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Cosa c’è che non va tra di noi? Un’analisi descrittiva delle problematiche sessuali nelle relazioni

Studiare i problemi sessuali spostando l’attenzione dall’individuo alla coppia e alla vita sessuale della coppia permette di ridurre la patologizzazione del singolo, e di raggiungere una più chiara comprensione dei meccanismi interni della coppia anziché prediligere la focalizzazione sulle mancanze di uno dei due.

 

Nell’ambito delle relazioni romantiche eterosessuali, vi sono diversi studi che hanno valutato la prevalenza delle disfunzioni sessuali negli uomini e nelle donne (Dunn, Croft & Hackett, 1999). Per i primi, i problemi più comuni riguardano l’eiaculazione precoce e le disfunzioni erettili, per le seconde l’ambito del desiderio sessuale (Laumann, Paik, Rosen, 1999).

Nonostante le numerose ricerche in materia, negli ultimi anni alcuni studiosi hanno sostenuto la necessità di studiare i problemi sessuali spostando l’attenzione dall’individuo alla coppia, analizzata come un tutt’uno: oltre a ridurre la patologizzazione del singolo, questa modalità di approccio ha permesso una più chiara comprensione dei meccanismi interni della coppia e le discrepanze tra i due partner anziché prediligere la focalizzazione sulle mancanze di uno dei due (Zilbergeld & Ellison, 1980).

Partendo da questi presupposti, gli autori del presente studio si sono posti l’obiettivo di indagare non tanto le disfunzioni sessuali vere e proprie nelle coppie, bensì tutti quei problemi che rendono la vita sessuale insoddisfacente per uno dei due partner o per entrambi. Per questo scopo, sono state prese in considerazione coppie eterosessuali di vecchia data, ed è stato domandato a entrambi i partner quali fossero per loro gli aspetti più problematici delle relazioni sessuale con il compagno o la compagna (Sutherland, Rehman & Fallis, 2019). Sono state distinte due tipologie di problemi: il primo tipo, legato al singolo individuo, è stato definito disfunzione sessuale mentre il secondo, relativo alla coppia, problema sessuale relazionale (MacNeil & Byers, 1997). L’importanza di questa distinzione sta nel fatto che anche in presenza di una disfunzione sessuale la coppia può non esperire problemi nell’atto sessuale poiché può aver trovato dei metodi efficaci per arginare questa disfunzione individuale. Al contrario, può capitare che coppie composte da partner senza alcuna disfunzione, nel momento dell’atto sessuale, incontrino difficoltà tali da non riuscire a godere di un’esperienza soddisfacente (Sutherland, Rehman & Fallis, 2019).

Gli autori del presente studio, per riuscire a individuare le problematiche sessuali più tipiche all’interno della coppia, hanno preso in considerazione 117 coppie eterosessuali che fossero sposate o conviventi da almeno due anni. A ogni partecipante è stato somministrato il Sexual Problem Questionnaire (SPQ), un questionario autosomministrato composto da 25 item relativi alle problematiche sessuali con il partner, il Sexual Functioning Questionnaire (SFQ), per valutare le eventuali disfunzioni sessuali, il Global Measure of Sexual Satisfaction (GMSEX) per la soddisfazione sessuale generale, il Quality of Marriage Index riferito alla soddisfazione per la relazione e l’International Personality Item Pool (IPIP) come indice di personalità. I dati hanno mostrato che i tre problemi principali legati alla sessualità, riportati sia dagli uomini che dalle donne sono: la frequenza delle relazioni sessuali (F = 85%; M = 84%), le modalità utilizzate per iniziare il rapporto (F = 85%; M = 84%) e l’interesse verso il rapporto sessuale (F=85%; M = 84%). Uomini e donne condividevano 8 dei 10 problemi legati alla sessualità riportati più di frequente.

Il risultato più rilevante della ricerca condotta da Sutherland e colleghi (2019) è stata la coerenza in termini di problemi sessuali e relazionali emersi. In particolare, i partecipanti hanno riferito che la frequenza delle relazioni sessuali, la modalità utilizzata per iniziare il rapporto e l’interesse verso il rapporto sessuale, non erano solamente le problematiche più comuni, ma anche le più gravi e condivise da entrambi i sessi. Nonostante i limiti dello studio, come la mancanza di un’indagine diretta e la sola presenza di misure self-report, esso è stato il primo studio condotto utilizzando misure che indagassero tutta l’area delle relazioni sessuali e delle disfunzioni prendendo in considerazione sia individui che coppie. Per le ricerche future gli autori suggeriscono di indagare le problematiche del desiderio sessuale che potrebbero condurre l’individuo a sviluppare un disturbo psicologico e/o a ledere permanentemente la relazione con il proprio partner.

Nasce CBT-Italia: la Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

COMUNICATO STAMPA

Il 5 dicembre 2019 è nata CBT-ItaliaSocietà Italiana di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale.

Ne danno il lieto annuncio i soci fondatori, clinici e accademici con una storia importante alle spalle e la voglia di scriverne una nuova nei prossimi anni.

L’intento di CBT-Italia è quello di diventare un polo di interesse e riferimento nazionale per tutti coloro che hanno a che fare, a vario grado e titolo, con la pratica e la teoria della CBT, nelle sue varie ramificazioni interne ma condivise e riconosciute a livello internazionale e ancorate a rigorosi processi di validazione empirica delle teorie e dei metodi utilizzati.

C’era bisogno di una nuova associazione? Pensiamo di sì, sia per offrire una casa ai “giovani” nuovi terapeuti formati nelle scuole non afferenti alle società esistenti (ma anche ai “vecchi” che non si riconoscono più in altre associazioni), sia per ridare significato al core della terapia cognitivo comportamentaleche consiste nel dare centralità nella formulazione del caso a credenze e processi cognitivi consapevoli e accertabili a bassa inferenza e nel razionale dell’intervento a un cambiamento esecutivamente controllabile, core che ultimamente si è un po’ perso in una pur rispettabile ambizione integrativa. Ciò dando spazio alle varie voci e alle varie generazioni che popolano l’arcipelago cognitivo-comportamentale.

CBT-Italia è quindi aperta a tutti i professionisti, e futuri professionisti, che hanno scelto la CBT come modello di riferimento clinico (a prescindere dalla scuola frequentata), che condividano i principi ispiratori della società e vogliano sentirsi ben rappresentati, rimanendo costantemente aggiornati e in contatto con tutti gli altri colleghi italiani.

Stay tuned www.cbt-italia.it !

Attaccamento traumatico e co-regolazione: la neurobiologia della relazione – Report dal workshop con Janina Fisher

Nel caso di pazienti con attaccamento traumatico, il fine ultimo del trattamento è sviluppare le capacità di autoregolazione, entrando in contatto e in intimità con l’altro e costruendo un senso di integrazione del sé. La co-regolazione terapeuta-paziente avviene attraverso un’attenta sintonizzazione dei messaggi somatici inviati dal cliente.

 

Lo scorso 16 e 17 novembre la psicoterapeuta Janina Fisher, esperta a livello internazionale di trattamento dei traumi, ha tenuto a Roma un workshop sull’attaccamento traumatico e su come sia possibile trattare il paziente traumatizzato attraverso interventi di co-regolazione in cui il terapeuta attua un’attenta sintonizzazione con il paziente, una sintonizzazione veicolata prevalentemente a livello emotivo e somatico.

La dottoressa Fisher apre il workshop soffermandosi sulle dinamiche del processo di attaccamento, definito come la ricerca di un “porto sicuro”: i bambini hanno bisogno di una figura di riferimento, un caregiver che si prenda cura di loro e che offra protezione e rassicurazione quando sentono di essere in una situazione percepita come non sicura. Se il bambino può contare su di una figura di riferimento sufficientemente disponibile in caso di bisogno potrà sviluppare un attaccamento sicuro.

Il processo di attaccamento è mediato sul piano somatico: dato che il sistema nervoso del neonato è ancora immaturo la figura di attaccamento svolge una funzione di regolazione interattiva, attraverso la quale il bambino apprende, nell’interazione con il caregiver, come regolare i propri stati emotivi e fisici. Se il bambino percepisce la figura di attaccamento come inaffidabile o distante non riesce a sviluppare un attaccamento sicuro; ne risulta compromessa anche la capacità di autoregolare i propri stati fisici ed emotivi.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI:

Workshop 2019 Fisher IMM1

 

Workshop 2019 Fisher IMM2

Imm 1 e 2 – Janina Fisher parla alla platea

Possiamo osservare differenti stili di attaccamento, ognuno dei quali combina specifiche strategie di avvicinamento e di evitamento alla figura di riferimento e conseguenti modalità di espressione emotiva e di autoregolazione; con il procedere del processo di sviluppo a ciascuno stile di adattamento si abbinano schemi cognitivi che determinano il modo di entrare in relazione della persona.

Nell’attaccamento sicuro il bambino impara, attraverso l’interazione con un caregiver percepito come affidabile, ad autoregolarsi, e, allo stesso tempo, a fidarsi della relazione. Nell’attaccamento insicuro-ambivalente, invece, il bambino ha difficoltà ad autoregolarsi e cerca di mantenere costante vicinanza con il caregiver, senza mai sentirsi, però, totalmente rassicurato dalla sua presenza; nell’attaccamento insicuro-evitante il bambino si rifugia nell’autoregolazione, evitando la regolazione interattiva con il caregiver; l’attaccamento disorganizzato è caratterizzato da difficoltà sia nell’autoregolazione che nella regolazione interattiva.

L’attaccamento disorganizzato è contraddistinto dal conflitto tra l’impulso di attaccarsi, entrando in relazione, e quello di attaccare o fuggire; i modelli di attaccamento relativi all’attaccamento disorganizzato nei bambini sono stati associati a un comportamento materno definito “spaventato o spaventoso”. Alcune persone sviluppano uno stile di attaccamento disorganizzato con tendenze preoccupate: provano una forte paura alla prospettiva di essere abbandonati, ma, al tempo stesso, sono sospettosi e tendono ad esprimere rabbia. Altre persone hanno, invece, uno stile di attaccamento disorganizzato con tendenze evitanti: vorrebbero entrare in relazione, ma si tengono a distanza e si allontanano chi si avvicina troppo. Tutte le dinamiche relative ai processi e agli stili di attaccamento entrano fortemente in gioco nella relazione terapeutica, che riattiva i modelli di attaccamento del cliente rispetto alla figura del terapeuta.

È frequente, nelle persone caratterizzate da un attaccamento traumatico, la presenza di uno stato di dissociazione strutturale della personalità: una parte del sé della persona vive nel presente, attuando condotte di interazione con l’ambiente, mentre un’altra parte del sé è rimasta ferma all’esperienza traumatica e mette in atto condotte di difesa (attacco/fuga, freezing, sottomissione, etc.) quando qualcosa, nell’esperienza presente del soggetto, rievoca il trauma.

Il terapeuta lavora con le parti dissociate, che vanno riportate alla coscienza, e che emergono sotto forma di memorie somatiche e attraverso agiti e identificazioni proiettive. Il terapeuta individua l’esperienza di attaccamento che manca alla persona e la offre, come sperimentazione, per permetterle di familiarizzare con un vissuto nuovo: relazionarsi con una figura di attaccamento rispondente ai suoi bisogni.

Nel caso di persone che hanno subito dei traumi a livello di attaccamento, il terapeuta è chiamato ad entrare in relazione con clienti che hanno imparato, sin dall’infanzia, a considerare le relazioni fonte di pericolo; la relazione con il terapeuta non fa eccezione. Di conseguenza il cliente è portato a vivere con difficoltà e paura l’instaurarsi di una relazione con il terapeuta.

Il terapeuta fa ricorso a tecniche mindfulness e agli interventi di psicoterapia sensomotoria, nell’ottica che solo attraverso la mediazione dei vissuti corporei il cliente possa avere complesso accesso ai propri vissuti e ritrovare il senso di integrità del sé compromesso dall’attaccamento traumatico. A questo proposito la Fisher cita Van der Kolk il quale afferma che:

Le parole non possono integrare le sensazioni e i pattern di azione disorganizzati che hanno origine dai segni più profondi del trauma.

Fine ultimo del trattamento è l’acquisizione della capacità, da parte del paziente, di attuare una corretta autoregolazione, entrando in contatto e in intimità con l’altro e costruendo un senso di integrazione del sé. Per promuovere ciò il terapeuta si avvale del linguaggio non verbale e della mediazione corporea; la co-regolazione terapeuta paziente avviene, quindi, attraverso un’attenta sintonizzazione dei messaggi somatici inviati dal cliente.

 

 

La tecnologia nelle nuove generazioni

Alcuni studiosi, come Mark Prensky (2001) ritengono che gli studenti sono cambiati radicalmente; non sono più le persone per cui il sistema educativo è stato pensato.

 

Oggi i ragazzi non sono solo cambiati rispetto al passato, né hanno semplicemente mutato il modo di parlare, vestirsi o agghindarsi, come era successo nelle generazioni passate. Si è verificata una grande trasformazione, tale da cambiare le cose in maniera così profonda da rendere impossibile tornare indietro: si tratta dell’arrivo e della rapida diffusione della tecnologia digitale negli ultimi decenni del ventesimo secolo.

Gli studenti di oggi, dall’asilo all’università, rappresentano le prime generazioni cresciute con queste nuove tecnologie. Hanno speso la loro vita usando computer, videogiochi, lettori di musica digitale, videocamere, telefoni cellulari e tutti gli altri strumenti dell’era digitale. La familiarità dei bambini con una tale varietà di  schermi interattivi ha plasmato il loro modo di apprendere, di conoscere e di comunicare e, contestualmente, il loro approccio alla realtà: per i nativi, il virtuale è realtà tanto quanto quella che si attua con i sensi, in presenza.

Per via del modo in cui sono cresciuti, è molto probabile che i cervelli dei nostri studenti si siano fisicamente modificati e siano diversi dai nostri. Che ciò sia comprovato oppure no, possiamo dire con certezza che anche i loro modelli cognitivi sono cambiati. Bisogna però sottolineare che la tecnologia rende liberi e migliori solo se la sviluppiamo e la utilizziamo in modo saggio (Prensky, 2013).

Siamo di fronte ad un apprendimento digitale, fino a qualche anno fa, i compiti si facevano a casa da soli o in piccolo gruppo, alcune volte si usava il telefono per confrontare i risultati, oggi si fanno i compiti insieme tramite Skype, si condividono i risultati tramite Wathsapp, si cercano molte più informazioni su internet piuttosto che sui libri. Questo tipo di studio ha modificato le modalità di apprendimento e la velocità della gestione delle informazioni; è cambiato il livello di attenzione e la velocità con cui arrivano gli input al cervello. Ormai si attua una modalità per cui non si esegue più un compito cognitivo alla volta e, come un pc, si può arrivare ad avere un numero troppo elevato di finestre aperte, con il rischio di andare in affaticamento mentale.

 Prensky parla di saggezza digitale derivante dall’intelligenza digitale, possibile solo in chi riesce ad approcciarsi nella misura migliore e maggiormente consapevole alle nuove tecnologie. Esiste però anche una stupidità digitale, tipica di persone che fanno un uso inappropriato della tecnologia, mettendo in atto comportamenti che manifestano quanto meno superficialità, come l’impadronirsi di materiale presente in rete senza preoccuparsi del copyright né di citare gli autori.

Prensky ha coniato il termine nativi digitali, proprio per indicare i bambini che hanno grande dimistichezza con gli strumenti tecnologici. Questa espressione sarebbe in opposizione con gli immigrati digitali, che saremmo noi adulti che dobbiamo riadattare la nostra mente a questo secondo linguaggio, sono le persone che, quando queste nuove tecnologie si sono diffuse, erano già adulte e quindi hanno avuto maggiore difficoltà, o addirittura non riescono, a impadronirsi della conoscenza e dell’uso di questi nuovi mezzi. Bortolato però ritiene che il termine esatto non sia nativi digitali, ma nativi analogici, perché questi strumenti sono sì digitali, ma l’interfaccia grafica con cui si presentano è analogica. Per questo i bambini li adorano.

Il termine nativi digitali indica la generazione di nati (negli Stati Uniti) dopo il 1985, anno di diffusione di massa del pc a interfaccia grafica e dei primi sistemi operativi Windows. In Italia, secondo Ferri, si parla di nativi digitali dalla fine degli anni novanta, quando i computer e internet sono entrati prepotentemente nella vita di tutti.

Gli studi di Ferri, professore ordinario di Teoria e tecniche dei nuovi media e Tecnologie per la didattica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Milano-Bicocca, autore di numerose pubblicazioni sul rapporto tra media e società, (Ferri, Allega, 2013) dimostrano che l’apprendimento di queste nuove generazioni è caratterizzato dal multitasking: studiano mentre ascoltando musica, mentre chattano con gli amici, mentre il televisore è acceso con il suo sottofondo di immagini e parole. Questo nuovo modo di apprendere è caratterizzato dalla capacità di fare più cose contemporaneamente, ma quando pensiamo di stare facendo multitasking, stiamo solo passando da un’attività a un’altra molto velocemente, ma ogni volta c’è un costo cognitivo.

Gli adulti cercano sempre un manuale o degli strumenti per inquadrare concettualmente un oggetto di studio prima di dedicarsi a esso, i nativi apprendono per esperienza, navigano tra i media in maniera non lineare e creativa. La loro mente è fatta in maniera differente essendo in grado fin da piccoli di distribuire l’attenzione su più dispositivi contemporaneamente, a differenza dei loro genitori monotasking che faranno fatica a capirli.

Daniel J. Levitin (2015), ha effettuato alcune ricerche ed è arrivato a sostenere che il multitasking ci rende meno efficienti e comporta un vero e proprio esaurimento delle funzioni cerebrali. Si è visto che il multitasking aumenta la produzione di cortisolo, l’ormone dello stress, e di adrenalina, l’ormone del lotta o scappa, che può stimolare eccessivamente il cervello e causare annebbiamento o pensieri disturbati. Il multitasking crea un circolo vizioso di dipendenza dalla dopamina, premiando effettivamente il cervello a perdere la concentrazione e a cercare stimoli esterni.

 

Il sesso nella coppia e la pratica della non-monogamia eterosessuale: scambismo e poliamore

La cultura occidentale contemporanea onora la monogamia, sostenendola come uno standard morale ideale e come fondamento solido per la costruzione di interazioni sociali normative per individui, gruppi e istituzioni.

 

Shippers (2016) descrive questa monogamia istituzionalizzata e obbligatoria come:

Il dominio e la superiorità dell’etero-mascolinità, un insieme di aspettative culturali e un luogo sociale che offre agli individui una sola forma legittima di relazione intima.

Questo modello monogamo è idealizzato nella storia dell’amore culturale dominante in cui un uomo incontra, corteggia, conquista una donna e si innamorano per sempre. Il sesso gioca un ruolo speciale in questo contesto, fungendo da rappresentazione simbolica della fusione di una coppia e del sé. Il sesso, come spiegano Jackson e Scott (2004), è visto come ciò che tiene la relazione insieme e, se questo non funziona, l’intera relazione cade a pezzi. In quanto tale, la fedeltà sessuale e l’esclusività sono le parole chiave di queste relazioni. Di conseguenza, questa natura “obbligatoria” della monogamia eterosessuale etichetta identità e pratiche sfidanti e differenti come devianti e inferiori.

Il risultato di questa prescrizione culturale è l’affermarsi della superiorità maschile. Nello specifico, le idee maschili tradizionali riguardano la convinzione del possesso esclusivo delle donne come proprietà sessuale; oppure si allontanano dalle idee di proprietà per abbracciare la tradizionale nozione di genere della mascolinità come prestazione competitiva con altri uomini. Infine, attualmente molti uomini si concentrano sulla cooperazione e la comprensione, misurando il “successo” in termini di soddisfazione dei partner: questo spostamento segna una potente trasformazione nelle dinamiche di potere di genere.

Il presente studio analizza le conseguenze della variazione di questa regola culturale, valutando in che modo l’intimità con partner diversi influenza gli ideali di genere e le dinamiche di potere. In particolare, vengono prese in considerazione due diverse forme di relazioni multiple tra partner: scambismo e poliamore. Lo scambismo si riferisce all’impegno reciproco e consensuale della coppia in relazioni sessuali extraconiugali, mantenendo il coinvolgimento emotivo esclusivo all’interno della coppia. Esso include una vasta gamma di pratiche sessuali, tra cui quelle denominate “soft swap” (in cui può esistere un gioco sessuale con gli altri, ma il rapporto sessuale è riservato alla coppia) e “hard swap” (in cui entrambi i partner possono impegnarsi nel rapporto sessuale con uno o più partner). Indipendentemente dalla pratica sessuale, per gli scambisti, il coniuge o il partner è il loro unico e vero amore (Bergstrand e Sinski, 2010). Al contrario, i poliamanti si concentrano intensamente sull’intimità emotiva e sull’impegno con tutti i partner, credendo che sia valido e utile mantenere relazioni intime, sessuali e amorose con più di una persona (Haritaworn et al., 2006). Come lo scambismo, il poliamore può assumere molte forme e racchiudere comportamenti diversi (es. vivere insieme come un’unica famiglia, partner multipli esterni al nucleo familiare, condivisione di un unico partner aggiuntivo).

Per raccogliere i dati utili alla ricerca sono state condotte interviste approfondite e semi-strutturate, progettate per consentire ai partecipanti di far emergere argomenti, esperienze e sentimenti rilevanti per loro. La guida all’intervista includeva domande focalizzate sulla storia delle relazioni, su come e perché i partecipanti hanno deciso di non osservare la pratica monogama, su come hanno negoziato queste relazioni, sui vantaggi e le difficoltà associate alle diverse esperienze e, infine, sulle loro percezioni riguardo all’amore e alle differenze di genere.

Ciò che emerge dall’analisi dei dati è un tema univoco sia agli scambisti che ai poliamanti, ossia la presenza di un accordo iniziale che rivela sia il desiderio di esplorazione sessuale condiviso dalla coppia, sia la necessità di proteggere la relazione e controllare i sentimenti che il sesso extraconiugale potrebbe evocare. Per fare ciò, queste coppie creano dei limiti attorno al tipo di attività sessuale che è ritenuta ammissibile ed è la presenza e l’interazione con gli altri uomini che devono essere controllate. In questo caso, infatti, si evince chiaramente un’importante dinamica di genere: una donna che fa sesso con un’altra donna o la coppia che condivide rapporti sessuali con un’altra donna non è considerata minacciosa; al contrario, un altro uomo è visto come potenzialmente minaccioso perché in grado di sostituire il partner.

In questa configurazione, come spiega Schippers (2016), l’uomo è il soggetto desiderante e le donne sono oggetti del desiderio. Di conseguenza, queste donne sentono di lavorare insieme per il proprio piacere sessuale, ma anche, e soprattutto, per alimentare i desideri sessuali del partner. In altre parole, la ricompensa centrale del gioco sessuale femminile è la soddisfazione e il piacere degli uomini; questo rafforza il loro senso di mascolinità e il mantenimento del loro status di agente sessuale (la prospettiva di un altro uomo significherebbe gelosia, insicurezza e competizione), mentre le donne si esibiscono come oggetti stimolanti per loro. Tuttavia, queste pratiche sessuali scambiste sembrano rafforzare il sesso nella coppia eterosessuale. Nel caso in cui dalla pratica soft swap si aderisce alla pratica sessuale hard swap è necessario ridefinire regole, confini e limiti della pratica sessuale extraconiugale. Quindi, nello specifico, le coppie del presente studio hanno fatto affidamento su due strategie primarie e spesso collegate per contenere ed alleviare le paure e le insicurezze: 1) una comunicazione completamente onesta e 2) la creazione di regole per proteggere l’amore e l’impegno emotivo delle coppie. Gli obiettivi di queste strategie erano di favorire la comprensione e promuovere la fiducia nel fatto che il sesso con un’altra persone non avrebbe minato la connessione emotiva unica di una coppia. In questo senso, queste coppie hanno mantenuto gli aspetti chiave della gerarchia di genere e hanno valorizzato l’amore monogamo.

Mentre gli scambisti scollegano l’amore e il sesso per preservare la relazione d’amore unica e monogama prescritta dall’ideologia dell’amore romantico, i poliamanti sostengono che un rapporto intimo di amore e sessualità con una persona non impedisce relazioni simili con gli altri individui. Alcuni partecipanti di questo studio (3) hanno scelto il poliamore come una posizione puramente ideologica; cioè, credevano che la monogamia fosse una prescrizione sociale che limitasse la loro vita e quindi la rifiutavano. La maggior parte dei partecipanti, tuttavia, è emersa come poliamorosa perché voleva mantenere più relazioni intime importanti: alcuni erano scambisti che avevano scelto di passare alla poliamoria perché avevano sviluppato forti legami emotivi con i loro partner sessuali; altri si sono innamorati di una persona al di fuori dei loro matrimoni, ma erano ancora innamorati dei loro partner e insieme hanno deciso di diventare poliamorosi. Il resto dei partecipanti ha deciso congiuntamente come coppia di voler provare il poliamore come un modo per arricchire la propria vita ed espandere connessioni significative.

Indipendentemente da come i partecipanti sono entrati nelle relazioni poliamorose, molti hanno trovato la pratica di queste relazioni più impegnativa di quanto si aspettassero. Come gli scambisti hard swap, molti partecipanti poliamorosi hanno provato gelosia, ansia e paura di perdere i loro partner quando hanno iniziato a intrattenere relazioni amorose con altre persone (Mint, 2010). Per alcuni partecipanti (circa il 65%), queste emozioni diverse, come per gli scambisti, erano legate alle tradizionali dinamiche di genere. Anche in questo caso, era necessario stabilire delle regole che rientravano in due grandi categorie: quelle progettate per prevenire i sentimenti negativi e quelle create per mitigarli se si verificassero (Wolkomir, 2015). Due dei tipi più comuni di pratiche create per impedire sentimenti negativi sono stati la creazione di “potere di veto” riguardo ad altre relazioni (entrambe le persone potevano dire di no ad un evento, ad una persona o ad un tipo di attività sessuale che ha creato coercizione emotiva) e la conservazione di determinati spazi, esperienze ed eventi speciali per la coppia primaria (alcune coppie hanno concordato che avrebbero celebrato tutte le festività, i compleanni e gli eventi speciali insieme, altre ancora hanno riservato il sesso orale o altre pratiche sessuali solo l’uno per l’altro).

In sostanza, nonostante alcune dinamiche relazionali non siano state ancora annullate, le esperienze dei partecipanti con più amanti creano un’opportunità per sviluppare una nuova lente attraverso cui visualizzare relazioni intime, che non richiedono competizione o gerarchia di genere e permettono l’amore tra molti uguali. Questo studio, poiché si concentra principalmente su eterosessuali bianchi della classe media che praticano per lo più sesso diadico, si limita ad un’analisi delle relazioni connesse al potere di genere. Studiare altre configurazioni di relazioni poliamorose che incorporano varie identità sessuali o razziali e/o sesso triadico può consentire una maggiore comprensione delle dinamiche di genere, disuguaglianze razziali e sessuali (Schippers, 2016) e di come queste forme di intimità possano porre sfide al predominio maschile eterosessuale bianco. Infine, indagare come questi percorsi potrebbero essere diversi o problematici per gruppi differenti i e più emarginati rispetto ai partecipanti a questo studio fornirà una visione molto più sociologica delle complessità delle disuguaglianze interconnesse.

 

Le funzioni del gioco nel contesto evolutivo

Il concetto di gioco richiama un’attività di natura ricreativa, piacevole, intrinsecamente motivata e non finalizzata. Tuttavia, soffermandosi solo alle caratteristiche velleitarie connesse al suo specifico esercizio, si commetterebbe il rischio di trascurare le numerose competenze adattive e funzionali che il gioco consente di acquisire.

 

Il concetto di gioco richiama un’attività di natura ricreativa, piacevole, intrinsecamente motivata e non finalizzata, praticata sin dalle prime fasi della vita umana. Sarebbe tuttavia un errore, parlando di gioco, soffermarsi solo alle caratteristiche velleitarie connesse al suo specifico esercizio: si commetterebbe infatti il rischio di trascurare le numerose  competenze adattive e funzionali che proprio attraverso il gioco riescono ad essere acquisite, potenziate e mantenute nel tempo.

La prospettiva etologica è tra le prime ad evidenziare la funzione di apprendimento tipica del gioco praticato dai cuccioli di animale, i quali, simulando scene della vita quotidiana in un contesto scevro di intenti aggressivi, riescono a costruire l’immagine mentale di eventi che potrebbero accadere nella realtà e a sviluppare adeguati strumenti reattivi ai medesimi: si tratti di attacchi finalizzati alla difesa, al procacciamento di cibo, alla protezione dei propri simili o di se stessi, al confronto amoroso finalizzato all’accoppiamento, alle interazioni sociali e a tutte quelle attività utili al mantenimento e al potenziamento autoconservativo in una prospettiva di apprendimento evolutivo (Alcock, 2007).

Questa funzione di apprendimento attraverso il gioco appare mutuata dal genere umano che, nelle prime fasi della vita, si approccia alla sperimentazione di numerose attività evolutive proprio servendosi dell’esperienza ludica.

Vari studiosi della psicologia evolutiva si sono interessati a quest’aspetto, cercando di identificare, insieme alle varie funzioni che il gioco riveste nella vita del bambino, i motivi per i quali lo stesso vi dedica tanto tempo ed energia. Secondo la teoria di Spencer, a giocare una componente fondamentale nell’esercizio del gioco è la volontà di scaricare un surplus di energia che rimane dopo aver eseguito le azioni necessarie alla sopravvivenza, alla stregua di un vero e proprio sfogo (Berti, Bombi, 2013).

Di parere diverso è la teoria di Lazarus, che vede nel gioco un rilassamento, un’attività libera da costrizioni e vincoli che l’individuo sceglie di praticare arbitrariamente a seconda delle personali propensioni e condizioni ecologiche; Karl Groos sceglie invece di fissare l’attenzione sul fine didattico ed evolutivo del gioco, considerandolo una sorta di preesercizio delle abilità adulte necessarie all’evoluzione e al sostentamento (Berti, Bombi, 2013).

Ma è Piaget, nella sua prospettiva costruttivista, a sviluppare maggiormente l’aspetto didattico del gioco, evidenziandone la funzione di palestra di sviluppo, di esercitazione attiva e interattiva con l’ambiente, in grado di apportare competenze e abilità all’individuo in stretta correlazione con lo sviluppo neurobiologico e cognitivo del medesimo. Così si va dalle reazioni circolari del periodo senso motorio, in cui il gioco consiste più che altro nella ripetizioni circolare di attività considerate piacevoli a livello sensoriale, al gioco più concreto tipico del periodo preoperatorio (dai 2 ai 7 anni) che si manifesta con l’esplorazione ambientale, la manipolazione di oggetti e la conoscenza degli stessi tramite il contatto diretto. In questa fase il bambino si avvicina ai giochi, ne riconosce le caratteristiche e le peculiarità, li maneggia, li altera, li modifica, costruisce e trasforma, disfa e inventa, comprende le sequenze di mezzo-fine, lancia, afferra, mettendo alla prova una creatività direzionata essenzialmente su esperienze concrete e ambientali che seguono la direzione del suo pensiero, ancora limitato da un forte egocentrismo ( Piaget, 1936; 1945).

Ma nel periodo preoperatorio il gioco presenta anche connotazioni immaginative, legate perlopiù al pensiero magico, che lo rende in grado di risolvere situazioni problematiche (funzione liquidatoria), di anticipare e prevedere circostanze vissute con particolare ansia e difficoltà (funzione anticipatoria) e di correggere la realtà in tutte quelle situazioni che si sono evolute o concluse diversamente da come il bambino avrebbe desiderato (funzione compensatoria) (Berti, Bombi, 2013).

Già dai 18 mesi, quindi, il bambino comincia a maturare una funzionalità di pensiero simbolica, conferita dalla capacità di immaginare esistenti anche oggetti che spariscono da suo campo visivo, e dall’acquisizione della imitazione differita, ovvero la possibilità di riprodurre comportamenti che ha visto effettuare in fasi pregresse tenendoli a mente. In questa fase il gioco non è più solo una manipolazione concreta di oggetti, divenendo piuttosto una pratica simbolica, immaginativa, in cui l’oggetto ludico sta al posto di qualcosa del quale il bambino possiede già una rappresentazione mentale, e che nell’oggetto identifica per finta.

Lo sviluppo di tale capacità non risulta prescindibile, oltre che dalle maturazioni neurobiologiche, dalle relazioni sociali stabilite dal bambino soprattutto con l’adulto, che meglio di lui riesce a padroneggiare e a strutturare scene ludiche in cui vengono introdotti gradualmente il dialogo, l’interazione, l’immaginazione, il linguaggio emotivo.

Ed è proprio lo sviluppo delle competenze verbali, in evoluzione soprattutto a partire dai 2 anni, insieme all’accrescersi delle interazioni sociali nell’ambiente intra ed extra familiare (si pensi all’accesso agli asili e alle scuole di infanzia) a sviluppare la possibilità di sperimentare giochi di gruppo, in cui il bambino stabilisce regole da seguire, crea ruoli socio-drammatici, riesce ad immaginare caratteristiche che un oggetto non possiede, ad immaginare un oggetto che non esiste o un oggetto che non vede (Schaffer, 2015). Anche il gioco subisce, in questa fase, una trasformazione fortemente influenzata dalla relazione sociale, e se nei primi mesi di vita i bambini svolgono attività contemporanee, ma prive di eteroreferenzialità, a partire dai 3-4 anni, e soprattutto verso i 5, il gioco assume graduali connotazioni collaborative, grazie alle quali i bambini si uniscono consapevolmente in gruppo per realizzare attività condivise, ripartendo ruoli, compiti in vista del raggiungimento di un obiettivo comune (Berti, Bombi, 2013).

Sotto un punto di vista evoluzionistico anche il genere sessuale e le caratteristiche temperamentali svolgono un ruolo discriminante a livello dell’evoluzione e della sperimentazione ludica, creando differenze tra maschi e femmine evidenti già dall’età infantile: i maschi sono infatti più orientati ad attività aggressive, competitive, realizzate singolarmente e basate sul movimento, sulla scoperta, sull’azione e la sperimentazione concreta, mentre le bambine appaiono propense a giochi realizzati in gruppo e fondati sull’accudimento, l’immaginazione, la cooperazione; tale differenza sembra generalmente dovuta ad una serie di influenze ambientali/esperienziali che rendono le femmine soggette ad un’educazione più improntata al controllo emotivo e alla bassa competizione rispetto al corrispondente maschile.

L’immaginazione che si sviluppa nel bambino a partire dai 4 anni viene definita da Fonagy (2003) l’esito dello sviluppo della mentalizzazione, la capacità cioè di attribuire stati mentali alle azioni altrui, e di immaginare che le stesse possano essere compiute con finalità emotive. Così non solo si riesce ad interpretare i propri stati d’animo, ma ci si rappresenta anche quelli altrui, etichettandoli di una matrice mentale.

Il bambino raggiunge questa competenza grazie alla mind-minddness, ovvero la capacità della madre di farlo sentire un oggetto pensante nella propria mente, e di stimolare in lui la rappresentazione di emozioni auto ed eterocentrate, attraverso una serie di abilità metacognitive che si esplicano essenzialmente grazie a social skills tipiche di questo periodo evolutivo: il far finta, momento nel quale il bambino simula scene di vita quotidiana che lo introducono alla capacità riflessiva, il parlare, dato come l’attività verbale garantisca l’accesso ad una buona interpretazione delle emozioni proprie, altrui e alla gestione di un buon vocabolario emotivo, e l’interazione con il gruppo dei pari, momento di relazione interpersonale che vede i bambini impegnati in attività ludiche immaginative, drammatizzate, fantasiose e in grado di spingerlo a pensare che cosa farebbe se si trovasse al posto di un’altra persona (Fonagy, Target, 2001). I bambini divengono così piccoli attori, drammaturghi delle proprie esistenze, e sono capaci di riflettere nella finzione stati d’animo emotivi dei quali già possiedono distinte rappresentazioni interne.

L’idea che il gioco svolga un ruolo importante anche dal punto di vista emotivo è stata condivisa da altri autori, quali Vygotskij, il quale sottolinea come nel passaggio dall’infanzia alla fanciullezza il gioco rappresenti per il bambino un utile strumento per la gestione dell’emotività ansiogena e per la realizzazione di desideri insoddisfatti, mentre si sta relazionando con difficili compiti evolutivi, quali la differenziazione e il distacco dalla figura materna, la scoperta del Sé, la dilazione dei propri desideri (Berti, Bombi, 2013). .

In una prospettiva psicodinamica il gioco viene invece connotato di peculiarità fortemente simboliche e conflittuali.

Freud per primo ha posto in evidenza la funzione del gioco come manifestazione simbolica di disturbi profondi, di un conflitto psichico inconscio che richiede risoluzione. L’idea nasce dalla famosa interpretazione del gioco del rocchetto, grazie alla quale lo stesso Freud, osservando l’attività ciclica e ripetitiva con cui il nipotino Ernst, di 18 mesi, tirava un rocchetto all’esterno e all’interno della culla, comprese il significato simbolico connesso alla stessa: il continuo lancio avanti e indietro della spoletta di filo non rappresenta altro che il suo tentativo inconscio di regolare l’ansia derivata dall’assenza materna e quindi dal distacco dell’oggetto primario.

La funzione del gioco è dunque catartica, poiché consente al bambino di ripercorrere il suo dolore senza accedervi direttamente, nel tentativo di alleggerirlo e diventarne protagonista. La possibilità di poter autonomamente determinare le sorti dell’Oggetto – la madre – consente così la ripetizione attiva in una fase in cui le verbalizzazioni e la possibilità di fare esperienza sono ancora estremamente immature, ma il desiderio di mantenere un legame vivo e attivo con l’oggetto stesso, anche dopo la sua sparizione, si dimostra indispensabile (Freud, 1914).

In questa prospettiva il contenuto simbolico dei giochi praticati dai bambini di età diverse viene a riflettere gli aspetti problematici e conflittuali delle fasi dello sviluppo psico-sessuale e relazionale: costruire castelli o frecce consente di alimentare egocentrismo, onnipotenza e virilità, distruggere una torre di legno per poi ricostruirla significa potersi allontanare dalla madre garantendosi la possibilità del ricongiungimento, giocare a sporcarsi con il fango compensa l’infante per le restrizioni imposte dall’educazione al controllo degli sfinteri, giocare con bambole che scompaiono e riappaiono servono a dominare l’ansia per l’allontanamento della figura materna (Berti, Bombi, 2013).

Anche la Klein considera il gioco non solo come un’attività ludica e ricreativa tipica dello sviluppo infantile, ma come l’equivalente delle libere associazioni nella terapia freudiana, la modalità in cui i bambini esprimono conflitti individuali, paure, fantasie ed esperienze nella stessa forma arcaica dei sogni. Le dimensioni di fantasia, simulazione e reversibilità garantite dal gioco consentono al bambino di espellere e introiettare contenuti angoscianti, stati di persecuzione interna collegati ad esperienze evolutive potenzialmente disintegranti (Klein, 1932).  Ad esempio, recitare ruoli drammatici nel gioco può servire ad isolare le identificazioni ed espellere le figure persecutorie che una volta introiettate lo perseguitano dall’interno, provocando in lui stati di inesplorabile angoscia.

Dunque i giochi cambiano intensità e caratteristiche col mutare dell’angoscia del bambino: si presentano sadici e crudeli nella fase schizoparanoide, in cui l’angoscia persecutoria raggiunge livelli parossistici e di difficile dominazione interna, spingendolo alla volontà di distruggere l’oggetto primario materno per non venir a sua volta dallo stesso distrutto, per divenire più controllati nella seguente fase depressiva, durante la quale, nel bambino, si fa strada il desiderio di proteggere l’oggetto primario dalle proprie pulsioni distruttive (Klein, 1932;1933). Così, se nella fase schizoparanoide il bambino fa a pezzi bambole e pupazzi come si trattasse di un nemico da annientare, con l’insorgere della fase depressiva egli tende a ricostruire, a proteggere quegli stessi oggetti che aveva disintegrato, semplicemente perché non se ne sente più perseguitato (Klein, 1934). Ma il conflitto fa chiaro riferimento al rapporto con l’oggetto materno primario. E proprio qui risiede il valore fortemente simbolico del gioco che accompagna tutte le fasi dello sviluppo emotivo, fisico e cognitivo del bambino, alleviandone il peso e le difficoltà intrinseche.

Si comprende pertanto come l’osservazione del gioco infantile si riveli funzionale alla comprensione e al monitoraggio delle varie fasi dello sviluppo evolutivo, e come un attento studio interpretativo dello stesso consenta di identificare ciò che, attraverso la sua pratica, il bambino vuole intrinsecamente comunicare, relazionandosi all’adulto, a se stesso, al mondo.

 

Il dono nella cultura cristiana

Dal momento della nascita di Gesù il donare se stessi diventa uno dei punti principali dell’atto del donare. Se Dio dona se stesso, i cristiani non possono fare altro che seguire questa strada, questa via. 

 

La cultura cristiana non solo segue temporalmente quella ebrea, ma la porta a compimento. La venuta del Messia, tante volte annunciata e profetizzata, chiude il tempo dell’attesa rinsaldando il legame, messo in crisi dal peccato originale, tra Dio e gli uomini. Così come Abramo offre in olocausto il suo unico figlio Isacco, Dio dona suo figlio per la salvezza dell’umanità.

Donare la vita e donare se stessi sono i punti centrali dell’esperienza evangelica. Se all’inizio – nella genesi – Dio crea la vita e la dona come creazione, con la venuta di Gesù offre se stesso ovvero si fa uomo per la redenzione dell’umanità. Il salto sul piano logico e pratico non è da poco. Dio con Gesù non è più solo Colui che è, che guarda in maniera interessata lo svolgersi della vicenda umana, che manda mediatori come i profeti o i patriarchi, ma interviene in prima persona nella storia culturale dell’uomo. Dio il creatore si fa sostanza umana: la stessa sostanza che ha creato, di cui diventa partecipe e con la quale si identifica.

La nascita del Bambin Gesù porta con sé questa grande novità: Egli è dono e, nello stesso tempo, è l’essersi donato ovvero è dono di se stesso. Questa verità trascendentale sconvolge la logica categoriale poiché mette in crisi la relazione oggettuale, il rapporto tra l’io e l’oggetto, nel senso che il primo diventa, nello stesso tempo, oggetto e soggetto.

E’ oggetto in quanto dono di Dio agli uomini; è soggetto poiché è egli stesso che si dona. Mette in crisi, altresì, il rapporto tra l’io e l’altro che in Gesù si identificano all’interno di un rapporto ambivalente: Egli è figlio ma, nello stesso tempo, è padre. Eppure non sfugge in nessun momento di essere semplicemente figlio. L’altro è il padre e tutta l’umanità.

Questo sdoppiarsi sembra indicare il legame che lega Dio con gli uomini e questi tra di loro. I quattro evangelisti iniziano in maniera del tutto diversa i loro scritti:

  • Matteo lega Gesù al dono generazionale descrivendo la sua stirpe a partire da Abramo;
  • Marco allo stesso modo, lo inserisce all’interno della storia profetica d’Israele facendolo diventare il dono del Signore;
  • Giovanni descrive il dono simbolico facendo riferimento alla origine, alla sostanza di Gesù che in principio era il verbo, era la parola;
  • Luca lo inserisce all’interno della storia del suo tempo.

Gesù è il dono per antonomasia al di là e indipendentemente delle varie letture ed interpretazioni ivi compresi quelli degli evangelisti. Dio si dona facendosi trovare dentro una mangiatoia, diventato ultimo Lui che per definizione è il motore primo della storia umana.

Per i cristiani a Natale finisce il tempo dell’attesa dell’Antico Testamento: è il momento della realizzazione di tutte le profezie. Natale è, comunque, il momento dello scambio dei doni; di fronte al dono accorrono tutti, contraccambiando con quanto possono. La nascita dentro una mangiatoia, se da un lato dimostra che Dio si fa ultimo, dall’altro simboleggia la centralità del dono – Gesù che non ha bisogno di ulteriori sfarzi. Basta Lui a riempire la scena, non c’è bisogno d’altro. E’ dentro la mangiatoia che diventa il centro del mondo tant’è che i re magi partono da lontano per rendergli omaggio.

La suddetta concezione è emblaticamente rappresentata in tutti i quadri della sacra famiglia o in quelli in cui è presente il Bambin Gesù. La luce è emanata dal bambino ed irradia tutte le figure accanto. E’ così nella Natività di Federico Fiori, detto Barroccio, in cui la Madonna viene irradiata dalla luce proveniente dalla culla con il bambino; nella Santa Notte di Antonio Allegri, detto Correggio, nella quale l’adoratrice si mette la mano davanti agli occhi a mo’ di riparo per non essere abbagliata; nella Natività di Piero della Francesca; nell’Adorazione dei pastori di Gherardo Delle Notti, in cui i volti dei pastorelli vengono irradiati dalla luce proveniente dalla culla.

La luce esalta la figura rispetto allo sfondo mettendola in rilevo: è nel gioco delle luci e delle ombre che la materia pittorica prende forma e l’artista può esprimere il suo pensiero. Nella pittura sacra, l’artista esprime la luce divina che viene irradiata dalla stessa figura santa o divina.

San Bonaventura mette in relazione la luce con Dio affermando che Come la luce, Dio è la bellezza di tutte la cose. Se è la bellezza di tutte le cose, essa dona agli oggetti colore, brillantezza, rilievo, li mette al centro della scena. Il Bambin Gesù dona la luce al mondo, così come la sua morte a 33 anni di distanza lo riporta nelle tenebre, per farlo risplendere con la resurrezione. Durante la veglia pasquale si ripete più volte a lume di candela Cristo luce del mondo, mettendo in risalto il dono della luce del Signore.

Un’altra caratteristica della pittura sacra che rappresenta il dono – Gesù è la modalità con la quale la Madonna tiene o meglio non tiene il bambino. La presa è, quasi sempre, innaturale per una mamma: non lo tiene ma lo presenta, lo mette in mostra.

Esempi sono:

  • La Madonna di melagrana di S. Botticelli nella quale è possibile notare che la posizione del bambino è di equilibrio precario, potrebbe cadere in qualsiasi momento. E’ come se il bambino tendesse a scappare. L’indicazione potrebbe rappresentare la risposta di Gesù a Maria quando lo ritrovano nel tempio a discutere con i dottori della legge. Di fronte alle preoccupazioni dei genitori, Gesù risponde: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?
  • La Maestà di Ognisanti di Giotto ripropone la stessa modalità che troviamo in quasi tutte le pitture sacre rappresentanti la Madonna con il bambino.

Gli artisti rappresentano il valore di dono di Gesù che la mamma offre al mondo.

Nella storiografia, nei Vangeli e nelle pitture sacre sono i pastori coloro a cui è annunciata la nascita del Messia, dando, metaforicamente, senso al buon pastore donato per condurre il gregge, per condurre l’umanità verso la giusta via: io sono la via, la verità e la vita.

Dal momento della nascita di Gesù il donare se stessi diventa uno dei punti principali dell’atto del donare. Se Dio dona se stesso, i cristiani non possono fare altro che seguire questa strada, questa via. Donare se stessi vuol dire non solo dare ciò che si ha, ciò che si possiede, ma dare ciò che si è e, in questo modo, fare legame con l’altro.

E. Bianchi sostiene che donare se stessi richiede una convinzione profonda nei confronti dell’altro. U. Morelli afferma:

È nel rispecchiamento con gli altri che costruiamo la nostra identità, fin dalle origini più elementari del nostro essere e della nostra esperienza; […] siamo esseri sociali che fin dalla più elementare costruzione di sé devono ciò che sono alle relazioni che vivono e all’educazione […] Un accesso alla gratuità e al dono è una delle possibilità di favorire le relazioni rispetto all’individualismo e la reciprocità rispetto all’utilitarismo.

Talmente profonda è la convinzione di Gesù dell’altro che, prima della passione, morte e resurrezione, lascia ai suoi apostoli un nuovo comandamento: amatevi gli uni e gli altri come io ho amato voi. E’ la presenza dell’altro che giustifica il donare se stessi.

E’ la comunione, nel senso originario del termine, che lega gli uni agli altri, in un vincolo indissolubile perché fondato sulla sacralità. Gesù conclude la divisione del pane e del vino nell’ultima cena esclamando: fate questo in memoria di me rendendo vivo e perpetuo nel tempo il legame.

La memoria richiama, rende presente, una figura al di là della corporeità perché il legame resta vivo al di là della presenza fisica. La comunione, simbolicamente però, è presenza corporea: questo è il mio corpo mangiatene tutti; questo è il mio sangue bevetene tutti ….. fate questo in memoria di me. Gesù dona il suo corpo, se stesso per legarsi in un tempo infinito che, in quanto tale, è un tempo senza tempo che solo le generazioni e i legami generazionali possono scandire.

Dio vive nel tempo senza tempo, in un eterno presente poiché attraverso il donarsi garantisce il suo esserci. Emblematici per la presenza sono due passi evangelici: dove due si riuniscono nel mio nome, io sarò con loro; tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia chiesa.

L’Ekklesia è la comunità dei battezzati che fanno unico corpo con il loro Signore e fra loro.  La chiesa, nell’accezione di San Paolo, è un corpo vivo che rende visibile la presenza del Signore. Nella prima lettera ai Corinzi scrive:

Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito […] Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.

Tommaso d’Acquino nella Summa Theologica sostiene:

Col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo […] Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da lui veniamo, per mezzo suo viviamo, a lui siamo diretti […] In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti che, attraverso i sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso.

La chiesa cattolica ha definito mistico il corpo della chiesa poiché esso è proiettato nel tempo senza tempo ovvero non finisce con la vita, ma continua a vivere nella vita ultraterrena e, quindi, nell’eternità. La comunione è il dono, l’elemento essenziale affinchè ci si senta parte viva del legame che, partendo dall’origine, oltrepassa tutte le generazioni unendole, attraverso la comunione dei santi, in un solo corpo.

E. Scabini e P. Donati sostengono:

E’ il corpo familiare a gestire il tempo. Il corpo familiare si struttura sullo scambio tra le generazioni, su quanto esse si sono fatte e si fanno di bene e di male. Lo scambio è il principio ed esso è governato tanto dall’ordine nel dare- ricevere, quanto dall’apertura amorevole verso l’altro, vale a dire dal dono ().

Cigoli, come vedremo in seguito, mette al centro della clinica del familiare e del sistema simbolico relazionale il corpo familiare.

Ancora San Paolo ci dice che bisogna donare con gioia. Ciò vuol dire che donare se stessi deve essere un atto di amore e non di egoismo e, solo un atto di gioia, può produrre legami profondi. Donare se stessi significa, ancora, una volta rinunciare ai propri interessi, all’utilità, al benessere sia fisico sia materiale, al proprio corpo.

Satana sul monte Gebel offre a Gesù, ricevendo un netto rifiuto, tutti i regni del mondo in cambio della sua ubbidienza. Satana è il portatore del dono avvelenato il quale si manifesta quasi sempre con grande magnificenza e bellezza. E’ così per la mela offerta ad Eva che era la più bella e splendente dell’albero della conoscenza; è così per i regni che vengono offerti a Gesù. Quest’ultimo, stando ai racconti evangelici, sapeva benissimo la sorte a cui sarebbe andato incontro, ma con un atto di profonda fiducia alla sua storia generazionale, rifiuta.

Donare se stessi vuol dire rinunciare. Un altro passo evangelico invita a scegliere: non si possono servire due padroni: Dio e il denaro. Il denaro, a mio modo di vedere, va inteso come simbolo della ricerca della propria utilità, del proprio benessere, della costruzione di una identità che guarda ai propri interessi pulsionali senza guardare all’altro. La ricerca del denaro, l’accumulo di ricchezza serve a dimostrare la propria potenza, a schiavizzare l’altro che diventa solo uno strumento per soddisfare i propri bisogni. La ricerca del denaro è, insomma, l’esatto contrario del donare se stessi come atto di rinuncia alle proprie istanze inconsce. Solo la rinuncia può portare alla formazione di legami.

D’altronde lo stesso Freud teorizza che per costruire i legami la pulsione deve essere inibita alla meta. La libido, liberandosi dalla ricerca del piacere sessuale, viene investita nell’altro inteso come sociale. E. Emmy dedica a questo tema una serie di quadri che hanno come tema conduttore Il ritorno di mammona, di cui mi pregio di aver scritto la presentazione della prima mostra tenuta a Catania presso la Catania Art Gallery. In queste opere l’artista ci porta, come ho scritto nella presentazione, all’interno di un mondo fortemente contrastato, che lei connota sapientemente in un miscuglio di tratti, idee, colori. Mammona porta con sé ricchezza ma non splende di luce. Quello di mammona è un mondo senza sole. In Mammona in volo il cielo rigato di nero crea un forte contrasto con la terra totalmente desolata, abbandonata e abitata da dinosauri. Gli occhi di mammona sono color oro: oro è il simbolo della ricchezza e ciò che attrae. La ricerca del denaro, della ricchezza, del piacere permettono la costruzione, al massimo, di relazioni ma non di legami duraturi, i quali sono possibili solo attraverso il dono. Mammona impersonifica il dono avvelenato che porta verso un mondo lugubre, rappresentato dal nero con il quale la Emmy dipinge sia la Fucina di mammona sia il mare in Mammona in arrivo.

Il dono avvelenato tenta come la mela dell’albero della conoscenza, ma non suscita emozioni come in Vieni, c’è una strada nel bosco in cui le monete fanno perdere colore alla vita per sprofondare nel buio, nel nero, o nella deprimente visione di Vaso con fiori dove i soldi sostituiscono lo splendore dei fiori. In un passo dei Vangeli Gesù ammonisce che è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli. Per entrare nel regno dei cieli si deve donare, e il dono principe è il donare se stessi.

Il dono di Gesù è totale: Egli dona il suo corpo e il suo spirito. Sulla croce dona il suo corpo ma, nello stesso tempo, anche il suo spirito: Padre nelle tue mani rimetto il mio spirito. Credo che non ci sia dono più grande di quello della vita. Donare la vita vuol dire dare la nascita e la morte. L’atto della vita non si esaurisce con la nascita, come comunemente si pensa. La vita, come detto in precedenza, definisce un tempo che è segnato da due momenti: l’inizio e la fine. Non può esistere un tempo senza una delimitazione; se così fosse vivremmo in un tempo senza tempo. Non voglio entrare, in un’analisi del concetto di tempo che ha impegnato e continua a impegnare una moltitudine di filosofi e fisici. Io faccio mia la tesi che il tempo è una esperienza interiore che è magnificamente sintetizzata da Sant’Agostino il quale scrive: Se qualcuno non mi chiede cosa sia il tempo, io so cosa è. Ma se qualcuno mi chiede cosa sia, non lo so più.

Se il tempo è un’esperienza interiore è evidente che inizia con la nascita e finisce con la morte. Dio, quindi, dona la nascita e nello stesso tempo la morte. Per i cristiani la vita è un riparare, un modo per riguadagnare la serenità e la gioia dell’Eden: la morte è solo un passaggio necessario per godere della visione e contemplazione permanente di Dio. La morte non è un momento di dolore, ma la riconquista della felicità perduta se si è vissuti secondo i dettami evangelici. Al contrario, il dono della morte diventa avvelenato ovvero si va alla perdizione eterna. In ambedue i casi non finiscono i legami, poiché finisce la vita ma non l’esistenza.

I legami non si dissolvono senza la presenza perché è possibile richiamare quest’ultima attraverso la memoria. Le generazioni esistono perché l’esistenza non finisce con la morte e quindi è possibile richiamarne la presenza attraverso la memoria.

Gesù, nel donare se stesso, dona il suo corpo e la sua morte. Il corpo è il luogo della sofferenza: durante la passione viene martoriato e martirizzato, ma non c’è un momento in cui lo spirito venga intaccato. Mantiene la necessaria lucidità sia durante il martirio che sopra la croce. Egli sa che è la strada che deve percorrere per ritornare dal padre. Sulla croce potrà finalmente esclamare, prima di spirare, tutto è compiuto, non prima di aver per –donato i suoi aguzzini. Perdona perché sa bene che loro gli hanno donato la morte, ovvero il ricongiungimento con il padre. Finalmente dopo la resurrezione potrà risedere al suo posto.

 

Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e di protezione (2019) di C. Iacolino e B. Cervellione – Recensione del libro

Nel libro Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione gli autori hanno affrontato tematiche comuni della psicologia, quali stress e trauma, seppur guardandole da un diverso punto di vista, analizzando ad esempio il contesto dell’emergenza come non esclusivamente legato alle catastrofi naturali.

 

Il 22 Ottobre 2019 è uscito nelle librerie il volume Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e di protezione. Il libro affronta il tema della Psicologia dell’Emergenza soffermandosi in particolar modo sugli operatori che intervengono nei contesti di emergenza. Negli ultimi anni la psicologia dell’emergenza ha assunto una rilevanza fondamentale in molti ambiti della psicologia, affermandosi come scienza psicologica. Il Professore Calogero Iacolino e la Dottoressa Brenda Cervellione, con il loro libro hanno dato un nuovo contributo di ricerca in tale settore, affrontando delle tematiche seppur comuni nella psicologia, quali stress e trauma, guardandole da un diverso punto di vista. Attraverso due rassegne sistematiche, hanno esposto numerosi contributi di ricerca presenti in letteratura, sostenendo un diverso modo di vedere il contesto dell’emergenza, rispetto al pensiero comune, il quale è prettamente legato alle sole catastrofi naturali.

Il primo capitolo si apre con la definizione del concetto di “emergenza” con particolare attenzione allo “stato di emergenza”, seguito da un incalzante excursus sullo sviluppo della Psicologia dell’Emergenza sia a livello internazionale sia nel contesto italiano. La nascita della così detta disaster psychology sembra essere una condizione necessaria dati i numerosi eventi ad alta criticità che si sono susseguiti negli anni e che hanno causato numerose vittime e disagi psicosociali. Gli autori del libro presentano in modo accurato gli eventi più eclatanti che hanno comportato la nascita della Psicologia dell’Emergenza, indicando luoghi e date e, soprattutto, le indispensabili attività di intervento.

Elemento centrale della Psicologia dell’Emergenza è sicuramente il destinatario dell’intervento: la vittima. Tuttavia, classificate le diverse tipologie di vittime secondo la tassonomia presente in letteratura, gli autori hanno scelto di trattare un elemento altrettanto importante, senza il quale la vittima resterebbe sola con la propria sofferenza, e che paradossalmente potrebbe diventare indirettamente una vittima (vittima di terzo livello – secondo la classificazione di Taylor e Frazer, 1981, ora Iacolino & Cervellione, 2019), ovvero l’operatore dell’emergenza. In realtà, si tratta di operatori, al plurale, poiché le figure professionali che offrono il proprio contributo in situazioni emergenziali sono più di una. Infatti, gli operatori dell’emergenza e i fattori di rischio e di protezione, che entrano in gioco durante un intervento d’emergenza, sono i temi centrali dell’intero manuale.

Gli autori trattano il concetto di “soccorritore” sia come figura professionale sia volontaria, risaltandone similitudini, diversità e le motivazioni alla base dell’azione d’aiuto, concludono il capitolo concentrandosi sulla figura professionale dello Psicologo dell’Emergenza, indicandone le conoscenze e la capacità di vario tipo: generali, individuali e tecniche-professionali; codeste risultano essenziali allo Psicologo dell’Emergenza per possedere i requisiti del sapere, del saper fare e del saper essere.

Il secondo capitolo approfondisce il tema dello stress riscontrabile negli operatori dell’emergenza, introducendolo con un caso molto significativo. L’analisi degli effetti stressanti che il ruolo di soccorritore comporta, pone la sua attenzione su tutte le potenziali reazioni psichiche negative che l’evento scatena nell’operatore, non tralasciando, tuttavia, le ripercussioni positive, riguardanti le strategie di coping per far fronte agli eventi stressanti. Gli autori illustrano, inoltre, gli aspetti neuropsicologici alla base delle reazioni agli eventi stressanti, e quindi, i meccanismi neurologici in funzione all’attivazione del sistema di difesa difronte al pericolo.

Punto essenziale del capitolo è l’impatto psicologico dell’evento sul soccorritore, l’esplicazione del concetto di trauma, evento traumatico e tutte le variabili intervenienti, dalle caratteristiche individuali a quelle ambientali, le quali possono determinare un risvolto psicopatologico nei soccorritori come il Disturbo da Stress Post Traumatico, ma anche una Crescita post-traumatica. È interessante notare come gli autori, per ogni argomento trattato, riescano ad esporre sia aspetti negativi che positivi, questo lascia un margine di speranza, una virtù essenziale nell’ambito dell’emergenza, sia per le vittime dirette che per le vittime indirette. Difatti, nel libro sono presentati interventi psicosociali per gli operatori, con lo scopo di ridurre i fattori di rischio e aumentare i fattori di protezione. Tra gli interventi gli autori hanno approfondito: il CISD (Critical Incident Stress Debriefing, Mitchell, 1983), chiarificando la differenza tra il debriefing e il defusing che spesso vengono confusi, l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Shapiro, 2002), la psicoterapia ipnotica e la psicoterapia cognitivo-comportamentale.

Il terzo e il quarto capitolo sono dedicati a una rassegna sistematica della letteratura rispettivamente nazionale e internazionale. A livello nazionale, la rassegna esplora gli studi sul personale di soccorso e le loro reazioni psichiche, infatti, l’interesse è stato diretto verso tutte le caratteristiche individuali tipiche di un operatore dell’emergenza, ad esempio, stategie di coping, resilienza, tratti di personalità, ma anche selezionando le indagini sulla qualità della vita degli operatori e sui risvolti psicologici come PTSD, sindrome di burnout, trauma secondario e vicario. A livello internazionale, l’analisi è stata focalizzata sui fattori di rischio e di protezione delle professioni di aiuto. Anche in questo caso i temi ricercati sono state le caratteristiche personologiche e i risvolti psicologici. Gli autori riportano tutte le analisi degli articoli selezionati sulla base delle procedure di selezione ed esclusione, elaborando delle ottime riflessioni finali, concludendo il manuale con un capitolo riepilogativo e comparativo in termini di risultati nazionali e internazionali. Dalle rassegne emerge, dunque, una nuova classificazione delle vittime di terzo livello, includendo diverse tipologie di operatori delineando un nuovo modello (Taylor e Frazer, 1981, ora Iacolino & Cervellione, 2019).

Personalmente ho trovato la lettura del libro scorrevole e chiara, ho osservato una buona pianificazione strutturale degli argomenti trattati e un’accurata revisione della letteratura. Ritengo che sia un libro adatto agli studi universitari non solo psicologici, ma anche in ambito sanitario e sociale, poiché tratta argomenti vicini ad aspetti legati alle professioni d’aiuto; inoltre è indicato per corsi di perfezionamento e Master nell’ambito della Psicologia dell’Emergenza e Psicotraumatologia. Ne consiglio la lettura a tutti coloro che abbiano interessi psicologici, e non solo nello specifico ambito dell’Emergenza.

 

Perdonare se stessi: indagati il ruolo del senso di colpa e della vergogna nel determinare le differenze individuali

La capacità di perdonare se stessi per i torti commessi appare correlata con una migliore salute generale, maggiore empatia, minore depressione e minori tendenze suicidarie.

 

La capacità di perdonare se stessi viene definita come un processo emotivo e motivazionale volto alla riparazione di un torto compiuto ai danni di un’altra persona; tuttavia, questo implica che il soggetto ricerchi non solo di determinare attivamente il proprio ruolo nella vicenda riconoscendosi le colpe oggettive, ma anche accogliendo empaticamente la sofferenza dell’altra persona e facendosi carico delle conseguenze delle proprie azioni, anche quando non vi sia stata l’intenzione esplicita di danneggiare qualcuno (Hall & Fincham, 2005).

Il risultato di tale valutazione dovrebbe determinare il grado di benevolenza o di condanna verso se stessi con i quali il soggetto dovrà fare i conti: in realtà, diversi fattori intervengono nel modulare questa risposta. Fra tutte la letteratura individua una tendenza personale che rimane relativamente stabile nel tempo, quindi detta self-forgiveness disposizionale, che potrebbe portare i soggetti ad avere atteggiamenti, pensieri e azioni generalmente più benevoli nei propri confronti, riducendo di contro gli atteggiamenti punitivi rivolti verso se stessi (Mullet, Neto et Riviere, 2005; Toussaint et al., 2018).

È facile intuire come una valutazione della situazione non oggettiva, bensì imperniata sul soggetto, abbia la potenzialità di portare ad un’eccessiva colpevolizzazione se l’individuo ha questa disposizione, mentre all’estremo opposto troveremo una difettualità nell’accettazione del ruolo giocato nella vicenda, sottraendosi poi, presumibilmente, al processo di riparazione del danno. La capacità di perdonare se stessi per i torti commessi appare correlata con una migliore salute generale, maggiore empatia, minore depressione e minori tendenze suicidarie; inoltre, è stato riscontrato come la flessibilità cognitiva, la stabilità emotiva e la coscienziosità fossero caratteristiche generalmente predittive di una maggiore self-forgiveness (Ross et al., 2007; Thompson et al., 2005).

Carpenter et al. (2016) e McGaffin et al. (2013) hanno individuato due componenti centrali nel modulare la tendenza disposizionale al perdono autodiretto: da un lato vi è la propensione a provare un sentimento di vergogna per le proprie azioni, predittrice di atteggiamenti di evitamento e difensivi; dall’altro, la tendenza a provare colpa, che è in genere associata ad una risposta adattiva di risoluzione del torto, sia assumendosi le proprie responsabilità sia alimentando sentimenti di rimorso che muovono verso l’azione piuttosto che al lasciare le cose insolute (Tangney et al., 2007). Colpa e vergogna sembrano quindi giocare ruoli opposti e speculari nel modulare la capacità di perdono verso se stessi, favorendo o al contrario ostacolando il perdono verso se stessi.

Di recente Carpenter, Isenberg e McDonald (2019) hanno indagato sperimentalmente come il sesso d’appartenenza e l’età potessero entrare in gioco nel modulare la propensione alla benevolenza verso se stessi: se infatti la letteratura riporta una tendenza generale nel sesso femminile a sperimentare maggiori sentimenti di vergogna (Else-Quest et al., 2012), ci si aspetterebbe da parte delle donne una minore capacità di perdono autodiretto rispetto agli uomini, ipotesi non supportata dai valori riscontrati nella realtà (Charzyńska, 2015; Hall et al., 2018). Al contempo, l’età dovrebbe favorire lo sviluppo di tratti psicologici più adattivi, secondo un principio di maturazione progressiva (Donnellan et al., 2007; Roberts et al., 2006; Roberts & Mroczek, 2008; Orth et al., 2010): ci si aspetterebbe quindi che con l’avanzare degli anni le persone acquisiscano una capacità progressivamente maggiore di perdonarsi per i propri sbagli; tuttavia l’associazione con l’età risulta non significativa (Orth et al., 2010). La letteratura riporta inoltre come la tendenza alla vergogna diminuisca con l’età mentre aumenta la tendenza al senso di colpa.

Per spiegare queste apparenti contraddizioni gli autori hanno formulato due ipotesi di come tali fattori concorrano nel modulare la self-forgiveness: da un lato essi ipotizzano un pattern di cancellazione quando colpa e vergogna variano nella stessa direzione (colpa elevata e vergogna elevata), i loro effetti opposti e contrari si sommano cancellandosi a vicenda, ovvero gli effetti adattivi e propositivi mossi dal senso di colpa vengono azzerati a causa di quelli negativi dovuti alla vergogna provata; al contrario, quando colpa e vergogna variano invece in direzioni opposte, ad esempio quando ad un incremento del senso di colpa si contrappone una diminuzione della vergogna provata, gli effetti corrispondenti risultano essere facilitanti per una maggiore capacità di perdono verso se stessi, rappresentando in questo caso un pattern di rinforzo.

Analizzando statisticamente i dati provenienti da 400 individui ambosessi di età compresa tra i 18 e 73 anni, gli autori hanno trovato conferma delle loro ipotesi: nelle donne, che risultavano più propense a sperimentare senso di colpa e vergogna, questo ha comportato un effetto positivo grazie alla colpa (effetto tra lo 0.11 e lo 0.13) e negativo a causa della vergogna (effetto tra -0.22 e -0.34), risultando in un effetto complessivo ridotto sulla capacità di perdonare se stesse (pattern di cancellazione). Per quanto riguarda l’età, invece, è stato riscontrato un effetto della colpa stimato da 0.04 a 0.06 deviazioni standard per decade, mentre la vergogna di 0.05 a 0.10 deviazioni standard per decade, i quali vanno sommandosi risultando in un effetto finale maggiore (pattern di rinforzo). Combinati, gli effetti di colpa e vergogna rendevano conto del 72% dell’effetto totale sull’età.

I risultati ottenuti, sebbene con le dovute limitazioni, contribuiscono a gettare luce sulle contraddizioni riscontrate dagli studi precedenti, sottolineando come importanti differenze individuali da attribuirsi al sesso possano venire oscurate da una correlazione nulla, che non tiene conto di effetti che si muovano in direzioni differenti. Inoltre, i risultati sembrano supportare una modesta associazione tra l’età e la self-forgiveness, in linea con i modelli che prevedono una progressiva maturazione che accompagni la crescita anagrafica.

 

Stelle sulla terra (2007) storia di creatività dislessica

Le persone con dislessia sembrano possedere un pensiero divergente e meno veicolato da schemi formali e rigidi, che favorisce il potenziale creativo. Non tutti però riescono a mettere a frutto le proprie potenzialità. E’ importante aiutare il bambino dislessico sia a prevenire problemi scolastici, emotivi e comportamentali, sia ad accrescere il personale talento.

Fiorenza Fella – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

 Stelle sulla terra è un film che racconta la storia di Ishaan Awasthi, un bambino di nove anni dislessico. Ad accorgersi della sua dislessia è un insegnante di Arte, il quale rimane profondamente colpito dalla creatività e del talento che il bambino dimostra nel disegno. L’insegnante parla di dislessia alla famiglia, alla scuola. Parla di tante persone famose, dislessiche, che hanno avuto successo nella vita.

Stelle sulla terra: trama del film

Stelle sulla terra è un film drammatico del 2007 diretto da Aamir Khan, che narra la storia di Ishaan, (interpretato da Darsheel Safary) un bambino dislessico. I genitori del bambino, dopo un incontro con gli insegnanti, decidono di iscrivere il figlio in un collegio. Ishaan vive questa situazione come una punizione e soffre per la separazione dalla famiglia. Nel nuovo istituto il bambino non riesce a fare progressi e sprofonda nella depressione, fino all’arrivo di un nuovo maestro di Arte, Ram Sanchar (interpretato da Aamir Khan). L’insegnante capisce che Ishaan è dislessico. Decide di prendersi personalmente cura del bambino, intraprende con lui un percorso di riabilitazione nella lettura, scrittura e calcolo, riuscendo a stimolare e coinvolgere Ishaan. Il bambino poco alla volta riscopre la gioia di vivere esprimendola attraverso il suo più grande talento, il disegno.

Stelle sulla terra: cos’è la dislessia

La dislessia è un disturbo specifico della lettura. Il profilo clinico del dislessico è caratterizzato da: quoziente intellettivo nella norma; lettura ad alta voce molto stentata; difficoltà ortografiche nella scrittura; difficoltà col sistema dei numeri e del calcolo. A volte sono presenti: difficoltà di comprensione del testo; difficoltà nel linguaggio orale; instabilità motoria e disturbi di attenzione. Il soggetto dislessico presenta difficoltà nella velocità e correttezza della lettura; nella decodifica del testo; e a rendere automatica la risposta fra segno grafico e suono. Il processo automatico dell’identificazione della parola non si sviluppa o si sviluppa in maniera incompleta o con grandi difficoltà. È utile osservare come avviene il processo di lettura. Coltheart (1987) ha spiegato il modello di lettura a due vie: lessicale e fonologia. La via fonologica, attraverso la conversione grafema-fonema, consente di leggere le parole incontrate per la prima volta, anche le non parole, ma è lenta in quanto richiede un processo di analisi delle singole unità sub-lessicali. La via lessicale o diretta, ci permette di accedere al lessico ortografico, alla rappresentazione in forma scritta della parola, permette una lettura più rapida, di leggere le parole conosciute ed è rafforzata dall’esercizio. Solo il completo consolidamento della via fonologica può favorire il passaggio alla via lessicale che implica una lettura rapida con il riconoscimento di parole note. Il normo-lettore utilizza entrambe le vie, il dislessico, invece, presenta difficoltà nell’utilizzo di una o entrambe le vie di lettura.

Ishaan, protagonista del film Stelle sulla terra, ha molte difficoltà a scuola. Ripete la terza classe e ogni materia è per lui un problema. Il suo quaderno scolastico è ricco di errori: inverte le lettere, ne omette, ne aggiunge. Legge lentamente, anche sillabando e a volte tenta di indovinare la parola commettendo errori di anticipazione, ovvero legge una parola al posto di un’altra, che si accomuna o per lettere iniziali o per significato. Questo perché i soggetti che presentano gravi problemi di lettura, spesso, privilegiano l’uso di un processo intuitivo rispetto a quello di decodifica. Eseguono la decodifica della prima parte della parola, talvolta anche del primo grafema o sillaba, e procedono inventando l’altra parte.

Stelle sulla terra: cos’è la creatività

La creatività è la capacità di vedere le cose in modo particolare, rielaborando un oggetto, una situazione aggiungendo qualcosa di nuovo. Se si pensa all’atto creativo viene in mente un individuo che crea, immagina una realtà, esistente o meno; oppure che intuisce il problema, nel senso che lo imposta in modo diverso e in modo diverso lo risolve; o ancora che inventa qualcosa di nuovo. L’immaginare è la raffigurazione mentale di qualcosa che è al di fuori dell’esperienza e che può essere possibile o impossibile, è un andare oltre le informazioni che si posseggono. L’intuire è arrivare ad una soluzione senza fare uso della sequenza logica di operazioni che porterebbe ad una soluzione prevedibile. Si può arrivare, quindi, anche ad altre soluzioni guardando al problema in modo diverso, “vedendo dentro”. L’inventare è trovare qualcosa di nuovo, è la produzione di idee originali tipica dell’atto creativo. Tra i vari autori che si sono occuparti dello studio della creatività ricordiamo Howard Gardner, famoso per la teoria delle intelligenze multiple (1983). Per H. Gardner, il processo creativo può essere diviso in due fasi: l’esplorazione e l’applicazione. Nella fase dell’esplorazione, si generano e si elaborano idee nuove, si stabiliscono nessi e si ricercano schemi insoliti; nella fase applicativa, si valutano e si mettono in pratica le idee e si prova se sono applicabili. Partendo dal concetto di creatività, H. Gardner (1993) considera che, i processi di apprendimento nel contesto scuola non dovrebbero promuovere esclusivamente il nozionismo, ma piuttosto forme di comunicazione funzionali alla comprensione e al problem solving. “Educare al comprendere” significa trasformare la scuola in un centro per l’apprendimento caratterizzato da ambienti stimolanti, dove il bambino non deve essere considerato una “tabula rasa” o un “vaso vuoto” da riempire, ma piuttosto un “potenziale” umano inserito in un contesto sociale interattivo. L’obiettivo dell’istruzione dovrebbe essere quello di offrire a tutti gli strumenti cognitivi per formulare interrogativi, elaborare strategie, risolvere problemi in mondo complesso, interconnesso e in continuo divenire, quindi formare persone creative.

Nel film Stelle sulla terra, Ishaan è un bambino molto fantasioso, è un instancabile disegnatore, talento che però sembra non destare l’attenzione di nessuno. Si sente inadeguato di fronte alle pretese della scuola, dei genitori e si rifugia nel suo mondo fantastico fatto di immagini e personaggi coloratissimi. Arrivato in collegio incontra un professore di Arte, Ram, che a differenza degli altri insegnanti, tratta i suoi alunni in modo speciale, cercando di renderli protagonisti e stimolando la loro creatività. Ram, comprende le problematiche del bambino. Il professore, infatti, scopre che Ishaan è affetto da un disturbo chiamato dislessia, lo stesso di cui è affetto anche lui. Durante il percorso scolastico il suo obiettivo è permettere al bambino di mostrare la sua abilità. Organizza una gara di pittura per tutta la scuola. Ishaan, appassionato di disegno, vincerà la gara e sarà proprio attraverso i suoi disegni che uscirà da quella profonda sofferenza che si porta dentro da tanti anni di insuccessi scolastici e familiari.

Stelle sulla terra: dislessia e creatività

La ricerca scientifica negli ultimi venti anni si è interessata ai bambini con disturbi dell’apprendimento. Sembra che il dislessico presenti alterazioni strutturali e funzionali del sistema nervoso centrale, in particolare dei networks dell’emisfero sinistro deputati al linguaggio. Come suggeriscono studi recenti condotti con tecniche di visualizzazione cerebrale, attraverso la PET, (Tomografia a Emissione di Positoni), i soggetti dislessici sono portatori di un’alterata lateralizzazione cerebrale, su base genetica o congenita. Le funzioni temporali, sequenziali, analitiche, verbali e le abilità manuali, sono controllate dall’emisfero cerebrale di sinistra, mentre le funzioni spaziali, olistiche, intuitive e non verbali sono considerate controllate dall’emisfero destro (Dixon, 1983; Spinger e Deutsch, 1989; West, 1991; Gazzaniga, 1992). Sembra esserci, quindi, un legame fra predominanza dell’emisfero destro e manifestazioni artistiche. Il dislessico possiede un pensiero divergente e meno veicolato da schemi formali e rigidi, complementare al pensiero verticale e logico. Non sempre, però, c’è una connessione tra disturbi dell’apprendimento e potenziale creativo. Uno dei problemi è quello di comprendere come mai alcuni riescono ed altri no a mettere a frutto le proprie capacità. I successi o gli insuccessi di ogni bambino dipenderanno dalla possibilità di sviluppare le proprie potenzialità. Importante è aiutare il bambino dislessico sia a prevenire problemi scolastici, emotivi e comportamentali, sia ad accrescere il personale talento grazie ad un percorso scolastico ed extrascolastico adeguato alle sue necessità. I bambini con disturbo dell’apprendimento sono bambini, hanno le stesse speranze e bisogni di tutti, vogliono sentire che sono importanti. Inoltre, bisogna tenere in considerazione che la problematica del bambino non è transitoria, ma destinata a durare, sia pure con un grado diverso di espressività, fino al termine della scolarizzazione. Le sue necessità di aiuto possono essere transitorie, ma ricorrenti, e per questo richiedono una certa flessibilità di intervento (Stella, 2001).

Scene del film Stelle sulla terra, mostrano il percorso di crescita scolastico e del potenziale artistico del nostro protagonista. Ishaan è stato accompagnato nel percorso di riabilitazione dall’insegnante di Arte, il quale ha compreso le sue difficoltà ma soprattutto ha riconosciuto il suo talento nel disegno. Il maestro è stato in grado di far rifiorire l’autostima ed il sorriso di Ishaan, occupandosi di lui e mettendosi dalla sua parte, lavorando con empatia, pazienza, ascolto e fiducia, conquistando il cuore del bambino.

Stelle sulla terra: storie di dislessici famosi

 Alcuni dei più grandi uomini della storia avevano una particolarità: erano dislessici o avevano quantomeno serie difficoltà scolastiche. Tra i personaggi famosi dislessici ricordiamo nel mondo della scienza: Leonardo Da Vinci, Galileo Galilei, Charles Darwin, Isaac Newton, Michael Faraday, Thomas Alva Edison, Albert Einstein; tra gli artisti: Pablo Picasso, Vincent van Gogh, Walt Disney, Andy Warhol; nel mondo dei musicisti: Mozart, Ludwig van Beethoven, John Lennon, Robbie Williams; tra gli scrittori: Agatha Christie, Victor Hugo; e nel mondo degli attori: Marlon Brando, Jack Nicholson, George Clooney, Tom Cruise, Leonardo Di Caprio.

Diverse sono le storie di questi personaggi famosi:

  • Leonardo Da Vinci era mancino, la sua scrittura era pessima, scriveva come parlava, e nei suoi testi era solito unire due o tre parole e mettere abbreviazioni. Lui stesso diceva di sapere tanti vocaboli, ma gli mancavano le parole con le quali esprimere il concetto che aveva in mente. Oggi sappiamo che la dislessia può portare a questi errori.  Una cosa però gli piaceva fare: disegnare, e fu un pittore ma anche un ingegnere e un inventore.
  • Galileo Galilei pare che fino agli undici anni non mostrasse grandi doti scolastiche, probabilmente si era considerato sempre un autodidatta, uno che ha imparato ciò che gli interessa da solo, cosa accaduta anche a molti altri dislessici famosi.
  • Isaac Newton a scuola non era un alunno eccellente, ma fuori dalla scuola il suo passatempo era costruire oggetti di ogni tipo, veri e propri congegni meccanici che per lui erano semplici giocattoli: è a lui che si deve la “rivoluzione scientifica” di tutti i tempi.
  • Albert Einstein  nonostante fosse un bambino intelligente, veniva descritto dagli insegnanti come lento di mente, si isolava dai compagni di classe e si perdeva nei suoi sogni. Il suo punto debole era la memoria, tanto che quando diventò uno scienziato famoso continuava ad avere nel suo studio una lavagna dove erano scritte le tabelline. Oggi riteniamo che questi suoi problemi fossero legati alla sua dislessia.
  • Pablo Picasso, a dispetto della sua dislessia, riuscì a terminare le scuole primarie, anche se non ebbe mai un vero beneficio da quello che imparò a scuola, l’unica sua passione era la pittura, “il pennello era diventato il prolungamento della sua mano”.
  • Nel mondo della scrittura ricordiamo Agatha Christie, lei stessa racconta che in famiglia era considerata “tardiva”, la scrittura e l’ortografia erano difficili e rimasero i suoi punti deboli, ciononostante la sua dislessia non le impedì di diventare una delle più grandi scrittrici del mondo.

Queste sono alcune storie dei famosi  dislessici elencati (Grenci R.; Zanoni D. 2015). Ciò che ha contato nella loro vita non è stato quello che è accaduto, ma come hanno affrontato gli eventi e quanto impegno hanno messo per potenziare le proprie abilità. Il messaggio da trasmettere a tutti, dislessici e non, è di sviluppare le proprie capacità con impegno, costanza e passione. Raccontare le storie dei dislessici famosi può essere d’aiuto nella comprensione del problema e nei modi di affrontarlo.

Quello che fa il professore di Arte, nel film Stelle sulla terra è parlare di dislessia. Fa visita alla famiglia di Ishaan per spiegare ai genitori le difficoltà del figlio, parla di dislessia anche durante le lezioni in classe e ne parla con i colleghi. Spiega che esistono tante persone famose dislessiche che sono riuscite nella vita. Nelle storie di questi personaggi emerge la grande determinazione che hanno messo in quello che volevano fare. La determinazione è un’arma importante; Albert Einstein diceva:

Il Signore mi ha dato l’ostinazione di un mulo e una curiosità morbosa.

Stelle sulla terra: le doti creative dei dislessici famosi

Nel percorso di crescita del dislessico la cosa importante è far emergere quelle caratteristiche meravigliose che fanno parte del modo di ragionare dei dislessici. Albert Einstein e gli altri dislessici famosi non si limitarono a fare qualcosa di nuovo, essi cambiarono per sempre il campo nel quale lavoravano. Se non avessero avuto una curiosità iniziale, una passione fin dalla tenera età, e se non si fossero impegnati per anni, non avrebbero mai compiuto il genere di conquista creativa in grado di trasformare interi campi di conoscenza. “Io non ho talenti particolari” affermò un giorno Einstein, “la mia è solo una curiosità appassionata”. Dalla passione iniziale emerge una componente importante del processo creativo che è la costanza. Einstein affermò che la curiosità, l’ostinata costanza, unite all’autocritica, gli permettevano di far nascere idee.

Altra particolarità legata a questi personaggi creativi è il tempo, ovvero la capacità di concentrazione e di distaccarsi completamente dal mondo esterno durante i momenti di maggiore studio. Le grandi realizzazioni sono possibili se l’individuo è in grado i concentrarsi a lungo su un obiettivo, libero da distrazioni. Si narra che, quando Newton era immerso nei suoi calcoli non si ricordava persino di mangiare. La pratica e la continua messa alla prova delle proprie capacità sono atti necessari per la realizzazione del potenziale creativo. La mente umana è come un muscolo, quando non viene attivata si indebolisce la sua capacità di funzionamento. Isaac Newton riuscì a dedicare tutte le proprie energie al lavoro ignorando quasi del tutto i bisogni dell’altro, dando la precedenza ai propri interessi, egli stesso affermò: “Se mai ho reso qualche servizio all’umanità, è stato per merito di un paziente pensare”.

Un’altra abilità fondamentale è il farsi delle domande. Le domande che si fece Einstein furono cosi fondamentali che le sue risposte trasformarono il modo di interpretare l’universo fisico.

Altra caratteristica interessante è l’errore dal quale poter imparare. Quando si chiese ad Einstein come procedeva nel suo lavoro, lui rispose: “Vado a tentoni”. L’errore porta a fare qualcosa di diverso e di innovativo, Albert Einstein affermò: “Una persona che non ha mai commesso un errore non ha mai cercato di fare qualcosa di nuovo”.

Altra dote prevalente nei dislessici creativi è l’immaginazione. L’attività creativa fondata sulle facoltà combinatorie del nostro cervello, viene chiamata dalla psicologia immaginazione (Vygotskij, 1983). Bisogna mettere la propria immaginazione al lavoro per creare qualcosa di nuovo, per scoprire nuove soluzioni, persino per pensare a nuovi problemi e nuovi interrogativi. Mozart compose partiture intere nella sua testa, diceva: “Il pezzo per quanto lungo, appare, quasi completo nella mia mente, così che io riesca ad osservarlo come un bel quadro, ad un solo sguardo”.

Nel film Stelle sulla terra, la capacità immaginativa e creativa del bambino è espressa nei suoi disegni: non sarà abile nei compiti in classe, ma Ishaan dimostra tutta la sua abilità nel disegnare. La sua genialità in questo campo non è tale a dispetto della dislessia, ma grazie ad essa (Ronald D. Davis, 2008). Avere la dislessia non farà di ogni dislessico un genio creativo, ma giova sicuramente all’autostima del dislessico sapere che la sua mente funziona come quella dei grandi personaggi famosi e che “la stessa funzione che crea la genialità, crea anche i loro problemi”.

In conclusione

Sulla nostra terra sono spuntate piccole stelle
Che con la loro luce hanno illuminato il mondo,
perchè sono riuscite a farci guardare le cose con
i loro occhi. Pensavano in maniera diversa e le
persone vicine non lo accettavano, e le hanno
ostacolate. Loro però ne sono uscite vincenti.
E tutto il mondo è rimasto a bocca aperta!
(Stelle sulla terra, 2007).

 

 

Anoressia Sessuale: sesso? No, grazie! Quando l’evitamento sessuale diventa patologico

L’anoressia sessuale viene definita come l’atto di evitare compulsivamente di dare o ricevere nutrimento sociale, sessuale o emotivo. Quindi non sarebbe una semplice assenza di desiderio, ma una sorta di compulsione incontrollata a ripudiare ogni forma di approccio con il sesso.

 

Nell’ultimo periodo nella ricerca psicologica, si parla di persone che fanno sesso compulsivamente, quasi come una dipendenza, ma poco si dice, invece, quando si evita il contatto sessuale a tutti i costi.

Non inteso come una “noia” che si presenta quando si entra nella routine della coppia, ma come qualcosa di più profondo, più simile a quello che succede con il cibo nei Disturbi Alimentari.

Anoressia Sessuale IMM 1

Figura 1 – Anoressia sessuale

Studiando il DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), non si trovano tracce di questi disturbi letti sotto una chiave sessuale, anche se nella ricerca, vari specialisti usano già il termine di “Anoressia Sessuale”, che secondo Sex and Love Addicts Anonymous (SLAA) significa “evitare compulsivamente di dare o ricevere nutrimento sociale, sessuale o emotivo”. Quindi non sarebbe una semplice assenza di desiderio, ma una sorta di compulsione incontrollata a ripudiare ogni forma di approccio con il sesso (Nelson, 2003). Nonostante vi siano diverse definizioni offerte per spiegare le caratteristiche tipiche della condizione, attualmente sono poche le ricerche specifiche su questo tipo di pazienti e le informazioni presenti in questo articolo, derivano da una ricerca di qualche articolo e sito web (in particolare in lingua portoghese) dai quali è possibile ricavare, non solo l’esperienza personale di alcuni pazienti, ma anche indicazioni da terapeuti che hanno avuto un contatto diretto con questa popolazione.

Il primo a dedicare una particolare attenzione alla problematica è stato Patrick Carnes nel 1997, il quale ha definito l’Anoressia Sessuale come una dipendenza caratterizzata, non dall’eccesso di un comportamento, ma dalla sua deprivazione compulsiva (Carnes, 1997, 1998). Mentre nell’Anoressia Nervosa vi è un ossessivo controllo della condotta alimentare, nell’Anoressia Sessuale il soggetto focalizza l’ansia e l’avversione sul sesso. Il paziente affetto da Anoressia Sessuale non nutre fiducia nell’altro e di conseguenza, al fine di proteggersi dal “nemico”, rifiuta qualsiasi tipo di contatto fisico, emotivo e ovviamente sessuale. Il soggetto cerca nella maggior parte dei casi di nascondere la sua condizione, sviluppando molteplici argomentazioni fantasmatiche, non supportate dalla realtà dei fatti, al fine di evitare in maniera compulsiva qualsiasi situazione disagevole e provare un illusorio senso di sollievo dalle proprie angosce emotive. Si potrebbe affermare che l’anoressico sessuale vede, nell’isolamento dal mondo sociale circostante, la sicurezza da ciò che viene vissuto e definito come una minaccia. Ad essere negata non è soltanto la sessualità condivisa, ma anche il piacere sessuale derivante dalla masturbazione, spegnendo in maniera definitiva l’eroticismo e diventando sessualmente apatico.

I fattori di rischio che portano allo sviluppo di un’Anoressia Sessuale sono molteplici e nei casi più frequenti vanno ricercate in un’educazione troppo restrittiva che ha enfatizzato l’aspetto negativo del sesso, in una storia di abuso sessuale o in un disordine dismorfico del corpo. Come se un ambiente in cui il sesso è considerato tabù, potesse accrescere nel soggetto una totale non attrazione verso di esso, che continuerebbe nel corso del suo sviluppo a vederlo come qualcosa di “sporco” o illegittimo, che va evitato. Allo stesso tempo, l’eventuale trauma vissuto dal soggetto lo spinge a mettere in atto una serie di strategie difensive (Carnes, Murray & Charpentier, 2004) che, in certi casi, possono anche diventare estreme: evitare di vestirsi in modo attraente e indossare abiti che mascherano ogni caratteristica sessuale, fingere malattie che precludono l’attività sessuale, mutilare parti del copro, coprire o negare qualsiasi cosa che potrebbe indurre negli altri un interesse sessuale. Ricapitolando, quindi, solitamente i pazienti sviluppano questi meccanismi perché sentono di:

  • Essere parte di famiglie insufficientemente affettuose, in cui prevalgono dipendenza o l’adozione di comportamenti distruttivi, tra questi, casi di abusi sessuali su minori o traumi simili;
  • Aver ricevuto un’educazione estremamente rigida, diretta e facile da influenzare riguardo alla moralità sessuale;
  • Essere ossessionato dal rispondere a rigidi modelli sociali o rigide credenze religiose;
  • Avere genitori eccessivamente protettivi e controllanti;
  • Soffrire (o aver sofferto) di quadri depressivi o di intenso stress, con sbalzi d’umore o esaurimento che entrambi i disturbi comportano.

Dal punto di vista cognitivo-comportamentale, la persona affetta da questa patologia ha quindi una percezione distorta di se stesso, che lo porta ad avere comunemente:

  • Dismorfia corporea, percezione alterata, spesso esagerata, del corpo stesso;
  • Ricerca della solitudine, evitando relazioni stabili o le intense emozioni ad esse associate;
  • Perfezionismo;
  • Sensazione di inferiorità o, al contrario, le delusioni di grandezza;
  • Rifiuto del contatto sessuale;
  • Vergogna per tutto ciò che riguarda il sesso;
  • Avversione estrema alle funzioni corporee;
  • Atteggiamenti intenzionali e aggressivi sul comportamento sessuale, che possono portare a commettere atti di violenza contro altre persone;
  • Comportamento autodistruttivo per limitare o evitare il sesso;
  • Atteggiamento progettato per allontanare coloro che si avvicinano, come mostrare sempre la preferenza per le persone fuori portata o con le quali non potrebbe mai stabilire una relazione;
  • Fastidio verso la sessualità degli altri;
  • Sentire un falso senso di potere e sicurezza sopprimendo gli impulsi;
  • Eccessiva preoccupazione per le malattie a trasmissione sessuale.

Anoressia Sessuale IMM 2

Figura 2 – Anoressia sessuale

Per il recupero è essenziale un percorso psicoterapeutico individuale o di gruppo, in modo che, comprese le cause, il soggetto possa lavorare sul rinforzo della capacità di intima connessione con gli altri, nonché arrivare ad una nuova comprensione della sessualità. È fondamentale ristabilire un benessere psico–sessuale che riporterà il soggetto ad una vita di emozioni, serena ed appagante, derivante anche da un’attività sessuale sana e consapevole.

 

 

Specchi nel cervello (2019) di G. Rizzolatti e C. Sinigaglia – Recensione del libro

La risposta mirror riflette un meccanismo neuronale fondamentale per interagire con l’ambiente che ci circonda. Questa proprietà è presente in un’ampia gamma di neuroni con differenti caratteristiche funzionali, in diverse aree cerebrali ed in molteplici specie animali.

 

 La concettualizzazione classica dei neuroni specchio – in grado di rispondere sia quando un comportamento di un certo tipo è compiuto in prima persona sia quando si osserva compiuto da altri – è in questo libro, Specchi nel cervello, integrata con una ricca e moderna bibliografia, prevalentemente di matrice italiana. Viene qui mostrato come le proprietà mirror riflettano un meccanismo neuronale fondamentale per interagire con l’ambiente che ci circonda e non una particolarità di una piccola porzione di cellule in una determinata regione cerebrale.

In particolare, viene riportato come questa proprietà sia presente in un’ampia gamma di neuroni con differenti caratteristiche funzionali, in diverse aree cerebrali ed in molteplici specie animali, anche evoluzionisticamente distanti. La risposta mirror rifletterebbe una trasformazione delle rappresentazioni emotive e motorie non legate ad un determinato canale sensoriale e specifiche per determinati scopi, emozioni e forme vitali. Le ultime si riferiscono alle modalità con cui viene eseguita un’azione a prescindere dal suo scopo, ad esempio si può stringere la mano di una persona in maniera calorosa o fredda, decisa o titubante, si può esprimere rabbia in modo esplosivo o contenuto ecc…

Gli autori di Specchi nel cervello sostengono che le risposte mirror delle aree parietofrontali relative ad un’azione osservata reclutino gli stessi processi e rappresentazioni di tipo motorio in modo similare a quelli che sarebbero reclutati se fosse lo stesso osservatore a pianificare ed eseguire quell’azione e che tale reclutamento può consentire a chi osserva una determinata azione di individuarne gli scopi. Lo stesso dovrebbe valere per le rappresentazioni visceromotorie delle risposte emotive, quali disgusto o paura, legate all’attività mirror della porzione anteriore dell’insula e dell’amigdala e per quelle di formato motorio delle forme vitali a livello della porzione dorso-centrale dell’insula. La tesi avanzata è che, se cambia il nostro modo di rappresentare motoricamente e viscero-motoricamente ciò che ci comunicano i nostri sensi, cambierà con esso anche il nostro modo di comprendere gli altri.

 Nella discussione degli articoli citati viene ipotizzato che le risposte del sistema mirror potrebbero essere sufficienti perché si abbia una comprensione basilare dei comportamenti altrui, esercitando contemporaneamente un effetto contenuto-specifico, non solo sull’esperienza in sé quando è provata in prima persona, ma anche sulla capacità di chi osserva di giudicare azioni, emozioni o forme vitali. Ciò dovrebbe influenzare la prontezza, e soprattutto l’accuratezza, con cui i comportamenti sono compresi. Rizzolatti e Sinigaglia hanno definito questo tipo di comprensione come una comprensione dall’interno, in quanto la capacità di agire, e di immaginare di farlo, dipende dal patrimonio motorio di chi immagina o osserva. Più si è esperti in un dato comportamento più si è capaci di rappresentarlo motoricamente, con modalità molto differenti da quelle relative a come lo si comprenderebbe sulla base di rappresentazioni e processi puramente sensoriali, come osservarlo o immaginare di vederlo dall’esterno.

Specchi nel cervello ci propone, attraverso un ragionamento scientifico difficilmente criticabile, una teoria sulla capacità di comprendere degli organismi dotati di sistema nervoso. Un’interessante sfida per il futuro sarà individuare come questa modalità possa integrarsi nel nostro complesso sistema cerebrale, anche con network apparentemente privi di proprietà mirror.

 

Come si riorganizza il cervello dopo l’asportazione di un emisfero?

Sebbene sia piuttosto semplice descrivere in cosa consista un’operazione di emisferectomia, molto più difficile è invece cercare di spiegare cosa comporti, a livello funzionale, perdere il contributo di una parte così fondamentale dell’organo cerebrale, centrale operativa per il corretto funzionamento di tutte le funzioni vitali.

 

Alcune gravi forme di epilessia, richiedono che il paziente si sottoponga ad emisferectomia, ovvero la resezione chirurgica di un emisfero asportandolo interamente oppure recidendo il corpo calloso e troncando così la comunicazione tra l’emisfero in cui hanno origine gli attacchi e quello controlaterale (Kim et al., 2018). Sorprendentemente, vi sono diversi casi in letteratura che riportano un ottimo recupero delle funzioni cognitive, soprattutto in quei pazienti che si erano sottoposti alla procedura da bambini, sebbene a fronte di un significativo declino nella funzionalità motoria e sensoriale, ad esempio emiparesi ed emianopsia (Moosa et al., 2013; Liu et al., 2018; Ramantani et al., 2013).

Questi casi, sono esemplificativi della comprovata capacità del nostro cervello di modificare la propria architettura funzionale per far fronte ad un deficit causato da un danno strutturale di natura traumatica o congenita; è stato identificato un numero relativamente esiguo di network di attivazione cerebrale, che sono riscontrabili, con diversi gradienti d’attivazione, sia negli stati di riposo che durante compiti cognitivi (Smith et al., 2009). Tuttavia, questi sono di solito bilateralmente distribuiti, dovendo quindi presumibilmente subire una drammatica riorganizzazione nei pazienti sottoposti ad emisferectomia.

Un nuovo studio, pubblicato di recente da Kliemann e colleghi (2019) si è servito della tecnologia della risonanza magnetica funzionale o fMRI, per confrontare i pattern osservati in sei soggetti operati con quelli già noti nei soggetti sani, con l’intento di cogliere eventuali differenze ed indagarne la natura qualitativa.

Utilizzando un metodo noto come “functional connectome finger printing” (n.d.t.: impronta connettomica funzionale unica) i ricercatori hanno confrontato i profili di connettività interemiferica di ciascuno dei partecipanti, rilevati in due momenti differenti (6-7 minuti). Lo scopo era quello di determinare se fosse possibile riconoscere una stessa “impronta cerebrale” che confermasse l’identità di un individuo basandosi sui suoi pattern di attivazione cerebrali, rispetto a due soggetti di controllo. In cinque dei sei pazienti uniemisferici si è riscontrata la presenza di un’impronta funzionale riconoscibile, una proporzione equiparabile a quella rilevata in un vasto campione di riferimento normativo (n=1077).

I ricercatori hanno esaminato la connettività dei network cerebrali in stato di riposo dei pazienti che avevano subito emisferectomia potendo escludere che vi fossero differenze sostanziali rispetto a quelli esibiti dai pazienti sani: i collegamenti funzionali tra diverse regioni di uno stesso network si presentarono infatti equiparabili a quelle dei cervelli diemisferici. Tuttavia, l’assenza del contributo dell’emisfero mancante, è apparso correlare con la nascita di connessioni tra network differenti, non riscontrabili nei soggetti sani: quattro dei soggetti esaminati si posizionavano nel 95% percentile per numero di connessioni infra-network e un soggetto nel 90% percentile rispetto alla popolazione generale.

E’ stata inoltre presa in esame l’Efficienza Globale dei network rilevati, definita come l’inverso della lunghezza del percorso minimo tra due punti di un network (Latora e Marchiori, 2001), per valutare se una diversa struttura tra le connessioni cerebrali potesse risultare in una migliorata efficienza del sistema: sei dei quattro partecipanti si posizionavano nel 95% percentile in termini di Efficienza Globale.

I promettenti risultati ottenuti in questo studio sollevano ulteriori domande su come i diversi pattern di attivazioni cerebrale ed in particolare l’apertura di connessioni funzionali ed anatomiche in regioni prima non palesemente comunicanti del cervello si possa tradurre in termini di funzionamento individuale. In sostanza, i soggetti esaminati da Kliemann e colleghi, si comportavano o pensavano in maniera sostanzialmente differente rispetto ai soggetti con specularità emisferica?

Gli autori rimandano a studi futuri il compito di indagare in maniera sistematica l’eventuale genesi di tratti comportamentali o caratteristiche personologiche derivanti dalla riorganizzazione documentata nell’architettura cerebrale dei pazienti sottoposti ad emisferectomia; tuttavia osservano cautamente in fase preliminare un’associazione positiva tra l’incremento di interconnettività infra-network ed una migliore performance nella Social Responsiveness Scale, Scala del QI e misure di funzionalità motoria e di controllo esecutivo.

 

Psicoanalisi, critiche e dibattiti: in risposta a Corbellini

Stare dalla parte della psicoanalisi e degli psicoanalisti significa impedire che si insinui quel soffio generatore di un’atmosfera paranoica e cospiratrice che, guidando la mano in un riflesso condizionato, porta a negare le diverse critiche che ci prendono di mira. Chiunque tiri un sasso contro il nostro studio cerca in qualche modo di dirci qualcosa.

 

A proposito del dibattito suscitato dalla lettera di Gilberto Corbellini, è mia convinzione che la cosa migliore per chi si occupa di psicoanalisi, e ne ha a cuore le sorti, sia quella di non obbedire alla logica degli opposti estremismi. È invece importante saper individuare spunti di riflessione anche quando contenuti in missive come questa: a mio parere durissima, denigratoria, generalizzatrice, dissacratoria, priva di argomentazioni costruttive, con un veleno in cauda che fa presupporre un pregiudizio atavico ed inscalfibile.

Stare dalla parte della psicoanalisi e degli psicoanalisti significa impedire che si insinui quel soffio generatore di un’atmosfera paranoica e cospiratrice che, guidando la mano in un riflesso condizionato, porta a negare le diverse critiche che ci prendono di mira. Chiunque tiri un sasso contro il nostro studio cerca in qualche modo di dirci qualcosa. È nostro compito capire perché ciò avviene e quale posizione abbiamo occupato, tale da generare un gesto aggressivo. Jacques Lacan ha scritto che se l’analista “ha preso quel posto, tanto peggio per lui. Ha nondimeno la responsabilità che pertiene al posto che ha accettato di occupare”.

Un grido, ancorché provocatorio, può essere la punta di un movimento di critica che ci interroga, e ci chiede conto. Ed è li che come analisti dobbiamo farci trovare. Questo attacco non deve essere inteso come rivolto alle nostre persone, essendo noi semplici garanti di una posizione transeunte, che ci impone di farci trovare pronti sullo scambio dialettico, sul dare e avere con un’opinione pubblica sempre più evoluta, satura di diagnosi preconfezionate dalla quinta edizione Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5, APA 2014), che chiede alla psicoanalisi quelle risposte immediate che noi non possiamo dare. 
Un’analisi è infatti qualcosa che, pur partendo dal sintomo che procura sofferenza, lo eccede e lo trascende, ottenendo in corso d’opera effetti terapeutici che diventavo sovente secondari rispetto al cuore della questione che sottende il disagio del soggetto.

Perché esistono questi attacchi alla psicoanalisi? È abbastanza chiaro, e chi fa lo psicoanalista lo sa bene, che la questione della verificabilità dei nostri risultati è una questione che noi dobbiamo porci, pena aumentare a dismisura il bacino di utenza di soggetti che come il signor Corbellini ci danno addosso, incontrando spesso dall’altra parte non una risposta precisa, efficace e ragionevole come quella della presidente della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), quanto una difesa acritica che, sbagliando, pone la psicoanalisi come un dogma inattaccabile, e non come un corpus clinico e teorico in continuo divenire.

La psicoanalisi si basa ancora sulla tripartizione freudiana (nevrosi, psicosi, perversione), ma ha subito mutamenti legati al tempo che noi viviamo. Non tratta solo grandi isterie di freudiana memoria, non è solo strumento che accompagna un soggetto nel riannodare o sciogliere i punti cruciali della propria vita, ma oggi si rivolge anche ai sintomi contemporanei assai diffusi (si pensi alle fobie, agli attacchi di panico, al disturbo post traumatico da stress, ai disturbi del comportamento alimentare), malesseri per i quali molti pazienti non vogliono una risposta farmacologica sic et simpliciter, quanto piuttosto desiderano indagare a fondo le ragioni di quel che loro sfugge e porta sofferenza. Come ho avuto modo di scrivere in un’intervista su Il Foglio, l’invenzione lacaniana del sintomo pone oggi la psicoanalisi in grado di decifrare gran parte del disagio attuale. È normale pensare a punti di criticabilità, di fallibilità, spesso contestati dal paziente che non può sempre e solo essere ‘resistente all’analisi’. Se da un lato la lettera di Corbellini è violenta e devastante, è altrettanto vero che la letteratura nei confronti contro la malapratica analitica è troppo ricca, troppo vasta, troppo articolata per non domandarci perché tanta gente ci dà addosso.

Non passa giorno che voce non si unisca al coro di attacchi alla disciplina di Freud e ai suoi attuali nipoti. Non tanto all’analisi tout court, quanto alla cattiva psicoanalisi, per molti purtroppo sovrapponibile alla prima. Oltre al J’accuse di M. Onfray , “Crepuscolo di un idolo. Smantellare le favole freudiane“, ci sono i pamphlet dell’intellighenzia europea ed italiana: il feroce e unilaterale “Il libro nero della psicoanalisi“, “Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi“, “Inconscio ladro!” di Elisabetta Ambrosi, il godibile “Alice nel paese degli analisti“, per finire con l’ottimo “Al di là delle intenzioni. Etica e analisi“ di Luigi Zoja.

Perchè periodicamente gli psicoanalisti sono sempre più soggetti all’accusa di tramutarsi in ‘guru’ in cerca di adepti da irregimentare? Se ben guardiamo la blogosfera (a tutti gli effetti il fronte delle voci più libere) la schiera dei detrattori e critici non è più solo formata da trinariciuti organicisti che negano tout court la validità dell’introspezione e non riconoscono lo statuto dell’inconscio, ma da tanti pazienti, o analizzanti, i quali possono solo accodarsi nelle innumerevoli discussioni sui forum per lagnare l’inefficacia del trattamento analitico, o denunciare errori pagati a caro prezzo, non solo economico. Fino a quando, di fronte ad una critica sempre più vasta e sempre più articolata, si percorrerà la via del ‘non è vero nulla’, rimandando un serio dibattito, restando indifferenti a queste istanze? Gli aspetti da esaminare riguardano principalmente controindicazioni che possono derivare da un’analisi inefficace. Non tutti sanno preventivamente che un’analisi sbagliata può causare seri danni, e che in caso di un rapporto deleterio, non esistono istanze alle quali fare riferimento. Io, avendo incontrato gli effetti della malapratica analitica, so bene che chi va su un lettino oggi, non ha precise garanzie di terzietà, di protezione da errori. Ecco il vulnus principale dell’instrumentum analitico. In campo medico, se un’operazione va male, il malato può rivolgersi all’azienda sanitaria, al tribunale dei diritti del malato, o altro ancora. Nel campo della psicoanalisi, se una cura si inceppa o deraglia è ben difficile trovare un luogo nel quale portare le proprie rimostranze. È fondamentale che l’analista abbia a fondo scavato nelle sue zone opache, quelle che conducono a errori, e se ne assuma la responsabilità tenendo quel posto senza fuggire, esponendosi alla prova dei controlli, delle supervisioni ma anche delle critiche del paziente facendole sue.

Il miglior modo per difendere la psicoanalisi è dunque renderla trasparente esaltando in tal modo la sua eccellenza, che fortunatamente continua ad esistere. Un analista che sbaglia diagnosi, magari distratto da altre cose, o semplicemente con un lavoro su se stesso stagnante, espone il paziente a rischi talora altissimi. Il ‘controtransfert’ è quella risposta relazionale ed emotiva dell’analista verso il paziente, utile nel processo analitico fino a quando non diventa una pioggia di detriti che provengono dall’analista, il quale senza controlli, può scaricarli sul malcapitato paziente. Chi non ricorda l’analista Moretti de ‘La stanza del figlio’, irritato perché il paziente Orlando con un ritardo ha fatto sì che lui non fosse vicino al figlio nel momento della disgrazia? Ecco, quella scarica di rabbia che gli riversa addosso in seduta, è un controtransfert incontrollato. Lacan tratta la questione del controtransfert :

(…) Come è scritto da qualche parte, se si trascurasse quell’angolo dell’inconscio dell’analista, ne risulterebbero delle vere e proprie zone cieche, da cui conseguirebbero eventualmente nella pratica fatti più o meno gravi e incresciosi: misconoscimento, intervento mancato o inopportuno, o persino errore.

Cosa garantisce al paziente che, accortosi di questo, l’analista immediatamente lasci quel posto e non arrechi danni? Nulla. Il movimento psicoanalitico garantisce terzietà? Per esserlo, è necessario che chi apre le porte alla gentilezza sia, in questo caso, gentile, parafrasando al contrario la lezione di Brecht. È fondamentale che lo psicoanalista sia, al netto della conduzione della cura, inserito in una rete, più ampia, che possa osservare ed eventualmente correggere eventuali errori. Sia insomma ‘giudicabile’.

Non va dimenticato che l’analisi è un luogo particolare, una sorta di ‘no man’s land’ nella città, uno spazio vuoto, una zona franca addobbata con gli affreschi della propria esistenza, che noi diamo in custodia all’analista. Si può paragonare il setting analitico ad un’officina nella quale, grazie ad un buon avvitatore, tutte le viti della macchina vengono allentate. Svitate quel tanto che basta perché il guscio mostri la sua mobilità, e si possa giungere all’anima del motore. Una destrutturazione guidata. È la terra di un uomo che piange e rimemora il passato, un uomo che sogna e in quel luogo sa di poter proiettare le diapositive più intime perché garantito dalla sicurezza. Ecco perché gli errori possono avere effetti così gravi. Quando le viti sono allentate, i colpi accidentali vanno più in profondità, si riverberano sull’intera struttura. Le scuole psicoanalitiche hanno sviluppato gli anticorpi per saper contenere e correggere questi svarioni? Il mondo scientifico chiede alla psicoanalisi alcune cose che la disciplina di Freud e Lacan non può dare: verificabilità, standardizzazione dei dati, questo perché la psicoanalisi è essenzialmente ‘uno per uno’. Ma garanzie verso il paziente quelle sì. Oggi quelle devono essere fornite.

L’analista, dico, da qualche parte, deve pagare qualcosa per reggere la sua funzione. Paga in parola, paga con la sua persona. Infine bisogna che paghi con un giudizio sulla sua azione. È il minimo che si possa esigere

È rispettata questa massima di Lacan?

Io ho indagato a fondo la questione dalla malapratica analitica, perché l’ho conosciuta e pagata sulla mia pelle di analizzante.

Il trauma è dato dal fatto che certi avvenimenti vengono a situarsi in un certo posto di quella struttura, vi assumono il valore significante che vi è connesso in un determinato soggetto. Ecco in che cosa consiste il valore traumatico di un avvenimento.

Questa frase di Lacan rimase per me a lungo enigmatica sino a che non ne sperimentai la verificabilità su di me e, in seguito, i suoi effetti di insegnamento sulla mia pratica clinica.

La mia analisi mi portava ad innegabili peggioramenti nell’umore, nel corpo, nella lucidità. Interpretazioni errate, diagnosi usate in maniera mutevole e sovente senza alcun legame con le mie parole o azioni. Giudizi, indicazioni comportamentali da tenere. Quando iniziarono i contrasti personali su tale conduzione, una fase di critica che sovente avviene quando si è realmente al lavoro, incontrai la negazione. Non c’era nulla che non andasse in quel modo di condurre la cura, io ero semplicemente ‘resistente all’analisi’. Non si trattava di una pratica che mi stava nuocendo, quanto io che ero affetto da ‘psicosi’ che mi rendeva impossibile ragionare. Stavo conoscendo quello che R. Pirsig aveva preconizzato:

Una volta che sei dichiarato pazzo, tutto quello che fai è considerato parte di quella pazzia. Le ragionevoli proteste sono negazioni, le paure giustificate sono paranoie… e l’istinto di sopravvivenza, meccanismi di difesa

Ricordo una fredda mattina di dicembre. Lo sferragliare del treno mi impediva di parlare al telefono in maniera chiara: “Non posso venire oggi in seduta, non posso parlare perché il treno mi sovrasta la voce!” Le mie parole incomprensibili non vennero ascritte al rumore del treno, ma ad una parte scissa e psicotica che ne impediva la fuoriuscita.

Entrai progressivamente in una cupa depressione di piombo, una deriva e un isolamento che mi indebolì sino al crollo, fisico e mentale. Lì la mia ‘cura’ si interruppe con una cornetta abbassata in faccia. Il cuore ne risentì in modo grave.

Pagai nel corpo e nella mente. Divenni vittima di un’infinita ripetizione di quel momento, che per molti anni occupò gran parte della mia vita onirica. Un lungo e mortifero disturbo post traumatico da stress ha invalidato gran parte della mia esistenza. Da quel periodo in poi, il mal di cuore non mia ha mai più abbandonato. Ad ogni ripetizione della scena, che non essendo mai potuta uscire dalle sacche asfissianti del non detto si è ripresentata per anni ed anni, il cuore inizia a ingrossarsi e dolere, quasi compresso in una gabbia. La scienza lo chiama ‘tako tubo’, letteralmente cuore in gabbia.

Una depressione causata da un’analisi psicotizzante, sulla quale cercai di chiedere, in seguito, chiarimenti, ottenendo molto tempo dopo una risposta che preconizzava azioni legali qualora io avessi insistito nel chiedere. Ma l’angoscia è anche l’affetto presente laddove c’è desiderio, il che mi ha permesso di immettere quell’esperienza nella mia pratica clinica. Io, che ho visto il dissolversi di tutto e la paura ai miei primi cenni di depressione, ho imparato a mantenere solidamente la posizione nei confronti dei miei pazienti.

Il rapporto analitico si fonda dunque su basi che contengono le premesse per un legame fondato su un assoluto squilibrio di potere (da un lato il soggetto supposto sapere, dall’altro il paziente che giunge in studio in condizioni di sofferenza, dunque di minor capacità contrattuale).

Penso alla mia pratica, ormai ventennale, nel corso della quale ho sempre intravisto e toccato con mano il potere che un analista può avere nelle sue mani. Ricordo l’attenzione estrema verso il viso e l’animo di soggetti fragili, con strutture prepsicotiche, quando mi usciva un tono di voce troppo alto.

O tutte le volte che l’isteria si proponeva in tutta la sua procace e ostentata tendenza al sacrifico e alla seduzione. Ogni giorno, ogni minuto, si devono pesare le parole, perché ciò che per analista può essere un refuso della parola, per l’analizzante può divenire minaccia, allusione, imposizione.

Esercito nella messa in discussione quotidiana col quesito di fine giornata: ho toccato il limite dell’angoscia che ognuno può sopportare? Ho forse incarnato alla lettera chi costui voleva che io fossi, o sono riuscito a occupare la sola posizione possibile, quella del vuoto? Ho dato fiato al mio narcisismo quando l’analizzante raccontava i suoi sogni erotici? E con quell’altro, quello che milita in quel partito che io avverso nella quotidianità, cosa ho messo in campo? Il mio lavoro o le mie sporchissime questioni personali? L’evoluzione in una dimensione fascista e autoritaria dell’analisi è inversamente proporzionale al lavoro che un analista opera su se stesso, e lo sottopone al vaglio altrui, oltreché a quello della sua coscienza. Per fermare un Golem quando inizia a seminare distruzione, ci vuole un rabbino. Quello che so è che di notte, quando quelle scene tornano, prendo in braccio mia figlia, e assieme andiamo in giardino, ad osservare l’Orsa Minore. Quello che so è che il suo sorriso, per un tempo limitato, interrompe la ripetizione meccanica delle scene che da anni mi hanno privato del sonno. Quello che so è che la sola testimonianza che ho potuto mettere in atto, è una sorta di resistenza umana, e clinica, a ciò che ho patito. Dunque ben vengano le lettere di denuncia, anche aggressive, se permettono di aprire una discussione su queste zone grigie.

 

La malnutrizione in età geriatrica

E’ ormai noto lo stretto legame tra l’alimentazione e una buona condizione di salute. L’aumento della vita media e la speranza di poter migliorare ulteriormente sia la longevità sia la qualità della vita degli anziani, hanno fatto convergere un grande interesse scientifico e medico-sociale sui fenomeni che condizionano l’invecchiamento.

Federica Ferrante – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

L’importanza e lo stretto legame del binomio “alimentazione e buona salute” è sottolineata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che considera nutrizione adeguata e salute dei diritti fondamentali per l’uomo.

L’alimentazione, infatti, è uno dei fattori che maggiormente incide sullo sviluppo, sul rendimento e sulla produttività delle persone, sulla qualità della vita e sulle condizioni psicofisiche con cui si affronta l’invecchiamento. L’aumento della vita media e la speranza di poter migliorare ulteriormente sia la longevità sia la qualità della vita degli anziani, hanno fatto convergere un grande interesse scientifico e medico-sociale sui fenomeni che condizionano l’invecchiamento.

Ultimamente vediamo un incrementarsi di interesse nei confronti delle demenze, ma le difficoltà dell’anzianità non fanno riferimento soltanto al deterioramento cognitivo. Anche l’anziano può presentare una varietà di problematiche non connesse necessariamente all’invecchiamento cerebrale.

I disturbi del comportamento alimentare sono da molti anni oggetto di attenzione crescente da parte del mondo scientifico, in virtù della loro diffusione tra le fasce più giovani della popolazione e della loro eziologia complessa.

Anche se vi sono evidenze importanti relativamente al fatto che i disturbi alimentari si sviluppano tipicamente in adolescenza e che il loro esordio in età avanzata non è comune, non si può trascurare il fatto che molti anziani abbiano evidenti problemi di alimentazione/nutrizione anche se, probabilmente, non hanno le stesse caratteristiche o manifestazioni dei più comuni Disturbi alimentari diagnosticati nei giovani.

Quando si parla di Disturbi dell’alimentazione, si compie spesso l’errore di far riferimento esclusivamente agli adolescenti. Risulta strano pensare a un anziano che possa presentare problemi nell’alimentazione e, proprio per questo, c’è poca letteratura sull’argomento. Non siamo entrati ancora nell’ottica che l’anziano può essere fragile quanto un giovane e che anche lui possa riversare le sue sofferenze nella relazione con il cibo.

Più che parlare di “disturbo del comportamento alimentare”, in ambito geriatrico sarebbe più opportuno parlare di  “malnutrizione”, uno stato in cui una carenza o un eccesso di nutrienti provoca effetti negativi sulla composizione corporea e sul funzionamento (NICE, 2006). Si possono identificare una malnutrizione per eccesso (sovranutrizione: obesità) e una malnutrizione per difetto (sottonutrizione).

Anche se una riduzione delle necessità energetiche è quasi sempre una manifestazione normale dell’invecchiamento, essa può causare la comparsa di uno stato di malnutrizione. Questa può, a sua volta, condizionare negativamente la comparsa e l’evoluzione di patologie croniche a elevata prevalenza in età geriatrica. Le complicanze della protratta ipoalimentazione possono riguardare tutti gli organi e gli apparati dell’organismo. Alcune conseguenze sono caratteristiche, come la particolare sensibilità al freddo, la fragilità delle unghia, la caduta dei capelli. Per non parlare della ridotta efficienza muscolare, della perdita della massa ossea con un conseguente maggiore rischio di fratture, dell’anemia, del declino delle funzioni cognitive, della ritardata cicatrizzazione di ferite e lesioni e sicuramente anche dell’aumentata morbilità e mortalità e della maggior durata della degenza ospedaliera e maggior incidenza di re-ospedalizzazioni (Amerio & Domeniconi, 2010).

Come cambia la regolazione del comportamento alimentare con l’invecchiamento

Tramite la vista, l’olfatto e il gusto, il cervello viene informato sulla disponibilità del cibo e sulle sue caratteristiche chimiche e fisiche. Con l’invecchiamento gli organi di senso subiscono dei cambiamenti che possono avere un impatto negativo sull’approccio al cibo.

La diminuzione delle abilità visive è imputabile ad una serie di eventi a carattere degenerativo che, con andamento progressivo e graduale e con un’alta variabilità interindividuale, riducono l’efficacia del sistema sensoriale. La diminuzione del senso del gusto e dell’olfatto, soprattutto relative all’intensità con cui si percepiscono sapori e odori, può ridurre il piacere del mangiare. Molte persone anziane lamentano il fatto che i cibi non hanno più il sapore gradevole che avevano in passato. Le modificazioni del gusto sono comunque variabili e spesso associate al massiccio utilizzo di sigarette, alla scarsa igiene orale, agli stati di malattia. Ad ogni modo, sembra che con l’invecchiamento diminuisca la capacità di identificare i sapori principali. La percezione del dolce probabilmente è più preservata rispetto alle altre.

L’ipotalamo svolge un ruolo essenziale nella regolazione del comportamento alimentare in quanto capace di ricevere numerosi segnali e inviare a sua volta stimoli capaci rispettivamente di attivare o inibire l’assunzione del cibo. Esiste una comunicazione bidirezionale tra ipotalamo-corteccia cerebrale e ipotalamo-periferia che si sviluppa attraverso impulsi afferenti sia sensoriali che umorali, grazie anche alla mediazione di neurotrasmettitori. In pratica, l’ipotalamo acquisisce una serie di informazioni dagli organi di senso. Dallo stomaco poi, giungono informazioni sullo stato di pienezza o di vacuità dell’organo. L’instaurarsi di uno stato anoressico nell’anziano sembra sia da attribuirsi principalmente all’alterazione di segnali gastrici che provoca un precoce senso di sazietà. Le persone anziane sembrano sentirsi più sazie con minori quantitativi di cibo, fenomeno che potrebbe essere causato da una diminuzione dello stimolo ad alimentarsi, mediato da diversi ormoni e neurotrasmettitori.

Accanto a questi segnali nervosi, il cervello è in grado di riconoscere dei messaggi chimici che lo aggiornano sullo stato di nutrizione del corpo e sulle sue riserve energetiche. L’ipotalamo elabora tutte queste informazioni ed emette la risposta comportamentale connessa alla ricerca del cibo o all’evitamento.

Sono riconosciute due aree ipotalamiche deputate al controllo dell’assunzione di cibo: la regione ventromediale, che è il centro della sazietà, e quella laterale che è il centro dell’appetito. Alterazioni a vari livelli di questo sistema possono verificarsi con l’invecchiamento e condizionerebbero l’instaurarsi nel soggetto anziano di una sorta di anoressia “fisiologica”, che è strettamente connessa al processo di invecchiamento, ma che, d’altra parte, rende l’anziano particolarmente vulnerabile nei confronti dello sviluppo di forme di anoressia patologica in rapporto a molteplici fattori di rischio fisici, psichici, ambientali e socio-economici.

La Fondazione Umberto Veronesi nel 2016 ha diffuso dei dati preoccupanti: un anziano su due presenta uno stato di malnutrizione e, in alcuni casi, di denutrizione con evidenti condizioni di anoressia senile. Spesso, infatti, l’anziano non si nutre in modo adeguato rispetto al suo reale fabbisogno corporeo in quanto ha una dieta monotona e/o poco varia, oltre che ridotta. A ciò si aggiungono altri problemi legati all’anzianità, come una dentizione imperfetta (mancanza di denti o protesi non più adeguate), disordini della deglutizione, presenza di patologie croniche, polifarmacologia. Tutte queste condizioni creano inappetenza che, a sua volta, può essere aggravata dallo stato di solitudine in cui vivono spesso gli anziani. La riduzione drastica di cibo, infatti, può essere causata non soltanto da difficoltà mediche, ma anche da fattori sociali (difficoltà economiche e disagi socioambientali) e soprattutto psicologici (solitudine, isolamento e alterazioni del tono dell’umore).

Malnutrizione e deterioramento cognitivo

Un’altra condizione che influenza notevolmente l’approccio al cibo è uno stato di deterioramento cognitivo. I rapporti tra dieta e decadimento cognitivo sono tutt’oggi sfumati. Tranne che in qualche caso molto circoscritto, non è possibile tracciare nelle popolazioni di anziani un collegamento diretto tra dieta e processi neurodegenerativi. D’altra parte, le abitudini dietetiche possono contribuire a definire il profilo di rischio di un individuo assieme a tutte le componenti biologiche e di comportamento che condizionano lo stato di salute. È  bene ricordare l’attenzione che bisogna rivolgere all’equilibrio dietetico dell’anziano, perché una carenza alimentare in un organismo fragile potrebbe causare uno scompenso che si riflette anche su altri sistemi e diventa generalizzato.

L’interazione tra demenza e stato nutrizionale è complessa e poco chiara. Difatti, mentre è ancora controversa la relazione causale dei fattori nutrizionali nel determinare i processi neurodegenerativi o vascolari alla base delle sindromi demenziali, è frequente il riscontro della malnutrizione come complicanza della demenza sia nelle forme moderate che severe (González-Gross, Marcos & Pietrzik, 2001; Salerno-Kennedy & Cashman, 2015). Le persone con demenza, infatti, possono arrivare al punto di avere difficoltà di comunicare che hanno fame o che non gradiscono il cibo che gli è stato dato. Essi possono comunicare le loro esigenze attraverso il loro comportamento, ad esempio, rifiutando il cibo o trattenendolo in bocca. Possono avere difficoltà a impugnare le posate o a prendere in mano un bicchiere. Possono anche avere difficoltà a trovare il cibo nel piatto e portarlo alla bocca. Una persona con demenza può non aprire la bocca e potrebbe essere necessario ricordarglielo. Tutto questo lo potrebbe portare a evitare i pasti perché sono fonte di imbarazzo, delusione o tristezza.

Le persone con la variante comportamentale della demenza frontotemporale possono andare incontro a iperalimentazione, avere dei cambiamenti nelle preferenze alimentari e sviluppare l’ossessione per cibi particolari. Possono iniziare a godere di sapori e cibi di cui non erano precedentemente appassionati o possono prendere in antipatia qualche piatto di cui sono sempre stati ghiotti. Questo può essere causa di danni a specifiche aree del cervello o di un’alterata percezione del gusto.

Nel parkinsonismo, i tremori continui possono rendere difficile anche soltanto tagliare il cibo e portarlo alla  bocca. Inoltre, possono provocare una perdita di peso a causa dell’aumentato consumo energetico.

La malnutrizione potrebbe giocare un ruolo importante nella progressione del declino cognitivo. Il riconoscimento precoce e la presa in carico di situazioni di malnutrizione o a rischio di malnutrizione rappresentano importanti interventi di prevenzione per ridurre i fattori di rischio di fragilità degli anziani con e senza demenza con atteso incremento della qualità e della speranza di vita.

 

Digital Perspectives in Psychology: SFU Milano organizza la prima conferenza europea di Psicologia Digitale – Milano, 19 e 20 febbraio 2021

Sigmund Freud University di Milano, in collaborazione con State of Mind e Studi Cognitivi organizza la prima conferenza europea di Psicologia Digitale il 19 e 20 febbraio 2021 a Milano. Il titolo della conferenza è “Digital Perspectives in Psychology”.

 

Le nuove tecnologie e l’avvento del digitale stanno drasticamente modificando comportamenti, modalità di apprendimento, fenomeni psicologici, ricerca, tecniche diagnostiche e riabilitative in psicologia.

Gli sviluppi tecnologici mostrano un duplice aspetto: da una parte essi sono strumenti diagnostici e terapeutici promettenti; dall’altra possono generare importanti cambiamenti non solo sociali ma anche psicologici e mentali che occorre approfondire.

Questo scenario offre nuove sfide e nuove opportunità per i vari settori di ricerca teorici e applicativi delle scienze psicologiche.

La conferenza, prima nel suo genere, rappresenta un’occasione di incontro e confronto per il mondo della psicologia. Essa si articolerà in sei diversi ambiti di discussione:

  • E-Therapy
  • Videogaming
  • Social media
  • Virtual reality
  • Robotica e intelligenza artificiale
  • Digital learning (blended teaching)

La conferenza sarà aperta da una Lectio Magistralis di Daniel Freeman, docente di Psicologia Clinica presso l’Università di Oxford.

I lavori prevedono i seguenti formati: Lectio Magistralis di esperti, poster di ricerca, dimostrazioni pratiche di tecnologie digitali.

L’evento è destinato a ricercatori e psicologi, che avranno la possibilità di valutare conoscenze, strumenti e tecniche da integrare nella propria pratica professionale o di ricerca.

 

L’evento è organizzato dalla Sigmund Freud University di Milano.
Studi Cognitivi e State of Mind sono partner dell’evento.

 

 


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

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Riflessioni meta-cognitive dello psichiatra psicoterapeuta sul metodo della consultazione terapeutica bi-sistemica singola: domande sistematiche, ‘skilled intuition’ e interpretazione precoce

Il processo duale (intuizione ed analisi) come fulcro della consultazione terapeutica bi-sistemica singola (CTBS) e della comprensione psicoanalitica secondo Theodor Reik.

Il presente articolo segue ad altri due contributi dell’autore, precedentemente pubblicati su State of Mind:
1- Dalla prima visita psichiatrica alla consultazione terapeutica bi-sistemica singola
2- Theodor Reik e la comprensione psicoanalitica

 

Abstract

 In questo lavoro affronto il processo duale (intuizione ed analisi) come fulcro della mia consultazione terapeutica bi-sistemica singola e della comprensione psicoanalitica secondo Theodor Reik. A tale idea di consultazione sono giunto dopo avere precedentemente trasformato la prima visita psichiatrica in una terapia a seduta singola. Spesso i pazienti vengono da noi una o due volte in tutto e quindi la prima visita deve essere già un atto terapeutico. La terapia va intesa come una consultazione in quanto deve anche stimolare le risorse auto-terapeutiche del paziente. Deve essere bi-sistemica in quanto, al tempo stesso, sistematico-analitica ed intuitiva. Anche Reik dà importanza all’intuizione congetturale ed alla successiva comprensione razionale del paziente, valorizzando la soggettività del terapeuta, la sua auto-osservazione interna e la sua ‘response’ globale al paziente. L’intuizione può essere ricercata non solo con le associazioni libere e l’attenzione liberamente fluttuante, ma anche con la ricerca sistematica del terapeuta. La dinamica interattiva tra i due attori, determinata anche dai numerosi cicli di domanda-risposta sempre più mirati, può portare all’intuizione esplicativa del caso.

Parole Chiave: prima visita psichiatrica, terapia a seduta singola, consultazione terapeutica bi-sistemica singola, processo duale, intuizione, unipatia, comprensione, Theodor Reik.

 

Io ho una formazione psicoterapeutica prevalentemente psicodinamica e psicoanalitica, per cui anche la mia prassi fa molto riferimento a tale modello epistemologico ed empirico e mette al centro del processo di cambiamento terapeutico del paziente l’interpretazione, che potremmo denominare ‘interpretazione precoce’, dati i tempi ed i modi della CTBS. Per un approfondimento sul ruolo dell’intuizione nell’interpretazione rimando il lettore ad un interessante lavoro di Cecilio Paniagua (2003). L’autore sottolinea l’esistenza di forti motivazioni nell’analista che lo portano all’interpretazione pre-strutturale (la tendenza a interpretare gli elementi inconsci profondi). Tale interpretazione gratifica più direttamente i desideri di dipendenza dell’analizzando e il narcisismo dello psicoanalista, fornendo contemporaneamente una soddisfazione meno sublimata delle pulsioni epistemofiliche. L’interpretazione precoce può essere un punto di forza del modello CTBS quando il paziente è pronto e disponibile a tale tipo di intervento, un punto di debolezza quando è il contrario perché, in tali casi, anche se intuisci precocemente il nocciolo del problema non lo puoi interpretare al paziente e lo devi tenere per te come congettura. Andando un attimo ad un esempio specifico, se un paziente ha vissuto una violenza fisica e/o mentale nel suo passato, un’interpretazione precoce, nella dinamica di transfert e controtransfert, può essere vissuta anch’essa come un atto violento, come una dinamica sado-masochistica psichica in cui un terapeuta sadico fa allontanare da sé e dal trattamento un paziente masochista.

La CTBS richiede una mentalità ed una prassi specifiche e, pertanto, un addestramento ad hoc, in modo particolare per sviluppare sempre di più nel terapeuta una ‘skilled intuition’. L’unica cosa che non si può fare in corso di CTBS è, ovviamente, la verifica degli effetti di un trattamento farmacologico eventualmente prescritto, in quanto si devono per forza attendere i vari tempi di latenza terapeutica degli psicofarmaci utilizzati. Un allenamento clinico alla celerità ci può essere anche dato dall’effettuazione delle consulenze psichiatriche ospedaliere, ma esercitarsi a fare CTBS è, naturalmente, l’attività formativa più importante per il suo apprendimento. La mentalità più adeguata è quella di pensare che il primo potrebbe anche essere l’ultimo incontro con quel paziente, per cui sfrutto una seduta di circa un’ora fin dai primi minuti. Appena posso, cerco di capire se non rivedrò più il paziente, quindi se tale incontro sarà unico. E, ovviamente, approfittarne per essere immediatamente diagnostico e terapeutico. Vanno comprese, nel più breve tempo possibile, le risorse interne ed esterne, attuali e potenziali della persona, per mantenere con lei un atteggiamento di tipo consulenziale, stimolante l’auto-terapia. Non solo le libere associazioni e l’attenzione liberamente fluttuante sono importanti, ma anche la strategia sistematico-analitica è fondamentale in quanto, con un apparente paradosso, stimola moltissimo anche quella intuitiva. Le varie domande fatte dal terapeuta e le risposte del paziente lo aiutano successivamente a fare ulteriori domande sempre più mirate, e questa continua e specifica interattività lo può condurre ad avere intuizioni spesso decisive per la vera comprensione del caso. L’insight può essere ricercato anche con la sistematicità, come sostiene Carkhuff (1987). Questa mia affermazione sembra in contraddizione con il pensiero di Reik, che temporalmente colloca prima l’intuizione alla ragione, la congettura alla comprensione del paziente. Anche per me viene prima l’intuizione della vera comprensione profonda e terapeutica della persona, ma io posso fortemente stimolare questa intuizione con le tante domande cliniche ed extra-cliniche tipiche dell’atteggiamento medico sistematico ed olistico che fa riferimento al modello bio-psico-sociale del disturbo mentale.

Nella CTBS il numero delle domande è elevato anche perché non devo arrivare a formulare una sola diagnosi clinica psichiatrica o psicologica, ma entrambe. Vedere un terapeuta curioso (ma non narcisista epistemofilo!), interessato e impegnato a fare domande per capire bene come stanno le cose, senza risultare stressante ed invasivo, di solito fa piacere al paziente, che dà il suo consenso ad uno stile di intervista abbastanza strutturata e veloce. All’inizio della CTBS però, se il paziente dimostra di averne bisogno, lo si lascia esporre attivamente e liberamente quello che lui pensa siano i suoi problemi ed il motivo della sua richiesta di consultazione, le sue aspettative, come si fa in un’intervista semi-strutturata. Ma siccome voglio approfittare soprattutto dei primi minuti dell’incontro per inquadrare bene il caso, ho bisogno di essere fin dall’inizio attivo e direttivo, non prolungando troppo questa fase iniziale non strutturata e porre al paziente successivamente domande chiarificatrici al fine di determinare in lui quell’apertura, quella confidenza, quell’’auto-tradimento’ reikiano verso di me che mi permette di intuirlo al più presto per poi comprenderlo e curarlo durante il resto dell’incontro. Quindi, il gioco di forte intersoggettività ed interattività reciproca tra i nostri stimoli attivi (domande, ecc.), la tendenza del paziente ad ‘auto-tradirsi’ con le sue risposte e, di nuovo, la nostra sensibilità iperestesica a captare le sue azioni e reazioni più o meno consapevoli ai nostri input, è fondamentale per il buon esito della CTBS. Il terapeuta non si limita ad identificarsi col paziente, non solo empatizza con lui, ma diventa temporaneamente il paziente stesso, eclissando il proprio Io. Come fa l’attore che non interpreta l’eroe, ma diventa l’eroe stesso. Quindi, in tale luce, possiamo vedere il terapeuta come un attore camaleontico che diventa temporaneamente i suoi vari pazienti. È un essere ‘unipatico’ (Fornaro, 2011). L’intuizione è una forma di intersoggettività primaria che fa meno pensare all’empatia (una forma di intersoggettività secondaria) e di più all’ipotetico substrato neuro-biologico dei neuroni specchio. Il processo empatico è descritto più come se fosse un atto che dipende dal volere conscio, è eseguito meccanicamente dal terapeuta e tale processo può avere un significato euristico solo per gli strati più superficiali della mente, quelli più vicini alla consapevolezza. I neuroni specchio scaricano non solo quando il soggetto compie un’azione, ma anche quando la vedono compiere da un altro soggetto in modo simile. Si tratta di una simulazione incarnata inconsapevole. Da un punto di vista neuro-biologico, è come se il soggetto diventasse temporaneamente l’altro. Negli anni ’30 e ’40, in cui Reik scriveva i suoi libri sull’ascolto psicoanalitico, i neuroni specchio non erano stati ancora scoperti, come anche le differenze funzionali tra i due emisferi cerebrali (emisfero destro più intuitivo, emisfero sinistro più logico-sintetico) e le teorie psicologiche intersoggettive non erano state ancora elaborate e pubblicate. Reik può essere considerato pertanto un precursore di tutto ciò. Reik tendeva ad avere una visione prevalentemente positiva dell’intuizione, come anche tanti altri autori più recenti (me compreso) che si occupano dello studio cognitivo e/o psicoanalitico del processo duale. Ad esempio, nella ricerca sui processi cognitivi diagnostici in medicina generale, abbiamo riscontrato un tasso di errore diagnostico iniziale del 15,6 %. Il medico di famiglia fa meno errori diagnostici quando usa prevalentemente metodi rapidi intuitivi rispetto a quelli ultrarapidi (anch’essi intuitivi) e a quelli lenti, più analitici (Ehrlich, et al. 2018). Ma ancora oggi, altri autori hanno una visione dell’intuizione come di un processo cognitivo che porta all’errore di valutazione, al cosiddetto bias (Kaheman, 2011). L’intuizione ha un grande valore diagnostico e terapeutico, ma è come un’ipotesi che va sempre verificata all’interno di un processo cognitivo duale, con un terapeuta che va progressivamente sempre di più verso una ‘skilled intuition’.

Reik sostiene che è meglio non comprendere il paziente piuttosto che capirlo male. È una sorta di male minore. Ma in tutti i casi, secondo me, la non comprensione o il malinteso possono essere vissuti come un dramma da parte del paziente, magari già non capito in passato dai propri genitori e/o dalle loro figure sostitutive successive (insegnanti, datori di lavoro, precedenti terapeuti, ecc.).

Reik era anche molto critico nei confronti degli psicoanalisti che si facevano influenzare dal loro modello teorico di riferimento, arrivando così a non cogliere la verità interna del paziente. Ciò può risultare anche molto frustrante per il terapeuta in quanto forse è impossibile curare veramente una persona se prima non hai cercato di capirla fino in fondo. La dimensione meta-cognitiva è molto importante perché abbiamo bisogno di ascoltare il nostro ascolto e comprendere la nostra comprensione, sforzandoci di arrivare finalmente ad intuire l’intuizione, che a mio parere ancora sfugge ad una sua identità chiara, nonostante le innumerevoli ipotesi formulate a riguardo ed il grande contributo di Reik. Siccome esiste anche un inconscio inconoscibile e abbiamo i nostri limiti cognitivi di esseri umani, comprendere veramente l’altro e se stessi è sicuramente un’utopia, ma comunque dobbiamo avere almeno una tendenza costante a perseguire tale tipo di conoscenza partecipativa. E mi piace concludere riportando in questa sede le conclusioni epistemologiche a cui giunge Mauro Fornaro (2011), in cui riconosco Reik e me stesso:

Poiché le epistemologie che prevedono un approccio di tipo partecipativo all’oggetto meglio si confanno alle peculiarità della relazione clinica, m’è parso che il vertice dell’intuizione sia raggiunto laddove essa avvenga nel corso e a seguito dell’immedesimazione ‘unipatica’ col soggetto in cura – un’immedesimazione guadagnata in una ricezione passiva, funzionalmente regressiva, attenta alle risonanze somatico-emozionali che il terapeuta avverte nella sua stessa persona.

Ritiro sociale. Psicologia e clinica (2019) a cura di M. Procacci e A. Semerari – Recensione del libro

Il libro Ritiro Sociale a cura di Michele Procacci e Antonio Semerari disegna un modello della sofferenza psicologica incentrato sul deficit delle funzioni regolative delle emozioni, un deficit che ha alla sua base situazioni familiari e sociali di deprivazione relazionale.

 

Nei pazienti è stata la stessa insufficienza di situazioni relazionali soddisfacenti che ha portato al mancato sviluppo della corrispondente competenza sociale; mancato sviluppo che a sua volta aggrava la carenza di relazioni, in un circolo vizioso che si nutre di se stesso.

L’opera espande il modello disregolativo di Semerari dallo spettro drammatico e impulsivo a quello dei disturbi dell’inibizione e del ritiro sociale. Il principio è che anche inibizione e ritiro siano disregolazioni emotive, sia pur meno clamorose dell’impulsività. I vantaggi clinici di questa espansione sono molteplici mentre il rischio è uno solo: che questa espansione non finisca per trasformare ogni disturbo in una condizione deficitaria.

Tuttavia il rischio sembra evitato grazie alla cura degli autori di sottolineare la natura specificamente deficitaria del tipo di inibizione sofferto da questo tipo di pazienti. Soprattutto il primo capitolo è puntuale nel distinguere l’inibizione al comportamento sociale e l’attitudine al comportamento sociale, due dimensioni non sovrapposte che possono andare in direzioni contrarie, con individui che possono mostrare contro-intuitivamente elevata inibizione e altrettanto elevata attitudine o viceversa.

Secondo gli autori chi ha elevata attitudine oppure bassa inibizione non rientrerebbe del tutto nello spettro deficitario e può essere trattato secondo modalità più standard. L’aspetto deficitario è invece trattato nelle sue sottigliezze neurobiologiche nel secondo capitolo; nei suoi aspetti evoluzionistici e motivazionali nel terzo capitolo, capitolo che è l’architrave teorica del modello, permettendo a Semerari e ai suoi di affondare le loro radici nel terreno del paradigma evoluzionista di Liotti; nelle sue manifestazioni sociali nel quarto capitolo nel quale Livia dipinge una affresco dettagliato delle dimensioni della condivisione sociale; nel suo aspetto applicato alla socialità digitale e tecnologica dei tablet e degli smartphone nel quinto; e infine nel suo aspetto clinico vero e proprio nei restanti capitoli che trattano il ritiro sociale nell’autismo, nei disturbi dell’umore, nei disturbi di personalità e nelle psicosi. Il decimo capitolo infine fa la sua proposta di trattamento che si affida ai principi aggiornati del modello metacognitivo interpersonale di Semerari. Chiude il volume un’appendice sugli strumenti di valutazione.

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