le analisi iniziali sono paura, tristezza e rabbia.

La principale scoperta di questo studio è stata una correlazione positiva e significativa tra le strategie di regolazione emotiva disadattive e il disturbo d’ansia sociale negli adolescenti (in accordo con le ipotesi dello studio); ma non un’associazione significativa tra strategie adattive e ansia sociale (Jose, Wilkins, Spendelow; 2012). Nello specifico, il gruppo clinico ha mostrato punteggi più bassi nell’uso di strategie adattive, in particolare nel contesto di paura e tristezza; mentre nessuna differenza significativa è stata trovata nell’uso delle strategie adattive nel contesto della rabbia. Pertanto, il maggiore uso di strategie di regolazione emotiva disadattive sembra più importante del ridotto uso di strategie adattive. Nel valutare le singole strategie di regolazione emotiva, lo studio attuale ha rilevato che il gruppo clinico riporta un uso inferiore della strategia della rivalutazione dell’emozione e della risoluzione dei problemi, rispetto al gruppo di controllo.

Sulla base dei risultati del presente studio, l’adeguata gestione degli stati emotivi negativi dovrebbe essere utilizzata come elemento centrale del processo terapeutico e gli adolescenti con ansia sociale dovrebbero conoscere l’uso di strategie adattative di regolazione delle emozioni idealmente già all’inizio del processo terapeutico; poiché la graduale acquisizione di strategie di regolazione delle emozioni positive migliora significativamente l’autostima degli adolescenti e aumenta la loro motivazione per ulteriori interventi terapeutici.

Lo studio presenta alcune limitazioni. In primo luogo, le comorbilità non sono state valutate e quindi non controllate. Studi epidemiologici dimostrano che i pazienti affetti da ansia sociale spesso soffrono di ulteriori disturbi di interiorizzazione, che potrebbero aver influenzato i risultati. In secondo luogo, l’investigazione sull’uso della strategia di regolazione emotiva si basa sulle segnalazioni di sé degli adolescenti partecipanti. Inoltre, la dimensione del campione è piuttosto ridotta e non è stata effettuata alcuna corrispondenza di genere che potrebbe influire sulla generalizzabilità.

Uno dei punti di forza di questo studio è stato l’inclusione di un gruppo clinico con una diagnosi primaria di disturbo di ansia sociale confermata da un professionista della salute mentale. Ci sono stati solo pochi studi che includevano gruppi clinici, in particolare con bambini e adolescenti.

Sono necessari studi futuri per analizzare le associazioni causali tra l’uso di strategie di regolazione emotiva disadattive e sviluppo del disturbo di ansia sociale negli adolescenti, in quanto c’è poca conoscenza di questa relazione; nonché specifici interventi psicoterapici in combinazione con strategie di regolazione delle emozioni. Pertanto, ulteriori studi dovrebbero mirare a comprendere il ruolo delle strategie di regolazione delle emozioni nel trattamento dell’ansia sociale nell’adolescenza. Infine, incorporare più componenti di regolazione emotiva nel trattamento psicoterapico potrebbe aumentare l’efficacia del trattamento (Golombek, Lidle, Tuschen‑Caffier, Schmitz, Vierrath; 2019).

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